Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

IL GOVERNO

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

  

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

IL GOVERNO

INDICE PRIMA PARTE

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia d’Italia.

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Per Nome e Cognome.

L’Unione Europea.

Il Piano Marshall.

Bella Ciao al 25 aprile.

Fondi Europei: il tafazzismo italiano.

Gli Arraffoni.

Educazione civica e disservizi.

Quello che siamo per gli stranieri.

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Italioti antifascisti.

Italioti vacanzieri.

Italioti esploratori.

Italioti misteriosi.

Italioti Ignoranti.

Italioti giocatori d’azzardo.

Italioti truffatori.

Italiani Cafoni.

Italioti corrotti e corruttori.

Italioti ladrosi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Potere dà alla testa.

Democrazia: La Dittatura delle minoranze.

Un popolo di Spie.

Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

Il Capitalismo.

I Liberali.

Il Realismo.

Il Sovranismo - Nazionalismo.

I Conservatori. Cos’è la Destra?  Cos’è la Sinistra?  

Il Riformismo progressista.

Il Populismo.

Il solito assistenzialismo.

La Globalizzazione.

L’Italia è una Repubblica fondata sul debito pubblico.

Le Politiche Economiche.

Il Finanziamento ai partiti.

Ignoranti.

I voltagabbana.

La chimera della semplificazione nel paese statalista.

Il Voto.

Mafiosi: il voto di scambio.

Il Voto dei Giovani.

Il Voto Ignorante.

Il Tecnicismo.

L’Astensionismo: e la chiamano democrazia…

La Rabbia.

I Brogli.

I Referendum.

Il Draghicidio.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

La Campagna Elettorale.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

Le Votazioni ed il Governo.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una Costituzione fascio-catto-comunista.

Quelli che…La Prima Repubblica.

Le Presidenziali.

Storia delle presidenziali.

La Legge.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

I Top Manager.

I Politologi.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Traffico d’influenze.

La malapianta della Spazzacorrotti.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Impuniti.

Concorsopoli Vigili del Fuoco e Polizia.

Concorso truccato nella sanità.

Concorso scuola truccato.

Concorsi ed esami truccati all’università.

Ignoranti e Magistrati.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ignoranti ed avvocati.

SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Amministratori pubblici: Troppi sprechi e malagestio.

I Commissari…

Il Cnel ed Aran: Come sprecare un milione all’anno.

Spreco a 5 Stelle.

Le ali italiane.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

Bancopoli.

La Nascita dell’Euro.

Il Costo del Denaro.

Il Debito. Pagherò.

ConTanti Saluti.

Il Leasing.

I Bitcoin.

I Bonus.

Evasori fiscali!

L'Ingiunzione di Pagamento.

Bollette luce e gas, mercato libero o tutelato.

La Telefonia.

Le furbate delle Assicurazioni.

I Ricconi alle nostre spalle.

 

 

 

 

 

 

IL GOVERNO

SECONDA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Potere dà alla testa.

Matteo Sacchi per “il Giornale” il 5 dicembre 2022.

Cos' è un leader? Dove si pone il discrimine tra la «recita» nel grande teatro della politica e la capacità di architettare una regia della politica medesima? Quali sono le linee guida che consentono a chi ha il potere di non esercitarlo per se stesso ma di dargli, al contrario, una direzione precisa, un senso storico? Sono domande di difficile risposta, soprattutto in un'epoca in cui l'immagine che si vende all'elettore, in fretta e via social, sembra essere diventata preponderante rispetto alla realtà del fare, necessariamente costruita sul lungo periodo. 

A fornire delle linee guida, più fattuali che puramente teoriche, prova un politico, di lunghissimo corso e altissimo spessore, come Henry Kissinger con il suo Leadership. Sei lezioni di strategia globale (Mondadori, pagg. 590, euro 28). Kissinger- classe 1923, dottorato di ricerca ad Harvard dopo essere fuggito con la famiglia dalla Germania nazista e aver affrontato qualunque genere di fatica per integrarsi negli Usa - analizza nel libro il percorso di una manciata di grandi politici del Novecento evidenziando di ognuno una particolare virtù: Konrad Adenauer, Charles de Gaulle, Richard Nixon, Anwar Sadat, il meno noto (in Occidente) Lee Kuan Yew e Margaret Thatcher.

Kissinger prima di delineare queste vite, quasi plutarchescamente parallele, traccia con precisione quasi chirurgica un distillato di cosa sia la vera leadership. «Ogni società, qualunque sistema politico abbia, si trova eternamente in bilico tra un passato che rappresenta la sua memoria e una visione del futuro che ispira la sua evoluzione. Lungo questa strada è indispensabile avere una leadership... è necessaria una guida che aiuti il popolo a passare dal punto in cui si trova a un punto in cui non è mai stato e, a volte, non sa neanche immaginare di andare». 

Insomma il leader incrocia nella maniera giusta l'asse tra passato e futuro, tra valori profondi e aspirazioni dei popoli. E spesso deve riuscirci in brevissimo tempo, studiando la Storia ma sovrapponendole sopra un azzardo a cui nessun docente o studioso è mai lontanamente chiamato. Ecco allora la grandezza nella differenza.

Prendiamo Konrad Adenauer (1876 1967) a cui Kissinger dedica il primo capitolo. L'arma fondamentale dell'ex borgomastro di Colonia che visse gli anni del nazismo in un silenzioso dissenso fu l'umiltà. In una Germania smembrata, che avrebbe potuto non recuperare mai la sua indipendenza politica, il fondatore dell'Unione Cristiano-democratica seppe convincere i tedeschi ad assumersi ogni responsabilità per l'aggressività nazista e rinunciare a ogni ricerca di dominio sull'Europa. 

Un percorso difficile che riuscì a realizzare ancorando l'Ovest del Paese alla Nato e attraverso una scelta profondamente «morale». Una identità nazionale quasi «kantiana» ricostruita in mezzo a enormi difficoltà grazie a una tenacia sommessa. L'ora più bassa per il popolo tedesco superata conquistandosi la fiducia dei vincitori, edificando una società democratica e puntando su un'Europa federale con i nemici del giorno prima.

Un miracolo in un certo senso. Ma un miracolo molto diverso da quello compiuto da De Gaulle, altro politico che finisce sotto la lente di ingrandimento di Kissinger. In questo caso il pregio del generale francese è tutt' altro che l'umiltà. Semmai una volontà di ferro e la capacità di presentare sé stesso come un'incarnazione della Francia. 

Una capacità quasi da illusionista soprattutto quando De Gaulle esule a Londra riuscì ad accreditarsi come rappresentante di una «Francia libera» che nella pratica non esisteva. Ecco, De Gaulle è un buon esempio di quanto l'immagine conti secondo Kissinger, ma solo se sotto la «maschera» c'è una virtù vera che, nel caso del futuro presidente, era la determinazione unita a una visione del futuro quasi messianica.

Anche gli altri leader incarnano differenti modelli di potere: Nixon, la capacità di tenersi in equilibrio; Sadat, la capacità di combattere ma anche di superare i contrasti; Lee Kuan Yew, la capacità di creare una città stato multietnica - Singapore - basata sull'idea di eccellenza; e, infine, la Thatcher che ha fatto della determinazione la sua arma fondamentale per rifondare l'Inghilterra. 

Quindi per Kissinger non esiste un leader per tutte le stagioni e gli individui contano nella grande storia, oh se contano. E gli individui che contano, non possono essere solo un megafono del senso comune. Quello basta solo ad essere eletti (forse).

Il tempo dei tiranni.  Populismo, polarizzazione e post-verità sono le tre armi degli autocrati moderni. Moisés Naím su L'Inkiesta il 6 ottobre 2022.

Il potere non passa mai di moda, ma gli strumenti con cui viene esercitato sì. Il nuovo libro di Moisés Naìm spiega come gli autocrati del nostro secolo hanno smantellato lo stato di diritto e i sistemi di controllo democratico, dopo essere stati eletti

Le società libere di tutto il mondo hanno di fronte un nuovo e implacabile nemico. È un nemico che non ha eserciti, né flotte; non viene da nessun paese che si possa localizzare su una mappa. È ovunque e da nessuna parte, perché non è là fuori ma qui dentro. Invece di minacciare le società di distruzione dall’esterno, come fecero un tempo nazisti e sovietici, questo nemico le insidia dall’interno.

Un pericolo che è ovunque e da nessuna parte è sfuggente, difficile da riconoscere, da definire. Lo percepiamo tutti, ma fatichiamo a dargli un nome. Per descriverne elementi e caratteristiche si versano fiumi d’inchiostro, ma rimane inafferrabile.

La prima cosa da fare, quindi, è dargli un nome. Solo allora potremo coglierlo, combatterlo e sconfiggerlo.

Che cos’è questo nuovo nemico che minaccia la nostra libertà, il nostro benessere, addirittura la nostra sopravvivenza di società democratiche? La risposta è il potere, in una forma nuova e malefica.

Ogni epoca è stata testimone di una o più forme di politica maligna. Quella a cui stiamo assistendo oggi ne è una variante revanscista, che scimmiotta la democrazia e al contempo la pregiudica, facendosi beffa di ogni limite. È come se il potere politico avesse preso atto di ogni metodo mai concepito dalle società libere nel corso dei secoli per domarlo e avesse iniziato a tramare per controbattergli.

Ecco perché la interpreto come una rivincita del potere.

In questo libro, ripercorrerò l’ascesa di questa nuova e malefica forma di potere politico, specificando come si sia sviluppata in tutto il mondo. Documenterò il modo furtivo in cui essa erode le fondamenta di una società libera. Mostrerò come sia sorta dalle ceneri di una forma di potere più antica, annichilita dalle forze che ne hanno decretato la fine. E dimostrerò come, ovunque prenda piede, che sia in Bolivia o nel North Carolina, in Gran Bretagna o nelle Filippine, essa poggi su un nucleo compatto di strategie tese a indebolire le fondamenta della democrazia e a consolidare il suo perfido predominio. Abbozzerò anche una serie di modi per combatterla, per proteggere la democrazia e, in parecchi casi, salvarla.

Lo scontro tra chi ha il potere e chi non ce l’ha è, ovviamente, una dinamica costante nell’esperienza umana.

Per la stragrande maggioranza della storia dell’umanità, chi deteneva il potere ne ha sempre fatto tesoro a proprio esclusivo vantaggio, tramandandolo ai propri figli in modo da dar vita a dinastie di sangue e privilegio, con ben poco riguardo nei confronti di chi non ne aveva. Gli strumenti del potere – la violenza, i soldi, la tecnologia, l’ideologia, la persuasione morale, lo spionaggio e la propaganda, per citarne giusto alcuni – erano appannaggio di caste ereditarie, ben al di fuori della portata della maggior parte della gente.

Eppure, a partire dalle rivoluzioni americana e francese alla fine del diciottesimo secolo, si è innescata una trasformazione tellurica nei rapporti di potere, per cui il potere è divenuto oppugnabile e nuovi vincoli sono stati imposti a coloro che lo esercitavano. Tale forma di potere – di portata limitata, che doveva render conto alla gente, e basata su uno spirito di legittima concorrenza – è stata il fulcro dell’enorme espansione in termini di prosperità e sicurezza cui il mondo ha assistito dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Ma all’inizio del ventunesimo secolo, alcune trasformazioni destabilizzanti hanno cominciato a scuotere quell’organizzazione postbellica. In un mio precedente libro, La fine del potere, ho analizzato il declino del potere in tutta un’ampia gamma di istituzioni umane. Tecnologia, demografia, urbanizzazione, informazione, cambiamenti economici e politici, globalizzazione e mutamento degli stili di pensiero hanno cospirato in vista della frammentazione e diluizione del potere, rendendolo più semplice da conquistare ma più difficile da usare e più facile da perdere.

Un contraccolpo era inevitabile. Chi è deciso a ottenere ed esercitare un potere illimitato attua vecchie e nuove tattiche per proteggerlo dalle forze che lo indeboliscono e lo limitano. Questi nuovi comportamenti sono concepiti per arginare il declino del potere, perché si possa ricostituirlo, concentrarlo e tornare a esercitarlo senza limiti, ma con

le tecnologie, le strategie, le organizzazioni e le mentalità proprie del ventunesimo secolo.

In altre parole, le forze centrifughe che indebolivano il potere hanno evocato una nuova serie di forze centripete tese ad accentrarlo. Lo scontro tra queste due gamme di forze è uno dei tratti distintivi della nostra epoca. E l’esito di quello scontro è tutt’altro che già deciso.

La posta in gioco non potrebbe essere più alta, e non ci sono garanzie. È in ballo non solo la possibilità che la democrazia prosperi o meno nel ventunesimo secolo, ma la sua stessa sopravvivenza come sistema di governo dominante, organizzazione di default del villaggio globale.

Che la libertà sopravviva non è affatto garantito.

Le democrazie riusciranno a resistere agli attacchi degli aspiranti autocrati volti ad annientare il sistema di controlli e contrappesi che limita il loro potere? In che modo?

Perché il potere si va concentrando in alcune sedi mentre in altre si frammenta e si deteriora? E la grande domanda: che futuro avrà la libertà?

Il potere di rado si cede volontariamente. Quelli che ce l’hanno tentano, è naturale, di arginare e contrastare i tentativi dei rivali di indebolirli o rimpiazzarli. I nuovi venuti che attaccano chi è in carica sono spesso innovatori, che non solo sfruttano nuovi strumenti ma seguono proprio un copione completamente diverso. Le loro innovazioni politiche hanno profondamente alterato le modalità di conquista e mantenimento del potere nel ventunesimo secolo.

Questo libro individua ed esamina tali innovazioni, mostrandone le possibilità, la logica interna e le contraddizioni, per poi stabilire le battaglie chiave che i democratici dovranno vincere per evitare che distruggano la libertà dei nostri tempi.

Una forma limitata e contingente di potere non basterà ad appagare aspiranti autocrati, che hanno imparato a far leva su tendenze come la migrazione, l’insicurezza economica del ceto medio, le politiche identitarie, le paure suscitate dalla globalizzazione, il potere dei social media e l’avvento dell’intelligenza artificiale. In ogni sorta di contesto geografico e in ogni circostanza, costoro hanno dimostrato di volere un potere senza briglie, e di volerlo per sempre.

Questi aspiranti autocrati si trovano di fronte a un nuovo ventaglio di opzioni, e hanno a disposizione nuove gamme di strumenti da utilizzare per rivendicare un potere illimitato. Molti di questi strumenti anche solo qualche anno fa non esistevano. Altri sono vecchi quanto il mondo ma coniugati in modi nuovi con le tecnologie emergenti e i nuovi trend sociali per renderli più incisivi di quanto non siano mai stati finora.

Ecco perché, negli ultimi anni, abbiamo assistito all’affermazione di una nuova specie di aspiranti potenti: leader non convenzionali, testimoni del declino del potere tradizionale, che si sono resi conto che un approccio radicalmente nuovo poteva aprire a opportunità prima d’allora non sfruttate. Sono emersi in tutto il mondo, dai paesi più ricchi a quelli più poveri, dai più istituzionalmente progrediti ai più arretrati. Pensiamo a Donald Trump, ovviamente, ma anche a Hugo Chávez in Venezuela, Viktor Orbán in Ungheria, Rodrigo Duterte nelle Filippine, Narendra Modi in India, Jair Bolsonaro in Brasile, Recep Tayyip Erdoğan in Turchia, Nayib Bukele a El Salvador, e tanti altri.

Questo libro si propone di dissezionarne l’approccio, perché non si può sconfiggere ciò che non si riesce a comprendere.

Questi nuovi autocrati sono stati dei pionieri nelle nuove tecniche tese a ottenere un potere illimitato e poi a conservarlo il più a lungo possibile. Il fine ultimo – non sempre raggiungibile ma per cui si è sempre tenacemente combattuto – è il potere a vita. Qualunque tendenza verso l’indebolimento del loro potere è interpretata come una minaccia vitale, un qualcosa da arginare. I loro successi stanno incoraggiando altri in tutto il mondo a cercare di emularli.

Costoro hanno registrato parecchie vittorie, e anche alcuni fiaschi significativi. E ne spuntano di nuovi, a quel che sembra, ogni paio di settimane. Questi leader – e questo stile di leadership – occupano la ribalta ne Il tempo dei tiranni.

Sono leader che si stanno adattando al nuovo scenario, che stanno improvvisando nuove tattiche e ne riformulano di vecchie per aumentare la loro capacità di imporre il proprio volere al prossimo. Malgrado le enormi differenze in termini nazionali, culturali, istituzionali e ideologici tra i paesi in cui si affermano, il copione che seguono è incredibilmente simile. Jair Bolsonaro, il presidente del Brasile, e Andrés Manuel López Obrador del Messico, per esempio, sotto il profilo ideologico non potrebbero essere

più diversi, ma al contempo non potrebbero assomigliarsi di più nello stile di leadership. Il minuscolo, arretrato e povero El Salvador, in America centrale, e la mastodontica e sofisticata superpotenza che sono gli Stati Uniti non potrebbero essere più diversi come paesi, eppure Nayib Bukele e Donald Trump li hanno governati secondo strategie estremamente simili.

Qual è la ricetta? Che ingredienti prevede? E come funziona nel mondo reale? Sono questi gli interrogativi alla base di questo libro. A mio avviso, è una formula che si può riassumere in tre parole: populismo, polarizzazione e post-verità.

Le chiameremo le 3P. E quelli che le usano saranno gli autocrati 3P.

Cos’è un autocrate 3P?

Gli autocrati 3P sono leader politici che ottengono il potere tramite elezioni legittimamente democratiche per poi prefiggersi di smantellare i sistemi di controllo imposti all’esecutivo per mezzo di populismo, polarizzazione e post-verità. Via via che consolidano il loro potere, celano le proprie mire autocratiche dietro muri di riservatezza, nebbie burocratiche, sotterfugi pseudolegali, manipolazione dell’opinione pubblica e repressione di critici e oppositori.

Una volta che li si smaschera, è troppo tardi.

L’autoritarismo è un continuum. Un estremo si ritrova nei regimi totalitari come quello della Corea del Nord, in cui il potere si concentra interamente nelle mani di un dittatore dinastico che lo esercita in modo aperto e brutale.

All’estremo opposto si collocano leader democraticamente eletti con tendenze autoritarie. Gli autocrati del ventunesimo secolo partono da quest’estremo più blando e operano in modo da conservare una parvenza democratica mentre celatamente minano la democrazia.

Come fanno? Per mezzo di populismo, polarizzazione e post-verità.

Di ciascuna di queste tre P s’è scritto molto. In questa sede le integreremo tra loro, inserendole in una cornice che è il perno delle modalità con cui gli autocrati del ventunesimo secolo ottengono, esercitano e mantengono il potere.

Le peculiarità variano da un posto all’altro e da un leader all’altro – il potere è immancabilmente legato al contesto – ma le basi di tale approccio sono riconoscibili ovunque lo si adotti. Esso trascende geografie e circostanze, destabilizza le vecchie istituzioni e spalanca opportunità ai nuovi arrivati. Presa singolarmente, nessuna delle tre P basta a spiegare le mutazioni subite dal potere al giorno d’oggi. Ma se impiegate in tandem, esse riescono a contrastare le forze che tendono a frammentarlo e diluirlo.

Il populismo, fra le tre P, è probabilmente quella di cui si discute con più insistenza e quella più spesso fraintesa.

Per via del fatto che finisce in “-ismo”, spesso lo si scambia per un’ideologia, un corrispettivo di socialismo e liberalismo che concorre ad affermarsi come filosofia coerente di governo. Non lo è per niente. Al contrario, il populismo va piuttosto inteso come una strategia volta a ottenere ed esercitare il potere.

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 22 agosto 2022.

Il potere dà alla testa. Lo storico Baron John Acton dichiarava che “il potere tende a corrompere, e il potere assoluto corrompe in modo assoluto». A più di un secolo dall'accusa di Lord Acton, gli scienziati lo confermano: anche il più nobile di spirito può perdere di vista i propri valori quando gli si permette di governare. Come se entrasse in una palla di vetro, e addio al contatto con la realtà e a quella caratteristica tipica della specie sociale che è la capacità di immedesimarsi negli altri e sentirne i disagi e le aspettative.

È il paradosso del potere, una volta raggiunto, si dimentica tutto ciò che è stato messo in campo per ottenerlo. Per lasciare il posto a un irresistibile delirio di onnipotenza. I casi di Matteo Renzi (ha proposto un referendum, e lo ha perso), David Cameron (ha "sfidato" gli inglesi, e questi hanno votato per la Brexit) e Theresa May (ha indetto elezioni anticipate per avere una maggioranza più forte, e le è andata male) sono la dimostrazione di come in politica chi arriva in alto, si mostri altezzoso, arrogante, spocchioso, sprezzante del pericolo e incurante delle esigenze dei comuni mortali. L'apoteosi l'abbiamo raggiunta con sua maestà Mario Draghi.

Certo, Giulio Andreotti, citando il diplomatico francese del XVIII secolo Charles Maurice Talleyrand, sosteneva che il potere logora chi non ce l'ha. Ma almeno si resta coscienti.

In realtà, montarsi la testa è il difetto umano per eccellenza, gli antichi Greci usavano il termine hybris per mettere in guardia da questo pericolo. 

Un termine che indica la tracotanza presuntuosa di chi sale al comando, raggiunge una posizione di prestigio e comincia a sentirsi superiore agli altri, convinto che per sé stesso non valgano le normali regole del vivere comune. Già nel mito era presente l'hybris dei leader. L'Iliade, per esempio, parte con uno scontro acceso tra Achille e Agamennone, il capo dell'esercito acheo. Che approfitta della sua posizione di vertice per imporre la propria volontà, pensando di non pagarne le conseguenze. Salire in alto è un atto di superbia, avvertivano i popoli del passato.

Ma cosa c'è nel potere che rende chi lo detiene così fuori di testa? Secondo Dacher Keltner, professore di psicologia all'Università di Berkeley in California, che da 20 anni fa ricerche su questo tema, non è solo questione di superbia: «Il potere può avere sul cervello le stesse conseguenze di una lesione traumatica. Con manifestazioni che vanno dalla maggiore impulsività allo sprezzo del pericolo fino all'incapacità di mettersi nei panni dell'altro».

Anche le neuroscienze sono arrivate alle stesse conclusioni. Sukhvinder Obhi, docente all'università di McMaster in Ontario, che studia i cervelli, a differenza di Keltner che studia i comportamenti, ha messo a confronto le teste dei potenti con quelle dei non potenti, attraverso un esame a base di stimolazioni transcranico-magnetiche, e scoperto alterati i processi neurali specifici dei neuroni specchio, che sono la pietra angolare dell'empatia di chi ricopre ruoli da leader. 

E quindi da una parte c'è la perdita delle capacità empatiche e dall'altra è stato riscontrato un incremento dei disturbi narcisistici e della personalità con pulsioni manipolatorie in chi è arrivato nella stanza dei bottoni. Insomma il loro cervello diventa meno percettivo, meno interessato a capire gli altri. Direbbe il Marchese del Grillo: io sono io e voi non siete un c...

Ecco perché i potenti si circondano spesso e volentieri di persone accondiscendenti, menti con scarso senso critico oppure dei furboni che fanno finta di essere del tutto rincretiniti; una corte di subordinati che tende a compiacere il capo di turno. Il risultato è che se il leader potente perde (quasi automaticamente, sembrerebbe) il senso della realtà, prevaricando e mettendo le proprie esigenze al di sopra di quelle degli altri, i "fedeli" sottoposti non faranno nulla per farglielo notare. Inevitabile dunque l'operato di governatori dallo sguardo corto, che sembrano non vedere al di là del proprio naso. E che prendono decisioni senza pensare alle conseguenze proprio come Agamennone.

Keltner si spinge oltre: «Come polli senza testa i top manager delle multinazionali girano freneticamente per il mondo come polli decapitati: decidono guidati dall'ansia, senza pensare, senza capire, senza vedere e senza confrontarsi. Spesso ho sentito dire da relatori più anziani e autorevoli di società internazionali di consulenza cose senza senso nel corso di riunioni riservate ai partner, mi sarei aspettato qualche brusio di sconcerto tra gli astanti, e invece: clamorosi segnali di assenso ...». 

Non c'è da stupirsi, fa notare Adrian Furnham, professore di Psicologia all'University College di Londra, se il 47% dei manager fallisce. «Uno dei principali motivi di fallimento è il narcisismo: un cocktail deteriore di arroganza, freddezza emozionale e ipocrisia», spiega. Keltner però ha il sospetto che «la sindrome del pollo possa appartenere non solo a chi guida le imprese, ma anche a chi governa le istituzioni e le nazioni». Oddio, tra poco si vota. Potrebbe aver ragione chi dice che tanto chiunque vincerà le prossime elezioni (la sinistra di Letta o il centrodestra della Meloni con Berlusconi e Salvini) non cambierà nulla. Speriamo non sia così...

·        Democrazia: La Dittatura delle minoranze.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, giudicato ed informato, educato ed istruito da coglioni.

Gabriele Ferrari per focus.it il 2 dicembre 2022.

Le pecore non sono solo un animale ma anche un simbolo, non necessariamente positivo, di chi obbedisce agli ordini altrui e segue il capo senza farsi troppe domande: pensate per esempio al dispregiativo "pecorone". Ora un nuovo studio della Université Côte d'Azur sembra volerle vendicare, o quantomeno riconoscere loro una complessità sociale che va al di là della struttura "uno guida, gli altri seguono". Pubblicato su Nature, lo studio dimostra che, almeno in certe condizioni, le greggi di pecore non hanno un solo capo, ma si alternano democraticamente (e casualmente) alla guida del gruppo.

Lo studio ha per ora un solo limite: è stato condotto su gruppi di piccole dimensioni, composti da 2 a 4 esemplari di femmine della stessa età. Queste mini-greggi sono stati osservati durante la giornata e da debita distanza (il luogo di osservazione era la cima di una torre vicino ai loro campi), per scoprire come si comportano quando non vengono guidate da un'"entità" esterna (per esempio, un pastore).

Il team ha scoperto che le pecore alternano momenti in cui brucano l'erba ad altri in cui si muovono in gruppo in cerca di altri pascoli; e che ogni volta che si spostano, il gruppo cambia leader: una pecora si mette alla guida e le altre la seguono ordinatamente. Il nuovo capo è scelto ogni volta in maniera casuale, o almeno così sembra.

In realtà, dietro questa forma di alternanza democratica ci potrebbero essere dei motivi pratici. Ogni esemplare, infatti, ha una diversa conoscenza dell'ambiente circostante: potrebbe, per esempio, conoscere la location di un prato particolarmente verdeggiante che le altre pecore non hanno mai visitato, e aspettare il suo momento di condurre per mostrarglielo.

Inoltre, sapere che prima o poi toccherà a te "fare il capo" aiuta anche ad accettare con più serenità le decisioni degli altri leader, e a evitare possibili conflitti. Il limite dello studio è tutto nelle dimensioni delle greggi considerate: non sappiamo (ancora) se la "rotazione dei leader" avviene anche in gruppi più numerosi, e se la presenza di maschi cambia qualcosa in termini di leadership. Per il team che ha condotto la ricerca si preannunciano dunque altri viaggi in cima alla torre di osservazione.

"Così Atene diventò la culla del primo potere popolare". L’antichista racconta la genesi delle istituzioni che hanno fatto da modello a quelle del presente. Tra realtà storica e mitizzazioni. Matteo Sacchi il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Se ci si aggira per Washington, per la sua zona monumentale, si potrebbe avere l'impressione di aggirarsi per una città dell'Impero romano, o per una città della Grecia classica. Le moderne democrazie hanno preso a modello ideale (con tutta l'infedeltà storica necessaria all'operazione) le polis, anche nell'iconografia e nell'architettura. E in special modo hanno guardato all'Atene di Pericle (495-429 a.C.). Del resto la stessa parola «democrazia» tradisce chiaramente le sue origini e persino gli illuministi, così propensi a guardare al futuro, hanno, a più riprese, guardato alla culla della classicità per giustificare ed esaltare un potere che nasce dal basso. A questa culla ha appena dedicato un libro il grecista Giorgio Ieranò che sarà nei prossimi giorni al Festival del classico di Torino. Si intitola Atene. Il racconto di una città (Einaudi, pagg. 228, euro 21) e rende conto di tutta la stratificata storia della città dall'antichità ai giorni nostri. Noi gli abbiamo chiesto di raccontarci mito, realtà e memoria moderna della democrazia ateniese.

Professor Ieranò quando nasce la democrazia ateniese?

«La nascita di quella che noi chiamiamo Democrazia è un processo molto lungo e conflittuale. Se dovessimo fissare una data chiave io sceglierei il momento in cui due politici ateniesi, Pericle ed Efialte, ridussero il potere dell'Aeropago, un antico tribunale che era essenzialmente un'istituzione nobiliare, aumentando così il potere dell'assemblea che invece era un'istituzione prettamente legata al demos, e dove per dirla in termini moderni uno vale uno. Accadde tra il 462 e il 461 avanti Cristo. Diciamo che la democrazia nacque dalle scelte anticonformiste di alcuni nobili ateniesi, tra cui un certo numero di membri della famiglia degli Alcmeonidi, che decisero di puntare sull'appoggio dei ceti popolari».

Non è un fenomeno che parte dal basso?

«A partire da Clistene un pezzo della nobiltà ha fatto delle scelte che hanno cambiato gli equilibri politici della città. Con Pericle si radicalizza questa volontà, aumentando i poteri dell'assemblea. Bisogna dire con grande onestà che il miracolo della democrazia è largamente un’invenzione di alcuni aristocratici».

E il modello politico ateniese è davvero la culla delle nostre istituzioni moderne? O ci sono differenze radicali?

«Il dibattito sulle differenze tra Atene e le istituzioni nate a partire dalla Rivoluzione americana è secolare. E ci sono sostanzialmente due scuole di pensiero. Da un lato c'è chi ha sottolineato la continuità con l'Atene del V secolo. Spesso tra costoro, gli stessi politici che delle democrazie erano promotori. Da questo punto di vista l'architettura di molti edifici pubblici degli Stati uniti, nel suo richiamo alla classicità, è già una presa di posizione ad esempio, una volontà di collegarsi a quell'idea. Poi ci sono state molte interpretazioni storiografiche attente a marcare le differenze. Il corpo civico ateniese era molto ridotto, le donne, e gli stranieri, erano completamente esclusi ed emarginati dall'attività politica. C'era un'esclusività dei diritti molto lontana dalla nostra idea attuale dei diritti dell'uomo. Ed era una democrazia carica di ambiguità. Lo storico Tucidide elogia Pericle sottintendendo che la Democrazia di Atene è per certi versi una democrazia a parole perché, alla fine, è la forza oratoria del leader a governare l'assemblea. Tucidide apprezza questa capacità di Pericle, sia chiaro, ma evidenzia tutti i limiti di una democrazia diretta dove alla fine a comandare davvero erano i grandi retori nonostante sulla carta il demos, il popolo con diritto di voto, potesse tutto».

Ad Atene c'era l'assemblea ma c'era anche un altro spazio molto popolare, l'Agorà, la piazza del mercato. Possiamo considerarla una società civile, quella sempre invocata come contraltare della politica, almeno in nuce?

«L'agorà è uno spazio assolutamente nuovo e tipicamente greco per certi versi. Erodoto racconta che Ciro il Grande si fece raccontare come vivevano i greci. E sentendo del loro bighellonare in piazza li etichetto rapidamente come gentaglia di cui non preoccuparsi troppo. Quello spazio da altri è stato idealizzato ad esempio ai giorni nostri il sociologo Zygmunt Bauman ha parlato della necessità di costruire una nuova agorà, uno spazio pubblico condiviso. Ma in realtà, al di là delle idealizzazioni, era uno spazio molto caotico dove si poteva incontrare di tutto, c'erano i perdigiorno che oziavano nelle botteghe, c'erano i mercanti. Ad Atene la collina della Pnice era uno spazio prettamente politico, l'Agorà era anche lo spazio di chi, magari a fare politica, sulla Pnice non aveva voglia di andarci. Quindi non bisogna nemmeno credere troppo al mito identitario della cittadinanza, quello che esce, ad esempio, dai discorsi di Pericle riportati da Tucidide».

In che senso?

«Esisteva un'identità ateniese ma esistevano, anche, fortissime divisioni interne di vario tipo. Una serie di assi di separazione molto forti e non mi riferisco solo a quelli già citati tra chi aveva il diritto di voto e chi no. La politica, alla fine, era considerata soprattutto una cosa inerente a chi aveva la capacità di portare le armi e difendere la città in guerra. Quindi, ad esempio, gli anziani erano cittadini, ma sino ad un certo punto. Poi tra il marinaio che serviva sulle triremi e il cavaliere, cioè il nobile che combatteva a cavallo, restavano un sacco di differenze. Uno passava sul destriero in mezzo all'agorà, l'altro ci andava per comprare cose al mercato. Se sotto la minaccia dei persiani i loro interessi potevano avvicinarsi moltissimo, in altri casi restavano largamente divergenti. Nella conflittualità con Sparta già la questione era molto diversa e potevano crearsi consistenti incrinature. Nobili come Alcibiade o Senofonte sono stati ampiamente filospartani, trovavano il sistema spartano di potere più confacente al loro modo di vedere il mondo. La critica alla democrazia è già degli antichi».

C'erano anche sistemi, che a noi possono apparire bizzarri, per contenere le tensioni politiche come l'ostracismo.

«Poter allontanare dalla città gli elementi considerati pericolosi per l'equilibrio interno, in base al voto popolare, era un modo per compensare alcune di quelle tensioni di cui parlavamo prima, una forma di autoconservazione. Il sistema politico oscillava tra polarità autoritarie e l'idea che uno vale uno».

Anche per questo Pericle ha creato un potente apparato simbolico, a partire dalla ricostruzione dell'Acropoli?

«È un passaggio fondamentale. Dai Propilei al Partenone passando dall'Eretteo la ricostruzione fu una gigantesca celebrazione della potenza di Atene, una monumentalizzazione della vocazione imperiale ateniese. Ma già all'epoca ci furono dure contestazioni del radicalismo democratico di Pericle e anche dei suoi simboli. Tucidide, pur lodando le enormi realizzazioni di Pericle, e la rapidità dei lavori ci segnala anche gli argomenti degli oppositori. Lo accusarono di agghindare Atene come una prostituta e di farlo utilizzando i soldi rubati alle altre città. Fidia finì in carcere e anche Pericle venne attaccato a livello giudiziario...».

Ma tutto questo splendore si chiuse molto presto con un gigantesco crollo politico.

«Di fatto già le Storie di Tucidide sono un apologo di come Atene ha costruito la sua sconfitta. Per lo storico era tutta legata agli eccessi iper popolari della politica post periclea e l'eccessiva violenza e coercizione verso le altre città. Come ha notato un antichista di vaglia, Luciano Canfora, sono spesso le stesse democrazie che votano il loro scioglimento scegliendo l'autocrazia. Esiste sempre il rischio della tirannia della maggioranza».

Oggi siamo abituati a pensare alla democrazia quasi come ad un esito politico inevitabile. La storia sembra dirci il contrario...

«La democrazia nella storia greca rappresenta un breve periodo, è stata preceduta, ha coesistito ed è stata seguita da regimi diversi. Pericle era conscio della specificità ateniese e pensava che Atene dovesse essere un modello per il resto delle città greche. In sostanza Atene doveva far scuola al resto dell'Ellade. Ma possiamo dire, col senno del poi, che gli scolari sono stati riluttanti, non hanno seguito la lezione proposta. Pensare la democrazia come l'entelchia del sistema politico era un azzardo allora come lo è adesso. Possiamo considerare la democrazia come il migliore dei regimi politici ma non si può dare per scontato il suo avvento come se fosse il più naturale».

La superbia del secolarismo farà cadere l'Occidente. Francesco Perfetti il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Marcello Pera recupera il pensiero di sant'Agostino per leggere la crisi, non solo spirituale, dei nostri tempi

Ci sono inquietanti somiglianze fra l`epoca nella quale visse e operò Sant`Agostino e quella nella quale siamo oggi immersi: da una parte, la crisi di Roma e del suo grande impero, dall`altra la crisi della civiltà occidentale col ripudio delle sue radici cristiane e la tendenza a far prevalere i cosiddetti diritti umani sui doveri. L`elemento che avvicina queste due crisi, che le accomuna pur nella distanza dei tempi storici, è la «superbia», tanto degli antichi quanto dei moderni e ancor più dei contemporanei, che si risolve nella convinzione, pur declinata in diversi modi, che l`uomo possa costruire da solo il proprio Paradiso in terra.

Parte proprio da tale constatazione l`ultima suggestiva (e importante) opera di Marcello Pera dal titolo "Lo sguardo della caduta. Agostino e la superbia del secolarismo" (Morcelliana, pagg. 196, euro 18): un bel testo di filosofia che guarda all`oggi, alla crisi spirituale dell`Occidente e alla perdita della sua identità, proseguendo un discorso già avviato con finezza argomentativa in due precedenti volumi: "Cristianesimo e diritti umani" (Marsilio, 2015) e "Critica della ragion secolare. La modernità e il cristianesimo di Kant" (Le Lettere, 2019). Vi si ritrova un ritratto impietoso delle inquietudini del nostro tempo tratteggiato con intensa e incisiva pennellata: «secolarismo, scientismo, liberalismo, ecologismo, neo-umanesimo e trans-umanesimo, diritti individuali senza doveri, costumi senza confini, linguaggi purificati, opere dell`ingegno mortificate, storia censurata o cancellata: questo e altro sono i nuovi dei pagani a cui tributiamo i nostri sacrifici, culti, riti individuali e di massa. Salvo poi a ritrovarci sempre più avvolti nell`incertezza e nel disagio».

Anche un altro filosofo cattolico contemporaneo - peraltro rispetto a Marcello Pera di ben diversa formazione -, Augusto Del Noce, aveva pur egli denunciato tale situazione in un libro su "L`epoca della secolarizzazione" (Giuffrè, 1970, poi Aragno, 2015) mostrando come questo periodo, punto d`arrivo del «neo-illuminismo», si fosse caratterizzato per una crescente irreligiosità e per una significativa espansione dell`ateismo. Lo ricordo, naturalmente per incidens, a riprova del fatto che alla diagnosi dei guasti collegati al rifiuto o all`abbandono della tradizione è possibile pervenire seguendo argomentazioni e percorsi intellettuali diversi.

Pera, prima filosofo della scienza e poi esegeta di Karl Popper, angosciato dalla odierna deriva filosofico-esistenziale, ha trascorso molti anni a confrontarsi e a interloquire idealmente con due giganti del pensiero occidentale, Kant e sant`Agostino, più contigui di quanto generalmente non si pensi. Agostino, infatti, a sua detta, è il filosofo che ha fornito al cristianesimo la massima dignità speculativa, mentre Kant, schivando le trappole dell`illuminismo antireligioso, aveva pensato di elevare quel cristianesimo, appunto, a verità universale della «ragion pura». In altre parole, e semplificando, Agostino si era proposto di «cristianizzare la ragione» mentre il filosofo di Königsberg aveva pensato di «razionalizzare il cristianesimo».

Dopo aver sottolineato come questi due propositi abbiano finito per incontrarsi, Pera fa notare come diverso sia stato il loro destino storico: il progetto kantiano di unità fra ragione e cristianesimo, infatti, durò, e per di più contrastato, solo una stagione, mentre le idee di Agostino, pur caratterizzate da un pessimismo di fondo, hanno mostrato e mostrano tuttora una eccezionale capacità di far comprendere la modernità anche nei suoi aspetti più problematici. Un solo esempio: un passaggio dell`opera più celebre di Agostino, La città di Dio, riportato da Pera - quello laddove si parla delle discussioni fra intellettuali e delle molte e contrastanti versioni su eventi e idee - contiene in germe il principio della «equivalenza» di ogni verità, cioè, in altre parole, anticipa quel «relativismo etico» denunciato da Benedetto XVI, profondo cultore, non a caso, proprio del pensiero agostiniano.

Quando Agostino, allora vescovo di Ippona, cominciò a scrivere nel 412-413 la sua opera più celebre, appunto "La Città di Dio", che avrebbe concluso nel 426-427, qualche anno prima della morte, il cristianesimo si era ormai affermato nella società romana e l`Impero, per conversioni spontanee o indotte, era diventato cristiano. Eppure quel mondo, apparentemente al massimo della sua potenza, stava finendo: le orde barbariche guidate da Alarico avevano saccheggiato Roma e questo fatto aveva segnato l`inizio di quella crisi storica che era anche, prima e soprattutto, crisi morale. Non a caso, si diffuse la convinzione - semplicistica, ma, secoli dopo, fatta propria da storici formatisi nell`illuminismo, a partire dall`inglese Edward Gibbon - che il cristianesimo fosse all`origine del decadimento della potenza dell`impero romano.

Una crisi morale, comunque, quella alle origini della riflessione di Agostino, che coincideva con la decadenza della civiltà cristiana dell`Occidente simboleggiata dalla caduta di Roma e del suo impero. E che, paradossalmente, sembra trovare, ancorché in un contesto storico del tutto diverso, una replica estesa a tutto l`Occidente, il quale - a cominciare dalla Chiesa - attraverso un processo di generalizzata secolarizzazione ha ripudiato, in nome di una «superbia» intellettuale, quelle radici cristiane sulle quali erano state costruite la sua storia e la sua stessa civiltà.

Basandosi proprio sul parallelismo fra queste due grandi «crisi» morali ed epocali e, al tempo stesso, sostanziandosi di una lettura critica degli innumerevoli testi del filosofo cristiano, Marcello Pera intrattiene con Agostino una ideale conversazione su elementi della riflessione agostiniana, in particolare sui temi della politica e della libertà, suscettibili di essere utilizzati ancora oggi sia per capire quanto sta accadendo sia per poter incidere, in qualche misura, sulla realtà.

Alla base del pensiero agostiniano c`è l`idea della «caduta»: l`uomo, responsabile del peccato originario per la sua ribellione a Dio, non può liberarsi da solo, senza cioè l`aiuto divino della grazia, delle conseguenze di questo peccato. Comprensibilmente, uno dei possibili esiti di tale tesi è, in politica, la giustificazione della teocrazia. Ma non è l`unico esito possibile, perché, come ha sostenuto qualche studioso, è possibile cogliere una «inferenza liberale» nella teologia politica di Agostino.

Pensatore autenticamente liberale o se si preferisce conservatore liberale, Marcello Pera dedica alcuni capitoli del suo saggio a individuare i possibili punti di contatto fra la concezione agostiniana della società, dello Stato, della politica e taluni capisaldi propri del liberalismo contemporaneo. Così ci rendiamo conto che le due visioni, quella agostiniana e quella liberale, hanno elementi di analogia, per esempio, per quanto riguarda la preminenza dei doveri sui diritti, il primato dell`individuo sullo Stato, l`idea che lo Stato sia un male necessario, il rifiuto di ogni illusione salvifica ed escatologica...

Alcuni anni or sono, nel 2008, echeggiando il celebre saggio di Benedetto Croce Perché non possiamo non dirci cristiani, Pera pubblicò un volume intitolato Perché dobbiamo dirci cristiani di condanna del relativismo culturale contemporaneo. In certo senso, il suo nuovo libro, al di là dello spessore teoretico che lo caratterizza, precisa, sul terreno della politica, molte intuizioni lì accennate facendo intendere come il ritorno alle riflessioni di Agostino rappresenti un antidoto alla crisi esistenziale del nostro tempo. Il libro potrebbe ben avere, come sottotitolo, «Perché non possiamo non dirci agostiniani».

Non è la fine della Storia. Semmai la fine dell'Occidente. Il grande abbaglio è sempre più evidente. E la presunta superiorità sul resto del mondo si rivela autolesionista...Stenio Solinas l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Nella «fine della storia», che contempla «il fine della storia», ma si conclude con «la storia della fine» c'è molto di più di un gioco di parole più o meno elegante o più o meno noioso. C'è il prendere atto di un abbaglio di fine secolo, il XX, e del brusco risveglio che il nuovo secolo, quello ancora relativamente giovane, ma già sottoposto a usura, ha comportato, e con esso la constatazione non solo che la storia non è finita e tanto meno che procede in progressione verso uno scopo ultimo quanto universale di pace democratica realizzata, ma anche che è proprio il canone occidentale interpretativo a non reggere più.

Come spiega bene Lucio Caracciolo nel suo La pace è finita (Feltrinelli, pagg. 140, euro 16), «l'ideologia che fissa un termine alla progressione della storia umana è smaccatamente occidentale. Proprio perché occidental-illuminista tale filosofia non può che pretendersi universale. Contraddizione che la rende inapplicabile, a meno di non postulare la progressiva identificazione del Resto del Mondo con l'Occidente. Operazione anche demograficamente improbabile oggi, quando noi occidentali (europei e nordamericani) siamo circa un miliardo contro i sette di non occidentali, mediamente più giovani e in aumento vertiginoso, specie in Africa. Sicché ogni buon missionario della fine della storia dovrebbe convertire sette non occidentali alla sua fede. E al suo impero».

Già, perché la fine della storia implicava di per sé il trionfo dell'impero americano che in essa si incarnava, sublimato in ordine ecumenico. La sua rimessa in discussione a livello egemonico non comporta, naturalmente, il suo venir meno quanto a rango di superpotenza o, se si vuole, di prima potenza mondiale, ma, e non è un paradosso, contribuisce, come scrive Caracciolo, a svelare «il bluff europeista, che ci aveva traslato nell'ipnotico universo della pace assicurata, non è chiaro da chi e cosa». Crolla insomma l'illusorio castello di carte in cui l'Europa si voleva vedere come potenza civile, con tanto di tonalità universalistica, che però si offriva al mondo «via Nato, come secondo braccio dell'Occidente a guida americana, equilibrato dalla saggezza dell'antica civiltà vetero-continentale. Oggi il principio europeistico di irrealtà stenta a mascherare la tragica condizione geopolitica in cui noi europei ci troviamo. Siamo fuori gioco. Oggetto di giochi altrui».

Se dunque la pace è finita, come recita il titolo del saggio di Caracciolo, autore tanto più significativo se si pensa che si deve a lui, grazie alla sua rivista Limes, l'aver riportato al centro del dibattito scientifico-culturale quel concetto di «geopolitica» disinvoltamente silenziato nel nome e al tempo dell'astrattismo universale, ne consegue, come osserva un altro analista di vaglia, Alessandro Colombo, che quello che viene a configurarsi è proprio l'opposto di ciò che la fine della storia pretendeva di realizzare, ovvero una fine della storia di senso contrario, dove a essere universale non è la pace, ma l'emergenza. Il governo mondiale dell'emergenza (Raffaello Cortina, pagg. 221, euro 19) si intitola infatti il suo libro e «Dall'apoteosi della sicurezza all'epidemia dell'insicurezza» è il sottotitolo che l'accompagna, una frustrazione securitaria subentrata alla promessa liberale di pace, benessere e tranquillità a livello globale. La prima domanda che ragionevolmente viene da porsi è perché quell'ordine liberale che portava con sé la fine della storia sia entrato in crisi. Le risposte che ne rintracciano i motivi in qualche «tradimento» interno e/o esterno del progetto risultano parziali, allo stesso modo di come si imputata la crisi delle democrazie rappresentative ai «populismi» che le minacciano, come se questi fossero la causa e non l'effetto della crisi stessa. Come scrive Colombo, «ciò che non viene mai preso in considerazione è la possibilità che l'ordine liberale sia entrato in crisi per le sue stesse contraddizioni interne: di più, che la crisi del progetto liberale possa non essere altro che un prodotto del suo stesso successo». Colombo suggerisce al riguardo più di un indizio: per esempio, il ricorso «sempre più irresponsabile all'uso della forza», culminato nelle disastrose imprese militari in Iraq, Afghanistan e Libia; per esempio, «il rapporto storicamente ripetitivo tra finanziarizzazione dell'economia e aumento delle diseguaglianze»; per esempio, «le sospettose coincidenze tra il ritiro dei diritti sociali distribuiti nel corso del Novecento e il rifluire dello spettro della rivoluzione». Soprattutto però, e questo lega strettamente l'analisi di Colombo a quella di Caracciolo, tanto che i due libri possono essere letti come un unicum, quella crisi è insita proprio nell'idea di modernità occidentale che ne è il supporto, per certi versi «l'ultima (e, forse, la decisiva) manifestazione del ruolo occidentale di centro di irradiazione di istituzioni, linguaggi e relazioni di potere».

Detto in altri termini, la lettura di un possibile Nuovo ordine mondiale come la più completa manifestazione di un grande progetto di riordino della vita internazionale risalente alla metà del Novecento, se non addirittura al suo inizio, fa acqua proprio nei suoi presupposti. Il Novecento infatti è stato ben altro. Innanzitutto, è stato «il secolo della fine della centralità dell'Europa e più in generale del riflusso dell'impeto occidentale sul mondo», una «rivolta contro l'Occidente» approdata agli sconvolgimenti della decolonizzazione e di fatto non ancora esauriti nel loro intrecciarsi con le contraddizioni del potere su scala internazionale. Sicché viene da chiedersi se il XX secolo non segni proprio «la fine della fase occidentale della storia del mondo» e quindi in prospettiva dello scontro, di segno quasi perfettamente opposto, tra la marea montante dei grandi Paesi non occidentali in ascesa e «un Occidente sempre più rinchiuso nella postura strategica e persino nell'attitudine psicologica dell'assedio».

Che in questo Occidente in vena di esaurimento quanto a supremazia, l'Europa sia una semplice appendice, è la chiave di volta, ne abbiamo già accennato, dell'analisi di Caracciolo, che ne dà però una lettura controcorrente rispetto al mainstream dello stesso pensiero occidentale. «Non solo il soggetto Europa non esiste né appare alla vista, ma l'organizzazione dello spazio europeo è ispirato al principio di impedire che si formi. Perché è questo l'interesse degli Stati Uniti d'America: un continente stabile, ma non troppo, da loro strategicamente dipendente». L'Europa per come è venuta a identificarsi, è in fondo un prodotto dell'europeismo americano. In senso geopolitico, perché la incardina oltreoceano impedendole di essere un contropotere. In senso ideologico, in quanto sostiene un europeismo europeo «incapace di unire gli europei», ma «utile per pacificarli, adagiarli nel declassamento inevitabile dopo aver perso due guerre mondiali. Parcheggiandoli nella post-storia».

Tre generazioni dopo l'invenzione del «progetto europeo», è l'amara conclusione di Caracciolo, «quello che avrebbe dovuto evolvere la nostra potenza decaduta in un soggetto geopolitico unitario, constatiamo di essere oggetti di attori e di dinamiche che ci trascendono. E oppongono gli uni agli altri. Niente di straordinario. Storie ordinarie, anzi, che riempiono il vuoto dell'europeistica fine della storia, talmente eccezionale da non appartenere a questo mondo».

Ciò che resta sullo sfondo è la mobilitazione delle frasi fatte, ovvero la chiamata alle armi, settant'anni dopo, come scrive Colombo, «non soltanto ovunque contro lo stesso nemico, ma addirittura contro lo stesso di sempre - il fanatismo, il fascismo (islamico o di Vladimir Putin), le autocrazie, espressione di una indifferenza senza limiti alle specificità storiche e culturali, oltre che di una vocazione narcisistica a interpretare qualunque vicenda storica e politica come proiezione della propria». Da una promessa irrealistica di sicurezza, la parabola dell'ascesa e declino dell'ordine liberale si è concretizzata in una percezione esagerata dell'insicurezza. Ma era proprio «la vacanza liberale dal pericolo», e dalla storia stessa sentita come pericolo, a essere un'anomalia. Ed è a questa anomalia che dobbiamo l'estremo paradosso del nuovo secolo, ovvero la trasformazione di una propensione dichiaratamente pacifica alla sicurezza in una bellicosa disponibilità alla mobilitazione permanente. Come aveva detto, prefigurando il futuro, Carl Schmitt, la guerra dietro l'apparenza della pace si trasforma in «un provvedimento pacifico accompagnato da battaglie di più o meno grande portata»...

Democrazia vs autarchia, l’altra Coppa del mondo di calcio. Infodata Il sole 24 ore il 17 Novembre 2022 

Statista si è divertita  a giocare il Campionato del mondo di calcio delle forme di governo. Che è un campionato a due perché vuole dire nella sostanza schierare la democrazia contro autarchia (o viceversa).  Proviamo a fare due conti: in totale se prendiamo i mondiali maschili dal 1930 a oggi 18 paesi  hanno ospitato 23 volte la coppa del mondo. Brasile, Germania, Francia, Italia e Messico hanno ospitato due volte il torneo più famoso di sempre. Nella maggior parte dei casi, la competizione si è svolta in paesi con un sistema di governo democratico. Qui sotto una mappa dimostra che non è sempre stato così.

Partiamo da noi, nel 1934 in Italia c’era il fascismo. Nel 1978 al potere in Argentina c’era una giunta militare guidata dal generale Jorge Rafael Videla. Anche recentemente l’organo di governo mondiale FIFA ha assegnato la Coppa del Mondo due volte di fila a paesi governati in modo autocratico. Parliamo della Russia di Putin che ha ospitato il torneo nl  2018, e lo stesso vale adesso per  il Qatar . L’emiro Tamim bin Hamad Al Thani governa il paese come sovrano assoluto; non esistono elezioni democratiche o partiti politici. Freedom House scrive “Mentre i cittadini del Qatar sono tra i più ricchi del mondo, la maggior parte della popolazione è composta da non cittadini senza diritti politici, poche libertà civili e accesso limitato alle opportunità economiche“.

Modello Kyjiv. La fragilità dei regimi autoritari e l’occasione delle democrazie liberali. Alessandro Cappelli su L’Inkiesta il 7 Dicembre 2022

Il 2022 ha messo a nudo le debolezze di Russia, Iran e Cina che per un decennio hanno minato la stabilità e le certezze del mondo occidentale. I prossimi mesi offrono lo spazio politico per creare un mondo più sicuro e più giusto

L’invasione dell’Ucraina non va come Vladimir Putin aveva programmato e sperato, la politica zero-Covid di Xi Jinping mostra crepe che forse non si potranno riparare, la brutalità della repressione nell’Iran dell’Ayatollah Ali Khamenei ha attirato gli occhi di tutto il mondo. È stato un anno difficile per le autocrazie di Russia, Cina e Iran, che si affacciano al 2023 vacillando, perlopiù per ferite autoinflitte, di fronte a scenari ostili come mai si erano mai trovati prima.

Questi momenti di flessione non saranno necessariamente prodromici a una rivoluzione, a una svolta democratica o a trasformazioni radicali e definitive in quei Paesi – al momento non sembrano le opzioni più probabili, forse nemmeno possibili nel breve termine. Di fronte alle rispettive difficoltà, ognuno con le sue specifiche e i suoi problemi, Mosca, Pechino e Teheran reagiranno alle proteste e alle débâcle con nuove repressioni, con nuove strette che al massimo potranno bilanciare delle concessioni, più o meno concrete, più o meno di facciata.

Nell’ultimo decennio i regimi autoritari hanno potuto e saputo minare la stabilità delle democrazie liberali – e in generale in tutti i continenti –, penetrando nelle istituzioni, trovando sostegno nell’opinione pubblica, formando aspiranti epigoni. Se l’Iran ha avuto un protagonismo soprattutto regionale in Medio Oriente, Russia e Cina sono state l’avanguardia che ha ispirato un’ondata illiberale e antidemocratica capace di cancellare le conquiste civili e sociali in Myanmar, in Ungheria, a El Salvador, in Tunisia.

La pandemia, almeno in un primo momento, sembrava corroborare la tesi della superiorità del modello autoritario, apparentemente impermeabile alle difficoltà della crisi sanitaria, poi sfociata in crisi economica, energetica, degli approvvigionamenti di materie prime.

A febbraio 2021, a circa un anno dai primi lockdown generalizzati visti quasi in tutto il mondo, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden aveva parlato alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza descrivendo un punto di flessione per le democrazie liberali, in un mondo minacciato «dagli abusi economici della Cina», dal pericolo militare della Russia (mancava ancora un anno all’invasione dell’Ucraina, ndr), delle «attività destabilizzanti dell’Iran in Medio Oriente».

Sono passati meno di due anni da quel discorso, ma sembra già cambiato tutto: il 2022 ha dato al mondo una prospettiva diversa. All’epoca Biden si era appena insediato alla Casa Bianca, e aveva preso il posto che per quattro anni era stato di Donald Trump; oggi si avvia verso il suo terzo anno da presidente, e ha l’opportunità politica di dimostrare che il fronte democratico internazionale ha saputo risollevarsi e ha retto meglio del modello autoritario di Cina e Russia (che invece mostra evidenti segni di debolezza).

Lo si legge nei numeri della guerra sconsiderata di Putin: un’invasione criminale che in Ucraina ha provocato la morte di 6.700 civili – secondo l’Onu –, ha spinto più di un milione di russi a fuggire dal loro Paese, ha frenato l’economia russa, ha mostrato le debolezze di un esercito che si è rivelato poco addestrato, poco disciplinato e privo di organizzazione.

Lo si legge anche negli errori di Pechino, che ha sovrastimato l’efficacia a lungo termine della politica zero-Covid e ora si trova a dover fronteggiare proteste su larga scala, un movimento spontaneo e decentralizzato difficile da frenare: è la sfida più ardua dell’era di Xi Jinping e mostra come qualcosa si sia rotto nel patto sociale tra la Cina e i suoi abitanti («meno diritti politici, più benessere economico»). Le proteste in Iran nascono da presupposti e condizioni profondamente diverse da quelle cinesi, ma anche in questo caso i cittadini contestano i modi di un regime che fa della repressione e della corruzione la sua cifra, ed è visto dalla popolazione come un nemico, un muro da abbattere.

A ottobre, Francis Fukuyama aveva ripreso sull’Atlantic la sua teoria della “fine della storia”, scrivendo che gli Stati autoritari hanno mostrato soprattutto due tipi di punti deboli: in primo luogo, la concentrazione del potere nelle mani di un unico leader al vertice garantisce un processo decisionale di bassa qualità e nel tempo produrrà conseguenze davvero catastrofiche. In secondo luogo, l’assenza di discussioni e dibattiti pubblici negli Stati autoritari significa che il sostegno del leader è superficiale e può erodersi in un attimo.

Ma la democrazia liberale non può limitarsi ad aspettare che questi regimi rivelino ulteriori aspetti delle loro fragilità. «Gli Stati Uniti e i loro partner globali», ha scritto Frederick Kempe in un articolo pubblicato sull’Atlantic Council, «dovrebbero sfruttare il momento per indirizzare la competizione tra democratici e despoti che definirà l’ordine post Guerra Fredda: il 2023 è un’opportunità per segnare guadagni duraturi».

L’invasione dell’Ucraina può essere d’insegnamento: c’è una dittatura che cerca di schiacciare uno Stato vicino, libero e indipendente, e la resistenza di Kyjiv al revisionismo russo – che è prima di tutto una lotta per la sopravvivenza – espone tutte le debolezze di uno Stato apparentemente troppo più grande, più forte, più armato e dimostra che il futuro può essere diverso, migliore, libero. Così, con il 2022 che volge al termine, le democrazie liberali possono fare fronte comune e lavorare insieme per modellare il loro futuro, per creare un mondo più sicuro, prospero e giusto.

La sfiducia nelle democrazie: “noi” contro “loro”. Chiara Salvi il 21 Novembre 2022 su Inside Over.  

Il 70% della popolazione mondiale vive in un regime autocratico. In media, il livello di democrazia di cui gode un cittadino è ai livelli del 1989. Gli Stati che stanno vivendo un deterioramento della democrazia sono 35, dieci anni fa erano solamente cinque. Lo stesso numero vale per gli Stati in cui la libertà di stampa viene limitata. E la fiducia nelle democrazie che ancora (r)esistono sta diminuendo.

È questa l’immagine che risulta dal Democracy Report 2022 dell’Istituto V-Dem e dal Democracy Index 2021 dell’Economist Intelligence Unit (Eiu): una democrazia agli stremi, regimi democratici deboli che vengono infiltrati da tendenze autocratiche e democrazie storicamente forti che vedono la fiducia da parte delle loro popolazioni in calo.

La pandemia di Covid-19 è servita da catalizzatore a delle tendenze già presenti nell’ecosistema, che sono perlopiù il risultato di un susseguirsi di eventi importanti e destabilizzanti, quali per esempio crisi economiche, politiche e sociali e la pandemia Covid-19, che si sono unite a una predisposizione critica di alcuni cittadini.

Come spiegare queste tendenze

Bisogna partire da alcuni presupposti: le persone si fidano di meno di un governo formato da un partito che non hanno votato o che non rappresenta la loro posizione politica. Altrettanto è da osservare che laddove siano in atto delle crisi, di qualunque genere, le persone tendono ad attribuirne la responsabilità al governo. L’effetto di “rally ‘round the flag”, dove in caso di crisi improvvise le persone si riuniscono intorno alla propria “bandiera”, perde di impulso dopo un po’ e se la crisi proseguirà, il risultato sarà molto probabilmente un rinnovato calo della fiducia. Inoltre, la fiducia è maggiore nelle istituzioni e minore in quelle che sono figure politiche e partiti, specialmente laddove la popolazione ha l’impressione che questi attori cerchino solo di perseguire i propri interessi.

In un sistema internazionale liberale, in cui il flusso dei mercati e dell’informazione è ininterrotto, può succedere che le persone abbiano l’impressione di perdere il senso di controllo di ciò che li succede attorno e che si sentano attori passivi di un sistema. Il bisogno innato di ordine rischia così di portare a una nuova identificazione di quello che è il “noi” e il “loro“, ovvero di quello che è il confine tra una comunità con un’identità condivisa e di quello che è estraneo. La polarizzazione, in questo senso, viene accelerata, almeno in parte, dall’uso di internet: durante la pandemia il web è diventato punto di approdo, ancora di più di quanto non lo fosse già, per informarsi e mantenere un minimo di contatti sociali. È qui che si fanno largo due fenomeni associati all’attività sul web: le filter bubbles e gli echo chambers. Il primo fenomeno delinea come ogni individuo di internet si trovi all’interno di una bolla che filtra il contenuto al quale viene esposto un utente, in base ad algoritmi che analizzano i suoi interessi e le sue preferenze. Le camere d’eco sono invece tipiche dei siti di social media, dove persone con interessi simili si ritrovano inserite in “stanze” virtuali a discutere delle loro idee e opinioni.

Viene naturale la ricerca di contatti con persone che abbiano opinioni simili alle proprie, comportamento noto come bias di conferma, un bias cognitivo per il quale le persone tendono naturalmente a rimanere dentro ambiti e discussioni che confermano le loro convinzioni pre-acquisite. I fenomeni appena descritti risultano però “pericolosi” in quanto tendono ad isolare la persona da opinioni e informazioni diverse dalle proprie, “chiudendo” per così dire la stanza da quello che può essere uno scambio di informazioni costruttivo.

La rivolta americana

Prendiamo l’esempio dell’insurrezione della destra americana del 6 gennaio 2021 in cui un gruppo di manifestanti ha invaso le strade di Washington D.C. e preso d’assalto il Campidoglio, sede del Congresso americano che in quel momento stava procedendo alla formalizzazione della nomina a presidente degli Stati Uniti di Joe Biden. Gli insorgenti hanno richiesto l’annullamento delle elezioni “fraudolente” che avevano eletto Biden come successore di Donald J. Trump, inneggiando a Trump e utilizzando slogan come “Stop the steal – Fermate il furto.”

Questo atto di terrorismo interno, come è stato definito successivamente dall’Fbi, è stato l’apice di un processo iniziato anni dapprima e consolidatosi durante, e in parte anche grazie a, la presidenza Trump. Il presidente ha fatto infatti poco per mitigare la divisione sociale che si è stagliata in modo sempre più netto durante il suo mandato e anzi, ha appoggiato posizioni pericolose e radicali quali ad esempio quelle del gruppo QAnon, movimento di estrema destra americano.

L’orientamento apparentemente estremista di alcuni sostenitori di Trump non è però un fenomeno tanto circoscritto quanto si sperava inizialmente. In una delle ultime pubblicazioni documentarie rilasciate in adempimento al Foia (Freedom of Information Act), l’Fbi ha pubblicato una mail, rivolta a Paul Abbate, attuale vicedirettore dell’Fbi, datata 13 gennaio 2021, nella quale viene fatta presente l’esistenza di un numero non specificato di simpatizzanti delle insurrezioni del 6 gennaio facenti parte dell’Fbi e delle forze dell’ordine. Si legge ad esempio: “ho parlato con molti agenti afroamericani che hanno declinato offerte di entrare a fare parte dello Swat, perché non convinti del fatto che ogni singolo membro del loro team li proteggerebbe durante un attacco armato.”

Il risultato delle elezioni di metà mandato non ha però portato la “Red Wave”, l’ondata dei repubblicani, tanto prevista. Anzi, secondo il New York Times, si tratta di uno dei risultati migliori degli ultimi due decenni. Ma la candidatura per le elezioni presidenziali del 2024 da parte di Trump incontra una posizione dura di Biden, che lo identifica sempre ancora come la minaccia più grave per la democrazia statunitense.

Il caso italiano

Uno degli strumenti utilizzati per misurare il grado della fiducia nella democrazia è l’affluenza al voto. L’Italia quest’anno ha toccato il minimo storico, con un’affluenza del 63,9%. Dato poco sorprendente, se vediamo che secondo l’Istat solo il 37% degli italiani attribuisce un alto grado di fiducia al governo nazionale e solo un quinto dei cittadini ne attribuisce ai partiti.

Sarebbe riduttivo attribuire la diminuzione della fiducia a fenomeni di clusterizzazione online, lo sgretolamento della fiducia nella democrazia e nelle sue istituzioni è anche una risposta alla mancanza di valori: la globalizzazione e la susseguente interconnessione delle democrazie (principalmente occidentali) sta avendo un effetto lesivo sull’identificazione di valori politici nazionali dei loro cittadini. Il disorientamento causato dalla contaminazione di più obiettivi, bisogni e interessi, può spingere le persone verso un sentimento di maggiore confusione e quindi minore fiducia, o anche verso ideologie più estreme perché detentrici di valori più forti e chiari. Per analizzare un fenomeno che non richiami l’adesione a gruppi estremisti quali ad esempio The Base o QAnon, che comunque rappresentano un fenomeno circoscritto, basta osservare l’orientamento di destra che stanno prendendo molti governi dell’Europa occidentale. Uno spostamento da parte dell’elettorato verso posizioni che mettono in risalto valori nazionalisti è, in fondo, una delle prime reazioni a periodi di crisi.

Le implicazioni di un mondo aperto e vulnerabile

Alle persone si sta stagliando davanti un mondo in cui le decisioni politiche vengono prese all’interno di flussi globalizzati, percepite come scelte fatte per arricchire pochi invece che molti, ma i cui risultati, negativi e positivi, ricadono su tutti. Questo sentimento è fortemente presente nei paesi in cui l’infiltrazione di pratiche di corruzione è alta e fa sì che si rinforzi l’idea di un “noi”, individuato in questo caso nella popolazione, contrapposto a un “loro”, identificato con chi governa, come è successo ad esempio in Libano.

Delocalizzazione della produzione, disastri ambientali, pandemie avvertite in ritardo, crisi economiche come quella causata dal governo di Liz Truss, fanno sì che lo scontento all’interno della popolazione cresca e lasci spazio a dubbi e rancori, rivolti soprattutto verso il governo in carica. In paesi di antica democratizzazione questi malumori si risolvono solitamente entro i dibattiti pubblici, ma nei paesi più deboli, economicamente e politicamente, si infiltrano facilmente pratiche che aprono a prese di potere autoritario. La pandemia ha funto da benzina sul fuoco per alcuni di questi Stati, un esempio eclatante è il Myanmar.

Ciononostante, i paesi con le democrazie apparentemente più forti non possono cullarsi in sicurezza. “Se determinati comportamenti, attuati da uno Stato, non vengono sanzionati, verranno normalizzati e da lì si diffonderanno ad altri,” ha avvertito Edward Snowden, parlando della Cina durante un’intervista a Vice nel 2020. Analizzando l’introduzione di misure volte a controllare la diffusione della pandemia Covid-19 in Cina, adottate però anche ad esempio in Corea del Sud e in Giappone, è arrivato alla conclusione che potrebbero trasformarsi facilmente in strumenti di oppressione. Snowden ha sfiorato il tema della fragilità delle democrazie, che proprio per la loro natura di luogo aperto a molteplici opinioni, sono più facilmente infiltrate dall’esterno, anche da influssi autoritari.

Paola Del Vecchio per “Avvenire” l'1 novembre 2022.

«La politica continua a operare in base agli stessi concetti di potere, sovranità, democrazia, rappresentatività, nati 300 anni fa. Ma quella che aveva davanti Rousseau era una società omogenea, autarchica, con una forma rappresentativa che escludeva le donne, un'unità culturale e religiosa e scarse tecnologie. Dobbiamo chiederci quanto siano ancora appropriati per organizzare la convivenza nelle società del XXI secolo...». 

Daniel Innerarity (Bilbao, 1959) ha appena pubblicato Una teoria della democrazia complessa (Castelvecchi, pagine 384, euro 29,00), dove propone "un esercizio di rianimazione della democrazia in tempi incerti"; in parallelo è uscito in Spagna La sociedad del desconocimiento (Galaxia Gutenberg) in cui il filosofo offre chiavi per comprendere il ruolo della conoscenza nella società digitale globalizzata. 

Lei evidenzia che viviamo nell'era dell'incertezza e dell'insicurezza. In cosa si distingue dalle precedenti?

Come nella società della conoscenza, continua a essere necessario il sapere per risolvere i problemi. Ma, davanti alla dimensione gigantesca di quelli attuali, ai rischi e alle incertezze, dobbiamo gestire in qualche modo anche l'ignoranza, la conoscenza che non conosciamo, utilizzarla come una risorsa. 

Riflette sulla fine della mediazione sociale da parte di partiti, chiese, sindacati ecc. E sulla conseguente "deregulation del mercato cognitivo" che ha portato a democratizzare l'informazione ma, al contempo, a un ambiente informativo caotico,. Il progresso ha comportato una serie di effetti boomerang?

Ogni processo di emancipazione è accompagnato da un aumento della possibilità di scelta. Se c'è più sapere a disposizione, la conseguenza immediata è un ampliamento dello spazio del possibile e una minore sicurezza nel conosciuto, nella tradizione, nell'autorità riconosciuta. Questo processo, che è enormemente positivo, perché nessuno vorrebbe tornare a un sapere che limiti le opportunità di elezione, provoca molte patologie, disorientamento, angoscia. Oggi non abbiamo un problema di informazione, ma di orientamento.

Lei scrive che in questo smarrimento "ci affidiamo a mediazioni più invisibili, come l'algoritmo di Google o le reti sociali, più sottili forme di dominio". In mancanza di filtri, come si distingue il sapere dall'informazione spazzatura?

Ci sono due procedimenti. Uno in cui ognuno comprovi l'affidabilità di tutte le informazioni che riceve, completamente irrealista, perché supera le capacità individuali. L'altro è costruire meccanismi di fiducia ragionevoli, com' è nella natura umana: razionali, suscettibili di modifica, revisionabili. Solo così avanzeremo cognitivamente. 

Oggi sono più che mai necessarie persone, istituzioni che stabiliscano filtri e criteri, ma non alla maniera delle società tradizionali, riponendo fiducia cieca in un leader, bensì pluralizzando le fonti di informazione.

Di fronte alle crisi fare i conti con la funzione svolta dall'ignoranza significa dare ragione a chi nega l'evidenza?

Assolutamente no. Comprendere i motivi per cui le persone rifiutano la razionalità non equivale a dare loro ragione. A volte presentiamo la politica basata sull'evidenza scientifica con un certo orgoglio e disprezzo non tanto verso i negazionisti radicali, quanto verso la pluralità di valori che devono continuare a essere vigenti, anche se parliamo di evidenze. 

Una cosa è che dal punto di vista scientifico sappiamo molto sul cambio climatico, che è un fatto. Altra è che le misure, i modelli e la proporzione di sacrifici da fare per contrastarlo siano presentati come indiscutibili. D'altra parte, non c'è unanimità fra gli scienziati.

In Una teoria della democrazia complessa rileva che mentre la scienza ha cambiato buona parte dei suoi paradigmi, la politica non ha saputo altrettanto: quali sono i vecchi strumenti da rottamare?

Sarebbe più rapido rispondere con la domanda contraria: quali concetti della politica sono ancora utili? Va riscattato il nucleo normativo della democrazia e l'autogoverno dei cittadini liberi, perché sopravviva in contesti per i quali questi concetti non erano stati pensati. Poiché saremo in buona misura governati da algoritmi, perché l'attuale distinzione fra nazionale e transnazionale è molto confusa, le società sono enormemente plurali, le tecnologie molto difficili da regolare. A volte la destra parla di "adattamento" al mondo che viene, e la sinistra di "resistenza". Sono due strategie inadeguate. C`è bisogno di uno sforzo per ripensare gli ideali irrinunciabili.

Nella crescente interdipendenza, lei si appella a un'etica dei sistemi e delle organizzazioni, più che individuale. A quali valori non possiamo rinunciare?

Non sottovaluto affatto le virtù personali. Intendo dire che quando si tratta di disegnare la governance, è molto più utile immaginare sistemi nei quali le proprietà individuali siano meno rilevanti di quelle sistemiche, la cui efficacia dipende da che siano governati dalle persone più adeguate. Viviamo in società che hanno generato una complessità di attori, meccanismi, procedimenti in virtù dei quali è poco verosimile che un leader malvagio o provvidenziale realizzi grandi imprese.

La democrazia in buona misura è delimitare il potere di chi è al governo. Il che circoscrive molto la capacità di governanti nefasti di fare grandi danni, sebbene si paghi col fatto che non possiamo aspettarci grandi cose dalla politica concorrenziale. Le ultime elezioni in Italia, ad esempio, non sono così trascendentali come sembrerebbe. In un Paese che è in Europa, nella Nato, nell'euro, le cui università sono parte della comunità scientifica internazionale, le cui imprese operano nel commercio mondiale, la capacità di azione di chi arriva al potere è limitata. Se dovessi salvare un valore su tutti, sarebbe senza dubbio il pluralismo.

È il rispetto dell'altro, il dibattito aperto, la libertà di espressione, l'inclusione di voci diverse ciò che assicura la razionalità. Le nostre società, molto pluraliste, hanno il grande vantaggio di rendere più difficile la persistenza nell'errore. Se non possiamo arrivare all'intera verità - che come diceva Rawls è un'aberrazione, perché incompatibile con la cittadinanza democratica - possiamo almeno evitare di insistere nell'errore. L'intelligenza dei sistemi, che oggi ci sembra naturale, è una grande conquista evolutiva nell'Europa del XXI secolo. Il pluralismo non è la soluzione, ma senza pluralismo non c'è soluzione. 

Cari italiani, ve la do io la democrazia! Saverio Raimondo su La Repubblica l'1 Ottobre 2022. 

Saverio Raimondo riassume la parabola del “migliore dei sistemi possibili” da Solone ai giorni nostri. Mentre è in libreria il suo libro da “elettore riluttante”

La democrazia nasce ad Atene, nell'Antica Grecia, fra il VI e il V secolo a.C. Leggenda vuole che gli antichi greci, già inventori della Tragedia e della Commedia, mischiandole ottennero la Democrazia. In realtà l'inventore fu Solone, un politico e giurista ateniese, il quale fu il primo a pensare che tutti dovessero partecipare alle attività politiche e legislative - anche se il mattino dopo averlo pensato si svegliò con un gran mal di testa e la bocca tutta impastata.

Nota bene. Non illudetevi dai voti alti. I voti ottenuti dai candidati alle amministrative non sono voti esclusivamente personali, ma conseguiti attraverso alleanze e tradimenti. Con il voto con doppia preferenza di genere ognuno ha potuto fare l’alleanza con il candidato dell’altro sesso della medesima lista. I più furbi hanno stabilito alleanza con più partner disattendendo il principio della reciprocità.

Come diceva Giorgio Gaber l’ideologia, malgrado tutto, credo ancora che ci sia. Giorgio Gaber e la parabola sociale del pensiero. Tra «Ius Scolae», «fine vita», ambiente e politica, in fondo si può credere nella democrazia del pensiero. Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Agosto 2022

Tutti a dire che non ci sono più destra e sinistra: me ne siamo davvero convinti? Sono passati quasi trent’anni da quando se lo chiedeva Giorgio Gaber. Magari non ci sono più le ideologie del secolo scorso. Magari ora chiamiamole Barbie e Lol. Magari consideriamole più concezioni di vita che programmi politici. E però ora che andremo a votare non è che un centro-destra e un centro-sinistra non ci saranno, comprese una destra-destra e una sinistra-sinistra. E se riteniamo che stando in Europa non potremo che seguire le regole dell’Europa, c’è modo e modo di essere Europa.

E allora. Europei convinti o europei un po’ scettici? Un’unione sempre più stretta o Stati che conservino ampi pezzi della propria sovranità per motivi più o meno fondati? E così la cosiddetta scelta atlantica, cioè scelta dell’Occidente, Nato compresa. O assumere una posizione più indipendente con lo sguardo a regimi più illiberali nella crisi delle democrazie rappresentative? E a una nuova distribuzione di poteri nel mondo? E le diseguaglianze. Diseguaglianza non è solo povertà. Diseguaglianza è anche lavoro povero. Diseguaglianza è anche poco lavoro femminile. Diseguaglianza è anche poco lavoro giovanile. Diseguaglianza è anche divario fra Nord e Sud. Cercare di risolvere uno per uno questi disagi o puntare su un benessere più generale che premi chi è in vantaggio ma faccia salire il livello di tutti? È vero che con l’alta marea salgono anzitutto i panfili dei ricchi, ma salgono anche le barche dei pescatori. E continuare a puntare sulla locomotiva del Nord perché il Sud ne raccolga una parte?

Vedi di recente spiagge e tassisti. Se aprire alla concorrenza (che conviene ai consumatori) o difendere imprese e lavoratori che temono danni. Così le tasse e l’evasione fiscale.

Chi è convinto che non si paghino quanto si dovrebbe perché sono troppo alte. E chi ritiene che siano troppo alte perché in troppi non le pagano. Destra e sinistra qui dovrebbero avere un senso. E la proposta (Lega) sulla flat tax, tassa piatta, percentuale bassa e per tutti, ricchi e meno ricchi. Gli uni: crescerà l’economia con un vantaggio generale. Gli altri: sarà un regalo ai ricchi e ridurrà le entrate dello Stato per i servizi sociali.

E i diritti civili. Lo Ius Scolae: cittadinanza italiana ai figli di immigrati che hanno frequentato le scuole in Italia. Lo ius Soli: cittadinanza italiana ai figli di immigrati nati in Italia. Con chi si oppone perché bisogna pensare prima agli italiani. E chi lo considera l’unico mezzo per rimediare all’inverno demografico: non facciamo più figli e ne avremo bisogno. E cosa serve perché questi bambini tornino a nascere. Politiche per la famiglia, si dice. Finora l’unico campo in cui sono (siamo) stati tutti d’accordo: non si è fatto nulla. Mentre 100 mila giovani all’anno se ne vanno all’estero perché in un’Italia più giusta e con un futuro si crede sempre meno. Destra o sinistra che siano.

E il «fine vita»: la vita è mia e posso rinunciarvi se e quando voglio, o la vita non è un fatto privato e si deve dar conto alla comunità? E così l’aborto. E così il divorzio. E la difesa delle differenze sessuali, perversioni sociali o diritti individuali? Con la scuola alla base di ogni progresso ma sulla quale si sono finora sviluppati giochi senza frontiere con un risultato unico: sempre il peggior trattamento d’Europa. Da destra e da sinistra. Fino alla forma dello Stato, recentissima nuova entrata della campagna elettorale. Italia repubblica parlamentare o Italia repubblica presidenziale. Conferma della Costituzione uscita dalla sconfitta del fascismo. O modifica della Costituzione sull’altare di una migliore governabilità. E poi l’energia (nucleare o no).

E l’ambiente (rigassificatori in mare o no). E così le libertà, a cominciare da quella di stampa. E le minoranze. E la guerra in Ucraina. E l’inflazione. E il Covid. L’ideologia, l’ideologia, malgrado tutto credo ancora che ci sia, diceva Gaber. Ora si potrebbe tradurre: il mondo che vorrei per me e per chi verrà. Quanto a destra e sinistra, per il geniale cantautore milanese era di destra fare il bagno nella vasca, la doccia invece di sinistra. Finché non ha dato una versione più territoriale Luciano De Crescenzo: la doccia è milanese perché ci si lava meglio, consuma meno acqua e fa perdere meno tempo. Il bagno è invece napoletano. Un incontro con i pensieri, i sentimenti.

Sette sindache su 108. Ecco perché le donne non vengono elette. Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 18 Luglio 2022.

Dopo le ultime amministrative sono il 15% del totale (compresi i mini Comuni) e per lo più guidano centri con meno di 5000 abitanti. La legge sulla parità di genere esiste, il punto è che nei partiti prevale la cooptazione: «Gli uomini scelgono gli uomini». 

Alle elezioni del 12-26 giugno scorsi le uscenti erano due, quelle elette sono state tre. Chi vuol esser lieto sia, ma c’è davvero poco da rallegrarsi di fronte al numero di donne elette alla carica di sindaco in una tornata che ha visto chiamati al voto 26 capoluoghi di provincia. I numeri nella loro aridità sono sconsolanti. Katia Tarasconi a Piacenza, Chiara Frontini a Viterbo e Patrizia Manassero a Cuneo vanno ad “ingrossare” lo sparuto drappello di prime cittadine elette nelle città più importanti. Che ora sono “ben» 7 nei complessivi 108 capoluoghi di provincia italiani. 

Con l’uscita di scena, lo scorso anno, di Virginia Raggi a Roma e di Chiara Appendino a Torino, non c’è grande città che veda un volto femminile alla sua guida. La realtà più rilevante amministrata da una sindaca è Ancona, capoluogo anche di Regione, dove dal 2013 guida la giunta con piglio battagliero Valeria Mancinelli. Quando va bene, i sindaci chiamano una donna a ricoprire il ruolo di vice. A Milano c’è Anna Scavuzzo, a Roma Silvia Scozzese, a Torino Michela Favaro, a Napoli Maria Filippone. Di norma, si preferisce affidare altri incarichi. Fra i sindaci le donne rappresentano solo il 15 per cento, più alta la percentuale tra i vicesindaci (30 per cento), mentre i presidenti del Consiglio sono di sesso femminile nel 32 per cento dei casi e le assessore superano il 40 per cento. Come si vede, in qualunque caso si è molto lontani (a volte la distanza è siderale) da quella parità chedovrebbe essere semplicemente normale.

Le prime dieci

Ma non lo è, non lo è mai stata. Che ci fosse disparità fra uomini e donne, visti i retaggi storici, era un dato di fatto scontato nel lontano 1946, quando e donne furono ammesse per la prima volta al voto. Il debutto avvenne proprio in occasione di una tornata amministrativa: 5722 i Comuni interessati, dieci le donne elette sindaco (duemila circa le consigliere comunali). I loro nomi sono scolpiti nella storia: Ninetta Bartoli, Elsa Damiani, Margherita Sanna, Ottavia Fontana, Elena Tosetti, Ada Natali, Caterina Tufarelli Palumbo Pisani, Anna Montiroli, Alda Arisi e Lydia Toraldo Serra. Da allora sono stati sicuramente fatti passi in avanti, ma rispetto alle aspettative le distanze rimangono ancora molto marcate. Anche in questo caso, vengono in soccorso i numeri. In quarant’anni le sindache sono passate da 10 a 145. Poi c’è stato un salto in avanti, visto che nei successivi trent’anni sono salite a 1066 (il dato è del 2015), quasi dieci volte tanto, pur se va sottolineato che in 790 casi si trattava di Comuni con meno di 5 mila abitanti. Forse perché nelle realtà più piccole, meno assorbenti, era più facile conciliare impegno pubblico e incombenze private.

Il rallentamento

Quella crescita, già di per sé non al passo con gli spazi e i ruoli sempre maggiori conquistati dalle donne nella società e nel mondo del lavoro, ha fatto registrare negli anni successivi un incremento non trascurabile ma comunque non adeguato. Nel 2022, infatti, le sindache sono passate da 1066 a 1146. «È un tasto dolente» conferma Lorenza Bonaccorsi, responsabile del Dipartimento Pari opportunità di Ali (Autonomie locali italiane), già sottosegretaria ai Beni culturali, ora presidente del primo Municipio di Roma. «Si continua a fare una fatica terribile a guadagnare spazio. Soprattutto sul piano amministrativo, il sistema politico maschile tende all’autoconservazione e a procedere per cooptazione nello stesso ambito sessuale. Eppure, in sede locale il ruolo delle donne è sempre più apprezzato e si fatica a capire perché i partiti, a partire dal mio (il Pd, ndr ), non se ne rendano conto». 

Un obbligo

Il miglioramento c’è stato nel numero di consigliere comunali perché è stato introdotto l’obbligo di rispettare la parità di genere. Nel marzo scorso la Corte costituzionale con propria sentenza ha stabilito che debba essere obbligatoria anche nelle liste elettorali dei Comuni sotto i 5mila abitanti: la mancanza di un numero sufficiente di candidature di entrambi i sessi determina l’esclusione della lista. In Parlamento questo obbligo ha dato risultati concreti: nel 2018 sono state elette 334 donne, pari a poco più del 35 per cento, oltre la media europea che si attesta al 32,8 per cento. Nella storia amministrativa italiana si trovano sindache che hanno lasciato un segno profondo. Le più famose, in tempi recenti, sono state Raggi e Appendino, figure dirompenti anche dal punto di vista politico, elette nel momento d’oro dei Cinque stelle. Ma andando a ritroso ci si imbatte nei nomi di Letizia Moratti a Milano, Rosa Russo Jervolino a Napoli, Maria Magnani Noja a Torino, Elda Pucci a Palermo, Adriana Poli Bortone a Lecce. Tutte hanno dimostrato che l’essere donna non è un ostacolo al rivestire un ruolo pubblico. Appendino lo ha confermato combattendo nel 2016 la sua campagna per l’elezione a sindaca di Torino con il pancione: aspettava la primogenita Sara. «Io sono fortunata» ha spiegato in un’intervista «ho potuto scegliere di fare politica perché ho un marito che mi sostiene, l’aiuto dei genitori con la bambina. È una serie di condizioni su cui non tutte le donne possono contare. La domanda è: con l’attuale sistema di welfare quante donne sarebbero concretamente in grado di scegliere la politica come ho fatto io? Secondo me ancora poche».

Il vero nodo

Le normative possono aiutare, anche se alla base resta un grande nodo culturale irrisolto. La legge Delrio del 2014 prevede che nelle giunte dei Comuni con più di 3 mila abitanti nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento. Una prescrizione che poi ognuno ha interpretato a suo modo. Qualche esempio? A Torino c’è la parità perfetta: 6 assessori donne e 5 uomini più il sindaco (Stefano Lo Russo). A Milano, Roma e Bologna gli assessori sono in numero uguale per ambo i sessi e lo squilibrio è dato solo dal primo cittadino uomo. L’unica stecca nel panorama nazionale viene da Trieste dove il sindaco Di Piazza ha nominato solo 4 donne su 11 componenti la Giunta (lui compreso), non rispettando il tetto del 40 per cento.

Insetti, gender e migranti: ecco l'Europa del futuro. Francesco Giubilei il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.

Le 49 proposte approvate da una Conferenza poco partecipata (meno di 680mila persone coinvolte su 446 milioni di abitanti), sono un’occasione persa. Religione, tutela dei figli e natalità mai citate In compenso, attenzione a migranti e accoglienza.

L'esercizio di democrazia che avrebbe dovuto sancire il destino dell'Unione europea per i prossimi decenni coinvolgendo milioni di cittadini, si è rivelato, come spesso accade quando si ha a che fare con le istituzioni europee, più una trovata pubblicitaria che un'iniziativa con proposte davvero utili.

Così, la Conferenza sul futuro dell'Europa ha rappresentato l'ennesima occasione mancata e, nonostante il periodo sfortunato tra la pandemia e la guerra in Ucraina, la partecipazione di solo 674.357 cittadini a fronte dei 446 milioni di abitanti dei paesi Ue è un dato che non lascia spazio a interpretazioni. Ancor più perplessità suscitano le quarantanove proposte approvate dalla sessione plenaria della Conferenza in cui non trovano spazio le idee di chi immagina un'Unione europea differente da quella attuale. Alcuni punti sintetizzano una visione del futuro dell'Europa non solo discutibile ma che difficilmente rappresenta il sentimento della maggioranza dei cittadini europei.

Religione e radici cristiane Nelle cinquantasei pagine del documento non c'è nessun riferimento alle radici cristiane. Non solo le parole «cristianesimo», «cristiano», «cristiani» non sono presenti nell'intero documento né tanto temo il tema della cristianofobia ma nemmeno la parola «religione» è mai utilizzata. Segno di una visione del futuro dell'Europa totalmente secolarizzata.

Natalità Il tema della natalità, una delle principali emergenze dell'Europa, viene affrontato di sfuggita nella proposta numero 15 «transizione demografica» ma non si usano mai i termini «bambino» o «bambini» così come «figlio» o «figli».

Insetti In compenso, già dal punto due, si pone attenzione alla necessità di «proteggere gli insetti, in particolare quelli autoctoni e gli impollinatori».

Alimentazione Oltre a proporre «un regime alimentare basato sui vegetali per ragioni di protezione del clima e tutela dell'ambiente», si suggerisce di tassare «gli alimenti trasformati non sani» e «istituire un sistema di valutazione a livello europeo per gli alimenti trasformati», ovvero il Nutriscore.

Ambiente Il tema dell'ambiente viene utilizzato per accentrare il potere di Bruxelles a discapito degli Stati nazionali, non a caso si propone di «rafforzare il ruolo e l'azione dell'Ue nel settore dell'ambiente e dell'istruzione, ampliando la competenza dell'Ue nel settore dell'istruzione, dei cambiamenti climatici e dell'ambiente ed estendendo il ricorso al processo decisionale a maggioranza qualificata su temi ritenuti di interesse europeo, come l'ambiente».

Resilienza La parola ricorre con grande frequenza. Si parla di «resilienza dell'economia», «resilienza all'interno delle regioni», «resilienza globale dell'Europa», «resilienza demografica», «rafforzare la resilienza delle catene di approvvigionamento», «incoraggiare la resilienza» in ambito scolastico.

Famiglia Non si parla mai di famiglia ma di famiglie al plurale, termine che ricorre sette volte, al contrario di «genere» utilizzato ben quattordici volte. Mai usate le parole «mamma» o «madre» e «papà» o «padre», mentre si propone di «intervenire per garantire che tutte le famiglie godano di pari diritti familiari in tutti gli Stati membri. Tali diritti dovrebbero comprendere il diritto al matrimonio e all'adozione».

Diritti e doveri Addirittura trentanove volte è usata la parola «diritti», trentatré quella «diritto» e zero il termine «dovere», a testimonianza di un'Unione europea sbilanciata a favore dei diritti che non ricorda i doveri sia dei propri cittadini sia di chi arriva da fuori i confini europei.

Immigrazione Il tema dei migranti e dell'immigrazione è toccato a più riprese con un'attenzione enorme ai diritti dei migranti e al tema dell'integrazione e, mentre si usa l'espressione «immigrazione irregolare», non si menziona la difesa dei confini.

Libertà di espressione Al punto ventisette si parla di «media, notizie false, disinformazione, verifica dei fatti», un tema particolarmente delicato che si lega alla libertà di parola ed espressione che rischia di essere messa in discussione se si approvasse la proposta di istituire «un organismo dell'Ue incaricato di affrontare e combattere la disinformazione mirata e le ingerenze, migliorando la conoscenza situazionale e rafforzando le organizzazioni di verifica dei fatti e i media indipendenti».

Cosa c’è dietro una legge. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 27 Aprile 2022.

Se vai sui social o vai al bar, scopri che dietro una legge ci sono i poteri forti. Un’affermazione generica, ma non per questo falsa. Sì, dietro molte leggi ci sono i poteri forti e questo è quasi sempre un bene. Ci dovremmo preoccupare del contrario. Mi spiego meglio. Sarebbe un tradimento della democrazia se le norme fossero pensate e scritte in una stanza chiusa, senza rapporti con il mondo esterno o ammettendo in quella stanza solamente organizzazioni o enti minoritari. Verrebbero fuori leggi bislacche, inutili e inapplicabili. È bene invece che le norme siano scritte dopo aver ascoltato le esigenze delle categorie di cittadini o di imprese per le quali sono state elaborate. Questo non significa che siano buttate giù sotto dettatura della categoria più forte, ma che la norma non è campata per aria, buona in teoria, ma distante dal contesto nel quale si applica.

Per la rubrica di Telos A&S Lobby Non Olet, abbiamo parlato di questo argomento con Simona Finazzo, direttore dei rapporti istituzionali di Confindustria: “Confindustria viene sempre ascoltata e coinvolta nei processi legislativi o comunque nelle fasi preliminari del processo legislativo. Ovviamente ciò non toglie che ci sia, in parallelo o in contemporanea, un coinvolgimento delle singole imprese, ma il punto di vista sul sistema produttivo e sull’interesse di carattere generale è un contributo che Confindustria dà al decisore pubblico e, successivamente, al processo legislativo”.

Simona Finazzo nell’intervista ricorda che nel periodo della pandemia, Confindustria si è fatta portavoce delle imprese per i temi dell’accesso al credito e della liquidità. Allo stesso modo, recentemente il suo centro studi ha elaborato un’analisi sul rincaro dell’energia e delle materie prime, fornendo al legislatore un quadro della situazione delle imprese italiane. Poi ribadisce che questi approfondimenti servono a fare del lobbying un’attività di interesse generale, cioè non per questa o quella impresa, ma per le imprese di un intero settore.

Interesse generale non significa però interesse di tutti. Nello stesso settore ci sono certamente esigenze divergenti. E gli interessi di un intero settore possono scontrarsi con quelli di un altro. Sarà poi compito del legislatore ascoltare tutte le voci, almeno dovrebbe… Ricordiamo che rappresentanza significa democrazia. E più ce n’è, meglio è.

(ANSA il 30 aprile 2022) - "Il paradosso oggi è che è la mafia dei gay il problema. Non l'essere omosessuale, ma la mafia degli omosessuali, delle lesbiche". A pronunciare le frasi shock è Luca Barbareschi durante la presentazione di un evento culturale a Sutri, il paese in provincia di Viterbo guidato dal sindaco Vittorio Sgarbi, anche lui presente durante l'invettiva dell'attore con tanto di fascia tricolore. Le parole dell'ex deputato stanno facendo il giro del web, sollevando critiche e polemiche. 

"Quelle di Barbareschi sono parole inaccettabili", tuona il Lazio Pride ricordando che "nel 2018 il Pride di Ostia, organizzato da Lazio Pride, fu dedicato proprio alle vittime delle mafie, in gemellaggio con il Pride di Napoli". "La comunità Lgbt è vittima della criminalità organizzata - si legge in una nota -, che sfrutta e opprime le condizioni di disagio di chi è vittima di omofobia. Barbareschi chieda scusa. 

Lazio Pride è schierato nel contrasto alle mafie e continueremo a farlo il 25 giugno e il 9 luglio ai Lazio Pride di Albano Laziale e Viterbo". "Siamo fortemente delusi per le parole di Barbareschi pronunciate a Sutri - ha detto Virginia Migliore, presidente di Peter Boom Arcigay Viterbo e originaria di Palermo -. Mafie e comunità Lgbt sono in antitesi. Il 9 luglio saremo in piazza al Viterbo Lazio Pride anche contro le mafie, come già Lazio Pride fa da anni.

La sinistra fuori dal mondo ci riprova con la legge Zan. Francesco Maria Del Vigo il 5 Maggio 2022 su Il Giornale.

Provate a fare un esercizio: chiudete gli occhi e pensate a quali sono le cose importanti per il Paese, per le nostre vite. Per la politica. Be’, sicuramente la guerra in Ucraina, il pericolo che il conflitto cresca esponenzialmente fino a diventare mondiale, il terrore che la follia arrivi a lambire l’impensabile, cioè l’arsenale atomico. E poi le ricadute economiche per l’Italia, il prezzo dell’energia elettrica così alto che ormai la bolletta sembra il conto di un ristorante stellato, la carenza di materie prime, la pressione fiscale, lo spread che sale, la Borsa che scende e ora Draghi che si è pure messo a smantellare il superbonus. E, volendo continuare, la riforma della giustizia, la legge elettorale e tutte le beghe interne alla maggioranza. Stop. Basta. Terminiamo l’esercizio per non ingenerare accessi di ansia in chi legge e, a dire il vero, anche in chi scrive.

Ma la lista sarebbe più lunga, anzi potrebbe essere infinita, tanti sono i nodi da sciogliere che l’attualità ci offre. Però, tra sessanta milioni abbondanti di italiani, ci sono due persone che non hanno tutti questi grattacapi, non si arrovellano su sciocchezze pedestri come le guerre o l’economia che va a rotoli. E noi, lo diciamo senza alcuna traccia di ironia, li invidiamo: vorremmo essere esattamente come loro. Con quel «giusto» distacco dalla realtà che ti permette di vivere un’esistenza vagamente marziana. E di quei due (magari sono molti di più, ma non possiamo saperlo) sappiamo anche nome e cognome: Enrico Letta e Monica Cirinnà, rispettivamente leader del Partito democratico e senatrice del medesimo partito. Letta e Cirinnà, serafici, come se nulla fosse, come se non esistesse tutto il casino sopraccitato, hanno rilanciato per la milionesima volta il Ddl Zan. Fondamentale, no? Tipico della sinistra che passa ore a scrutarsi l’ombelico, senza cogliere nulla di quello che le orbita attorno.

«È doveroso che diventi legge entro la fine di questa legislatura, credo sarebbe una sconfitta se chiudessimo senza aver portato a termine l’approvazione di questo provvedimento», ha detto Letta, col cipiglio delle occasioni più solenni, presentando in Senato il nuovo (in realtà vecchio) disegno di legge contro la omotransfobia. Disegno di legge, per altro, divisivissimo, accusato da più parti di limitare la libertà di espressione con la scusa di perseguire reati (quelli discriminatori) che nella nostra Costituzione e nelle nostre leggi sono già ampiamente (e giustamente) perseguiti. Così il ddl Zan a più di sei mesi dal suo affossamento in Senato, ora torna in pista. Non sappiamo che fine farà la legge questa volta, sappiamo solo che i democratici sono più fuori dal mondo degli astronauti della stazione spaziale che ha appena accolto AstroSamantha. E i sondaggi, infatti, non perdonano.

La casta delle toghe. La casta delle toghe dai ricchi stipendi: tenetevi il denaro ma mollate un po’ di potere…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 5 Maggio 2022. 

Non c’è niente di male nel puro fatto che i magistrati ricevano un ricco stipendio. Certo, chi reclamasse che nel nostro Paese ci vorrebbe un po’ di giustizia sociale, un po’ di redistribuzione, inevitabilmente darebbe un’occhiata alla busta paga del funzionario in toga, che è la più sontuosa d’Europa e supera di due, di tre, di quattro, di cinque volte quella di qualsiasi pubblico dipendente. Ma lasciamo pur perdere i paragoni, e accantoniamo pure la sperequazione che favorisce in quella misura i nostri magistrati rispetto a tutti i loro colleghi stranieri e ai lavoratori della pubblica amministrazione estranei alla cerchia giudiziaria.

E invece domandiamo: ma un simile privilegio, che qualcuno potrebbe ritenere già in linea di principio ingiustificabile, non dovrebbe almeno essere impetrato e concesso sulla scorta di qualche controllo di professionalità? Non dovrebbe, cioè, almeno escludersi che tanto salario sia riconosciuto solo per appartenenza castale, e cioè solo perché uno è impancato ad arrestare la gente e a giudicarla, senza nessuno scrutinio su come quel lavoro è condotto? Né ancora basta. Perché questa ricchezza è intestata a una categoria che vede associato al proprio privilegio economico un potere incomparabile: due cose che in democrazia, al contrario, non dovrebbero andare di conserva.

E non perché chi ha tanto potere dovrebbe esercitarlo gratis, ma perché prevalere sugli altri in potere e in danaro, per l’esercizio di un ruolo che simultaneamente assicura l’uno e l’altro, produce un rapporto di doppia subordinazione: pressappoco quello che c’è tra il nobilastro che impone al villano non solo la tassa ma anche il rispetto di rango, due cose funzionalmente collegate in reciproca giustificazione. Ci opporremmo con forza, se qualcuno proponesse di ricondurre a giustizia lo stipendio dei magistrati. Piacerebbe tuttavia che essi mostrassero meno resistenza all’idea che la società, lasciandoli ricchi, pretenda però di limitare almeno un pizzico del loro potere. Un po’ come in democrazia si fa appunto coi nobili, cui si lasciano i possedimenti ma non il potere di fare il bello e il cattivo tempo sulla vita degli altri. Iuri Maria Prado

 Il dibattito sulla riforma. I magistrati vogliono il potere politico: Mattarella perché resti in silenzio? Riccardo Polidoro su Il Riformista il 5 Maggio 2022. 

La struttura democratica del nostro Paese si basa su tre poteri: il legislativo, che compete al Parlamento; l’esecutivo che compete al Governo; quello giudiziario, che spetta alla Magistratura. La loro separazione è elemento essenziale. Ciò garantisce che essi non si concentrino in unica categoria o persona, al fine di scongiurare il pericolo di una dittatura. Tale premessa è di fondamentale importanza nel momento in cui si voglia esaminare quanto sta accadendo in questi giorni in merito alla riforma dell’ordinamento giudiziario, cioè all’introduzione di nuove norme in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura.

I partiti politici hanno assunto varie posizioni e il dibattito ha ridotto di gran lunga le aspettative di un concreto cambiamento e di un’effettiva svolta che potessero effettivamente apportare quelle modifiche di sistema per far riemergere il mondo giudiziario da un abisso mai prima d’ora toccato. Nonostante si prospettino, quindi, piccoli e poco significativi passi in avanti di quel necessario percorso di civiltà giuridica, l’Associazione nazionale magistrati ha ritenuto di annunciare una giornata di sciopero per denunciare all’opinione pubblica che la prospettata riforma non è altro che una legge per intimidire la magistratura. L’Associazione, a cui aderisce circa il 96% dei magistrati e che ha il fine di tutelare i valori costituzionali, l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, ha, nei giorni scorsi, acquistato un’intera pagina dei più importanti quotidiani nazionali per illustrare le ragioni della protesta.

“Una riforma sbagliata” è il titolo che campeggia in alto e subito dopo una serie di affermazioni dell’Anm, che si concludono con il riferimento al rispetto del principio della separazione dei poteri e ricordando che i magistrati sono soggetti soltanto alla legge. Appunto! verrebbe da dire. C’è il potere legislativo che, unitamente a quello esecutivo, sta elaborando una riforma e, proprio nel rispetto della separazione dei poteri, quello giudiziario – che ha tutt’altre prerogative non meno importanti – non dovrebbe entrare a gamba tesa, addirittura minacciando di fermare la propria attività, incrociando le braccia per un giorno. La Costituzione prevede che i magistrati siano soggetti soltanto alla legge, non che debbano scriverle.  Tale principio di palmare evidenza, e che non può trovare diversa interpretazione, nel corso degli anni si è del tutto affievolito fino a far dimenticare i limiti delle competenze della magistratura che, pur avendo il delicato ruolo di indagare e giudicare, decidendo quindi delle sorti della vita altrui, non è chiamata a legiferare. Ma la storia, soprattutto recente, ci dice purtroppo che non è così. Con buona pace della separazione dei poteri.

L’attuale presidente dell’Associazione nazionale magistrati è stato capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia dall’ottobre 2015 al febbraio 2018 ed in precedenza, dall’agosto 2013, ha svolto le funzioni di vice capo con compiti di coordinamento del settore penale. Cinque anni presso l’Ufficio legislativo. Del resto è prassi che il capo di Gabinetto del ministro della Giustizia sia un magistrato, mentre possono essere fino a duecento quelli fuori ruolo, la maggior parte dei quali distaccati proprio al ministero della Giustizia che, dunque, è gestito in gran parte dal potere giudiziario. Tale inconcepibile ed innaturale innesto – di cui si auspica la fine al più presto – ha avuto l’effetto di trasformare la cultura dei magistrati, i quali, invece di gestire il loro immenso potere giudiziario, cercando di esercitarlo nel migliore dei modi, vogliono un potere politico non di loro competenza. Nella predetta pagina a pagamento si legge, tra l’altro, che «avremmo voluto una riforma del Csm che riducesse il peso delle correnti..».

Ma le correnti non nascono in seno all’Anm? E non sarebbe opportuno che proprio l’Anm si ponesse finalmente il problema di ridimensionarne il potere, soprattutto alla luce di quanto accaduto negli ultimi anni? Ed ancora si legge: «Quella che si sta materializzando è una riforma che non ha come scopo quello di preservare la qualità delle decisioni dei magistrati…». Affermazione che mette in luce, ancora una volta, che chi giudica gli altri non vuole essere giudicato nemmeno dai propri colleghi – come del resto prevede la riforma – e la volontà di lasciare immutata la situazione attuale, nella quale non esiste alcuna concreta penalità per il magistrato incapace. Al più – e raramente – un trasferimento per fare danni in altri luoghi. Un incomprensibile e deleterio sciopero, dunque, di uno dei tre poteri dello Stato contro gli altri due poteri, nel silenzio – almeno fino ad ora – del Capo dello Stato che è anche capo del Consiglio superiore della magistratura. Riccardo Polidoro

Dalla casa di Guerini agli Angelucci: ecco la rete del lobbista dei misteri. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 29 aprile 2022

Il nome di Sergio Pasquantonio, lobbista e professionista del campo sanitario, è spuntato fuori in alcuni verbali di Piero Amara e Fabrizio Centofanti. Secondo Amara, PAsquantonio era uno dei «vecchi» della presunta Loggia Ungheria.

Pasquantonio ha smentito, annunciando denuncia per calunnia. Ma chi è il misterioso lobbista che frequenta i potenti della politica e dell’imprenditoria?

Pasquantonio conosce bene Zingaretti, gli Angelucci. «Tinebra? Era un amico». Rapporti anche con il ministro della Difesa Guerini, che ha affittato casa della figlia a Monti

EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Antonio Giangrande: DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.

La coperta corta e l’illusione della rappresentanza politica, tutelitaria degli interessi diffusi.

Di Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande ha scritto i libri che parlano delle caste e delle lobbies; della politica, in generale, e dei rispettivi partiti politici, in particolare.

La dittatura è una forma autoritaria di governo in cui il potere è accentrato in un solo organo, se non addirittura nelle mani del solo dittatore, non limitato da leggi, costituzioni, o altri fattori politici e sociali interni allo Stato. Il ricambio al vertice decisionale si ha con l’eliminazione fisica del dittatore per mano dei consanguinei in linea di successione o per complotti cruenti degli avversari politici. In senso lato, dittatura ha quindi il significato di predominio assoluto e perlopiù incontrastabile di un individuo (o di un ristretto gruppo di persone) che detiene un potere imposto con la forza. In questo senso la dittatura coincide spesso con l'autoritarismo e con il totalitarismo. Sua caratteristica è anche la negazione della libertà di espressione e di stampa.

La democrazia non è altro che la dittatura delle minoranze reazionarie, che, con fare ricattatorio, impongono le loro pretese ad una maggioranza moderata, assoggetta da calcoli politici.

Si definisce minoranza un gruppo sociale che, in una data società, non costituisce una realtà maggioritaria. La minoranza può essere in riferimento a: etnia (minoranza etnica), lingua (minoranza linguistica), religione (minoranza religiosa), genere (minoranza di genere), età, condizione psicofisica.

Minoranza con potere assoluto è chi eserciti una funzione pubblica legislativa, giudiziaria o amministrativa. Con grande influenza alla formazione delle leggi emanate nel loro interesse. Queste minoranze sono chiamate "Caste".

Minoranza con potere relativo è colui che sia incaricato di pubblico servizio, ai sensi della legge italiana, ed identifica chi, pur non essendo propriamente un pubblico ufficiale con le funzioni proprie di tale status (certificative, autorizzative, deliberative), svolge comunque un servizio di pubblica utilità presso organismi pubblici in genere. Queste minoranze sono chiamate "Lobbies professionali abilitate" (Avvocati, Notai, ecc.). A queste si aggiungono tutte quelle lobbies economiche o sociali rappresentative di un interesse corporativo non abilitato. Queste si distinguono per le battagliere e visibili pretese (Tassisti, sindacati, ecc.).

Le minoranze, in democrazia, hanno il potere di influenzare le scelte politiche a loro vantaggio ed esercitano, altresì, la negazione della libertà di espressione e di stampa, quando queste si manifestano a loro avverse.

Questo impedimento è l'imposizione del "Politicamente Corretto” nello scritto e nel parlato. Recentemente vi è un tentativo per limitare ancor più la libertà di parola: la cosiddetta lotta alle “Fake news”, ossia alle bufale on line. La guerra, però è rivolta solo contro i blog e contro i forum, non contro le testate giornalistiche registrate. Questo perché, si sa, gli abilitati sono omologati al sistema.

Nel romanzo 1984 George Orwell immaginò un mondo in cui il linguaggio e il pensiero della gente erano stati soffocati da un tentacolare sistema persuasivo tecnologico allestito dallo stato totalitario. La tirannia del “politicamente corretto” che negli ultimi anni si è impossessata della cultura occidentale ricorda molto il pensiero orwelliano: qualcuno dall'alto stabilisce cosa in un determinato frangente storico sia da ritenersi giusto e cosa sbagliato, e sfruttando la cassa di risonanza della cultura di massa induce le persone ad aderire ad una serie di dogmi laici spacciati per imperativi etici, quando in realtà sono solo strumenti al soldo di una strategia socio-politica.

Di esempi della tirannia delle minoranze la cronaca è piena. Un esempio per tutti.

Assemblea Pd, basta con questi sciacalli della minoranza, scrive Andrea Viola, Avvocato e consigliere comunale Pd, il 15 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Mentre il Paese ha bisogno di risposte, la vecchia sinistra pensa sempre e solo alle proprie poltrone: è un vecchio vizio dalemiano. Per questi democratici non importa governare l’Italia, è più importante controllare un piccolo ma proprio piccolo partito. Di queste persone e di questi politicanti siamo esausti: hanno logorato sempre il Pd e il centro-sinistra; hanno sempre e solo pensato ai loro poltronifici; si sono sempre professati più a sinistra di ogni segretario che non fosse un loro uomo. Ma ora basta. Ricapitoliamo. Renzi perde le primarie con Bersani prima delle elezioni politiche del 2013. Bersani fa le liste mettendo dentro i suoi uomini con il sistema del Porcellum (altro che capilista bloccati). Elezioni politiche che dovevano essere vinte con facilità ed invece la campagna elettorale di Bersani fu la peggiore possibile. Renzi da parte sua diede il più ampio sostegno, in maniera leale e trasparente. Il Pd di Bersani non vinse e fu costretto ad un governo Letta con Alfano e Scelta Civica. Dopo mesi di pantano, al congresso del Pd, Renzi vince e diventa il segretario a stragrande maggioranza. E poi, con l’appoggio del Giorgio Napolitano, nuovo presidente del Consiglio. Lo scopo del suo governo è fare le riforme da troppo tempo dimenticate: legge elettorale e riforma costituzionale. Tutti d’accordo. E invece ecco che Bersani, D’Alema e compagnia iniziano il lento logoramento, non per il bene comune ma per le poltrone da occupare. Si vota l’Italicum e la riforma costituzionale. Renzi fa l’errore di personalizzare il referendum ed ecco gli sciacalli della minoranza Pd che subito si fiondano. Da quel momento inizia la strategia: andare contro il segretario che cercare di riprendere in mano il partito. La prova è semplice da dimostrare: Bersani e i suoi uomini in Parlamento avevano votato a favore della riforma costituzionale. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Invece il referendum finisce 59 a 41 per il No. Matteo Renzi, in coerenza con quello detto in precedenza, si dimette da presidente del Consiglio. E francamente vedere brindare D’Alema, Speranza e compagnia all’annuncio delle dimissioni di Renzi è stato veramente vomitevole. Questa è stata la prima e vera plateale scissione: compagni di partito che brindano contro il proprio segretario, vergognoso! Bene, da quel momento, è un susseguirsi di insulti continui a Renzi, insulti che neanche il proprio nemico si era mai sognato. Renzi, a quel punto, è pronto a dimettersi subito e aprire ad un nuovo congresso. Nulla, la minoranza non vuole e minaccia la scissione perché prima ci deve essere altro tempo. Non per lavorare nell’interesse della comunità ma per le mirabolanti strategie personali di Bersani e D’Alema. Avevano detto che dopo il referendum sarebbe bastato poco per fare altra legge elettorale e altra riforma costituzionale. Niente di più falso. Unico loro tormentone, fare fuori Matteo. Renzi, allora, chiede di fare presto per andare al voto. Apriti cielo: il baffetto minaccia la scissione, non vuole il voto subito, si perde il vitalizio. Dice che ci vuole il congresso prima del voto. Bene, Renzi si dice pronto. Lunedì scorso si tiene la direzione. Tanti interventi. Si vota. La minoranza, però, vota contro la mozione dei renziani. Il risultato: 107 con Renzi, 12 contro. “Non vogliamo un partito di Renzi”, dicono. Insomma il vaso è proprio colmo. Scuse su scuse, una sola verità: siete in stragrande minoranza e volete solo demolire il Pd e Renzi. Agli italiani però non interessa e non vogliono essere vostri ostaggi. E’ chiaro a tutti che non vi interessa governare ma avere qualche poltrona assicurata. Sarà bello vedervi un giorno cercare alleanze. I ricatti sono finiti: ora inizi finalmente la vera rottamazione.

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza, soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

In Italia stiamo per inventare la "tirannia della minoranza". Tocqueville aveva messo in guardia contro gli eccessivi poteri del Parlamento. Con la legge elettorale sbagliata si può andare oltre...scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Nulla di più falso, afferma Ludwig von Mises, che liberalismo significhi distruzione dello Stato o che il liberale sia animato da un dissennato odio contro lo Stato. Precisa subito Mises in Liberalismo: «Se uno ritiene che non sia opportuno affidare allo Stato il compito di gestire ferrovie, trattorie, miniere, non per questo è un nemico dello Stato. Lo è tanto poco quanto lo si può chiamare nemico dell'acido solforico, perché ritiene che, per quanto esso possa essere utile per svariati scopi, non è certamente adatto ad essere bevuto o usato per lavarsi le mani». Il liberalismo prosegue Mises non è anarchismo: «Bisogna essere in grado di costringere con la violenza ad adeguarsi alle regole della convivenza sociale chi non vuole rispettare la vita, la salute, o la libertà personale o la proprietà privata di altri uomini. Sono questi i compiti che la dottrina liberale assegna allo Stato: la protezione della proprietà, della libertà e della pace». E per essere ancora più chiari: «Secondo la concezione liberale, la funzione dell'apparato statale consiste unicamente nel garantire la sicurezza della vita, della salute, della libertà e della proprietà privata contro chiunque attenti ad essa con la violenza». Conseguentemente, il liberale considera lo Stato «una necessità imprescindibile». E questo per la precisa ragione che «sullo Stato ricadono le funzioni più importanti: protezione della proprietà privata e soprattutto della pace, giacché solo nella pace la proprietà privata può dispiegare tutti i suoi effetti». È «la pace la teoria sociale del liberalismo». Da qui la forma di Stato che la società deve abbracciare per adeguarsi all'idea liberale, forma di Stato che è quella democratica, «basata sul consenso espresso dai governati al modo in cui viene esercitata l'azione di governo». In tal modo, «se in uno Stato democratico la linea di condotta del governo non corrisponde più al volere della maggioranza della popolazione, non è affatto necessaria una guerra civile per mandare al governo quanti intendano operare secondo la volontà della maggioranza. Il meccanismo delle elezioni e il parlamentarismo sono appunto gli strumenti che permettono di cambiare pacificamente governo, senza scontri, senza violenza e spargimenti di sangue». E se è vero che, senza questi meccanismi, «dovremmo solo aspettarci una serie ininterrotta di guerre civili», e se è altrettanto vero che il primo obiettivo di ogni totalitario è l'eliminazione di quella sorgente di libertà che è la proprietà privata, a Mises sta a cuore far notare che «i governi tollerano la proprietà privata solo se vi sono costretti, ma non la riconoscono spontaneamente per il fatto che ne conoscono la necessità. È accaduto spessissimo che persino uomini politici liberali, una volta giunti al potere, abbiano più o meno abbandonato i principi liberali. La tendenza a sopprimere la proprietà privata, ad abusare del potere politico, e a disprezzare tutte le sfere libere dall'ingerenza statale, è troppo profondamente radicata nella psicologia del potere politico perché se ne possa svincolare. Un governo spontaneamente liberale è una contradictio in adjecto. I governi devono essere costretti ad essere liberali dal potere unanime dell'opinione pubblica». Insomma, aveva proprio ragione Lord Acton a dire che «il potere tende a corrompere e che il potere assoluto corrompe assolutamente». Un ammonimento, questo, che dovrebbe rendere i cittadini e soprattutto gli intellettuali ed i giornalisti più consapevoli e responsabili. Da Mises ad Hayek. In uno dei suoi lavori più noti e più importanti, e cioè Legge, legislazione e libertà, Hayek afferma: «Lungi dal propugnare uno Stato minimo, riteniamo indispensabile che in una società avanzata il governo dovrebbe usare il proprio potere di raccogliere fondi per le imposte per offrire una serie di servizi che per varie ragioni non possono essere forniti o non possono esserlo in modo adeguato dal mercato». A tale categoria di servizi «appartengono non soltanto i casi ovvi come la protezione dalla violenza, dalle epidemie o dai disastri naturali quali allagamenti e valanghe, ma anche molte delle comodità che rendono tollerabile la vita nelle grandi città, come la maggior parte delle strade, la fissazione di indici di misura, e molti altri tipi di informazione che vanno dai registri catastali, mappe e statistiche, ai controlli di qualità di alcuni beni e servizi». È chiaro che l'esigere il rispetto della legge, la difesa dai nemici esterni, il campo delle relazioni internazionali, sono attività dello Stato. Ma vi è anche, fa presente Hayek, tutta un'altra classe di rischi per i quali solo recentemente è stata riconosciuta la necessità di azioni governative: «Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un'economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani, cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare». La «Grande Società» può permettersi fini umanitari perché è ricca; lo può fare «con operazioni fuori mercato e non con manovre che siano correzioni del mercato medesimo». Ma ecco la ragione per cui esso deve farlo: «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello cui nessuno scenda quando non può provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l'individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato». E, in realtà, ribadisce Hayek, «un sistema che invoglia a lasciare la sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere». Tutto ciò premesso, Hayek torna ad insistere sul pericolo insito anche nelle moderne democrazie dove si è persa la distinzione tra legge e legislazione, vale a dire tra un ordine che «si è formato per evoluzione», un ordine «endogeno» e che si «autogenera» (cosmos) da una parte e dall'altra «un ordine costruito». Un popolo sarà libero se il governo sarà un governo sotto l'imperio della legge, cioè di norme di condotta astratte frutto di un processo spontaneo, le quali non mirano ad un qualche scopo particolare, si applicano ad un numero sconosciuto di casi possibili, e formano un ordine in cui gli individui possano realizzare i loro scopi. E, senza andare troppo per le lunghe, l'istituto della proprietà intendendo con Locke per «proprietà» non solo gli oggetti materiali, ma anche «la vita, la libertà ed i possessi» di ogni individuo costituisce, secondo Hayek, «la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l'assenza di conflitti». La Grande società o Società aperta in altri termini «è resa possibile da quelle leggi fondamentali di cui parlava Hume, e cioè la stabilità del possesso, il trasferimento per consenso e l'adempimento delle promesse». Senza una chiara distinzione tra la legge posta a garanzia della libertà e la legislazione di maggioranze che si reputano onnipotenti, la democrazia è perduta. La verità, dice Hayek, è che «la sovranità della legge e la sovranità di un Parlamento illimitato sono inconciliabili». Un Parlamento onnipotente, senza limiti alla legiferazione, «significa la morte della libertà individuale». In breve: «Noi possiamo avere o un Parlamento libero o un popolo libero». Tocqueville, ai suoi tempi, aveva messo in guardia contro la tirannia della maggioranza; oggi, ai nostri giorni, in Italia, si va ben oltre, sempre più nel baratro, con la proposta di una legge elettorale dove si prefigura chiaramente una «tirannia» della minoranza. Dario Antiseri

Quelli che... è sempre colpa del liberalismo. Anche se in Italia neppure esiste. A sinistra (ma pure a destra) è diffusa l'idea che ogni male della società sia frutto dell'avidità e del cinismo capitalistico. Peccato sia l'esatto contrario: l'assenza di mercato e di concorrenza produce ingiustizie e distrugge l'eco..., scrive Dario Antiseri, Domenica 04/09/2016, su "Il Giornale". Una opinione sempre più diffusa e ribadita senza sosta è quella in cui da più parti si sostiene che i tanti mali di cui soffre la nostra società scaturiscano da un'unica e facilmente identificabile causa: la concezione liberale della società. Senza mezzi termini si continua di fatto a ripetere che il liberalismo significhi «assenza di Stato», uno sregolato laissez fairelaissez passer, una giungla anarchica dove scorrazzano impuniti pezzenti ben vestiti ingrassati dal sangue di schiere di sfruttati. Di fronte ad un sistema finanziario slegato dall'economia reale, a banchieri corrotti e irresponsabili che mandano sul lastrico folle di risparmiatori, quando non generano addirittura crisi per interi Stati; davanti ad una disoccupazione che avvelena la vita di larghi strati della popolazione, soprattutto giovanile; di fronte ad ingiustizie semplicemente spaventose generate da privilegi goduti da bande di cortigiani genuflessi davanti al padrone di turno; di fronte ad imprenditori che impastano affari con la malavita e ad una criminalità organizzata che manovra fiumi di (...) (...) denaro; di fronte a queste e ad altre «ferite» della società, sul banco degli imputati l'aggressore ha sempre e comunque un unico volto: quello della concezione liberale della società. E qui è più che urgente chiedersi: ma è proprio vero che le cose stanno così, oppure vale esattamente il contrario, cioè a dire che le «ferite» di una società ingiusta, crudele e corrotta zampillano da un sistematico calpestamento dei principi liberali, da un tenace rifiuto della concezione liberale dello Stato? Wilhelm Röpke, uno dei principali esponenti contemporanei del pensiero liberale, muore a Ginevra il 12 febbraio del 1966. Nel ricordo di Ludwig Erhard, allora Cancelliere della Germania Occidentale: «Wilhelm Röpke è un grande testimone della verità. I miei sforzi verso il conseguimento di una società libera sono appena sufficienti per esprimergli la mia gratitudine, per avere egli influenzato la mia concezione e la mia condotta». E furono esattamente le idee della Scuola di Friburgo alla base della strabiliante rinascita della Germania Occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ancora Erhard, qualche anno prima, nel 1961: «Se esiste una teoria in grado di interpretare in modo corretto i segni del tempo e di offrire un nuovo slancio simultaneamente ad un'economia di concorrenza e a un'economia sociale, questa è la teoria proposta da coloro che vengono chiamati neoliberali o ordoliberali. Essi hanno posto con sempre maggiore intensità l'accento sugli aspetti politici e sociali della politica economica affrancandola da un approccio troppo meccanicistico e pianificatore». E tutt'altro che una assenza dello Stato caratterizza la proposta dei sostenitori dell'Economia sociale di mercato. La loro è una concezione di uno Stato forte, fortissimo, istituito a presidio di regole per la libertà: «Quel che noi cerchiamo di creare - affermano Walter Eucken e Franz Böhm nel primo numero di Ordo (1948) è un ordine economico e sociale che garantisca al medesimo tempo il buon funzionamento dell'attività economica e condizioni di vita decenti e umane. Noi siamo a favore dell'economia di concorrenza perché è essa che permette il conseguimento di questo scopo. E si può anche dire che tale scopo non può essere ottenuto che con questo mezzo». Non affatto ciechi di fronte alle minacce del potere economico privato sul funzionamento del mercato concorrenziale né sul fatto che le tendenze anticoncorrenziali sono più forti nella sfera pubblica che in quella privata, né sui torbidi maneggi tra pubblico e privato, gli «Ordoliberali» della scuola di Friburgo, distanti dalla credenza in un'armonia spontanea prodotta dalla «mano invisibile», hanno sostenuto l'idea che il sistema economico deve funzionare in conformità con una «costituzione economica» posta in essere dallo Stato. Scrive Walter Eucken nei suoi Fondamenti di economia politica (1940): «Il sistema economico deve essere pensato e deliberatamente costruito. Le questioni riguardanti la politica economica, la politica commerciale, il credito, la protezione contro i monopoli, la politica fiscale, il diritto societario o il diritto fallimentare, costituiscono i differenti aspetti di un solo grande problema, che è quello di sapere come bisogna stabilire le regole dell'economia, presa come un tutto a livello nazionale ed internazionale». Dunque, per gli Ordoliberali il ruolo dello Stato nell'economia sociale di mercato non è affatto quello di uno sregolato laissez-faire, è bensì quello di uno «Stato forte» adeguatamente attrezzato contro l'assalto dei monopolisti e dei cacciatori di rendite. Eucken: «Lo Stato deve agire sulle forme dell'economia, ma non deve essere esso stesso a dirigere i processi economici. Pertanto, sì alla pianificazione delle forme, no alla pianificazione del controllo del processo economico». «Non fa d'uopo confutare ancora una volta la grossolana fola che il liberalismo sia sinonimo di assenza dello Stato o di assoluto lasciar fare o lasciar passare». Questo scrive Luigi Einaudi in una delle sue Prediche inutili (dal titolo: Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze tra liberalismo e socialismo). E prosegue: «Che i liberali siano fautori dello Stato assente, che Adamo Smith sia il campione dell'assoluto lasciar fare e lasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda; ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte dei politici, abituati a dire: superata l'idea liberale; non hanno letto mai nessuno dei libri sacri del liberalismo e non sanno in che cosa esso consista». Contro Croce, per il quale il liberalismo «non ha un legame di piena solidarietà col capitalismo o col liberismo economico della libera concorrenza», Einaudi giudica del tutto inconsistente simile posizione in quanto una società senza economia di mercato sarebbe oppressa da «una forza unica dicasi burocrazia comunista od oligarchia capitalistica capace di sovrapporsi alle altre forze sociali», con la conseguenza «di uniformizzare e conformizzare le azioni, le deliberazioni, il pensiero degli uomini». Così Einaudi nel suo contrasto con Croce (in B. Croce-L. Einaudi, Liberismo e Liberalismo, 1957). È un fatto sotto gli occhi di tutti che ipertrofia dello Stato ed i monopoli sono storicamente nemici della libertà. Monopolismo e collettivismo ambedue sono fatali alla libertà. Per questo, tra i principali compiti dello Stato liberale vi è una lotta ai monopoli, a cominciare dal monopolio dell'istruzione. Solo all'interno di precisi limiti, cioè delle regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono funzionare da fattori di progresso. Lo Stato di diritto equivale all'«impero della legge», e l'impero della legge è condizione per l'anarchia degli spiriti. Il cittadino deve obbedienza alla legge. Legge che deve essere «una norma nota e chiara, che non può essere mutata per arbitrio da nessun uomo, sia esso il primo dello Stato». Uguaglianza giuridica di tutti i cittadini davanti alla legge; e, dalla prospettiva sociale, uguaglianza delle opportunità sulla base del principio che «in una società sana l'uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita» un minimo che sia «non un punto di arrivo, ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini» (Lezioni di politica sociale, 1944). Netta appare, quindi, la differenza tra la concezione liberale dello Stato e la concezione socialista dello Stato, nonostante che l'una e l'altra siano animate dallo stesso ideale di elevamento materiale e morale dei cittadini. «L'uomo liberale vuole porre norme osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possano liberamente operare, laddove l'uomo socialista vuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori, proprietari, imprenditori suddetti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell'operare economico, il socialista indica o ordina le maniere dell'operare» (Liberalismo e socialismo in Prediche inutili). E ancora: «Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d'accordo cogli altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento colla forza, che lo esclude, se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferito, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi». Il liberale discute per deliberare, prende le sue decisioni dopo la più ampia discussione; ma questo non fa colui che presume di essere in possesso della verità assoluta: «Il tiranno non ha dubbi e procede diritto per la sua via; ma la via conduce il paese al disastro». Dario Antiseri

"Liberali di tutta Italia, svegliatevi". Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore "La Nave di Teseo", un brano dal nuovo libro di Nicola Porro, "La disuguaglianza fa bene", scrive Nicola Porro, Lunedì 12/09/2016, su "Il Giornale". Nel tempo in cui viviamo, bisogna diffidare di quanti si definiscono liberali senza esserlo. I principi del liberalismo classico, nonostante sembrino accettati da tutti, non lo sono fino in fondo. Da quanto abbiamo appena detto, il liberale tende a essere conservatore quando c’è una libertà da proteggere (il diritto di proprietà, ad esempio, di chi non riesce a sfrattare un inquilino moroso), progressista quando se ne devono tutelare di nuove (si pensi alle recenti minacce alla nostra privacy da parte di banche, stati o anche motori di ricerca) e talvolta anche reazionario quando occorre recuperare diritti sepolti nel passato (ad esempio una tassazione ridotta). Il filo rosso che lega queste diverse attitudini è ciò che Dario Antiseri definisce l’«individualismo metodologico»: la storia è guidata dalle azioni degli individui e sono questi ultimi che determinano le scelte fondamentali dell’economia. La collettività non esiste in sé, è la somma di una molteplicità di individui. Come diceva Pareto, un altro grande liberale di cui parleremo: «I tempi eroici del socialismo sono passati, i ribelli di ieri sono i soddisfatti di oggi». Il rischio è che questi soddisfatti si spaccino per liberali e anzi finiscano per spiegare ai liberali come devono comportarsi, anche in virtù degli errori che essi stessi hanno commesso. Quanti intellettuali ex maoisti, ex comunisti, ex gruppettari, ex fiancheggiatori delle Brigate rosse e delle rivolte di piazza, oggi in posizioni di comando, decantano le virtù del mercato? Se la loro fosse una conversione ragionata, alla Mamet come leggeremo, la cosa non dovrebbe scandalizzarci. Il problema è che i soddisfatti di oggi hanno un’idea farsesca del liberalismo e lo associano al loro personale successo. Che nella gran parte dei casi è arrivato solo grazie alle loro spiccate capacità di relazione. Fermatevi un attimo, pensate agli intellettuali che contano e vedrete due caratteristiche ricorrenti: hanno praticamente tutti combattuto contro i liberali tra gli anni sessanta e settanta eppure oggi spiegano al mondo i pregi del liberalismo, che a seconda dei casi si porta dietro l’aggettivo sociale o democratico. I veri liberali, non solo di casa nostra, si devono dare una mossa. Svegliarsi da un letargo ideale, che dura da qualche lustro. Il progresso tecnologico e quello degli ordini più o meno spontanei in cui si sono trasformate le nostre istituzioni obbliga anche i liberali di ieri ad affrontare, sul piano teorico, nuove sfide. Se i principi restano i medesimi, il contesto e le minacce sono cambiate. Alcuni dei veleni tipici del mercato hanno preso forme diverse, soprattutto quando sono coinvolte istituzioni finanziarie e grandi corporation digitali. Il monopolio e la sua rendita, il ruolo del free rider (cioè di chi ottiene benefici senza pagarne il prezzo) e il peso del moral hazard (ovvero prendere rischi enormi contando sul fatto di essere poi salvati, come nel caso di alcune note banche) hanno assunto forme diverse. Non è questo certo il luogo per affrontare in modo dettagliato il problema. Qualcosa si può dire, però. Un liberale classico pretende che l’impresa con perduranti conti in rosso fallisca. Altrimenti si stravolgerebbe la regola principale del mercato e della concorrenza. Il discorso vale anche per le banche. E se vale per le banche di una nazione, dovrebbe valere per tutti, vista la globalizzazione dei mercati? La risposta, sia chiaro, non è univoca. Anche dal punto di vista strettamente liberale. Taluni ad esempio potrebbero, per la tutela suprema del mercato, continuare a pensare che in ultima analisi salvare il fallito danneggerà anche il salvatore: e dunque chiederanno il fallimento delle banche nonostante i paesi vicini le sostengano con denaro pubblico. D’altra parte è anche vero che la discussione sembra essersi spostata dai conti dell’impresa ai bilanci della politica, dagli scambi sul mercato alle trattative nei palazzi del potere. Come rispondere alle imprese che sono tutelate e protette dalle proprie leggi nazionali, nonostante abbiano i conti in disordine? Insomma è una sfida nuova al pensiero liberale tradizionale. Così come si è rinnovata la battaglia contro i monopoli. Una fissazione di Luigi Einaudi, ma non solo. Pensiamo a quando Facebook – tra poco con i suoi 1,7 miliardi di abitanti la nazione più popolata della Terra – o Google – praticamente l’unico motore di ricerca sopravvissuto – diventeranno dei rentiers, dei profittatori della posizione privilegiata che hanno conquistato, e non più degli innovatori. E qui dimentichiamo per un attimo la gigantesca questione della privacy (altro terreno inesplorato) e andiamo al centro degli affari. Grazie al loro successo questi colossi spazzeranno via dal mercato (comprandolo) ogni concorrente. È sbagliato pensare che lo stato si debba occupare di loro, ma altrettanto illogico ritenere che il set di regole pensate per l’atomo si possa adattare al mondo dei byte: siamo di fronte a un processo simile a quello che ha visto cambiare le nostre civiltà da agricole a industriali. E che oggi le vede diventare digitali. Nuove entusiasmanti sfide per i liberali, che ieri contestavano Pigou e le sue esternalità basate sull’inquinamento dell’industria nei fiumi, e oggi dovranno capire come, e se, contenere gli effetti collaterali del digitale. Facebook ha impiegato quattro anni a toccare la favolosa capitalizzazione di borsa di 350 miliardi di dollari (praticamente quanto vale l’intera borsa italiana), Google nove, Microsoft tredici, Amazon diciotto e Apple trentuno anni. La velocità con cui queste grandi multinazionali assumono dimensioni finanziarie gigantesche è aumentata vertiginosamente. Ciò può spaventare, ma d’altro canto può anche rappresentare la fragilità di questi colossi: come velocemente sono nati e cresciuti, così rapidamente si possono sgonfiare. Chi mai pensava che Yahoo sarebbe stata acquistata per pochi (si fa per dire, meno di 5) miliardi di euro da un operatore telefonico? Il dilemma di un liberale oggi resta: si deve intervenire o no nella regolazione economica? E come? Problemi di sempre, ma che oggi hanno cambiato forma.

La minoranza che vuole imporre lo schwa: "Distrugge l'italiano". Roberto Vivaldelli il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

"Chi difende lo schwa sa benissimo che è impossibile applicarlo sistematicamente. Se lo si facesse, staremmo parlando di una lingua che non è più quella italiana". Parola di Massimo Arcangeli, linguista e promotore della petizione contro l'uso dello "schwa".

Da una parte linguisti, intellettuali, filosofi che vogliono difendere la lingua italiana, dall'altra una minoranza ideologizzata e "woke" che vorrebbe applicare in maniera indiscriminata e generalizzata lo "schwa" con l'alibi dell'inclusività, imponendo la propria visione del mondo a un'intera comunità. Si può riassumere così il dibattito che si sta consumando in questi giorni sull'uso dello schwa, - rappresentato da "ə", che gli attivisti identitari vorrebbero introdurre al posto delle desinenze maschili e femminili per definire le identità non binarie - oggetto di una petizione diffusa su change.org che ha già superato le 21 mila firme, intitolata "Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra".

Sottoscritta da fior fiore di intellettuali e filosofi non certo di destra o conservatori come Massimo Cacciari, Alessandro Barbero, e Paolo Flores d'Arcais, da Claudio Marazzini, presidente dell'Accademia della Crusca, ma anche da attrici note come Barbara De Rossi e da registe come Cristina Comencini, è stata promossa dal professor Massimo Arcangeli, linguista e scrittore, ordinario di Linguistica italiana presso l'Università di Cagliari. Una reazione del mondo accademico e dell'intellighenzia contro quella che appare una vera e propria imposizione, anche se i fautori dello schwa, dalla scrittrice gauche caviar Michela Murgia alla linguista Vera Gheno, negano quest'accusa e spiegano che si tratta solo di una proposta, di un "esperimento". Per Murgia, infatti, come ha scritto in un tweet chiaramente allusivo, quella degli intellettuali anti-schwa è in poche parole "una petizione insensata, disperata, reazionaria e senza destinatario pretendendo che il mio gusto sia norma per tuttə".

Il simbolo "inclusivo" finisce sui documenti istituzionali: "Inaccettabile"

Abbiamo raggiunto il docente e sociologo della comunicazione Massimo Arcangeli per approfondire il tema e capire perché sarebbe un grave errore sottovalutare l'introduzione dello schwa nella nostra lingua, come se nulla fosse. "Il problema principale dello schwa, ed è l’unico davvero rilevante, è che stiamo parlando di simboli che incidono in modo profondo nella struttura morfo-sintattica dell’italiano" spiega Arcangeli al Giornale.it. La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso che ha convinto il professore a reagire e a promuovere la petizione è stata l'introduzione del simbolo "inclusivo" in alcuni documenti ufficiali. Nello specifico, lo "schwa" è stato impiegato di recente da una commissione di docenti in una procedura per il conseguimento dell'abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia. Un'offensiva intollerabile alla lingua italiana in un documento pubblico e ufficiale.

La cosa più grave, osserva, è che lo schwa è finito "in ben sei verbali prodotti da una commissione per l’abilitazione nazionale alla professione universitaria. E questo è inaccettabile". Come sottolinea il noto linguista, parliamo di documenti pubblici, non di circolari interne, a disposizione di tutti. "Usi di questo tipo - sottolinea - ledono il principio di trasparenza e della sana comunicazione. Chi difende lo schwa sa benissimo che è impossibile applicarlo sistematicamente. Se lo si facesse, staremmo parlando di una lingua che non è più quella italiana. Perché non parliamo solo di desinenze legate ai nomi; i nomi si portano dietro i participi passati, gli aggettivi, gli articoli, le preposizioni articolate. È un terremo vero e proprio". Secondo Arcangeli, "ognuno può sperimentare la lingua che crede. Ma nel momento in cui questi simboli finiscono in atti pubblici che rendono, se si applicano in modo profondo, illeggibile il testo, allora questo non è tollerabile".

"Prevale una visione ideologica"

Non era la prima volta, in realtà, che il simbolo dell'inclusione woke finiva in un documento ufficiale. Lo scorso aprile, ad esempio, il comune di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, ha cominciato a impiegare in alcune comunicazioni il simbolo fonetico oggetto della polemica di queste settimane. Anche se la prima a "sdoganare" l'uso dello schwa nella lingua italiana è stata forse la già citata Michela Murgia. In un articolo pubblicato lo scorso anno sull'Espresso intitolato Perché non basta essere Giorgia Meloni, ha fatto largo uso della e rovesciata per rendere neutre le desinenze, scatenando le polemiche sul web e sui social network. Tornando alla commissione universitaria, la cosa più grave, spiega sempre Arcangeli, "è che i commissari di cui parliamo hanno imposto la 'regola' sia a se stessi, sia ai candidati. Bisognerebbe dunque presupporre che siano tutti di identità non binaria. Non può essere ovviamente così. Quindi la generalizzazione coatta, gratuita e immotivata, rende ancora più surreale la questione. Se fosse dinanzi a una persona che si dichiara non binaria, troverei le forme per rivolgermi a lui o a lei, con il massimo rispetto. In ogni contesto, soprattutto di civiltà, è ciò si deve fare".

Le argomentazioni del professor Arcangeli prendono in esame il lato "tecnico" e linguistico della questione. Non è un'opposizione a prescindere. Peccato che dall'altra parte della barricata gli argomenti siano davvero poveri e prevalga una visione politico/ideologica e si ignorino completamente le criticità. Esempio concreto? Avete mai provato a pronunciare ad alta voce un testo condito di schwa? Flavia Fratello su Radio radicale ci ha già provato e l'esperimento non è andato a buon fine, per usare un eufemismo. Questioni che ai promotori sembrano non interessare, motivati da una spinta fortemente ideologica e identitaria. "Per me non è una questione ideologica - afferma - io parlo da tecnico, da linguista. Purtroppo, invece, sull’altro fronte non ci si rende del problema tecnico, o meglio, non lo si vuole far emergere, e quindi la questione diventa puramente ideologica, politica. È questa la cosa più paradossale". Basterebbe un po' di buon senso. Come spiega il professore, dopotutto, se ci si mettesse attorno a un tavolo e si valutassero gli effetti dell'uso sistematico dello schwa sulla lingua italiana tutti riconoscerebbero immediatamente che è impossibile da applicare. "Questo purtroppo non lo si vuole fare, proprio perché per questa minoranza la questione non è linguista, non è tecnica, ma è per l’appunto ideologica, e questi sono gli effetti. E infatti la qualità del dibattito di questi ultimi giorni sul tema non lo conferma. Un conto è argomentare, un altro è prendere tutto come se fosse una burla, o peggio" osserva.

Anche in Francia è battaglia sul "linguaggio inclusivo"

Un altro serio problema dello schwa e del suo uso sistematico, largamente sottovalutato dai suoi promotori, è che rischia di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche. Altro che simbolo inclusivo, dunque. "Su questo in Francia sono stati fatti degli studi molto puntuali" conferma il docente e scrittore. Sempre in Francia, "l'Académie françaisesi si è pronunciata contro i simboli inclusivi, tant'è che lo scorso anno il ministero della pubblica istruzione in una circolare ha vietato, tassativamente, questi simboli nei documenti prodotti dalla pubblica amministrazione. Per loro si parla perlopiù del punto mediano, più che dello schwa. Lo stesso è accaduto in Spagna". A proposito della Francia, infatti, lo scorso 19 novembre, sulle colonne di questa testata vi abbiamo raccontato di come il pronome neutro "iel" - contrazione di "il" ( lui) e "elle" ( lei"), utilizzato dalle persone che si definiscono "non binarie" e che dunque non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile - abbia fatto il suo ingresso nel Petit Robert, equivalente del nostro dizionario Garzanti. Il pronome neutro è stato introdotto perché, secondo Le Petit Robert, viene sempre più usato dai francesi e sta diventando una parola comune, scatenando le proteste deputato di En Marche François Jolivet e del ministro dell'Istruzione nazionale, Jean-Michel Blanquer, secondo il quale "la scrittura inclusiva non è il futuro della lingua francese". A schierarsi contro l'introduzione del pronome neutro nel dizionario francese è stato anche lo scrittore e membro dell'académie française, Jean-Marie Rouart. Segno che il dibattito sulla scrittura inclusiva non coinvolge solo il nostro Paese ma tutto l'occidente, sempre più alle prese con le istanze identitarie.

"Una minoranza che pretende di imporre la sua visione"

I sostenitori dello schwa obiettano che la lingua è in continua evoluzione e l’inclusività passa necessariamente anche attraverso le regole della linguistica. Dunque da necessarie "forzature". Dicono inoltre che la loro non è un'imposizione, ma una proposta. Per il professor Maurizio Decastri, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera e condiviso, fra gli altri, da Luca Sofri e da Michela Murgia, "non saranno alcuni intellettuali a fermare la vitalità della lingua". Ma la domanda di fondo rimane la medesima: chi stabilisce che una lingua debba cambiare in un senso o in un altro? Una minoranza ideologica che pretende di avere ragione e di sovrastare una maggioranza che di schwa non ne vuole nemmeno sentir parlare? Come spiega Arcangeli, infatti, "un conto è accompagnare il processo di cambiamento anche con la crescita sociale, un altro è pretendere di applicare da un giorno all'altro simboli e segni che distruggono dall’interno la lingua". Le lingue, osserva, "non cambiano per volontà di una minoranza, cambiano quando i parlanti e gli scriventi accettano e assimilano il cambiamento. Qui, tuttavia, stiamo parlando di una minoranza che pretende di imporre la sua visione su intera comunità nazionale con l’alibi dell’inclusività. Io non recederò di un millimetro".

Altro aspetto paradossale di questa battaglia culturale è che i fautori dell'inclusività esortano a sostituire i pronomi personali "lui" e "lei" con "ləi", e sostengono che le forme inclusive di "direttore" o "pittore, "autore" o "lettore" debbano essere "direttorə" e "pittorə", autorə" e "lettorə", sancendo di fatto la morte di "direttrice" e "pittrice", "autrice" e "lettrice". "Sono favorevole a sindaca e assessora - spiega - e questo è un altro motivo che mi ha spinto a lanciare la petizione. Lo schwa distrugge almeno un centinaio di femminili consolidati. Io faccio una battaglia da almeno un ventennio sulla femminilizzazione. Si dice sindaca e ministra e questo rischia di andare in malora solo perché qualcuno pensa che si debba applicare in maniera indiscriminata una forma inclusiva che cancella anche i femminili". Follie del politicamente corretto.

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

·        Un popolo di Spie.

Il «caso Sisde» scuote la politica. Scalfaro: non ci sto a questo massacro. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Novembre 2022

«Non ci sto a questo massacro»: sono le dure parole di Oscar Luigi Scalfaro, riportate in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 4 novembre 1993. La sera prima, il Capo dello Stato ha interrotto le dirette televisive per diffondere, a reti unificate, un messaggio alla Nazione. Scalfaro è al Quirinale da circa un anno e mezzo: è stato eletto nel maggio 1992, due giorni dopo la strage di Capaci. L’Italia è scossa dagli attentati mafiosi e dagli scandali di Tangentopoli: il vecchio sistema dei partiti sta per crollare definitivamente, ma un nuovo terremoto si è scatenato ai piani più alti delle istituzioni. «Il caso Sisde scatena una bufera sul Viminale e arriva a sfiorare perfino il Quirinale» si legge sulla Gazzetta.

Maurizio Broccoletti, ex direttore amministrativo del Sisde, il Servizio segreto civile, e il suo ex tesoriere, Galati, hanno lanciato gravissime accuse. «Tutti i ministri dell’Interno che si sono succeduti dal 1982 ad oggi, tranne Amintore Fanfani, avrebbero ricevuto dal Sisde la somma di cento milioni di lire al mese. Il danaro non veniva consegnato personalmente, ma tramite persone facenti parte del loro staff». Anche Scalfaro, che è stato Ministro dell’Interno dal 1983 al 198 , è tra i nomi coinvolti: persino sua figlia Marianna finisce nel polverone.

Pertanto, dopo alcune ore di silenzio, per il Presidente della Repubblica è arrivato il momento di parlare: fa interrompere la trasmissione televisiva della partita di Coppa Uefa tra il Cagliari e la squadra turca del Trabzonspor e afferma: «Prima si è tentato con le bombe. Ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali. A questo gioco al massacro io non ci sto. Io sento il dovere di non starci e di dare l’allarme. Non ci sto, non per difendere la mia persona, che può uscire di scena in ogni momento, ma per tutelare con tutti gli organi dello Stato l’istituto costituzionale della Presidenza della Repubblica. […] Dunque il mio no all’insinuante e insistente tentativo di una premeditata distruzione dello Stato è un no fermo e motivato. Per questo, nel momento in cui potrò essere legittimamente a conoscenza delle accuse rivolte alla mia persona, nella serena coscienza di avere sempre e solo servito lo Stato nell’assoluto rispetto della legge, reagirò con ogni mezzo legale contro chiunque abbia creduto di poter attentare alla mia onorabilità». Gli ex funzionari del Sisde saranno accusati di «attentato agli organi costituzionali». Solo dopo la fine del suo mandato, nel 1999, Scalfaro sarà iscritto dalla Procura di Roma nel registro degli indagati per abuso di ufficio: l’archiviazione, da parte del Tribunale dei ministri, arriverà nel 2001.

Da Berlinguer ad Agnelli: i dossier segreti dell'ambasciata Usa. Nei dossier segreti di Washington carriera e fatti privati dei leader italiani. Marcello Altamura il 22 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Era conosciuto con una sigla in codice, PLBRL, acronimo di Potential Leader Biographic Reporting List, una vera e propria schedatura, spesso illegale, di politici e potenziali politici italiani che l’ambasciata degli Stati Uniti, con l’appoggio dei Consolati Usa di varie città italiane (Milano, Genova, Firenze, Trieste, Torino, Napoli e Palermo) e di altri enti statunitensi come ad esempio l’Usis, lo United States Information Service, raccolsero dal Dopoguerra e sino almeno agli anni ’80. Una storia che emerge dai documenti inediti dell’archivio del Dipartimento di Stato americano sintetizzati in una relazione inedita dei primi anni 2000 per la Commissione Stragi, che IlGiornale.it presenta qui in anteprima.

La raccolta, basata su dati biografici ma anche sulle attività personali e private, riguardava non solo le personalità politiche italiane ma anche appunto i potenziali leader, operanti nell’ambito della pubblica amministrazione, delle forze armate e delle forze di polizia nonché nell’ambito di quello sociale ed economico. Una prassi, quella della raccolta di informazioni, che era normale in quegli anni ma che, raccontano le carte del Dipartimento di Stato, spesso e volentieri è ‘debordata’ in dossier dal sapore quasi scandalistico, seguendo una vera e propria modalità da intelligence. E in effetti il destinatario ultimo delle schede era la Washington Intelligence Community, cioè i servizi segreti americani nella loro totalità.

Difficile fare un censimento di quanti siano stati schedati da PLBRL ma un aerogramma del 21 luglio 1969 proveniente dal consolato Usa di Milano fa riferimento a una lista di circa 500 che deve essere integrata solo dai nomi dei potenziali leader: una prova, dunque, che i dossier erano numerosi e soprattutto che gli Usa li accumulavano da anni. Le schede erano corredate di fotografie e soprattutto formate anche da informazioni provenienti dai nostri Servizi segreti e dagli organi di Polizia.

Dossier scrupolosi che spesso accumulavano notizie talmente personali da consigliare “una prudente discrezione nel loro uso e nella loro distribuzione” come si legge in un aerogramma inviato dalla missione Usa presso la Nato a Bruxelles a proposito delle schede relative a due ufficiali italiani inviati proprio nella Capitale belga con l’incarico, rispettivamente, di rappresentante e vice-rappresentante dell’Italia in ambito Nato.

Ma quali erano i nomi di spicco nelle liste del PLBRL? Tra quelli emersi troviamo politici di spicco degli anni Settanta e Ottanta come i democristiani Ciriaco De Mita, Antonio Gava, Arnaldo Forlani, Vincenzo Scotti, i socialisti Francesco Di Martino, Bettino Craxi, Giorgio Benvenuto e Claudio Signorile, i comunisti Enrico Berlinguer, Massimo Caprara, Ugo Pecchioli e Achille Occhetto, il socialdemocratico Antonio Cariglia, il liberale Renato Altissimo, il repubblicano Giovanni Spadolini. Un occhio di riguardo era riservato ovviamente ai comunisti. Su Occhetto, l’uomo della transizione dal Pci al Pds, Washington richiede, in un aerogramma del 28 giugno 1968, “informazioni concernenti la sua educazione e le sue abitudini personali” mentre di Pecchioli viene richiesto di sapere “il suo specifico orientamento nel Pci” e persino una “valutazione della personalità”.

Dal corpus complessivo dei documenti emerge soprattutto un aspetto: i Servizi segreti italiani sapevano di questa schedatura Usa e addirittura collaboravano, fornendo informazioni e, presumibilmente, ricevendone in cambio delle altre. La prova è in un rapporto inviato dall’ambasciata americana di Roma al Dipartimento di Stato del 3 marzo 1967, che commenta l’apertura di un’inchiesta giudiziaria sul Sid, l’allora servizio segreto militare, per la scomparsa di alcuni dossier. Nel rapporto si fa riferimento ad un articolo a firma di Renzo Trionfera apparso sul settimanale L’Europeo del 16 febbraio precedente e che conteneva copia di alcuni documenti classificati proprio del Sid riguardanti l’allora Capo dello Stato Giuseppe Saragat. Nella nota, si legge infatti che i documenti pubblicati dal settimanale “sembrano proprio essere stati tratti dalle pubblicazioni classificate del Sid, che l’ambasciata riceve periodicamente e che contengono brevi articoli analitici sulla situazione politica interna”.

Un esempio di come le schedature del PLBRL debordassero in vere e proprie indagini personali è la nota biografica che l’1 luglio 1968 il Consolato Usa di Torino trasmessa al Dipartimento di Stato. Oggetto, Gianni Agnelli, l’Avvocato, presidente della Fiat. Ci sono apprezzamenti sulla sua reputazione di playboy, aggiungendo con una punta di ironia piuttosto greve, che Agnelli “ha lavorato duro per mantenere tale reputazione”. Ci sono inoltre riferimenti, prima del suo matrimonio, alla sua “relazione con una delle figlie di Churchill” e all’incidente stradale che lo coinvolse in Svizzera e in cui “il suo piede destro e l’anca furono fatte a pezzi”, costringendolo ad usare “scarpe fatte a mano costruite in modo tale da adattarsi alle forme differenti dei due piedi” e che gli lasciò come conseguenza “un’andatura zoppicante molto evidente”.

La nota fa riferimento a informazioni riservate acquisite dal Consolato Usa di Torino, notizie che evidentemente provenivano anche da ambienti Fiat e forse anche dalla stessa cerchia di Agnelli. Notizie molto spesso personali, al limite del pettegolezzo diffamatorio. Come il passaggio pesantemente allusivo contenuto sempre nella nota del 1968: “Una sua conoscenza ci ha detto recentemente che ha sentito Agnelli dire che gli ama la presenza di belle donne e di uomini interessanti”. Proprio le informazioni provenienti dalla cerchia più stretta dei vari personaggi e relative alle relazioni personali sembrano costituire il nerbo centrale dei dossier. È questo il caso di un passaggio della nota su Agnelli in cui si sottolinea “la stretta amicizia” con John Kennedy e sua moglie Jacqueline, al punto che nella primavera del 1963, l’Avvocato intercede presso Jfk, allora già presidente degli Stati Uniti, per scongiurare la chiusura del Consolato di Torino.

Agnelli aveva evidentemente "stuzzicato" più di altri la curiosità degli americani, tanto da raccogliere informazioni dettagliate anche sulle sue misure antropometriche oltre che sul suo aereo personale e sulla sua barca. Insomma una vera e propria schedatura condotta con la complice collaborazione degli apparati italiani e non solo.

I poliziotti agitatori infestano i gruppi su internet: un’inchiesta tedesca. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 28/09/22.

I servizi segreti sono una presenza invisibile, tanto proteiforme quanto inquietante, di cui tutti sono a conoscenza ma che nessuno nomina per paura. Possiamo considerarli come il grande “convitato di pietra”, con un ruolo sempre più ingombrante, eppure, ancora sottovalutato nelle analisi politiche, storiche e giornalistiche. Anche se formalmente subordinati al potere politico ed esecutivo, gli apparati di intelligence hanno risorse enormi in grado di sfuggire ai deboli criteri di trasparenza e di controllo. Sono pertanto capaci di costruire delle reti di interessi in grado di condizionare sia l’agenda politica, sia l’agenda dei media e di infiltrarsi sotto copertura un po’ ovunque. 

Ogni tanto la stampa si ricorda di loro e vi dedica qualche inchiesta, come quella apparsa recentemente su Süddeutsche Zeitung, nell’articolo Allein unter falschen Freunden (“Soli tra falsi amici”) a cura di Ronen Steinke. Da questo articolo emerge che centinaia di nazisti radicali ed estremisti di destra on line sono in realtà agenti dell’intelligence tedesca e molti di loro potrebbero essere responsabili di “incitamento all’odio” e alla violenza sul web. Questi agenti sotto copertura, che una volta – per esempio durante il nazismo – avevano bisogno di socializzare direttamente con i loro obiettivi, ora gestiscono account virtuali on line, senza bisogno di dover più nemmeno incontrare i soggetti che monitorano. L’azione di controllo e infiltrazione si è così spostata dalle taverne al web, rimanendo altrettanto efficace e capillare.

Scopriamo così che l’Ufficio federale per la protezione della Costituzione (in tedesco: Bundesamt für Verfassungsschutz, BfV) gestisce centinaia di account di estremisti di destra, ufficialmente per carpirne la fiducia. Secondo una ricerca del quotidiano, l’autorità ha investito molto in questi “agenti virtuali” dal 2019 a oggi, grazie ovviamente ai finanziamenti dei contribuenti. Queste spie non si occupano solo di controllare gli estremisti e gli islamisti, ma anche di insinuarsi tra i “teorici della cospirazione”, per poterli sorvegliare da vicino.

Non è chiaro fino a che punto si spingano le loro attività perché non c’è un controllo pubblico in grado di fare chiarezza. Il BfV sostiene che l’infiltrazione degli agenti virtuali sarebbe necessaria per monitorare efficacemente l’estrema destra, ma gli oppositori criticano questa modalità, affermando che potrebbe promuovere e incoraggiare attivamente il radicalismo. 

Un altro punto su cui bisognerebbe soffermarsi in un periodo in cui l’allarme sull’estremismo di destra ha monopolizzato per anni l’opinione pubblica e l’agenda politica, è quello di riuscire a identificare la portata e il numero di questi agenti infiltrati per distinguere tra il pericolo reale e quello virtuale indotto dall’intelligence stessa.

Le fonti interpellate da Steinke sembrano confermare che per farsi prendere sul serio dagli estremisti, gli agenti del BfV arrivino a istigarli a commettere reati. Fino a che punto, si spinge questa operazione di promozione e incitamento all’odio? La domanda non è secondaria, dal momento che si susseguono proposte di leggi speciali da adottare per arginare la disinformazione, l’estremismo e la violenza sul web, arrivando a legittimare la censura: quanto di questi fenomeni è esacerbato dalle psy-ops delle intelligence? Si sta volontariamente avvelenando il web per portare all’introduzione di leggi per comprimere la libertà di pensiero, sfruttando la tecnica di ingegneria sociale nota come “azione-reazione-soluzione”?

Non possiamo infatti dimenticare che operazioni coperte e guerra psicologica sono modalità da sempre adottate dall’intelligence. Rimanendo nei confini tedeschi, pensiamo per esempio alle rivelazioni del giornalista tedesco Udo Ulfkotte che, dopo oltre 17 anni di carriera, ha descritto nel dettaglio, per diretta testimonianza, come i governi e le Agenzie di intelligence usano e sfruttano i media per scopi di propaganda. Ulfkotte, prima di morire, si era pubblicamente vergognato del proprio coinvolgimento nella divulgazione e nella diffusione di informazioni e storie false e aveva deciso di dare alle stampe il libro Giornalisti comprati. Come i politici, i servizi segreti e l’alta finanza dirigono i mass media tedeschi. Ulfkotte ha precisato che quanto descritto nel suo libro «non riguarda solo la Germania, è un sistema mondiale ed è pericoloso renderlo pubblico, ma ne vale la pena, per dare un’idea di quello che avviene a porte chiuse».

Gli esempi simili sono innumerevoli. Ben oltre i confini tedeschi, il 18 giugno 1948, con la direttiva 10/2, il National Security Council (NSC) aveva autorizzato la CIA a organizzare «operazioni clandestine» in tutto il mondo. La direttiva era chiara, ricorda Pino Cabras in Strategia per una guerra mondiale, nel definire la genesi e gli obiettivi di tali missioni segrete che vennero «condotte o promosse» dal governo americano «contro Stati o gruppi di Stati stranieri o ostili o a sostegno di Stati o di gruppi di Stati amici, ma pianificate ed eseguite in modo tale che ogni responsabilità a loro riguardo da parte del governo americano non sia evidente alle persone non autorizzate o, se scoperta, possa essere plausibilmente smentita».

Per questo scopo venne istituita un’apposita divisione, l’Office of Special Projects (OSP), in seguito denominato Office of Policy Coordination, volta a «pianificare e portare a termine operazioni clandestine». Queste operazioni clandestine, scrive Daniele Ganser in Gli eserciti segreti della NATO, si occupavano di «ogni attività riferibile a propaganda, guerra economica, azioni dirette preventive compreso il sabotaggio, l’antisabotaggio, la distribuzione e misure di evacuazione; sovversione contro Stati ostili, compreso il sostegno a gruppi di resistenza occulti, guerriglia, raggruppamenti di rifugiati e aiuto a elementi anticomunisti autoctoni nei paesi minacciati del mondo libero».

Tali attività sono organizzate mascherando ogni responsabilità riconducibile ai governi, tanto che immense risorse vengono spese per depistare e neutralizzare le eventuali scoperte con il noto principio della “smentita plausibile”. 

Negli ultimi anni il problema delle “fake news” e della violenza sul web ha acquisito sempre più spazio e importanza anche nel dibattito pubblico, portando alla presentazione di disegni di leggi, alla creazione di task force e Commissioni parlamentari e dall’altro a stringere le maglie della censura dell’informazione indipendente. Da un lato stiamo assistendo al tentativo di creare una informazione certificata, dall’altra alla frammentazione della verità come se tutto fosse relativo, virtuale e prospettico, inconoscibile, legittimando pertanto il controllo e la revisione dei contenuti che non collimano con la narrativa del pensiero unico. Il rischio di promuovere “leggi speciali” è quello di legittimare moderne forme di Inquisizione digitale.

Fino a che punto, dovremmo però chiederci, il fenomeno della violenza e della disinformazione rappresenta realmente una minaccia per la collettività e quanto invece questo è stato alimentato, strumentalizzato ed eterodiretto ad hoc da interessi occulti che usano, tra le loro tecniche di ingegneria sociale, anche le leve dell’intelligence?

[di Enrica Perucchietti]

Minaccia per l’Occidente. Lo spionaggio cinese è diventato sofisticato come quello russo. L'Inkiesta il 3 Settembre 2022

I capi delle intelligence occidentali sostengono che le operazioni di Pechino hanno raggiunto un livello di complessità sempre più paragonabili a quelle del Cremlino. Ma mentre gli 007 tendono a essere estremamente focalizzati, la Cina utilizza un approccio universale che interessa l’intera società

Un alto ufficiale dell’intelligence francese noto come Henri M. viene inviato a Pechino, si innamora dell’interprete dell’ambasciatore, inizia a passare informazioni segrete al nemico. Per questo viene richiamato in Francia e viene condannato a otto anni di carcere per aver trasmesso «informazioni pregiudizievoli» a una potenza straniera, anche se il reato era stato commesso due decenni prima. Nello stesso processo, con motivazioni molto simili, anche un altro agente francese noto come Pierre-Marie H. è stato arrestato e condannato a 12 anni.

Non è un episodio di una nuova serie tv crime parigina, ma una storia vera che riguarda una sentenza del 2020 e intreccia le vicende di agenti francesi, Stati europei e nomenklatura cinese.

La decisione della Francia di dare visibilità pubblica alle decisioni giudiziarie tenendo un processo, riflettono la crescente preoccupazione – che abbraccia tutta l’Europa – sulle operazioni di spionaggio della Cina, ormai più frequenti e minacciose di quelle della Russia (la cui intelligence è solitamente riconosciuta come avversaria delle intelligence occidentali).

L’argomento è stato affrontato dal Financial Times in un articolo pubblicato a fine agosto, a firma di John Paul Rathbone e Demetri Sevastopulo. «Gli agenti dell’intelligence cinese – ha detto al quotidiano economico britannico un ex capo della stazione europea della Cia – sono alla pari con i russi. Le migliori operazioni della Cina ora sono pericolose quanto le migliori della Russia».

La Cina è attiva in tutto il mondo con attacchi informatici, anche molto sofisticati. Lo ricordano bene i vertici di Microsoft, che nel 2021 hanno subito un attacco hacker che ha compromesso 30mila sistemi in tutto il mondo e che secondo gli Stati Uniti, l’Unione europea e il Regno Unito sono stati perpetrati da gruppi criminali che lavorano per volere di Pechino. Ovviamente la Cina ha negato tutto.

«Con le tecniche di spionaggio sviluppate dalla Cina, le agenzie occidentali devono riconfigurare il loro approccio in materia di controspionaggio», scrive il Financial Times.

La Human Intelligence cinese – le attività di intelligence di raccolta di informazioni attraverso contatti interpersonali – ha acquisito un livello di complessità solitamente associato allo spionaggio russo.

La grossa differenza tra i due apparati di intelligence, da quel che hanno spiegato le fonti ascoltate dal Financial Times, è che le operazioni estere della Russia si basano ancora su una più tradizionale rete di agenti d’élite, addestrati in tecniche di spionaggio come le comunicazioni codificate, che hanno il compito di raggiungere uno specifico obiettivo. Quelle della Cina, invece, hanno obiettivi più ampi e generici, che vanno dall’influenza politica all’ottenimento di segreti commerciali o tecnologici.

«Quindi mentre lo spionaggio russo tende a essere estremamente focalizzato, la Cina utilizza un approccio universale che interessa l’intera società cinese», ha detto un funzionario dell’intelligence americana, citando ad esempio una legge sull’intelligence di Pechino del 2017 che richiedeva a «tutte le organizzazioni e i cittadini» di «sostenere, assistere e cooperare con gli sforzi di intelligence nazionali».

La differenza negli stili dei due Paesi viene spesso descritta, tra i funzionari delle intelligence europee e statunitensi, con una metafora sui granelli di sabbia: gli agenti russi sono quelli che sbucano da un sottomarino in piena notte e inviano un piccolo gruppo di spie sulla spiaggia per prendere un secchio di sabbia, che fuor di metafora è il bersaglio scelto dai servizi segreti russi; i cinesi sono quelli che inviano migliaia di bagnanti in pieno giorno per portare a destinazione anche pochi granelli ciascuno, creando comunque un bottino molto grande.

Come spiega Nicholas Eftimiades, esperto di Cina ed ex ufficiale della Cia, si tratta di «un nuovo paradigma su come vengono condotte le attività di intelligence»: tattiche nuove e in parte sconosciute, che in qualche modo potrebbero apparire anche inefficienti e poco coordinate, dal momento che diversi ufficiali cinesi a volte lavorano allo stesso obiettivo. Ma le operazioni sono talmente diffuse che il più delle volte raggiungono comunque l’obiettivo, risultando ugualmente efficaci.

«Una stima dell’intelligence degli Stati Uniti suggerisce che le operazioni di spionaggio commerciali cinesi hanno rubato fino a 600 miliardi di dollari di proprietà intellettuale degli Stati Uniti ogni anno, anche se la Cina ha negato tali affermazioni», scrive il Financial Times. «L’Unione europea inveec ha stimato che il totale del furto di proprietà intellettuale ha un valore di circa 50 miliardi di euro ogni anno, e causa la perdita di 671mila posti di lavoro».

Così i servizi segreti deviati volevano ribaltare l'Italia. In occasione della pubblicazione del suo libro, Armando Palmeri rilascia un'intervista in cui parla di come i servizi segreti abbiano tentato di sovvertire l'ordine democratico. Gianluca Zanella il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.

Solo un uomo... solo, questo il titolo di un libro recentemente pubblicato, un’intervista effettuata dal reporter Stefano Santoro al collaboratore di giustizia Armando Palmeri. Ma non solo. Oltre l’intervista, nel libro c’è un memoriale di Palmeri riportato – stando a quanto confermato da Santoro – integralmente. Ma chi è Armando Palmeri?

Uomo di fiducia del boss mafioso di Alcamo Vincenzo Milazzo, Palmeri è stato un mafioso sui generis. Cresciuto in una famiglia benestante, diventa criminale più per spirito d’avventura che per necessità. A capo di una batteria di rapinatori, gira l’Italia pistola alla mano fin quando non viene catturato. In carcere a Spoleto – da lui definito “Università del crimine” - viene a contatto con il gotha della criminalità nazionale, conosce estremisti di destra, camorristi, mafiosi, in un certo senso si fa un nome. Una volta fuori, tornato ad Alcamo nella seconda metà degli anni Ottanta, comincia ad essere corteggiato da Cosa nostra.

Spiccando per un grado d’istruzione non comune al profilo del mafioso medio e da una notevole dote per le pubbliche relazioni, il suo è un curriculum che fa gola a diversi clan, ma Palmeri – che non sarà mai affiliato ufficialmente – ci tiene alla sua indipendenza e, senza mai opporre un diniego secco alla avances che pure gli vengono fatte con insistenza, preferisce fare il “libero professionista”. In che ambito? Difficile dirlo con certezza. Leggendo il suo memoriale, sembra di capire che Palmeri abbia capitalizzato la sua abilità nel tessere reti di conoscenze trasversali, una sorta di faccendiere, per utilizzare un termine riconoscibile. Di certo c’è una cosa: non ha mai ammazzato nessuno e anzi, ci tiene a precisare di aver salvato molte vite sottratte ai plotoni d’esecuzione mafiosi con escamotage di volta in volta differenti.

In buoni rapporti con un pezzo da 90 come Antonino Gioè [mafioso affiliato ai corleonesi e coinvolto nella strage di Capaci, ndr], cugino di Franco Di Carlo [collaboratore di giustizia recentemente scomparso, accusato di essere esecutore materiale dell'omicidio di Roberto Calvi, ndr], dopo aver tergiversato per qualche anno, Palmeri finisce col diventare l’uomo di fiducia di Vincenzo Milazzo, l’unico con cui il giovane boss alcamese si confidasse. È a lui, infatti, che esprime tutta la sua apprensione per un incontro decisamente particolare. Il primo di altri due che avverranno nel giro di poco tempo, nella primavera del 1992.

E se il nome di Armando Palmeri spicca tra quello dei tanti collaboratori di giustizia, è proprio perché è stato lui a riferire di fronte al magistrato referente di questi incontri, quando due uomini dei servizi segreti – introdotti prima da uno stimato medico e poi da un imprenditore misteriosamente suicidato – proposero a Vincenzo Milazzo di prendere parte a un progetto di destabilizzazione della democrazia con una campagna di stragi e addirittura una guerra batteriologica.

Milazzo, consigliato anche da Palmeri, rifiuterà di prestarsi a questo gioco perverso, pur consapevole di esporsi così a un pericolo mortale. E infatti viene ammazzato dall’amico Nino Gioè, che sparandogli alla nuca confiderà a Palmeri di avergli evitato una morte ben peggiore. Sorte ancor peggiore per la sua fidanzata: Antonella Bonomo, 23 anni, incinta di tre mesi, viene presa a calci e strangolata da un commando di uomini d’onore di cui, tra gli altri, fanno parte lo stesso Gioè, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella. La colpa della ragazza? Non solo quella di essere la compagna di Milazzo ma, forse, anche quella di avere uno zio al Sisde, il servizio segreto civile.

Grazie all’intercessione di Stefano Santoro, IlGiornale.it è riuscito a ottenere un’intervista da Palmeri che, notoriamente, è restio a concederne e che da anni porta avanti una solitaria crociata per stabilire delle verità difficili da digerire: a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta pezzi deviati dello Stato non si limitarono a fare affari con Cosa nostra, ma tentarono di sovvertire l’ordine democratico con un progetto stragista poi sposato in pieno dai corleonesi di Totò Riina. Ecco quello che ci ha detto: “Ad alcune domande, su argomenti delicati, sarò costretto a non rispondere. Ho conservato un 1% di fiducia nella magistratura, alcune cose devo dirle a loro. Credo che abbiano il dovere d’ufficio, con questo libro, di aprire un fascicolo. Mi auguro che lo facciano”.

C’è una domanda che ti poni nel memoriale recentemente pubblicato, te la facciamo anche noi, cercando di incoraggiare un’ulteriore riflessione: Per quale motivo degli uomini legati ai servizi segreti si sarebbero avvicinati in prima battuta a un boss certamente capace, ma di secondo piano come Vincenzo Milazzo? Perché non rivolgersi direttamente alla fazione dominante dei corleonesi, come comunque sembrerebbero aver fatto subito dopo?

Perché Milazzo era di un’altra caratura intellettuale. E poi non dimentichiamoci di un piccolo particolare: vicino a Milazzo c’ero io e i Servizi lo sapevano.

Cosa intendi?

Il modus operandi di Riina l’abbiamo visto qual è stato. È stato il suicidio di Cosa nostra.

Vuoi dire che rivolgendosi a Milazzo – che al suo fianco aveva non un killer, ma qualcosa di vicino a un consigliere – i servizi puntavano a fare un lavoro “pulito”? Cioè a compiere attentati e stragi ma preservando l’integrità di Cosa nostra?

Per rispondere ti voglio fare un piccolo esempio: andiamo a vedere la Strage dei Georgofili [Firenze, 27 maggio 1993, un ordigno sventra parte della Galleria degli Uffizi e uccide 5 persone, ndr]. Lì è stato assurdo, per l’organizzazione dell’attentato sono state coinvolte persone che con Cosa nostra non c’entravano nulla [come Antonino Messana, di Trapani ma residente a Prato, cognato di Giuseppe Ferro, il boss successore di Milazzo a capo di Alcamo. L’uomo fu sostanzialmente obbligato a fornire supporto logistico per l’attentato, ndr]. È stata una cosa da dilettanti, per organizzare una cosa del genere bastava una persona che sapesse cosa fare. È stato un modo per suicidarsi, il suicidio di Cosa nostra al comando di Totò Riina. Queste non sono operazioni serie.

Cioè i mafiosi sarebbero stati degli “utili idioti”?

Bravissimo, i capri espiatori... Totò Riina e chi gli stava vicino sono stati dei capri espiatori.

E non credi che se Milazzo avesse invece accettato di prestarsi al gioco di frange deviate dei servizi, l’esito sarebbe stato identico? Cosa nostra si sarebbe avviata ugualmente al suicidio?

Questo in effetti non saprei dirlo. Probabilmente se Milazzo avesse accettato di compiere le stragi, la storia della mafia sarebbe stata diversa. Al posto di Riina al vertice ci sarebbe stato lui, magari Bagarella, Brusca, ecc. sarebbero stati eliminati. Ma sono tutte supposizioni.

O magari il clan Milazzo avrebbe compiuto le stragi e poi sarebbe stato decimato dai suoi stessi committenti...

È un’ipotesi valida. Ma anche qui siamo sulle supposizioni.

Tornando agli “utili idioti”, dev’esserci stato necessariamente qualcuno a tirare i fili delle marionette. Tu parli nel tuo libro di “mafia impropria”, cosa intendi?

Io parlo di mafia impropria e quando dico questo mi riferisco a un potere molto, molto arzigogolato e articolato, che si approfitta dei poteri conferitigli dallo Stato, ma in grande scala. Ritengo che quello di infangare la mafia sia stato un progetto attentamente pensato. Fino a quell’epoca [1992/93, ndr] nei principi del mafioso non c’era quello di ammazzare i bambini.

Ti riferisci all’omicidio di Giuseppe Di Matteo? Il bambino di 12 anni rapito, tenuto in ostaggio dal 23 novembre 1993 fino all’11 gennaio 1996, quando venne strangolato e sciolto nell’acido? Il bambino che tu – come racconti nel libro – avevi individuato segnalandone invano la prigione alle forze dell’ordine?

Si, Giuseppe Di Matteo, che è stato ammazzato platealmente. Ma scherziamo? Cosa avrebbe potuto portare di bene a Cosa nostra? Riflettiamo un attimo. Cosa nostra non è un potere dove ci sono solo Brusca, l’ “ammazza-cristiani”, o Giuseppe Ferro, un analfabeta. Attenzione, chi comanda davvero, chi riesce a gestire Cosa nostra non è cretino. Siamo abituati a vedere solo i mafiosi analfabeti, i dementi, ma io ho conosciuto persone come Nino Gioè, che era un grandissimo stratega, una personalità incredibile. Un signore nei modi, lasciamo stare che era un criminale e un killer, ma tu non l’avresti mai detto. Gioè si avvicina a me perché capisce che non sono un sanguinario, che salvo vite umane.

Stai dicendo che, in qualche modo, c’è stata una strategia volta a favorire l’ascesa dell’ala sanguinaria di Cosa nostra, quella che tu definisci dei “dementi”, a discapito invece di uomini più “politici” o comunque inclini alla trattativa, come potevano essere un Gioè o un Milazzo?

In parte sì, anche se Gioè in fin dei conti si è prestato a quel gioco e poi ne ha pagato le conseguenze. Comunque è un dato di fatto: da un certo momento in poi Cosa nostra è stata governata da perfetti idioti. Sempre riguardo la strage di via dei Georgofili e in generale le bombe del 1993... ti sembra possibile che a scegliere quegli obiettivi siano stati Riina e i suoi? È fin troppo evidente che ci sia stata una regìa occulta di quelle che vengono definite “menti raffinatissime”. È un dato di fatto. Per non parlare della strage di Capaci. Un’operazione militare di altissimo livello, che non sarebbe stata possibile senza dei manovratori esterni.

Di quali manovratori stiamo parlando?

Non è da me fare supposizioni...

Passiamo oltre. Nel libro - ma anche nelle sedi competenti - hai parlato di questi incontri tra due uomini dei servizi segreti e Vincenzo MIlazzo. Ti sono mai stati sottoposti degli identikit, delle fotografie? Hai mai potuto ricondurre dei nomi a quei volti?

Io li so i nomi. Li ho dati in procura e sto vedendo cosa fanno.

Sono entrambi in vita?

Uno di loro si. Me lo ricordo, ho avuto la sfortuna di incontrarlo successivamente.

In un libro-intervista uscito qualche tempo fa, Franco Di Carlo, cugino di Nino Gioè che – lo ricordiamo – è morto impiccato in carcere, sostiene di essere stato più volte avvicinato nel corso degli anni, proprio come suo cugino, da uomini dei servizi segreti. In particolare, con uno di loro si è ritrovato in diverse situazioni: si tratta di Mario Ferraro, colonnello del Sismi, anche lui trovato impiccato in casa sua nel luglio del 1995. Impiccato a un termosifone con i piedi che toccavano terra. Ricordi di averlo mai incontrato?

Uscendo spesso con Gioè ne vedevo tanti di questi personaggi. Non mi pare di averlo mai sentito nominare.

Sempre nel libro parli di una donna della Dia con cui avresti effettuato un appostamento per liberare il piccolo Di Matteo e che, successivamente, hai visto in compagnia di quello che poi avresti scoperto essere Giovanni Aiello, più conosciuto come “Faccia da mostro”. Di lei conosci il nome?

No, né l’ho mai vista esposta sui media, come invece è successo con Aiello.

Territorio di Trapani, Alcamo. Si è tornati recentemente a parlare di questa zona della Sicilia in relazione alla presenza occulta e pervasiva della struttura semi-clandestina Gladio. Hai mai sentito nominare il Centro Skorpione?

No, so solo che hanno tentato di buttarla in quel posto a Gladio. In tutto e per tutto. Hanno cercato di mettere Gladio in mezzo a tante cose, ma secondo me è solo un grande depistaggio. Tutto ciò che è accaduto ad Alcamo in quel periodo è stato uno scontro tra polizia e carabinieri. E hanno cercato di fottere Gladio, usandola come capro espiatorio. Ma così non si arriva alla verità.

Tu hai conosciuto il gotha mafioso, hai vissuto e lavorato ad Alcamo, che si trova nel trapanese. Mi sarei aspettato almeno di sentirti nominare nel libro Matteo Messina Denaro. Non l’hai conosciuto?

Assolutamente no.

Che interpretazione dai alla sua lunga latitanza?

Non si vuole prendere. Non si deve prendere. Io sarei il primo a non collaborare per prenderlo. Perché rompere gli equilibri, chi ci dice che non possa nascere un nuovo Totò Riina?

Che intendi dire?

Nel trapanese non si ammazza più, c’è ordine, la gente sta bene. Perché devi rompere questo equilibrio? Per farla pagare a un uomo solo? Ubi maior minor cessat.

Eppure nel 2018 un ex poliziotto, Antonio Federico, in un’intervista rilasciata proprio a Stefano Santoro sostiene che tu gli avessi promesso di fargli catturare un latitante di grosso calibro, che lui intese essere Messina Denaro...

Era una sua supposizione, se ne occuperà l’autorità giudiziaria.

Torniamo un attimo su Antonio Federico, di cui ci siamo largamente occupati nei mesi passati. Federico in un suo libro racconta di essere stato avvicinato nel 1993 da una misteriosa fonte, tale Mark, un uomo che – secondo la sua ricostruzione – apparteneva proprio a Gladio. Questo Mark gli fa compiere alcune operazioni, tra cui la perquisizione in casa di un carabiniere, dove viene trovato un arsenale di armi e dove, in una libreria, viene trovata la foto in cui, quasi trent’anni dopo, si è riconosciuta Rosa Belotti, imprenditrice di Bergamo sospettata dalla procura di Firenze di essere la “biondina” delle stragi del 1993. Nel tuo libro sostieni che Mark fosse un tuo uomo, sulla base di cosa puoi affermare ciò?

Preferisco non rispondere.

Su quella foto ritrovata in casa del carabiniere? Puoi dirci qualcosa?

È un depistaggio. Antonio Federico è acerrimo nemico di La Colla e Bertotto [i due carabinieri coinvolti nel ritrovamento dell’arsenale, ndr], ha cercato, come si dice in Sicilia, di fare tragedia, però... spero di poterti dare risposte più certe tra qualche mese... mi sono interessato a questa situazione. Intanto ti posso dire una cosa: fin quando non sarà riconosciuta l’esistenza della “mafia impropria” non cambierà nulla, i segreti rimarranno sempre tali. Voi che siete giovani vi dovete battere su questo politicamente, sui giornali, io ormai sono al capolinea. E vedrai che ci saranno i primi collaboratori di giustizia di Stato. Ci saranno i primi magistrati che collaboreranno finalmente con la giustizia. Io non ci sarò più, ma tu forse ricorderai queste parole.

(ANSA il 22 novembre 2022) - "Per me un direttore dei servizi segreti non diventa presidente della Repubblica in una notte. Se poi vuole andare a pranzo con il ministro degli Esteri faccia pure, ma non sta a lei dire 'Di Maio è stato leale'. Io poi ho trovato fuori luogo che la presidente del Dis sia andata dalla presidente del Consiglio alla Camera. Questa è forma, la sostanza è che la dottoressa Belloni non è andata al Quirinale perché noi abbiamo detto di no". Così il leader di Iv Matteo Renzi in una conferenza stampa in Senato.

(askanews il 22 novembre 2022) - "Capisco che abbia un bellissimo ufficio alla Camera, sicuramente più bello di quello a palazzo Chigi ma la riunione coi servizi, la prossima volta falla nella sede di palazzo Chigi e non alla Camera". Lo ha detto Matteo Renzi, leader di Italia viva, in una conferenza stampa al Senato convocata per parlare dell'uscita della ristampa del suo libro "Il mostro".

(ANSA il 22 novembre 2022) - "Le dichiarazioni dell'Anm contro di me ormai sono metodiche e bisogna rispettare il senso del ritmo che hanno i sindacalisti delle toghe. Renzi delegittima magistratura? Chi lo fa? Chi va in udienza o chi non rispetta le decisioni della Cassazione? Ma vi sembra normale? Il pm si chiama Luca Turco. Chi delegittima la magistratura? Chi fa ricorsi o chi molesta sessualmente una collega, mi riferisco a Giuseppe Creazzo". Così il leader di Iv Matteo Renzi in una conferenza stampa in Senato.

"Se qualcuno pensasse che di fronte a tutto quello che è successo uno come me si impaurisce o si ferma, ha sbagliato persona. Continuerò ad andare ai processi, continuerò a scrivere con tutti i documenti che provano quello che scrivo. Se pensate di impaurirmi o minacciarmi avete sbagliato obiettivo. Io finisco il tour su 'Il Mostro' e riprendo a fare politica in prima persona". Così il leader di Iv Matteo Renzi in una conferenza stampa in Senato.

"Il fatto che il libro "IL mostro" sia in testa alla classifica dei best seller la dice molto lunga sull'editoria italiana, scherzi a parte sono molto contento. Che il processo di mostrificazione ci sia è evidente, Il libro è giudicato in modo diverso, ma nessuno ha smentito i fatti che contiene, questo è significativo". Così il leader di Iv Matteo Renzi in una conferenza stampa in Senato. (ANSA)

(askanews il 22 novembre 2022) - "State sottovalutando il contenuto del libro: questa cosa della Corte di Cassazione è incredibile. Ho presentato una interrogazione al ministro Nordio per chiedere se è legittimo che un pm riceva una sentenza e non la applichi". Lo ha detto Matteo Renzi, leader di Italia viva, in una conferenza stampa al Senato convocata per parlare dell'uscita della ristampa del suo libro "Il mostro".

Parlando delle vicende giudiziarie riassunte nel volume, l'ex premier ha spiegato: "C'è un pm al quale la Corte di Cassazione gli dice per cinque volte che sta sbagliando, la quinta gliel'annulla senza rinvio e gli dice: 'restituisci il telefonino senza trattenere copia'. Vuol dire che quella roba lì non la puoi utilizzare. Cosa fa questo pm? Qualche giorno dopo invia una lettera al presidente del Copasir e ci infila quella roba che doveva distruggere, ma vi sembra normale?".

Iv: Renzi, “Come faceva Conte a sapere di autogrill prima che fosse pubblico?” Redazione L'Identità il 6 Dicembre 2022

Roma, 6 dic. (Adnkronos) – “Il segreto di rustichella. Oggi Giuseppe Conte è intervenuto sulla vicenda autogrill in una intervista al quotidiano l’Identità. E Conte dice che viene a conoscenza del fatto quando sta finendo l’esperienza del governo. La cosa è interessante”. Così Matteo Renzi nella enews.

“Ma come faceva Conte a sapere dell’incontro all’autogrill con Mancini ‘verso la fine del suo governo’, quando la notizia diventa pubblica a maggio del 2021? A maggio 2021 il premier era già Draghi da tre mesi… strano, no? Conte si confonde oppure mente oppure nasconde qualcosa? La vicenda de Il Mostro continua a essere più attuale che mai…”.

Rita Cavallaro su L'Identità il 6 Dicembre 2022

Dopo la bufera scatenata dalle dichiarazioni riportate da L’Identità di oggi sul video Renzi-Mancini all’autogrill, Giuseppe Conte ritratta. E ci manda una nuova dichiarazione, in cui sostiene di aver confuso le date. “Le mie dichiarazioni si spiegano con il fatto che ieri, nel corso della telefonata con L’Identità, non ricordavo con esattezza il periodo in cui andò in onda la puntata di Report sull’incontro tra Renzi e Mancini in autogrill”, spiega l’ex premier. “Ricordavo che l’incontro in questione si era svolto nel periodo natalizio e dunque – nello smentire che io mi sia mai occupato di questa questione con l’intelligence quando ero Presidente del Consiglio – ho semplicemente ipotizzato che la puntata di Report potesse essere andata in onda nel mese di gennaio, quando ero ancora in carica come Presidente del Consiglio”. Una linea difensiva per difendere la difesa del giorno precedente, quando aveva detto: “I servizi non mi hanno fatto vedere nulla, non mi sono impicciato con loro di questa questione, anche perché non ricordo bene quando esplose il caso tramite Report, ma stavo andando via”. Eppure il filmato dell’incontro del 23 dicembre 2020 tra il senatore di Italia Viva e Mancini fu trasmesso da Report solo il 3 maggio 2021. Dunque a gennaio-febbraio nessuno sapeva dell’esistenza di quel video. E ancora: “”Ripeto il clima era già di fine della prospettiva di governo. E nessuno dell’intelligence mi ha portato il report né il video e io francamente non l’ho ritenuta neppure una notizia di rilievo per un presidente del Consiglio. Più che altro l’ho seguita negli sviluppi mediatici. Per il profilo istituzionale ho interpretato il ruolo”, ha spiegato, “quindi non sono intervenuto neppure sulla questione del video. Non ho chiesto né report né mi sono stati portati. La notizia è destituita di fondamento. Le dico anche che peraltro sono tutte attività fatte nel mio ruolo istituzionale, sarebbero coperte anche da riservatezza, per cui non potrei neanche dirlo se fosse stato vero il fatto di un report dell’intelligence, ma visto che non è accaduto non ho difficoltà a escludere che sia successo. Però tenga conto che se fosse accaduto sarebbe stato per me motivo di imbarazzo parlarne”. Conte ha infine aggiunto: “Anzi, proprio perché c’era di mezzo Renzi mi sono assolutamente astenuto, eravamo in dirittura finale, proprio per evitare che qualcuno potesse farci una speculazione politica. Quindi la questione è stata completamente gestita dai nuovi responsabili”.

Il caso del video a Palazzo Chigi CONTE: “L’HO VISTO A REPORT” MA SCOPPIA IL GIALLO SULLE DATE. COSA NON TORNA. Rita Cavallaro su L'Identità il 6 Dicembre 2022

Il video dell’autogrill fu consegnato ai vertici dello Stato e sarebbe arrivato anche a Palazzo Chigi tre mesi prima che Report lo mandasse in onda. Più di una fonte conferma che l’allora premier Giuseppe Conte lo avrebbe visto, ma il capo dei pentastellati, interpellato da L’identità, smentisce di aver visionato il filmato che mostra l’incontro a Fiano Romano, il 23 dicembre 2020, tra Matteo Renzi e il capo reparto del Dis Marco Mancini. “I servizi non mi hanno fatto vedere nulla, non mi sono impicciato con loro di questa questione, anche perché non ricordo bene quando esplose il caso tramite Report, ma stavo andando via”, dice Giuseppe Conte. E spunta così il giallo nel giallo. Perché quel filmato venne trasmesso dalla trasmissione di RaiTre diretta da Sigfrido Ranucci solo il 3 maggio successivo, quando ormai al governo c’era Mario Draghi e a capo dell’intelligence Franco Gabrielli.

Così si consuma il nuovo capitolo della spy story, sulla quale l’attuale capo del Dis, Elisabetta Belloni, ha posto il segreto di Stato, alimentando su quell’incontro misteri così profondi da essere comparati alla strage di Ustica o al sequestro di Aldo Moro. Macchinazioni machiavelliche che, giorno dopo giorno, delineano una guerra tra spie così forte il cui obiettivo non era quello di colpire il leader di Italia Viva e neppure di creare un problema politico a Giuseppe Conte. L’obiettivo di questa spy story era esclusivamente Mancini, per far saltare la sua imminente nomina a direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Dopo l’incontro con Renzi, Mancini fu invitato da Gabrielli ad andare in pensione e gli venne addirittura revocata la scorta che lo proteggeva dalla serie di minacce di morte che, negli anni a capo del controspionaggio, aveva avuto. La sua promozione, attesa nel Conte 2, sfumò e bene informati sostengono che la causa fu proprio quel filmato.

Un video girato da una professoressa, una privata cittadina attirata da quell’interlocutore che parlava con Renzi e che, secondo lei, era un individuo losco. Motivo per il quale l’insegnante scattò 13 foto e girò due video, mentre attendeva il padre che era andato in bagno in un autogrill chiuso causa Covid. Per 45 minuti. E poi, nonostante fosse del tutto ignara di chi parlasse con Renzi, pensò bene che la questione potesse essere così rilevante da inviare il materiale prima al Fatto Quotidiano, che non usò il filmato, e poi alla redazione di Report, che il 3 maggio lo trasmise, fornendo alcune anticipazioni nei giorni precedenti. E lo fece inserendo nel servizio tv un ex agente del Sismi in pensione che, oscurato e con la voce contraffatta, identificò Mancini con Renzi, rivelando a tutti il volto dello 007 e mettendo in pericolo l’incolumità dell’agente. E come faceva l’ex Sismi a sapere che Report aveva il video? Perché quel filmato era diventato oggetto di un passaparola tra personaggi dell’intelligence, che avveniva proprio nei giorni in cui il governo era in subbuglio per l’ennesima mossa strategica di Renzi, il quale aveva intenzione di far cadere il secondo esecutivo di Giuseppe Conte per sostituirlo con un governo di larghe intese guidato da Mario Draghi, il quale poi giurò al Quirinale il 13 febbraio 2021.

E proprio in quei giorni il filmato era arrivato a Palazzo Chigi e qualcuno lo avrebbe portato a farlo vedere a Conte. “Se le stanno rappresentando che mi hanno portato questo video per farmelo vedere e dissuadermi dal nominare Mancini non è assolutamente vero”, precisa Conte. “Le cose non stanno proprio così. Adesso non entrerei nel merito su chi volevo o non volevo nominare, perché mi sembra una cosa delicata. Davano per scontato che volessi nominare lui. Non è proprio così”. Eppure fonti interne a Palazzo Chigi registrano almeno quattro incontri di Mancini con il premier e dalla Farnesina ne confermano altri due con Luigi Di Maio. Ci sono più elementi che rafforzerebbero la scelta di quel nome per i vertici dell’intelligence. In quel frangente di fine legislatura erano abbastanza frequenti i movimenti per le nomine ai servizi. E chi avrebbe “armato” la mano della professoressa, avrebbe raggiunto così l’obiettivo di far slittare il cambio ai vertici degli 007. Tanto più se quel filmato fosse stato mostrato a chi doveva fare quella scelta. “Ripeto”, aggiunge Conte, “il clima era già di fine della prospettiva di governo. E nessuno dell’ntelligence mi ha portato il report né il video e io francamente non l’ho ritenuta neppure una notizia di rilievo per un presidente del Consiglio. Più che altro l’ho seguita negli sviluppi mediatici. Per il profilo istituzionale ho interpretato il ruolo”, ha spiegato, “quindi non sono intervenuto neppure sulla questione del video. Non ho chiesto né report né mi sono stati portati. La notizia è destituita di fondamento. Le dico inoltre che peraltro sono tutte attività fatte nel mio ruolo istituzionale, sarebbero coperte anche da riservatezza, per cui non potrei neanche dirlo se fosse stato vero il fatto di un report dell’intelligence, ma visto che non è accaduto non ho difficoltà a escludere che sia successo. Però tenga conto che se fosse accaduto sarebbe stato per me motivo di imbarazzo parlarne”.

Conte ha infine aggiunto: “Anzi, proprio perché c’era di mezzo Renzi mi sono assolutamente astenuto per evitare che qualcuno potesse farci una speculazione politica. Eravamo in dirittura finale, Quindi la questione è stata completamente gestita dai nuovi responsabili”. Insomma, l’intrigo è più complicato di quanto appare.

“Sul caso Autogrill troppe bugie Anche da Conte. Ma quale prof? Farò di tutto per sapere la verità”. Rita Cavallaro su L’Identità l’Dicembre 2022

Io posso accettare tutto per il bene di patria, ma non che mi facciano passare da scemo. E non credo alle ricostruzioni di Giuseppe Conte, perché sono contraddittorie e inverosimili”. È lapidario e sul piede di guerra Matteo Renzi, leader di Italia Viva e al centro dello scontro con il capo dei 5S per il video dell’incontro all’autogrill con lo 007 Marco Mancini, dopo l’intervista a L’Identità.

Senator, allora non crede a Conte?

A Conte non credo per ovvi motivi. Ma alla versione di Conte non ci crede nemmeno lui, tanto’è che ha cercato di fare una smentita abbastanza imbarazzata. Si sentiva lo stridio delle unghie sui vetri, nel senso che si stava realmente aggrappando agli specchi. Il punto è molto semplice: io voglio la verità. Basta. Siccome non ho niente da temere dalla verità e hanno fatto una serie di show su quello che è accaduto, sostenendo che vi fossero loschi personaggi e losche trame, io adesso mi fermo soltanto davanti alla verità.

Per questo ha presentato l’esposto per la violazione del segreto di Stato?

Io ho chiesto all’avvocato Luigi Panella di seguire questa vicenda perché lo ritengo uno dei massimi esperti su questi temi. Ci stanno molti elementi che non tornano. Naturalmente abbiamo la massima fiducia nell’autorità giudiziaria e vedremo come andrà. Nelle prossime ore presenteremo una memoria, chiederemo l’accesso agli atti per capire questa professoressa che cosa dice, come, quali atti sono stati fatti. Consideri che abbiamo chiesto che venissero prese le telecamere dell’autogrill e con quelle immagini, se è come dice Sigfrido Ranucci, si vedrà chiaramente. Perché perfino volendo credere alla presunta testimone che ascoltò gli ultimi istanti del mio colloquio con Marco Mancini, e quindi dando un credito all’ultima versione delle quattro che Ranucci ha cambiato, tecnicamente non torna nulla.

Ad esempio cosa?

Che la professoressa sia partita prima di me ma contemporaneamente non torna con l’indicazione della macchina per fare le foto e non torna con il fatto che tutte le persone che erano lì sostengono che non ci fosse un’altra macchina.

Le telecamere le hanno sequestrate?

Non spetta a me saperlo, ma in ogni caso siamo sempre in tempo per fare tutti gli accertamenti. La professoressa, se esiste, come mai si muove in zona rossa?. Il padre, che sta un’ora e mezzo in macchina, che problemi ha? Perché nessuno lo vede uscire per andare in bagno?

Pensa che ci fosse qualcun altro quel giorno all’autogrill?

Io ho una mia idea di quello che è successo. Ma le mie idee contano zero. Qui c’è un magistrato, che noi stimiamo e rispettiamo, che ha tutti gli elementi per fare le proprie valutazioni. Nel frattempo, per aiutare nella valutazione, presenteremo ulteriori materiali, perché se lei guarda le varie versioni di Ranucci cambiano con le stagioni.

L’ultima in cui disconosce l’ex Sismi e dice che avrebbe riconosciuto da solo Mancini.

Anche su questo. Come può essere credibile uno che dice tutto e il contrario di tutto. Perché lo fa? Perché la divulgazione del segreto di Stato è un reato che viene pesantemente punito, quindi perché lui a un certo punto sente il bisogno di difendere quello che dice?

La versione sulla fonte comincia a scricchiolare?

Non sta in piedi neanche con le stecchette. Lo sanno tutti, lo sanno quelli della Rai ma fanno finta di niente, lo sanno quelli di Palazzo Chigi ma fanno finta di niente.

Pensa che per fare chiarezza bisognerebbe togliere il segreto di Stato?

Io credo che il problema non sia neanche quello. Non posso sapere su cosa sono state poste le domande. Però sono convinto che nonostante il segreto di Stato, messo da Elisabetta Belloni, arriveremo alla verità. Perché se davvero c’è questa professoressa sarà interrogata e ci saranno verifiche. Sono convinto che è solo una questione di tempo ma prima del 2037, quando scadrà il segreto dia Stato, noi avremo la verità su questa vicenda.

Dai anche prima del 2037…

Beh, questa è una battuta.

Magari già nella prima metà del 2023, no?

Io credo che il vero elemento di fondo sia quello di avere una verità nell’arco di qualche mese. Spero prima possibile. Però rispettiamo i tempi della Magistratura e da fin d’ora ci dichiariamo disponibili a lavorare e a collaborare in un corretto rapporto tra Istituzioni.

Ma l’obiettivo del personaggio che ha girato il video era lei o Mancini?

Mi tengo le mie opinioni. E qui le opinioni stanno a zero. Quello che è certo è che Conte non è credibile, perché va bene sbagliare il mese. Quello che non ci sta è la sensazione, cioè Conte risponde dicendo che da presidente del Consiglio non si intromette. Ammesso che sia vero o no quello che dice, lui racconta una sensazione che lo colloca chiaramente a Palazzo Chigi. Io sono molto convinto, avendo sentito l’audio, che Conte davvero abbia saputo e visto questo materiale quando era ancora premier.

Beh, quella è la sensazione che abbiamo avuto anche noi in quella telefonata.

Si sta arrampicando sugli specchi e soprattutto sta rischiando di farsi del male da solo.

Cosa cambia se Conte ha visto il video?

A me non interessa, ma è chiaro che se Conte ha visto il video nel gennaio del 2021 l’idea che la professoressa lo mandi a Report è un po’ strana. La professoressa che casualmente, vedendo una trasmissione, collega Mancini è una follia. Però in questa vicenda le sembra normale che Ranucci prima dica che è l’agente del Sismi, poi è lui, le macchine che vanno a sinistra, poi non è vero. E ci sono dei particolari insidiosi. Io non li vedo, credo che siamo di fronte a una vicenda particolarmente contraddittoria. Questione di poco. Quello che è certo è che le dichiarazioni di Conte mi hanno portato a fare un esposto.

Crede che Guerini al Copasir possa dare un contributo alla trasparenza di questa vicenda o può essere un elemento per mettere la verità sotto il tappeto?

Né l’una né l’altra. Guerini non accelera alcun tipo di soluzione e non blocca niente. La vicenda è nelle mani di chi deve fare le indagini. Gli errori della professoressa sono talmente tanti che è macroscopico il fatto che la storia è un’altra. Bisogna non avere fretta, porteremo a casa il risultato.

Lei è stato un po’ il bersaglio di certa Magistratura. Cosa pensa di Carlo Nordio?

Credo che le idee di Nordio siano molto interessanti. Adesso si tratta di passare dalle parole ai fatti. Spero si possa fare.

Cosa le piace di più tra le proposte di riforma?

Qualsiasi cosa possa dire sarà usata contro di lui.

Allora lasciamolo lavorare in pace. E diciamo qualcosa del Pd, no?

Il Pd ormai si commenta da solo. È allergico alle vittorie. Se torna a vincere è un bene, ma mi sembra che sia molto concentrato in discussioni stravaganti. Quando leggo che per il dibattito congressuale si tiene viva la scintilla della rivoluzione d’ottobre dico che siamo in un’altra era.

Invece il governo Meloni?

Sono colpito dalla pochezza di questa legge di bilancio. Mi aspettavo una ripartenza. Stiamo cercando di dare una mano con Carlo Calenda per fare un lavoro serio ma al momento sono solo chiacchiere.

Non farà le manovre strategiche per rovesciare gli esecutivi, per ora.

No, ma l’esecutivo si romperà da solo in vista delle Europee del 2024.

C’è un anno per lavorare.

Vediamo. Non allarghiamoci.

I soldi dei servizi e le ombre sugli 007. Rita Cavallaro su L’Identità l’8 Dicembre 2022

Così come aulicamente è l’amor che move il sole e l’altre stelle, allo stesso modo sono denaro e potere a determinare i peggiori dei complotti. E ci sono proprio i soldi alla base della guerra delle spie che ha portato alla trappola del video dell’autogrill, quell’incontro tra Matteo Renzi e lo 007 Marco Mancini finito nella bufera politica. Un’operazione che non vede come obiettivo il leader di Italia Viva, ma il capo reparto del Dis. Il motivo? Mandare all’aria la nomina di Mancini al vertice dei servizi, perché la spia negli ultimi otto anni aveva gestito i fondi dell’intero comparto della sicurezza nazionale in modo così ineccepibile da ricevere encomi formali dai diversi organi di controllo dello Stato. Insomma, il profilo giusto per arginare qualsiasi irregolarità nell’amministrazione dei fondi del Pnrr. Mancini, nei mesi precedenti all’incontro dell’autogrill, era stato ricevuto dall’allora premier Giuseppe Conte almeno quattro volte a Palazzo Chigi e altre due alla Farnesina dal ministro Luigi Di Maio. La sua nomina a capo del Dis sembrava ormai decisa, ma poi qualcuno, che già da tempo orchestrava il modo per far saltare la promozione dell’agente segreto, intercettò l’appuntamento del 23 dicembre 2020 con Matteo Renzi, l’unico personaggio che avrebbe potuto insinuare il germe del dubbio sulle nomine di Conte, perché in quel momento il governo era in bilico e proprio Renzi stava tessendo la tela che avrebbe portato alla caduta dell’esecutivo giallorosso. Quando Renzi dimenticò l’incontro con lo 007, che avrebbe dovuto avvenire nell’ufficio del senatore nel cuore della Capitale, e diede a Mancini appuntamento all’area di servizio di Fiano Romano in autostrada, l’occasione per ordire il piano arrivò. E in quell’autogrill si piazzò, ben nascosto, il “paparazzo”, che riprese la conversazione con un campo largo non molto coerente con l’obiettivo di un semplice telefonino. Un paparazzo che si dice sia una professoressa, la quale nel racconto cambia versione ben quattro volte e spiega di essersi fermata lì per caso, in un autogrill chiuso per Covid, di aver girato il filmato perché incuriosita dal losco individuo, così definisce Mancini, che parlava con Renzi. Ignara di chi fosse l’interlocutore, l’insegnante ebbe così tanta perspicacia in stile 007 che girò due video e scattò 13 foto, mentre, per 45 minuti, aspettava il padre che era andato in bagno. E che, non paga, inviò il materiale prima al Fatto Quotidiano, che non lo usò, e poi a Report, che lo trasmise il 3 maggio 2021, mandando in onda un’altra fonte, un ex agente del Sismi in pensione che, camuffato e con la voce contraffatta, disse in tv che quell’uomo era Marco Mancini, ex capo del controspionaggio e di cui, fino ad allora, esistevano solo le immagini di quando, nel 2005, riportò dall’Iraq la giornalista Giuliana Sgrena, rapita il 4 febbraio 2005 e liberata 28 giorni dopo nell’operazione che finì con l’uccisione del numero due dei servizi, Nicola Calipari. Ed ecco un nuovo elemento: l’uomo che sarebbe la fonte di Sigfrido Ranucci non era una semplice spia in pensione dal Sismi, ma si scopre ora che, come lo stesso Mancini, era passato all’Aise, dove aveva lavorato gli ultimi anni. Un dettaglio che spiega perché quella fonte fosse così informata su particolari riguardanti l’attività del capo reparto del Dis. E che, in spregio dell’incolumità di Mancini, sotto scorta per le minacce terroristiche, lo identifica in diretta, determinando la bufera sull’agente, invitato ad andare in pensione e al quale venne revocata la scorta. Senza contare che era già sfumata la sua nomina al vertice del Dis che, stando alle nostre fonti autorevoli, era lo scopo di quel filmato. Per raggiungere il quale sarebbe stato necessario che il video arrivasse nel momento giusto a Conte. L’ex premier grillino, nell’intervista uscita su L’Identità martedì scorso, ha negato che l’intelligence gli abbia portato quel file dell’incontro, sul quale è stato apposto il segreto di Stato. Eppure confonde le date, collocando la visione del video, che sostiene di aver visto da Report, tra gennaio e febbraio, negli ultimi giorni del governo, quando nessuno era a conoscenza dell’esistenza della ripresa, visto che la messa in onda avvenne tre mesi dopo. “I servizi non mi hanno fatto vedere nulla, non mi sono impicciato con loro di questa questione, anche perché non ricordo bene quando esplose il caso tramite Report, ma stavo andando via. Il clima era già di fine della prospettiva di governo. E nessuno dell’intelligence mi ha portato il report né il video e io francamente non l’ho ritenuta neppure una notizia di rilievo per un presidente del Consiglio”, sottolinea, mostrando uno stato d’animo sul quale difficilmente ci si piò confondere. Inoltre aveva aggiunto: “Proprio perché c’era di mezzo Renzi mi sono assolutamente astenuto, eravamo in dirittura finale, per evitare che qualcuno potesse farci una speculazione politica”. Dichiarazioni che hanno scatenato la reazione di Renzi: “O Conte si confonde, o mente, e non voglio crederlo, o nasconde qualcosa”. Perché quel filmato girava a Palazzo Chigi già nei momenti caldi della crisi di governo e solo se Conte lo ha davvero visto si spiega la mancata promozione di Mancini, visto che il premier ha nominato alcuni vertici dei servizi prima di lasciare la campanella a Draghi. A infittire il mistero, poi, le ultime rivelazioni di Ranucci, che ora disconosce l’ex Sismi mandato in onda e dice di essere lui la fonte, che lui stesso avrebbe riconosciuto Mancini nel video della professoressa. E Renzi, dopo le parole di Conte e Ranucci, ha presentato un esposto relativo alla violazione del segreto di Stato.

“Quando ero in carica”. Conte smentisce Ranucci e Report, l’ex premier apre una falla sul video di Renzi e Mancini in Autogrill. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 7 Dicembre 2022

L’unica certezza, sull’Autogrill di Report, è che è un mistero. Oggi ancora più fitto. Sull’incontro Mancini-Renzi di Fiano Romano è Giuseppe Conte, intervistato da un quotidiano, a tradire la versione ufficiale così come la conoscevamo. L’ex premier grillino ricorda di essere stato informato di quel video tra fine dicembre 2020 e gennaio ’21. “Quando ero in carica”. Aprendo una falla nella ricostruzione condivisa da Ranucci. Vediamo perché.

La famosa puntata di Report del 3 maggio 2021 proponeva un servizio che annunciava con grande sorpresa di aver ricevuto da una fonte anonima un video girato per caso in Autogrill. «Una insegnante ha filmato l’incontro tra un personaggio conosciuto, Renzi, e uno sconosciuto, che poi si rivelerà essere Mancini». È Giorgio Mottola a dare la versione di Report: «L’incontro è avvenuto il 23 dicembre all’Autogrill. Dopo la puntata di Report del 12 aprile l’insegnante che aveva il video ha inviato una mail alla nostra redazione», aveva ricostruito Mottola. Si scoprirà poi che l’insegnante misteriosa – oggi indagata, tra le proteste di Sigfrido Ranucci e le polemiche dell’Fnsi – aveva offerto sin da subito il video al Fatto Quotidiano.

«Lo avevamo ricevuto noi per primi ma è rimasto perso tra le centinaia di mail che non si riescono a leggere. E a ripensarci mi piange il cuore», ricostruisce con un po’ di patos Peter Gomez. «Non ci rendemmo conto, in quel momento eravamo sotto organico. Lo scoprimmo poi. Quando uscì su Report lo stesso Ranucci, se non sbaglio, disse che lo stesso materiale era stato prima inviato al Fatto. Abbiamo riaperto la casella e trovato quella mail con cui c’erano, mi pare, delle foto». Tornano nella vicenda anche le foto. Quali? Si trattava di fermo immagini, di screenshot mandati per testare l’interesse del destinatario e ingolosirlo? Si vedevano dettagli rimasti fuori dal video di Report?

Rimane che dal 23 al 30 dicembre, per una settimana, il video sarebbe rimasto fermo, sigillato, protetto nelle mani della Professoressa. E proprio l’ultimo dell’anno, come un insperato fuoco d’artificio, eccolo spuntare tra i regali di una lettrice – o almeno, evidentemente estimatrice – del Fatto. Che forse non lo ha fatto avere solo al Fatto. Qualcuno il video potrebbe averlo visto, dato che girava tra una mail e l’altra, tipo messaggio in bottiglia, dal 30 o dal 31 dicembre. Di certo qualcuno potrebbe averlo fatto arrivare a Palazzo Chigi. Dove c’era, fino al 26 gennaio, Giuseppe Conte. Il leader 5 Stelle ieri ha riunito i puntini: «Ero alla fine della mia esperienza di governo, la vicenda riguardava Renzi, io avevo una polemica con lui, scelsi di rimanerne fuori e decisi di non commentare».

Matteo Renzi vuole vederci chiaro. Il video dell’Autogrill era già in mano alle autorità – a Palazzo Chigi, ai servizi segreti – cinque mesi prima della messa in onda di Ranucci? «Conte data questo momento tra dicembre e gennaio. Qualcuno aveva detto a Conte dell’incontro Renzi-Mancini all’Autogrill? L’ex premier si è sbagliato, ha confuso gennaio con maggio? La scansione temporale la puoi sbagliare, ma quando Conte argomenta, ricorda nei dettagli di aver deciso di non intervenire in virtù della sua posizione istituzionale, come può essersi confuso?», lo incalza Renzi. Tutti i deputati e i senatori di Italia Viva ieri hanno preteso una parola inequivoca da Conte, lanciando anche sui social l’hashtag #contechiarisca. In serata il leader grillino ritratta la sua ricostruzione. E sostiene di aver confuso le date. Certo, se si togliesse il segreto di Stato sulla vicenda, tutto sarebbe più chiaro.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Marco Lillo e Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 7 Dicembre 2022.

Fuori dall'aula VIII del Tribunale di Roma, in attesa di essere sentito come testimone al processo Consip, Matteo Renzi risponde alle domande del Fatto. Sulla professoressa che lo ha ripreso all'autogrill di Fiano Romano mentre incontrava l'ex 007 Marco Mancini, Renzi ci affida una mezza promessa: qualora si dovesse confermare che si tratta davvero solo di una professoressa, come accertato dalle indagini dei pm di Roma, "mi riservo successivamente di fare valutazioni" sul rimettere la querela. Vedremo. 

Il senatore però va all'attacco quando gli chiediamo della lettera al Copasir del pm Luca Turco, rimasta a protocollo riservato e mai depositata nell'inchiesta Open, ma pubblicata nel suo libro Il Mostro: "Vi ho già querelato. Non ho rivelato alcun segreto".

Partiamo dalla vicenda Report. L'insegnante che ha ripreso l'incontro all'autogrill è stata inquisita per il 617 septies, reato che punisce chi fa riprese fraudolente. Lei non ha denunciato per questo reato. Se questa signora andasse a giudizio perché le ha fatto un video in un autogrill, sarebbe contento?

Io non ho denunciato per quel tipo di reato e se alla fine del dibattito sull'udienza preliminare restasse davvero solo quella contestazione io mi riservo di fare valutazioni perchè quel tipo di reato lì credo sia procedibile solo a querela di parte. Vi stupirò: se davvero fosse soltanto quello l'argomento io per primo rifletterei. (...) 

Io non credo a questa storia, perchè ci sono quattro versioni diverse ma soprattutto perchè io ero lì quel giorno e quindi so da dove la foto poteva essere fatta. (...) Aggiungo che stamattina una mia collaboratrice è andata in procura a Roma e non le è stato consegnato il fascicolo 415 bis, pur essendo io parte offesa. Vorrei capire perché secondo me il fascicolo come parte offesa si può avere.

In realtà il codice non prevede obblighi per i magistrati di consegnare copia dei fascicoli alle parti offese. Ma torniamo all'insegnante: le ha chiesto di incontrarla...

Ci sarà un incontro immagino in sede di udienza. Ci sono delle cose che non mi tornano e le voglio esporre al gup. Come mai ci sono quattro versioni diverse? Come mai Conte oggi dice che ha gestito il dossier con lo stile istituzionale da Presidente del Consiglio quando non lo era più?

Oppure Conte lo ha ricevuto (il video dell'incontro all'autogrill, ndr) prima alla luce delle dichiarazioni di Conte che magari tra un'ora smentisce? (Renzi fa riferimento all'articolo pubblicato ieri da L'Identità in cui si parla del video finito a Palazzo Chigi prima della puntato di Report. 

Ieri poi dallo staff di Conte hanno precisato che Conte ha avuto contezza del video solo da Report e che "nel rilasciare le dichiarazioni al quotidiano ha erroneamente collocato la trasmissione Report nel periodo in cui era premier, non ricordando il periodo esatto in cui venne trasmessa", ndr).

Se si dimostrasse che la persona che l'ha ripresa fosse davvero solo una professoressa, le chiederebbe scusa per averla portata a giudizio?

Io non ho fatto una denuncia nei confronti di una persona, ho chiesto all'autorità giudiziaria di verificare se vi erano dei reati. Chi chiede alla giustizia di verificare i fatti non ha nulla di cui scusarsi. Se fosse una cittadina che ha ripreso, verificheremo i fatti () Se ci sarà da valutare, intanto chiedo che mi diano gli atti. Poi sono molto tranquillo perchè so come sono andate le cose... 

Il Fatto oggi (ieri Ndr) parla della pubblicazione di una nota del pm di Firenze Luca Turco inviata al Copasir che gli chiedeva gli atti e pubblicata nella versione aggiornata del suo libro. Nota segreta per la Procura di Firenze. Da chi l'ha avuta?

Ho già risposto dicendo che procederò con un'azione civile nei confronti del Fatto. (...) Il titolo "Renzi spiattella un segreto del Copasir" a mio giudizio è foriero di una possibile azione di risarcimento danni. Non ho spiattellato alcun segreto. () Io ho riportato una notizia che era stata lanciata da voi (in realtà Il Fatto non ha mai posseduto nè pubblicato la lettera del pm Turco, ndr) a da altri, vale a dire la possibilità che il pm di Firenze avesse mandato al parlamento le carte come richiesto dal Copasir () 

MATTEO RENZI A REPORT DICE CHE MANCINI DOVEVA PORTARGLI I BABBI - 3 MAGGIO 2021

Queste carte arrivano al Copasir a marzo mentre la sentenza della Cassazione è a febbraio. Il Fatto ad aprile scrive che c'è questo fatto e viene fatto notare da una fonte, che non ha a che fare col Copasir, che c'è una notizia particolare in quell'atto, ossia la firma. 

La carta, che viene fatta in modo a mio giudizio contrario alla legge perchè viene fatta dopo la sentenza della Cassazione e comprende il materiale che la Cassazione ha detto di distruggere, è firmata da uno solo dei pm (...). Il pm Turco ha firmato questa carta senza la firma di Creazzo nè di Nastasi. (...) Quindi io non ho violato alcun segreto del Copasir, non ho violato alcun segreto istruttorio. (...) Un tema di segreto istruttorio, nel caso di specie non si pone, ma ove mai si ponesse sarei entusiasta, perchè in questi ultimi 5/6 anni (...) mi è capitato di vedere carte che riguardavano procedimenti inspiegabilmente pubblicate talvolta anche per esteso sui giornali. 

Se le dovessero chiedere chi le ha dato quella lettera di Turco lei risponderà?

Certo, però me lo deve chiedere un pm.

Estratto dell’articolo di A. Man. per “il Fatto quotidiano” il 7 Dicembre 2022. 

Matteo Renzi per il momento non intende incontrare l'insegnante che vide il suo incontro con l'ex dirigente dei Servizi Matteo Mancini all'autogrill di Fiano Romano e mandò a Report qualche immagine ripresa a distanza, né i suoi legali. 

Nei giorni scorsi, Giulio Vasaturo, avvocato della donna, ha messo a disposizione dei legali dell'ex presidente del Consiglio le generalità della sua assistita, peraltro agli atti delle indagini della Procura di Roma a cui prima o poi potrebbero avere accesso anche i difensori di Renzi. 

Per chiarire ulteriormente la vicenda è disposta a incontrarli e a farsi interrogare da loro, come del resto ha sempre detto di essere pronta a confrontarsi con il senatore che la chiama "sedicente professoressa". 

Vasaturo ha anche convocato Renzi per le sue indagini difensive. Ma per ora non c'è stata risposta, né Renzi era obbligato a rispondere. Come dimostra nel libro Il Mostro (edizioni Piemme) e nelle varie presentazioni preferisce intrattenere misteri e sospetti di chissà quale complotto benché sia accertato dai pm che la donna non ha legami con i Servizi. […]

Renzi, lo 007 e il legale: l'incontro all'autogrill e i nuovi misteri di una «spy story». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera l8 Dicembre 2022 

 Il caso dell’incontro all’autogrill. L’ex premier sceglie l’avvocato di Mancini

A due anni di distanza, Matteo Renzi rilancia i presunti misteri sulle foto rubate del suo incontro all’autogrill del 23 dicembre 2020 con l’allora dirigente dei Servizi segreti Marco Mancini, e per farlo sceglie l’avvocato Luigi Panella, lo stesso di Mancini. Al quale ha affidato il compito di presentare alla Procura di Roma «una memoria e un ulteriore esposto relativo alla violazione del segreto di Stato e al reale svolgimento dei fatti, in qualità di persona offesa», recita il suo comunicato.

Renzi-Mancini, il video dell'incontro in Autogrill trasmesso da Report

 La Procura ha già chiuso l’indagine ed è pronta a chiedere il processo per la professoressa quarantaquattrenne che fotografò e riprese l’incontro, accusata di «diffusione di riprese fraudolente», facendo capire che per i pm misteri non ce ne sono. A parte il contenuto di quel colloquio. Ma evidentemente l’ex premier, prima ancora di esaminare gli atti dei pm, non si ritiene soddisfatto. Continua a dire che «ci sono troppe cose che non tornano», e il suo nuovo legale chiederà agli inquirenti di esaminare ulteriori «elementi meritevoli di approfondimento».

Interrogatorio negato

Lui alla storia della professoressa che si trova lì per caso (ci resterà circa 40 minuti perché suo padre stava male ed ebbe ripetutamente bisogno del bagno e del bar), vede arrivare prima un signore scortato che aspetta qualcuno e poi Renzi che si mette a chiacchierare con lui, continua a non credere. Ma all’avvocato della donna, Giulio Vasaturo, che gli ha chiesto un interrogatorio nell’ambito di indagini difensive a tutela della sua assistita, Renzi non ha risposto. 

Ora il difensore potrebbe sollecitare la Procura a convocare l’ex premier, come del resto ha fatto in passato Marco Mancini con la direttrice del Dis (l’organismo di coordinamento dei Servizi) Elisabetta Belloni, in un’indagine separata nata dalla sua denuncia contro Report, la trasmissione di Raitre che ha mostrato le immagini dell’incontro. In quel caso a chiamare Belloni è stata la Procura di Ravenna (provincia dove Mancini risiede e Procura guidata fino a due anni fa, dunque prima della puntata di Report, da suo fratello Alessandro), e ad alcune domande la responsabile del Dis ha opposto il segreto di Stato. 

Sul quale Renzi continua a fare ironie e insinuazioni lasciando credere che quel rifiuto possa coprire fatti relativi al suo incontro con l’ex agente segreto, anziché le regole di funzionamento dei Servizi. Nella sua ricostruzione un po’ spionistica e un po’ da commedia della vicenda, l’ex premier irride anche il racconto della professoressa che avrebbe detto di aver visto Renzi e Mancini, al termine del loro incontro, andare uno a destra verso Firenze e l’altro a sinistra verso Roma: «Se uno va a sinistra in autostrada fa un frontale!». In realtà in un’intervista a Report la donna disse: «L’auto di Renzi ha proseguito prendendo l’autostrada in direzione Firenze mentre l’altra ha ripreso in direzione Roma» .

La direzione delle auto

Poi nell’interrogatorio dell’8 novembre alla Procura di Roma ha chiarito: «Ho lasciato l’area di servizio prima che le due vetture “istituzionali” (di Renzi e Mancini, ndr) abbandonassero il parcheggio. Procedevo a bassa velocità e passata la barriera di Roma nord, dopo la diramazione per Firenze, sono stata superata dall’Audi di Renzi che ho riconosciuto perché aveva il lampeggiante e viaggiava a velocità sostenuta. L’altra macchina invece non l’ho più notata, quindi ho dedotto che avesse preso una diversa direzione». L’avvocato della professoressa, oltre a convocare inutilmente Renzi per interrogarlo, ha comunicato all’ex premier e al suo avvocato di essere disposto a far sentire la signora anche da loro, ma pure in questo caso non ha ricevuto risposta. 

Nel frattempo Renzi ha aperto il «mistero Conte», dopo che il leader del Movimento Cinque Stelle ha dichiarato di aver appreso dell’incontro all’autogrill mentre era presidente del Consiglio. Ma Report è andato in onda il 3 maggio 2021, quando a palazzo Chigi c’era già Draghi, quindi chi ha avvertito Conte con quattro mesi di anticipo?

La versione di Conte

 L’interessato s’è corretto sostenendo di aver fatto confusione tra due periodi diversi, e che nessuno gli ha detto niente prima. Ma a Renzi, ovviamente, non basta. Tuttavia l’indagine della Procura di Roma ha escluso qualunque legame, anche di lontane parentele, tra la professoressa e i servizi segreti. 

La donna ha spiegato di aver contattato nell’immediatezza un suo amico giornalista, che nelle foto non riconobbe Mancini, e poi Il Fatto quotidiano, che non le rispose. Ad aprile 2021 vide una puntata di Report che parlava di possibili «complotti» renziani per far cadere il governo Conte 2, e inviò le immagini a loro. «Ci tengo a precisare — ha specificato ai pm — di non aver mai chiesto né percepito alcun compenso economico o di altro genere per il contributo che da semplice cittadina ho volontariamente dato a questa inchiesta giornalistica». 

I pm sono arrivati a identificare la donna con un atto abbastanza invasivo come l’esame dei tabulati dei giornalisti di Report, limitatamente al periodo che ha interessato la realizzazione del servizio. E per ora non ritengono che alla professoressa si possa applicare la non punibilità delle «riprese fraudolente» prevista per «l’esercizio del diritto di cronaca». 

La signora ha specificato di aver scattato 13 foto e due video, per un totale di 52 secondi, «dal posto di guida della mia autovettura, dove peraltro ero ben visibile dall’esterno e non nascosta. Dalla mia postazione vedevo il personale di scorta di entrambi gli uomini (Renzi e Mancini, ndr) che dialogavano tra loro e anche loro erano certamente in grado di vedere me, senza alcuna difficoltà». 

Parole che danno adito a un altro mistero: quattro persone adibite alla sicurezza che non si accorgono di una signora che riprende i personaggi che dovrebbero proteggere. Come resta l’interrogativo sul contenuto del colloquio tra l’ex premier e l’allora funzionario del Dis. All’epoca Renzi disse che fu uno scambio d’auguri con consegna da parte di Mancini di dolci natalizi; di recente ha aggiunto che gli riferì di voler far cadere il governo Conte 2. C’era altro?

Non è l'Arena, Giletti: "Ecco la donna dell'Autogrill". E Renzi chiama in diretta. Il Tempo il 12 dicembre 2022

Il video è del 23 dicembre 2020, quando Matteo Renzi viene filmato durante un incontro in Autogrill con l'allora dirigente dei Servizi segreti Marco Mancini. A girarlo è una professoressa che scatta 13 fotografie e gira due video mentre è ferma nella sua auto. Il caso esplode qualche mese dopo, quando Report manda in onda il video e una intervista alla donna, mantenendone l'anonimato. La protagonista del caso è stata intercettata nella puntata di domenica 11 dicembre di Non è l'Arena, su La7, dove ci si interroga dei vari aspetti della vicenda Autogrill: è lei la donna che ha girato il video? E Perché lo ha fatto? 

Massimo Giletti ha rivelato di essere riuscito a rintracciare la donna che due anni fa ha ripreso il leader di Italia Viva. Durante la trasmissione, il conduttore ha mostrato le immagini da lui girate lasciando però coperti il volto della donna e i dettagli che avrebbero potuto svelarne l'identità. "È laureata in Storia dell'arte, è effettivamente una professoressa, ha una sua famiglia" dice Giletti. "So dove abita, ma non ho voluto fare nulla di più. Voglio solo dire che è una professoressa come tante e, in base alle mie indagini, non ha rapporti con i Servizi segreti" afferma il giornalista che mostra un numerosi cellulare per permettere alla donna di mettersi in contatto con il programma. 

Lo stesso Renzi chiama poco dopo ribadendo che la storia non torna e che ha "elementi per dire che non sta in piedi: il nome di questa donna lo conosciamo da 15 giorni e non abbiamo nessuna intenzione di attaccarla, ma ha dato quattro versioni diverse della vicenda"", ha detto, insistendo di non avere nulla da nascondere e di voler solo "che venga fuori la verità".

Il leader di Italia viva aveva presentato un esposto nei confronti di Report. La professoressa venne indagata per "diffusione di riprese e registrazioni fraudolente". La donna ha detto di essersi trovata per caso all'Autogrill e avendo visto Renzi parlare con un uomo scortato seppur sconosciuto lo aveva filmato. Nel frattempo, la numero uno dei Servizi segreti Elisabetta Belloni ha apposto sulla questione il segreto di Stato.

Matteo Renzi telefona in diretta a Giletti: "Ma uno come lei...", sbrana Telese. Libero Quotidiano il 12 dicembre 2022

Colpo di scena a Non è l'arena, su La7. Massimo Giletti ha scoperto l'identità della donna che ha scattato le foto dell'incontro tra Matteo Renzi e lo 007 Marco Mancini all'autogrill di Fiano Romano diventate oggetto di una puntata di Report e ora di una inchiesta giudiziaria. Giletti è riuscita a incontrarla in strada tramite una soffiata e conferma: "E' una professoressa, laureata in storia dell'arte, e a quanto ci risulta non ha contatti con i servizi segreti". 

L'avvocato della donna telefona in diretta e accusa Renzi di non volere un confronto con la sua assistita. A quel punto a chiamare in trasmissione è lo stesso leader di Italia Viva: "L'avvocato dice una balla spaziale. Io con lui non ci vado a giocare a burraco, è l'avvocato difensore di una signora che deve rispondere in un Tribunale. Siccome tengo alle istituzioni, ho dato incarico a un legale e a un consulente tecnico. Settimana prossima presenteremo un esposto di 9 pagine con cui chiederemo al pm di fare indagine su alcuni punti, perché noi siamo parte civile".

"Quindi questa signora l'ha trascinata in un tribunale - interviene Luca Telese -. Meno male che lei l'ha tutelata, Renzi: è parte civile e questa signora si deve giustificare". "La discussione è molto semplice: quella storia è vera o non è vera? - domanda Renzi - Qualcuno deve spiegare perché hanno cambiato versione e ci hanno messo il segreto di Stato". "Quella storia è vera perché lei era là, la prossima volta cambi autogrill", ironizza Telese. Ma Renzi va avanti a spron battuto: "Ma uno come lei che deve seguire i fatti, ma le sembra normale che si metta il segreto di Stato? Su cosa lo mettono, sulla ricetta della Rustichella e del Camogli? Siccome non ho paura di niente, su questa vicenda si va fino in fondo. Il consulente tecnico verificherà se i telefonini della signora e del padre erano agganciati alle celle". "Pure sul padre vuole indagare?", lo contesta Telese. Appuntamento alla prossima puntata.

Barbara Visentin per il “Corriere della Sera” il 12 dicembre 2022.

Chi ha filmato e perché? Spinto da questi interrogativi, Massimo Giletti è tornato sulla spy story dell'incontro in Autogrill fra Matteo Renzi e lo 007 Marco Mancini nella puntata di Non è l'Arena andata in onda ieri su La7. 

Dopo aver ripercorso il caso, il giornalista ha rivelato di essere riuscito a rintracciare la donna che due anni fa ha ripreso il leader di Italia Viva, arrivando anche a filmarla. Durante la trasmissione, Giletti ha mostrato le immagini da lui girate lasciando però coperti il volto della donna e i dettagli sensibili per preservarne l'identità.

E ha poi confermato: «È laureata in Storia dell'arte, è effettivamente una professoressa, ha una sua famiglia». Sarà lei, ha aggiunto, mostrando un numero di cellulare, a mettersi in contatto con il programma se avrà voglia di parlare. «So dove abita, ma non ho voluto fare nulla di più. Voglio solo dire che è una professoressa come tante e, in base alle mie indagini, non ha rapporti con i Servizi segreti».

A chiamare in diretta a Non è l'Arena è stato poco dopo lo stesso Renzi, ribadendo che, dal suo punto di vista, la storia non torna e che ha «elementi per dire che non sta in piedi: il nome di questa donna lo conosciamo da 15 giorni e non abbiamo nessuna intenzione di attaccarla, ma ha dato quattro versioni diverse della vicenda», ha detto, insistendo di non avere nulla da nascondere e di voler solo «che venga fuori la verità».

È il 23 dicembre 2020 quando viene filmato durante un incontro in Autogrill con l'allora dirigente dei Servizi segreti Marco Mancini. I due vengono ripresi mentre parlano in un'area di servizio a nord di Roma da una professoressa che scatta 13 fotografie e gira due video mentre è ferma nella sua auto. 

La notizia diventa pubblica a maggio 2021, quando Report trasmette il video e in seguito intervista la donna (mantenendone l'anonimato). 

Dopo l'esposto presentato da Renzi nei confronti della trasmissione e della testimone, la professoressa viene indagata per «diffusione di riprese e registrazioni fraudolente», viene identificata e fornisce la sua versione dei fatti: racconta di essersi trovata lì per caso, di essere rimasta in Autogrill per circa 40 minuti perché suo padre non si sentiva bene, e, avendo visto il leader di Italia Viva parlare con un signore scortato e da lei al momento non riconosciuto, dice di aver ritenuto utile documentare l'incontro. 

La Procura di Roma aveva già escluso legami fra la professoressa e i Servizi segreti, ma l'ex premier Matteo Renzi vuole andare avanti con un nuovo esposto. I suoi dubbi sono alimentati soprattutto dalla scelta della numero uno dei Servizi segreti Elisabetta Belloni di apporre il segreto di Stato su una parte del caso.

Andrea Ossino per roma.repubblica.it il 12 dicembre 2022.

Il legale della professoressa che ha filmato "l'incontro dell'autogrill" porta Matteo Renzi in procura, o almeno ci prova. Nelle prossime ore infatti l'avvocato Giulio Vasaturo depositerà la richiesta di audizione congiunta per chiedere alla procura di Roma di poter interloquire con il leader di Italia Viva insieme al pubblico ministero. In due diverse occasioni infatti l'avvocato avrebbe chiesto al collega che assiste Renzi un incontro con il senatore, anche se sulla circostanza ieri l'ex premier, telefonando a Non è l'Arena, ha detto che si tratta di "una balla spaziale".

L'obiettivo del faccia a faccia tra l'avvocato Vasaturo e Renzi sarebbe interno alla strategia difensiva della professoressa che quel giorno di dicembre ha filmato l'incontro tra il senatore e l'ex 007 Marco Mancini. Chiarito che si tratta realmente di un'insegnante e visto che la procura di Roma non ha messo in dubbio la veridicità del suo racconto escludendo anche una strategia oscura dietro le quinte, magari volta a screditare Mancini e Renzi, resta da appurare se la donna abbia o meno commesso i reati di cui è accusata nel decreto di chiusura delle indagini: ovvero aver carpito le immagini fraudolentemente e averle diffuse. 

L'avvocato vuole dunque capire se quello dell'Autogrill fosse un incontro pubblico o privato. Il tema infatti è giuridico e riguarda la modalità di acquisizione del filmato e le norme che coinvolgono le fonti giornalistiche e i loro diritti, che secondo il legale sono gli stessi di cui godono i cronisti e che sono inerenti la rilevanza dell'informazione pubblica. 

Renzi ieri, in tv, ha posto anche altre questioni. La prima riguarda le "quattro versioni fornite dalla donna". In realtà la signora prima ha detto a Report (a cui ha inviato le immagini dell'incontro) che al termine del colloquio del 23 dicembre Renzi e Mancini hanno preso strade diverse. Poi alla polizia ha precisato di avere dedotto questa circostanza, visto che dopo essersi allontanata ha notato di essere stata superata in autostrada solo dalla macchina di Renzi. 

Il senatore ha posto anche domande sul segreto di stato che tuttavia riguarda solo una parte dell'indagine di Ravenna, quella nata dopo la denuncia di Mancini e non l'inchiesta romana.

Inoltre sarebbe inutile, come suggerito da Renzi, acquisire le immagini delle telecamere di sicurezza dell'Autogrill, visto che il caso è scoppiato ad aprile e i fatti sono di dicembre. 

Le celle telefoniche servirebbero solo ad appurare se realmente la donna era lì, circostanza al momento testimoniata solo dalle foto presenti nel suo cellulare. Immagini che non sarebbero state scattate da diverse posizioni, ma da diverse angolature perché gli interlocutori filmati si sarebbero mossi. 

Sulle condizioni cliniche del padre della donna, la persona che la professoressa accompagnava in macchina, sarebbe stata depositata documentazione medica che la procura ha ritenuto attendibile.

Renzi, esposto sulla donna che lo filmò: "Sì al confronto". Confronto sì, ma dai pm e non in tv. La spy story sul video girato il 23 dicembre di due anni fa e mandato in onda da Report a maggio 2021 si arricchisce di nuovi colpi di scena. Felice Manti il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Confronto sì, ma dai pm e non in tv. La spy story sul video girato il 23 dicembre di due anni fa e mandato in onda da Report a maggio 2021 si arricchisce di nuovi colpi di scena. Lo scontro sulle immagini di Matteo Renzi e dell'ex 007 Marco Mancini all'Autogrill di Fiano Romano, alla vigilia della caduta di Giuseppe Conte (che sul video si è contraddetto più volte) è andato in scena l'altra sera durante la trasmissione Non è l'Arena. Il conduttore Massimo Giletti ha rintracciato la donna a Viterbo, ne ha mostrato le immagini pixelate che la ritraevano in via San Pietro, vicino a una scuola, confermando quanto da sempre sostenuto dalla Procura, da Sigfrido Ranucci e dal legale Giulio Vasaturo, che difende la donna dall'accusa di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente: «È una laureata in Storia dell'Arte, è un'insegnante e non ha nulla a che fare con i servizi segreti italiani». Sarà, ma Renzi non ci crede. E alla proposta del legale della donna di un incontro-confronto dopo l'accesso agli atti contenuti nel fascicolo, il senatore di Azione-Italia Viva risponde con un altro esposto «con la richiesta di verificare le celle telefoniche della professoressa e del padre, le telecamere e le immagini in autogrill e ai caselli per certificare la reale presenza della professoressa e del padre oltre che la richiesta di testimonianza degli agenti presenti all'incontro. La difesa di Renzi chiederà di sentire la donna», dicono dal suo entourage. Insomma, per l'ex segretario del Pd la verità non è ancora uscita fuori del tutto. «Se vorrà incontrarmi, gli parlerò dei problemi della scuola...», aveva detto l'insegnante di sostegno all'Adnkronos, rivelando un coraggio da leoni nel mettersi in gioco in una storia che mescola intelligence, politica e diplomazie che rischia di travolgerla. Ma molte cose ancora non tornano, a partire dalle quattro, cinque versioni diverse fornite di volta in volta dalla donna: qualcuno ha violato un segreto di Stato? E perché il capo del Dis Elisabetta Belloni lo ha apposto? Quali altri protagonisti della vicenda potrebbero avere legami con i servizi? È vero che Conte vide il filmato mentre era ancora a Palazzo Chigi, come gli è sfuggito incautamente? Mancini sarebbe stato destituito per colpa di quell'incontro, anche se una fonte suggerisce al Giornale che da certi incarichi non ci si dimette mai. È forse questo il problema?

Luca Telese per tpi.it il 13 dicembre 2022.

E Renzi chiamò in diretta per protestare, per la prima immagine della ormai celebre “donna dell’Autogrill” in tv: “Guardi Giletti, sono ad una cena, ma non ho potuto non chiamare!”. È accaduto ieri, su La7. Massimo Giletti pubblica per la prima volta la foto (oscurata) della famosa professoressa del video (spiegando chi è) girato in autostrada sull’incontro tra l’ex premier e l’ufficiale dei Servizi, e Matteo Renzi chiama in diretta durante la puntata di “Non è l’Arena” per mettere in dubbio, ancora una volta, la versione della donna: “È mai possibile che ci sia una professoressa che racconta quattro diverse versioni sulla sua storia?”.

Non ci sta il senatore di Italia Viva, non crede a ciò che l’autrice del video ha raccontato ai magistrati sulla sua identità e su quel documento che lo fa soffrire tanto: “Se quella professoressa era davvero li, Giletti, se aveva davvero il padre che stava male, e se è vero che anche lui era lì… se tutto questo è vero si dovrebbe vedere dalle registrazioni telecamere!”. 

E così, di fronte ad un nuovo capitolo di una lunga e tormentata vicenda ancora una volta bisogna chiedersi: cosa c’è davvero dietro questa storia di un incontro in autogrill tra un politico e un dirigente di primo piano dei servizi segreti, che avrebbe dovuto restare sconosciuto all’opinione pubblica?

Malgrado una scaltra operazione propagandistica di Renzi (che è tornato a scrivere del video e di quella che chiama la “sedicente professoressa” nell’ultima edizione del suo libro, “Il Mostro”) occorre ripartire dai fatti. La notizia di ieri, a “Non è l’Arena” era ciò che Giletti ha rivelato (pur proteggendola con l’anonimato) sull’identità della donna: “Mi sono appostato per due giorni – ha raccontato il conduttore – l’ho attesa, l’ho filmata, non mostro il suo volto per non renderla riconoscibile, ma posso confermare che questa donna esiste, è una persona vera, e che fa davvero la professoressa come ha detto lei stessa a Report”.

Ed ecco il riassunto delle puntate precedenti: il programma di Sigfrido Ranucci – come è noto – aveva ricevuto una mail della signora, che annunciava di aver fatto un video in cui era immortalato l’incontro tra Matteo Renzi (che aveva riconosciuto) e un altro signore, anche lui “con la scorta” (che però lei non aveva riconosciuto). 

E come mai la donna era riuscita ad immortalare questo incontro? Spiegava a Report di essersi trovata in quella piazzola dell’autogrill per una indisposizione del padre, di essere rimasta incuriosita per l’incontro tra Renzi e uno sconosciuto che però aveva la scorta, per quel colloquio circospetto, e di averlo filmato per questo motivo.

È Report che identifica Marco Mancini, ricostruisce la dinamica, acquisisce anche la versione di Renzi. Uno scoop, senza dubbio, al punto che Mancini si deve dimettere (sono i giorni della crisi di governo) e Renzi è in imbarazzo: spiega che quel colloquio è avvenuto in un autogrill, che lui aveva fretta, che dice a Mancini di raggiungerlo, e che il cuore del faccia a faccia sono saluti, auguri (era il 23 dicembre) e il dono di un vassoietto di “Babbi”. Una versione a dir poco inverosimile.

Che però il leader di Italia viva supera a mondo suo, sostenendo in interviste, interventi televisivi e libri che la spiegazione della signora non lo convince: lui la chiama “la sedicente professoressa”, si domanda addirittura se esista davvero, aggiunge che a suo avviso la donna non aveva la possibilità di girare con il proprio telefonino quel documento: “Giletti – ha sostenuto anche ieri – ma a lei pare possibile che una donna abbia potuto fare tutto questo di fronte agli uomini di due scorte? Io voglio acquisite le registrazioni delle telecamere di sicurezza dell’autogrill, ho nominato un perito, le immagini sono prese da due posizioni diverse, la professoressa ha detto che Mancini è andato verso Roma e io verso Firenze. E poi si è contraddetta”. 

Nell’ultima edizione del suo libro Renzi la direttrice del servizio di aver apposto un segreto di stato (“Sulle stragi lo capisco, sull’autogrill no!”) e di voler capire “con l’aiuto di un perito, se il babbo della signora era davvero malato, e se era presente con il suo telefonino nella zona coperta dalle celle della rete”. Una straordinaria cortina fumogena in stile Renzi, che ipotizza dunque un complotto gravissimo per colpirlo, in cui i servizi segreti avrebbero usato la professoressa per coprire una loro attività investigativa, pur di colpirlo.

Il primo risultato è straordinario: non è più Mancini che deve spiegare perché è stato costretto alle dimissioni per una pratica come minimo irrituale, non è più Renzi che deve chiarire il contenuto di quel colloquio. È lei che deve discolparsi. Ieri l’ex presidente del Consiglio contestava anche l’affermazione fatta poco prima dall’avvocato della professoressa: “L’avvocato dice una balla, non è vero che io abbia rifiutato il confronto con la professoressa”. 

Peccato, tuttavia che le indagini siano state compiute e che tutti i punti di questa costruzione renziana siano già stati smentiti dalla procura della Repubblica:

1) La signora esiste davvero, questo ormai è fuor di dubbio ed è già stato stabilito senza ombra di dubbio dagli investigatori. 

2) La signora è – è stato verificato anche questo – una professoressa vera, e non ‘sedicente’, come dice Renzi. È laureata in Storia dell’arte, fa l’insegnante di sostegno nella scuola media superiore lavorando con dei ragazzi fragili. 

3) È stato provato che la professoressa non ha e (non ha mai avuto) nessun rapporto, di nessun tipo, con i servizi segreti. 

4) La professoressa ha potuto provare la sua presenza con le ricevute di transito dell’autostrada (grazie al tracciamento del Telepass, stampando l’estratto di pagamento) e

5) Le condizioni di salute del padre (addirittura presentando la documentazione sanitaria). 

6) La professoressa non ha fornito “quattro versioni”, come dice Renzi. 

Ne ha fornita una sola (Renzi è andato verso Firenze, Mancini verso Roma). E quando le hanno chiesto come lo sapesse, o come lo avesse stabilito, lei – che si era già mossa dalla piazzola – ha precisato di essere stata sorpassata dalla macchina su cui aveva visto Renzi (“con i lampeggianti accesi”) mentre andava verso nord, ma non da quella di Mancini.

7) Questa affermazione si fonda sul fatto che la professoressa ha dimostrato di conoscere benissimo quella strada (e quindi lo svincolo per l’inversione) perché da residente extra romana fa quel percorso molto spesso. E infine 

8) la Belloni non ha opposto nessun segreto di Stato sull’attività e sull’identità della professoressa (come ha spiegato bene Roberto D’Agostino in un suo editoriale). Fra l’altro, non è il servizio ma il governo a decidere in ultima istanza. E varie volte il segreto viene rifiutato. 

Anche perché

9) il segreto di Stato non è stato posto come dice Renzi “sull’autogrill” (altra balla) ma sulla vicenda professionale di Mancini. Questa spiegazione è stata fornita in una risposta ufficiale dal sottosegretario Alfredo Mantovano. Quindi si potrebbe concludere che tutti gli attacchi di Renzi alla professoressa e alla Belloni (di cui lui dice con orgoglio: “Sono io che le ho impedito di diventare presidente della Repubblica”, come se fosse un merito) sono stati una abile manovra diversiva all’insegna dell’antico adagio per cui “la miglior difesa è l’attacco”.

E ieri Renzi, in difficoltà sul tema del suo continuo tiro bersaglio sulla professoressa provava a giustificarsi a L’Arena dicendo: “Io non l’ho denunciata, Giletti. Io non ho denunciato la professoressa!”. Un’altra meravigliosa capriola dialettica del leader di Italia viva, che tuttavia poco dopo era costretto ad ammettere: “Mi sono costituito parte civile in questo processo”. Quindi, a rigor di diritto, il suo è un impegno ancora più grave. 

Alla luce della telefonata di ieri, la morale di questa storia è purtroppo amarissima: un politico, un potente, un ex uomo di Stato, combatte contro un normale cittadina, una professoressa di scuola media superiore, la costringe a pagarsi un avvocato e a sostenere un procedimento, a presentare documentazioni mediche, a dover spiegare che non ha nessun rapporto con i poteri occulti dello Stato, a dover tutelare il proprio anonimato e la propria reputazione, in una sfida impari in cui il suo accusatore la attacca ogni giorno in tv e sui giornali, mettendo in dubbio addirittura la sua esistenza.

Mentre lei – se vuole tutelare la sua famiglia – non ha nessuna possibilità di difendersi pubblicamente. Nel corso dell’indagine non si è sottratta a nessuna richiesta dei magistrati. Ieri Renzi diceva: “Io so da dieci giorni il suo nome”. E poteva farlo perché a comunicarglielo è stato lo stesso avvocato della professoressa. 

Non solo la difesa della signora aveva chiesto un interrogatorio difensivo con Renzi, anche per chiarire di persona tutti gli eventuali dubbi dell’ex premier. Ma in questo caso avrebbe dovuto riferite i contenuti del colloquio intrattenuto con Mancini essendo sottoposto all’obbligo di dire la verità. Evidentemente – fino ad ora – ha preferito non farlo: tuttavia ora Renzi potrebbe essere obbligato in ogni caso a rendere dichiarazioni davanti al pubblico ministero.

Fra l’altro: l’unico che ha cambiato versione, per ora, è Renzi, che tra una intervista e l’altra, ha fatto sparire l’immaginifica trovata “sullo scambio dei babbi”, che avrebbe fatto precipitare un aspirante capo dei servizi segreti in autostrada, con la scorta (per consegnare un cabaret di paste!). L’ultimo paradosso – infine – è questo: avendo già riscontrato in maniera inequivocabile che la signora non ha nessun rapporto con poteri occulti (ovvero ciò che prendendo una cantonata, in buona o in cattiva fede, Renzi sosteneva nella sua denuncia contro ignoti) il pm avrebbe dovuto archiviare l’inchiesta. Ha potuto procedere, invece, solo perché ha cambiato l’ipotesi di reato, immaginando – e ci vuole un bello sforzo intellettuale – che la professoressa abbia violato, da privata cittadina, quindi da sola, l’articolo 617 septies del codice penale.

Quello, in sostanza, che impedisce una registrazione fraudolenta di privati (il reato che commetterebbe un vicino di casa, per esempio, che per diffamare un suo condomino si nascondesse per filmarlo, e pubblicasse delle foto imbarazzanti sulla bacheca del palazzo). Peccato che sia difficile sostenere che la registrazione fosse “fraudolenta” (abbastanza improbabile, visto che il video è stato realizzato in uno spazio pubblico, addirittura nel parcheggio di un autogrill!). 

Peccato che non ci fosse fraudolenza perché era ben visibile. E peccato che non si tratti di un colloquio tra privati, visto che almeno uno dei due interlocutori era una figura nota, un ex presidente del Consiglio (quindi un personaggio pubblico!). La professoressa, per giunta, non ha “diffuso” quelle immagini, ma le ha consegnate a dei giornalisti per una legittima verifica (esistono ancora il diritto di cronaca e di inchiesta, in questo paese) su quel pubblico colloquio.

Se Renzi voleva discutere con Mancini e voleva farlo senza essere sottoposto a sguardi indiscreti, dunque, avrebbe dovuto farlo in una più consona sede istituzionale, e non intraprendere una guerra contro una normale cittadina perché è stato pizzicato mente discute con uno 007. Tuttavia questa non è solo la storia antichissima del lupo che rimprovera all’agnello di inquinare l’acqua che lui beve alla fonte. È un grave precedente che, se venisse giudicato un reato, porterebbe in carcere il 90% degli italiani e dei giovani che fanno filmati e li diffondono in rete, ad esempio sui social. 

Anche se l’ultimo e più clamoroso paradosso è questo: siccome è stato cambiato il capo di imputazione, se la professoressa (speriamo che il Pm rinsavisca) venisse giudicata colpevole, l’unico elemento certo sarebbe che ha agito da sola, che è provata l’assenza di qualsiasi legame, che è stata lei e non altri, e che la fantasmatica teoria di Renzi verrebbe smontata, rivelandosi una ennesima balla. Viceversa: anche se venisse prosciolta, a maggior ragione sarebbe provato che è innocente.

E infine, retroscena dopo retroscena, nessuno sta ragionando sul fatto, che se come sosteneva Renzi la professoressa ha agito di concerto con i servizi, non c’era nessun interesse a fare da paravento ad una operazione coperta. 

E adesso, dato che il Pm ha accertato che ha agito da sola (le indagini sono già concluse) la teoria di Renzi ha ancora meno senso: perché avrebbe dovuto rischiare un processo, addirittura auto accusandosi, una professoressa di scuola media superiore che non è mai stata in quell’autogrill, non ha il padre malato (come insinua Renzi) e non ha fatto quel video? Ecco perché se si va all’osso, alla fine della storia, quando il fumo della propaganda, scompare, la vicenda dei babbi e dell’autogrill resta una accusa priva di qualsiasi senso.

DAGONOTA il 22 novembre 2022.

Apporre il segreto di Stato su un’indagine vuol dire semplicemente che tale inchiesta potrebbe mettere in pericolo lo Stato. Un fatto gravissimo. E Renzi non si capacita: per me, riguardo all’intercettazione video all’Autogrill dove ha conversato per oltre mezz’ora con l’agente dei Servizi Marco Mancini, poi trasmessa da “Report”, per me non c’è nulla di così grave da opporre il segreto di Stato, sottolinea Renzi. 

E da abilissimo giocoliere della politica qual è, all’indomani dall’assoluzione dei genitori, il Bullo di Rignano tira l’acqua al suo mulino affermando che si tratta di una “vendetta” contro di lui, perché nel gennaio scorso si oppose alla candidatura di Elisabetta Belloni, la direttrice dei servizi segreti.

Ecco: alla conferenza stampa di oggi al Senato qualcuno gli dica che il Segreto di Stato applicato all’epoca del governo Draghi dal sottosegretario alla sicurezza Franco Gabrielli non riguarda la sua persona bensì lo 007 Mancini, l’unico che ha subito le conseguenze dell’incontro all’Autogrill con la cacciata su due piedi dai Servizi. E se si dovesse fare un processo, come vuole Renzi, si dovrebbe interrogare anche la persona che ha pazientemente girato per 45 minuti il video dell’incontro fuori dall’Autogrill. E potrebbero esserci delle brutte sorprese…

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 22 novembre 2022.

Matteo Renzi dice che è una «vendetta» contro di lui, perché nel gennaio scorso si oppose alla candidatura di Elisabetta Belloni, la direttrice dei servizi segreti. È seccatissimo, l'ex premier, perché Belloni nel maggio 2021 ha rifiutato di dire alcunché sul famoso incontro dell'autogrill tra lo 007 Marco Mancini e Renzi stesso. Belloni ha opposto il segreto di Stato alle domande dei magistrati che cercavano di capirne di più. E Mario Draghi ha confermato il segreto.

«Ma che c'entra un segreto di Stato?», s' interroga Renzi, che collega le azioni di Belloni allo stop alle sue ambizioni quirinalizie. «La cosa mi colpisce. Così non si saprà niente per i prossimi 15 anni. ..». Epperò, a difesa di Belloni ora si schiera palazzo Chigi. 

A parte che è notoria la vicinanza con Giorgia Meloni, che spinse per lei alla presidenza della Repubblica, il sottosegretario Alfredo Mantovano «conferma piena fiducia al direttore del Dis, ambasciatrice Elisabetta Belloni, a fronte delle dichiarazioni rese dal senatore Matteo Renzi». 

Mantovano rimarca che il segreto di Stato è stato ufficializzato da Draghi e che il tutto è avvenuto «nel corso di indagini dell'autorità giudiziaria, in relazione alla sola esigenza di tutelare la funzionalità dei Servizi, e per scongiurare il rischio di violarne la necessaria riservatezza».

Il segreto di Stato era stato peraltro comunicato al Copasir. Certo è che il colloquio incriminato avvenne nel dicembre 2020, quando si era all'apice dello scontro tra Renzi e Giuseppe Conte; e l'agente Mancini era in procinto di diventare il vice di Gennaro Vecchione, fedelissimo di Conte. Fu rivelato dalla trasmissione Report il 3 maggio 2021. Tutto avveniva quando Belloni ancora non era entrata in scena, e tantomeno era prevedibile la candidatura per il Quirinale.

(askanews il 23 novembre 2022) - "Sarei ben felice di incontrare il senatore Renzi". La testimone dell'Autogrill, che lo scorso 23 dicembre 2020 aveva scattato alcune foto e fatto riprese col proprio telefonino del senatore Matteo Renzi mentre colloquiava, nel parcheggio dell'Autogrill di Fiano Romano, con altro soggetto, poi individuato nella persona del dirigente - all'epoca - dell'Aisi Marco Mancini - , attraverso il suo legale, l'avvocato Giulio Vasaturo, replica alle dichiarazioni dell'ex premier Matteo Renzi. 

"Nel suo ultimo libro, in alcune interviste e nel corso di una conferenza stampa tenutasi ieri, 22 novembre 2022, - fa sapere il legale - il senatore Matteo Renzi ha reiterato una serie di dubbi ed oggettive insinuazioni, affermando fra l'altro che il Direttore Generale del DIS Elisabetta Belloni avrebbe addirittura opposto il segreto di Stato 'sul rapporto tra la presunta professoressa dell'autogrill e le strutture di Intelligence' (così ne Il Mostro, ed. Piemme, 2022)". 

"La mia ASSISTITA - prosegue Vasaturo - ha già ampiamente chiarito la propria posizione innanzi l'Autorità Giudiziaria, dimostrando in maniera anche documentale e, quindi, incontrovertibile la casualità della sua presenza presso l'autogrill di Fiano Romano e, ovviamente, la sua assoluta estraneità ad apparati di Intelligence; da semplice ed irreprensibile cittadina, nell'assistere a quell'incontro fra l'ex presidente del Consiglio e, con tutta evidenza, un altro esponente della Pubblica Amministrazione, in quanto anch'egli dotato di scorta istituzionale, la stessa ha avuto la curiosità di documentare l'episodio avvenuto in un luogo e con modalità che sono oggettivamente inusuali.

Proprio perché, come mirabilmente ribadito dallo stesso senatore Renzi, ogni persona perbene - continua il legale - 'non deve aver paura di chi esercita funzioni di potere nel nostro Paese' ma deve anzi adoperarsi attivamente per contribuire al controllo democratico dell'operato di chi detiene ruoli pubblici di altissimo rilievo, la mia ASSISTITA ha (ineccepibilmente) ritenuto che la documentazione di quell'incontro in uno spazio pubblico, fra l'ex premier ed altro funzionario pubblico, fosse potenzialmente di interesse pubblico e, quindi, giornalistico".

"La mia ASSISTITA non ha avuto modo di ascoltare nulla del colloquio fra i due, se non i saluti finali scambiati dagli interlocutori mentre si avvicinavano alla sua auto, posizionata praticamente a ridosso delle loro vetture istituzionali; - venendo poco dopo superata a gran velocità solo dall'autovettura del senatore Renzi e non dal mezzo del suo interlocutore, mentre percorreva la corsia autostradale che dal varco di Fiano Romano muove in direzione Firenze, la mia ASSISTITA ha semplicemente dedotto, con ovvia inferenza di buon senso, che l'altro interlocutore dovesse aver intrapreso il percorso opposto verso Roma".

L'avvocato della donna poi tiene a precisare: "in effetti la mia ASSISTITA ha avuto modo di vedere solo l'auto del senatore Renzi mentre percorreva l'autostrada in direzione nord ed ha solo dedotto, con logica stringente, quale fosse la diversa direzione intrapresa dal dottor Mancini". 

"La mia ASSISTITA - ha continuato Vasaturo - non ha alcun motivo di particolare ostilità nei riguardi del senatore Renzi e non ha tratto alcun beneficio, di alcun tipo, da questa vicenda che anzi ha causato e comporta una certa apprensione in questa cittadina, mamma ed insegnante esemplare che ispirato tutta la sua vita al valore della legalità".

 E dopo aver appreso che il senatore Renzi ha manifestato il comprensibile desiderio di conoscere personalmente la "professoressa" a cui più volte ha fatto riferimento in questi mesi, il legale fa sapere di essere da subito disponibile per favorire un colloquio tra la sua assistita e l'ex premier. "La mia assistita sarebbe davvero ben lieta di incontrare il senatore Renzi" conclude l'avvocato Vasaturo.

La strana vicenda Report. Ranucci conosceva notizie secretate, Renzi contro i video dell’autogrill: “Chiederò ai magistrati di aprire un fascicolo”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 23 Novembre 2022

Magistrati e servizi segreti hanno messo Matteo Renzi nel mirino? “Se non si è intuito, non mi fanno paura”, dice l’ex premier. Nella conferenza stampa indetta dal leader di Italia Viva, di paura non ce n’è, ma la rabbia è palpabile. Troppi segreti, troppi misteri ruotano intorno allo strano caso di quel Report (Rai 3) con cui, era il 23 dicembre 2020, con una dinamica ancora avvolta in un giallo, venivano impallinati lui e l’ex alto dirigente del Dis, Marco Mancini. I misteri in questi giorni, se possibile, si infittiscono. Ci riferiamo alla doppia smentita a Matteo Renzi per quel che aveva rivelato domenica alle 21 e 30 a “Non è l’Arena”, su La7. Le smentite, la loro successione involontaria, paradossalmente confermano la verità di quel che ha riferito Renzi: si chiama eterogenesi dei fini. Facciamo un passo indietro.

L’ex premier aveva anticipato già domenica scorsa da Giletti quanto contenuto nella seconda edizione de “Il Mostro”. La direttrice del Dis, Elisabetta Belloni – ha raccontato il leader di Italia Viva – ha posto il segreto di Stato sull’Autogrill di Fiano Romano, nel cui parcheggio, il 23 dicembre del 2020, il senatore già presidente del Consiglio si incontrò con Marco Mancini, poi pensionato dalla medesima Belloni. Renzi ha paragonato il segreto di Stato su Ustica e quello su Fiano Romano. Per capirci: uno che è stato presidente del Consiglio e senatore della Repubblica non può essere filmato segretamente e poi ritrovarsi su Rai Tre a Report e messo in croce per aver incontrato un dirigente dello Stato.

Nel libro, uscito ieri, Renzi scrive: “La direttrice dei Servizi segreti, Elisabetta Belloni – che non ho voluto alla presidenza della Repubblica – ha deciso nella primavera del 2022, quattro mesi dopo le vicende del Quirinale, di opporre il segreto di Stato durante l’interrogatorio come testimone all’interno di indagini difensive, cui è stata sottoposta a seguito della strana vicenda Report-Autogrill. Vengo a conoscenza dell’opposizione del segreto di Stato in modo rocambolesco e casuale il giorno 25 giugno 2022. Rimango senza parole. Alla luce di questa decisione – a mio avviso enorme – la verità sulle vicende connesse agli eventi dell’Autogrill sarà pubblica solo nel 2037. Ma cosa diamine ci sarà di così importante nei rapporti legati alla vicenda Autogrill da mettere il segreto di Stato fino al 2037?”.

E siamo a lunedì. Ranucci, il conduttore di Report, alle 11,01 del mattino sul suo profilo Facebook: “Non è stato posto alcun segreto di Stato sulla vicenda Autogrill… Semmai è stato Mancini a chiedere di indagare per presunta violazione del segreto di Stato”. Aggiunge: “Quello posto dalla dottoressa Belloni è il segreto sulle risposte alle domande poste da Mancini in merito alle dinamiche interne ai servizi di sicurezza”. Passano tre ore. Alle 14,25 esce la prima agenzia che riferisce la dichiarazione di Mantovano, Autorità delegata sui Servizi di informazione e sicurezza, apparsa sul sito di Palazzo Chigi. “Piena fiducia” alla Belloni la cui “opposizione del segreto di Stato è stata confermata dal Presidente del Consiglio nel giugno 2022”. Essa è avvenuta “nel corso di indagini dell’autorità giudiziaria in relazione alla sola esigenza di tutelare la funzionalità dei Servizi, e per scongiurare il rischio di violarne la necessaria riservatezza”. Insomma: hanno deciso insieme Belloni e Draghi. In coppia. Curiosamente il sottosegretario coinvolge Draghi ma sta attento a non sfiorare il suo predecessore Franco Gabrielli, il quale secondo prassi aveva presentato al presidente del Copasir, come prescrive la legge, adeguata comunicazione del segreto opposto dal Dis. Quel presidente era Adolfo Urso oggi ministro, al quale Gabrielli il 5 settembre, in piena campagna elettorale, si era così riferito: “Con il presidente Urso ormai siamo sullo stato di famiglia l’uno dell’altro” (Fanpage, 6 settembre).

Si noti: il segreto di Stato – dicono entrambi, Ranucci e Mantovano, uno dei quali non risulta ancora ufficialmente portavoce dei servizi – si riferisce al fatto che le domande vertevano “solo” sugli “interna corporis” dei servizi, per ovvie ragioni non divulgabili. Da noi interpellato l’avvocato Luigi Panella, che con Paolo De Miranda difende Marco Mancini, commenta: “Chi ha detto a Ranucci che le nostre domande, peraltro tutte vagliate dall’autorità giudiziaria, vertevano sul funzionamento (la dinamica interna) dei servizi? Io non posso confermare se Ranucci dica o no il vero, in quanto questi atti sono stati segretati dal procuratore. Ma sollevo due questioni. La prima: da chi, quando e a che titolo Ranucci ha ricevuto queste notizie profetiche di quanto avrebbe dichiarato l’Autorità delegata? La seconda: davvero il giurista e giudice Mantovano può credere che io sia così sprovveduto da porre domande irricevibili? Di sicuro posso dire che il segreto di Stato ha bloccato le indagini”. La tempistica dei messaggi di Ranucci e Mantovano ha insospettito anche Renzi. “Siamo davanti a una palese violazione del segreto istruttorio, quando il conduttore Rai prova a dettagliare lo stato dell’arte delle indagini, le richieste di Marco Mancini e dei suo difensori commette il reato di violazione del segreto istruttorio”.

Quante cose sa, Sigfrido Ranucci. Le sa persino prima che siano agli atti. “Siamo in diretta dal Senato, c’è qualche Procuratore della Repubblica in ascolto?”, chiede ironicamente Renzi. “Per violazione del segreto istruttorio si deve procedere d’ufficio, ma se nessuno in Procura ci segue, vuol dire che andrò io a depositare un esposto. Chiederò ai magistrati di aprire un fascicolo su Ranucci”, conclude Renzi. I misteri, in questa storia, sono tanti. E’ stato un continuo guadagnare giorni. Dapprima la direttrice Belloni fu convocata presso l’ufficio romano degli avvocati. Non si presentò. E non presentò alcuna giustificazione. Quindi, richiesta dai magistrati di presentarsi nella loro sede, chiese il rinvio. La terza volta domandò di essere escussa presso la sede del Dis (di solito simile privilegio è riservato al premier in carica). Rifiuto del Procuratore. Infine la massima autorità dei servizi dovette recarsi, senza se e senza ma, in una caserma. Per due volte. “Esce il mio libro e arrivano puntuali gli attacchi dell’Anm. Dicono che io sono responsabile di ‘una pericolosa delegittimazione dell’operato della magistratura’. La magistratura viene delegittimata quando i magistrati che sbagliano non pagano mai. Se cercate chi delegittima la magistratura, signori dell’Anm, guardate in casa vostra. E magari per una volta evitate di attaccarmi. Perché, come forse si è vagamente intuito, non mi fate paura”, ha concluso Matteo Renzi.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Estratto dell’articolo di Daniele Luttazzi per "il Fatto Quotidiano" l’1 Dicembre 2022.

1) I servizi segreti sono un asset strategico del Paese, non uno scudo politico che qualcuno possa usare per rafforzare la propria posizione nella contesa interna (Marco Minniti, ex-ministro dell'Interno ed ex-autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, il Foglio, 30 dicembre 2020).

2) Renzi fa riferimento al video girato a Fiano Romano. Ma fino a quel momento durante l'intervista non avevamo menzionato né la foto né il video che ci sono stati mandati. Come faceva Matteo Renzi prima dell'intervista a sapere dell'esistenza della documentazione inviataci riservatamente?

Renzi: "Ah, quindi lei l'ha visto? Eeh, quindi qualcuno le ha dato un video. Interessantissimo. Magari diranno che è un incontro, così, un cittadino, un passante. Sa che alle barzellette non ci crede nessuno, ma sono bellissime. Domandatevi perché avete quel video. Domandatevi soprattutto perché la trasparenza che chiedete agli altri non sempre viene messa in atto".

Però non mi ha detto cosa vi siete detti con Mancini.

"Come le ho detto, dovevo vederlo qui. Mi doveva portare, si figuri, i Babbi, che sono un bellissimo wafer romagnolo che il dottor Mancini mi manda tutti gli anni e che io mangio in modo molto vorace. Oppure lei vuol dire che il dottor Mancini è il grande ispiratore della mia battaglia per cambiare l'autorità delegata?"

(Report, 3 maggio 2021).

3) Dell'appuntamento all'autogrill, Renzi ha parlato anche a Torino il 24 novembre durante la presentazione del suo libro. Il senatore ha spiegato che Mancini "fa degli incontri perché è un dirigente di Palazzo Chigi, come tutti i dirigenti dei Servizi. Si può discutere, ma è una cosa legittima, consuetudinaria".

I due dovevano vedersi in Palazzo Giustiniani, al Senato, ma Renzi se ne dimentica e così con le scorte fissano l'incontro all'autogrill. "Sono momenti delicati, c'è la crisi del governo Conte, io sto dicendo in tv, come dico all'agente dei Servizi, che per quello che mi riguarda o Giuseppe Conte cambia o va a casa". Ma perché parla con un dirigente dei Servizi della caduta del governo? Renzi non fornisce maggiori dettagli (Fq, 29 novembre 2022). […]

Quel retroscena di Renzi sulla 007 Belloni. "Oppose il segreto sul caso Report-autogrill". Il leader di Iv: "Resto senza parole. Dunque la verità si saprà solo nel 2037". Pasquale Napolitano il 21 Novembre 2022 su Il Giornale.

«La direttrice dei servizi segreti Elisabetta Belloni ha deciso nella primavera del 2022 di opporre il segreto di Stato fino al 2037 durante l'interrogatorio come testimone all'interno di indagini difensive a cui è stata sottoposta a seguito della strana vicenda Report-Autogrill. Vengo a conoscenza dell'opposizione del segreto di Stato in modo rocambolesco e casuale il 25 giugno scorso. Rimango senza parole. Alla luce di questa decisIone enorme la verità sulle vicende connesse all'autogrill sarà pubblicata solo nel 2037. Ma cosa di diamine di così grosso ci sarà nei rapporti legati alla vicenda dell'autogrill da apporre il segreto di Stato fino al 2037?».

Il racconto di Matteo Renzi è contenuto nella versione aggiornata del libro «Il Mostro» in uscita. Un retroscena anticipato ieri sera durante la trasmissione «Non è l'Arena» di Massimo Giletti.

Un fatto che per essere inquadrato va collegato ad altri due episodi. Il primo avvienbe nel mese di gennaio del 2022: la mancata elezione al Quirinale del capo dei servizi segreti Elisabetta Belloni. Sono i giorni caldi della trattativa per scegliere il successore di Sergio Mattarella. Il centrodestra prova in prima battuta la carta del presidente del Senato Elisabetta Casellati. L'operazione fallisce. A quel punto riprendono le trattative tra Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Lega e M5s virano sul nome di Elisabetta Belloni, ex segretario generale della Farnesina, promossa da Mario Draghi a capo dell'intelligence italiana. Sul nome della Belloni convergono anche Enrico Letta e Giorgia Meloni. I numeri ci sono: è quasi fatta. Spunta la «variabile Renzi» che fa saltare i piani di Salvini e Conte.

Il leader di Italia Viva si schiera pubblicamente contro l'ipotesi che il capo dei servizi possa passare direttamente al Quirinale. La posizione è netta: «In una democrazia che funziona il capo dei servizi segreti non diventa capo dello Stato. Questo succede in Paesi anti-democratici. La rispetto ed è una mia amica ma bisogna avere il coraggio di dire che la sua elezione sarebbe sbagliata».

La seconda crea si apre nei Cinque stelle con la posizione dell'allora ministro degli Esteri Luigi di Maio. Morale della favola? Belloni salta. All'indomani tutti i partiti, tranne Fratelli d'Italia, chiedono a Sergio Mattarella il bis. Sintesi: l'uscita di Renzi ha sbarrato la strada verso il Colle al capo del Dis. Il secondo episodio risale al maggio del 2021. La trasmissione di Rai3 Report nella puntata del 17 maggio mostra le immagini di un incontro avvenuto il 23 dicembre 2020 tra il leader di Italia Viva Matteo Renzi e il funzionario dei Servizi segreti Marco Mancini in un autogrill di Fiano Romano. A riprendere con il telefonino un'insegnante ferma in auto. L'incontro avviene nei giorni caldi della crisi del governo Conte 2: Renzi ha deciso di aprire la crisi per mandare a casa il premier grillino. Crisi che poi culminerà con l'arrivo di Mario Draghi alla guida dell'esecutivo. A Report il video sarebbe stato spedito dalla docente. Versione alla quale Renzi non ha mai dato credito, sollevando il sospetto che lui e Mancini fossero pedinati in quei giorni. Perché Renzi e Mancini si videro in quell'autogrill? La versione di Renzi è che fosse un normale scambio di auguri con tanto di dolci natalizi. Il leader di Italia viva presenterà poi una querela contro la trasmissione di Rai. Per il senatore è stata violata la sua libertà e segretezza di corrispondenza e incontri con riprese illegittime. Renzi chiede l'acquisizione delle telecamere dell'autogrill per verificare la presenza o meno dell'insegnante. La querela è stata depositata alla Procura di Firenze. Tre episodi che hanno lo stesso protagonista: Renzi. Verità che forse non si conoscerà fino al 2037.

DAGOREPORT il 24 novembre 2022.

E Matteo Renzi è finito a mangiare la polvere mentre il suo libro "Il Mostro" si sta sgonfiando come un palloncino. Accecato dalla sua vanità e arroganza, ha frignato come un pupo senza latte di "macchinazione ai suoi danni", ipotizzando che la professoressa che riprese l’incontro tra Renzi e lo 007 Marco Mancini all'Autogrill di Fiano Romano avesse avuto in precedenza contatti con le strutture dell'intelligence. 

Per far crollare il castello di carte del "perseguitato" di Rignano sull’Arno ("vicende inquietanti e di una gravità inaudita’’) è bastato che venisse allo scoperto la misteriosa donna che ha girato i video, poi messi in onda da "Report" a maggio 2021.

Indagata dalla Procura di Roma per "diffusione di riprese e registrazioni fraudolente", un atto dovuto dopo l’esposto del leader di Italia viva, lo scorso 8 novembre la testimone dell’Autogrill si è presentata all’autorità giudiziaria e ha raccontato nei dettagli e per due volte, la propria versione dei fatti su quanto avvenuto quel 23 dicembre 2020, dando prova dell'assoluta casualità della sua presenza in autogrill e la sua totale estraneità ad apparati di intelligence. 

Certo, sia a Renzi che allo spione Mancini faceva comodo gridare al complotto dei servizi segreti (il primo), di essere stato cacciato dal DIS (il secondo). Invece i due "perseguitati" sono stati semplicemente inchiodati da un’insegnante, bloccata in un autogrill per le esigenze del suo genitore di andare in bagno.

Renzi ronzava di collusione tra servizi e ‘’Report’’ ("Io da cittadino sarei curioso di sapere come una trasmissione televisiva ha potuto avere i famosi filmati ed audio. Anche perché non è la prima volta che accade") ed è stato subito spiaggiato dalla dichiarazione di Giulio Vasaturo, legale della testimone dell’Autogrill, rilasciata ad Askanews: 

"Nel suo ultimo libro, in alcune interviste e nel corso di una conferenza stampa tenutasi ieri, 22 novembre 2022, - fa sapere il legale - il senatore Matteo Renzi ha reiterato una serie di dubbi ed oggettive insinuazioni, affermando fra l'altro che il Direttore Generale del DIS Elisabetta Belloni avrebbe addirittura opposto il segreto di Stato 'sul rapporto tra la presunta professoressa dell'autogrill e le strutture di Intelligence' (così ne Il Mostro, ed. Piemme, 2022)". 

"La mia ASSISTITA - prosegue Vasaturo - ha già ampiamente chiarito la propria posizione innanzi l'Autorità Giudiziaria, dimostrando in maniera anche documentale e, quindi, incontrovertibile la casualità della sua presenza presso l'autogrill di Fiano Romano e, ovviamente, la sua assoluta estraneità ad apparati di Intelligence; da semplice ed irreprensibile cittadina, nell'assistere a quell'incontro fra l'ex presidente del Consiglio e, con tutta evidenza, un altro esponente della Pubblica Amministrazione, in quanto anch'egli dotato di scorta istituzionale, la stessa ha avuto la curiosità di documentare l'episodio avvenuto in un luogo e con modalità che sono oggettivamente inusuali.

Proprio perché, come mirabilmente ribadito dallo stesso senatore Renzi, ogni persona perbene - continua il legale - 'non deve aver paura di chi esercita funzioni di potere nel nostro Paese' ma deve anzi adoperarsi attivamente per contribuire al controllo democratico dell'operato di chi detiene ruoli pubblici di altissimo rilievo, la mia ASSISTITA ha (ineccepibilmente) ritenuto che la documentazione di quell'incontro in uno spazio pubblico, fra l'ex premier ed altro funzionario pubblico, fosse potenzialmente di interesse pubblico e, quindi, giornalistico". 

"La mia ASSISTITA non ha avuto modo di ascoltare nulla del colloquio fra i due, se non i saluti finali scambiati dagli interlocutori mentre si avvicinavano alla sua auto, posizionata praticamente a ridosso delle loro vetture istituzionali; - venendo poco dopo superata a gran velocità solo dall'autovettura del senatore Renzi e non dal mezzo del suo interlocutore, mentre percorreva la corsia autostradale che dal varco di Fiano Romano muove in direzione Firenze, la mia ASSISTITA ha semplicemente dedotto, con ovvia inferenza di buon senso, che l'altro interlocutore dovesse aver intrapreso il percorso opposto verso Roma".

L'avvocato della donna poi tiene a precisare: "in effetti la mia ASSISTITA ha avuto modo di vedere solo l'auto del senatore Renzi mentre percorreva l'autostrada in direzione nord ed ha solo dedotto, con logica stringente, quale fosse la diversa direzione intrapresa dal dottor Mancini". 

"La mia ASSISTITA - ha continuato Vasaturo - non ha alcun motivo di particolare ostilità nei riguardi del senatore Renzi e non ha tratto alcun beneficio, di alcun tipo, da questa vicenda che anzi ha causato e comporta una certa apprensione in questa cittadina, mamma ed insegnante esemplare che ispirato tutta la sua vita al valore della legalità". 

E dopo aver appreso che il senatore Renzi ha manifestato il comprensibile desiderio di conoscere personalmente la "professoressa" a cui più volte ha fatto riferimento in questi mesi, il legale fa sapere di essere da subito disponibile per favorire un colloquio tra la sua assistita e l'ex premier. "La mia assistita sarebbe davvero ben lieta di incontrare il senatore Renzi" conclude l'avvocato Vasaturo. 

A questo punto, in attesa dell’incontro tra il Ribollito toscano e la professoressa (avverrà mai?), possiamo commemorare il fallimento di Renzi (e di Mancini): il loro attacco ad Elisabetta Belloni, capo del Dis, ha fatto cilecca.

Ma l’asineria di Renzi brilla quando parla di una "vendetta" contro di lui, perché nel gennaio scorso si oppose alla candidatura di Elisabetta Belloni, la direttrice dei servizi segreti. Ma il fattaccio dell’Autogrill fu rivelato dalla trasmissione Report il 3 maggio 2021, quando Belloni ancora non era entrata in scena, e tantomeno era prevedibile la candidatura per il Quirinale! 

Il senatore di Rignano deve anche sapere che il capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, ascoltata come testimone in indagini difensive sollecitate dai legali di Mancini, non ha opposto il segreto di Stato su questioni inerenti il funzionamento dei Servizi per il semplice motivo che il capo del DIS non può farlo: è il governo che può opporre il segreto di Stato, che infatti fu applicato all’epoca da Draghi e dal sottosegretario alla sicurezza Franco Gabrielli.

Lo ha rimarcato il sottosegretario con delega ai servizi Alfredo Mantovano: il segreto di Stato è stato ufficializzato da Draghi e che il tutto è avvenuto "nel corso di indagini dell'autorità giudiziaria, in relazione alla sola esigenza di tutelare la funzionalità dei Servizi, e per scongiurare il rischio di violarne la necessaria riservatezza". 

Amorale della fava: l’Italia ha avuto un presidente del consiglio talmente fanfarone che non conosce le regole dello Stato.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 24 novembre 2022. 

Ha scattato 13 fotografie e girato 2 video con il telefonino, la professoressa che incontrò Matteo Renzi all'autogrill di Fiano Romano il 23 dicembre 2020. Non perché lo stesse pedinando o spiando, ma solo perché avendolo visto parlare con un signore scortato e da lei non riconosciuto, lontano da autisti e addetti alla sicurezza, pensò che fosse utile documentare l'incontro. Tanto più in un periodo in cui si paventava la crisi del governo Conte 2, e il senatore stava giocando un ruolo di primo piano nella partita politica. 

La misteriosa signora è stata identificata, ha fornito per due volte la propria versione dei fatti e per le foto e i video trasmessi a maggio 2021 da Report su Raitre è ora indagata dalla Procura di Roma per «diffusione di riprese e registrazioni fraudolente». Un atto dovuto dopo l'esposto del leader di Italia viva e una prima testimonianza nel marzo scorso. Martedì 8 novembre invece è stata riconvocata con la garanzia di un legale al fianco, l'avvocato Giulio Vasaturo, che spiega: «Con massima serenità e disponibilità, la mia assistita ha ampiamente chiarito la propria posizione, dimostrando in maniera anche documentale, quindi incontrovertibile, la casualità della sua presenza all'autogrill, e ovviamente la sua assoluta estraneità ad apparati di intelligence».

Si tratta dunque di un'indagine dove non ci sono ipotesi di spionaggio, diversa da quella nata con la denuncia dell'ex dirigente dei servizi segreti Marco Mancini (l'interlocutore di Renzi in quella piazzola) contro gli autori di Report . È in quel procedimento che il capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Elisabetta Belloni, ascoltata come testimone in indagini difensive sollecitate dai legali di Mancini, avrebbe opposto il segreto di Stato su questioni inerenti il funzionamento dei Servizi. La «regista» dell'autogrill, invece, ha risposto a tutte le domande illustrando i dettagli di quanto avvenuto la mattina di quel 23 dicembre e successivamente.

Il viaggio da Roma (dove vivono i genitori) verso Nord (dove abita lei) insieme alla madre e al padre malato per trascorrere il Natale con loro, cominciò con una sosta dovuta a un malessere del padre e un'altra subito dopo all'area di servizio di Fiano Romano, dove bagni e bar erano arrangiati in alcuni container per i lavori in corso. Quando la donna s' è fermata non c'erano altre auto, ma subito dopo ne è arrivata una con tre uomini in giacca e cravatta; la donna ebbe l'impressione che il signore più anziano fosse una personalità scortata, ma non lo riconobbe.

Mentre aspettava il padre fuori dal bagno vide arrivare una' Audi rosso bordeaux dalla quale scese Matteo Renzi, al quale si avvicinò l'altro signore. I due si salutarono e cominciarono a parlare allontanandosi dalle due macchine, arrivando a una decina di metri da quella della signora. Nel frattempo la donna aveva riaccompagnato il padre in macchina a bere una camomilla presa al bar, perché nel container non c'erano sedie. La sosta durò oltre mezz' ora, aspettando che l'uomo si rimettesse del tutto prima di ripartire.

Nell'attesa la docente - esperta di arte e quindi attenta ai dettagli quasi per deformazione professionale, ha spiegato nell'interrogatorio - ha ripreso Renzi e il suo interlocutore, senza sentire quello che si dicevano; da informata lettrice di giornali aveva però intuito che l'incontro tra un leader politico e un signore scortato nel pieno di una quasi-crisi di governo potesse avere un rilievo di cronaca. 

Lasciando l'autogrill la donna passò vicino alla macchina di Renzi, e dal finestrino abbassato sentì il senatore salutare Mancini: «Tanto per qualsiasi cosa sai dove trovarmi». Imboccata l'autostrada verso Firenze, dopo un po' notò l'Audi del senatore con il lampeggiante blu acceso che sorpassava la sua; non vide più, invece, quella di Mancini, e ipotizzò che avesse preso l'altra direzione, verso Roma.

L'indomani la professoressa inviò a un suo amico giornalista due messaggi vocali e sei delle tredici foto, ma nemmeno lui riconobbe l'uomo che parlava con Renzi. E nei giorni successivi inviò le stesse foto all'indirizzo mail della redazione internet del Fatto quotidiano, da cui non ricevette alcuna risposta. Quattro mesi dopo, ad aprile 2021, le capitò di vedere in tv un servizio di Report su un presunto «complotto» per favorire la caduta del governo Conte 2 e contattò la redazione attraverso la mail indicata sulla pagina facebook del programma.

Da lì la contattarono subito, e così è nata l'intervista a volto coperto alla signora e la trasmissione in tv delle immagini dell'incontro Renzi con Mancini, la cui identità la professoressa dice di avere scoperto solo guardando il servizio di Report. 

Nell'interrogatorio la donna ha consegnato agli inquirenti le mail e i messaggi sulle foto inviate (già acquisite nel precedente interrogatorio), la documentazione medica sulla salute del padre e le fatture del Telepass; ha specificato di non aver chiesto né ricevuto alcun compenso per le foto e i video, e ha ribadito più volte di aver voluto solo dare un contributo «da cittadina» al diritto di cronaca. 

Proprio l'esercizio del diritto di cronaca è una delle circostanze per le quali l'articolo del codice penale per il quale la signora è stata indagata prevede la non punibilità. Ieri l'avvocato Vasaturo ha detto di essere «a disposizione» di Renzi e dei suoi legali per organizzare un incontro tra l'ex premier e la propria assistita, «appreso del comprensibile desiderio del senatore di conoscere personalmente la professoressa».

"Certe vicende inquietanti. Mi fido dei nostri servizi". Intervista al ministro Guido Crosetto. Sul caso Belloni. "Se ha opposto il segreto, è lo Stato ad averle detto di farlo. Perché?". Su Confindustria: "Bonomi fa opposizione un po' a tutti i governi. Gli chiedo: che farebbe?" Francesco Maria Del Vigo il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.

Guido Crosetto, cuneese doc, 59 anni, gigante (198 cm) della politica, appena atterrato dalla sua ultima missione risponde al telefono con voce pacata e misurata, ma non risparmia stilettate. Parla di tutto: dal Kosovo all'Ucraina, da Confindustria fino ad arrivare al giallo della foto di Renzi con uno 007 e sulla quale Elisabetta Belloni avrebbe posto il segreto di Stato: «Sarebbe gravissimo se qualche articolazione dello Stato, non necessariamente i servizi, avessero dato alla tv un documento solo per mettere in difficoltà un ex premier. E conoscendo la serietà della dottoressa Belloni, so che se ha opposto il segreto di Stato è perché lo Stato le ha chiesto di farlo».

E poi confessa che lui, anni fa, aveva già previsto tutto: il trionfo di Fratelli d'Italia e la Meloni prima donna premier. Sapeva già tutto, dice lui, ma con qualche piccola imprecisione. 

Ministro, come è andata la missione in Serbia e Kosovo?

«Molto bene, era da tempo che l'Italia non assumeva una iniziativa politica e diplomatica di così grande rilievo in quei Paesi: una visita congiunta di ministro degli Esteri e della Difesa è una cosa che prima non era mai accaduta ed è stata apprezzata moltissimo». 

Crede che il conflitto tra Russia e Ucraina sarà ancora lungo?

«Spero di no, ma nel contempo vedo che le cose non stanno migliorando in modo significativo. È cambiato il modo di combattere la guerra nelle ultime settimane, nel senso che le condizioni del terreno e la stanchezza rendono più difficile lo scontro frontale e quindi è partita questa tattica russa di bombardare le strutture civili, soprattutto quelle energetiche, per rendere impossibile a una parte significativa della popolazione civile di superare l'inverno».

Passiamo alle questioni interne. Ieri Carlo Bonomi ha attaccato pesantemente la manovra definendola «a tempo e priva di visione». Gli industriali si sono messi a fare l'opposizione a un governo di centrodestra?

«Bonomi fa opposizione un po' a tutti i governi».

Quindi, secondo lei, Confindustria è sempre insoddisfatta?

«Ma è normale, nessuno è mai soddisfatto pienamente. È una manovra fatta nel momento peggiore, dal punto di vista dei conti pubblici, economico e sociale, che ci sia mai stato negli ultimi 80 anni e dunque c'è molto meno margine. Ma nonostante questo abbiamo cercato di intervenire nelle aree più colpite, tra le altre cose è stato anche aumentato il contributo alle aziende per affrontare la crisi energetica. Però mi faccia dire una cosa».

Prego...

«Mi interesserebbe sapere da Carlo (Bonomi) quale sarebbe stata la sua manovra, come avrebbe utilizzato le risorse e dove sarebbe intervenuto, visto che ci sono molti dei temi che Confindustria ha posto in questi mesi, compreso un intervento su cuneo fiscale, energia, reddito di cittadinanza. Criticare è abbastanza facile, offrire un'alternativa è molto più complesso, anche perché il Governo deve pensare alla complessità della società e non a una sola categoria».

Cambiamo tema. Matteo Renzi, nel suo ultimo libro e in alcune interviste, ha detto che Elisabetta Belloni, numero uno dei servizi, avrebbe posto il segreto di Stato sulla famosa foto che lo ritraeva in un autogrill con Marco Mancini, allora dirigente dell'Aisi. Le sembra normale?

«Io da cittadino sarei curioso di sapere come una trasmissione televisiva (Report, ndr) ha potuto avere i famosi filmati ed audio. Anche perché non è la prima volta che accade».

E il segreto di Stato?

«Non mi vengono in mente i motivi per cui possa essere stato posto e per cui il filmato di "una professoressa" che passava per caso in un autogrill, mentre tutta Italia era chiusa in casa per il Covid, debba interessare lo Stato. Ma se l'ambasciatrice Belloni lo ha fatto è certamente perché lo Stato le ha detto di farlo: non è una scelta personale. Potrebbe far pensare che siano stati altri a dare alla tv pubblica italiana una notizia per mettere in difficoltà un ex premier. Io non penso sia possibile che venga dai servizi italiani perché conosco la serietà dei vertici e della Belloni in primis. Nutro verso di loro totale fiducia. Ciò detto, ci sono vicende raccontate da Renzi nei suoi libri che sono inquietanti e di una gravità inaudita. Parlo della persecuzione giudiziaria. Invece non hanno avuto alcun effetto. È grave anche il fatto che lui abbia denunciato - senza che nessuno abbia smentito -, che siano state fatte delle costruzioni giudiziarie poi rivelatesi false, contro di lui e la sua famiglia, e non ci sia stata alcuna reazione né politica né della società civile».

Ecco, parliamo di giustizia: questo governo ce la farà a scardinare il «sistema»? Tra l'altro a breve si rinnova il Csm...

«Per cambiare le cose non vedo miglior persona dell'attuale ministro della Giustizia. Ciò detto auspico che i magistrati approfittino del nuovo Csm per far recuperare alla categoria il proprio ruolo originario. La maggioranza di loro sono persone serie che hanno dedicato la vita alla giustizia e spero che riescano a farsi valere contro quella piccola minoranza che ha fatto della toga uno strumento politico».

Le prime cose che ha fatto al Ministero?

«Innanzitutto studiare la situazione e informarmi. Per poter dare prossimamente delle linee di indirizzo chiare. Io ero stato alla Difesa molto tempo fa e l'ho trovata cambiata...».

In meglio o in peggio?

«Mi lasci dire cambiata, come forse è cambiata molta parte della Pa... Un po' come se ci fosse una triste accettazione dell'impossibilità di cambiare, di continuare a competere con un mondo sempre più veloce è difficile. Mentre abbiamo persone straordinarie. Che vanno motivate».

È stato chiarissimo. Cambiamo argomento. Lei è uno dei fondatori di Fdi, il partito come ha vissuto questo grande successo?

«Con il senso del peso della fiducia ricevuta e che ti obbliga a dare il meglio dite stesso. Il nostro scopo è liberare il Paese dalla catene che lo hanno bloccato, ed è un lavoro enorme».

Con gli alleati come va?

«Direi molto bene, c'è una sinergia molto favorevole rispetto ad altri governi di cui ho fatto parte».

Come ci si sente ad essere ministro del primo governo presieduto da una donna?

«A me cambia poco. Ormai ci convivo da anni (ride, ndr). Questo è un punto di arrivo che abbiamo costruito insieme, una cosa che io ho in testa dall'inizio. Sono la persona per cui quello che è accaduto è la cosa più normale del mondo».

Mi spieghi, lei aveva già previsto tutto dieci anni fa?

«Non da 10 anni ma da anni si, ho sbagliato solo la tempistica».

Di quanto?

«Pensavo che quello che ora è accaduto sarebbe avvenuto 5 mesi dopo, a febbraio del 2023».

Ci è andato vicino, ha sbagliato di pochi mesi...

«Pochi mesi, ma molto significativi. Erano i mesi nei quali ci si sarebbe potuti preparare in modo più completo, anche per la formazione degli staff con cui lavorare. Ma siamo partiti lo stesso».

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 25 novembre 2022. 

[…] Il ministro della Guerra Crosetto vuole "sapere come Report ha potuto avere i famosi filmati e audio" dell'incontro in autogrill fra Renzi e la spia Mancini. Giusta curiosità, se non si sapesse già tutto, tranne il vero motivo per cui i due si parlarono aumma aumma: una insegnante passava di lì e, vedendolo confabulare con un tizio scortato, lo riprese col cellulare e inviò il video (gli audio se li è inventati Crosetto) al sito del Fatto e a Report.

Da allora Renzi tira in ballo i Servizi, che c'entrano solo perché lui incontrò uno di loro. Ciascuno è libero di riprendere chi gli pare sul suolo pubblico, specie se è per dare una notizia vera. O almeno così si pensava fino a ieri, quando la Procura di Roma ha indagato la prof per "diffusione di riprese fraudolente". È la stessa Procura che riuscì a non indagare Renzi e De Benedetti quando quest' ultimo svelò al suo broker che l'allora premier gli aveva anticipato il decreto Banche, consentendogli di guadagnarci in Borsa 600 mila euro sull'unghia. Quindi sì, gli italiani devono preoccuparsi di essere indagati. Ma non i politici: le persone perbene.

Estratto dell’articolo di Valeria Pacelli per “il Fatto quotidiano” il 25 novembre 2022.

[…] Diffusione di riprese e registrazioni fraudolente è […] il reato che la Procura di Roma contesta all'insegnante, che ora rischia il processo solo per aver visto in un autogrill di Fiano Romano Matteo Renzi con l'ex 007 Marco Mancini, aver fatto un video e averlo inviato a Report. 

L'articolo del codice penale contestato alla donna è il 617 septies, che cita: "Chiunque, al fine di recare danno all'altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione, è punito con la reclusione fino a quattro anni".

Si tratta di una norma entrata in vigore nel 2018 […] Negli anni passati la norma è stata fortemente criticata: colpiva il diritto di cronaca proprio perché rendeva punibile con il carcere (fino a quattro anni) chiunque registrava incontri e conversazioni di nascosto. Polemiche che portarono all'inserimento di un comma che prevedeva casi di non punibilità, ossia quando le registrazioni servivano al diritto di difesa o di cronaca.

Ma non è diritto di cronaca quello di un cittadino che vede e riprende un incontro tra un soggetto pubblico, come di certo lo era Renzi quando nel 2020, da senatore, incontrava Mancini all'autogrill? Per la Procura di Roma evidentemente no, tanto che ieri ha notificato all'insegnante l'atto di chiusura indagini. Vedremo se nei prossimi giorni ci sarà una richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio. Poi la parola passerà al gip […] Il giudice dovrà pronunciarsi […] su un altro aspetto, quello dell'elemento soggettivo, ossia se […] la fonte di Report volesse arrecare un danno alla reputazione di Renzi o di Mancini.

Il procedimento è stato avviato dai magistrati romani dopo una denuncia presentata dallo stesso Renzi […] che metteva in dubbio la veridicità del racconto dell'insegnante […] Su questo la chiusura indagine della Procura di Roma lo smentisce: l'insegnante esiste ed è una cittadina qualunque […]a scapito della tesi del complotto c'è anche un altro elemento: quei video e foto furono inviati anche alla redazione del Fatto che colpevolmente non se ne accorse. […]

Estratto dell’articolo di Ilaria Proietti per “il Fatto quotidiano” il 26 novembre 2022.

“Ma quale complotto. La verità dopo questo gran polverone è che c'è una semplice cittadina, un'insegnante, che ha osato filmare un politico in un luogo pubblico ed è stata per questo indagata per non si sa bene quale reato. 

L'altra certezza è che quel personaggio politico, ossia Matteo Renzi, alla fine non ha mai rivelato cosa si siano detti con l'ex 007 Marco Mancini in quell'incontro in autogrill filmato da quella signora".

Sigfrido Ranucci di Report non si capacita dopo che Matteo Renzi nella nuova versione data alle stampe del suo libro (Il Mostro) è tornato a evocare il complotto ai suoi danni. Mettendo da ultimo sulla graticola l'attuale capo del Dis, Elisabetta Belloni, e tornando ad alludere al ruolo dei Servizi rispetto al materiale che era servito a Report per rivelare quell'incontro in autostrada. 

Intanto quell'insegnante, fonte per un giorno, rischia il processo. "Siamo di fronte a un continuo assedio alle fonti. Così è a rischio la libertà di informazione". 

Renzi evoca complotti. È una narrazione in effetti suggestiva

Sì, certo è più affascinante sostenere di essere braccato dai servizi che ammettere di essere stato pizzicato da un'insegnante mentre si incontrava con Mancini. Ma non mi stupisco. 

Perché?

Perché ha pure lasciato intendere che la Belloni (sempre a sentire Renzi ce l'avrebbe con lui, ndr) si sia trincerata dietro il segreto di Stato per non rivelare la presenza in quell'area di sosta di agenti dei servizi. 

Quando invece semplicemente lo ha opposto alle domande dei legali di Mancini sulle dinamiche interne al Dis, che peraltro non dirigeva lei all'epoca dei fatti dell'autogrill, e che tra l'altro avevano portato al prepensionamento del loro assistito.

A quel tempo, infatti, era segretaria generale alla Farnesina. Poi era spuntata l'ipotesi di eleggerla al Colle, tramontata per mano renziana.

Infatti sono cose totalmente scollegate da un punto di vista anche temporale con la faccenda dell'autogrill. Per questo è strumentale evocare ombre, 007, complotti e segreti. 

Alla fine, l'unico segreto rimane quello che Renzi non ha mi rivelato, a parte il regalo dei babbi di cioccolata: cosa si sono detti con Mancini?

[…] Ma torniamo ai guai della professoressa: ora rischia 4 anni di galera.

Io ho fiducia nella giustizia e non posso nemmeno pensare che per essere stata nostra fonte le sia stato contestato un reato. Anche chi non è iscritto all'albo dei giornalisti può partecipare al diritto di cronaca. 

Però mi vorrei soffermate sugli effetti nocivi di tutto questo: intanto questa signora è costretta a pagarsi le spese legali e per questo io spero che Renzi rifletta su questo.

Però c'è qualcosa addirittura di più nocivo in tutta questa storia.

Sì, certo ed è un effetto micidiale perché è come se si dicesse ai cittadini 'fatevi i fatti vostri'. Come era successo anche altre volte. Cito quanto successo dopo la messa in onda di un servizio sulla Lega e qualcuno che si era sentito danneggiato aveva preteso di acquisire il materiale che era servito per la puntata. 

Cosa che ovviamente avrebbe significato identificare le nostre fonti. Ma che tipo di informazione vogliono quelli che braccano le fonti dei giornalisti? Preferiscono un giornalismo che non fa domande?

Allora diciamola una volta per tutte: c'è chi preferirebbe un'informazione fatta solo dei loro monologhi.

È a rischio il diritto di cronaca?

Direi se si pensa a quello che sta passando la signora del filmato dell'autogrill che è una fonte perfetta: ha dato una informazione a giornalisti accreditati in modo che potessero verificare i contenuti e la portata del materiale che aveva raccolto come abbiamo fatto con un lavoro scrupolosissimo. Ma cosa si può chiedere di più?

Estratto dell’articolo di Alessandro Mantovani per “il Fatto quotidiano” il 27 novembre 2022.

Per dare un nome alla donna che aveva inviato a Report le immagini dell'incontro tra Matteo Renzi e l'allora dirigente dei Servizi, Marco Mancini, la Procura di Roma ha acquisito i tabulati telefonici del conduttore Sigfrido Ranucci e dell'inviato Giorgio Mottola, che aveva lavorato sulla vicenda. […] Ottenuti circa due mesi di tabulati, a cavallo della trasmissione che andò in onda ai primi di maggio 2020, la polizia ha identificato la donna. 

Che peraltro, quando è stata contattata dalla Digos delegata dai pm, non ha affatto negato di aver ripreso a distanza con il telefonino l'incontro […]

Renzi sporse denuncia, ipotizzando che dietro l'insegnante - chiamata a volte "sedicente" - ci fosse qualche apparato dello Stato, magari un pedinamento, tanto da suggerire i reati di cui agli articoli 617 bis e 323 del codice penale, cioè l'installazione abusiva di apparecchi per intercettazioni e l'abuso d'ufficio. 

Non era così e il reato contestato all'insegnante è un altro, il 617 septies, diffusione di riprese e registrazioni fraudolente. Se i pm non cambieranno idea la citeranno a giudizio: rischia, in teoria, fino a 4 anni; abbastanza per spaventare chiunque voglia dare una notizia a un giornalista. 

[…] L'acquisizione dei tabulati telefonici […] non è vietata dalla legge - come del resto le intercettazioni - anche se viola il principio della segretezza delle fonti senza il quale non esiste informazione libera ma in alcuni casi è stata censurata dalla Cassazione quando ormai però il danno era fatto. Ora infatti i contatti di Mottola e Ranucci, non solo quelli con la fonte in questione, sono noti ai pm e alla polizia e saranno anche a disposizione della persona offesa, ossia Renzi. […]

Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 26 novembre 2022.

Per identificare la fonte della notizia dell’incontro tra Matteo Renzi e l’allora dirigente dei servizi segreti, Marco Mancini, la procura di Roma ha acquisito i tabulati telefonici di due giornalisti di Report. In particolare di Sigfrido Ranucci, che conduce il programma e dirige la squadra di cronisti, e dell’autore del servizio, Giorgio Mottola. 

Lo confermano a Domani autorevoli fonti giudiziarie vicine all’inchiesta sull’insegnante, colpevole secondo l’accusa di aver inviato le foto e i video dell’incontro in autogrill tra Renzi e Mancini. La donna è indagata per diffusione e registrazione fraudolente. 

Questo perché da cittadina ha filmato l’incontro tra i due personaggi pubblici nell’area di sosta di Fiano Romano (provincia di Roma) il 23 dicembre 2020. Fonti giudiziarie confermano inoltre che la signora non ha alcun legame con gli apparati di sicurezza, a differenza di quanto ipotizzato dai renziani e dall’ex presidente del consiglio.

 I magistrati, pur riconoscendo che Report ha lavorato con la fonte nella massima trasparenza, sono convinti che un comune cittadino non possa riprendere due persone per strada e poi veicolare le immagini alla stampa. 

Di certo, però, la questione è delicata. Setacciare i tabulati telefonici dei giornalisti vuol dire monitorare i contatti degli ultimi mesi avuti dai cronisti. Vuol dire entrare nella rete di relazioni di un’intera redazione. Ed entrare in possesso di un numero notevole di possibili fonti in rapporto con i cronisti durante quelle settimane. Il che viola la segretezza delle fonti, che sono sacre per ogni giornalista e tutelate peraltro dalla giurisprudenza europea.

E allora perché farlo? «I giornalisti hanno giustamente opposto il segreto professionale e non hanno voluto rivelare le fonti», spiegano dalla procura di Roma, «così i tabulati erano l’unico modo per individuare la persona che aveva recapitato le immagini dell’incontro tra Renzi e Mancini».

Nessun ripensamento, quindi, da parte di chi indaga sull’insegnante dei video. Una vicenda che ricorda in qualche modo quanto accaduto a Trapani nell’indagine sulle Ong: i magistrati avevano ascoltato le telefonate di diversi cronisti impegnati sul fronte migranti e in Libia. In un caso era stata messa sotto intercettazione anche una giornalista seppure mai indagata. A Roma nel caso Renzi-Mancini non ci sono intercettazioni, ma solo l’acquisizione dei tabulati, cioè l’analisi delle telefonate in entrata e in uscita dei giornalisti in un determinato arco temporale. L’effetto, tuttavia, è identico: mettere a rischio l’identità e la sicurezza delle fonti, non solo della donna che ha filmato Renzi, ma di molte altre che in quel periodo erano in contatto con la redazione del programma di Rai 3. Anche perché questi atti ufficiali confluiranno nel fascicolo a disposizione delle parti, anche quindi di chi ha denunciato Report.

Nei giorni scorsi Renzi aveva protestato perché Elisabetta Belloni aveva posto il segreto di Stato sulla vicenda. In realtà il vincolo non è stato messo sull’incontro in autogrill, ma sul funzionamento degli apparati di sicurezza di cui lei era a capo.

«Va decisamente escluso, senza timore di smentita, che qualcuno possa aver opposto il segreto di Stato sul rapporto fra la mia assistita ed i servizi di informazione e sicurezza giacché tale asserito collegamento, ipotizzato esclusivamente dal senatore Matteo Renzi, era ed è del tutto inesistente», è stata la risposta di Giulio Vasaturo, l’avvocato che difende l’insegnante del video inviato a Report.  Il legale dell’insegnante presenterà entro venti giorni una memoria articolata, contestando le ipotesi della procura. Come prima cosa cercherà di spiegare che l’incontro Renzi-Mancini non è un meeting privato, ma pubblico tra due personaggi pubblici in un luogo pubblico.

L’indagine della procura di Roma è nata da una denuncia di Renzi, in cui peraltro il politico ipotizzava tutt’altra fattispecie di reato e non quello contestato ora all’insegnante dalla procura. C’è da dire che non c’è una norma che impedisce alla procura di acquisire i tabulati e indentificare la fonte. I magistrati hanno rispettato la legge, ovviamente. Ma su questo la difesa della donna darà battaglia. Da quanto risulta a Domani chi difende la donna sta pensando a un passo ulteriore: l’ipotesi di porre una questione di legittimità costituzionale dell’atto di visione dei tabulati, ritenuto enorme e sproporzionato.

Il metodo utilizzato dai pm romani solleva parecchie perplessità tra i rappresentanti della stampa. Beppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa italiana, ha scritto su Twitter: «Chi e perché Chi è perché avrebbe acquisito i tabulati telefonici per controllare fonti di Report? Si tratta di una questione di assoluta rilevanza per il diritto di cronaca». Ora sappiamo come sono andate le cose. E la domanda è sempre la stessa: è lecito scavare tra i contatti dei giornalisti per scovare una fonte? Nessuna legge lo vieta espressamente, ma questo demolisce ogni tutela sulla protezione delle fonti. L’atto dei pm farà discutere e non solo in Italia.

Estratto dell’articolo di Valeria Pacelli per “il Fatto quotidiano” il 29 novembre 2022.

Il legale della professoressa indagata per aver ripreso l'incontro tra Matteo Renzi e l'ex 007 Marco Mancini all'autogrill di Fiano Romano e per aver mandato il materiale a Report, potrebbe convocare al più presto il senatore di Italia Viva in indagini difensive. 

Qui potrebbe avvenire anche il confronto con la docente. Il suo avvocato, Giulio Vasaturo, potrebbe chiedere all'ex premier di rivelare nel dettaglio il contenuto della conversazione con Mancini. L'obiettivo è dimostrare che l'incontro del dicembre 2020 aveva rilievo pubblico, e dunque la signora non ha commesso alcun reato nel riprenderlo e nello spedire il video alla trasmissione di Rai3.

Per averlo fatto, a oggi, la professoressa è indagata per diffusione di riprese e registrazioni fraudolente. Le viene contestato il 617 septies del codice penale, articolo che quando fu introdotto venne etichettato come norma anti-Report o anti-Iene. E a quanto pare ha funzionato. 

L'articolo prevede casi di non punibilità anche a tutela del diritto di cronaca. E per la difesa dell'insegnante sarà importante dimostrare come questo diritto sia esteso ai cittadini tutti e non solo ai giornalisti. Nel frattempo nei giorni scorsi in una nota Italia Viva aveva fatto sapere: "L'incontro avverrà quando la difesa di Renzi chiederà l'interrogatorio e il contro esame della sedicente professoressa". […]

Dell'appuntamento all'autogrill, Renzi ne ha parlato anche a Torino il 24 novembre durante la presentazione del suo libro Il mostro, in libreria in edizione aggiornata. Il senatore ha spiegato come Mancini "(...) fa degli incontri perché è un dirigente di Palazzo Chigi, come tutti i dirigenti dei Servizi. Si può discutere, ma è una cosa legittima, consuetudinaria". I due dovevano vedersi in Palazzo Giustiniani, al Senato, ma Renzi se ne dimentica e così con le scorte fissano l'incontro all'autogrill. 

"Sono momenti delicati - ha detto l'ex premier a Torino - c'è la crisi del governo Conte, io sto dicendo in tv, come dico all'agente dei Servizi, che per quello che mi riguarda o Giuseppe Conte cambia o va a casa". Ma perché parla con un dirigente dei Servizi della caduta del governo? Renzi non fornisce maggiori dettagli. Per il senatore il problema sembra essere un altro, ossia la fonte di Report che ancora a Torino apostrofava come professoressa "o sedicente tale". La donna è stata identificata, indagata e nel corso dell'inchiesta sono stati esclusi collegamenti con apparati di intelligence. [...] 

RENZI A "REPORT" IL 3 MAGGIO 2021 Dal profilo Facebook di "Report - Rai3" 

Cosa si sono detti Renzi e Mancini? Renzi ci risponde così: “. Mi doveva portare si figuri, i Babbi che sono un bellissimo wafer romagnolo che il dottor Mancini mi manda tutti gli anni e che io mangio in modo vorace. Oppure lei vuol dire che il dottor Mancini è il grande ispiratore della mia battaglia per cambiare l’autorità delegata?"

Estratto dell’articolo di Alessandro Mantovani per “il Fatto quotidiano” il 29 novembre 2022.

Scriveva la Cassazione sette anni fa: "L'articolo 200 del codice di procedura penale riconosce al giornalista professionista il segreto professionale limitatamente al nominativo delle persone dalle quali ha ricevuto notizie fiduciarie (). Il giudice può ordinare al medesimo giornalista di indicare comunque la fonte laddove tali notizie siano indispensabili per le indagini e sia necessario accertare l'identità della fonte. Tale diritto al segreto, e il limitato ambito in cui lo stesso può venir escluso, non possono che essere anche un limite alla ricerca dei dati identificativi dalla fonte attraverso il mezzo della perquisizione e del sequestro".

Era la sentenza 25617/15 sul caso del giornalista Sergio Rizzo, allora al Corriere della Sera, al quale la Procura di Bari aveva fatto perquisire il pc e sequestrare alcune email per cercare la fonte di un documento. Non si poteva fare, stabilì la Cassazione. Il principio dovrebbe applicarsi anche all'acquisizione dei tabulati telefonici, finalizzata a risalire alla fonte del giornalista, come è accaduto a Sigfrido Ranucci e Giorgio Mottola di Report, i cui tabulati sono stati acquisiti dalla Procura di Roma. […] Con i tabulati è stata identificata l'insegnante che aveva ripreso all'autogrill di Fiano Romano l'incontro tra Matteo Renzi e l'allora dirigente dei Servizi, Marco Mancini.

I legali di Ranucci, non indagato, hanno preso contatto con la Procura, per leggere l'ordinanza con cui il Gip ha consentito l'acquisizione dei suoi tabulati, che in astratto potrebbero impugnare: il conduttore e il collega sono stati sentiti solo come persone informate sui fatti dalla polizia delegata dai pm e alla domanda sull'identità della fonte hanno opposto il segreto, dal quale, secondo l'articolo 200, solo il giudice avrebbe potuto sollevarli, ordinando di rivelare la fonte se indispensabile per le indagini. 

Acquisendo i tabulati, il segreto è stato vanificato, come la Cassazione esclude si possa fare, peraltro all'insaputa degli interessati […] Non si può fare, ma quando arriva la Cassazione a dirlo, il danno (alle fonti e ai giornalisti) è già fatto. Ora l'insegnante rischia un processo per "diffusione e riprese di registrazioni fraudolente", mentre la diffusione in tv da parte di Ranucci e Mottola è ritenuta legittima. Un ginepraio.

Il legale di Renzi nella querela ipotizzava che uomini degli apparati dello Stato avessero ripreso e magari intercettato l'incontro. Non è successo. Però la Cassazione è netta anche se si tratta di individuare una fonte tenuta al segreto, un pubblico ufficiale: lo ha scritto nella sentenza sul caso del nostro Marco Lillo (09989/18) a cui avevano sequestrato telefono e pc alla ricerca delle fonti dell'inchiesta Consip. 

La Corte richiede sempre un bilanciamento tra il diritto al segreto e le esigenze delle indagini. […] Per la Corte europea dei diritti umani, spesso ignorata dai giudici, le attività invasive alla ricerca della fonte dei giornalisti violano l'art. 10 della Convenzione che riconosce "la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee" e ne stabilisce i limiti. […]

Ranucci contro i pm. "Sui miei tabulati violata la legge". Felice Manti su Il Giornale l’1 Dicembre 2022

"Spiati a nostra insaputa dalla Procura, che ha violato la legge".

«Spiati a nostra insaputa dalla Procura, che ha violato la legge». Sigfrido Ranucci l'altra sera a Di Martedì su La7 ha criticato i magistrati che hanno osato indagare sulla trasmissione. Dopo anni a tirare la volata ad alcuni pm, rilanciandone acriticamente persino le ipotesi più strampalate che poi si sono schiantate in Cassazione, si è rotto il giocattolo Report? Pare di sì.

Di cosa si lamenta sulla tv di Urbano Cairo il conduttore della trasmissione d'inchiesta Rai, con Bianca Berlinguer (pare) imbufalita per l'ennesimo favore alla concorrenza? Che i pm abbiano violato la sua privacy e quella del suo collaboratore Giorgio Mottola. Benvenuti nel club dei giornalisti intercettati. Certo, forse Ranucci pensava di avere le guarentigie previste per i parlamentari o semplicemente di essere legibus solutus, sciolto dalle leggi. E invece i pm del filone romano vogliono capire bene l'origine del video da 28 secondi che il 23 dicembre 2020 riprendeva Matteo Renzi e l'ex 007 Marco Mancini all'Autogrill di Fiano Romano, realizzato da un'insegnante che ora rischia quattro anni per quelle immagini rubate e spedite (invano) al Fatto quotidiano - non al Giornale o al Corriere della Sera - e due mesi dopo a Report. «Ha visto un'inchiesta su Renzi e ha pensato di mandare le immagini anche a noi. Il caso vuole che io mi renda conto che il personaggio è Mancini. Poteva essere una polpetta avvelenata ma - insiste - abbiamo appurato che il padre era malato, che medicinali prendesse, abbiamo visto il telepass e verificato che fosse un'insegnante. Ti rivelo un segreto: nella puntata del 14 giugno avevamo chiesto a Renzi di venire in trasmissione con lei, stravolgendo il format per la prima volta in 25 anni». Ma niente. E che cosa fanno invece i pm romani? «Hanno tirato giù legittimamente i tabulati e hanno rintracciato la professoressa, violando il segreto sulla fonte e senza passare da un giudice». Tutto vero. «Noi non siamo indagati - sottolinea il vicedirettore Rai - ma vogliamo tutelare la nostra fonte perché è un cittadino che partecipa a pieno titolo all'esercizio del diritto di cronaca». E qui Ranucci non cita l'indagine della Procura di Ravenna per diffamazione e rivelazione di segreto di Stato, anticipata dal Giornale, dove è stato interrogato assieme a Mottola e alla papessa di Vatileaks 2 Francesca Chaouqui, rea di qualche rivelazione di troppo (poi mandate in onda) proprio a Mottola, né il conduttore Giovanni Floris glielo ricorda. Dovere d'ospitalità, forse. «Così tutte le vostre fonti sono bruciate», dice invece il conduttore di Di Martedì. E Ranucci annuisce, non prima di strizzare l'occhio a Giorgia Meloni («È della Garbatella come me»), per poi tirare per la giacchetta i magistrati: «Documento vero, gestione della fonte trasparente. È cambiato l'atteggiamento delle Procure? Due ex parlamentari hanno veicolato due dossier falsi su di me ma la magistratura non è andata a fondo». Povero Ranucci, scaricato dai pm. Mala tempora currunt.

I misteri della nostra intelligence. Servizi e ‘disservizi’ segreti, il caso Renzi-Autogrill e le carte secretate a Travaglio: ma gli 007 non indagano. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Agosto 2022.  

L’estate volge al termine, le distrazioni finiscono e le ombre lunghe si mostrano lì dove le avevamo lasciate. Il giallo delle liste di proscrizione pubblicato dal Corriere è rimasto lettera morta. Abbiamo aspettato quasi due mesi per vedere se qualcuno tipo il capo della polizia Lamberto Giannini o il sottosegretario per i servizi segreti Franco Gabrielli, che a giugno aveva denunciato con studiata ira «qualche solerte mano» che passava carte segrete a giornali amici, convocasse una conferenza stampa come quella del giugno scorso.

Niente. Eppure, un caso eclatante di commistione quasi familiare tra grande stampa e servizi segreti si è consumato con allegria plateale. E non è il primo, in questo periodo di troppi disservizi e pochi segreti. Pag. 15 de Il Fatto Quotidiano, 25 giugno. Due mesi fa. Sotto la foto a colori del celebre incontro filmato all’Autogrill, il titolo: «Renzi-Mancini, Digos smentisce il senatore: “Chi ha filmato non aveva mandanti politici”». Scrive Vincenzo Bisbiglia, (nome quanto mai appropriato): «Non è emerso alcun collegamento degno di nota tra la donna che registrò il video dell’incontro tra Matteo Renzi e l’ex 007 Marco Mancini, avvenuto il 23 dicembre 2020 all’autogrill di Fiano Romano, e formazioni politiche o personaggi legati ai servizi segreti».

Bisbiglia riferisce che, a proposito del filmato poi andato in onda il 3 maggio successivo su Report «la Digos ha inviato un’informativa in cui smentisce» Matteo Renzi che aveva presentato a Firenze un esposto in cui denunciava «la grottesca e falsa» ricostruzione dell’insegnante chiedendo ai pm di indagare ipotizzando «una vicenda accuratamente orchestrata». La Procura di Roma ha proceduto contro ignoti, nessun indagato, e Sigfrido Ranucci, autore di Report, e la Innominata Insegnante, sono stati perciò interrogati «come persone informate sui fatti». Nel frattempo la Digos indagava, e ha scoperto che nessun agente dei servizi segreti ha mai frequentato la donna. Dunque, indagine chiusa, «nessun pedinamento», come asserito da Renzi nel suo libro Il Mostro.

Che c’è che non va? Nulla, secondo Procura e Digos, nessun reato in quella intercettazione video del 23 dicembre e nella sua diffusione dopo 130 giorni di beato sonno. Sicuri che non sia finita, magari in stato di sonnambulismo, sulla scrivania degli alti papaveri che l’hanno usata come arma di guerra politica e spionistica; e al diavolo la Sicurezza della Repubblica? Il Fatto non è stato smentito da nessuno e nessuno ha eccepito sull’effrazione dei segreti d’ufficio. In conclusione: è stata, secondo le autorità inquirenti e i suoi formidabili segugi, una stupenda casualità a consentire di abbattere due grossi piccioni con una fava. Si comincia dal colombaccio più grosso, segue l’altro.

Matteo Renzi. Un ex presidente del Consiglio, trattato come un oscuro cospiratore su Rai Tre (notoriamente in appalto a Pd e M5s), con danno reputazionale (mostrificazione) programmato come irreparabile. La sua colpa è di essere riuscito a portare Mario Draghi a Palazzo Chigi a discapito di Giuseppe Conte, al quale, altra stupenda casualità, dovevano la nomina i capi di Aisi e Aise, nonché i rispettivi vicedirettori, che nulla asseritamente sapevano di quei filmati. A sceglierli tutti era stato Conte, e ora Marco Travaglio che ne è l’indomito alfiere li definisce «i capi dell’intelligence più stupida del mondo». (Che fa, insubordinazione?) A proposito, Il Fatto sa che è Conte ad aver rinnovato, alla scadenza dei 15 anni, il segreto di Stato su Abu Omar, e che Draghi, tramite Gabrielli e Belloni, lo ha confermato? Facciamo una campagna insieme per farglielo togliere?

Marco Mancini. Defenestrato. Prima di quel 23 dicembre era stato convocato da Di Maio e Conte per comunicargli che sarebbe presto stato direttore o vicedirettore di Aise o Dis. Che cosa è successo dopo il fatal Autogrill, che cosa hanno riferito e mostrato a Conte? E soprattutto chi? Fatto sta che lo 007 è stato escluso dalle promozioni di Conte, e per giunta si è trovato a dover fare i conti con un Gabrielli deciso ad essere circondato solo da fedelissimi. Quelle immagini sgranate e l’interpretazione datane da Report sono così diventate la mannaia per tagliare la testa all’agente considerato la punta di diamante del controspionaggio occidentale, specie in direzione della Russia. Avrebbe fatto molto comodo a tener viva una rete di fonti ucraine costruite nei decenni. Ma avrebbe fatto ombra a Gabrielli, che ha preferito non credere ai dossier di americani e inglesi sull’immanente invasione, con il risultato di lasciare l’Italia in mutande davanti alle restrizioni energetiche. Secondo quanto rivelato, senza smentita, da Dagospia, ad agire e avviare al prepensionamento “spintaneo” è stato il vice direttore del Dis Bruno Valenzise (nomina, ovviamente, di Conte), che non ha mai nascosto la legittima amicizia personale e politica con il presidente del Copasir Adolfo Urso. Un allontanamento coattivo che è stato giustificato formalmente sulla base di una circolare applicata retroattivamente, come vedremo tra poco.

Un momento: qualcosa non ci convince. Proviamo a focalizzare qualche punto.

1) Grande come una casa è la violazione del segreto di ufficio da parte di un pubblico ufficiale, essendo difficile che le informative depositate in un’inchiesta della Procura di Roma camminino da sole come nei cartoni animati. Qualcuno ha preso quei fogli e li ha trasmessi al Fatto. E non possono essere stati gli avvocati di Renzi o di Mancini e neppure quelli di Ranucci e della celeberrima e Anonima Insegnante, essendo questi ultimi «non indagati». O è la Digos oppure qualcuno in Procura o forse la ormai leggendaria «solerte mano» dei servizi segreti coinvolti, come abbiamo visto, nell’indagine. Art. 326 cp, pena da 6 mesi a 3 anni. E chi ne usufruisce? Forse forse è ricettazione.

2) Apprendiamo che senza alcun contraddittorio della parte offesa Ranucci e XY hanno ovviamente ripetuto la versione della curiosità e della casualità, pur avendo la signora fornito pubblicamente tre versioni contraddittorie. Partita chiusa, secondo il Fatto. Ma che razza di procedura ci viene propinata?

3) A questo punto ci domandiamo come la Digos, e la procura con essa, ha potuto stabilire che la signora non è mai stata frequentata da «personaggi legati ai servizi segreti». Due sono gli atti possibili: il primo è chiederlo alla film-maker, la quale ha risposto ovviamente negando. Del resto, non è che l’idraulico o l’assicuratore o il collega quando le parlino tirino fuori il tesserino dell’Aisi, se mai lo fossero: non crediamo si usi così. Evidentemente la notizia del non coinvolgimento dei servizi arriva dai servizi. Cos’hanno fatto gli agenti della Digos? Hanno perquisito gli uffici dei direttori e dei vice di Aise, Aisi e Dis? Hanno chiesto a Gabrielli se ne sapeva qualcosa? Hanno comunicato il nome dell’Anonima Fiorentina e i dirigenti hanno messo alle strette capireparto, giù giù fino all’ultima fonte, per sapere se avevano avuto collegamenti con lei? Magari una domandina da parte del Copasir sarebbe opportuna o no?

Domande un po’ ingenue. Quante manine ci sono nei servizi segreti e in generale nei comparti della sicurezza che passano roba «classificata», la quale cioè dovrebbe rimanere segreta? Essendo questa pratica un reato, come da articolo 262 del codice penale («Chiunque rivela notizie delle quali l’Autorità competente ha vietato la divulgazione è punito con la reclusione non inferiore a tre anni»), è stata trasmessa denuncia da parte del sottosegretario prefetto Franco Gabrielli o dell’ambasciatrice Elisabetta Belloni alla polizia giudiziaria e/o alla Procura di Roma, o magari addirittura, per la conclamata evidenza dei fatti, si sono già mosse da sole? A che punto è l’indagine della polizia giudiziaria, o degli organi interni ai servizi, che si sta conducendo (ma davvero?) per individuare gli spioni che spiano le spie dall’interno e poi ne trasferiscono i segreti alla consueta tribù di giornalisti amici?

Ci sarebbe un’altra domanda: perché coloro che si definiscono volentieri «cani da guardia», pronti ad azzannare per lettori e spettatori il Potere (e non c’è Potere più grande del distillare e distribuire selettivamente segreti), si sono accucciolati rinunciando a mordere i polpacci dell’ «Autorità competente» con i quesiti di cui sopra? Abbiamo il sospetto che nessuno che sia ospite fisso di questa favolosa giostra dei segreti abbia interesse nel tagliare la «benedetta mano» che porge il pane e forse anche il salame di notizie ghiotte ed «esclusive». Altro che le schiacciatine dell’Autogrill.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

I misteri della nostra intelligence. Servizi segreti e manine, i proclami di Gabrielli e i misteri irrisolti sulla “più stupida intelligence del mondo”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 30 Agosto 2022 

Macchina indietro. Il 10 giugno scorso, ottanta giorni fa, Franco Gabrielli, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e Autorità delegata per la Sicurezza della Repubblica, si presentò in video-conferenza stampa dopo la pubblicazione sul Corriere della Sera di un presunto documento «classificato», che poi si rivelò la sintesi di più “bollettini sulla guerra ibrida” tutti quanti timbrati da Elisabetta Belloni, direttrice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza della Repubblica (Dis), come «riservati». A norma dell’art. 42 della legge 124/2007 significa che possono essere letti soltanto da chi ha il Nulla osta di sicurezza.

Il Corriere della Sera è certo importante e intoccabile ma quel Nulla osta ce l’ha? Era furibondo, il sottosegretario, ma – nonostante il Covid di cui in quei giorni era affetto – fu attentissimo all’effetto che avrebbero fatto le sue parole. Attaccare il fellone, garantirne personalmente la punizione, rassicurare gli italiani sulla determinazione di chi guida i servizi, cioè lui stesso. Disse: «Il documento (è) arrivato nelle mani dei giornalisti non perché è sceso dal cielo… Le stesse tempistiche insomma fanno ritenere che ci sia stata qualche mano solerte: è una cosa gravissima… chi mi conosce sa bene che nulla rimarrà impunito». Ha però subito tolto d’imperio la classificazione di «riservato» a tutti quei bollettini, dicendo che erano innocui, e li metteva a disposizione del popolo. Ma a quel punto era una generosità a poco prezzo, dato che i buoi avevano già completato la loro transumanza nelle accoglienti stalle del Corriere della Sera. Che pasticcio. L’accaduto non era fino a due parole prima «una cosa gravissima»? Ma com’è che un secondo dopo la medesima bocca annuncia che non è successo niente? Il brigante ha sparato con la pistola ad acqua. Resta un’unica certezza: c’è lo sceriffo che sistemerà tutto in men che non si dica.

Dal tono e dagli stilemi da questura usati, infatti, a parte la carineria di trattare la Belloni come una dilettante che ha secretato quel che non andava secretato, era chiaro che avrebbe assunto lui la parte del castigamatti. Il «chi mi conosce sa bene» è stato percepito da tutti noi che lo ascoltavamo come un «mo’ arrivo io»: sbroglierò personalmente il casino, e guai al fellone. Capiamo l’emotività del momento, e la volontà di rasserenare gli italiani garantendo personalmente il proprio impegno di ammazzasette. Non funziona così però. Lì non c’è stato solo un atto moralmente riprovevole, risanabile con atti disciplinari, bensì si è consumato un fior di reato, che Gabrielli non può sanare desecretando e sbianchettando a posteriori il bollettino consegnato a chi non aveva titolo né per leggerlo né per usarlo. Né può essere lui il soggetto che indaga e punisce i reati, lui è parte del potere esecutivo, non del giudiziario. Scriviamo di reati al plurale, perché secondo la lettera dell’art. 262 cp ultimo comma: «Le pene stabilite… si applicano anche a chi ottiene la notizia» senza averne titolo.

Non è grave anche pubblicare notizie riservate? O la legge si applica per i nemici e si interpreta per gli amici? Di certo la 124 del 2007 toglie ai direttori delle agenzie d’intelligence e all’Autorità delegata questo diritto-dovere. Loro dovrebbero vigilare per impedire sbreghi nella rete della sicurezza, non intervenire post factum sceleris. Tocca alla polizia giudiziaria e alla procura questa incombenza. Ri-domandiamo: questo è stato fatto? A proposito di legge 124/2007, essa riformò, con il voto quasi unanime del 3 agosto di quell’anno, «il sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica» e codificò «la nuova disciplina del segreto». Ecco la grida che ci serve, direbbe a Renzo l’Azzeccagarbugli. Con essa non ci si limitò a regolare «il segreto di Stato», ma anche a sigillare la riservatezza di altri documenti e notizie di minor gravità, ma comunque delicati, e di cui vietare la divulgazione. L’articolo 42 al secondo comma fissa quattro livelli di classificazione, dall’alto in basso: «Segretissimo, segreto, riservatissimo, riservato». Ma non è che se un documento è «solo» riservato allora si può rivelare un pochino e l’art.262 cp si applica poco…

Ci domandiamo un’altra volta: quante sono le «mani solerti» che passano carte, filmini, circolari a Rai-Report, Corriere della Sera, La Repubblica, Il Fatto, La Verità, Domani? Oppure è una manina sola e instancabile? O addirittura una manona? E perché, invece, neanche un cencio di documento «classificato» – e che perciò non dovrebbe muoversi dal cassetto dell’autorità competente – arriva al Riformista? Una spiegazione ce la siamo data. La manina semina su terreno fertile. Il magico fornitore di segreti ha due punti fermi prevalenti, almeno in questi ultimi anni, e individua i fruitori sulla base di una accertata propensione a: 1) contribuire alla «mostrificazione» di Matteo Renzi; 2) sfregiare la reputazione dell’ex capo del controspionaggio Marco Mancini, così da impedire che possa nuocere al pigro e autoreferenziale tran tran della «più stupida intelligence del mondo» (copyright Marco Travaglio).

Facciamo ancora macchina indietro e ci domandiamo se qualcuno non chiuda un occhio o forse due sia ai vertici delle agenzie degli 007 sia alla Procura di Roma quando si tratta per il bene della causa di Lorsignori di dribblare la legge. Su Renzi vi abbiamo già raccontato nei giorni scorsi come il procuratore di Firenze abbia consegnato al Copasir, violando una ordinanza della Corte di Cassazione che ne ordinava la distruzione, gli atti giudicati illeciti relativi all’inchiesta sulla Fondazione Open. Resta da rinfrescare la memoria a Franco Gabrielli, Elisabetta Belloni, Mario Parente e Giovanni Caravello su un fatto che a suo tempo denunciammo su Il Riformista. Nel mese di maggio del 2021 Franco Gabrielli comunicò al Copasir che il governo intendeva emanare una circolare che inibiva i rapporti tra agenti, politici e giornalisti, salvo autorizzazione dall’alto e congrua successiva relazione ai direttori delle agenzie. Il tutto a seguito del servizio di Report del 3 maggio che disegnava ombre sinistre su Renzi e un tipo “losco”, che Rai3 fece identificare a colpo sicuro come Marco Mancini da un anonimo, e mascherato sin nella voce, ex dirigente del Sismi e poi dell’Aise (sarebbe utile alle indagini della Digos individuare chi sia e che tipo di rapporti intrattenesse e abbia intrattenuto nel tempo con Sigfrido Ranucci e la sua redazione).

Fatto sta che quella circolare, come qualsiasi atto che riguardi gli interna corporis dei servizi, è obbligatoriamente classificata in una delle quattro categorie sopracitate. Ranucci gongolante annuncia di poterla mostrare in esclusiva. In realtà appare per un solo istante, dietro la gigantografia di Gabrielli, così che non si faccia in tempo a leggerla. Basta però bloccare l’immagine e siamo riusciti faticosamente a trascrivere buona parte del testo volutamente spampanato. Report infatti, dopo essersi attribuito il merito della direttiva purificatrice, si vanta pure di poter mostrare, forse il premio per il bounty killer, la bolla pontificia che ha fatto scattare la ghigliottina e cadere nel cesto la testa di Mancini. In realtà appare per un solo istante, dietro la gigantografia di Gabrielli, così che non si legga, si sa che è una noia. Siamo riusciti faticosamente a trascrivere buona parte del testo volutamente spampanato.

Eccolo: «L’Autorità Delegata a seguito dell’ampia eco riservata dagli organi di stampa all’incontro tra un alto dirigente del Comparto con un noto esponente politico, ha richiamato all’attenzione il rispetto delle norme comportamentali, sottolineando come condotte ordinariamente prive di disvalore e di interesse mediatico quando attuate dagli appartenenti agli OO.II. (organismi informativi, ndr), possono essere caricate di significati e piegate alle più disparate chiavi di lettura ed interpretazioni. Pertanto ha dato indicazioni affinché ogni tipologia di incontro con esponenti del mondo politico, giudiziario e, più in generale, suscettibile di esporre il Comparto alle citate criticità (sarebbero i giornalisti, ma meglio non inimicarseli citandoli espressamente, ndr), sia preventivamente autorizzata e gli esiti documentati per gli eventuali e successivi riscontri. Quanto sopra premesso, dispongo che gli incontri in argomento, da tenere sempre in coerenza con le previsioni degli artt. 44 e 45 del DPCM 1/2011, siano sottoposti alla mia preventiva autorizzazione e che gli esiti degli stessi siano documentati secondo le modalità e le procedure in vigore. La mancata ottemperanza delle presenti disposizioni configura motivo di grave profilo disciplinare».

Due note.

1) Questa circolare è stata retroattivamente applicata a Mancini per prepensionarlo. Più che il “grave profilo disciplinare” quel giorno, lunedì 17 maggio, si è consumato davanti a milioni di persone un reato talmente grave da essere punito con una pena da 3 a 10 anni. Gabrielli ha denunciato il fatto-reato? Almeno ha cercato di identificare lo spicciafaccende sporche che ha passato non i contenuti ma l’immagine originale della direttiva classificata? Se vuole fa ancora in tempo a denunciare. Ma ci risponda: l’ha fatto o no? E se no: lo farà? E perché? Vale anche in questo caso il «nulla rimarrà impunito» del 10 giugno scorso, o ci sono intoccabili?

2) Il testo dice che solo l’Autorità delegata, Gabrielli e basta, può autorizzare incontri con politici e giornalisti. Dal che si deduce che ha autorizzato il solenne e pubblico pranzo, per il comodo di fotografi e cineoperatori, tra Luigi Di Maio ed Elisabetta Belloni. Ma non era stata lei stessa ad affidare alla solita Fiorenza Sarzanini ricevuta nella sede del Dis, il dogma dell’«invisibilità» per uomini e donne dei servizi segreti? Mi sa che invisibili qui ci sono solo le solerti manine.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Silvano Russomanno, il personaggio simbolo del lato oscuro della Repubblica. Marcello Altamura e Gianluca Zanella il 21 Giugno 2022 su Il Giornale.

Classe 1924, Silvano Russomanno è un agente segreto, grande studioso ed esperto di dialettologia e glottologia e appassionato di pesca, nonché uno dei più importanti protagonisti dei fatti oscuri della storia repubblicana.

Storie incredibili, dalla seconda guerra mondiale alla Prima Repubblica, tra depistaggi, doppiogiochismo, fiumi di denaro e morti sospette. Professione 007 è la serie podcast nata dalla collaborazione tra Dark Side – storia segreta d’Italia e ilGiornale.it. Tutte le puntate della Stagione 1 sono pubblicate qui.

C’è fermento, nella questura di Milano. L’eco della bomba nella banca dell’Agricoltura di piazza Fontana assorda le orecchie di tutto il paese. Nessuno ancora lo sa, ma è soltanto il primo capitolo di quelli che passeranno alla storia come gli anni di Piombo. Un uomo fruga tra scatoloni e buste al chiuso di una stanza, cerca qualcosa, la trova. Alla luce gialla di una lampadina che penzola dal soffitto come un impiccato, si rigira tra le mani il frammento di un ordigno esploso. È quello che cercava. In quel momento, la porta alle sue spalle si apre. L’uomo sulla soglia resta immobile, tra le labbra un lungo bocchino d’avorio con una sigaretta accesa e il fumo che gli copre il volto. L’uomo nella stanza si volta e gli fa cenno di richiudere la porta.

Il depistaggio sulle indagini per la strage di piazza Fontana oggi è un dato acclarato, ma nel dicembre 1969 nessuno poteva immaginare che uomini dello Stato potessero brigare per deviare le indagini e facendo sparire preziosi reperti che avrebbero potuto già al tempo indirizzare gli inquirenti verso la pista giusta. Fu opera dell’Ufficio Affari riservati del Viminale guidato da Federico Umberto D’Amato. A guidare le operazioni sul campo a Milano è il suo braccio destro, Silvano Russomanno.

Classe 1924, soldato durante la Seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre si arruola nella Flak, la contraerea tedesca. Arrestato nel 1945 dagli Alleati, passa pochi mesi nel carcere di Coltano. È un personaggio interessante, Russomanno, un vero e proprio personaggio simbolo del lato oscuro della Repubblica. Ed è direttamente lui che, in un verbale reso ai magistrati della procura di Brescia nel 1997 e che ilGiornale.it può qui mostrare per la prima volta, racconta del suo primo contatto (casuale ovviamente…) col questore Gesualdo Barletta, primo capo dell’Ufficio Affari Riservati, che lo recluta e lo porta a Roma.

Terminato il conflitto, nel 1950 entra in polizia e subito viene spedito in uno dei fronti più caldi del dopoguerra, dove rimarrà fino al 1959: il Sud Tirolo. Nel racconto di Russomanno al Ros dei Carabinieri nel 1998 e qui presentato per la prima volta, questi si trova ad affrontare una situazione di emergenza anche dal punto di vista dell’organico e delle risorse dello Stato.

È qui che si trova il laboratorio della strategia della tensione che insanguinerà l’Italia negli anni a venire e Russomanno è un ottimo scienziato. In quella che è una zona di cerniera dove si muovono terroristi, contrabbandieri e spie, all’inizio degli anni Sessanta si verifica la prima serie di attentati sistematici a infrastrutture chiave del territorio. Il sospetto (forse qualcosa di più) è che ad armare la mano degli irredentisti sud tirolesi, che si battono per rivendicare l’identità tedesca della regione, sia stato proprio l’Ufficio Affari Riservati, nelle cui fila Russomanno entra ufficialmente solo alla fine del 1960.

Russomanno entra in contatto proprio in quegli anni con gli ambienti del neofascismo del Nord Est e in particolare quello Veneto. Le attività di questi gruppi vengono seguite in maniera discreta ma continua dagli Affari Riservati. Lo dimostra un fascicolo, trovato poi negli anni ’90 nel famoso deposito di via Appia, e che ricostruisce l’attentato avvenuto alla stazione di Verona il 30 agosto 1970. Nel verbale del 1997 reso ai magistrati della procura di Milano, qui presentato per la prima volta, Russomanno difende la riservatezza della sua rete di informatori sul territorio e poi, proprio sul finale, nega di conoscere il nome Zorzi.

Trasferito a Roma, il nostro uomo diventa ben presto il principale collaboratore di D’Amato, che ne apprezza il talento di fascicolatore metodico, ma soprattutto la sua capacità operativa. È proprio per questo che affida a lui il delicatissimo compito di recarsi a Milano nell’immediatezza della strage. È qui che Russomanno prende le redini delle indagini, mettendosi a capo della famigerata “Squadra 54”, ed è in questo contesto che si verificano fatti oscuri come la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli e la sparizione dei frammenti della bomba ritrovata inesplosa alla Banca commerciale di Milano lo stesso giorno della strage alla Banca dell’Agricoltura, una bomba inspiegabilmente fatta brillare, sottraendo così la possibilità di comparare i due ordigni.

Il clima di quei giorni concitati, con le tante ombre, le tante complicità, le troppe reticenze, viene descritto direttamente da Russomanno sempre ai magistrati milanesi, in un verbale del 1997, mostrato in anteprima da ilGiornale.it, soprattutto per quanto attiene ai rapporti con la “Squadra 54” e con gli informatori, ma anche col capo dell’allora squadra politica Antonino Allegra e il commissario Luigi Calabresi.

Negli anni a seguire Russomanno farà carriera. Già direttore della Divisione sicurezza interna dell’Ufficio Affari Riservati, diventa vice direttore del Sisde e direttore dell’Ufficio Sicurezza Patto Atlantico, in perfetta continuità con il suo mentore D’Amato. Il suo nome viene tirato in ballo praticamente in tutti i fatti oscuri della storia repubblicana. Perché Russomanno è uno che sa. Anche se decide solo di dire quel che può dire, magari quello che gli fa comodo. Come quando il giudice di Venezia Carlo Mastelloni lo interroga su Argo 16, l’aereo del 31º Stormo dell’Aeronautica Militare Italiana, precipitato nella zona industriale di Porto Marghera il 23 novembre 1973 poco dopo il decollo dall’aeroporto di Venezia-Tessera, causando la morte dei quattro membri dell’equipaggio. Nel verbale, qui presentato per la prima volta, Russomanno allude a un ruolo degli israeliani “anche se certo non me lo sarebbero venuti a dire…”.

In un successivo verbale, sempre reso al giudice Mastelloni, che ilGiornale.it è in grado qui di mostrare per la prima volta, Russomanno però ammette di aver attivato fonti internazionali, in particolare una attiva presso l’Ambasciata americana a Roma, a dimostrazione di quanto ramificati e forti fosse i rapporti internazionali dell’Ufficio Affari Riservati.

La sua scalata s’interrompe bruscamente nel 1980, quando sarà condannato a nove mesi di carcere per violazione del segreto d’ufficio: Russomanno è infatti accusato di aver passato i verbali segreti dell’interrogatorio di Patrizio Peci, il più famoso pentito delle Br, al giornalista del Messaggero Fabio Isman, a sua volta condannato.

Nel 1996 il suo nome torna alla ribalta con la scoperta dello storico Aldo Giannuli del suo archivio personale a Roma, in via Appia. Un deposito di fascicoli e dossier non protocollati raccolti negli anni della sua attività in seno all’Ufficio Affari riservati, documenti, lettere e rapporti che parlano di una frenetica attività spionistica, articolata nell’arco di quarant’anni. Interrogato dai magistrati che negli anni Novanta indagano su piazza Fontana e nell’ambito dell’inchiesta Argo16 (l’aereo dei servizi segreti precipitato nei pressi di Marghera nel 1973), il suo ruolo comincia a delinearsi, ma senza conseguenze sul piano penale.

Grande studioso ed esperto di dialettologia e glottologia e con l’hobby della pesca, Silvano Russomanno passa i suoi ultimi anni in disparte e morirà ultraottantenne nel suo letto, portando con sé molte verità che forse un giorno qualcuno scoverà in un altro archivio segreto.

Suor Teresilla, l'angelo delle carceri. Marcello Altamura e Gianluca Zanella il 14 Giugno 2022 su Il Giornale.

Chiara Barillà, nota a tutti come suor Teresilla, creò solidi rapporti con interlocutori di ogni risma tra i quali i più grandi protagonisti degli "Anni di piombo".

Storie incredibili, dalla seconda guerra mondiale alla Prima Repubblica, tra depistaggi, doppiogiochismo, fiumi di denaro e morti sospette. Professione 007 è la serie podcast nata dalla collaborazione tra Dark Side – storia segreta d’Italia e ilGiornale.it. Una nuova puntata qui ogni martedì alle 14.

Le tre e mezza di notte. Una fila di persone cammina sulla via Ardeatina illuminata dalla luce delle fiaccole. Sono in pellegrinaggio verso il santuario del Divino Amore. A capofila, come negli ultimi 24 anni, una suora minuta sta recitando il rosario quando - all’improvviso – due fari squarciano il buio. Una Renault Twingo sbucata dal nulla la centra in pieno, scagliandola in aria. Quando tocca l’asfalto, Chiara Barillà, da tutti conosciuta come suor Teresilla – l’angelo delle carceri, è già morta.

Nata nel 1943 in provincia di Reggio Calabria, Teresilla diventa suora nella Congregazione delle Serve di Maria Riparatrice. Diplomatasi come infermiera, viene assunta nell’ospedale San Giovanni di Roma, dove presterà servizio fino alla morte. Alla sua attività in ospedale, Teresilla affianca quella di volontaria nelle carceri. Sono anni difficili, anni che passeranno alla storia come “Anni di piombo”, e la giovane suora entra in contatto con molti detenuti politici e con alcuni tra i protagonisti dei maggiori fatti di sangue dell’epoca: terroristi di destra e di sinistra, appartenenti alle Brigate rosse come Morucci, Curcio, Franceschini e Faranda; membri Autonomia operaia come Franco Piperno e di Potere Operaio come Toni Negri, ma anche militanti dei NAR come Mambro e Fioravanti.

In questa sua attività, svolta spesso accanto a padre Adolfo Bachelet, fratello di Vittorio, il Vice Presidente del Csm assassinato dalle Brigate rosse il 12 febbraio 1980, suor Teresilla intreccia solidi rapporti con interlocutori di ogni risma. Non solo terroristi e delinquenti comuni, ma anche uomini dello Stato come Pertini, Cossiga, Andreotti, Piccoli, De Mita e molti altri. Nel 1985, Teresilla arriva nel carcere di Paliano, piccola comunità del frusinate. Tra i detenuti politici c’è Valerio Morucci, il compagno Matteo, tra i protagonisti del rapimento e della detenzione di Aldo Moro.

La Commissione Moro II avrebbe in seguito accertato che, in quell’occasione, suor Teresilla avrebbe svolto il ruolo di intermediaria tra il terrorista e l’allora neo-presidente della Repubblica Francesco Cossiga. A testimoniarlo, un appunto che Cossiga trasmette all’allora ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro, in cui sostiene che i brigatisti Morucci e Faranda “attraverso una fonte riservata, una certa suor Teresilla”, stessero cercando un contatto con lui per raccontare - in via riservata - la verità sulla vicenda Moro.

Che il rapporto tra suor Teresilla e Francesco Cossiga fosse molto stretto lo certifica un fatto: è proprio lei – attraverso il vicedirettore del quotidiano Il Popolo, Remigio Cavedon, a fargli avere, il 13 marzo 1990, il famoso Memoriale Morucci, il documento scritto dal compagno Matteo nel carcere di Paliano che, ancora oggi, viene considerato la verità “ufficiale” sul sequestro e sull’uccisione di Aldo Moro. Insieme al memoriale, un biglietto di accompagnamento che recita “Solo per Lei Signor Presidente, è tutto negli atti processuali, solo che qui ci sono i nomi. Riservato (1986)”.

Quando però la Digos entra in casa di suor Teresilla, sul tavolo della cucina trova una delle tre copie che le erano state consegnate da Morucci e che lei aveva conservato. A verbale, la religiosa fa mettere che si tratta di «un volume redatto a principiare dal 1984 dal noto Br Valerio Morucci e concernente la storia del sequestro Moro». Uno scarto di due anni inspiegabile. Come inspiegabile è il fatto accertato dalla Commissione Moro II: e cioè che nel luglio 1988 «una copia del “memoriale” identica a quella che sarà resa nota nel 1990 era già stata acquisita dal SISDE».

Ma le stranezze non finiscono qui. In un’udienza del Moro Quater, nell’ottobre del 1991, Teresilla minimizza, dicendo che l’idea di stilare il memoriale sia nata quasi per caso: «Parlando, tra le altre cose abbiamo detto…se ne mandiamo una copia a Cossiga, tu (Morucci, ndg) che pensi? Insomma, è stata una cosa così». Peccato che a smentirla ci pensa l’autore stesso del Memoriale. Interrogato dal pubblico ministero, che gli chiede come sia maturata la decisione di mandare lo scritto al presidente Cossiga, Morucci risponde: «Non è stata una mia decisione».

A nutrire perplessità sul ruolo svolto realmente da suor Teresilla sono anche alcuni famigliari delle vittime. In un’intervista del 2007 a Il Giornale, Maurizio Puddu, fondatore dell’Associazione delle Vittime del Terrorismo, esprime la sua opinione senza mezzi termini: «Secondo me aveva tutte le stimmate tranne quelle della religiosa. Volle incontrarmi in un caffè di Roma, zona piazza Venezia. Mi faceva strane domande sull’associazione, insisteva perché intervenissi in favore dei terroristi detenuti. Ebbi l’impressione lavorasse per i servizi segreti».

Probabilmente solo un’impressione. Probabilmente... non lo sapremo mai. 

Giorgio Conforto, la spia più sfuggente dell'intelligence italiana. Marcello Altamura e Gianluca Zanella il 7 Giugno 2022

Più conosciuto con il nome in codice Dario, Giorgio Conforto, presunta spia del Kgb è stato probabilmente un formidabile agente doppio, se non triplo. La sua vita rimane avvolta da un alone di mistero.

Storie incredibili, dalla seconda guerra mondiale alla Prima Repubblica, tra depistaggi, doppiogiochismo, fiumi di denaro e morti sospette. Professione 007 è la serie podcast nata dalla collaborazione tra Dark Side – storia segreta d’Italia e ilGiornale.it. Una nuova puntata qui ogni martedì alle 14.

La serata è trascorsa tranquilla, l’aria di Roma già è impregnata del sapore di un’estate ormai prossima. Due ragazze e un ragazzo sono ancora seduti attorno al tavolo. Fumano, parlano. Il ragazzo controlla l’ora, si è fatto tardi. In quel momento, la porta dell’appartamento al quarto piano di via Giulio Cesare 47, viene abbattuta con un boato. Urla, terrore, una spinta e i tre giovani finiscono a terra. I brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, latitanti, vengono portati via. La padrona di casa è l’ultima a essere trascinata fuori. Si chiama Giuliana Conforto. Processata per direttissima, viene assolta per insufficienza di prove.

Molti anni più tardi, nel 2017, viene ascoltata dalla seconda Commissione parlamentare che indaga sul caso Moro. Nel verbale, che ilGiornale.it presenta qui in anteprima, la Conforto conferma che a chiedere di dare ospitalità a Morucci e Faranda furono Franco Piperno e Lanfranco Pace, due dei leader dell’Autonomia. Quando scatta il blitz ai danni dei due brigatisti, racconta ancora la Conforto, avvisa il padre, all’epoca 71enne, che, dice, “era molto preoccupato e mi chiese cosa fosse successo”.

È il 29 maggio 1979 e su quel blitz ancora oggi non si è fatta piena luce. A quell’operazione partecipò anche il prefetto Ansoino Andreassi. Morto il 18 gennaio 2021, l’ex vice capo della Polizia all’epoca del G8 di Genova, rievocò quell’evento per la seconda Commissione Moro.

Nel verbale, qui presentato integralmente per la prima volta, Andreassi viene interrogato sui due appunti generati dal Sismi e trasmessi alla Questura di Roma riconducibili a un profilo informativo relativo a Giorgio Conforto e alla figlia Giuliana, rispondendo che “non facemmo una trasmissione ufficiale all’Autorità Giudiziaria di tali appunti, che mi dissero essere provenienti dal Sismi, in quanto io non avevo elementi per stabilirne la provenienza”.

Ammise poi che “Giuliana Conforto fosse già nota agli atti della Digos come estremista di sinistra: era una di quei fisici, tra cui Piperno e la Bozzi, che in passato si erano già evidenziati” ma aggiungendo che “il padre fosse del Kgb fu una sorpresa assoluta e sconvolgente, tanto che si temeva che potesse costituire un elemento distonico rispetto allo svolgimento del processo sul sequestro e l’omicidio Moro”.

Eppure, secondo alcune versioni, è questo l’episodio che determina il “congelamento” di Dario, nome in codice di Giorgio Conforto, padre di Giuliana, uno dei più importanti agenti del Kgb in Italia.

Il suo nome esce fuori nel 1999 dal controverso Dossier Mitrokhin. Un dossier arrivato in Italia attraverso il controspionaggio inglese, che l’avrebbe redatto sulla base di presunti documenti originali ricevuti da Vassili Mitrokhin, archivista del Kgb che avrebbe trafugato informazioni sensibili trascrivendole nell’arco della sua decennale attività ma di cui non esistono riferimenti certi, al punto che si è ipotizzato non sia neanche mai esistito. Come del resto i documenti da cui sarebbe scaturito il dossier. Nessuno li ha mai visti. A parte il controspionaggio inglese.

Sorvolando sull’autenticità e sulle finalità di questo dossier, dal rapporto contenuto al suo interno e chiamato Impendian n° 142 si apprende che l’agente Dario, classe 1908, sarebbe stato tra i più prolifici agenti segreti del Kgb in Italia dal 1932 al 1978. Nello specifico, ecco cosa si legge sul documento: “Era un avvocato che lavorava come giornalista e come funzionario agrario in Italia. Fu reclutato nel 1932 su base ideologica.

Il principale nome in codice di Conforto era Dario, ma era noto anche come Bask, Spartak, Gau, Chestnyy e Gaudemus. Nel 1937 fu infiltrato nel Partito fascista e successivamente nel Centro Anti-comunista annesso al Ministero degli Esteri italiano. Sotto la bandiera di questa organizzazione, Conforto reclutò tre dattilografe del Mae (Ministero Affari Esteri), Darya, Anna, e Marta, dalle quali ottenne regolarmente notevoli informazioni documentarie”.

Nella parte finale, il rapporto fa menzione anche della figlia di Giorgio, Giuliana, arrestata nella sua casa di viale Giulio Cesare, a Roma, dove offriva ospitalità a Valerio Morucci e Adriana Faranda in rotta con le Brigate rosse di Moretti. Nello stesso rapporto, si esclude che Dario abbia avuto un qualsivoglia ruolo nel caso Moro.

Ma facciamo un passo indietro: maggiori dettagli su Giorgio Conforto si apprendono grazie a una nota proveniente dalla Questura di Roma, datata 10 febbraio 1954, e presente negli archivi del Ministero dell’Interno. In questa nota, si legge che Conforto venne arrestato nel 1932 per attività eversiva, lo stesso anno in cui, stando al Dossier Mitrokhin, entrò neri servizi segreti russi.

Dopo questo arresto, fatto decisamente curioso, lo troviamo assunto presso il Ministero dell’Agricoltura, salvo poi essere nuovamente arrestato nel 1933, in quanto sospettato di tenere collegamenti con un’organizzazione comunista. Scarcerato dopo sei mesi e licenziato dal Ministero, venne riassunto nel 1934 – caso ancora più curioso - per ordine diretto di Mussolini. Trasferito all’Ufficio informazioni segrete del Ministero degli Affari Esteri, nel 1940 lavora per il Centro studi anticomunisti a Roma.

In stretti rapporti con Guido Leto, il capo dell’Ovra, il servizio segreto fascista, Conforto si occupa di tenere i contatti con elementi fuoriusciti dall’Unione Sovietica. Attenzionato sin dal 1946 da Federico Umberto d’Amato su suggerimento della super spia americana James Jesus Angleton, Conforto avrebbe lavorato anche per il Vaticano, anche se non restano documenti a certificare questa collaborazione, ma solo le parole rilasciate nel 1987 da D’Amato in un’intervista a Il Borghese di Mario Tedeschi.

Un agente doppio come conferma un appunto del 2000, stilato dal consulente della Commissioni Stragi Gerardo Padulo. Nella relazione, che ilGiornale.it è in grado di mostrare in anteprima, si fa cenno alla sorella di Giorgio, Silvia Conforto, il cui fascicolo contrassegnato PA, che il consulente ipotizza possa significare Patto Atlantico, è irreperibile.

Membro dal 1972 dell’Associazione nazionale del libero pensiero “Giordano Bruno”, collegata alla massoneria del Grande Oriente d’Italia, quando sua figlia verrà arrestata nel 1979, le procurerà un avvocato molto particolare: Alfonso Cascone, fonte confidenziale dell’Ufficio Affari Riservati tra gli anni ’60 e ’70.

Morto sul finire degli anni ’80, Giorgio Conforto resta una delle figure più sfuggenti dell’intelligence italiana. Presunto agente del Kgb, Dario è stato probabilmente un formidabile agente doppio, se non triplo. Peccato che probabilmente non lo sapremo mai.

Il cimitero delle spie. Report Rai PUNTATA DEL 09/05/2022 di Daniele Autieri

Collaborazione di Federico Marconi

Il 5 aprile scorso, 30 diplomatici russi vengono espulsi dal Ministero degli Esteri perché accusati di condurre operazioni di spionaggio sul suolo italiano.

Il 30 marzo del 2021 il capitano di fregata Walter Biot, in servizio presso il III Reparto dello Stato Maggiore della Difesa, viene arrestato con l’accusa di aver venduto segreti militari della Nato alla Russia. Tra i documenti sequestrati anche il Reperto S, un’analisi della Nato sulle attività destabilizzanti della Russia in Ucraina. Gli uomini del Ros dei Carabinieri lo trovano in macchina con un addetto militare russo di nome Dmitri Ostroukhov, un uomo proveniente dal Gru, il servizio segreto militare di Mosca. Il giorno dopo l’arresto Ostroukhov viene espulso e insieme a lui viene espulso anche l’addetto navale dell’Ambasciata russa in Italia, Aleksej Nemudrov, il numero due dei diplomatici russi nel nostro Paese, l’uomo che aveva gestito la logistica della missione sanitaria russa in Italia del marzo 2020. A un anno di distanza, il 5 aprile scorso, 30 diplomatici russi vengono espulsi dal Ministero degli Esteri perché accusati di condurre operazioni di spionaggio sul suolo italiano. Nel complesso, l’Europa espelle 149 diplomatici della Federazione Russa. Che relazioni ci sono tra le attività dei due uomini espulsi nel caso Biot e i 30 addetti russi definiti dal Presidente del Consiglio Mario Draghi “pseudo-diplomatici”? E che tipo di documenti segreti nell’ambito delle attività dell’Alleanza Atlantica cercavano le spie russe in Italia?

IL CIMITERO DELLE SPIE di Daniele Autieri collaborazione Federico Marconi immagini Chiara D’Ambros, Dario D’India, Tommaso Javidi, Andrea Lilli montaggio Andrea Masella grafiche Michele Ventrone ricerca immagini Paola Gottardi

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Una vicenda che ci riporta indietro nel tempo, ai tempi della guerra fredda quando le ideologie non solo dividevano i vivi ma anche i morti

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La terra di confine porta ferite visibili anche tra le lapidi. Nel piccolo cimitero di Miren, in Slovenia, una linea rossa segna il punto dove correva il confine imposto dalla cortina di ferro. Da un lato il blocco sovietico, dall’altro quello occidentale. In mezzo un muro che divide i vivi, ma anche i morti.

BARBARA FERLETIC – ABITANTE DI MIREN Qui ci sono mio suocero e mia suocera… e mio suocero è stato tra i primi che è stato seppellito nella parte italiana, e poi ci sono anche i nonni del mio marito lì, lì sono gli altri nonni e qui è lo zio di mio marito.

DANIELE AUTIERI Cioè qui i vostri cari erano divisi in due praticamente…

BARBARA FERLETIC – ABITANTE DI MIREN In due sì.

DANIELE AUTIERI E come faceva, si poteva venire a visitarli?

BARBARA FERLETIC – ABITANTE DI MIREN No … cioè si poteva però era tutto con soldati. C’era il filo spinato. Non so cosa pensare… non è stato bello

DANIELE AUTIERI Un’assurdità

BARBARA FERLETIC Un’assurdità sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’Italia è il terreno dove più forte si è consumato lo scontro tra Nato e Federazione Russa. Il 31 marzo del 2021, un anno prima della guerra, e un anno dopo dalla missione dalla “Russia con amore”, è stato arrestato l’ufficiale di Marina Walter Biot. È stato accusato di aver venduto dei segreti della Nato a delle presunte spie russe e rischia l’ergastolo. Biot è accusato in particolare di aver consegnato una scheda sd contenenti 181 foto di documenti secretati. Alcuni in particolare, come il reperto S, erano documenti della Nato, ed erano le note che la Nato aveva inviato sui movimenti destabilizzanti della Russia nei confronti dell’Ucraina. Questa sd è stata consegnata nelle mani di Dmitri Ostroukhov e con lui Aleksej Nemudrov, che è l’uomo che è stato appunto responsabile, l’addetto militare che è stato responsabile della logistica per la missione “Dalla Russia con amore”. Aveva contatti con l’entourage di Savoini come abbiamo detto e adesso viene coinvolto in questa situazione di spionaggio, e per questo lui e Ostroukhov sono stati espulsi dalla Repubblica italiana, un fatto che non ha precedenti nella nostra storia. Il nostro Daniele Autieri

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 4 marzo del 2021 il Segretario Generale della Nato Jens Stoltenberg parla agli studenti del College of Europe di Bruxelles. E li mette in guardia sulle mire della Russia, intenzionata ad allargare la sua sfera di influenza nel Vecchio Continente.

JENS STOLTENBERG – SEGRETARIO GENERALE DELLA NATO Questo tentativo di occupare i confini con forze militari come è stato visto in Ucraina e in Crimea è accaduto solo pochi anni fa quindi il bisogno di prevenire i conflitti nel nostro continente e di difendere l’Europa rimane molto stringente.

DANIELE AUTIERI Tredici giorni dopo, il 17 marzo, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden rilascia alla ABC un’intervista che diventa subito uno spartiacque nelle relazioni con la Russia.

GIORNALISTA Lei crede che Vladimir Putin sia un killer?

JOE BIDEN Sì, lo penso.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Passano altri tredici giorni e il 30 marzo: Spinaceto, un quartiere alla periferia di Roma, finisce sulle mappe della geopolitica mondiale. L’Italia diventa il terreno dove si consuma lo scontro tra la Nato e la Federazione Russa. Un ufficiale della Marina viene arrestato per spionaggio. Avrebbe passato documenti segreti ai russi in cambio di soldi. Al momento del suo arresto il capitano di fregata della Marina Militare Walter Biot è un ufficiale in servizio presso lo Stato Maggiore della Difesa, III Reparto Direzione Strategica e Politica delle Operazioni, incaricato di gestire flussi di informazioni altamente sensibili e coperte da segreto. Una grana diplomatica internazionale per il nostro Paese che obbliga il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, a riferire alle Commissioni Difesa di Camera e Senato

LORENZO GUERINI – MINISTRO DELLA DIFESA INTERVENTO ALLE COMMISSIONI DIFESA DI CAMERA E SENATO – 8 APRILE 2021 Chi è accusato di tali comportamenti ne risponderà di fronte alla legge, vorrei però dire che ancora una volta che i valori e le esperienze delle nostre forze armate sono altro rispetto a quanto si è evidenziato in questa bruttissima vicenda.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO All’arresto del capitano di fregata si accompagna l’espulsione di due alti funzionari dell’Ambasciata Russa. L’addetto militare Aleksej Nemudrov e il colonnello Dmitri Ostroukhov un altro diplomatico proveniente dal GRU, il servizio segreto militare russo, entrambi impegnati – secondo i nostri servizi di intelligence – a cercare prove di un’intesa tra la Nato e il presidente ucraino Zelensky.

TIBERIO GRAZIANI - PRESIDENTE VISION & GLOBAL TRENDS A quanto risulta erano due diplomatici che si occupavano della questione della difesa, della sicurezza, quindi due addetti alla difesa dell’ambasciata russa in Italia.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Graziani non è solo un esperto di geopolitica, ma è anche uno degli italiani indicati come filo-russi dalla discussa pubblicazione curata dai docenti Olga Bertelsen e Jan Goldman e distribuita dalla Columbia University.

TIBERIO GRAZIANI - PRESIDENTE VISION & GLOBAL TRENDS L’Italia è stata per motivi storici sicuramente un paese schierato nell’ambito occidentale che ha avuto la funzione anche di essere mediatore tra il blocco occidentale e la Russia, però questa funzione l’ha mantenuta anche dopo il collasso dell’Unione Sovietica.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO IL 25 marzo scorso, nella conferenza stampa rilasciata di fronte al tribunale di Roma, l’ambasciatore russo Sergey Razov torna sulla questione dei rapporti diplomatici con l’Italia.

SERGEY RAZOV – AMBASCIATORE DELLA FEDERAZIONE RUSSA IN ITALIA Io ho lavorato con i governi di Letta, Renzi, Gentiloni, adesso con il governo di Draghi. In tutti questi anni io e miei colleghi abbiamo fatto di tutto per costruire i ponti. Adesso con rammarico devo constatare che quello che è stato fatto viene smontato. La prima legge della diplomazia classica è non interferire negli affari interni di un paese e io la seguo precisamente.

DANIELE AUTIERI Due addetti militari sono stati espulsi un anno fa. In quel caso c’era stata un’ingerenza nelle questioni italiane? In quel caso di spionaggio si ricorda…

SERGEY RAZOV – AMBASCIATORE DELLA FEDERAZIONE RUSSA IN ITALIA Non ho capito… Volete analizzare e discutere su tutti gli episodi che si sono verificati in passato? Anche quelli forse un po’ spiacevoli? Le spiegazioni sono state date tramite il canale ufficiale che esiste tra l’Italia e la Russia …

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Aleksej Nemudrov è ben inserito nella rete italiana. Il 22 marzo del 2020 è lui a guidare la task-force russa anti Covid inviata dal Cremlino.

ENRICO BORGHI – DEPUTATO PD - COPASIR Se è per questo ha avuto anche relazioni di altro tipo nel nostro paese…

DANIELE AUTIERI Di che tipo?

ENRICO BORGHI – DEPUTATO PD - COPASIR Rapporti con esponenti politici, ma questo mi sembra abbastanza alla luce del sole.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nemudrov è lo stesso agente che entra in contatto con l’entourage di Gianluca Savoini, l’ex-portavoce di Matteo Salvini fondatore dell’Associazione Lombardia-Russia, coinvolto nell’indagine sui presunti finanziamenti alla Lega discussi ai tavoli dell’hotel Metropol di Mosca.

DANIELE AUTIERI Il Copasir ha definito questa attività dei diplomatici russi nel caso Biot come una sorta di prassi rispetto alle attività spionistiche russe. È così?

ENRICO BORGHI – DEPUTATO PD - COPASIR Sì, è evidente che rientra nell’ambito di una tradizione di quel paese poter utilizzare un servizio di spionaggio appoggiato sulla rete delle ambasciate all’estero quindi la circostanza che in sé comunque è una circostanza grave perché l’espulsione di due diplomatici è una cosa che non è mai capitata nella storia del nostro paese.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Spie nei panni di diplomatici. È questa la motivazione che il 5 aprile scorso porta il ministero degli Esteri ad annunciare l’espulsione di 30 addetti dell’ambasciata in quanto persone non grate. Una misura che porta a 149 il numero dei diplomatici russi espulsi dai paesi dell’Unione europea.

MARIO DRAGHI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO CONFERENZA STAMPA 6 APRILE 2022 L’espulsione dei 30 diplomatici o pseudo-diplomatici russi non ha a che vedere con la poca trasparenza o meno ha a che vedere con analoghe azioni prese da altri paesi europei, quella è stata una risposta coordinata a livello europeo

ENRICO BORGHI – DEPUTATO PD - COPASIR La Russia ha un apparato militare che non risponde al nostro sistema di alleanza, né militare né diplomatico e quindi per definizione bisogna svolgere un’attività di messa in protezione e di sicurezza.

SERGEJ RAZOV – AMBASCIATORE DELLA FEDERAZIONE RUSSA IN ITALIA Rispetto alle circostanze relative alle espulsioni, infondate e ingiustificate, di 30 funzionari dell'Ambasciata russa in Italia. Ad oggi non è stato avanzato nessun fatto, nessuna prova che loro veramente costituivano una minaccia alla sicurezza nazionale italiana.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I 30 espulsi sono 30 titolari di passaporto diplomatico, che secondo i servizi di intelligence europei avrebbero ripreso le attività di spionaggio dopo l’invasione russa dell’Ucraina e proprio alla ricerca di informazioni segrete sulle attività della Nato. È l’esplosione di un conflitto tra diplomazia e servizi che cova da almeno un anno.

DANIELE AUTIERI Quella vicenda Biot possiamo dire che era un segnale di una rottura delle relazioni diplomatiche che poi si è consumata in queste settimane?

ENRICO BORGHI – DEPUTATO PD - COPASIR Diciamo che è stata l’epifania di una stagione che oggi è sotto gli occhi di tutti.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel pomeriggio del 30 marzo del 2021 Walter Biot sta facendo la spesa in un anonimo supermercato di Spinaceto, a 20 chilometri dal centro di Roma. Gli uomini del reparto Antiterrorismo del ROS dei carabinieri lo seguono e ne registrano i movimenti. Alle 17:48 il capitano di fregata sale sulla sua macchina e raggiunge un parcheggio poco distante dal grande magazzino. È un luogo silenzioso e deserto. Soprattutto di domenica pomeriggio. Qualche minuto dopo una spia russa apre la portiera e si siede al suo fianco. Sapere cosa la spia russa e l’ufficiale di marina si dicono è impossibile, perché le microspie del ROS sono state messe sull’altra auto della famiglia Biot. Intanto la macchina corre sulla via Pontina fino a raggiungere il quartiere Eur dove si ferma in un secondo parcheggio, tra via delle Ande e viale Africa. Quando gli uomini del ROS intervengono l’ospite è già sceso dalla macchina e si sta allontanando. Dentro la borsa di cuoio che porta con sé, i carabinieri trovano una Micro SD avvolta in un foglietto illustrativo del Crestor, un medicinale utilizzato contro il colesterolo. Dentro la macchina di Biot vengono invece trovate 100 banconote da 50 euro, in tutto 5mila euro, anch’esse avvolte nel foglietto illustrativo dello stesso medicinale.

DANIELE AUTIERI Ci aiuta a ricostruire quella notte del 30 marzo 2021.

CLAUDIA CARBONARA - MOGLIE DI WALTER BIOT Mi ricordo che erano le 19,30 e stavo preparando la cena. A un certo punto mi trovo mio figlio che corre verso di me con dietro i carabinieri. Non capivo cosa fosse successo in quel momento, mi ritrovo tre carabinieri in borghese e due in divisa e mi chiedono che devono fare una perquisizione. Ma per che cosa? Abbiamo fermato suo marito, mi dicono, e dobbiamo perquisire.

DANIELE AUTIERI Le accuse formulate nei confronti di Walter Biot si basano su un presupposto. C’è stato uno scambio: soldi per documenti riservati

AVVOCATO ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT I documenti, i presunti documenti segreti sono stati rinvenuti sulla persona di Dmitri Ostroukhov, l’agente diplomatico russo che è stato fermato nelle vicinanze del luogo dove si trovava Walter Biot. È vero, è stata rinvenuta una somma di denaro nell’autovettura, ma che ci sia stato uno scambio dal punto di vista della cognizione diretta, materiale, questo non è dato sapere.

DANIELE AUTIERI Quel pomeriggio suo marito è stato seguito da spinaceto all’Eur e fermato all’Eur. A lei le aveva detto che cosa andava a fare?

CLAUDIA CARBONARA - MOGLIE DI WALTER BIOT Io sapevo soltanto che mi doveva andare a prendere il tagliandino dell’handicap della macchina che era scaduto e doveva andare al comune di Pomezia a fare il rinnovo.

DANIELE AUTIERI Ma lei questi russi, questo russo che era con lui l’ha mai sentito?

CLAUDIA CARBONARA - MOGLIE DI WALTER BIOT No, assolutamente no.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’uomo salito sulla macchina è Dmitri Ostroukhov, un agente dell’Ambasciata registrato presso il ministero degli Affari Esteri. Per via dello status diplomatico non potrebbe essere né fermato né perquisito, ma i carabinieri provvedono al fermo. In questo modo viene acquisita una scheda SD all’interno della quale sono presenti 181 foto, tra queste, diversi documenti classificati come NATO SECRET. Uno su tutti, il cosiddetto Reperto S, conterrebbe messaggi della Nato sulle azioni destabilizzanti di Mosca nei confronti dell’Ucraina. Il problema della segretezza dei documenti viene preso in carico dagli inquirenti che inviano una richiesta di chiarimento allo stato maggiore della Difesa. Ma secondo il capo reparto, Generale Stefano Mannino, il contenuto non può essere divulgato. DANIELE AUTIERI Voi non avete potuto avere accesso alle carte? Cioè alla prova del reato?

AVVOCATO ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT Noi non abbiamo avuto accesso nemmeno a quegli elementi che metterebbero in relazione questi documenti con una condotta di Walter Biot.

DANIELE AUTIERI Perché questi documenti non solo non li avete visti voi ma non li ha visti nemmeno il giudice?

AVVOCATO ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT Certamente.

DANIELE AUTIERI Quindi neanche il pubblico ministero li ha visti?

AVVOCATO ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT Assolutamente no.

ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT Se anche questi elementi sono indisponibili per l’autorità giudiziaria vuol dire che di fatto si sta opponendo il segreto di Stato, ma se si sta opponendo il segreto di Stato, questa è una valutazione della presidenza del consiglio.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 14 marzo del 2022 la questione esplode nel corso della prima udienza del tribunale militare, dove Biot deve rispondere di “procacciamento di notizie segrete a scopo di spionaggio”, “rivelazione di notizie riservate”, “rivelazioni di segreti militari a scopo di spionaggio” e rischia una condanna fino all’ergastolo.

ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT La difesa, l’avvocato Roberto De Vita, l’avvocato Antonio Laudisa, per il comandante Walter Biot chiedono che cotesto eccellentissimo tribunale voglia domandare alla presidenza del Consiglio dei ministri la disponibilità degli atti, valutare se debba essere apposto o meno il segreto di Stato, oppure di rendere disponibili questi documenti a salvaguardia dell’articolo 111 e 24 della costituzione.

ANTONIO SABINO – PROCURATORE MILITARE L’autorità nazionale preposta per la segretezza della presidenza del consiglio dei ministri è stata interessata e ha dichiarato che quei documenti con quelle particolari classifiche, al di là dell’apposizione del segreto di stato, sono assolutamente inviolabili.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ad oggi nessuno ha potuto visionare quei documenti, né tanto meno il contenuto della scheda SD, ma secondo gli inquirenti, a pesare sulla colpevolezza di Biot, ci sarebbe un video registrato all’interno del III Reparto dello Stato Maggiore della Difesa che riprende il capitano di fregata mentre scatta delle foto con il suo smartphone.

DANIELE AUTIERI Chi è che mette le telecamere negli uffici di Biot?

AVVOCATO ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT Quel che le posso dire è che non c’è mai stato un provvedimento dell’autorità giudiziaria per l’esecuzione di video e audio riprese sulla postazione di Walter Biot. DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Interrogato dagli uomini del Ros il colonnello Marco Zearo, capo dell’ufficio minaccia asimmetrica dello Stato Maggiore della Difesa, dichiara che era stato proprio l’Aisi, il servizio segreto interno, che aveva segnalato un rischio di “dispersione informativa nell’ufficio di Biot”.

DANIELE AUTIERI Cioè lei dice per capire, che i nostri apparati stavano facendo indagini su Biot prima che i giudici lo sapessero…

AVVOCATO ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT Io non so se stessero facendo indagini su Biot, su Ostroukhov, su altri militari, su altri soggetti stranieri, quel che è certo è che risulta che vi sia stata un’attività, ripeto i video, almeno quelli disponibili… nel fascicolo si parla di registrazioni che avrebbero avuto inizio il 16 marzo, l’autorità giudiziaria viene informata a distanza di giorni, mi pare il 26 marzo.

DANIELE AUTIERI Rispetto alle informazioni in vostro possesso i nostri servizi di intelligence erano dietro alle attività di quegli addetti militari già prima di Biot?

ENRICO BORGHI - DEPUTATO PD - MEMBRO COPASIR Quello che le posso dire è che sicuramente i nostri servizi di informazione sono all’altezza del momento che stiamo vivendo e stanno esplicando in maniera attenta e proficua le loro attività a supporto e tutela della sicurezza della Repubblica

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Senza conoscere il contenuto della scheda SD la procura militare e quella ordinaria costruiscono la loro accusa dicendo che l’orario indicato sui file delle foto contenute nella scheda corrisponde al momento in cui le telecamere interne riprendono Biot che scatta con il suo cellulare.

DANIELE AUTIERI Il video che vi è stato messo a disposizione, quello a disposizione della Difesa e che c’è agli atti del processo è un video integrale?

FRANCESCO ZORZI – CONSULENTE TECNICO DELLA DIFESA Attualmente no, nel senso che noi sappiamo che è un’esportazione però analizzando il contenuto di questa esportazione abbiamo ritrovato e rilevato una quantità molto importante di buchi. Di fatto ci sono proprio delle interruzioni di registrazione… ad esempio in questo caso qua è abbastanza evidente, io vedo che ad esempio ho delle interruzioni, ad esempio qui abbiamo circa verso le 11, le 12, altro… le 15 però contestualizzandole nelle varie giornate ho praticamente, un sabato una domenica, ho praticamente la presenza costante di queste interruzioni.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Le interruzioni sulle tracce video esportate dalle telecamere nascoste indicherebbero la presenza di alcune parti mancanti nelle registrazioni che non sono finite nel fascicolo del processo.

DANIELE AUTIERI Su di voi è stata fatta un’indagine approfondita della guardia di finanza per capire se quel presunto scambio di 5mila euro fosse l’unico o ci fosse dell’altro. Per vedere se c’erano dei soldi sui vostri conti correnti, che cosa hanno trovato?

CLAUDIA CARBONARA - MOGLIE DI WALTER BIOT Noi abbiamo solo un conto corrente, abbiamo, basta, in comune… e secondo me hanno trovato i debiti… sicuro.

DANIELE AUTIERI Suo marito è accusato di reati molto gravi, è considerato un traditore della patria…

CLAUDIA CARBONARA - MOGLIE DI WALTER BIOT Impossibile, mio marito ha sempre vissuto per la marina, la regia marina, lui la chiama pure Mamma Marina.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nessuno ha visto i documenti ritrovati nella scheda che aveva nelle mani la presunta spia Ostrokhov, insomma non l’hanno visti i giudici, nè i pm, né i legali di Biot. Li hanno visti però gli uomini del Ros, che li hanno ritrovati. Li hanno inviati subito allo Stato Maggiore di Difesa che li ha ritenuti “inviolabili”. Però i legali di Biot dicono, “guardate che l’unica opposizione, l’unico segreto che può essere opposto all’autorità giudiziaria è il segreto di Stato e deve pronunciarsi la Presidenza del Consiglio”. Che non è stata consultata su questa vicenda. Ora Biot rischia di essere giudicato e di essere condannato a due ergastoli, perché ci sono ben due tribunali che lo stanno giudicando: quello militare e quello ordinario, della giustizia ordinaria, perché i documenti sono stati suddivisi in quelli politici e in quelli militari. Sulla competenza dovrà esprimersi il Tribunale di Cassazione il prossimo 31 maggio. Poi c’è anche qualche altro mistero. Non si conosce bene il movente, non si conoscono i contenuti dei documenti, non si conosce la data dell’inizio dell’indagine. Abbiamo sentito il legale di Biot dire “guardate che quando è stato immortalato Biot mentre si presume che stava fotografando i documenti segreti della Nato non era stato depositato nessun dispositivo presso la magistratura”; questo autorizzerebbe a pensare che il nostro controspionaggio stesse seguendo le due presunte spie russe già da tempo proprio per limitare la loro azione di approvvigionamento di informazioni sensibili. Questa vicenda ci porta a un piccolo cimitero che è al confine con la Slovenia che diventa all’improvviso il centro di un pellegrinaggio di spie anche perché l’unico caso in Europa di cimitero che conserva le salme dei russi.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel cimitero militare di Brazzano al confine tra l’Italia e la Slovenia i morti sono tutti uguali. Austriaci, italiani, serbi, russi. Qui sono sepolti i corpi di 111 soldati russi caduti nella Prima Guerra Mondiale. Caso unico in Europa i loro nomi sono ancora lì, incisi sulle lapidi battute dai venti freddi che soffiano da Est.

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA La scritta sopra è … amico e nemico nella morte assieme, uniti, insomma

DANIELE AUTIERI I morti tutti uguali

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Esatto… e sotto c’è KuK, Austria Ungheria, quando invece sarebbe solo Austria sarebbe K-K, Austria Ungheria, KGB vuol dire prigionieri di guerra stazione A. Abbiamo anche degli ignoti, tantissimi ignoti austro-ungarici, mentre i russi son solo due ignoti. Questo Wolovski, Ivan, questo qui è un russo…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Giovanni Battista Panzera è uno storico di Cormons. Presiede la Società Cormonese Austria impegnata a proteggere la memoria dei caduti in queste terre di confine e da qualche anno è interlocutore dei diplomatici russi che vengono qui per celebrare i loro morti.

DANIELE AUTIERI Voi a un certo punto segnalate questo luogo speciale all’ambasciata russa

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Dopo 15, 20 giorni ci ha chiamato l’addetto culturale dell’ambasciata: siamo interessati così, prenderà contatto con lei una persona che verrà a fare un sopralluogo, infatti sono venuti a fare un sopralluogo due militari in borghese.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Uno dei due uomini inviati dall’ambasciata è Dmitri Ostroukhov, l’uomo che è salito sull’auto di Biot per il presunto scambio di documenti segreti della Nato. Eccolo mentre posa con Panzera di fronte al monumento ai caduti. Panzera stringe rapporti diretti anche con Aleksej Nemudrov, il secondo agente espulso dopo l’arresto di Walter Biot. Ed è lo stesso Nemudrov a ricambiare l’ospitalità dell’associazione invitando lo storico a Villa Abamelek in occasione della giornata dedicata ai soldati russi.

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Il 23 febbraio del 2020, una bellissima cerimonia in cui in fin dei conti c’è stato cinque minuti di discorso dell’addetto militare, l’addetto navale.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel bel mezzo dell’intervista veniamo raggiunti da due militari dell’Arma dei carabinieri che controllano i nostri documenti e chiedono dettagli sul servizio che stiamo preparando.

CARABINIERE Una cortesia, ci chiedono dal nucleo comando se ci potete dare qualche delucidazione in più, in merito al servizio che state facendo, che canale siete

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Comunque, è informato il sindaco

CARABINIERE … Purtroppo adesso c’è questo periodo di ultra agitazione, qualunque cosa va segnalata, giorno e notte DANIELE AUTIERI Ma per il discorso del cimitero?

CARABINIERE Sì, sì perché c’è il rischio che qualche testa di cocco venga a fare danni.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 22 marzo del 2021, otto giorni prima l’operazione Biot, sono proprio i carabinieri di Gorizia a firmare un’informativa riservata nella quale viene segnalato il rapporto tra Panzera e i russi. Nel documento i militari scrivono: “Da informazioni assunte, parrebbe che i due addetti militari siano in realtà agenti dei servizi di intelligence russi e che il loro intento sia quello di attirare nella loro sfera di azione Panzera per motivi in corso di accertamento”.

DANIELE AUTIERI Quando è venuta fuori quella storia dello spionaggio e dell’espulsione non si è preoccupato come a dire… non è che questi volevano carpire qualcosa anche da me…

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Guardi, noi siamo soltanto, e con testimoni, andati a pranzo, siamo andati in qualche cantina, e basta. Io non so dove dormivano non so cosa facevano, sono venuti tre volte per un giorno alla fine dei conti.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO In una nota inviata alla procura militare il 2 luglio del 2021 i carabinieri del Ros che hanno in carico l’indagine Biot segnalano un altro particolare di assoluta rilevanza: «Quanto riferito dall’arma territoriale di Gorizia fa ritenere verosimile che l’AISI abbia cominciato a reperire informazioni sui rapporti tra Panzera e i rappresentanti russi già prima dell’arresto di Walter Biot».

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Quando sono venuti qua a fare la cerimonia c’era il vice prefetto, c’era il comandante dei carabinieri, c’era il comandante dell’esercito per il Friuli Venezia Giulia, c’era il sindaco, c’erano le autorità. Non so io a un certo punto abbiamo sempre avvisato tutti, ma io di questo non ne voglio sentir parlare perché qua non è terra per queste cose. Che vadano pure da altre parti sappiamo quali sono gli obiettivi non certamente noi, la povera terra del Friuli.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La tensione diplomatica anticipa sempre lo scontro bellico. Nelle settimane che precedono l’operazione Biot, in Europa esplodono altri casi di spionaggio con l’espulsione di alcuni diplomatici russi. Succede in Austria, Repubblica Ceca, Paesi Bassi e Bulgaria. E prima di abbandonare l’Italia i diplomatici russi lasciano agli amici di Cormons pacchi di mascherine anti-covid. Sono le mascherine portate in Italia dalla missione russa del marzo 2020 la stessa missione che secondo alcuni avrebbe dovuto celare un’operazione di spionaggio ai danni del nostro paese

MOGLIE GIOVANNI BATTISTA PANZERA Queste sono…

DANIELE AUTIERI Ah le mascherine… russe

MOGLIE GIOVANNI BATTISTA PANZERA Le ffp2

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Te la regalo…

MOGLIE GIOVANNI BATTISTA PANZERA Eh, ma era lì fuori aperta.

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Te ne do una chiusa…

MOGLIE GIOVANNI BATTISTA PANZERA Io non so dove le hai messe tu… queste qua proteggono, adoperale che proteggono

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Per Cormons transitano agenti e diplomatici russi coinvolti tanto nella vicenda degli aiuti russi sul Covid quanto nel caso Biot. E dopo l’arresto di Walter Biot, i servizi di intelligence italiani convocano Giovanni Battista Panzera per capirne di più sui russi di Cormons.

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Mi hanno chiesto innanzitutto guardi sappiamo che lei non c’entra… ha conosciuto questo, ha conosciuto quello, ha conosciuto quell’altro …

DANIELE AUTIERI Quindi loro li stavano seguendo…

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Certo, certo… soprattutto l’addetto militare, soprattutto, l’addetto militare qua è venuto a Pordenone, ma sapevano tutto… Ho detto, ma scusi una cosa ho detto io: ma per cinquemila euro? Queste cose le risolvevamo tra noi… servizi segreti mi ha detto… si cambiava qualcuno senza dire e via, questa volta c’è stato l’input politico… di far scoppiare il caso!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Si evince che l’AISI, il nostro servizio di sicurezza interna già da tempo, prima che esplodesse il caso Biot stava seguendo i rapporti tra Panzera e le due presunte spie russe. E Panzera rivela anche che ha raccolto come confidenza dall’uomo dei servizi che lo interrogava sui suoi rapporti con i russi, gli dice sostanzialmente che i casi come quelli di Biot in passato si sarebbero risolti internamente, senza un gran clamore, insomma i panni sporchi si lavano in famiglia. Qui invece si è voluto che esplodesse un caso di spionaggio internazionale proprio perché c’è stato un input politico. Bisognava rassicurare gli alleati che la fedeltà italiana alla Nato non era in discussione.

Filippo Ceccarelli per “il Venerdì – la Repubblica” il 27 agosto 2022.

Più si va avanti e più viene da pensare: ma sarà vero? Condizione naturale per un libro che fin dal titolo mette le mani avanti: La versione di Pazienza (Chiarelettere). 

Francesco Pazienza, chi se lo ricorda?  Medico palombaro, oceanografo, affarista e poliglotta approssimativo, ma soprattutto agente segreto e faccendiere, tutto questo poco più che trentenne, e però ancora oggi compiaciuto della sua faccia tosta, nonostante i dodici anni di galera, di cui sei in isolamento, per il crack Ambrosiano e il depistaggio per la strage di Bologna. 

Si sarebbe detto un tempo: un avventuriero, ma forse prima ancora un formidabile affabulatore, memorialista recidivo dato che già più di vent' anni orsono uno dei più celebrati rabdomanti dell'editoria, Mario Spagnol, fece in tempo a commissionargli un'autobiografia, Il disubbidente (Longanesi, 1999).

Pure stavolta impossibile seguirlo nelle sue peripezie, specie se alla ricerca di una verità etica, storica, politica e giudiziaria. 

Ma la versione, vera o fasulla che sia, offre il più ricco campionario sul lato oscuro e buffonesco degli anni 80, strenuamente vissuti all'italiana, eppure anche molto "internazional", intrighi e commedia, cinismo e follia.

Vi si affacciano, in stupefacente mischione, Onassis e Madre Teresa di Calcutta (Pazienza l'avrebbe salvata da un avviso di garanzia), generali del controspionaggio etilisti e dittatori liberiani, spioni ribattezzati "Mozzarella" e "Capemuorto" e imprenditori di lozioni per capelli, e poi Madonna adolescente, Marcinkus, il clan dei cardinaloni di Faenza, la Gambino family usata in funzione anti-ustascia, Angelone Rizzoli pazzo di gelosia per Eleonora Giorgi, teste calde dell'ultrasinistra spedite in Nicaragua con l'aiuto della P2, prelibati lombrichi congolesi per il poliziotto gastronomo Federico Umberto D'Amato e addirittura il barboncino iper-tosato che Zsa Zsa Gàbor irrora di acqua di colonia.

Come in una fiaba, ecco che il giovanotto, fin troppo dotato di empatica parlantina e smania di sorprendere il prossimo, insegue la bella vita e la bella figura; frequenta aristocratiche romane e ristoranti di Parigi; in California si traveste da cameriere per provocare l'allora premier Spadolini (che se la lega al dito), offre e taglia sigari cubani con cesoie d'oro appese al taschino del gilet. Presunto sensale d'alto bordo, porta o racconta di aver portato capi dorotei dal generale Haig, Arafat dal Papa, Badalamenti dal Commissario antimafia. 

Si agita, si destreggia, rilancia, capitombola, paga i suoi conti, ma non resiste dal moltiplicarne la più rocambolesca risonanza. Alla fine si chiede se non sia stato «un povero coglione senza arte né parte» per rispondersi «può darsi». Ma anche su questo: sarà vero?

Francesco Pazienza, la spia con la vita da film. Gianluca Zanella Marcello Altamura il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.

Francesco Pazienza ha conosciuto personaggi incredibili: dai peggiori criminali alle star di Hollywood, da membri di governo a spie di mezzo mondo.

Storie incredibili, dalla seconda guerra mondiale alla Prima Repubblica, tra depistaggi, doppiogiochismo, fiumi di denaro e morti sospette. Professione 007 è la serie podcast nata dalla collaborazione tra Dark Side – storia segreta d’Italia e ilGiornale.it. Una nuova puntata qui ogni martedì alle 14.

Settembre 1982: un uomo prende possesso di una suite all’hotel Hilton di Panama. Dopo essersi fatto una doccia afferra il telefono. Dall’altra parte il generale Manuel Noriega, capo dei servizi segreti e futuro dittatore. Sono amici. Noriega lo invita a cena e dopo un’ora, una macchina attende il nostro uomo fuori dall’hotel.

La villa del generale è bellissima; a cena c’è mezzo governo di Panama. Il padrone di casa fa sedere il nostro uomo accanto a un ragazzone che gli viene presentato come un importante finanziere industriale colombiano. Il suo nome è Pablo Escobar. Tra una portata e l’altra, il colombiano va dritto al sodo: “So che sei bravo con le finanze, perché non collabori con noi? Certo, all’inizio non possiamo pagarti molto, saresti in prova”. L’uomo è curioso: “Quanto mi paghereste?”. Escobar si stringe nelle spalle: “Per iniziare dieci... quindici milioni di dollari”. Nonostante la proposta allettante, il nostro uomo declina gentilmente l’offerta, ricordandosi che in Colombia le controversie non si risolvono attraverso gli avvocati.

Francesco Pazienza ha vissuto una vita degna di un film. Ha conosciuto personaggi incredibili, dai peggiori criminali alle star di Hollywood, da membri di governo a spie di mezzo mondo. Sempre elegantissimo e con la faccia tosta, dopo una laurea in medicina, giovanissimo si getta a capofitto nel mondo della finanza stabilendosi a Parigi. Viaggia per affari in tutto il mondo e nel 1980, affascinato dal mondo delle spie, diventa consulente del generale Giuseppe Santovito, l’allora capo del Sismi, il servizio segreto militare italiano. In questa veste, arruola lo spione per eccellenza – Federico Umberto D’Amato – ed entra e esce dal Vaticano. Qui, viene incaricato di incastrare Paul Casimir Marcinkus, direttore dello IOR, ma Pazienza non ci sta: lascia il suo incarico al Sismi, aiuta Marcinkus a tenere saldo il potere e diventa consulente personale di Roberto Calvi, patron del Banco Ambrosiano.

In un documento eccezionale sinora inedito, che ilGiornale.it pubblica per la prima volta, Pazienza redige un memorandum in qualità di consulente personale di Roberto Calvi, patron del Banco Ambrosiano.

Scritto nell’81, la data precisa non è chiara, ma sicuramente si tratta di un memorandum scritto a ridosso dell’esplosione dello scandalo P2, nelle cui liste figurava il nome di Calvi. In questo documento, con particolare riferimento al punto d) appare evidente come il rapporto tra Pazienza e la P2 di Licio Gelli fosse quanto meno di competizione e non certo di affinità o collaborazione come più volte è stato sostenuto in diverse sedi giudiziarie. 

Dal 1984 comincia il suo calvario: accusato di aver avuto un ruolo centrale nel crack dell’Ambrosiano e di aver contribuito al depistaggio sulle indagini per la Strage di Bologna, viene arrestato a New York. Estradato con modalità ben poco ortodosse, passerà nelle patrie galere circa tredici anni, assaggiando anche il 41bis.

Nel documento inedito, che ilGiornale.it presenta qui in anteprima, si può leggere la richiesta di estradizione redatta dai magistrati Vito Zincani e Libero Mancuso il 15/11/1986 per estradare Francesco Pazienza da New York, dove si trovava al momento recluso presso il carcere federale della Grande Mela.

Il documento, scritto in una camera di albergo, punta sul coinvolgimento diretto di Pazienza nel depistaggio per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Nello specifico, come si legge, Pazienza viene accusato di aver ideato la cosiddetta “pista internazionale”. Francesco Pazienza ha sempre sostenuto con forza – anche nel suo ultimo libro La versione di Pazienza (Chiarelettere, 2022) – la falsità del documento in questione. Condannato e assolto per calunnia nei confronti dei due pm firmatari, il presente può essere oggi considerato un documento di grande interesse.

Ad avvalorare la tesi di Pazienza sulla falsità, in effetti, diverse cose risultano non vere. Al punto n°2 - a) del documento si legge, per esempio, che Pazienza avrebbe conseguito la sua laurea in medicina in soli 3 mesi grazie all’intercessione del professor Aldo Semerari (arrestato a seguito dell’attentato a Bologna). Documenti alla mano, Francesco Pazienza ha dimostrato altresì l’assoluta regolarità del suo percorso di studi, verificabile presso gli archivi de La Sapienza di Roma. Altro punto dolente, secondo quanto riportato da Pazienza nel suo ultimo libro (particolare mai smentito dai diretti interessati), le informazioni contenute in questo documento – redatto con una macchina da scrivere americana (si noti la mancanza di accenti e apostrofi) – proverrebbero dall’attività informativa svolta da un operatore della Digos di Bologna, tale Francesco Modica. Ebbene, sentito in aula a Bologna il 10 giugno 1987, il questore Modica disse che tali informazioni mai erano state da lui conosciute prima e, conseguentemente, non era stato lui a trasmetterle ai magistrati.

Certo è che Pazienza è entrato in relazione con alcune figure chiave della storia “oscura” del nostro Paese, prima fra tutte Federico Umberto D’Amato, il potentissimo capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale.

In un altro documento inedito che ilGiornale.it presenta in anteprima, si può leggere una trascrizione di un’intercettazione operata clandestinamente da Pazienza nel corso di un colloquio tenutosi il 2 marzo 1982 proprio d’Amato presso l’Hotel Bernini Bristol, a Roma.

Nello specifico, i due stanno parlando di una comune conoscenza: il magistrato Domenico Sica. D’Amato (V1) racconta a Pazienza (V2) di come il magistrato abbia cercato di incastrarlo, ma di come sia poi a sua volta finito in trappola, venendo ricattato per alcune sue discutibili abitudini. 

Tra le sue operazioni, forse la più celebre è quella denominata BillyGate.

È il 1980: su richiesta di Michael Ledeen, analista americano e allora consulente del Consiglio di sicurezza nazionale del suo Paese, Pazienza viene incaricato di trovare le prove a supporto di un presunto rapporto – in quegli anni decisamente poco ortodosso, per non dire imbarazzante – tra il fratello dell’allora presidente democratico in carica Jimmy Carter, Billy, e la Libia di Gheddafi, acerrima nemica degli USA.

Neanche a dirlo, Pazienza – nel giro di poco tempo – trova prove schiaccianti, che svelate per mezzo stampa in America provocano un vero e proprio terremoto in corrispondenza delle elezioni presidenziali. Elezioni in cui trionfa il repubblicano Ronald Reagan. Per Francesco Pazienza è la consacrazione come agente segreto, ma questa operazione gli porterà non pochi problemi.

Nel corso delle indagini sulla Strage di Bologna, il pm Domenico Sica lo accuserà – insieme a molte altre persone, compreso l’ex vice capo del Sismi Pietro Musumeci – di aver agito per interesse personale servendosi di uomini e mezzi del servizio segreto militare, nonché di aver dato vita a una struttura parallela che prenderà il nome di “Super Sismi”, che avrebbe avuto un ruolo di collegamento tra il servizio segreto ufficiale ed elementi mafiosi, con specifico riferimento all’operazione – condotta sempre da Pazienza – per liberare il consigliere della DC Ciro Cirillo sequestrato dalle Br nel 1981, operazione che si avvalse del supporto della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.

Pazienza ha sempre negato l’esistenza di questa struttura, definendosi un “libero professionista” dello spionaggio. Saldato il suo debito con la giustizia, oggi Francesco Pazienza vive nella sua Lerici in compagnia della sua Evita, una cagnolina cui dedica tutte le sue attenzioni. Ancora oggi, giornalisti e semplici curiosi intasano il suo telefono e suonano al suo citofono, nella speranza – forse – di vedersi rivelato uno dei tanti misteri di cui è ancora depositario, o magari di avere accesso al suo sterminato archivio dove sono sepolte le memorie inconfessabili del nostro Paese. A tutti – o quasi – Pazienza offre un sorriso, il suo celebre umorismo e nient’altro. Spia una volta, spia per sempre.

Lorenzo De Cicco per la Repubblica il 15 aprile 2022.  

Tutti al Senato per celebrare il «bel memoriale» (copyright del meloniano Federico Mollicone) di Gianadelio Maletti, generale e agente segreto scomparso un anno fa latitante in Sudafrica alle soglie dei 100 anni, capo del reparto di controspionaggio del SID negli anni '70 e coinvolto in una delle pagine più sanguinose della storia italiana. 

Con una condanna definitiva a 18 mesi per favoreggiamento nel processo sulla strage di piazza Fontana, «abbonati con la condizionale», precisa a margine del simposio la curatrice del memoir, Concetta Argiolas, «più altri 6 anni, sempre in via definitiva, il vero motivo della latitanza, per la mancata conservazione di documentazione segreta del dossier M.Fo.Biali all'interno del processo Mino Pecorelli».

In due ore filate di convegno - ospitato ieri pomeriggio nella Sala Capitolare del Senato - delle vicende processuali si parla pochissimo. Come si sorvola sul ritrovamento del nome di Maletti negli elenchi della P2, affiliazione che l'ex generale rinnegò sempre. Premette proprio Mollicone, deputato di FdI in Commissione Cultura: «Serve una sospensione del giudizio, quando parlano i protagonisti». 

E quindi sì, ci saranno state «luci e ombre» su Maletti, che nel 1980 ripiegò a Johannesburg per sfuggire alle condanne italiane, «ma è stato prima di tutto un militare», un «uomo dello Stato che ha attraversato tempeste giudiziarie, ma ha sempre osservato l'appartenenza alla divisa».

Ci pensa poi la curatrice Argiolas a ricordare il «passato luminoso» del Maletti soldato, «le esercitazioni da manuale», la «decorazione del maresciallo Tito», insomma, riassume, si tratta di «300 pagine impregnate di senso del dovere e attitudine al comando», fino al «congedo finale, sobrio ma toccante » del Maletti uomo, certo di avere detto «tutta la verità». 

Anche se proprio i suoi silenzi, le sue non-risposte - «Ricordo solo quando mi fa comodo», confessò nel libro intervista "Piazza Fontana, Noi sapevamo" del 2010) hanno impedito di gettare almeno un po' di luce in fondo al pozzo nero dell'Italia degli anni '70. Flavia Piccoli Nardelli, deputata Pd, si sofferma «sul rapporto con il padre e la moglie» di Maletti, richiama «l'orgoglio di un bravo militare».

L'unico a esaminare a lungo il suo passato nel Sid è il giornalista Francesco Grignetti. Il seminario si conclude con l'intervento dello storico Giuseppe Parlato, che rimarca «l'obbedienza allo Stato» di Maletti. Anche se, concede, se si fosse prestato fino in fondo a quest' obbedienza, alla fine «sarebbe andato in galera».

La giornata della memoria dell’ Intelligence italiana. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Marzo 2022.

Alla cerimonia, svoltasi alla presenza dei familiari dei Caduti e dei Direttori di AISE, Giovanni Caravelli, e AISI Mario Parente, hanno preso parte il Ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale Luigi Di Maio, il Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, il Ministro dell’Economia e delle Finanze Daniele Franco, il Presidente Adolfo Urso

La cerimonia di commemorazione a Forte Braschi. Preceduto da un intervento introduttivo del Direttore Generale del DIS Elisabetta Belloni, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Franco Gabrielli ha ricordato, le figure di Vincenzo Li Causi, morto in Somalia nel 1993, di Nicola Calipari, che ha perso la vita in Iraq nel 2005, di Lorenzo D’Auria, ferito a morte in Afghanistan nel 2007, e di Pietro Antonio Colazzo, caduto a Kabul nel 2010, dei quali sono state evocate in particolare le qualità umane e morali, e si è al tempo stesso sottolineato come l’intera comunità nazionale sia profondamente unita dal sentimento di commossa gratitudine per il loro esempio di abnegazione al dovere e di fedeltà alle istituzioni democratiche.

Alla cerimonia, svoltasi alla presenza dei familiari dei Caduti e dei Direttori di AISE, Giovanni Caravelli, e AISI Mario Parente, hanno preso parte il Ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale Luigi Di Maio, il Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, il Ministro dell’Economia e delle Finanze Daniele Franco, il Presidente Adolfo Urso e i membri del Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica (COPASIR).  

Il Sottosegretario Gabrielli ha deposto una Corona d’alloro con nastro tricolore ai piedi della Stele commemorativa dedicata ai Caduti a Forte Braschi. Alle ore 09:00, nelle sedi del DIS, dell’AISE e dell’AISI, tutti gli appartenenti agli Organismi informativi hanno osservato un minuto di raccoglimento in onore dei loro colleghi tragicamente scomparsi.  Redazione CdG 1947

Segreti rivelati dal capo degli 007 del Triveneto: il caso Stellato arriva al Copasir. MARCO MILIONI su Il Domani l'08 marzo 2022

Due anni fa il capocentro per il Triveneto del servizio segreto interno, l’Aisi, avrebbe svelato a Domenico Mantoan, all’epoca dei fatti direttore generale della sanità veneta ed oggi presidente dell’Agenas, l’agenzia che coordina le politiche sanitarie delle regioni, di essere sotto intercettazione da parte della procura di Padova.

Per questo ora è indagato. Il fatto che lo facesse da capo dei servizi segreti del Triveneto, però, ha messo in agitazione i palazzi della regione veneto e quelli romani.

Alcuni documenti dell’indagine sono anche coperti dal segreto di stato. Ora il comitato parlamentare di controllo sui servizi vuole chiarezza. 

MARCO MILIONI. Giornalista freelance. Collabora con diverse testate nazionali e venete tra cui Radio Rtl, Canale 68 Veneto, Il Gazzettino, VicenzaPiù, Globalist.it, Radio Vicenza e Vvox.it. Principali ambiti professionali: giornalismo d'inchiesta (ambiente, infrastrutture, crimine organizzato ed economia), politica, cronaca amministrativa, reportage.

Lo Spionaggio. Che fine ha fatto Simona Mangiante, la “Mata Hari” del Russiagate. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 7 febbraio 2022.

Da presunta spia russa ad attrice di serie tv americane e designer di moda. È l’incredibile storia di Simona Mangiante, che a un certo punto della sua vita si era ritrovata al centro dell’attenzione mediatica internazionale e di un intrigo degno di un’appassionante spy story. Sposata con George Papadopoulos, ex consulente della Campagna di Donald Trump nel 2016, l’avvocato di Caserta, già collaboratrice di Gianni Pittella al Parlamento europeo, era finita, con suo marito, al centro dell’inchiesta riguardante la presunta intromissione di Mosca nelle elezioni che portarono all’elezione del candidato repubblicano. Con l’avvio dell’indagine di Robert Mueller, i media di tutto il mondo si scatenarono, arrivando a definirla una “spia russa” o un agente provocatore al servizio del Cremlino, anche se lei si è sempre definita innocente. I fatti le hanno dato ragione – anche perché non è mai stata accusata di nulla, formalmente – e, da allora, lo scenario è completamente cambiato: quell’indagine sulle interferenze russe si è definitivamente sgonfiata e ora il Procuratore speciale John Durham indaga – da ormai più di due anni – sulle origini del Russiagate e sul presunto complotto ordito ai danni di The Donald, in attesa che Joseph Mifsud, l’uomo chiave di tutta questa vicenda, si faccia vivo e racconti la sua verità. Per quanto riguarda Simona Mangiante e suo marito, George Papadopoulos, la loro vita ora prosegue tra gli Stati uniti e l’Italia, lontana da spie e 007, e più vicina ai set cinematografici. L’abbiamo raggiunta per capire cosa fa ora la “Mata Hari” del Russiagate, anche se lei dice di assomigliare più a Forrest Gump che a Geertruida Zelle.

Simona, è passato un po’ di tempo ormai da quando tu e tuo marito George Papadopoulos siete finiti al centro di una spy story internazionale che ha riempito le pagine dei giornali di tutto il mondo. Che ricordi hai di quei momenti travagliati?

Guardo a quei momenti con un sorriso ma anche con un certo sconcerto. Sorriso perché rivedo l’ingenuità con la quale mi sono sentita catapultata in una situazione molto più grande di me. Amo sempre rievocare la figura di Forrest Gump nella quale in una certa misura mi identifico, con il senno poi. Spesso scherzo con i miei amici più stretti e la mia famiglia su questo. Frequentavo George e il professor Mifsud, il famoso professore che all’epoca non era conosciuto praticamente da nessuno negli Stati Uniti. Quindi sono diventata una figura centrale che è stata ricoperta negli Stati Uniti di un’aura di mistero al punto tale da essere dipinta come una spia russa, seppur made in Italy. Sono entrata in contatto con gli ambienti politici di alto livello in una investigazione gigantesca che si riferiva al presidente degli Stati Uniti d’America, finendo ovunque, dal Washington Post a Tucker Carlson. Non solo come testimone dell’indagine di Robert Mueller, con la quale io non avevo nulla a che fare, ma caratterizzata anche da quest’aura di mistero in cui il popolo americano vedeva in me una spia russa, tanto da ignorare il mio accento e la mia fisicità tutta italiana.

Per favore, spiegati meglio…

Mi sono ritrovata magicamente al centro di tutto senza c’entrare nulla, a parte frequentare mio marito George, che era consigliere della campagna di Trump, e perché incidentalmente avevo conosciuto Mifsud al Parlamento europeo. Ricordiamo che oltre a essere apparsa su tutti i giornali americani, sono stata anche testimone del Congresso e dell’Fbi. Ricordo quando sono stata intervistata e c’erano Nancy Pelosi, Adam Schiff, e tutti i dem più “agguerriti” nel condurre la bufala del Russiagate, una grossa macchinazione che non è mai esistita. Guardo con un certo sconcerto a quel periodo anche perché ho provato sulla mia pelle la portata delle falsità con la queste informazioni vengono veicolate al pubblico fino a farle sembrare vere. È difficile, a distanza di anni, persuadere certe persone sul fatto che io sia italiana e non russa.

Pensi che la vicenda Russiagate si sia conclusa o il Procuratore John Durham, che indaga sul presunto complotto ai danni di Trump, scoprirà qualcosa di nuovo dopo aver incriminato l’ex avvocato di Hillary Clinton?

Non penso che l’investigazione di Durham si sia conclusa, anzi. Ad oggi non solo non è terminata ma ha prodotto risultati significativi un po’ sottovaluti dalla stampa internazionale perché non si riferiscono a nomi altisonanti come quelli che ci saremmo aspettati, come James Comey (Fbi) e la stessa Hillary Clinton. Si fa però riferimento a una serie di persone affiliate alla campagna elettorale di Clinton. Ricordiamo infatti che tra gli imputati di Durham c’è l’avvocato Michael Sussman, il quale avrebbe mentito ai federali circa il fatto di non rappresentare alcun cliente quando ha fornito la sua testimonianza all’Fbi stessa (l’avvocato avrebbe mentito circa i rapporti con la sua illustre cliente Hillary Clinton all’agente federale James Baker mentre raccontava all’Fbi di presunte prove digitali che avrebbero collegato i computer della Trump Tower alla banca russa Alfa, ndr).

Cioè?

Ci sono affiliati alla Campagna di Clinton come Sussman ma anche Igor Danchenko, che hanno fornito false informazioni all’Fbi sui rapporti fra Trump e la Russia per costruire quest’ipotesi di collusione e indurre i federali a seguire quella pista investigativa. Ora l’investigazione di Durham si sta articolando in due direzioni: la prima è, appunto, quella che individua soggetti affiliati alla campagna di Clinton che si sono attivati per fornire false informazioni all’Fbi in modo tale da creare uno schema di collusione che non è esistito fra Trump e la Russia. La seconda, si dirige direttamente sugli agenti federali e analizza quei documenti che sono stati manipolati per aprire delle investigazioni che altrimenti sarebbero state illegittime. Ricordiamo la lunga serie di Fisa. Sono molto fiduciosa del fatto che Durham porti a termine il suo lavoro, che è meno seguito dall’investigazione di Mueller, che contava su un apparato mediatico incredibile, tanto da indurre il pubblico americano a pensare che l’allora presidente americano fosse stato eletto grazie a una collusione con la Russia. Durham non ha ancora quell’impatto mediatico ma avrà un impatto giuridico molto più rilevante di Mueller. I fatti che già stanno emergendo sono di una portata molto significativa. Molto preoccupante che figure legate alla campagna elettorale della Clinton si fossero attivate già all’epoca per macchinare e falsificare questa bufala.

Sei sempre convinta che il nostro Paese sia stato in qualche modo coinvolto in un possibile complotto contro Donald Trump?

Le mie convinzioni al riguardo sono basate sui fatti e non sulle ipotesi. Il fatto che il personaggio chiave del Russiagate, il professor Joseph Mifsud, sia sparito nel nulla e non se ne trovi traccia se non la sua ultima residenziale italiana, mi fa pensare che ci sia sicuramente un coinvolgimento dell’Italia, quantomeno nella copertura di questo personaggio che aveva legami forti e tangibili con l’apparato d’intelligente italiano e con i politici italiani. Non so quanto l’Italia volesse opporsi a una presidenza Trump o a partecipare a questo movimento globalista che voleva contrastare l’affermazione di movimenti nazionalisti e conservatori in tutto l’Occidente. C’è un dato di fatto che fa pensare però a questo, come dicevo: ad oggi Mifsud non appare in nessun registro, né come persona viva, né come persona deceduta, il che è impossibile alla luce delle nostre leggi.

In questi ultimi anni ti sei dedicata alle tue passioni, al cinema e alla moda. Sei stata anche protagonista di un documentario dedicato all’Ucraina decisamente attuale. Ce lo puoi raccontare?

Come si dice, da ogni crisi nascono delle nuove opportunità. Sono stata fortunatissima perché Igor Lopatonok mi ha offerto di debuttare come intervistatrice in questo documentario intitolato Ukraine: The Everlasting Present e che fa parte della trilogia di documentari sulla storia politica dell’Ucraina preceduta da Revealing Ukraine e Ukraine on fire, in cui l’intervistatore principale è Oliver Stone. Igor Lopatonok è peraltro il produttore del documentario su Snowden, è una mente acuta, con una sensibilità particolare. È stato un grandissimo onore per me partecipare a questo progetto. Ukraine: The Everlasting Present è stato trasmesso da Russia Today e tradotto in sette lingue. Documentario particolarmente attuale perché ripercorriamo la storia degli ultimi 30 anni dell’Ucraina, partendo dalla firma di indipendenza dello stato dall’Unione Sovietica. Lo facciamo intervistando i leader politici dell’Ucraina indipendente. Ho avuto così l’onore di intervistare l’ex presidente Viktor Juščenko, l’economista Suslov ma anche il deputato Andriy Derkach, sanzionato recentemente dagli Usa per aver esposto gli affari di Biden e di suo figlio Hunter nel Paese. Nel documentario ho intervistato anche Rudy Giuliani, che ha collaborato proprio con Derkach. Un documentario molto interessante di come l’Ucraina sia diventato uno stato cliente degli Stati Uniti, conteso per motivi di equilibrio geopolitico.

Hai avuto altre esperienze cinematografiche?

Sì. Non avrei immaginato ai tempi del mio lavoro all’Unione europea di avere un ruolo nella serie televisiva americana Paper Empire, nell’episodio numero sette, in cui interpreto un agente dell’Fbi con un cast eccezionale. Mi sono ritrovata a recitare con Denise Richards a Miami, che per me era un’assoluta icona negli anni ’90, molto popolare nei film americani, una donna inarrivabile e bellissima. Interpreto poi il ruolo della Dea Afrodite in un film di fantasia americano intitolato Karma 2 che sarà nelle sale cinematografiche a novembre; il ruolo di una executive director in una serie Netflix parodia di Tiger King, interpretata fra gli altri da Andy Dick, e sarò anche in una serie tv ispirata al Russiagate chiamata Papa, che uscirà dopo le elezioni di midterm. Ho avuto anche l’opportunità di recitare in Italia in un piccolo progetto ma che per me ha un significato importante, intitolato T’ho aspettato da una vita diretto da James La Motta in cui affrontiamo la piaga sociale della malattia mentale che colpisce moltissime giovani donne frustrate dall’incapacità di diventare madri. Un messaggio bellissimo quello che il cortometraggio trasmette, cioè che sono amate a prescindere e che quest’amore si può veicolare in vari modi.

Da presunta spia russa a designer di moda…

Sì, ho lanciato una mia linea di moda, una collezione di vestiti che si chiama Agape By Simona. Agape dal greco antico significa forma di amore universale. Ho sempre avuto una passione per la moda e per il design, sin da bambina disegnavo modelli e vestiti, mi è sempre piaciuto interpretare la moda in modo molto personale. Durante il covid ero annoiata dal far nulla, perché tutto era bloccato negli Stati Uniti per via del lockdown, cosìmi è venuta in mente quest’idea imprenditoriale e ho creato una collezione. Così ho inviato i miei disegni alla settimana della moda di New York, a questa società che selezione talenti emergenti che mi ha dato l’opportunità di far sfilare i miei modelli in passerella. Da lì è nata Agape By Simona, la mia interpretazione creativa della femminilità che ha avuto un riscontro positivo, tant’è che sono tornata in passerella a luglio, a Miami, dove ho presentato una collezione di copricostumi. Ora sto lavorando a una nuova collezione per il 2022. Produco negli Stati Uniti, a Los Angeles.

È vero però che negli ultimi tempi ti sei avvicinata alla politica? Negli Stati Uniti o in Italia?

Sì, è vero. Sono un’attivista politica nell’ambito del Partito repubblicano in America, relatrice a diverse conferenze, come l’American Priority Conference a Miami. Ho partecipato a diversi rally a Washington, l’ultimo in occasione dell’elezione di Amy Barrett alla Corte Suprema. Non sono ancora cittadina degli Stati Uniti, sono permanent resident, per cui non posso essere parte attiva come candidata alle elezioni; ipotesi che però non escludo in futuro, nel momento in cui avrò maturato la cittadinanza. Sono sicuramente interessata anche alla vita politica italiana, il mio Paese, e avrei l’ambizione di dare un contributo, ma il fatto che ora risieda negli Stati Uniti non ha aiutato una mia presenza attiva sul territorio italiano. Ideologicamente sono vicina alla Lega e a Fratelli d’Italia.

C’è un leader politico italiano che ti ispira fiducia e a cui ti senti più vicina?

Sì, il leader politico che m’ispira più fiducia è Giorgia Meloni, credo sia una grandissima leader. Prima ancora che apprezzarla come donna, stimo la sua grinta e la sua naturale inclinazione a essere leader. Ha tutte le carte in regola per diventare Primo ministro nel nostro Paese, a mio modo di vedere. Sta facendo rinascere il patriottismo italiano, e penso che l’Italia sia un Paese di cui dovremmo essere maggiormente fieri.

Che cosa fa ora tuo marito, George?

Ora fa il commentatore politico per Newsmax, una rete televisiva nazionale seconda solo a Fox News. È relatore a diverse conferenze del partito repubblicano ed è sempre impegnato in politica e in un’imminente candidatura. Attendiamo le elezioni di medio termine per maggiori dettagli.

Un tuo giudizio sull’amministrazione Biden? Chi vincerà le elezioni di midterm?

Biden è stato un flop completo per l’America. Non solo ha portato avanti delle politiche identitarie che hanno esasperato le divisioni all’interno del Paese, ma ha addirittura nominato persone in posti amministrativi importanti sulla base del genere e della razza, senza tener conto dei meriti. Sappiamo inoltre che ha adottato una politica di apertura delle frontiere che sta portando a un aumento dei crimini e del traffico di droga negli Stati Uniti, per non parlare del suo catastrofico ritiro delle truppe dall’Afghanistan, che non ha bisogno di commenti. Sta creando un’America a immagine socialista però importando gli aspetti più deteriori del socialismo nella società. Sta creando un mostro. La maggior parte degli americani infatti non si riconosce nella sua America, e sta creando i presupposti per una rimonta repubblicana alle elezioni di medio termine.

Agenti, bugie e algoritmi. I film di spionaggio sono un problema per le vere agenzie di intelligence. Linkiesta il 19 Gennaio 2022.

La cultura pop può plasmare l’opinione pubblica, anche fornendo un’immagine diversa dalla realtà. Un lungo articolo dell’Atlantic spiega perché cinema e serie tv che parlano di 007, Fbi, Cia possono influenzare le idee dei cittadini, ma anche di politici, giudici e altre istituzioni.

Hollywood ha sempre avuto una fascinazione per le storie di spionaggio. Servizi di intelligence, agenti segreti, trame intricate che possono diventare tanto un rompicapo quanto una sparatoria da Far West: la resa di questi film è spesso di grande impatto e può creare saghe destinate a plasmare l’immaginario collettivo.

Il James Bond raccontato da Ian Fleming nei suoi romanzi ha regalato al cinema alcune delle interpretazioni più iconiche, da Roger Moore e Sean Connery fino a Daniel Craig. Ma poi sono arrivati i vari Jason Bourne, Jack Ryan e tanti altri nomi. Anzi, si può anche uscire dal perimetro cinematografico e trovare successi come la serie tv “24”, le opere di Tom Clancy e i casi da risolvere in “X-Files”.

La cultura pop sta definendo ciò che le persone sanno dei servizi di intelligence e delle principali agenzie, soprattutto quelle americane che si vedono più spesso al cinema e in tv. E ovviamente cambia la considerazione che le persone hanno di queste istituzioni.

Nel suo libro “Spies, Lies, and Algorithms: The History and Future of American Intelligence” (Spie, bugie e algoritmi: la storia e il futuro dell’intelligence americana), Amy Zegart sottolinea che la presenza – spesso anche abusata – di Cia, Fbi e altre istituzioni nella cultura pop sta creando più di un equivoco.

«Qualunque cosa si pensi delle attività di queste agenzie, siano esse efficaci o inefficaci, moralmente giuste o moralmente sbagliate, il fatto che la narrazione che si crea possa influenzare in modo significativo gli atteggiamenti pubblici nei loro confronti è sconvolgente», si legge nel libro, di cui l’Atlantic ha pubblicato un lungo estratto.

L’autrice ha condotto diversi studi sul rapporto tra cittadini e agenzie di spionaggio, e spiega che la conoscenza dell’intelligence da parte degli americani è piuttosto scarsa, almeno rispetto a come funzionano realmente questi servizi.

La maggior parte degli americani, scrive Zegart partendo dai risultati di indagini demoscopiche, non sapeva chi fosse il direttore dell’intelligence nazionale, e spesso gli spettatori che guardano programmi tv e film a tema di spionaggio sono favorevoli a tattiche aggressive di antiterrorismo, come il waterboarding. Inoltre, più le persone guardano programmi televisivi e film di spionaggio, più apprezzano la National Security Agency – l’agenzia di sicurezza nazionale.

«Sappiamo che l’intrattenimento ha influenzato la cultura e gli atteggiamenti popolari su tanti argomenti», si legge nell’estratto. Ad esempio “Top Gun”, il film del 1986, fu una manna per il reclutamento della Marina, convincendo molte persone ad arruolarsi. Al punto che spesso c’erano funzionari della marina appostati fuori ai cinema di tutti gli Stati Uniti. Ed è capitato, magari in proporzioni diverse, anche con i film che avevano per protagonisti artisti, avvocati o altri personaggi particolarmente amati dal pubblico che spingevano all’emulazione. Ma con i servizi d’intelligence è un po’ diverso, considerata la complessità di queste agenzie.

«Le vere spie hanno sempre avuto una relazione complicata con quelle di fantasia. Da un lato, le agenzie di intelligence corteggiano Hollywood da decenni nella speranza di ottenere ritratti favorevoli. D’altra parte, ne denunciano le rappresentazioni negative e irrealistiche che spesso vengono fatte», scrive Amy Zegart.

Al cinema è stato spesso rappresentato J. Edgar Hoover, figura sui generis che ha presieduto l’Fbi dal 1924 al 1972. Un’istituzione nell’istituzione. Ecco, Hoover è stato uno di quelli che ha promosso più di tutti la sua agenzia nell’industria dell’intrattenimento: era una macchina per le pubbliche relazioni, che collaborava solo con produttori e giornalisti che ritraevano il Bureau in una luce positiva.

Negli anni ’30 c’erano programmi radiofonici esclusivamente a tema Fbi, e poi fumetti, gomme da masticare e soprattutto film con la sigla del Bureau. Questi film hanno glorificato gli agenti dell’Fbi come eroi intrepidi, gente che, armi in mano, poteva risolvere qualunque crimine.

Oggi Fbi, Cia e Dipartimento della Difesa hanno tutti uffici strutturati di pubbliche relazioni, o contatti nell’industria dell’intrattenimento che lavorano dietro le quinte con scrittori, registi e produttori di Hollywood per cercare di convincerli a ritrarre favorevolmente le loro organizzazioni.

Ma non va sempre bene. A volte la rappresentazione suscita un sentimento negativo nel pubblico, come nel caso di “Zero Dark Thirty” – film candidato all’Oscar che racconta i 10 anni di caccia a Osama bin Laden da parte della Cia –, allora la reazione è ben diversa.

Quando il film è uscito nelle sale ha generato così tante polemiche su cosa fosse reale e cosa no, che l’allora direttore della Cia, Michael Morell, ha dovuto diffondere un comunicato per chiarire i fatti. «Il film crea la forte impressione che le nostre vecchie tecniche di interrogatorio, non più in uso, fossero l’unica chiave per trovare Bin Laden. Questa impressione è falsa», ha detto Morell.

La proliferazione dello spionaggio nella cultura pop genera problemi di natura politica, secondo Amy Zegart. Il primo di questi è che ora le agenzie di intelligence appaiono, agli occhi dei comuni cittadini, molto più potenti, capaci e irresponsabili di quanto non siano in realtà. Una degenerazione di questo punto porta a credere che le agenzie di intelligence siano onnipotenti, cosa che ha alimentato le teorie del complotto sul Deep State e su un governo nascosto che muove i fili.

«Le teorie del complotto possono essere un grande divertimento, ma sono anche sostenute da un numero sempre maggiore di americani», si legge sull’Atlantic.

Dopotutto, dietro molte teorie del complotto si nasconde, in un modo o nell’altro, la convinzione che le agenzie di intelligence siano troppo sviluppate, troppo potenti, troppo segrete e si spingano troppo lontano, per poter davvero commettere errori. Sarebbero praticamente infallibili e avrebbero sempre tutto sotto controllo. Di conseguenza ogni grande avvenimento spiacevole, su scala nazionale, sarebbe per forza di cose frutto di una macchinazione.

«Non intendo suggerire che le agenzie di intelligence e i funzionari non oltrepassino mai il confine della legalità, che non ottengano informazioni riservate dal Congresso o che non si impegnino in attività discutibili. Lo fanno. E a volte anche i programmi considerati legali, come gli attacchi dei droni della Cia, sollevano questioni inquietanti relative alla dimensione etica. Ma il fascino delle teorie del complotto e del pensiero del Deep State solleva soprattutto seri interrogativi su come le agenzie di intelligence saranno in grado di svolgere la loro missione in futuro se ampie fasce del pubblico le guarderanno con tale sospetto», scrive Zegart.

Finché i cittadini credono che le agenzie di intelligence possano rintracciare chiunque, andare ovunque e fare qualsiasi cosa, nel bene e nel male, sarà sempre meno probabile che le vere criticità dell’intelligence vengano risolte, ed è invece più probabile che gli eccessi e i limiti proliferino.

«La maggior parte degli americani, inclusi membri del Congresso, funzionari di gabinetto e giudici che fanno politiche che influiscono sulla sicurezza nazionale – è la conclusione dell’articolo – non sanno molto del mondo segreto dell’intelligence. Il prezzo da pagare può essere molto alto. Le agenzie segrete nelle società democratiche non possono avere successo senza fiducia dei cittadini. E la fiducia richiede conoscenza. Come disse una volta l’ex direttore della Cia e della Nsa Michael Hayden, “il popolo americano deve fidarsi di noi e per fidarsi di noi deve sapere di noi”».

Dagonews il 27 aprile 2022.

Quella oscura e intricata vicenda nota come “Russiagate” (il tentativo, da parte dell'amministrazione Trump, di abbattere con una contro-indagine l'inchiesta originaria del Fbi e del procuratore Robert Mueller sull'interferenza della Russia nelle elezioni americane 2016) ha lasciato in Italia gli stessi veleni depositati negli Stati uniti.

Al centro dei tanti interrogativi sul caso ci sono Giuseppe Conte e l’ex capo del Dis, Gennaro Vecchione. 

Quest’ultimo, il 15 agosto del 2019, incontrò riservatamente in un ristorante a piazza delle Coppelle a Roma l’allora segretario alla Giustizia

William Barr, arrivato in Italia in missione per cercare informazioni sulla presunta cospirazione dei democratici a danno di Trump.

Conte sostiene di non aver saputo nulla della “semplice cena conviviale”, come l’ha liquidata Vecchione: “Non sono stato informato perché non era necessario”. 

Un presidente del Consiglio può essere tenuto all’oscuro dell’incontro del capo dei Servizi segreti con un pezzo da novanta come Barr, arrivato appositamente in Italia per parlare con i vertici dell’Intelligence?

Di certo quella cena fu tenuta nascosta sia all’ambasciata americana a Roma che all’Fbi, considerata allora “nemica” da Trump. 

I nostri 007 non condivisero l’informazione con gli omologhi statunitensi in Italia. Come mai? Chi ordinò il silenzio su quell’incontro?

E soprattutto: di cosa si parlò durante la cena, a cui partecipò addirittura il procuratore John Durham, che stava indagando sul caso? Uno dei temi affrontati fu la sorte del professore maltese Joseph Mifsud.

Docente della Link University, era stato il primo a rivelare a un giovane consigliere di Trump, George Papadopoulos, dell'esistenza di mail hackerate a Hillary Clinton, materiale che Mifsud definì “compromettente”. 

Come spiega Iacoboni: “Papadopoulos aveva riferito la cosa a un diplomatico australiano, che avvisò l'Fbi e diede quindi l'innesco all'indagine del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate.

Per Mueller, Mifsud era uomo in mano ai russi (per l'ex capo Fbi James Comey era proprio “un agente russo”) e alle operazioni di interferenza di Putin nelle elezioni Usa del 2016. 

Trump e Barr volevano invece (e, risulterà, senza fondamento) sostenere che Mifsud fosse una spia britannica, tassello di un complotto mondiale ai danni di Trump organizzato dai democratici di Obama, complice l'Italia del governo Renzi. Da allora Mifsud è sparito. Forse in Russia, forse non più vivo”. 

Barr voleva dall’intelligence italiana informazioni su Mifsud. Trovarlo e farlo “cantare” era l’obiettivo numero uno per Trump. Ma del fantomatico professore si sono perse le tracce da tempo. 

E’ molto probabile che, quando gli americani hanno iniziato a dargli la caccia, uno dei suoi amici oligarchi (a cui vendeva passaporti maltesi a 1 milione di dollari ciascuno) l’abbia invitato a nascondersi in Russia.

A quel punto, nelle mani dell’Fsb, il servizio segreto russo, Mifsud potrebbe essere stato “silenziato” per evitare che cadesse in mani americane. Un silenzio ovviamente tombale.

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 22 aprile 2022.

Una mail dal contenuto molto chiaro: «Cerchiamo informazioni per il Russiagate». L'incontro improvviso di Ferragosto a Roma, nello stupore generale, con la giustificazione un po' surreale: «Barr è in vacanza da quelle parti». 

Lo strappo degli allora direttori delle due agenzie di intelligence, Luciano Carta (Aise) e Mario Parente (Aisi) che prima dicono di non voler incontrare l'Attorney general americano, William Barr, per la sgrammaticatura istituzionale di tutta l'operazione. E 24 ore dopo, quando invece lo devono fare perché arriva una comunicazione scritta dell'ex capo del Dis, Gennaro Vecchione, quell'incontro lo fanno durare pochi minuti: mettono a verbale che non hanno alcun elemento da condividere, e via.

Se il Copasir mercoledì ha deciso di non riaprire il fascicolo Russiagate, nonostante le rivelazioni di Repubblica sulla cena di Ferragosto 2019 tra il capo italiano dei servizi e i vertici americani, è perché agli atti del comitato esisteva già una ricostruzione precisa di quanto accaduto in quelle ore. Una ricostruzione che mette in fila protagonisti, ruoli e responsabilità.

(…) Innanzitutto la partenza: tutto comincia con una lettera dell'ambasciata americana con la quale viene chiesta collaborazione all'Italia sul caso Russiagate. L'allora premier Giuseppe Conte affida il fascicolo al capo del Dis, Vecchione. 

A lui, e non al ministro della Giustizia, cioè l'omologo di Barr, perché - spiega Conte - Barr svolgeva in quel momento il ruolo di capo dell'Fbi. «Ma se anche fosse letta così - fa notare una fonte - l'Fbi si occupa di affari interni. Perché doveva indagare sul Russiagate?».

In ogni caso Conte sceglie Vecchione. Ed è il capo del Dis che viene chiamato quando, a sorpresa, a Ferragosto Barr è in Italia. «È in vacanza» diranno, anche se si presenta con John Durham, il procuratore che stava conducendo l'inchiesta sul Russiagate. Quindi, o i due sono in vacanza insieme. O c'è qualche problema. 

Fatto sta che Vecchione quel 15 agosto è a Castelvolturno, in Campania, al fianco dell'allora ministro degli Interni, Matteo Salvini. Ci sono anche Carta e Parente. A cui però non dice niente degli americani a Roma: finito il comitato, Vecchione corre nella Capitale per incontrare Barr. Cosa si siano detti è ignoto. 

Vecchione ieri ha spiegato via agenzie (mentre il Copasir era riunito per decidere se riascoltarlo): «La conversazione si è orientata su convenevoli di carattere generale ». Bizzarro, non fosse altro che l'oggetto dell'incontro, il Russiagate appunto, era noto a tutti. In ogni caso, esisterebbe una memo di quell'incontro.

Fatto sta che quando un mese dopo, siamo al 26 settembre, Vecchione convoca i direttori di Aise e Aisi per spiegare loro che 24 ore dopo avrebbero dovuto vedere Barr, che stava tornando in Italia per discutere del Russiagate, i due dirigenti italiani non nascondono il loro disappunto.

Nulla sapevano e soprattutto nulla avevano da condividere. Vista la forma dell'incontro e la sostanza della vicenda. Vecchione forza e li convoca per iscritto. Ventiquattro ore dopo, seduti allo stesso tavolo, fanno mettere a verbale: «Nulla da dire sull'argomento».

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 22 aprile 2022.

Il 23 ottobre 2019 l'allora premier Giuseppe Conte, dopo esser stato audito al Copasir sullo scandalo del cosiddetto "Russiagate", si presentò in conferenza stampa e, riassumendo ciò che aveva detto al Comitato, disse tre cose. 

Uno: che il 15 agosto 2019 il ministro della giustizia di Trump, Wiliam Barr si era visto con il capo del Dis, Gennaro Vecchione, solo nella sede istituzionale di piazza Dante.

Due: «Mi risulta che William Barr fosse qui in Italia per motivi personali». Tre: «Il presidente Trump non mi ha mai parlato di questa inchiesta». A quale inchiesta si riferiva Conte?

L'inchiesta, che spesso viene giornalisticamente chiamata "Russiagate", era il tentativo, da parte dell'amministrazione Trump, di abbattere (con una contro-indagine) l'inchiesta originaria del Fbi e del procuratore Robert Mueller sull'interferenza della Russia nelle elezioni americane 2016. Per questo motivo vennero mandati in Italia, a più riprese nell'estate 2019, Barr, il procuratore speciale John Duhram e (attenzione) ispettori del Dipartimento di giustizia (non del Fbi).

Il loro compito era trovare sostegno a questa teoria: che l'Fbi di James Comey aveva iniziato a indagare su Trump sulla base di un complotto internazionale dei democratici (di Obama), partito dall'Italia (di Renzi). Al centro c'era un professore maltese della Link University, Joseph Misfud, che proprio a Roma diede per primo a un giovane consigliere di Trump, George Papadopoulos, l'informazione che esistevano mail hackerate di Hilllary Clinton, materiale «compromettente», quindi utile alla campagna Trump. Papadopoulos lo riferì a un diplomatico australiano. Il quale lo riferì al Fbi.

E nacque l'inchiesta (che, per inciso, non approdò assolutamente a nulla). Per l'Fbi, Mifsud era «un agente russo» (per Mueller, un asset dei russi): tesi provata da tante evidenze, anche forensi (tra cui i contatti di Mifsud con computer di russi della Difesa e del GRU). Si trattava di scoprire quanto fosse anche in contatto con la campagna Trump. Trump e Barr, invece, volevano sostenere che Mifsud era un agente al servizio dei democratici occidentali, in particolare una spia britannica. Per questo Barr fu inviato in Gran Bretagna, in Italia, e in Australia. Estate impegnata.

La prima delle tre affermazioni di Conte in quella conferenza stampa è stata smentita dalla rivelazione di una cena (quindi non solo l'incontro in piazza Dante) avvenuta in un ristorante romano tra Barr e Vecchione. La seconda e la terza vengono adesso messe in crisi dall'uscita del libro di memorie di William Barr, "One Damn Thing After Another: Memoirs of an Attorney General", un piccolo tesoro di informazioni. Su tante altre si dovrà tornare in seguito, ma qui fermiamoci su due: intanto, Barr dice esplicitamente che non era affatto in Italia per motivi personali, ma in missione.

E, soprattutto, l'Attorney general racconta di aver esplicitamente chiesto a Trump, e di averlo stressato su questo, di parlare dell'inchiesta con i premier di Italia, Regno Unito, Australia. Barr conferma (come detto da Conte) che la pratica fu aperta parlando con l'ambasciatore italiano e con "senior officials" italiani, ma aggiunge che anche Trump fu coinvolto eccome: «Ho viaggiato sia in Italia che nel Regno Unito per spiegare l'indagine di Durham e chiedere assistenza o informazioni che potessero fornire. Ho avvisato il Presidente che avremmo preso questi contatti e gli ho chiesto di menzionare l'indagine di Durham ai primi ministri dei tre paesi, sottolineando l'importanza del loro aiuto».

Barr chiede esplicitamente a Trump di sponsorizzare l'indagine di Durham con Conte. Barr racconta tutto questo per difendersi dalle accuse in America più scottanti, quella di aver partecipato alla parte ucraina del complotto di Trump: «Al contrario - dice Barr - non ho mai parlato con gli ucraini o chiesto al presidente Trump di parlare con gli ucraini. Il presidente non mi ha mai chiesto di parlare con gli ucraini.

Né avevo parlato con Rudy Giuliani sull'Ucraina. Inoltre non ero a conoscenza di nessuno che al Dipartimento chiedesse agli ucraini di aprire un'indagine. Per quanto mi riguardava, se mai Durham avesse trovato un motivo per esaminare le attività ucraine, avrebbe svolto le indagini, non le avrebbe lasciate agli ucraini». Insomma: Barr sta dicendo che non c'erano prove contro i Biden. La storia della telefonata tra Zelensky e Trump, che uscì e portò alla richiesta di impeachment del Congresso per Trump, è nota: Zelensky resistette alle pressioni e richieste improprie trumpiane (di danneggiare la famiglia Biden). Possiamo dire che Conte abbia fatto lo stesso? 

E Gabrielli non fa nulla...Mancini minacciato di morte, intelligence muta: lo 007 silurato e privato della scorta paga il sequestro Abu Omar. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 16 Giugno 2022. 

“Una manina” dentro le agenzie sotto il suo controllo ha dato al Corriere della Sera “Bollettini” riservati. Così parlò Franco Gabrielli, sottosegretario ai servizi segreti denunciando di fatto i suoi stessi uffici come posti non del tutto sicuri per la sicurezza dello Stato sul quale dovrebbero vigilare. “Una manina” ancora attiva e che agisce coperta da altri agenti. Dice infatti Gabrielli, aggravando la faccenda: nel medesimo contesto dove opera l’agente fellone “ci sono persone delle quali faremmo volentieri a meno”.

In effetti, ci sono dei precedenti. Ad esempio, a Report mostrarono la circolare interna, e in quanto tale presumibilmente classificata, che “in esclusiva” Sigfrido Ranucci mostrò in gigantografia per pochi istanti, preceduta dall’immagine di Gabrielli. Stessa manina? O c’è proprio un gruppo dentro i servizi che agisce obbedendo ad altri input, a cordate che corrono per una scalata tutta loro oppure ancora che rispondono ad intelligence forestiere? Proviamo ad andare alle radici mai divelte di quella pattuglia felloniana – passateci il neologismo – che rende il comparto più delicato dello Stato così vulnerabile. Di certo, viene da chiedersi, davanti ai panni sporchi lavati e strizzati in diretta streaming da Gabrielli, se voi foste della Cia o dell’MI6 passereste un documento segreto ai servizi italiani? Probabilmente no. Cosa sta realmente accadendo a Piazza Dante? Gabrielli è stato l’angelo custode su cui Mario Draghi ha puntato all’esordio del suo governo. E qual è stato il primo atto sulla scena del nuovo protagonista? La rimozione di Marco Mancini, in fretta e furia. Una decisione rimasta appesa a un mistero e a troppi segreti.

Ci sentiamo autorizzati a condividere qualche interrogativo, dopo un mese dalle minacce di morte ricevute da Mancini, messo nel mirino sin da troppi cecchini. E se mettessimo insieme gli elementi? Quelle minacce, sigillate dall’omertà delle istituzioni (scoperchiate dal Riformista, in solitaria, il 20 maggio scorso); la cacciata dai servizi segreti; la campagna martellata a testate unificate da Rai3, Repubblica, Il Fatto, Corriere della Sera, la Stampa e la Verità, sull’essersela cavata perché “salvato” dal segreto di Stato; gli spifferi gelati e forse al gas nervino provenienti da luoghi altissimi… Se insomma tutte le tessere del caso Mancini trovassero il loro incastro, come in un puzzle che si ricompone, in una verità semplice ed evidente, ma proprio per questo indicibile?

La nostra ipotesi, suffragata da una combinazione di combinazioni stupefacente, è che il centro dell’affaire che coinvolge lo 007 più famoso d’Italia, sia il segreto di Stato su Abu Omar. E fin qui, ci si dirà, ci arrivano tutti. Ma la nostra ipotesi, suffragata dalla logica e dai fatti che esponiamo, capovolge la vulgata che incolla Mancini nell’album dei sequestratori impuniti, salvati dal privilegio vigliacco del segreto di Stato. Se la nostra tesi, come crediamo fortemente, ha fondamento, cambia proprio tutto. E nel momento in cui è in gioco non solo la vita di una persona ma la fiducia che i cittadini devono poter riporre negli apparati di intelligence e di sicurezza, chiediamo di conoscere la verità su quella storia. E di sapere chi ha deciso di usare la sagoma di Mancini come bersaglio sacrificabile. Peccato non sia una sagoma da tiro al bersaglio ma una persona in carne ed ossa. Una persona che nel silenzio operoso, a quanto dicono le carte, ha incarnato la fiducia dei cittadini in uno Stato che deve tutelare la vita di tutti, e forse in primis dei suoi servitori.

Anche se nessuno si è scandalizzato, allo scadere dei quindici anni dal fatto, Giuseppe Conte ha prorogato il segreto. E lo stesso ha fatto Mario Draghi (ma lo sa?). Così pare. Risulta da una lettera del capo del Dis Elisabetta Belloni. C’è il segreto di Stato che avvolge tutta la vicenda fino ai minimi particolari. Perché? Chi continua ad essere avvolto dal mantello dell’invisibilità di Harry Potter? Intanto constatiamo che è come se si stesse facendo di tutto per esporre Mancini a qualche “incidente”. Il silenzio che ha circondato la prima pagina del Riformista del 20 maggio è davvero singolare. Il nostro titolo cubitale era un grido di allarme: “VOGLIONO UCCIDERE MANCINI, IL SUPER-007 SENZA SCORTA”. Non c’è spazio per una terza via: o smentisci o confermi e rimedi. Invece regna il silenzio. Un silenzio di tomba. Magari hanno ridato la scorta a Mancini. Non lo sappiamo. È ancora un cadavere che cammina solitario y final? Stanno al Copasir, quelle carte. Perché quel silenzio perdura? Di solito, se qualcosa di riservato finisce dalle parti di San Macuto, sede del Copasir – tipo la schedatura di filorussi finita sul Corriere della Sera – si trasforma in segreto di Pulcinella. Il dossier delle minacce a Mancini invece sonnecchia, ignorato persino da chi avrebbe dovuto allertarsi.

Domanda: il Comitato ristretto, presieduto da Gabrielli, che gli ha tolto la scorta, informandone Repubblica (13 maggio) e altri privilegiati, prima ancora dell’interessato, l’ha ripristinata o ha fatto spallucce? Forse, il ministero dell’Interno Luciana Lamorgese, tramite il prefetto locale, ha almeno ridato alla famiglia dello 007 la “vigilanza dinamica” intorno alla dimora? Al loro posto avremmo smosso mari e monti, tanto documentate e spaventose sono le minacce che abbiamo reso note. Lettere giunte al domicilio privato naturalmente segreto, messaggi che viaggiano impunemente fino al numero riservatissimo di chi sedeva ai vertici dell’intelligence. Tutto normale? No. C’è un bug. Una falla nel sistema di sicurezza. Interrogato dal procuratore di Ravenna – secondo le carte depositate al Copasir – per l’allora direttore dell’Aise (i servizi esterni) Paolo Scarpis le minacce “provengono dall’interno della nostra agenzia”.

Testuale. E molto, molto inquietante. Come hanno provveduto a ripulirlo, il servizio, Scarpis e successori? Individuando con un’inchiesta interna i colpevoli? Si è preferito delegare la polizia giudiziaria, che non ha risolto però il caso. Che sfortuna. E quindi si è preferito punire la vittima del fuoco amico, metterla a riposo a 60 anni, all’apice della sua esperienza e competenza, dopo che la vita delle persone a lui più care è stata destabilizzata. I criminali che dettagliavano alla figlia e alla moglie di Mancini che si sarebbero presto trovate davanti al cadavere del loro padre e marito “con una fucilata in testa”, dove si annidano? Come possono avere tutti i suoi dati personali? Mancini è irrintracciabile, per noi, al telefono. Ammettiamolo, non siamo bravi come quelli di Report: Sigfrido Ranucci e Giorgio Mottola hanno il suo numero privato su cui l’hanno invano messaggiato (Report del 25 ottobre 2021).

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Nessun governo si decide: c’è qualcosa da coprire? Sequestro Abu Omar, il caso Mancini e il segreto di Stato che copre la verità. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 19 Giugno 2022. 

Più procediamo e più constatiamo. La chiave di tutto sta in ciò che circonda e nasconde il caso Abu Omar, anzi: il segreto di Stato che lo riguarda. Tutto concorre a evidenziare che apparati regolari o paralleli si sono stufati di veder circolare “una bomba a orologeria” (copyright di Carlo Bonini). Niente di meglio che sotterrarla, per disinnescarla. E ogni volta si proietta l’ombra di Abu Omar, l’imam prelevato dalla Cia a Milano il 17 febbraio del 2003. Dalla Cia e non solo. Qualcun altro ha collaborato. Chi? Le certezze propalate dalla sentenza di condanna dalla Corte d’Appello di Milano del 12 febbraio 2013 puntarono il dito contro il capo del controspionaggio del Sismi, Marco Mancini (9 anni di carcere) e il suo direttore Nicolò Pollari (10 anni).

Non importa che quella sentenza sia stata annullata, privata della stessa qualità di essere esistita, dalla Corte costituzionale il 14 gennaio 2014. Conta di più la forza mediatica della Procura di Milano contornata di informatori che spiano le mosse dei colleghi? Nei fatti, la colpevolezza di Mancini e Pollari viene lasciata circolare senza intervenire e si trasforma in luogo comune. Rubando un titolo a Gesualdo Bufalino potremmo chiamarla “La diceria sull’Untore”. Del resto, Fabio Amendolara, su La Verità, lo definisce proprio così il 15 maggio 2021, anticipando il defenestramento. Scrive Amendolara: “Il caporeparto del Dis è l’untore che infetta tutti quelli che lo incrociano. A renderlo tale è il suo coinvolgimento nel rapimento dell’imam Abu Omar”. Ancora e sempre, Abu Omar. Occorre liquidare l’Untore.

L’esecuzione della sentenza ad annunciarla con dovizia di particolari è il ben informato Carlo Bonini su Repubblica del 3 giugno: “Con una decisione comunicata all’interessato alla vigilia del 2 giugno, al sottosegretario con delega alla sicurezza nazionale Franco Gabrielli e alla nuova direttrice del Dis Elisabetta Belloni, sono stati infatti sufficienti appena venti giorni per liberarsi della spia che aveva tenuto in costante fibrillazione e apprensione, per 15 anni (è del luglio del 2006 il suo arresto nella vicenda Abu Omar), il nostro sistema di Intelligence e otto diversi governi”. Assai rivelatrice, questa motivazione. Notato il nome posto come capo d’accusa? Abu Omar, ovvio. Dagospia sorpassa in curva Bonini e il 4 giugno fa il nome del “boia”, il tagliatore di teste. Si tratta di Bruno Valensise. A lui, secondo Dago “un Mancini impazzito ne ha urlate di tutti i colori”. Il famoso filmato all’Autogrill di Report è solo un pretesto, è il casus belli. C’è ben altro: a confermarlo è lo stesso Gabrielli con le dichiarazioni consegnate lo scorso 21 marzo alla storia tramite Giovanni Minoli a Il Mix delle 5, Radio Rai. Autogrill? Vale per gli ingenui. Dice Gabrielli testualmente: “(Mancini) non è stato invitato (ad andarsene) con riferimento a quella vicenda. Ma per tutta una serie di altre questioni che non è il caso di approfondire”.

A cosa allude? Al fatto che lassù sono stufi di avere tra i piedi la “bomba a orologeria”, uno che sporca di unto chi lo incrocia, essendo uno che bisogna far saper che “l’ha fatta franca”, secondo il lessico della procura di Milano? Conviene che si continui a pensar così. Ci sono carte e dichiarazioni che spingono a pensare che sono altri ad averla fatta franca. Ma per questo dovrete aspettare un po’. Peccato che non si stia parlando del giallo dell’estate, da leggere sotto l’ombrellone. Il pericolo per la vita di un servitore dello Stato non solo è perdurante ma è più che mai diretto e attuale: 1) la trasmissione sulla tv del servizio pubblico coram populo et repetita juvant del volto dello 007 pensionato nel luglio scorso, ma la cui testa resta un archivio vivente del nostro controspionaggio di cui è stato la punta di lancia per tutto l’Occidente, in riferimento soprattutto a Russia e Cina; 2) Il riconoscimento facciale (Report del 3 maggio 2021) dell’uomo “losco” che in Autogrill a Fiano Romano incontra Matteo Renzi il 23 dicembre 2020 è operato da un uomo mascherato e con voce contraffatta qualificato come ex agente del Sismi.

Frequentazione troppo antica per essere autentica. Ci siamo chiesti perché Report non scrive ex agente dell’Aise. Dice “Ex Sismi”. Lo dice la logica: il volto di Mancini nel filmato trasmesso è assolutamente diverso da quello che appariva nell’unica foto diffusa nel 2005 al tempo del Sismi. Deve seguire uno storytelling, chi lo indica. Ma deve anche averlo frequentato fino a poco fa, ed è perfettamente consapevole di consegnare il corpo dell’agente segreto più esposto dell’intero Occidente. E che nome pronuncia, che fatto evoca, nella circostanza il nostro Anonimo 007 esperto in riconoscimenti facciali? Abu Omar. Abu Omar. Abu Omar.

Così funziona la character assassination. Si deve ripetere un mantra finché quello non entra nella testa di tutti. A forza di ripetere una stessa bugia, quella diventa vera, predicava Goebbels. Un motivo in più per decidersi a togliere, adesso e per sempre, il segreto di Stato da quel caso. Saltato quel sigillo, salterebbe il marchio di infamia che qualcuno vuole incollare a Mancini. E si chiarirebbero molte cose. Quel segreto di Stato è un tappo che sigilla veleni e che qualcuno vuole, e forse deve, tenere invece ben chiuso. Fino a quando?

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste. 

Felice Manti per “il Giornale” il 21 giugno 2022.

C'è un'indagine della Procura di Ravenna per diffamazione e rivelazione di segreto di Stato sul filmato di 28 secondi che riprende l'ex premier Matteo Renzi e l'ex 007 Marco Mancini all'Autogrill di Fiano Romano il 23 dicembre 2020. Filmato che un'insegnante rimasta anonima avrebbe recapitato a Report, che l'ha pubblicato quattro mesi dopo: «Mi sembrava strano che un senatore - disse la donna in tv - si vedesse per 40 minuti con una persona, che alla fine gli disse sono a disposizione». 

Anche per quel video la carriera di Mancini, che puntava alla poltrona di numero due del Dis, finì in malo modo. Secondo un retroscena pubblicato da Dagospia a rimuovere lo scomodo funzionario sarebbe stato il sottosegretario Franco Gabrielli.

«Il nuovo capo del Dis Elisabetta Belloni temporeggiava sullo 007, disposto a tutto pur di diventare vicedirettore, al punto che dopo le promesse mancate di Giuseppe Conte e Angelo Vecchione (ex capo dei Servizi di osservanza grillina, ndr), aveva bussato alla porta di Matteo Renzi». Inutilmente. Alla fine a porgere il calice amaro a Mancini fu il vice della Belloni, Bruno Valensie, «in un incontro iniziato alle 11 e finito alle 17, con un Mancini impazzito che ne ha urlate di tutti i colori».

A quanto ha appreso il Giornale, la Procura di Ravenna ha aperto un'inchiesta e ha indagato Ranucci assieme all'autore del servizio Giorgio Mottola, per capire se davvero è stata una fonte anonima a recapitare la cassetta o se dietro c'è un regolamento di conti tra 007. I due cadono dalle nubi: «L'indagine? La annunciammo in una puntata dell'ottobre scorso, quando Mottola andò a trovate Mancini a Pavia», dicono da Report.

Ma nel servizio si dice solo che Mancini ha presentato querela, mentre al Giornale risulta che sia Ranucci sia Mottola siano stati indagati e interrogati, assieme anche a Francesca Chaoqui: «È vero - dice la Papessa, che dopo il suo coinvolgimento nello scandalo Vatileaks 2 ha una società di consulenza a Roma e collabora, tra gli altri, con Matteo Salvini - Report ha mandato in onda una registrazione di una conversazione tra me e Giorgio Mottola in cui, spiegando al giornalista il coinvolgimento di Cecilia Marogna come rappresentante presso i servizi segreti italiani, essa non avesse credito presso le istituzioni, ma veniva ascoltata per cortesia nei confronti di uno stato estero.

Da questa conversazione poi mandata in onda da Report l'ipotesi che io fossi a conoscenza di vicende che riguardassero il dottor Mancini e da qui la volontà dei pm di Ravenna di capire meglio il mio ruolo». Ma chi è la Marogna? E che c'entra con Report? 

La donna, coinvolta nel processo in Vaticano sul palazzo di Sloane Avenue per i suoi rapporti con monsignor Angelo Becciu di cui si è occupato proprio Mottola, dice di aver lavorato per la Santa sede con l'ok del Pontefice per la liberazione di una suora in Colombia e di avere agganci nei servizi segreti, tanto da aver accreditato qualche anno fa, presso la Segreteria di Stato, i vertici dei servizi di allora, i generali Luciano Carta e Giovanni Caravelli. 

«Chiarito che il mio coinvolgimento fosse esclusivamente relativo alle vicende vaticane e non a quelle italiane, di cui niente conosco, la mia posizione è stata chiarita», dice la Chaouqui. Chissà se i pm sono dello stesso avviso.

Ranucci attacca. "Quel video al'Autogrill non è rubato". Felice Manti il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.

Sigfrido Ranucci se la prende col Giornale perché ha rivelato che il conduttore di Report è indagato per il video che ritrae l'ex 007 Marco Mancini e il senatore Matteo Renzi nell'autogrill di Fiano Romano.

Sigfrido Ranucci se la prende col Giornale perché ha rivelato che il conduttore di Report è indagato per il video che ritrae l'ex 007 Marco Mancini e il senatore Matteo Renzi nell'autogrill di Fiano Romano, mandato in onda sulla Rai. Ma sbaglia mira. Dice di aver detto dell'inchiesta di Ravenna 8 mesi fa «per un dovere di trasparenza nei confronti del pubblico che ci segue» ma nessuno fino a ieri sapeva che lui, Giorgio Mottola e Francesca Chaouqui erano stati indagati e interrogati. Fa niente. A rivelare al nostro quotidiano i capi d'accusa contestati dalla Procura di Ravenna è lo stesso Mottola: «Diffamazione e rivelazione di segreto di Stato». Diffamazione perché secondo la sedicente autrice del video «rubato», Mancini avrebbe detto a Renzi «sono a tua disposizione». «È falso che io sia indagato per aver rubato il video di Renzi come titola il Giornale», sottolinea Ranucci. Ma se l'avesse «rubato» i reati sarebbero ben altri, è «rubato» tra virgolette perché è stato fatto senza il consenso degli interessati. Ranucci ce l'ha pure con Matteo Renzi, che non crede alla storia dell'insegnante stile Jessica Fletcher che gioca a fare lo 007. «Bisogna che qualcuno si metta l'anima in pace: in quell'autogrill non c'erano agenti del Gru, del Kgb, o cinesi», insiste il conduttore di Report, sicuro che la vicenda finirà in nulla perché «neppure i fatti raccolti dai magistrati e dalla Digos hanno messo in dubbio la bontà del racconto di Report». Renzi non ci sta: «Sono garantista, sempre, e mi auguro che tutto si chiuda velocemente. Ma credere alla versione delle due auto, che escono una a destra e una a sinistra dall'Autogrill, è più difficile che credere negli Ufo. Purtroppo questo è il servizio pubblico con cui dobbiamo fare i conti».

Resta da capire che cosa si sarebbero detti i due. E qui la vicenda si complica. Prima Ranucci si dice sorpreso dell'ipotesi di aver violato il segreto di Stato, poi ammette «il paradosso che mentre lo 007 si appellava al segreto di Stato, chiedeva però alla Procura di Ravenna di rivelare il nostro». Al Giornale risulta che la cacciata di Mancini dai servizi dopo il video sarebbe il culmine di una faida interna ai nostri 007, legata anche alla fine del governo di Giuseppe Conte, su cui più di qualcuno saprebbe molte cose. Per risolvere questo mistero, oltre a Ravenna, si starebbero muovendo anche le procure di Roma e Firenze. C'è una manina dietro il video consegnato a Report o è solo una caccia ai fantasmi?

Vincenzo Bisbiglia per il “Fatto quotidiano” il 25 giugno 2022.

Non è emerso alcun collegamento degno di nota tra la donna che registrò il video dell'incontro fra Matteo Renzi e l'ex 007 Marco Mancini, avvenuto il 23 dicembre 2020 all'autogrill di Fiano Romano, e formazioni politiche o personaggi legati ai servizi segreti. Il filmato dell'incontro fu poi utilizzato da Report per un servizio andato in onda il 3 maggio 2021. 

La Digos di Roma nei mesi scorsi ha inviato alla Procura di Roma un'informativa in cui smentisce i timori di Matteo Renzi circa la possibilità che l'insegnante, che non è indagata, abbia avuto una motivazione diversa dalla semplice curiosità a spingerla a riprendere con lo smartphone la chiacchierata tra il leader di Italia Viva e l'ex dirigente del Dis.

La donna è stata sentita ad aprile dai magistrati capitolini come persona informata sui fatti e agli inquirenti ha confermato la versione già resa pubblica durante l'intervista a Report. Pochi giorni prima i pm avevano sentito, sempre come persona informata sui fatti, anche il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci. 

La donna altro non ha fatto che riprendere la scena che peraltro si svolgeva in un luogo pubblico. Eppure Renzi ha deciso di denunciare, presentando l'8 maggio 2021, un esposto alla Questura di Firenze.

Nella querela, gli avvocati del senatore scrivevano della possibilità che "Renzi sia stato seguito e/o che qualcuno abbia violato la Costituzione e la legge intercettando e riprendendo in modo illegittimo un parlamentare della Repubblica" e definivano "contraddittorio" il racconto della donna e "grottesca e falsa" la sua ricostruzione", motivando la necessità dei pm di indagare in quanto "l'episodio potrebbe non essere una fortuita ripresa da parte di una cittadina qualunque, quanto piuttosto una vicenda accuratamente orchestrata".

Nel suo libro Il Mostro, Renzi va oltre e si riferisce all'episodio parlando di "pedinamento fisico che mi porta a essere controllato persino agli autogrill", per poi chiedere ai lettori se sia "plausibile che la Rai faccia credere che una signora all'improvviso ferma in autogrill (...) riconosca in un 'tizio losco' un agente dei Servizi segreti, capti il dialogo pur essendo a distanza (...) e quattro mesi dopo i fatti, all'improvviso, decida di parlarne con Report?". L'indagine aperta dalla Procura di Roma è contro ignoti (non ci sono indagati). I reati iscritti nel fascicolo risultano essere quelli di interferenze illecite nella vita privata e accesso abusivo a un sistema informatico o telematico. 

Marco Mancini, lo 007 fatto fuori da Report: "Immagino con grande soddisfazione dei russi". Libero Quotidiano il 23 aprile 2022.

Sigfrido Ranucci e la redazione di Report hanno sulla coscienza la fine della carriera di Marco Mancini. L’ex capo reparto del Dis è stato pre-pensionato lo scorso luglio, dopo essere stato esposto dal programma di Rai3 per l’incontro avvenuto in autogrill con Matteo Renzi a dicembre 2020. Dopo 30 anni passati nel controspionaggio italiano, Mancini è quindi stato costretto a rinunciare al suo lavoro a causa di un servizio di Report.

“Penso che nelle sedi istituzionali deputate al controllo dei servizi si possa giungere a definire i reali contorni, le dinamiche e i contenuti della vicenda trattata dai media - ha dichiarato l’ex capo reparto del Dis all’Ansa - essere individuato, riconosciuto e mostrato in televisione senza che vi fosse una mia immagine pubblica dal 2005 è inquietante e sconcertante. Peraltro, in quell’occasione, stavo facendo un semplice saluto pre-natalizio a un senatore della Repubblica italiana. Immagino con grande soddisfazione dei servizi segreti russi”.

Quest’ultimo punto è poi stato approfondito da Mancini: “Se fosse accertato con sentenza definitiva che Walter Biot ha trafugato segreti dal patrimonio informativo italiano a favore dell’intelligence russa, ciò sarebbe la conferma della continua attività clandestina che gli agenti di Mosca svolgono attivamente tutt’ora, e sottolineo tutt’ora, sul nostro territorio nazionale”. Lo scorso luglio Mancini è stato messo in pre-pensionamento a causa delle polemiche scatenate dal servizio di Report sull’incontro con Renzi.

Minacce di morte al pilastro dei servizi segreti italiani. Vogliono uccidere Marco Mancini, e i servizi lo scaricano: tolta la scorta al super-007. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 20 Maggio 2022. 

Prima che sia troppo tardi va raccontata la storia di un morto che cammina. Sperando che grazie alle notizie – verificate una per una – che qui daremo, possa ancora camminare a lungo. A esporlo a una fine violenta è proprio lo Stato che ha servito e gli organi di sicurezza di cui è stato l’asso, come tutti – amici e nemici – oggi gli riconoscono. Stiamo parlando di Marco Mancini, pilastro dei servizi segreti italiani da sempre attivo per prevenire e sminare con il massimo anticipo le minacce alla sicurezza. È il metodo Mancini. O meglio era: perché Franco Gabrielli ha pensato bene, nel pieno vigore dei 60 anni, di avviarlo alla pensione.

Ufficialmente per la sovraesposizione dovuta al famoso caso dell’Autogrill. O almeno, così diceva la lettera firmata da Elisabetta Belloni, direttrice del Dis. O forse, per tornare a Gabrielli, “per tutta una serie di altre questioni” (dichiarazione al Mix delle 5, Rai Radio 1, da Giovanni Minoli, 21 marzo 2022). Quali? Di certo la mossa forse astuta e tranquillizzante per certi settori decrepiti e parassitari dell’intelligence, in realtà è pericolosa per Mancini e famiglia, ma anche per l’Italia. Tutto lascia credere che giovi piuttosto agli interessi russi. Mancini viene dalla scuola del generale Dalla Chiesa, da cui impara a catturare terroristi. Tra le tante operazioni di quegli anni Ottanta, fu lui a bloccare Sergio Segio detto Sirio in viale Monza a Milano, riconoscendolo per caso, e senza sparare un colpo, nonostante Segio girasse con la scorta. Passa da carabiniere ad agente Sismi (il servizio segreto militare, quello con l’occhio sul mondo intero: oggi Aise) e dà il meglio come capo del controspionaggio.

È coinvolto nel caso Abu Omar e nell’affaire Telecom: subisce quasi un anno di carcerazione preventiva. Entrambi buchi nell’acqua della Procura di Milano: si concludono con il proscioglimento per caso del sequestro dell’Imam e con l’assoluzione da parte del Gup di Milano sul caso Telecom. Poi va all’Aise, per quattro anni capo centro a Vienna, punto strategico verso l’Est. Nell’agosto del 2014 torna nella Capitale. La faccenda è segreta, ma una fuga di notizie interna ai servizi la dà al Fatto Quotidiano. Passa al Dis, con mansioni di scrivania, seppur importantissime: tenere la cassa, controllare le spese, e magari prevenire l’utilizzo improprio dei fondi riservati. Risparmia milioni, la Corte dei Conti gli rivolge un elogio. Ma un ex operativo, dietro alla scrivania, soffre sempre un po’. E soprattutto, non riesce a portare a termine il lavoro intrapreso sulla rete di spie, in particolare russe, che infestano l’Italia. Il metodo della crisis prevention avrebbe suggerito, ripetono nell’ambiente, che ad esempio Walter Biot andava pedinato più a lungo ai fini di ricostruirne la rete, anziché arrestarlo alla prima occasione e liquidare tutta la pratica in fretta e furia.

Secondo testimonianze mai smentite, prima alla fine del 2020 (10 novembre, titolo del Fatto: “Servizi segreti, il ritorno di Mancini: in ballo la nomina a vice degli 007”) poi sul finire dello scorso anno (su Repubblica, da Claudio Tito) è accreditato per la direzione dell’Aise o la vicedirezione del Dis. Di certo lo convocano per annunciarglielo Luigi Di Maio alla Farnesina e Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Finché il 23 dicembre, quando viene filmato durante un incontro con Matteo Renzi fuori dall’Autogrill di Fiano Romano, cambia tutto. Prima si fa montare il mistero. “Un video anonimo..”, dirà sulle prime Sigfrido Ranucci. Poi Report il 12 aprile trasmette il filmato. Non solo. Ranucci riesce anche a dare un nome a quel volto: è di Marco Mancini. Altro che promozione per lui: è la fine. Per dare un nome al suo volto, Report va a colpo sicuro da un uomo dei servizi segreti, presunto ex-Sismi, opportunamente mascherato, per effettuare il riconoscimento.

Anche se, a ben riflettere, il Sismi non c’è più dal 2007. In pensione da 14 anni? E da 14 anni non ha visto in viso Mancini, a meno che fosse dell’Aise. Perché vanno da lui a colpo sicuro? Magari invece era un magistrato, un architetto, un farmacista. Invece guarda un po’ chiedono a un ex 007. Che essendo tale, sa che Mancini ha la scorta da anni e non a caso. E qui siamo al risvolto indecente della storia. Il volto odierno di Marco Mancini ormai è a disposizione di qualunque Paese che abbia visto il lavoro di Mancini portare risultati utili all’Italia e negativi, con il dissolvimento di un nido di spie, a Paesi a noi ostili. Questo, usando un linguaggio antico, è comportarsi da felloni. Invece cosa fanno le agenzie con la supervisione di Gabrielli? Mettono sotto accusa Mancini e non indagano sulla spia mascherata. Non è che ha qualche interesse diverso nel “bruciare” lo 007? Talvolta si è spinti a pensare male, quando in ballo ci sono i russi, poi…

Ricordiamolo: Gabrielli fa nominare l’ambasciatrice Elisabetta Belloni a capo del Dis. E decide la defenestrazione di Vecchione e la cacciata di Marco Mancini. Non solo. Gli toglie la scorta, di più: priva la sua abitazione (e questa non è una decisione di Gabrielli ma del Ministero dell’Interno) della “vigilanza dinamica” intorno alla abitazione della famiglia Mancini, peraltro già traslocata in altro luogo per mettersi in salvo. Leggiamo Repubblica del 13 maggio. “Il redde rationem nei Servizi è solo all’inizio. E del prefetto Gennaro Vecchione, direttore del Dipartimento per le informazioni e la sicurezza fino alle 19 di mercoledì, e del suo dirigente ancora in servizio, Marco Mancini – per il quale il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Franco Gabrielli ha disposto l’interruzione del servizio di scorta di cui godeva e di cui nessuno è stato in grado di giustificare le ragioni – sentiremo probabilmente parlare ancora per un po’. La faccenda (dell’Autogrill, ndr) li ha travolti”. Gabrielli davvero non sapeva le ragioni della scorta? Se sì, lo lascia in balia di qualche commando. Se non lo sapeva, peggio ancora.

Ci mettono in mano due fogli. La fonte è un parlamentare del Copasir, che viola il segreto di Pulcinella che lì dovrebbe vigere, e in realtà serve solo a nascondere quello che si dovrebbe fare e non si fa, per pigrizia, quieto vivere, commercio di dare-avere con questa o quella cordata dei servizi segreti. Tutto è depositato presso il Copasir, e tutto è ed era a disposizione di Gabrielli e della Belloni. Prima però una busta. C’è il francobollo con Papa Luciani. Il nome e l’indirizzo privato, in Emilia-Romagna, del destinatario. Contenuto: una lettera che riproduciamo in questa pagina. Il sistema per non farsi identificare è quello antico dei rapitori sardi: il normografo. Dice il foglio, che segue a messaggi sul telefonino irrintracciabili, tutto in minuscolo: “Continui a non capire un cazzo, sei un cadavere che cammina!!! Tu e Pollari siete dei bastardi sequestratori… come siete ridicoli insieme. Per te abbiamo già una bara vuota e pronta che ti aspetta qui a Roma. Tua moglie e tua figlia troveranno un cadavere con una fucilata in testa….. sei un porco sequestratore morto. Non sei degno di stare a questo mondo. Rimani a Vienna…….. ti conviene!!!”. Siamo a inizio del 2014.

La Corte Costituzionale sta per pronunciarsi e decidere che il sistema giudiziario non ha titolo per sottoporre a processo Marco Mancini, Nicolò Pollari e altri agenti del Sismi: proscioglimento per decisione della Corte sovrana, che sta sopra la Cassazione e vigila sulle fondamenta della Repubblica. Nessuno, salvo gli ambienti più interni all’Aise, sa di quel che sta maturando riguardo al trasferimento. Mancini non retrocede, non si fa intimidire, denuncia il tutto al suo superiore, il direttore Paolo Scarpis, che riferisce di queste minacce alla polizia giudiziaria. Ecco allora una nuova lettera. Evoluzione. Stesso normografo ma tutto in maiuscolo e nessuna punteggiatura: “BASTARDO E SPORCO SEQUESTRATORE TI AVEVAMO DETTO DI RIMANERE A VIENNA, QUANDO TORNI IN ITALIA TI FACCIAMO SECCO!!!!”.

Interrogato a novembre dai magistrati della Procura di Ravenna, interessati al caso per competenza territoriale, secondo le carte in possesso del Copasir, l’alto funzionario dell’Aise, ammette di “non aver fatto svolgere accertamenti”. E riconosce nel contempo “che vi erano ostilità nei confronti del dottor Mancini da parte di altri soggetti appartenenti all’Aise”. Domanda del magistrato: “Quindi è a conoscenza di situazioni di astio nei confronti del Dott. Mancini?”. Risposta: “ Ne sono a conoscenza. Metà Aise lo adorava e metà lo odiava”. Ormai Mancini è a Roma. Non lo uccidono, e meno male. Sarà per la scorta. O forse l’odio è sparito? Ma no. Basta accontentarsi. Quelli – dice la logica – in realtà non volevano che Mancini tornasse operativo all’Aise. Assecondando il filo sottile della minaccia, l’autorità per la sicurezza, cioè Marco Minniti, lo manda sì a Roma, ma promuovendolo al Dis. Ruolo importante, ma fuori dai piedi. Le due lettere, riconosce alla fine con onestà Paolo Scarpis, direttore dell’Aise, arrivano da lì “Queste due lettere (quelle trascritte sopra, ndr) mi confermano l’opinione che provengano dall’interno dell’Agenzia, in quanto minacciano in base al ritorno a Roma, cosa che non avrebbe senso facesse un terrorista”.

Ed ecco, come riferito più sopra, torna d’attualità la promozione di Mancini ai vertici dell’Aise. Si rimette in moto la macchina dell’odio? Plausibile. E qualcuno, con quel video dell’Autogrill, si presta a quel gioco. Va fatto fuori. Magari prima mostrando il filmato del “tradimento” di Mancini che corrompe Renzi con una confezione di Babbi (c’è la ricevuta al Copasir) a Conte e Di Maio. Magari tramite il loro fedelissimo Vecchione. Il quale mostra di saper tutto. Pochi giorni prima della messa in onda – è sempre il parlamentare del Copasir a riferire – Mancini riceve sul suo telefonino assolutamente privato un messaggio di Giorgio Mottola di Report che gli chiede un colloquio in vista del programma che uscirà il lunedì successivo e che lo riguarderà. Mancini ne informa Vecchione. Il quale incredibilmente dice di stare tranquillo, di pensare alla famiglia. Poi manda un messaggio scritto: “Ecco passerà anche questo, ma bisogna riflettere sulla situazione”. Scivolata.

Qualcuno dubita a questo punto che quel servizio lo avesse già visionato? Il parlamentare del Copasir non ha dubbi. E vorrebbe riaprire le porte del Copasir a Mancini, Renzi e alle loro scorte, stranamente non interrogate da nessuno. Sentire le scorte di Mancini e di Renzi in audizione al Copasir. L’ipotesi del nostro interlocutore: gli stessi che hanno minacciato Mancini di sparargli in testa, e che poi si sono chetati, vedendolo risorgere lo hanno fatto fuori. Gabrielli ha abboccato. Lo pensiona di forza, e qualcuno aggiunge uno svolazzo sotto alla firma: via la scorta. Mancini era un pericolo per la Russia e per qualcuno all’Aise, magari al servizio di qualche potenza non propriamente amica. Perché lo Stato lo ha abbandonato? Forse sentirlo al Copasir, come modestamente avevamo suggerito, oggi sarebbe opportuno.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

La rivelazione sul ruolo di Report. “Indagava sulle spie russe”, ecco perché Mancini fu fatto fuori dai servizi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Aprile 2022. 

I misteri del caso Barr-Vecchione e delle omissioni di Giuseppe Conte non cessano di far parlare. Nell’inner circle dell’intelligence italiana c’è chi sente scricchiolare un’asse. I più sensibili percepiscono che si starebbe aprendo uno squarcio. La rivelazione delle dinamiche tra Vecchione e Conte, tra il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti trumpiani e i vertici dei servizi italiani, finora rimaste al buio, potrebbero fornire una chiave insperata. Si stanno creando le condizioni per chiarire, uno a uno, diversi aspetti ancora oscuri. Con Il Riformista parla una fonte che deve rimanere coperta.

Nel maggio scorso Marco Mancini è ancora un brillante agente del Dis, l’agenzia che coordina Aisi e Aise, cioè i servizi segreti che si occupano rispettivamente dell’interno e degli esteri. Ha una lunga storia. Ha alle spalle una carriera nel Sismi (il servizio segreto militare predecessore dell’Aise) di cui diventa capo della Divisione controspionaggio, braccio destro del direttore Nicolò Pollari. E se entra nelle cronache per la vicenda Abu Omar, è per altro ad essere rispettato e temuto. È ostile ai russi. È convinto che quelli stiano tessendo la loro trama dentro l’ordito delle istituzioni. Che qua e là stiano persuadendo gli interlocutori politici e i decisori pubblici, con argomenti sonanti, delle loro ragioni. Va dunque fermato. E va fermato per tempo, quasi indovinando che di lì a nove mesi i russi provocheranno, con l’ingresso in Ucraina il 24 febbraio, una crisi di sistema senza precedenti.

Dalle verifiche che facciamo con ambienti del Copasir emerge che Marco Mancini mostrò dei messaggi ai membri del Comitato parlamentare sui servizi segreti, mettendo il suo cellulare a disposizione del sindacato ispettivo dei presenti. Dalla schermata si poteva evincere che Gennaro Vecchione conoscesse già il video che sarebbe poi apparso su Report in data successiva, ovvero nella puntata del 3 maggio scorso. Testimoniando così come lo stesso Vecchione fosse perfettamente a conoscenza del fatto che quel video “rubato” all’Autogrill stava per irrompere nelle case degli italiani. Provocando la caduta in disgrazia di Mancini, la fine della sua ascesa e della sua carriera. Torniamo a quella vicenda, alla trappola tesa a Mancini nel momento in cui il n.2 del Dis stava per esserne nominato a capo. Perché in quei giorni avviene qualcosa di particolare. Nella famigerata puntata di Report – ormai noto il meccanismo del “video recapitato da un anonimo, arrivato nella nostra redazione da chissà dove” – si fa intervenire una figura in controluce. E chi ci parla solleva una serie di interrogativi.

Si inquadra infatti uno che si qualifica come ex agente del Sismi che identifica Marco Mancini. «Questa estromissione di Mancini non è che sia stato un favore fatto ai russi, in cui Franco Gabrielli si è trovato ad essere un mero passaggio?», la domanda retorica. I dubbi sorgono: come mai i vertici del Dis invece di intervenire sui misteri delle due visite di Barr a Roma, nel giugno e nell’agosto 2019, che agli addetti ai lavori erano parse subito molto sui generis, si dedicano con tanta decisione all’incontro Renzi-Mancini? Facciamo un passo indietro: Marco Mancini doveva diventare capo dei servizi segreti con la esplicita benedizione di Luigi Di Maio. Dopo aver incontrato Renzi, finisce in una raffica di fango. Si compie una operazione di siluramento tramite Report, che punta i fari soprattutto contro Renzi, ma che in realtà colpisce e affonda solo l’interlocutore di Renzi. Quel Marco Mancini che risultava sgradito a qualcuno. E forse di più: intollerabile. Ma chi è il testimone di cui Report si serve per apporre il sigillo dell’autenticità all’identificazione di Mancini? Abbiamo interrogato qualche fonte. In studio il personaggio è travisato, non riconoscibile. Ma se c’è qualcuno che lo riconosce, quello non può che essere lo stesso Mancini. «C’è da chiedersi come sono arrivati a lui», ci dice una fonte che i servizi li frequenta, e non da oggi. «C’è da chiedersi se quell’agente – o ex agente – non fosse legato ai russi», aggiunge.

Il testimone misterioso che va in video, non riconoscibile, suscita un sospetto nella fonte che abbiamo consultato: lo fa per accertarsi che Mancini venga indubitabilmente messo all’indice. Nel libro Oligarchi, Jacopo Iacoboni scrive che «Aisi e Aise non hanno collaborato, nella vicenda dei russi». Lo scrive uno che le fonti le ha consultate. Adombrando una frattura risalente nel tempo che solo nel maggio 2021 ha portato all’auspicato allontanamento di Mancini. «Non c’è alcun disegno da parte di Gabrielli. Ed è una pratica che si è trovata davanti Elisabetta Belloni, come dossier da affrontare appena nominata. Non rimandabile», rivela la nostra fonte. E Report è stato solo uno strumento di cui altri si sono serviti, lo schermo sul quale proiettare un film scritto altrove. Giovanni Minoli intervista Gabrielli e glielo chiede: “Perché Mancini è stato invitato ad andarsene in pensione?” – “Non è stato invitato con riferimento a quella vicenda ma per tutta una serie di altre questioni che non è il caso di approfondire”, la risposta. Non c’è alcuna ragione di dubitare della sincerità di quelle parole. La rimozione di Mancini però da qualcuno è stata ispirata. E per qualche ragione ben diversa dall’aver incontrato il senatore Renzi all’Autogrill. «Mancini ha portato all’emersione di una rete di spioni russi in tutt’Europa. Non solo in Italia».

Il 30 marzo 2021 viene arrestato a Roma l’ufficiale della Marina militare Walter Biot, responsabile di aver trafugato una serie di documenti segreti Nato per rivenderli alla Russia. Un gran goal del nostro controspionaggio, consolidato dalle prove che hanno portato a una condanna . Peccato che per festeggiarlo, sessanta giorni dopo, si sia deciso di far saltare la testa di chi quelle operazioni le aveva volute e instradate da tempo. Al Dis chiamano Mancini. Lo convocano per comunicazioni urgenti. «La Belloni non se l’è sentita di affrontarlo per comunicargli che era giunto al capolinea. E ha dato l’incarico al suo povero vice, Bruno Valensise», raccontano le cronache. L’incontro tra i due era iniziato alle 11 del mattino ed è finito alle 17, altro che comunicazioni. Sei ore di faccia a faccia che – racconta chi ha avuto modo di origliare – si è svolto senza esclusione di colpi. Bruno Valensise era stato nominato vicedirettore vicario del Dis nel settembre 2019 dal governo guidato da Giuseppe Conte. Conte aveva optato per lui, risorsa interna di lunga esperienza, per coadiuvare il lavoro di Gennaro Vecchione.

Valensise era così diventato il tutor del neonominato capo dei servizi, l’uomo di fiducia del fiduciario di Conte. Lo accompagnava ovunque, negli appuntamenti. Era stato con Vecchione alla Link Campus University, e con lui aveva incontrato il ministro della Giustizia William Barr, partecipando all’agenda segreta di quel Ferragosto di cui si viene oggi a sapere. L’Attorney general tornerà in Italia anche il 27 agosto, data in cui, accompagnato da Durham, tornerà ad incontrare i vertici dei servizi: alla riunione oltre a Vecchione, partecipano anche i direttori di allora di Aise, Luciano Carta, e Aisi, Mario Parente. Gli americani tornarono a casa soddisfatti della trasferta romana, con la ciliegina sulla torta della cena nel sontuoso ristorante romano di piazza delle Coppelle. «Si è parlato in termini generici, con i soliti convenevoli», si è schernito il prefetto Vecchione.

Eppure il procuratore John Durham dichiarò di aver potuto estendere la sua inchiesta, grazie alle informazioni ottenute in quegli incontri. Un funzionario dell’ambasciata americana a Roma confermò al Daily Beast che quella di Barr era stata una visita inaspettata e che gli americani erano particolarmente interessati da ciò che i servizi segreti italiani sapevano sul conto di Joseph Mifsud, il misterioso docente maltese al centro del Russiagate americano. Un agente russo, per alcuni, dell’Fbi secondo altri. Doppiogiochista, sospettano i nostri servizi. L’uomo è scomparso nel nulla: si è volatilizzato senza lasciare traccia il 31 ottobre 2017. Sarebbe stato lui a gestire il traffico di informazioni riservate tra Putin e Trump. E forse a conoscere la rete degli informatori russi sui quali indagava Marco Mancini. Tanti i risvolti ancora oscuri, i misteri irrisolti che si dipanano intorno al Dis nel finale di stagione del governo Conte. Per iniziare a capirne qualcosa di più, le istituzioni avrebbero il boccino in mano, se volessero. Basterebbe ascoltare Marco Mancini al Copasir. Se solo volessero.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Marco Mancini, la spia anti-Putin rimossa da Conte: “Chi aveva arrestato prima di essere cacciato”. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 24 aprile 2022.

Sembra che si scoprano le carte, invece si nascondono. Perciò, nel gioco, non resta che sparigliare, come ha fatto ieri Marco Mancini, con trent'anni di esperienza nell'intelligence italiana durante i quali ha «potuto constatare il continuo aumento della presenza nel mondo di agenti prima sovietici (Kgb Gru) e poi russi (Fsb - Svr Gru)». In una dichiarazione all'Ansa rivela che «diverse operazioni di controspionaggio hanno fatto emergere la determinata spregiudicatezza degli agenti operativi di Mosca presenti sul nostro territorio nazionale. Ritengo che i servizi segreti russi in Italia e all'estero abbiamo costantemente mantenuto una capillare e continua attività di ricerca informativa attraverso "covert operation" dedicate, per raggiungere target stabiliti da Mosca. L'intelligence russa conduce queste operazioni anche per mezzo del reclutamento di fonti umane, scelte con particolare abilità».

LA TRAPPOLA

Peccato che la struttura che presiedeva al controspionaggio sia stata smantellata come ricordava Aldo Torchiaro sul Riformista di venerdì proprio dopo il successo dell'operazione che il 30 marzo 2021 aveva portato all'arresto dell'ufficiale della Marina Militare Walter Biot, accusato di aver passato documenti militari riservati a diplomatici di Vladimir Putin a Roma. Tanto da far emergere il sospetto di un'influenza politica del Cremlino sugli equilibri di governo e le dinamiche interne agli stessi servizi segreti italiani. Mancini, parlando all'Ansa, si riferisce anche alle vicende che nel luglio scorso hanno portato al suo pre-pensionamento da capo-reparto del Dis, cioè il Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, l'autorità che coordina l'intelligence italiana. Report, il programma televisivo di Raitre condotto da Sigfrido Ranucci (uno che sostiene, vantandosi, di disporre di decine di migliaia di dossier), aveva messo in onda le immagini dell'incontro avvenuto in autogrill fra Mancini e il leader di Italia Viva Matteo Renzi nel dicembre 2020. «In quell'occasione, stavo facendo un semplice saluto prenatalizio a un senatore della Repubblica italiana», ricostruisce Mancini. Tuttavia, «a causa di tale operazione mediatica ho perso il posto di lavoro. Immagino con grande soddisfazione dei servizi segreti russi».

In realtà, ricorda ancora Torchiaro, quell'episodio s' intreccia con le visite in Italia dell'allora ministro della Giustizia degli Stati Uniti, William Barr, alla ricerca di notizie sul Russiagate che coinvolgeva il presidente americano, Donald Trump. L'Attorney General cercava informazioni sul maltese Joseph Mifsud, sospettato di aver fatto da tramite fra Trump e Putin. E le aveva chieste, secondo i media Usa, a uno stretto collaboratore dell'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, cioè Gennaro Vecchione, direttore generale del Dis. Quest'ultimo, aveva riferito Mancini il 14 luglio al Copasir - il Comitato parlamentare di sorveglianza sui servizi segreti - conosceva anche in anticipo i video di Report ed era informato sulla loro programmazione prevista il 3 maggio 2021. «Penso che nelle sedi istituzionali deputate al controllo dei servizi si possa giungere a definire i reali contorni, le dinamiche e i contenuti della vicenda trattata dai media. Essere individuato, riconosciuto e mostrato in televisione senza che vi fosse una mia immagine pubblica dal 2005 è inquietante e sconcertante», commenta Mancini.

LA MINACCIA

Nel linguaggio delle spie, suona come un allarme, visto che a Mancini era stata tolta la scorta che gli era stata assegnata in seguito alle minacce di morte ricevute mentre era il capo dell'Aise (che si occupa della sicurezza esterna) in quel crocevia di spie che è Vienna. Se anche l'attuale presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi, domenica scorsa al Corriere della Sera confidava che, rispetto alla guerra in Ucraina, «dobbiamo riconoscere che nei mesi scorsi, prima e durante l'invasione, l'intelligence americana aveva le informazioni che si sono rivelate più accurate», qualche problema c'è. L'intelligence italiana conta su un organico di 5mila persone, e costa un miliardo di euro. Ma non si era accorta di niente.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 24 aprile 2022.

La decisione di forzare le regole sul caso Barr era stata presa da Giuseppe Conte, nonostante le resistenze del ministero degli Esteri e dei capi delle due agenzie Aise e Aisi. È la conclusione a cui porta la ricostruzione dei fatti di Repubblica, che dovrebbe spingere il Copasir a riaprire l'indagine, nonostante il presidente Urso abbia in programma una visita a Washington in giugno. O forse proprio per questo.

L'Attorney General aveva contattato l'ambasciatore Armando Varricchio, per spiegare il "Russiagate" e chiedere un incontro con i servizi, insieme al procuratore John Durham. Varricchio aveva informato il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, ma la Farnesina aveva frenato, perché riteneva che la richiesta dovesse passare dal ministero della Giustizia. L'ambasciatore allora aveva informato Palazzo Chigi e Conte aveva deciso di occuparsi del caso, affidandolo al direttore del Dis Gennaro Vecchione, che lui aveva nominato. Così si era arrivati alla visita di Barr a Roma il 15 agosto, seguita dalla cena al ristorante Casa Coppelle.

Quando il 27 settembre era tornato in Italia, per raccogliere le informazioni richieste a Ferragosto, Vecchione aveva chiesto ai direttori di Aise e Aisi, Luciano Carta e Mario Parente, di partecipare. Entrambi si erano opposti, perché ritenevano che il canale seguito non fosse corretto, e allora il capo del Dis aveva emesso un ordine scritto per obbligarli a venire. Carta e Parente avevano obbedito, ma si erano limitati a dire che non avevano nulla da aggiungere.

Quindi era stato spiegato a Durham che se voleva interrogare Joseph Mifsud, professore maltese della Link Campus University sospettato di essere all'origine del "Russiagate", doveva seguire il canale giudiziario, presentando la richiesta che avrebbe dovuto inoltrare dal principio.

Siccome Mifsud non era nelle mani degli italiani, per cercarlo e arrestarlo serviva l'ordine di un magistrato. Durham in effetti fece la richiesta, che però rimase lettera morta, perché non conteneva prove o ipotesi di reato credibili. Gli italiani peraltro sostengono che non sanno dove sia Mifsud, e l'ultimo recapito noto sarebbe una villetta fra Abruzzo e Marche dove si era nascosto. 

Se questa ricostruzione fosse confermata, solleverebbe diversi interrogativi da porre a Conte. 

L'ex premier dice di non aver mai incontrato Barr, ma per confermarlo bisognerebbe quanto meno appurare l'agenda dell'Attorney General nella visita di settembre, quando in base ai documenti ufficiali del suo Dipartimento era partito per Roma alle 7 del mattino del 26 ed era andato via alle 10 del 28. Davvero aveva passato circa 36 ore nella capitale solo per vedere Vecchione?

Conte dice che non sapeva della cena a Casa Coppelle e Vecchione ha spiegato che era solo cortesia istituzionale. Anche ammesso che sia così, resta una prassi assai singolare per i professionisti dell'intelligence. 

L'ex premier spiega che aveva aperto le porte a Barr in quanto responsabile dell'Fbi, impegnato in uno scambio tra agenzie sulla sicurezza nazionale, ma i fatti contraddicono palesemente questa versione, a cominciare dalla reazione di Carta e Parente. L'Attorney General non era venuto per catturare un terrorista, sgominare un attentato, o arrestare un boss mafioso. 

Era stato inviato da Trump per una missione politica finalizzata ad aiutarlo sul piano elettorale. Conte è troppo intelligente per non averlo capito, e quindi resta da chiarire perché si sia prestato a questo uso personale delle agenzie. 

L'ex premier dice che la visita di Barr non aveva come oggetto un'ipotesi di cooperazione giudiziaria, e perciò sarebbe stato improprio indirizzarlo al suo omologo. Ciò però è smentito dalla pratica inoltrata successivamente da Durham, che ha chiesto alle nostre autorità giudiziarie e di polizia di interrogare Mifsud, ma non è stato accontentato perché la domanda non reggeva.

Conte infine sottolinea che Barr indagava sugli agenti americani, non italiani. Presumibilmente lo fa per smentire Renzi, che lo accusa di averlo esposto all'inchiesta Usa per tornaconto politico personale, ma così apre un altro caso. Il premier infatti avrebbe autorizzato il segretario ad incontrare i servizi italiani per ricevere informazioni compromettenti sui colleghi dell'Fbi, tipo il capo a Roma Michael Gaeta, con cui poi i nostri agenti dovevano lavorare ogni giorno per garantire davvero la sicurezza del Paese, mettendola così a rischio.

Il motivo per cui il Copasir ha deciso di non porre queste domande non è chiaro. Il presidente Urso ha già preso appuntamento per visitare i colleghi della Camera Usa a giugno, e sta finalizzando col Senato. Forse non vuole arrivare a Washington sulla scia della riapertura del caso, ma considerando quanto sta accadendo in America rischia che sia vero il contrario. Perché il Congresso a guida democratica sta cercando proprio la verità sull'assalto del 6 gennaio, con i potenziali annessi di Russiagate e Italygate. 

Fu Giuseppe Conte a forzare le regole sul “caso Barr” ? Sembrerebbe proprio di si. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Aprile 2022.  

L’Attorney General americano William Barr non era venuto a Roma per catturare un terrorista, o per evitare un attentato, o al limite arrestare un boss mafioso responsabile di crimini negli Stati Uniti, essendo stato inviato da Trump a Roma per una "missione politica" che lo potesse aiutare e sostenere elettoralmente. Conte è persona troppo attenta per non averlo intuito, e quindi resta da capire come si sia prestato a questo assurdo uso "personale" dei servizi italiani.

La decisione di forzare le regole di sicurezza nazionale venne presa da Giuseppe Conte, nonostante le forti resistenze del Ministero degli Esteri e dei vertici dei due “servizi” italiani, l’ Aise e l’ Aisi. Questa è la conclusione conseguenziale alla ricostruzione dei fatti del quotidiano La Repubblica, che dovrebbe spingere il Copasir a riaprire l’indagine, proprio mentre il presidente Adolfo Urso avrebbe in programma una visita a Washington a giugno.

L’ Attorney General americano William Barr si era rivolto all’ambasciatore Armando Varricchio, per informarlo sul “Russiagate” chiedendo un incontro insieme al procuratore John Durham con i servizi italiani. L’ambasciatore Varricchio aveva immediatamente informato il ministro degli Esteri (all’epoca dei fatti) Enzo Moavero Milanesi, ed i vertici diplomatici della Farnesina avevano frenato, ritenendo che la richiesta dovesse passare attraverso il Ministero della Giustizia. L’ambasciatore a quel punto informò la Presidenza del Consiglio ed il premier in carica, Giuseppe Conte aveva deciso di occuparsi personalmente del caso, affidandolo al direttore del Dis Gennaro Vecchione, che lui stesso aveva nominato alla guida del coordinamento dei servizi di intelligence italiana. Fu così che si arrivò al viaggio- visita di Barr a Roma il 15 agosto, a cui fece seguito la cena nel lussuoso ovattato ristorante “Casa Coppelle“.

Giuseppe Conte e Gennaro Vecchione

Quando il 27 settembre Barr tornò in Italia, per raccogliere le informazioni richieste a Ferragosto, Vecchione aveva chiesto di partecipare all’incontro ai rispettivi direttori di Aise e Aisi, il generale (Guardia di Finanza) Luciano Carta ed il generale ( Arma dei Carabinieri) Mario Parente. Entrambi si erano opposti, ritenendo che il canale seguito non fosse corretto, ed il capo del Dis Vecchione aveva addirittura emesso un ordine scritto per costringerli a venire obbedendo ad un ordine gerarchico.

Carta e Parente a quel punto furono costretti ad obbedire a Vecchione, ma si erano limitati a dire che non avevano nulla da aggiungere. Quindi era stato spiegato al procuratore Durham che se voleva interrogare Joseph Mifsud, professore maltese della Link Campus University sospettato di essere all’origine del “Russiagate”, doveva seguire il canale giudiziario, presentando la richiesta che avrebbe dovuto inoltrare dal principio. Siccome il professore Mifsud non era sotto il “controllo” dei servizi italiani, per cercarlo ed arrestarlo serviva l’ordine della magistratura. Infatti Durham a quel punto inoltrò la richiesta, che però rimase inevasa, in quanto non conteneva delle prove o ipotesi di reato attendibili. I servizi italiani spiegarono che non sapevano dove si trovasse Mifsud, e che l’ultimo suo recapito conosciuto era quello di una villetta fra Abruzzo e Marche dove si sarebbe nascosto. 

Nel caso questa ricostruzione venisse confermata, si solleverebbero diversi chiarimenti da rivolgere all’ex premier Conte, che sostiene di non aver mai incontrato Barr, ma per avere certezza delle sue dichiarazioni bisognerebbe quanto meno appurare l’agenda dell’ Attorney General americano Barr nella visita di settembre, quando in base ai documenti ufficiali del suo Dipartimento era partito per Roma alle 7 del mattino del 26 ed era andato via alle 10 del 28. Sarebbe molto poco credibile che abbia trascorso circa 36 ore a Roma solo per incontrare Vecchione.

una delle salette riservate del ristorante Casa Coppelle

Conte per difendersi sostiene che non era a conoscenza della cena al ristorante Casa Coppelle e Vecchione aveva spiegato che si era trattato soltanto di mera cortesia istituzionale. Volendo credere che sia così, a dire il vero resta una circostanza molto singolare per dei professionisti dell’intelligence.

L’ex premier grillino afferma di aver aperto le porte a Barr in quanto responsabile dell’Fbi, impegnato in uno scambio tra agenzie sulla sicurezza nazionale, ma in realtà i fatti contraddicono apertamente questa imbarazzante versione, come si evincere dalle reazioni di Carta e Parente. L’Attorney General Barr non era venuto a Roma per catturare un terrorista, o per evitare un attentato, o al limite arrestare un boss mafioso responsabile di crimini negli Stati Uniti, essendo stato inviato da Trump a Roma per una “missione politica” che lo potesse aiutare e sostenere elettoralmente. Conte è persona troppo attenta per non averlo intuito, e quindi resta da capire come si sia prestato a questo assurdo uso “personale” dei servizi italiani.

L’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump

L’ex premier Conte incalzato sostiene che la visita di Barr non aveva come oggetto un’ipotesi di cooperazione giudiziaria, e quindi sarebbe stato improprio indirizzarlo al suo omologo. Una versione che però viene smentita dalla richiesta inoltrata successivamente da Durham, il quale ha chiesto alle nostre autorità giudiziarie e di polizia di interrogare Mifsud, ma la sua domanda non è stato accolta perché non reggeva la giustificazione di quella richiesta. Conte aggiunge che Barr indagava sugli agenti americani, non su quelli italiani, ma in realtà lo dice per smentire Renzi, che lo accusa di averlo esposto all’inchiesta Usa per tornaconto politico personale, e così facendo apre un’ altra questione.

Il premier in carica all’epoca dei fatti, e cioè “Giuseppi” (come lo chiamava Donald Trump) L’ex premier dice che la visita di Barr non aveva come oggetto un’ipotesi di cooperazione giudiziaria, e perciò sarebbe stato improprio indirizzarlo al suo omologo. Ciò però è smentito dalla pratica inoltrata successivamente da Durham, che ha chiesto alle nostre autorità giudiziarie e di polizia di interrogare Mifsud, ma non è stato accontentato perché la domanda non reggeva. Conte inoltre sostiene che Barr indagava sugli agenti americani, non italiani. 

Presumibilmente lo fa per smentire Renzi, che lo accusa di averlo esposto all’inchiesta Usa per un mero tornaconto politico personale, ma così facendo si apre un’ altra questione. Il premier infatti avrebbe autorizzato l’ incontro con i i servizi italiani per ricevere informazioni compromettenti sui colleghi dell’Fbi, come il capocentro dell’ FBI a Roma Michael Gaeta, con il quale i gli agenti dei nostri “servizi” dovevano lavorare ogni giorno per garantire realmente la sicurezza del nostro Paese.

La motivazione per cui il Copasir ha deciso di non porre queste domande non è molto chiaro. Il presidente Adolfo Urso ha già preso appuntamento per visitare i colleghi della Camera Usa a giugno, ma forse non vuole arrivare a Washington sulla scia della riapertura del caso, considerando quanto sta accadendo in America, rischiando che emerga il contrario, anche perché il Congresso americano a guida democratica sta ricercando la verità sull’assalto del 6 gennaio, con i potenziali collegamenti di “Russiagate” e “Italygate“.

E’ opinione diffusa negli ambienti dell’ intelligence e della sicurezza italiana che l’intera vicenda “Russiagate” sia stata determinante nella decisione di Mario Draghi, appena nominato a Palazzo Chigi, di sostituire Vecchione che aveva ricevuto una proroga del suo incarico dal suo “sponsor” Giuseppe Conte prima che lasciasse la poltrona di premier. Ma non solo. Vecchione paga principalmente il suo incontro con Barr, e la gestione dell’incontro dell’ex capo reparto del Dis Marco Mancini (che è stato “pensionato” proprio per quell’incontro) a dicembre 2020 in un autogrill autostradale con Matteo Renzi.

“Penso che nelle sedi istituzionali deputate al controllo dei servizi si possa giungere a definire i reali contorni, le dinamiche e i contenuti della vicenda trattata dai media – ha dichiarato all’Ansa l’ex capo reparto del Dis – essere individuato, riconosciuto e mostrato in televisione senza che vi fosse una mia immagine pubblica dal 2005 è inquietante e sconcertante. Peraltro, in quell’occasione, stavo facendo un semplice saluto pre-natalizio a un senatore della Repubblica italiana. Immagino con grande soddisfazione dei servizi segreti russi”. 

Quest’ultimo particolare è stato approfondito da Mancini: “Se fosse accertato con sentenza definitiva che Walter Biot ha trafugato segreti dal patrimonio informativo italiano a favore dell’intelligence russa, ciò sarebbe la conferma della continua attività clandestina che gli agenti di Mosca svolgono attivamente tutt’ora, e sottolineo tutt’ora, sul nostro territorio nazionale”.

Ma Vecchione ha pagato anche per ritardi nella creazione dell’agenzia per la Cybersicurezza che, non a caso, è il primo punto affrontato dal sottosegretario ai servizi Franco Gabrielli, scelto personalmente da Draghi, insieme al nuovo capo del Dis, Elisabetta Belloni ex segretario generale della Farnesina. Lacuna colmata, e questa struttura è diventata “fondamentale”, come sta confermando il proprio importante ed efficace lavoro per la crisi ucraina. Redazione CdG 1947

I retroscena. Mifsud fu l’architetto del governo Conte I: tutti gli intrighi e i misteri degli 007 tra Usa, Russia e grillini. Nicola Biondo su Il Riformista il 21 Aprile 2022. 

Quando William Barr arrivò in Italia nell’estate del 2019 l’obiettivo principale era il professor Joseph Mifsud. Il motivo era assai semplice: Mifsud era un uomo dal doppio volto. Da una parte godeva di un vecchio rapporto con il partito democratico americano e in particolare con Hillary Clinton, dall’altro intratteneva relazioni strettissime con uomini del Cremlino. Nulla di scandaloso in quel mondo che naviga tra affari, diplomazie e politica: tutti sono amici di tutti. Mifsud però era a conoscenza delle attività russe sulla campagna elettorale della Clinton datata 2016, quella cioè contro Donald Trump, finita fin da subito sotto indagine da parte dell’Fbi.

Da chi aveva ricevuto Mifsud simili informazioni? Da uno dei suoi uomini di punta: George Papadopoulos. La vulgata trumpiana era così pronta per essere ammansita: Mifsud lavorava per la Clinton e il Russia-gate era un’operazione per minare la presidenza di Trump se fosse uscita vincente, come è avvenuto, dalla sfida del novembre 2016. Ai servizi italiani Barr aveva in mente di chiedere proprio questo: la prova che Mifsud fosse legato al mondo democratico americano e che lavorasse in Italia anche sotto la protezione dei governi targati Pd, quelli Renzi-Gentiloni. Ma come detto Mifsud era in stretti rapporti con la Clinton e anche con il Cremlino. E pertanto fu l’inchiesta del controspionaggio italiano che causò lo stop alla missione di Barr: non solo l’Aisi aveva informazioni non coincidenti con quanto invece l’amministrazione Trump cercava ad ogni costo ma esse andavano in direzione opposta e di certo non potevano essere rivelate, meno che mai a uno stato estero e in quel modo, perché coinvolgevano esponenti politici di punta. Insomma, Trump cercava a Roma prove per incastrare l’Fbi che indagava su di lui (e i russi) ma i Servizi italiani ne avevano sulla penetrazione di Mosca in Italia.

Ci sono due pesanti indizi che spiegano come la missione di Barr in Italia fosse in offside rispetto al protocollo ufficiale che regola i rapporti, anche di intelligence, tra due paesi alleati. Il primo è che l’ambasciata Usa in Italia nulla sapeva di questa missione. Il secondo è che la richiesta di ottenere info su Mifsud, paradossalmente, andava ad incidere proprio sul mondo che aveva agito per portare al successo il Movimento cinque stelle e che coccolava la leaderhip sovranista e filorussa dell’allora presidente del Consiglio: la Link university dove Joseph Mifsud insegnava ed era considerato un’autorità. Era alla Link che Mifsud era stato visto l’ultima volta prima di scomparire e alla Link aveva fatto sbarcare alcuni pezzi da novanta dell’intellighenzia putiniana, battezzando una partnership tra l’università romana e la prestigiosa accademia Lomonosov. Sulla Link fin dal 2016 è stata aperta un’inchiesta del controspionaggio dell’Aisi.

Mifsud era il motore primo intorno al quale giravano tutte le analisi e le acquisizioni degli apparati italiani. Che in breve tempo si accorsero come nell’università diretta da Enzo Scotti erano di casa non solo Mifsud e i suoi amici russi ma l’ex-capo dei Servizi Gennaro Vecchione, voluto fortissimamente da Conte a capo degli 007 senza alcuna pregressa esperienza nel mondo dell’intelligence, ma anche Bruno Valensise, oggi numero due del Dis ed ex-direttore dell’Ufficio centrale per la segretezza, tra i più delicati dell’Aisi perché rilascia i Nulla osta di sicurezza. E ancora svariati parlamentari del Pd e del Movimento cinque stelle, una futura ministra della Difesa –Elisabetta Trenta– e la futura sotto-segretaria agli Esteri Manuela Del Re. Insomma se ci fu un luogo centrale dove nacque il governo giallo-rosso in salsa russa quello fu proprio la Link University.

Chi erano gli uomini di Mosca che Mifsud fece entrare in contatto con il futuro inner circle di Giuseppe Conte? Il primo è Ivan Timofeev, figura chiave del Russiagate, a cui secondo l’inchiesta FBI Mifsud si rivolge per creare il contatto con l’entourage di Trump come promesso a Papadopoulos, responsabile per la campagna presidenziale dei contatti con l’estero. Papadopoulos aveva una sua idea sull’ateneo romano, la definiva “l’università delle spie”. Il partito putiniano mette radici in Italia proprio nelle stanze che la Link affida a Mifsud. In quel locale dedicato all’università moscovita si trovava spesso anche un avvocato, ex-ufficiale dell’esercito russo in Sud America – Bolivia, Argentina, Colombia e Brasile – che il primo dicembre 2016 tenne alla Link una conferenza presentata da Mifsud e alla presenza di Scotti. L’intervento di Aleksey Aleksandrovich Klishin, questo il nome dell’ospite della Link, fu un classico dell’ideologia putiniana, contro l’UE e gli Stati Uniti dominatori dell’ordine unipolare. Tra i professori russi che avrebbero dovuto tenere lezioni agli studenti della Link c’erano anche Yury Sayamov, diplomatico e consigliere del Cremlino, il filosofo Alexander Chumakov, che ha elaborato la visione della globalizzazione adottata dal nuovo Zar. E Olga Zinovieva, vedova di Alexander Zinoviev uno degli ideologi dell’era putiniana. Nicola Biondo

Russiagate, adesso il Copasir è pronto a riconvocare l’ex premier e Vecchione. Giuliano Foschini su La Repubblica il 20 Aprile 2022.   

Di fronte al Comitato parlamentare sui servizi potrebbe tornare anche Renzi. Tutte da chiarire ancora le richieste degli Usa e la nostra risposta.

L'Italian gate non è finito. Anzi, forse è appena cominciato. Perché nei prossimi giorni l'ex premier Giuseppe Conte è possibile, anzi quasi certo, che dovrà tornare davanti al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, e rispondere alle domande dei parlamentari su quella strano Ferragosto del 2019 quando a Roma sbarcò il segretario della Giustizia, William Barr.

Conte risponde a Repubblica: «Non ho mai personalmente incontrato Bill Barr». Il Domani il 19 aprile 2022.

L’ex premier in un lungo post su Facebook ha commentato le conclusioni di Repubblica, secondo cui Conte non avrebbe ricostruito correttamente la vicenda che vedeva coinvolto l’allora segretario alla Giustizia e l’allora direttore del Dis, Vecchione

L’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha sottolineato di non aver mai incontrato personalmente «l’allora Attorney General degli Stati Uniti, Bill Barr, nel corso delle sue visite in Italia, né nel corso di incontri formali né nel corso di incontri conviviali». Così Conte ha risposto, sul suo profilo Facebook, a un articolo, pubblicato oggi su Repubblica, relativo alle due missioni a Roma dell’allora segretario alla Giustizia statunitense nell’agosto e nel settembre 2019, nell’ambito dell’inchiesta “Russiagate”, nata dalle sospette ingerenze nelle elezioni statunitensi del 2016 della Russia. 

Secondo Repubblica, documenti ottenuti dal quotidiano «evidenziano alcune significative omissioni della ricostruzione di quella vicenda proposta dall’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte», scrive il giornalista Carlo Bonini, sottolineando che la versione di Conte avrebbe descritto il coinvolgimento dell’Intelligence italiana nell’affare “Russiagate” come mero incontro di cortesia tra i due paesi. 

Conte, che ricorda di aver riferito tutte le informazioni in suo possesso al Copasir, precisa che la cena, a cui hanno partecipato la delegazione statunitense e l’allora direttore del Dis, Gennaro Vecchione, si è tenuta in un noto ristorante e sarebbe stata «motivata da cortesia istituzionale, piuttosto che dalla necessità di avere uno scambio riservato di informazioni». L’ex presidente sottolinea poi che Barr, in qualità di «Responsabile delle attività dell’Fbi che riguardano la sicurezza nazionale», ha indirizzato la richiesta di informazioni tramite i «canali diplomatici ufficiali, in particolare attraverso il nostro ambasciatore negli Stati Uniti», «non a me direttamente», scrive Conte su Facebook. 

A Barr, secondo quanto riporta Conte, non sarebbero stati messi a disposizione archivi e informazioni, né sarebbero stati consegnati documenti. L’ex premier scrive poi che non c’è alcun collegamento con il tweet dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che il 27 agosto 2019 ha espresso apprezzamento per il suo operato, né con la formazione del governo Conte II. EMILIANO FITTIPALDI

Russiagate, Barr a cena con Vecchione a Roma. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 19 aprile 2022.

Emergono nuove rivelazioni sulla visita dell’ex ministro della Giustizia Usa William Barr e di John Durham a Roma risalente al 15 agosto 2019 e di cui si parlò, per la prima volta in assoluto, sulle colonne di questa testata il 28 settembre 2019 grazie all’ex consulente di Donald Trump, George Papadopoulos. L’inquilino della Casa Bianca al tempo era appunto Trump e il magnate chiese all’Attorney General di indagare sulle origini del Russiagate e sul presunto tentativo dei democratici di fabbricare false prove nel tentativo di “incastrare” lo stesso Trump e provare così il suo legame con il Cremlino; pista investigativa che ora sta conducendo in autonomia il Procuratore speciale Durham e che sta cominciando a dare i primi, importanti, risultati. Ma che cosa c’entra il nostro Paese in tutta questa vicenda?

Secondo la ricostruzione ufficiale, è in un incontro svoltosi nella capitale che l’allora docente maltese della Link Campus Joseph Mifsud, ad oggi scomparso, disse a Papadopoulos di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni all’alto Commissario australiano a Londra, Alexander Downer, che a sua volta riferì tutto alle autorità americane. Da qui, il 31 luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti tra Trump e la Russia, accuse che in seguito si sono dimostrate inconsistenti. È lo stesso Papadopoulos a ricostruire il suo arrivo a Roma alla Link Campus e il suo incontro con Mifsud nel suo libro Deep State Target. Sempre a Roma, come ricordava poi La Stampa tempo fa, il 3 ottobre 2016, si svolse inoltre un incontro segreto e cruciale tra gli investigatori dell’Fbi e il loro informatore britannico Christopher Steele, autore del famoso rapporto sulle presunte relazioni pericolose fra Trump e il Cremlino. Steele, ricorda La Stampa, dopo la carriera nell’intelligence, aveva successivamente fondato una sua agenzia investigativa, la Orbis, e in tale veste aveva conosciuto Michael Gaeta, assistente legale presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Roma.

Barr a cena con Vecchione a Roma

Ma torniamo alla quella giornata di ferragosto del 2019. Quella mattina, secondo i documenti del dipartimento americano alla Giustizia sulla missione, citati dal quotidiano La Repubblica, l’Attorney General atterra a Ciampino e va a messa nella chiesa cattolica di St. Patrick, a due passi dall’ambasciata americana di Via Veneto. Poi si prende quattro ore di “Down Time”, in teoria riposo, ma potrebbe trattarsi di qualunque cosa. Alle 17 va in Piazza Dante 25, sede del Dis, per incontrare Vecchione. Tutto questo è noto, e probabilmente documentato da appunti riservati. Secondo lo “schedule” di Barr, però, alle 18,45 l’intero gruppo si dirige verso Piazza delle Coppelle per una cena. Come ricorda La Repubblica, si tratta di un incontro inusuale: il protocollo vorrebbe che il segretario alla Giustizia contattasse il suo omologo per spiegare cosa cerca, e poi lasciargli gestire il caso. Barr invece scavalca tutti e ottiene l’incontro col capo dell’intelligence, autorizzato dall’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Di questa cena, peraltro, nessuno – nemmeno lo stesso Conte – sembra averne mai parlato prima.

L’Attorney general tornerà in Italia anche il 27 agosto, data in cui, accompagnato da Durham, incontrerà i vertici dei nostri servizi segreti: alla riunione del 27 settembre, infatti, oltre a Vecchione, partecipano anche i i direttori di Aise (Luciano Carta) e Aisi (Mario Parente). Secondo i media americani, Barr e Durham non sarebbero tornati a casa a mani vuote dopo le due trasferte romane: come riportato al tempo da Fox News, l’indagine del procuratore John Durham si estese sulla base delle prove raccolte proprio in quei due viaggi. Come abbiamo spiegato al tempo su questa testata, un funzionario dell’ambasciata americana a Roma confermò al Daily Beast che quella di Barr è stata una visita inaspettata e che gli americani erano particolarmente interessati da ciò che i servizi segreti italiani sapevano sul conto di Mifsud, il misterioso docente maltese al centro del Russiagate americano, colui che per primo – secondo l’inchiesta del procuratore Mueller – avrebbe rivelato a George Papadopoulos l’esistenza delle mail compromettenti su Hillary Clinton.

Sempre secondo il Daily Beast, Mifsud avrebbe fatto domanda di protezione alla polizia in Italia dopo essere “scomparso” dai radar. Il professore avrebbe fornito una deposizione audio nella quale spiegherebbe perché “alcune persone” potrebbero fargli del male. Una fonte del ministero di Giustizia italiano, parlando a condizione di anonimato, avrebbe confermato che Barr e Durham hanno ascoltato la deposizione del professore e ci sarebbe stato uno scambio di informazioni tra i procuratori americani e l’intelligence italiana. Quanto al destino di Mifsud, di cui non si hanno tracce dall’ottobre 2017, secondo un’inchiesta condotta da InsideOver nel dicembre 2019, “all’80%”, secondo fonti della procura di Agrigento, il docente maltese potrebbe essere addirittura morto. “Le probabilità che Mifsud sia morto sono molto alte”, confermava una fonte del palazzo di giustizia agrigentino. “Parliamo dell’80% di possibilità”.

Ora Renzi inchioda Conte: "Ho chiesto chiarezza all'intelligence". Francesco Boezi il 19 Aprile 2022 su Il Giornale.

Dopo l'emersione della ricostruzione di Repubblica sui rapporti tra Conte e l'amministrazione di Trump, Renzi chiede chiarezza all'intelligence.

Il leader d'Italia Viva Matteo Renzi ha voluto commentare parte della ricostruzione emersa oggi su Repubblica: quella relativa ai tempi in cui alcuni membri dell'intelligence americana si sarebbero recati a Roma per raccogliere elementi sulla genesi del "Russiagate" (e forse non solo su quello).

Come ha scritto Roberto Vivaldelli su InsideOver, l'ex presidente degli Stati Uniti d'America aveva domandato all'epoca di "indagare sulle origini del Russiagate e sul presunto tentativo dei democratici di fabbricare false prove nel tentativo di "incastrare"".

L'ex presidente del Consiglio italiano è stato lapidario: "Oggi - ha scritto sulla sua Enews il fondatore d'Iv - la Repubblica spiega perchè ci sono dei buchi neri nella ricostruzione di Conte sulla strana vicenda dell'agosto-settembre 2019, quando gli esponenti dell'amministrazione americana vennero in Italia alla ricerca di un presunto complotto da me ordito contro il presidente Trump". Per qualche trumpiano, c'entrerebbero persino i rapporti tra l'ex capo del governo italiano e l'ex inquilino della Casa Bianca Barack Obama.

E ancora: "Considero una follia questa ipotesi e ancora più folle mi pare chi gli ha dato credito. Ho chiesto chiarezza all'intelligence italiana. E non lo faccio per me, ma per il decoro delle istituzioni italiane". L'ex premier vorrebbe insomma che la cosa venisse chiarita dagli organi deputati a farlo. Renzi ha commentato la cosa anche via social: "Obama ed io che organizziamo una truffa elettorale ai danni di Trump? Follia pura. Che nel 2019 qualcuno a Roma possa aver dato credito a tale idea mi sembra gravissimo. Auspico che l'intelligence italiana faccia chiarezza nelle sedi opportune", ha scritto su Twitter.

Anche altri esponenti d'Italia Viva stanno dicendo la loro in queste ore. Una tra tutti, l'ex ministro Teresa Bellanova: "Poco dopo essere stata nominata ministra dell'Agricoltura posi il tema a Conte della delega ai servizi. Che ci fossero elementi di opacità a noi era già chiaro. Da capo delegazione avanzai richieste di chiarimenti, ma Conte sfruttó il tema pandemia per non chiarire mai", ha fatto presente.

Un'altra delle ipotesi in campo, che è correlata a quelle che sarebbero state delle indagini sull'origine del cosiddetto Russiagate, riguarda il presunto sostegno politico che Donald Trump avrebbe offerto al capo del MoVimento 5 Stelle in cambio dell'ausilio fornito per chiarire se e cosa avessero messo in piedi i Dem italiani.

Su questo aspetto ha preso posizione la senatrice d'Iv Laura Garavini, così come ripercorso dall'Adnkronos: "Chiediamo a Conte ed al Movimento 5 Stelle - ha dichiarato la renziana - di fare tutta la chiarezza possibile su questa inquietante vicenda. E chiediamo al Pd di non restare anche questa volta in silenzio: Italia Viva aveva chiesto all'inizio della legislatura una commissione di inchiesta per approfondire il Russiagate e le sue conseguenze dirette sulla nostra democrazia, fino ai risultati elettorali con una potente vittoria delle forze antisistema".

Pure l'onorevole Luciano Nobili, altro renziano, ha chiesto al Partito Democratico ed al MoVimento 5 Stelle di esprimersi sulla vicenda: "Avrebbe usato i servizi segreti a scopi personali e politici - ha scritto il deputato riferendosi a Giuseppe Conte - : mantenere a ogni costo la poltrona. Avrebbe barattato il sostegno di Trump al suo Governo con la rivelazione di segreti dalla nostra intelligence. E come se non bastasse messo i nostri servizi, strutture istitituzionali delicatissime a disposizione di un altro Paese per attività ostili contro Matteo Renzi".

Nobili, che lo definisce "Conte-Gate", sostiene che questo "scandalo" non possa essere riposto in un dimenticatoio: "Una commissistione tra attività di intelligence e attività politica del M5s, tra le strutture preposte alla sicurezza nazionale e il destino personale di un uomo e del ruolo che voleva mantenere, a ogni costo. Siamo stati lungimiranti allora a pretendere che lasciasse la guida diretta dei servizi di intelligence, prima e a mandarlo a casa, poi", ha chiosato.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 19 aprile 2022.  

È una piacevole serata estiva, il 15 agosto del 2019, quando verso le sette a Casa Coppelle si presenta un gruppo assai inusuale. Gli altri clienti di questo sofisticato ristorante nel cuore della capitale, che si vanta di unire «lo stile parigino e la classicità romana», probabilmente faticano a riconoscere gli ospiti di riguardo.

E in fondo si capisce. Perché al tavolo sono attesi il segretario alla Giustizia americano Bill Barr e il direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Gennaro Vecchione, capo dei servizi di intelligence italiani, impegnati in una segreta discussione per capire se Roma è stata al centro di un complotto per influenzare le presidenziali Usa del 2016 e impedire a Donald Trump di conquistare la Casa Bianca. Torna così all'attenzione un giallo che ha coinvolto l'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, aprendo nuovi interrogativi.

Nel 2019 Trump si convince che il "Russiagate" è stato confezionato in Italia, dai Servizi, sotto la guida del premier Matteo Renzi alleato di Hillary Clinton, e dagli agenti ostili dell'Fbi come il capo a Roma Michael Gaeta. Tutto nasce dalle approssimative accuse dell'ex consigliere George Papadopoulos, secondo cui a passargli la polpetta avvelenata sulle mail di Clinton rubate dai russi era stato il professore della Link Campus University Joseph Mifsud, durante un incontro nella nostra capitale. Perciò il capo della Casa Bianca chiede all'Attorney General di andare a indagare.

Il protocollo vorrebbe che il segretario alla Giustizia contattasse il suo omologo per spiegare cosa cerca, e poi lasciargli gestire il caso. Barr invece scavalca tutti e ottiene l'incontro col capo dell'intelligence, autorizzato dal presidente del Consiglio. 

La mattina del 15 agosto 2019, secondo i documenti del dipartimento americano alla Giustizia sulla missione, che Repubblica ha ottenuto nel rispetto delle leggi americane, l'Attorney General atterra a Ciampino e va a messa nella chiesa cattolica di St. Patrick, a due passi dall'ambasciata americana di Via Veneto. Poi si prende quattro ore di "Down Time", in teoria riposo, ma potrebbe trattarsi di qualunque cosa. Alle 17 va in Piazza Dante 25, sede del Dis, per incontrare Vecchione. 

Tutto questo è noto, e probabilmente documentato da appunti riservati. Secondo lo "schedule" di Barr, però, alle 18,45 l'intero gruppo si dirige verso Piazza delle Coppelle per una cena prevista di due ore. Sono andati? Cosa si sono detti, davanti ad un buon piatto e magari un bicchiere di vino? Esiste una traccia almeno ufficiosa di questa conversazione informale? Conte sapeva che il vertice inusuale da lui autorizzato a Piazza Dante si era allungato in una cena conviviale? È passato a salutare o era in vacanza?

Un paio di settimane dopo Conte va al G7 di Biarritz, mentre a Roma si decide il futuro del suo governo. Il 27 agosto Trump lo appoggia, con un messaggio su Twitter passato alla storia: «Comincia a mettersi bene per l'altamente rispettato Primo Ministro della Repubblica Italiana, Giuseppi Conte... Un uomo di grande talento, che speriamo resti Primo Ministro». Forse è anche un ringraziamento per la visita di Barr?

Il presunto coinvolgimento dell'Italia nel "Russiagate" resta comunque nell'agenda dell'Attorney General. Il 9 settembre alle ore 17 ne discute col suo capo di gabinetto Will Levi, che il 15 agosto lo aveva accompagnato a Roma insieme al consigliere per le questioni criminali e di sicurezza nazionale Seth DuCharme. Poi torna a parlarne l'11 all'una del pomeriggio, subito dopo un pranzo col segretario di Stato ed ex capo della Cia Mike Pompeo. Quella sera stessa, alle 19, Barr va a cena con Jared Kushner e Ivanka Trump. Coincidenza, oppure risponde alle domande e riceve le richieste sul dossier italiano del genero e della figlia del presidente? 

La mattina del 19 settembre l'Attorney General dedica altri 45 minuti, dalle 10 alle 10,45, alla preparazione di un nuovo viaggio in Italia con Levi e DuCharme. Poi prende un caffè con un gruppo di importanti senatori repubblicani, fra cui Grassley e Johnson.

Roma sembra il tema principale nell'agenda di Barr, quasi un'ossessione, perché il 25 settembre ne riparla con Levi e DuCharme. Il giorno dopo torna in Italia, ma anche qui c'è qualcosa da chiarire. Secondo la versione ufficiale dei fatti Barr, nome in codice durante il viaggio Bill Ahern, viene il 27 settembre per un rapido incontro con Vecchione, presumibilmente allo scopo di ricevere le informazioni raccolte dai nostri servizi dopo il primo appuntamento del 15 agosto.

Il suo schedule, però, rivela che in realtà parte da Washington alle 7 del mattino del 26, e quindi arriva in tempo per vedere qualcuno e cenare. Dove e con chi? Passa nella capitale l'intera giornata del 27, cena, dorme, e riparte la mattina del 28 con comodo. Davvero sta a Roma quasi due giorni, solo per passare un'oretta con Vecchione? Conte ne sa qualcosa? Magari lo saluta? Quando la missione segreta di Barr viene scoperta, il Copasir chiede spiegazioni al presidente del Consiglio.

Il premier difende la legalità delle visite e sottolinea due punti: «Non ho mai parlato con Barr», e «i nostri servizi sono estranei alla vicenda». Poi ai giornalisti dice: «Qualcuno ha collegato il tweet di Trump a questa inchiesta. Non me ne ha mai parlato». Ma forse lo avevano fatto Jared e Ivanka a cena con l'Attorney General? 

«La richiesta - continua Conte - risale a giugno ed è pervenuta da Barr. Ha domandato di verificare l'operato degli agenti americani, col presupposto di non voler mettere in discussione l'attività delle autorità italiane dell'intelligence». Altro elemento imbarazzante. Perché se così fosse, il premier avrebbe autorizzato il segretario alla Giustizia ad incontrare i vertici dei servizi italiani per ricevere informazioni compromettenti sui colleghi dell'Fbi, tipo Gaeta, con cui poi i nostri agenti lavoravano ogni giorno per garantire la sicurezza del Paese.

Quindi sul 15 agosto Conte aggiunge: «Si è trattato di una riunione tecnica con il direttore del Dis Vecchione, che non si è svolta all'ambasciata americana, né in un bar, né in un albergo, come riportato da alcuni organi di informazione, ma nella sede di piazza Dante del Dis». Certo, non in un bar. Allora però la cena a Casa Coppelle come è finita nello schedule ufficiale di Barr? I servizi giurano di non aver dato nulla all'Attorney General, e di non sapere tutt' ora dove sia finito Mifsud. Ma Conte ha davvero detto al Copasir tutto quello che avrebbe dovuto?

Estratto dell’articolo di Carlo Bonini per “la Repubblica” il 19 aprile 2022.

I documenti ottenuti da "Repubblica" sulle due missioni dell'agosto e settembre 2019 a Roma dell'allora segretario alla giustizia americano Bill Barr, evidenziano alcune significative omissioni della ricostruzione di quella vicenda proposta dall'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte […] e fotografano la disinvoltura con cui Conte e Gennaro Vecchione, il Carneade che l'allora premier, contro tutto e tutti, aveva voluto al vertice del Dipartimento per le informazioni e la sicurezza (Dis), maneggiarono una faccenda dai contorni opacissimi fuori da qualsiasi protocollo e cornice istituzionale.

Il che la dice lunga sulla cultura della sicurezza nazionale, della diplomazia, di chi, oggi leader del Movimento 5S, ha guidato da Palazzo Chigi il Paese con due diverse maggioranze. Lo stesso uomo […] che […] barattava un vantaggio personale (l'endorsement politico a suo favore da parte di Trump) in cambio di un incongruo scambio di informazioni dall'alto dividendo politico (il presunto coinvolgimento del Fbi in un altrettanto presunto complotto ai danni della Casa Bianca) e oggi, di fronte all'invasione Russa dell'Ucraina, arriccia il naso di fronte a un certo "atlantismo oltranzista".

[…] conferma l'uso politico borderline che dei nostri Servizi Giuseppe Conte ha fatto nel tempo (il caso di Marco Mancini ne è stato un esempio luminoso). Ossessionato dal suo destino, Conte ha a lungo confuso l'interesse e la sicurezza nazionale con quello della sua persona e della sua permanenza a Palazzo Chigi. […]

Le ombre di Conte che non volle mai lasciare la delega ai Servizi segreti. Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.  

Tra gli aiuti di Putin e i favori a Trump da premier rimase impigliato due volte: due indizi sono pochi per fare una prova, ma sono troppi i dettagli senza risposta.

Questa è la storia di un premier che è vissuto due volte e che nelle sue due vite a palazzo Chigi è finito coinvolto in altrettante storie a dir poco oscure, le cui trame sembrano pagine strappate dai romanzi di John le Carré: tra intrighi internazionali, tentativi di spionaggio, presunti complotti e ingerenze di Paesi stranieri. Alla guida del governo giallo-verde, nel 2019, Giuseppe Conte si impigliò nel Russia-gate perché fece uno strano favore a Donald Trump. Alla guida del governo giallo-rosso, nel 2020, si impigliò nel Covid-gate perché accettò uno strano favore da Vladimir Putin. Due indizi sono pochi per fare una prova, ma sono troppi i dettagli senza risposta.

L’estate romana di William Barr, per esempio è ancora oggi avvolta dal mistero. Tre anni fa, l’allora ministro delle Giustizia americano incontrò due volte nella capitale il capo del Dis Gennaro Vecchione, ad agosto e a settembre. Per i suoi viaggi — scrive il New York Times — saltò ogni protocollo in patria, e la stessa cosa fece il responsabile dei servizi italiani che avvisò solo a missione compiuta i direttori dell’Aise e dell’Aisi, i bracci operativi degli 007 nazionali. L’incontro tra Barr e Vecchione fu autorizzato da Conte, sebbene le procedure non lo contemplassero.

Ma a Washington Trump fremeva perché cercava la prova di un complotto ai suoi danni in campagna elettorale, che sarebbe stato orchestrato dai Democratici americani insieme all’ex premier italiano Matteo Renzi. Cosa abbia chiesto l’ospite non è chiaro. Ma non è un caso se all’appuntamento di agosto a Roma si presentò con il procuratore John Durham, a cui era stato affidato il Russia-gate. E non è nemmeno un caso se dagli Stati Uniti emergono ora dettagli sugli incontri tra Barr e Vecchione, riferiti da Repubblica. A Washington ora c’è Joe Biden, «e questi spifferi — spiega un esponente del Copasir — sono un messaggio della nuova Amministrazione».

Fonti grilline raccontano che Conte sia «molto teso». Forse perché si è reso conto di essersi infilato allora in uno scontro tra servizi americani. E siccome dall’altra parte dell’Atlantico il vento è cambiato, i segnali che arrivano sono inequivocabili. In ogni caso il Copasir ha deciso ieri di non riaprire questo dossier, «perché — sussurra uno dei membri del Comitato — la situazione internazionale è delicata e qualcuno ha chiesto di non complicarla a livello nazionale».

Ma resta aperto l’altro dossier, che appartiene all’epoca del Conte giallo-rosso e riguarda l’offerta di aiuto giunta da Mosca, quando l’Italia era piegata dalla pandemia. È l’altra vicenda con molte zone d’ombra. È certo intanto che l’operazione «Dalla Russia con amore» nascondesse un tentativo di spionaggio ad alcune basi militari italiane, come riferito da fonti della Difesa e dell’intelligence. Ed è altrettanto certo che la Nato avesse lanciato l’allarme. La missione voluta da Putin è del marzo 2020. Ad aprile il comandante supremo del Patto in Europa — intervistato dal Corriere — chiese all’Italia di «prestare strettissima attenzione alla maligna influenza russa». A maggio il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, rispedì a casa gli ospiti.

Anche in questo caso la ricostruzione auto-assolutoria di Conte è carente. Al Copasir l’ex premier ha raccontato che il 21 marzo del 2020 ricevette la telefonata di Putin, pronto a dare un aiuto. Ma come mai, appena il giorno dopo, atterrarono a Pratica di Mare tredici Ilyushin? Come fu possibile organizzare in poche ore una simile missione? Nell’inchiesta di Fiorenza Sarzanini per il Corriere si riporta la tabella presentata dai russi, con i nomi, i profili e le date di nascita dei 230 uomini mandati in Italia: segno che Mosca aveva selezionato anche i militari per la spedizione. Nemmeno la migliore agenzia matrimoniale saprebbe preparare un rinfresco nuziale così rapidamente. Nemmeno Conte ha saputo fornire spiegazioni.

O forse la spiegazione di tutte queste storie va cercata nell’ostinazione con cui il premier giallo-verde e giallo-rosso tenne sempre per sé la delega ai servizi nei suoi anni a Palazzo Chigi. Anche se gli costò Palazzo Chigi.

Timori Usa nelle carte segrete: Conte ondivago e filorusso. Stefano Zurlo il 21 Aprile 2022 su Il Giornale.

Lo sconcerto nel dossier del 2020 anche per i militari da Mosca: "L'Italia deve difendere i propri interessi".

Le liti fra Renzi e Conte, le critiche dei partiti italiani ai decreti sulla pandemia, poi all'improvviso una frase sibillina che non passa inosservata al Dipartimento di Stato: «L'Italia deve ora più che mai definire e difendere i suoi interessi nazionali».

Un testo che fotografa lo sbandamento di quel periodo e non a caso viene sottolineato da una manina, non si capisce bene se alla partenza, a Roma, o all'arrivo, a Washington.

Certo, quelle poche righe firmate il 29 aprile 2020 dall'allora ambasciatore in Italia Lewis Eisenberg colgono, sia pure con sottigliezza diplomatica, la confusione e l'imminente fine di un'epoca caratterizzata dalle giravolte e dalle capriole di Giuseppe Conte.

Conte, come raccontato anche ieri dal Giornale, si accredita presso Trump che nel 2019 incorona Giuseppi sul campo. L'Italia sviluppa una politica estera a dir poco avventurosa: il capo del Dis Gennaro Vecchione incontra a cena il ministro della giustizia americano Bill Barr che cerca nella penisola le fantomatiche prove del Russiagate.

Contemporaneamente l'Italia sposa, in perfetta solitudine fra i partner occidentali, la Via della seta, strumento di penetrazione commerciale e strategica di Pechino, e riceve un aiuto, persino eccessivo e sempre più sospetto, da Putin che invia un poderoso contingente militare per combattere il Covid a Bergamo.

L'ambasciatore registra tutto, monitora gli scontri all'arma bianca fra Conte e Renzi che alla fine sarà l'artefice del cambio a Palazzo Chigi e dell'arrivo di Draghi. Ancora, Eisenberg riporta i pareri degli editorialisti e cerca di trasferire negli Usa il clima e gli umori che respira nella capitale.

Ma qua e là affiorano i giudizi e le previsioni, tutte sottolineate nei documenti trasmessi a Washington. «L'Italia deve ora più che mai definire e difendere i suoi interessi nazionali». In un momento in cui certo il Paese è sotto l'attacco durissimo del Covid, esploso fra Codogno e Bergamo, ma è anche protagonista con Conte di una politica estera a dir poco ondivaga.

Eisenberg, nei documenti declassificati, tradotti e studiati dal professor Andrea Spiri, docente di storia dei partiti politici alla Luiss, si sbilancia con una sorta di profezia che si avvererà: «È probabile che questo governo non duri a lungo». All'orizzonte, per Eisenberg «c'è un governo tecnico». Insomma, nella primavera del 2020, in piena e drammatica emergenza sanitaria, l'ambasciatore americano capta l'arrivo di Mario Draghi, anche se il suo sarà in realtà un esecutivo di unità nazionale.

Spiri evidenzia poi un altro frammento del report, relativo alla missione dei russi a Bergamo per aiutare la popolazione alle prese con la pandemia. Sulla carta il team è formato da medici e infermieri, ma Eisenberg ha ben chiaro che si tratta di «soldati russi», come è emerso sempre più nettamente nelle ultime settimane. Quando si è capito che Conte aveva allargato con una certa disinvoltura il perimetro d'azione dei russi. Per Eisenberg però il capitolo è ormai chiuso: «Nessuna regione italiana ha chiesto il loro intervento». E la loro partenza per Mosca è imminente.

Non c'è alcun commento formale, ma a Washington devono essere soddisfatti per la mancata proroga. E la sottolineatura è un modo per enfatizzare il dettaglio sconcertante di quel viaggio che, due anni dopo, è al centro di polemiche e retroscena per il dilettantismo mostrato da Conte nei delicati rapporti internazionali. Ma per Conte non c'è nulla di strano né di misterioso: «Non sono emersi elementi di spionaggio, i sanitari russi non hanno mai travalicato i confini, ho sempre perseguito l'interesse nazionale - afferma l'ex premier, ospite di Liili Gruber a Otto e mezzo - L'incontro con Barr, poi, è stato studiato e preparato, i nostri servizi non gli hanno aperto l'archivio. Non sono stato né disinvolto né disattento».

Giuseppe Conte, le menzogne sugli incontri tra 007 italiani e Usa: le prove del Russiagate. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 20 aprile 2022.

Due schiaffi, nello stesso giorno, dai principali quotidiani italiani. No, non è un bel risveglio quello di Giuseppe Conte, che ieri si è visto, involontariamente, protagonista della rassegna stampa mattutina. Tornano in prima pagina due fatti del passato recente. Il primo riguarda il viaggio dei russi in Italia, in quella che doveva essere una missione umanitaria per aiutare un paese in difficoltà, il nostro, nella gestione della prima ondata del Covid. Viene fuori che, con l'avallo dell'allora presidente del Consiglio, quelle sospettate di essere spie ebbero il permesso del governo di entrare nelle strutture per "bonificare", ottenendo anche il rimborso della nafta per l'aereo. Questa è una. E la scrive il Corriere.

L'altra, riportata da Repubblica, riguarda l'incontro tra gli 007 americani e quelli italiani. Giugno 2019. Un favore, è la tesi del quotidiano, fatto a Donald Trump per ottenere il sostegno di Washington al suo governo pericolante. In effetti poco dopo The Donald pubblicò un tweet zuccheroso per tessere le lodi di "Giuseppi" (lo chiamò così). Di lì a poco l'esecutivo guidato dall'avvocato "del popolo" cadde lo stesso, ma tornò in sella con una nuova maggioranza giallorossa, senza la Lega e con il Pd .

LA REGIA POLITICA - Il leader del M5s nega tutto. Eppure gli viene attribuita una regia politica dietro l'incontro riservato tra i servizi americani e italiani.

Con l'obiettivo di inguaiare Matteo Renzi, che era stato indicato come l'autore del "Russiagate", ovvero del tentativo di influenzare le elezioni americane del 2016 a vantaggio di Hillary Clinton, allora avversaria di Donald Trump. Nell'articolo viene riportata una cena (fatto inedito) a cui avrebbero preso parte nell'estate 2019 anche il direttore del Dipartimento per le informazioni sulla sicurezza Gennaro Vecchione e il segretario per la Giustizia americano dell'amministrazione Trump Bill Barr.

Renzi grida allo scandalo: «Ci sono dei buchi neri nella ricostruzione di Conte sulla strana vicenda dell'agosto-settembre 2019», scrive nella sua Enews. «Ho chiesto chiarezza all'intelligence italiana. E non lo faccio per me, ma per il decoro delle istituzioni italiane» aggiunge. Insomma: da un lato emerge l'intendenza con la controversa amministrazione Trump; dall'altro un rapporto di subalternità con Vladimir Putin. Ieri sono sbucate fuori da un cassetto le mail inviate dall'ambasciata russa alla Farnesina. Da cui si capisce che il governo contiano - contrariamente a quanto sostenuto dal diretto interessato in passato - aveva autorizzato le "brigate mediche" putiniane a operare nelle strutture italiane, accettando anche di sostenere tutte le spese per l'arrivo di centotrenta persone.

LA DIFESA - Tutte balle, «sono state scritte infamità», si difende Conte: «Non ho mai personalmente incontrato l'allora Attorney General degli Stati Uniti, Bill Barr, nel corso delle sue visite in Italia, né nel corso di incontri formali né nel corso di incontri conviviali». Collegare la richiesta di informazioni di Barr alla vicenda della formazione del Governo Conte II è «una illazione in malafede», visto che la richiesta di Barr risale al giugno 2019, mentre «la crisi del governo Conte I risale all'8 agosto 2019», ricostruisce il leader dei grillini. Anche il famoso tweet del presidente Donald Trump, del 27 agosto 2019, che espresse «apprezzamento per il mio operato come premier», non ha alcun collegamento con questa vicenda, «considerato che la richiesta di Barr risale al giugno precedente e che questa richiesta e i suoi contenuti non sono mai stato oggetto di scambi o confronti tra me e l'allora presidente Trump». 

L'inchiesta e la nuova convocazione. Il Copasir indaga su Conte: dagli aiuti di Putin agli 007 americani, tutte le opacità dell’ex premier. Claudia Fusani su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

Tra il 2016 e il 2020 si può dire che ci sia stata una sorta di “magnifica ossessione” da parte di alcuni apparati, non solo d’intelligence, e non solo italiani nei confronti di Matteo Renzi. Così come si può dire che il premier Giuseppe Conte – che ha blindato nelle sue mani e dell’amico generale Vecchione la gestione dell’intelligence per tre anni da giugno 2018 fino alla sua uscita da palazzo Chigi – ha maneggiato con troppa disinvoltura il suo incarico di responsabile della sicurezza nazionale. Che lo abbia fatto per interesse personale – il che presuppone una strategia, un progetto, un disegno – per gusto del potere e ambizione di potere o per una più banale, ma non per questo meno pericolosa, leggerezza, non cambia la morale finale: il leader del Movimento 5 Stelle ha ancora molto da chiarire su due circostanze diverse ma che intrecciano insieme lo stesso filo russo.

Questo chiarimento deve arrivare una volta per tutte e lo stesso Copasir – l’organismo parlamentare deputato a illuminare le dinamiche legate all’intelligence – non può più tirare per le lunghe vicende che hanno urgenza di chiarimento. Serve una parola finale di verità e chiarezza. E poiché i fatti hanno sempre una loro realtà metafisica che esula dal contingente, non c’è dubbio che le informazioni spiegate e argomentate ieri su La Repubblica – circa i rapporti tra Conte, il suo capo degli 007 Vecchione e il “ministro” della Giustizia Usa Bill Barr – e le ulteriori novità raccontate dal Corriere della Sera sui rischi e le ambiguità della missione russa all’epoca della prima emergenza Covid, aprono una seria ipoteca sulla leadership di Conte. Il quale ieri ha minimizzato tutto. E non ha trovato di meglio da fare che attaccare Matteo Renzi invitandolo “a presentarsi davanti al Copasir”.

Un’ossessione di nome Matteo

Circa l’ossessione dell’intelligence su Matteo Renzi, all’epoca premier, due indizi non sono ancora una prova ma quasi. Nelle carte dell’inchiesta Consip – processo che procede lontano dai riflettori presso il tribunale di Roma – era emerso con evidenza tra il 2016 e il 2017 come le indagini dei carabinieri del Noe, tutti ex dei servizi segreti, avessero anche un obiettivo politico: puntare a Tiziano Renzi “per colpire” il figlio Matteo. Poi questo aspetto inquietante della faccenda è stato derubricato nel tempo ad errori lessicali “come talvolta accade”. All’epoca destò scalpore e inquietudine.

Circa un anno e mezzo dopo, Conte già saldo alla guida del suo primo governo, salta fuori la storia di George Papadopoulos, ex consigliere di Donald Trump, secondo il quale nel 2016 fu l’allora premier Matteo Renzi “alleato” con Obama, Hillary Clinton e “agenti ostili” come il capo dell’Fbi a Roma Michael Gaeta a confezionare il Russiagate per impedire a Trump la conquista della Casa Bianca. Un racconto fumoso con al centro le mail di Hillary Clinton rubate dai russi e poi rilanciate a venti giorni dal voto danneggiando la corsa della prima donna alla Casa Bianca. Una vera polpetta avvelenata che, secondo Papadopoulos, fu veicolata a Roma dal professor Joseph Mifsud, docente alla Link Campus university. Di Mifsud si sono perse le tracce. La Link campus conobbe in quegli anni il suo momento di gloria poiché in quelle aule si formò la classe dirigente del Movimento 5 Stelle. Come che siano andate le cose, Trump nel 2019 si convinse che Roma era al centro di trame insostenibili. E che era giunto il tempo di smontarle. Mentre gli schizzi di fango erano tutti per Matteo Renzi. Così inviò nella Capitale il fidatissimo General Attorney Bill Barr.

Una cena e tanti buchi nell’orario

La storia è nota: Barr, oltre che ministro della Giustizia detentore della delega sull’Fbi, ha avuto ben due colloqui con l’allora capo del nostro Dis, il generale Vecchione, uomo ombra di Giuseppe Conte. Il primo fu il 15 agosto 2019. Il secondo il 27 settembre. Entrambe le volte Barr incontra Vecchione in piazza Dante, sede del Dis. Conte, più volte sentito sull’opportunità di queste riunioni, ha sempre chiarito – e lo ha fatto anche ieri con una lunga nota – che si trattò di incontri “tra omologhi” e autorizzati. Mai c’è stato un faccia a faccia Conte-Barr.

Il corrispondente di Repubblica da New York ha avuto accesso alle carte di questa coda del Russiagate e ha scoperto che negli schedule (programma ufficiale) di Barr ci sono alcuni “buchi” negli orari e una cena di troppo in piazza delle Coppelle. E ha posto, documenti alla mano, una serie di domande sui reali rapporti in quei giorni tra palazzo Chigi e la Casa Bianca. Siamo nell’agosto 2019, il Conte 1 è a un passo dalla crisi; il Conte 2 sta prendendo forma e due giorni prima, il 27 agosto, arriva l’incoraggiante tweet di Donald Trump: “Speriamo che l’altamente rispettato presidente del Consiglio italiano resti primo ministro”. La coincidenza tra il tweet di Trump e l’arrivo della seconda missione di Barr è una di quelle cose che stupiscono ogni volta che ce la troviamo di fronte.

Il lungo post di Conte

Anche ieri Conte ha replicato ai sospetti con un lungo post su Facebook il cui succo è: “Tutto normale, nessuna novità e nessuno scandalo. Se il giornalista mi avesse chiamato, gli avrei spiegato tutto”. Forse è necessario che Conte metta in conto una nuova audizione davanti al Copasir. E che i membri del Copasir smettano di avere timore reverenziale per un ex premier e inizino a fare le domande giuste. A chiederla, però, per ora sono solo due gruppi “minori” della maggioranza, Italia viva e Noi con l’Italia. Per il Pd ha parlato l’ex capogruppo al Senato Andrea Marcucci. Non pervenuto Enrico Letta che ancora deve capire fino a che punto gli conviene tenere aperta l’alleanza con un leader, Conte, non sempre corretto con il Nazareno in questi mesi. Non pervenuto anche il presidente del Copasir Adolfo Urso (Fratelli d’Italia).

Una nuova audizione. Anzi due

La nuova audizione di Conte dovrebbe essere divisa in due parti. Per chiarezza anche nella verbalizzazione. La prima sul caso Barr e magari in concomitanza con l’amico Vecchione. La seconda sulla missione russa ai tempi del Covid. È stato il Corriere della Sera ieri a ri- mettere nei guai l’ex premier tirando fuori le mail da cui emerge con chiarezza che la missione dalla “Russia con amore” era stata sì autorizzata ai massimi vertici – tra Putin e Conte – ma era anche un classico Cavallo di Troia per carpire segreti all’amica Italia. Le parole non lasciano dubbi. Nelle mail protocollate si parla di “inviare mezzi speciali per la disinfestazione di strutture e centri abitati nelle località infette”. Altro che medici, infermieri e mascherine. Anche i numeri non lasciano dubbi: di 104 persone, solo 32 avevano a che fare con le scienze mediche. Tutti gli altri erano militari e personale diplomatico, come noto il primo travestimento degli 007.

Dagli aerei atterrati a Pratica di Mare nel marzo 2020, in pieno lockdown, scesero 22 veicoli militari, 521mila mascherine, 30 ventilatori, mille tute protettive, 10 mila tamponi veloci e 100mila tamponi normali. Se non abbiamo avuto – si spera – militari russi in giro nei nostri uffici pubblici a captare informazioni che hanno a che fare con la sicurezza nazionale (qualcosa che oggi fa venire i brividi), è solo perché in quel marasma che fu il primo lockdown, il generale Luciano Portolano, comandante del Coi, e il numero 2 della Protezione civile Agostino Miozzo dissero, “no, grazie, non se ne parla proprio che voi andiate giro per i nostri uffici pubblici a disinfettare”. Le mail confermano anche il tono assertivo con cui i russi pretesero di aver pagato vitto, alloggio e “50 tonnellate di combustibile a titolo di cortesia”.

Conte ha chiesto e ottenuto di essere sentito appena questa storia uscì sui giornali. Era il 24 marzo scorso. Le mail pubblicate ieri dal Corriere della sera sono un’ulteriore conferma che l’ex premier non ha chiarito e non se la può cavare con un generico “eravamo nel caos, qualunque aiuto era ben accetto, quella di accettare la missione russa è stata una decisione condivisa da tutto il governo”. Lo stesso Copasir deve fare più pressione – una volta di più – per ottenere tutte le informazioni e, a questo punto, soprattutto le spiegazioni. Invece tende a rinviare il momento del chiarimento. L’audizione del generale Portolano, ad esempio, che alla guida del Coi oppose un energico no alle richieste russe, non è ancora nell’agenda di San Macuto.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

I rapporti con gli Usa di Trump. Così Conte usava gli 007 a suo piacimento: tutti gli intrighi del premier pasticcione. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

Il giallo delle misteriose 48 ore passate dal procuratore generale americano Barr a Roma, nel ferragosto 2019, si infittisce. I suoi incontri con il capo del Dis Gennaro Vecchione, uomo di fiducia dell’allora premier Giuseppe Conte, sono stati rappresentati molto genericamente nel corso delle audizioni che Conte ha reso al Copasir. E in buona parte, come sappiamo oggi, taciuti. L’agenda minuta di quella due-giorni, liberata dalle autorità americane dal sigillo della riservatezza, restituisce una serie di informazioni che Conte ha tenuto ben nascoste. Una serie di finestre temporali “scoperte”, in cui il massimo rappresentante della giustizia americana – che era formalmente emissario di Donald Trump – una volta a Roma sarebbe uscito dai radar della missione concordata.

E veniamo a sapere di una sontuosa cena nel ristorante romano Casa Coppelle in cui barbe finte, staff del general attorney e la fonte più vicina al presidente Conte, Gennaro Vecchione, si sono potuti trovare per condividere tra un bicchiere e l’altro, più di qualche confidenza. Ha poi dell’incredibile venire a sapere come tutte le attenzioni e i servigi resi all’amministrazione americana fossero stati concessi in virtù dell’affannosa ricerca delle prove di un complotto internazionale voluto da Matteo Renzi ai danni dell’eleggibilità di Trump alla Casa Bianca. In questo contesto dai troppi segreti affondano almeno tre dei casi di cui Il Riformista ha scritto in questi anni. Tutti misteri romani o comunque avvenuti nella Capitale. La misteriosa scomparsa del professor Mifsud, per iniziare. “Una spia maltese utilizzato da servizi di diversi paesi”, secondo il ritratto che per noi ne aveva fatto un uomo di fiducia di Trump come George Papadopoulos.

Tutti i contorni del Russiagate, il canale di connessione sotterraneo tra Putin e Trump che sarebbe passato proprio per Roma. L’incontro all’Autogrill Renzi-Marco Mancini, con l’insoluto risvolto televisivo: su come e perché quel lungo filmato (“ricevuto con un video anonimo in redazione”, aveva detto Ranucci) sia stato raccolto e raccontato da Report, il mistero rimane. È invece certo che Gennaro Vecchione frequenta Giuseppe Conte da anni: da ben prima che l’avvocato sentisse pulsare la sua vena politica. I legami del generale Vecchione con un certo mondo della destra sovranista a stelle e strisce li abbiamo messi nero su bianco: quando Dignitas Humanae Institute, presieduto dal cardinale dell’ultradestra religiosa Raymond Leo Burke, promuove l’arrivo in Italia per un ciclo di incontri dello spin doctor del trumpismo e del sovranismo americano, Steve Bannon, può contare sulle relazioni che il cardinal Burke ha intessuto. E se il Dignitas Humanae Institute guarda alle grandi questioni internazionali, il porporato può operare con la politica italiana grazie ad una serie di realtà. È presidente d’onore della Fondazione Sciacca, nel cui comitato tecnico-scientifico siedono ben due generali della Guardia di Finanza: Gennaro Vecchione e Angelo Giustini. Una Fondazione umanitaria e caritatevole, viene detto sul suo sito.

Ma che vede una serie di correlazioni curiose con le istituzioni. A capo dell’ufficio stampa, per esempio, c’è un militare che opera anche nel gabinetto del Ministro della Difesa. Quando c’era Trump da una sponda dell’Atlantico e Conte dall’altra, se gli amici americani chiamavano, qualcuno nel governo italiano rispondeva subito. E infatti, con Conte al governo e Vecchione a capo del Dis, a Bannon viene “gratuitamente prestata” la Certosa di Trisulti, in provincia di Frosinone. Sono i mesi in cui Conte traballa. La crisi del Papeete. Il 27 agosto arriva un segnale chiaro, da Washington: “Spero che Giuseppi Conte rimanga Presidente del Consiglio”, twitta Trump. Roma torna incandescente. Oligarchi russi, agenti Cia, predicatori sovranisti la cingono d’assedio. Chi guarda a Trisulti, come l’ultradestra, sogna di inaugurarvi l’“università del sovranismo”. Un progetto tanto ambizioso da non reggere alla fine del governo Conte I. Arriva l’alleato Dem e la Certosa verrà restituita alla Curia, auspice il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, e l’incidente chiuso in fretta e furia. Anche perché rimane un’altra accademia sulla quale i sovranisti sembravano poter contare.

Nell’ottobre 2017 scompare a Roma, uscendo da una sua lezione, l’enigmatico professor Joseph Mifsud. La lezione si era tenuta alla Link Campus University, fondata anni da dall’ex ministro Enzo Scotti. Una istituzione accademica molto particolare, sulla quale sono stati versati fiumi di inchiostro, diverse interrogazioni parlamentari e perfino un dossier dell’Aisi.

Una università dalle molte vite. Dopo due cambi di sede e una serie di difficoltà economiche, nel 2016 la Link poté compiere un “grande salto”, passando nell’attuale sede a poche centinaia di metri dalla sede diplomatica russa di Villa Abamelik, su via Aurelia. Mifsud avrebbe avuto un ruolo centrale nel reperimento di sponsor che hanno permesso alla Link di fare un salto di qualità. Il momento decisivo si è avuto con la partnership con l’università moscovita Lomonosov, autentico vivaio dell’intellighenzia putiniana. L’accordo viene firmato alla fine del 2016, presente Mifsud, e poche settimane dopo nella nuova sede della Link un ampio locale viene messo a disposizione della Lomonosov. Una sala in cui «era sempre presente una ragazza russa che faceva funzioni di segretaria di Mifsud» e del suo socio svizzero, Roh. In quel locale dedicato all’università moscovita si trovava spesso anche un avvocato, ex-ufficiale dell’esercito russo in Sud America – Bolivia, Argentina, Colombia e Brasile – che il primo dicembre 2016 ha tenuto alla Link una conferenza presentata da Mifsud e alla presenza di Scotti e Roh: si tratta di Aleksey Aleksandrovich Klishin. L’uomo d’affari figura tra i soggetti colpiti dalle sanzioni già nel 2017 proprio per la prossimità con Putin.

E’ anche lui un tassello nel mosaico dei misteri in cui – lo Zar al Cremlino, Trump alla Casa Bianca – agenti russi e agenti americani si sono scambiati informazioni e favori. O forse solo promesse e parvenze. Stando alla ricostruzione ufficiale, Mifsud confidò in un incontro che si tenne nell’aprile 2016 a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni ad altri. In breve, le autorità americane lo vennero a sapere. Il 31 luglio 2016 partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Donald Trump e la Russia. L’ex direttore dell’FBI James Comey si era affrettato a dichiarare che Mifsud è “un agente russo”. Ma il Procuratore speciale Mueller non lo ha mai definito tale nel suo rapporto. Inoltre, Mueller non è riuscito a incriminarlo per nessuna accusa, nonostante abbia affermato che Mifsud avesse mentito agli agenti dell’FBI in un interrogatorio del febbraio 2017.

Ad accentuare il mistero, ecco che il protagonista delle rivelazioni di cui oggi sappiamo, l’ex Attorney General Barr e il Procuratore John Durham avrebbero ottenuto i telefoni cellulari di Mifsud proprio dalla nostra intelligence, durante i due colloqui in Italia con i vertici dei nostri servizi segreti in quelle misteriose 48 ore dell’agosto 2019. C’è un documento che è finito addirittura su Twitter: il file Handling – Agent 1 Redacted, verbale dell’interrogatorio del comitato giustizia del Senato Usa 3 marzo 2020 agli agenti dell’Fbi. Come nota l’esperto di intelligence Chris Blackburn, sfogliando il verbale, “l’Fbi sapeva che Joseph Mifsud stesse lavorando con figure-formatori dell’intelligence italiana presso la Link Campus di Roma. Perché anche l’Fbi lavorava lì. Ovviamente Mueller non voleva includerlo nel suo rapporto”. Dopo che Mifsud fu identificato come l’uomo che avrebbe parlato con Papadopoulos, infatti, la squadra di Mueller lo descrisse come persona con importanti contatti russi. Questa descrizione del docente maltese ignorava però i legami più atlantici dello stesso docente, inclusi Cia, Fbi e servizi di intelligence britannici. Attività che l’intensa correlazione stabilita tra il generale Vecchione deve aver contribuito a mettere in luce.

Il ministro della giustizia Usa cercava di capire, al di là del ruolo di Mifsud nella vicenda del Russiagate, quale fosse stato davvero il compito dei servizi italiani. Probabilmente sapeva che lo stesso generale Vecchione ha potuto, a dispetto della scarsa esperienza in materia di intelligence, frequentare le aule della Link Campus. In quel crocevia unico al mondo che è Roma, si dice cercasse anche altri particolari. Che portavano a Kiev: uno dei più probabili sfidanti di Trump, Joe Biden, aveva il figlio Hunter dal maggio 2014 nel cda della potente Burisma Holding, leader nello sfruttamento di gas e petrolio ucraino. Una girandola di correlazioni su cui probabilmente più di una indagine era parallelamente in corso. Del caso sappiamo ancora poco. Sappiamo che Conte ha omesso molti, troppi particolari. Sappiamo che a monte c’è stata una resa dei conti tra due fazioni rivali della Cia, e che nel gennaio 2017 la cellula romana della fazione sconfitta – a Washington, dalla politica – ha perso uno dei suoi elementi operativi, “bruciato” e dato in pasto a una inchiesta giudiziaria che lo ha messo fuori dall’operatività. Sappiamo che questa faida ha avuto un riverbero anche sui “nostri”, e che frizioni importanti vi sono state ai vertici di Aisi e Aise.

L’intervento di Mario Draghi che si affrettò a presidiare la casella del Dis con Elisabetta Belloni non fu affatto casuale. Si ricordi la stizzita reazione di Conte e di tutti i Cinque Stelle. Non sembra essere stato neanche per caso – a rileggerlo con le notizie di oggi – se proprio Giuseppe Conte provò a convincere tanto animatamente Pd e Lega (le sue due ali, sinistra e destra) di votare Belloni quale Presidente della Repubblica, per riaccreditarsi come kingmaker degli equilibri di vertice dei servizi e tornare in quella stanza dei bottoni dalla quale proprio Matteo Renzi lo ha messo alla porta.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

(ANSA il 20 aprile 2022) - La vicenda Barr "non mi preoccupa e perchè dovrebbe? Quando si agisce in piena coscienza, con chiarezza, assolvendo ai propri compiti la massima dedizione perchè dovrei essere preoccupato'". Così il leader M5s, Giuseppe Conte, al Tg3.

(ANSA il 20 aprile 2022) - "Renzi vada al Copasir, faccia quello che vuole, vada nelle tv a parlare. Non mi interessa. Spero che i suoi atteggiamenti non rovinino le nuove generazioni, il senso delle istituzioni è importante". Così il leader M5s, Giuseppe Conte, al Tg3. 

Da repubblica.it il 20 aprile 2022.

Una semplice "cena conviviale". Durante la quale il capo dei nostri servizi segreti e il ministro della Giustizia statunitense, sbarcato a Roma per acquisire informazioni sul Russiagate, avrebbero amabilmente chiacchierato, senza affrontare alcun argomento rilevante o sensibile.

Così l'ex capo del Dis, Gennaro Vecchione, liquida il tete-a-tete a Casa Coppelle, svelato da Repubblica e di cui mai aveva parlato prima, avvenuto nel Ferragosto del 2019 con William Barr, incaricato dall'allora presidente Donald Trump di indagare sul sospetto complotto ordito dai Democratici Usa (con l'aiuto dell'ex premier italiano Matteo Renzi) per influenzare le elezioni americane del 2016. E il presidente del Copasir, Adolfo Urso, ora fa sapere che in relazione alla vicenda 'Russiagate' "il Comitato, nell'odierna seduta ha constatato che non vi sono elementi di novità tali da richiedere ulteriori approfondimenti".

La cena "conviviale"

"Nel corso dell'incontro conviviale non sono stati in alcun modo affrontati argomenti riservati, confidenziali, commessi alla visita o comunque riferiti a vicende e a personaggi politici italiani e stranieri (argomento quest'ultimo mai trattato in alcuna circostanza, anche successiva), per cui la conversazione si è orientata su convenevoli di carattere generale", spiega l'ex comandante della Finanza, sentito dall'AdnKronos.

"Con riferimento all'indagine interna richiesta al Presidente del Consiglio nel maggio 2021 dal Copasir - prosegue Vecchione - giova specificare che lo stesso organo parlamentare, al paragrafo 11.1 della sua recente relazione al Parlamento, ha precisato i termini dell'ispezione, che non riguarda la gestione dello scrivente, ma altri fatti ben circostanziati".

Conte non informato

Una difesa a tutto campo, nel tentativo di allontanare da sé sospetti e illazioni, già bollate da Giuseppe Conte come "infondate" e "in malafede". Secondo Vecchione nella mattinata del15 agosto di tre anni fa lui partecipò alla riunione del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica a Castel Volturno (Ce) e nel pomeriggio, a Roma, avvenne l'incontro con la delegazione statunitense. 

A seguire, "in prosecuzione, la cena con gli stessi partecipanti, nel quadro degli standard di accoglienza, particolarmente apprezzati da sempre dai numerosi visitatori istituzionali italiani e stranieri.

Come si può notare dalla circostanza che fosse il tardo pomeriggio di Ferragosto - osserva Vecchione - sarebbe stato difficile organizzare un rinfresco in sede, per cui si è optato per un evento esterno, in un luogo pubblico e in una zona centralissima. In entrambe le situazioni, non ha preso parte il presidente del Consiglio". Che dunque non era stato informato perché non era necessario. Difatti a Conte "non sono mai stati forniti aspetti del cerimoniale e dell'accoglienza relativi a visite di singole Autorità o delegazioni italiane e straniere, stante la loro assoluta irrilevanza, fatti salvi quegli eventi che ne prevedevano la sua partecipazione", conclude l'ex direttore del Dis. 

Duello al Copasir

Intanto il duello fra il leader dei 5Stelle e il fondatore di Italia Viva, innescato ieri dalle rivelazioni di Repubblica, potrebbe presto trasfrirsi al Copasir. "Se Renzi ha certezze sul fatto che l'ex premier Conte ha violato i dettami costituzionali, ovviamente da lui dobbiamo partire. Devo chiamare" in audizione "chi mi dice, o dice al Paese, di avere delle certezze. Altrimenti su chi facciamo approfondimenti?", preannuncia Adolfo Urso in Tv. Con i parlamentari grillini del Comitato pronti a chiedere che venga sentito per primo il senatore di Firenze: "Già oggi chiederemo che venga calendarizzata l'audizione di Renzi: dal momento che ha sollevato un problema di sicurezza nazionale e dice di nutrire sospetti in merito a comportamenti non corretti da parte di Conte, ci sembra giusto che venga a spiegare nelle sedi opportune a cosa si riferisce, per poi concentrare le nostre domande e fare i dovuti approfondimenti".

Russiagate all’italiana. Secondo Renzi, Conte era filo Trump e filo Putin e voleva solo salvarsi la poltrona. su L'Inkiesta il 21 Aprile 2022.

Il segretario del Copasir Ernesto Magorno chiederà un’audizione dell’ex premier in merito all’incontro tra Barr e Vecchione di cui non era stata data comunicazione alle agenzie di intelligence. «Sulla visita di Barr risponda lui», dice il leader di Italia Viva

«Non ne ero a conoscenza». L’ex premier Giuseppe Conte nega ogni suo coinvolgimento nell’incontro informale, rivelato da Repubblica, tra l’ex segretario alla Giustizia americano William Barr e l’allora capo dei servizi segreti italiani Gennaro Vecchione, avvenuto la sera del 15 agosto del 2019 a Roma. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si era convinto che l’Italia fosse l’epicentro del Russiagate, un complotto ordito contro di lui tre anni prima, quando a palazzo Chigi c’era Matteo Renzi, mirato a danneggiarlo divulgando la notizia delle ingerenze russe nelle elezioni presidenziali vinte dal tycoon contro Hillary Clinton. Trump avrebbe mandato per questo Barr a raccogliere informazioni a Roma, trovando la collaborazione di Conte e dei servizi segreti italiani.

Il segretario del Copasir Ernesto Magorno, di Italia Viva, chiederà un’audizione dell’ex premier in merito all’incontro di cui non era stata data comunicazione alle agenzie di intelligence. E intorno a questa vicenda, si riaccende lo scontro tra Conte e Matteo Renzi.

Il leader di Italia Viva in un’intervista alla Stampa definisce Conte «incompetente e incapace di conoscere le regole del gioco». Secondo Renzi, «ci sono due Russiagate. Il primo riguarda la barzelletta per la quale io e Obama avremmo fatto una truffa elettorale ai danni di Trump. Il fatto che qualcuno a Roma abbia dato credito a questa follia è ridicolo. Colpisce che la versione di Conte non collimi con lo scoop che ieri ha fatto Repubblica: o Conte ha mentito al Copasir o Vecchione ha mentito a Conte. Oppure tutti e due mentono agli italiani. E poi c’è da chiarire la vicenda del presunto spionaggio russo, su cui siamo gli unici a chiedere la commissione di inchiesta sul Covid. Ma i grillini non vogliono che sia fatta luce, né su questo né sulle mascherine, chissà perché».

Nel giallo intorno alla famosa missione russa in Italia nel marzo 2020, il Corriere aggiunge un tassello: nell’elenco consegnato a Roma risultano 100 militari di Mosca in visita in più rispetto alla lista contenuta nelle relazioni parlamentari. Ufficialmente si trattava di una missione umanitaria, ma la composizione del contingente dimostra che in realtà erano tutti soldati e soltanto alcuni erano ufficiali medici. I militari guidati dal generale Sergey Kikot indicati nella lista di chi doveva «prestare assistenza nella lotta contro l’infezione da coronavirus» nel marzo del 2020 sono 230. L’elenco fu allegato dall’ambasciata di Mosca al testo dell’accordo tra il presidente Vladimir Putin e Giuseppe Conte poi trasmesso alla Farnesina. Ma nelle relazioni parlamentari risulta che in Italia sono stati registrati 130 nominativi. Qualcosa non torna.

«Sulla Russia tutti attaccano, giustamente, Salvini per le magliette di Putin o gli striscioni in piazza Rossa con scritto “Renzi a casa”. Ma i 5 stelle avevano la stessa linea, basta ricordare Di Stefano che oggi fa l’istituzionale viceministro e che allora attaccava l’Ucraina definendola “Stato fantoccio della Nato”», dice Renzi. «Poi c’è il tema Trump: l’atteggiamento di Conte tra agosto e settembre 2019 non è tipico del capo di un governo. Barr doveva incontrare Bonafede, nessun altro. Capisco che magari, se avesse incontrato solo Bonafede non sarebbe nemmeno venuto, ma questa è un’altra storia». Giuseppe Conte, secondo Renzi, «in quelle ore era impegnato a salvare la poltrona».

E sugli aiuti russi per il Covid «io la penso come Giorgio Gori, sindaco di Bergamo. In quella missione c’era qualcosa di strano e Conte dovrebbe chiarire perché ha accettato quell’accordo con Putin», dice Renzi.

«Il mio giudizio su Conte è notoriamente negativo, non solo per la politica estera», conclude Renzi. «Perché sulla politica estera non puoi proprio giudicarlo: ha fatto tutto e il contrario di tutto. È stato sovranista e progressista, populista e democratico, filo Trump e filo Putin. Puoi giudicare uno dalle sue idee, ma se quello cambia le idee ogni mese che gli dici?»

Conte ieri ha replicato un lungo post sui social, in cui tenta di gettare acqua sul fuoco. Assicura «massima trasparenza» e di aver già detto tutto quello che sapeva quando a ottobre è stato convocato in audizione al Copasir. L’ex premier sostiene però di non aver «mai personalmente incontrato Barr, né nel corso di incontri formali né nel corso di incontri conviviali». Il fatto che alla riunione ufficiale con l’intelligence italiana, nella sede dei servizi segreti a piazza Dante, fosse seguita una cena informale, proprio a due passi dalla casa di Conte, «è circostanza di cui non ero specificamente a conoscenza», assicura il leader del Movimento Cinque Stelle. Poi, contrattacca: «È possibile che il senatore Renzi non abbia mai sentito il dovere di andare a riferire al Copasir su questi suoi sospetti? Cosa teme, di dover poi rispondere alle domande e di essere obbligato, per legge, a riferire tutta la verità?».

Renzi risponde e dice: «Sono sempre pronto a rispondere alle domande del Copasir, ma sulla visita di Barr deve rispondere Conte e non io. Perché le risposte deve darle chi aveva la delega ai servizi, non chi come me è la parte lesa da uno stile istituzionale quanto meno discutibile. A meno che non ci sia qualcuno che pensa che davvero Obama e io abbiamo truffato le elezioni in Connecticut o in Ohio. Nel qual caso consiglio di farsi vedere da qualche specialista, possibilmente bravo».

Intervista a Carlo Calenda, leader di Azione. Stefano Zurlo per “il Giornale” il 20 aprile 2022.

Nessun complotto: «Quello indicherebbe quantomeno una direzione di marcia che invece non c'era e non c'è».

E allora?

Purtroppo la realtà è molto più modesta - sintetizza brutalmente il leader di Azione Carlo Calenda -: Giuseppe Conte voleva accreditarsi a livello internazionale e così utilizzava l'intelligence in modo spregiudicato e dilettantesco». 

Repubblica racconta la storia di una cena, a dir poco fuori dai canoni, fra il ministro della giustizia americano Bill Barr e il capo dell'intelligence italiana Gennaro Vecchione. Barr cercava le prove di un complotto ordito in Italia contro Trump e nel 2019 arriva nel nostro Paese e incontra proprio il capo dei Servizi. 

Uno schema non proprio ortodosso.

«Conte avrebbe dovuto preservare gli apparati di sicurezza, tenerli al riparo da una tempesta innescata da Trump». 

Il Russiagate?

«Appunto, siamo ai vaneggiamenti di Trump, al suo tentativo di fermare i democratici. Sono questioni di politica americana, naturalmente con riflessi in Europa, ma il punto è che il governo Conte nel 2019 fa da sponda a queste manovre». 

Conte afferma di non sapere nulla della cena tra Barr e Vecchione. Le procedure non sono state rispettate?

«Direi di no. Le richieste americane avrebbero dovuto passare attraverso il nostro ministro della Giustizia. Invece...».

Invece?

«Gli americani fanno il bello e il cattivo tempo. Spiace dirlo, ma siamo stati trattati peggio di una colonia, per inseguire fantomatiche prove che servivano a Trump per tentare di stare a galla». 

Lei parla di un atteggiamento «spregiudicato» di Conte?

«Conte, un parvenu, aveva solo il problema di ottenere un riconoscimento a livello internazionale. Quindi, anche se non conosciamo i dettagli di tutte le singole operazioni, possiamo trarre qualche conclusione». 

Secondo lei, cosa è successo?

«Un pasticcio incredibile che si stenta a credere. Siamo stati filo americani con Trump, ma questo è solo un pezzo».

Poi?

«Contemporaneamente, con un equilibrismo davvero incredibile, siamo stati filorussi e filocinesi». 

Con tutti e contro nessuno?

«Purtroppo questo si ricava dai fatti. Conte e Di Maio stravedevano per XI Jinping che l'attuale ministro degli Esteri chiamava Ping». 

Abbiamo aderito alla Via della seta.

«Sì, siamo stati l'unico Paese occidentale che si è lanciato in un progetto di matrice imperialista studiato dal regime comunista di Pechino. Nello stesso momento eravamo filorussi con Putin e filo americani con Trump. Ma come si fa ad avere una politica estera così ondivaga e contraddittoria, una bussola impazzita in cui non esistono più i punti cardinali?».

Tutto questo perché sarebbe avvenuto?

«Non immagini chissà quale complotto o cospirazione». 

E cosa dobbiamo pensare?

«Conte cercava considerazione a livello delle principali cancellerie. Pensi al tweet di Trump su Giuseppi. Conte compiaceva i suoi interlocutori, anche se in questo modo la nostra politica estera è andata a farsi benedire». 

C'è qualcosa di anomalo anche nel viaggio dei russi a Bergamo per combattere il Covid?

«Un altro episodio inquietante, con risvolti oscuri in cui affiora questa assenza di una linea guida, di una posizione chiara e limpida». 

Insomma, l'Italia ha perso credibilità nelle principali capitali?

«C'è stata una caduta di immagine, all'estero ancora oggi ci reputano filocinesi ma temo che i danni ci siano stati anche nella finanza e nell'economia. Gli svarioni del leader politici sono difficili da quantificare ma pesano negli scenari più importanti. Pensiamo agli incredibili balletti di Conte e con il regime venezuelano, ancora più gravi perché laggiù c'è una folta di comunità di origine tricolore». 

Oggi l'ex premier tratteggia un nuovo atlantismo.

«Nessuno però ha capito di cosa si tratti. Sono parole astruse e incomprensibili. Del resto, il centrosinistra si sta rivelando, sul fronte della politica energetica, il partito del no: no al gas russo, ma anche quello egiziano non va bene e pure l'Algeria non è che sia una democrazia. Il carbone inquina, le pale eoliche deturpano il territorio e alla fine uno annega dentro un mare di problemi. Ma di soluzioni, nemmeno l'ombra».

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 20 aprile 2022.

Nei suoi incontri a Roma con i servizi segreti italiani - avvenuti in due tornate, il 15 agosto e il 27 settembre 2019, e autorizzati in maniera irrituale dall'allora premier Giuseppe Conte - l'allora ministro della giustizia americano William Barr, secondo fonti americane, aggirò i protocolli usuali nell'organizzazione della missione, e tenne all'oscuro anche funzionari dell'ambasciata americana e del Fbi a Roma. La cosa suscitò grande malumore in settori importanti dell'amministrazione americana, alle prese con i tumultuosi anni trumpiani.

Barr a Roma incontrò (anche) l'allora capo del Dis Gennaro Vecchione, ma sulla natura e il numero di questi incontri non vi è ancora piena chiarezza: ieri La Repubblica ha rivelato che oltre a quello nella sede istituzionale di piazza Dante, ce ne fu almeno un altro, una cena, al ristorante Casa Coppelle, tra il General Attorney americano e Vecchione. Di cui Conte mai aveva parlato. E poi che Barr era arrivato il giorno prima a Roma, in tempo per eventuali altri incontri serali, che però non sono rendicontati nel suo programma di viaggio, dove compare una dicitura "Down Time", riposo, che copre almeno quattro ore.

Barr peraltro ripartì solo la mattina del giorno 16.

Il dossier Barr-Conte-Vecchione verrà riaperto proprio oggi, sia pure informalmente, al Copasir: la riunione era prevista per parlare di crisi energetica come conseguenza della guerra in Ucraina, ma alla fine verranno poste nuove domande sul caso Conte-Barr, e almeno Italia Viva intende richiamare nuovamente l'ex premier in audizione. Secondo quanto risulta a La Stampa, il Copasir non ha alcuna obiezione a riaprire il caso. Ma sarà una riapertura «complessiva». Non si tratterebbe della sola audizione di Conte, ma anche di Vecchione stesso. 

Per misurare la congruenza di quanto detto allora e quanto sta emergendo di nuovo.

La storia Barr-Trump-Conte è uno dei casi più opachi nella gestione dell'intelligence italiana a cavallo tra il primo e l'inizio del secondo governo Conte. Secondo il New York Times, nel suo viaggio in Italia nel settembre 2019 William Barr «aveva aggirato i protocolli nell'organizzazione del viaggio». Funzionari dell'ambasciata avevano trovato la sua visita «insolita», così come il fatto che il procuratore John Durham - che indagava sul presunto complotto anti-Trump organizzato dai democratici mondiali partendo dall'Italia - si fosse unito a lui. 

Un funzionario italiano confermò che uno degli scopi della visita era ottenere maggiori informazioni su un professore maltese, Joseph Mifsud. Ma alle richieste (improprie) di Barr, furono proprio i due capi dell'Aise e dell'Aisi (non certo allineatissimi a Vecchione) porre uno stop, senza consegnare nulla. 

Chi era Mifsud? Professore della Link University, era stato il primo a rivelare a un giovane consigliere di Trump, George Papadopoulos, dell'esistenza di mail hackerate a Hillary Clinton, materiale che Mifsud definì «compromettente» («dirt»), e sul quale i russi e Wikileaks poi si scatenarono.

Papadopoulos aveva riferito la cosa a un diplomatico australiano, che avvisò l'Fbi e diede quindi l'innesco all'indagine del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate.

Per Mueller, Mifsud era uomo in mano ai russi (per l'ex capo Fbi James Comey era proprio «un agente russo») e alle operazioni di interferenza di Putin nelle elezioni Usa del 2016.

Trump e Barr volevano invece (e, risulterà, senza fondamento) sostenere che Mifsud fosse una spia britannica, tassello di un complotto mondiale ai danni di Trump organizzato dai democratici di Obama, complice l'Italia del governo Renzi. Da allora Mifsud è sparito. Forse in Russia, forse non più vivo.

In quei mesi Barr fece analoghi viaggi anche in Regno Unito e Australia, cercando appoggi per sostenere la tesi del complotto ai danni di Trump. L'allora presidente Usa telefonò al primo ministro australiano Scott Morrison chiedendogli di fornire assistenza. Trump fece lo stesso con Conte? Barr cercò anche, in Ucraina, sostegno a una campagna contro Joe Biden e le consulenze - poi risultate legittime - del figlio Hunter con l'azienda ucraina di gas Burisma.

Ci fu infine anche un incontro, questa volta solo tra intelligence italiane e omologhi americani, avvenuto il 27 agosto. Secondo quanto risulta a La Stampa, gli americani volevano informazioni sulla condotta degli ufficiali dell'intelligence Usa con sede in Italia nel 2016. E voleva un fantomatico audio di Mifsud (che gli italiani non consegnarono). L'allora premier italiano stava autorizzando una normale collaborazione tra servizi americani e italiani o stava accettando anche solo di ascoltare una richiesta impropria di Barr (e Trump), cioè che l'Italia collaborasse non con, ma contro una parte dei servizi americani, l'Fbi?

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 20 aprile 2022.

L'Italian gate non è finito. Anzi, forse è appena cominciato. Perché nei prossimi giorni l'ex premier Giuseppe Conte è possibile, anzi quasi certo, che dovrà tornare davanti al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, e rispondere alle domande dei parlamentari su quello strano Ferragosto del 2019 quando a Roma sbarcò il segretario della Giustizia, William Barr. 

Dovrà spiegare, prima di tutto, come mai il suo capo dell'Intelligence, Gennaro Vecchione, non lo avvisò - questo ha detto Conte ieri in un lungo post su Facebook - di una cena che si tenne dopo l'incontro nella sede del Dis. Una circostanza sicuramente non neutra non fosse altro che la cena, come l'incontro, erano state concordate seguendo dei binari non esattamente istituzionali.

Non erano stati avvisati, infatti, i vertici delle due agenzie di intelligence (Aise e Aisi), non fu avvisato il Copasir. E soprattutto l'incontro fu deciso scavalcando tutti i protocolli in un passaggio in cui evidentemente la forma diventa sostanza. 

Ma Conte non sarà il solo, probabilmente, a dover tornare al Copasir per chiarire una serie di elementi che, prima delle rivelazioni di Repubblica, erano stati taciuti. Come ha chiesto ieri il segretario del Comitato (oggi la richiesta verrà ufficializzata nel comitato di presidenza), Ernesto Magorno, senatore di Italia Viva, a tornare davanti ai parlamentari potrebbe essere anche l'ex capo del Dis Gennaro Vecchione - che ieri contattato non ha voluto rispondere - che dovrà spiegare perché non aveva mai parlato di questa cena. E come mai aveva ritenuto di non informare il presidente del Consiglio, come Conte ha raccontato ieri. 

Ma l'Italian Gate non è finito anche perché quello che è accaduto in queste ultime ore ha inevitabilmente riproposto, anche all'interno dell'intelligence italiana, una domanda rimasta fino a questo momento senza risposta. E cioè: cosa hanno chiesto gli americani in quell'incontro e poi dopo in quella cena? E soprattutto: cosa hanno detto di sapere gli italiani? Perché le date raccontano una storia fin qui non ancora chiara. Quello di Ferragosto non è stato il solo incontro tra Vecchione e Barr.

Mentre l'Italia era nel pieno della tempesta del Papeete, con il governo Conte che traballava come un cocktail poggiato sulle casse del lido-discoteca caro a Matteo Salvini, l'allora capo dei servizi italiani si impegna con i colleghi americani a rivedersi. Al termine della cena a Casa Coppelle i due si ridiedero un appuntamento dopo sei settimane.

Il 27 settembre. Fu soltanto allora che gli allora direttore delle agenzie - Luciano Carta che all'epoca guidava Aise e Mario Parente dell'Aisi - vengono a sapere dell'incontro, con una comunicazione scritta. E trasecolano.

In un incontro a Palazzo Chigi avvenuto il 26 spiegano a Conte e Vecchione di non essere a conoscenza di nessun ruolo di italiani, né tantomeno delle nostre istituzioni, nella vicenda del Russiagate. Ed è quello che diranno il giorno dopo agli americani che speravano invece in ben altre informazioni. Sul punto esistono informative precise firmate dai direttori delle nostre agenzie di intelligence che, a questo punto, è certo verranno acquisite dal Comitato parlamentare.

Infine: l'Italian Gate non è finito perché è possibile che davanti al Copasir torni anche un altro ex premier, Matteo Renzi, colui che nella ricostruzione-bufala trumpiana avrebbe in qualche maniera collaborato con il governo Obama per fabbricare false prove. «Perché non va a riferire quel che sa?» ha detto ieri Conte. È possibile che oggi nel comitato di presidenza del Copasir, i 5 Stelle facciano la stessa richiesta al presidente Alfredo Urso. Che, come cultura istituzionale, mai in questi mesi ha respinto le istanze dei membri del Comitato.

Per non dimenticare. Le responsabilità del Pd di Zingaretti nel Russiagate di Conte. Carlo Panella su L'Inkiesta il 21 Aprile 2022.

Nonostante le pressioni interne, il Partito Democratico ha ignorato l’importanza della delega ai Servizi e l’ha lasciata nelle mani dell’allora presidente del Consiglio. Una decisione a metà tra l’ingenuità e la follia, a coronare una delle stagioni più fallimentari della politica. Letta dovrebbe intervenire.

Il secondo tempo del pasticciaccio Barr-Conte-Vecchione obbliga ancora una volta a registrare l’incredibile assenza di forza politica, se non l’innovativa dabbenaggine pura Pd, di Nicola Zingaretti. Ma un Pd non solo suo. Questo, innanzitutto, per aver considerato nella calda estate del 2020 non rinviabili al mittente le esplicite pressioni di Donald Trump per la giravolta dell’avvocato del popolo, da premier del governo gialloverde a premier del governo giallorosso. Allora, stupito, ne chiesi conto a un alto dirigente del Partito Democratico che, visibilmente imbarazzato, farfugliò: «Non hai idea delle pressioni da Villa Taverna…».

Preso atto che il Pd, il partito che più di ogni altro può mettere in campo alte figure tecniche per Palazzo Chigi, si è accostumato a subire i diktat di un ceffo come Donald Trump, lo incalzai: «Ma almeno potevate imporre a Conte di assegnare a uno dei vostri la delega ai Servizi». Ulteriore imbarazzo: «Zingaretti e il Pd romano non hanno neanche idea di cosa siano i Servizi. Abbiamo insistito col segretario, ma ci ha risposto che non voleva fare uno sgarbo ai 5Stelle».

Così, Conte, col beneplacito del Pd si è tenuto la delega, ha fatto di Gennaro Vecchione una longa manus sul Dis, sull’Aise e sull’Aisi – e per fortuna che questi ultimi erano diretti da Luciano Carta e Mario Parente che ne hanno salvaguardato autonomia e funzione. Non solo, i due direttori dell’Aise e dell’Aisi hanno tenuto gelidamente distanti i loro uffici dalle richieste di occuparsi, su suggerimento americano, di George Papadopoulos e Joseph Mifsud e dal ben poco limpido ambiente della Link Campus University, vivaio dei mediocri 5Stelle assunti a incarichi di governo.

Naturalmente, Mario Draghi, diventato premier, ha licenziato Vecchione, ha nominato Elisabetta Belloni al Dis e ha interrotto l’uso personale e improprio che dei Servizi ha fatto per più di due anni Giuseppe Conte.

Ma resta la macchia di un Pd incapace di rispettare la tradizione della sinistra che, da Ugo Pecchioli a Marco Minniti, ha sempre considerato i Servizi un punto focale e prezioso delle istituzioni repubblicane e che, nonostante le ripetute richieste del suo responsabile della sicurezza Enrico Borghi perché quella delega venisse affidata ad altri, ha permesso che Conte trattasse il tema come un affare di famiglia.

Questo, per di più, a fronte del fatto inaudito che il presunto scandalo delle trame per favorire Hillary Clinton contro Donald Trump, di cui parlarono William Barr e Gennaro Vecchione, del quale uno snodo sarebbe stato Mifsud, avrebbe fatto capo, secondo il fantasioso Segretario alla Giustizia americano, al governo diretto da Matteo Renzi. Quindi, il Pd, ha ceduto a suo tempo a Conte il pieno controllo politico sui Servizi ben sapendo che il premier favoriva ventre a terra un’inchiesta americana che puntava a incriminare un ex presidente del Consiglio italiano che dal 2020, era anche parte della sua stessa maggioranza parlamentare, quella che addirittura lo stesso Renzi aveva inventato.

Un quadro scabroso dal quale oggi Enrico Letta si tiene inopportunamente lontano.

Giuseppe Conte, "cosa c'è dietro al Giuseppi?". Servizi, Casa Bianca, Trump e Russia: la cena taciuta dall'ex premier. Libero Quotidiano il 19 aprile 2022.

Una cena tra William Barr, ex procuratore generale degli Stati Uniti, e Gennaro Vecchione, ex capo dei servizi di intelligence italiani, potrebbe mettere in seria difficoltà Giuseppe Conte. Il fatto risale al 15 agosto del 2019. I due, come rivela Repubblica, avrebbero avuto una discussione segreta per capire se Roma fosse al centro di un complotto per influenzare le presidenziali americane del 2016 e impedire a Donald Trump di arrivare alla Casa Bianca. Tutto nasce perché nel 2019 Trump si convince che il “Russiagate” sia stato confezionato in Italia, dai Servizi, sotto la guida del premier Matteo Renzi, alleato di Hillary Clinton. 

A pesare sulla convinzione di Trump sarebbe stato anche il suo ex consigliere George Papadopoulos. Quest'ultimo aveva rivelato che un professore della Link Campus University, Joseph Mifsud, oggi scomparso, durante un incontro a Roma gli aveva detto che il governo russo possedeva “materiale compromettente” su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto il tycoon chiese a Barr di indagare. E Barr, invece di contattare il suo omologo, avrebbe scavalcato tutti e ottenuto un incontro col capo dell’intelligence, che sarebbe stato autorizzato dal presidente del Consiglio. 

Stando ai documenti del dipartimento americano alla Giustizia sulla missione, visionati da Repubblica, Barr avrebbe visto Vecchione alle 17 in Piazza Dante 25, sede del Dis. Cosa già nota. Poi alle 18 e 45 sarebbe andato verso Piazza delle Coppelle per una cena prevista di due ore. Su questo però non si sa nulla di più. In ogni caso, alla luce di questa vicenda, suona sospetto il tweet con cui Trump appoggiò Conte il 27 agosto: "Comincia a mettersi bene per l’altamente rispettato Primo Ministro della Repubblica Italiana, Giuseppi Conte... Un uomo di grande talento, che speriamo resti Primo Ministro". Sarà stato forse un ringraziamento per la visita di Barr? Sentito dal Copasir, l'allora premier sottolineò: "Non ho mai parlato con Barr, i nostri servizi sono estranei alla vicenda". Oggi a commentare è Matteo Renzi: "Obama ed io che organizziamo una truffa elettorale ai danni di Trump? Follia pura". E anche il senatore di Italia Viva Ernesto Magorno: "I nuovi elementi emersi sulla vicenda "Russiagate" scattano una fotografia inquietante. È assolutamente necessario un chiarimento".

Bye bye Giuseppi. Il doppio Russiagate di Conte segna (in ritardo) la sua fine politica. Mario Lavia su L'Inkiesta il 20 Aprile 2022.

Le nuove rivelazioni di Repubblica e Corriere (ma sarebbe bastato leggere quotidianamente Linkiesta degli ultimi due anni) dimostrano che l’ex premier ha fatto un uso spregiudicato degli apparati, impiegati per accreditarsi presso i due principali leader reazionari del mondo.

Due storiacce, una con Donald Trump e l’altra con Vladimir Putin, i campioni della destra reazionaria mondiale: l’uno-due di Repubblica e Corriere della Sera è di quelli che in un Paese normale dovrebbero definitivamente mandare a stendere il protagonista del doppio inghippo, cioè Giuseppe Conte, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio: è il duplice segnale che ambienti importantissimi, anche internazionali, hanno mollato l’avvocato del popolo e che nessuno crede a un suo ritorno ad alti livelli di governo.

Perché quello che balza agli occhi nei colpi dei due più importanti giornali italiani non è nemmeno il merito, anche se esiste ed è pesante, ma la tempistica e l’univocità del bersaglio, il che dimostra che il caso Conte non è chiuso, tutt’altro, e sarebbe davvero strano se per non turbare il quadro politico i partiti della maggioranza si sottraessero al dovere di incalzare l’ex premier e leader del M5s a dire quel che sa, soprattutto un Pd che ormai non ha più motivo di difendere l’indifendibile ma che ieri non ha detto una parola (tranne il solito Andrea Marcucci) su un uomo politico azzoppato che oramai andrebbe abbandonato al suo destino.

Enrico Letta, così coraggioso sulla guerra di Putin, sull’alleanza con i grillini ancora vuole puntare per puro spirito di conservazione: un’intesa che non sta più in piedi, se mai lo è stata. Il “punto di riferimento fortissimo dei progressisti” è un pallido incubo lontano.

Contro “Giuseppi” non escono vicende nuove, su Linkiesta le abbiano raccontare per mesi, ma ulteriori tasselli di giochi opachi mai chiariti completamente dall’avvocato nemmeno di fronte al comitato parlamentare per i servizi di sicurezza, dove dovrà tornare di nuovo per chiarire i fatti. Si tratta nel primo caso (scoop di Repubblica) di nuovi elementi sui misteriosi colloqui che nell’estate del 2019 l’ex ministro della giustizia americano William Barr ebbe a Roma con l’allora capo dei servizi segreti Gennaro Vecchione (e non con il omologo Alfonso Bonafede come prassi avrebbe voluto) i cui contenuti non sono mai stati chiariti fino in fondo. Ma già basandosi su quello che si sa ci sono pochi dubbi sul fatto che Barr, in veste di “avvocato” di Trump, cercasse in Italia il modo per fabbricare prove ai danni del governo Renzi nell’ambito della presunta trama obamiana contro The Donald.

Un pezzo di una tela mondiale, come già un anno fa spiegò la rivista online Ytali, «che ha coinvolto l’Australia, il Regno Unito, l’Ucraina e, appunto, l’Italia. Ad Australia e Regno Unito è stata richiesta collaborazione per capire se diplomatici dei due Paesi avessero lavorato con Obama per danneggiare Trump. Con l’Ucraina è lo stesso Donald Trump a intervenire. Il presidente repubblicano chiese infatti in una famosa telefonata al presidente ucraino Zelensky non solo di aprire un’inchiesta nei confronti del principale candidato dem alle primarie Joe Biden, ma di condurre delle indagini su CrowdStrike, una società americana specializzata nelle indagini su attacchi informatici». In Italia si puntava a colpire Matteo Renzi visto come anello della catena obamiana, ma ieri lui ha detto di considerare «una follia questa ipotesi e ancora più folle mi pare chi gli ha dato credito».

È evidente che siamo ben oltre i normali rapporti fra Stati alleati di cui aveva parlato Conte al Copasir. E non è affatto chiaro – questo è il rilancio giornalistico di Repubblica – cosa abbia fatto Barr nella sua seconda visita, quella del 27 settembre, che seguiva il primo colloquio “ufficiale” con Vecchione del 15 agosto e una misteriosa cena tra i due quella sera. Conte pertanto dovrà chiarire la sua posizione anche sui nuovi dettagli emersi: che cosa successe nella visita settembrina dell’uomo di Trump?

Ma se vogliamo la seconda dirty story, sulla quale il Corriere della Sera con Fiorenza Sarzanini non molla la presa, è anche più pesante. Riguarda la nota vicenda della visita dei medici e militari russi a Bergamo nei giorni iniziali della pandemia (marzo 2020). Ebbene, il Corriere ha tirato fuori una mail dell’ambasciata russa alla Farnesina da cui emerge che i russi volevano “bonificare” le strutture pubbliche e pretendevano (ottenendolo) che l’intera missione fosse a spese dell’Italia. Dai dettagli viene il forte dubbio che altro che aiuto umanitario si trattava, ma di un’azione di vero e proprio spionaggio: questo sarebbe stato il cuore dell’intesa tra Giuseppe Conte e Vladimir Putin.

Dal doppio pasticcio prima con Trump e poi con Putin esce dunque in modo inquietante la figura di un premier per caso che a quanto pare non esitava ad adottare i metodi più spregiudicati per accreditarsi presso i due grandi leader mondiali della reazione facendosi beffe di regole e trasparenza non solo durante i fatti ma anche successivamente, omettendo la verità, tutta la verità agli organi competenti nonché al Paese.

Come ha scritto Carlo Bonini su Repubblica, «ossessionato dal suo destino, Conte ha a lungo confuso l’interesse e la sicurezza nazionale con quello della sia persona e della sua permanenza a palazzo Chigi», qualcosa di peggio dell’«annegare la politica in un pantano senza idee» di cui scrisse il filosofo Biagio de Giovanni già due anni fa. Sarà senz’altro un caso ma tutte queste vicende torbide tornano in campo con forza proprio mentre alla Farnesina siede con un peso molto superiore al passato un certo Luigi Di Maio, avversario agguerrito dell’avvocato. Mai politicamente così debole, adesso Conte sconta l’arroganza dei tempi belli del Conte uno e – meno – del Conte due. Un’epoca lontana, che non tornerà.

Andrea Muratore per tag43.it il 21 luglio 2022.

Matteo Renzi torna (nuovamente) ad attaccare Fiorenza Sarzanini, e questa volta per il tramite di uno dei suoi pasdaran più fedeli, Luciano Nobili, e su uno dei temi su cui l’ex premier si è più volte esposto politicamente: l’intelligence. L’8 luglio 2022, infatti, il 44enne deputato romano ha presentato alla Camera un’interpellanza a risposta scritta diretta al presidente del Consiglio Mario Draghi in cui chiede conto e ragione delle notizie più volte riportate dalla Sarzanini, vicedirettore del Corriere della Sera, che citavano elementi provenienti da ambienti legati all’intelligence.

Tra il 2019 e il 2021, lo ricordiamo, Renzi aveva aperto in due diversi momenti dei contenziosi civili a Firenze contro la giornalista per il suo interessamento alle vicende della Fondazione Open. L’interpellanza di Nobili segna però un salto di qualità dell’offensiva  verso la vicedirettrice del quotidiano di Via Solferino.

L’onorevole chiede chiarimenti sul fatto che Sarzanini, tra il 20 aprile e il 9 giugno, in cinque articoli e un intervento televisivo a Otto e Mezzo, abbia rivelato informazioni apparentemente riferibili a notizie connesse alle ricerche dei servizi di informazione e sicurezza, del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) e di alte fonti governative e riguardanti in particolar modo i rapporti tra Russia e Italia. Dal caso della controversia missione medica inviata da Mosca in pieno Covid nel marzo 2020 fino alla più recente “lista di putiniani” dell’informazione e del mondo accademico. 

La manovra appare decisamente complessa perché si tratta di temi su cui il partito maggiormente attento a spingere in seno alla presente maggioranza di governo è stato proprio quello di Renzi. Critico esplicito della gestione dei servizi da parte del governo Conte II e apertamente schierato con le posizioni rigorosamente atlantiste di Mario Draghi.

Nonostante le ruggini del passato, dunque, in questo caso i renziani non avrebbero motivo di colpire Sarzanini, a sua volta non annoverabile nel partito dei filo-russi o degli anti-Draghi. Stupisce invece a virulenza dell’attacco. Nobili, nell’interpellanza al Presidente del Consiglio, chiede esplicitamente se Draghi «sia a conoscenza di eventuali contratti, collaborazione o rapporti, comunque denominati, a titolo oneroso o gratuito, della giornalista Fiorenza Sarzanini con le agenzie di intelligence, ovvero con comitati, tavoli o commissioni ministeriali, gruppi di lavoro o di studio che includano esponenti delle agenzie di intelligence o ne prevedano comunque il diretto coinvolgimento, negli ultimi 10 anni, e, in caso affermativo, quali siano state le forme di collaborazione comunque denominate, ed a che titolo siano state eventualmente svolte»

Nobili sottolinea che appare evidente «la capacità di Sarzanini di accedere a informazioni e documenti riservati, come avvenuto, appunto, in occasione della relazione trasmessa dai servizi segreti» sui “putiniani d’Italia” poi desecretata da Franco Gabrielli a giugno, «come si ricava anche dagli articoli da lei pubblicati, che spesso riportano circostanze e dinamiche che vedono un coinvolgimento diretto degli apparati di sicurezza del nostro Paese». 

Per l’esponente di Italia viva  il punto è che laddove «si instaurino canali di informazione paralleli, imprecisati e indefiniti» l’attività dei servizi segreti può essere messa a repentaglio e, potenzialmente, la stessa sicurezza nazionale può risultare intaccata.

Il tono dell’interpellanza è dubitativo, ma il messaggio è chiaro: si ventila l’ipotesi di un legame a doppio filo tra Sarzanini e i servizi alla base dei rapporti e delle informazioni veicolate dalla giornalista. A memoria, non si ricorda di un precedente del genere in cui venivano ventilate ipotesi che, in caso estremo, comporterebbero addirittura una violazione della Legge 124/2007 sul funzionamento dei servizi segreti, che all’articolo 21 impedisce collaborazioni tra giornalisti professionisti e apparati di intelligence. Sarzanini, del resto, non è certamente l’unica giornalista italiana che riporta fonti legate alle agenzie di intelligence nei suoi articoli. E dunque è bene riflettere su perché Nobili si concentri essenzialmente su di lei.

Il tono dell’interpellanza va letto alla luce degli obiettivi che i renziani vogliono ottenere mettendo sotto pressione Sarzanini. E anche se la questione riguarda i documenti di intelligence citati da Via Solferino e desecretati da Gabrielli, questi sono solo il gancio per una manovra che ha ben altro scopo: garantire, in una fase critica, maggiore visibilità a Italia viva sul Corriere. 

Una guerra di nervi che continuerà, questo è il calcolo dei renziani, fino a che all’ex premier sarà garantito uno spazio maggiore rispetto all’attuale che sul quotidiano gli viene concesso con le interviste di Maria Teresa Meli. E che a molti appare sin troppo, considerato l’esiguità del consenso elettorale di Italia viva. 

Ma Renzi vuole rivendicare il suo ruolo di apripista dell’agenda Draghi e accreditarsi come figura di riferimento nel “grande centro” in cui il Corriere sembra, da diverse settimane, attenzionare con maggior forza Carlo Calenda e Luigi Di Maio a discapito del premier dimissionario. Problemi di visibilità che invece non sembra avere con La7, che molti osservatori notano maggiormente avvezza a assecondare il presenzialismo e i toni da “populista elitario” del senatore fiorentino. Il fatto che, però, questa strategia di pressione si inserisca nel quadro di una battaglia personale che divide l’ex premier e la Sarzanini tirando in ballo anche i servizi rende la manovra estremamente spericolata.

·        Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

Non possiamo non dirci crociani. Non possiamo non dirci crociani per molti motivi. Il filosofo condannava sia il fascismo sia il comunismo. Una lezione semplice ma importante. Alessandro Gnocchi il 20 Novembre 2022 su Il Giornale.

Non possiamo non dirci crociani per molti motivi. Il filosofo condannava sia il fascismo sia il comunismo. Una lezione semplice ma importante. L'Italia tuttora non è in grado di impararla. Mentre la condanna per il fascismo, giustamente, è ormai unanime, una parte consistente della sinistra è ancora convinta della favola secondo la quale il comunismo sarebbe una splendida idea purtroppo applicata male. Al cristianesimo abbiamo preferito qualsiasi dottrina materialista. Croce, pur non essendo credente, si dichiarava cristiano perché sapeva che, se togli il cristianesimo, la società inizia a scivolare su un piano inclinato in fondo al quale c'è sempre il disprezzo per la vita e l'individuo. Croce racconta in Contributo alla critica di me stesso di aver perso la guida della dottrina religiosa e di sentirsi «insidiato da teorie materialistiche, sensistiche e associazionistiche, circa le quali non mi facevo illusioni, scorgendovi chiaramente la sostanziale negazione della moralità stessa, risoluta in egoismo più o meno larvato». Fu il confronto con lo zio e tutore Silvio Spaventa a restituire la fede, laica e liberale, sui «fini e doveri» della vita. Maestro di Retorica, Croce disprezzava la retorica, il vero cemento (friabile) delle istituzioni italiane. Nel Contributo, il filosofo esprime il «fastidio per la rettorica liberalesca e la nausea per la grandiosità di parole e per gli apparati di qualsiasi sorta». Spirito realmente morale e dunque non moralista, politico quasi suo malgrado ma con una visione netta, Croce si chiese cosa fosse l'onestà, appunto, in politica. La risposta è secca: «L'onestà politica non è altro che la capacità politica: come l'onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». L'Italia ha appena vissuto un momento drammatico in cui sono approdati in parlamento uomini nuovi e interi movimenti che facevano vanto di non conoscere le istituzioni, di non essersi mai sporcati le mani con la gestione della cosa pubblica e di essere onestissimi. Risultato: una tragedia con punte di selvaggia ma involontaria comicità. Non meno importante è l'estetica crociana. Lo studioso aveva chiara un'idea che pare estranea a gran parte del mondo letterario di oggi: la critica militante non ha alcun senso se non è preceduta e accompagnata da una filosofia estetica. In caso contrario, presto o tardi, prestissimo nel caso italiano, diventa l'ancella del mercato e la sorella della pubblicità, un triste scambio di piaceri tra amici o un regolamento di conti tra bande, niente che possa convincere e stimolare un lettore. Per forza la critica non si fa più: è irrilevante, con le dovute eccezioni, e allora è meglio l'intrattenimento più o meno colto. Quando esisteva la cultura italiana, in un tempo che sembra spaventosamente lontano, si poteva procedere mettendosi in continuità con il maestro Croce oppure andare oltre il suo magistero senza contestarne la grandezza. Così fece, ad esempio, Gianfranco Contini rivendicando la critica delle varianti come integrazione (e superamento) della critica crociana. Altra epoca, altro spessore.

Un miraggio statalista abbaglia l’Occidente. Il nuovo libro di Rampini. DANILO TAINO su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022.

«Il lungo inverno» (Mondadori) di Federico Rampini critica il catastrofismo e difende le ragioni del mercato. Di fronte alla crisi sarebbe un errore pensare di imitare la Cina

Per frenare l’aggressività economica e politica cinese, l’Occidente deve diventare esso stesso più cinese? Accettare il terreno sul quale Pechino porta la sfida, cioè un capitalismo guidato dallo Stato (dal Partito comunista nel suo caso) e un sistema politico meno liberale? Nessuno dei governi democratici e a economia di mercato di America, Europa e Asia risponderà di sì esplicitamente. Ma i segni che la propensione a dare risposte centralistiche alla forte pressione del colosso autoritario asiatico sono ormai troppi per non legittimare il sospetto che la tendenza stia conquistando politici, intellettuali e parti di opinioni pubbliche.

Certo, negli ultimi anni la geopolitica ha preso il sopravvento sulle forze economiche, tecnologiche e culturali che hanno sostenuto la globalizzazione degli scorsi trenta-quaranta anni. E i sistemi aperti devono difendersi dagli attacchi dei sistemi autoritari, che vengano dalla Russia, dalla Cina, dall’Iran o da dittature minori. Ma mettere in discussione e offuscare i propri punti di forza — il libero mercato, la concorrenza, le garanzie contro le prevaricazioni della politica — non sarà la scelta vincente dell’Occidente in questo passaggio storico nel quale si decide molto del futuro del mondo. Al gioco del dirigismo vincono i dirigisti, non le società libere. Copiare politiche e metodi della Cina di Xi Jinping è in partenza una dichiarazione di sconfitta.

Nel suo nuovo scritto in libreria da martedì 8 novembre — Il lungo inverno. False apocalissi, vere crisi ma non ci salverà lo Stato, edito da Mondadori — Federico Rampini nota che, di fronte al disorientamento di questi nostri tempi, «alcuni di noi cercano un rifugio simile a quello offerto dai regimi autoritari: sempre più Stato, la protezione di una mano forte. Uno scivolamento verso modelli orientali, associato alla rivalutazione del dirigismo pubblico, è una risposta possibile: in parte già in atto. Sarà una soluzione peggiore del male?».

In effetti, il sottosopra nel mondo dell’energia di questi mesi ha spinto per esempio i governi di Germania e Francia a nazionalizzare imprese colpite dalla crisi: forse era necessario per non farle fallire. Ma la spinta verso un maggiore interventismo dello Stato nell’economia precede la guerra di Putin in Ucraina. Le politiche della concorrenza in Europa sono indebolite da tempo, su spinta di Berlino e Parigi, con la scusa di contrastare le imprese cinesi. Negli Stati Uniti, l’interventismo di Washington nel favorire alcuni settori economici rispetto ad altri non è lontano dalla pretesa dei burocrati di Pechino di sapere quale sarà il futuro della scienza e dell’innovazione.

Sono solo esempi ma il ritorno dello Stato al centro dell’economia è visibile ovunque. In parte motivato dalla necessità di dare risposte alla crisi da coronavirus e in parte costretto dall’invasione dell’Ucraina. Rampini, però, va oltre a questi eventi recenti e individua nel disorientamento in cui l’Occidente si dibatte le ragioni di questa ricerca di protezione da parte dello Stato. Ci sono crisi vere, indiscutibili — dice. Ma ci sono anche «false apocalissi, annunciate da profeti interessati a seminare paure». Il rischio è che questo caos politico e mentale ci porti in un «lungo inverno». E non è affatto solo di economia che Rampini tratta nel libro. C’è un triangolo al quale occorre guardare per capire le rotture storiche e i passaggi d’epoca, dice: energia, moneta, armi. Tre campi nei quali noi europei siamo in un ritardo straordinario: il che potrebbe rendere il nostro inverno ancora più buio.

L’autore è estremamente lucido nell’individuare e nell’analizzare le minacce che incombono sulle società aperte e la confusione psicologica e intellettuale nella quale si dibattono. Approfondisce la crisi energetica: nelle sue ragioni e nelle responsabilità di chi l’ha favorita. Entra in quel mondo contraddittorio e mai diventato Occidente che è la Russia. Studia l’inflazione che è tornata a impoverirci dopo decenni di prezzi stabili. Parla della Cina, dove ha vissuto da corrispondente, del suo miracolo economico ma anche delle sue notevoli debolezze interne ed esterne. Legge le guerre. Sempre con un approccio che rifiuta di adattarsi alle argomentazioni mainstream, fondate in genere sulle supposte responsabilità dell’Occidente e del capitalismo per i mali del mondo.

A proposito di apocalissi, per esempio, il capitolo dedicato ad «Alimenti e clima» nota che, cinquant’anni dopo il movimento che teorizzava i «limiti dello sviluppo», nessuno di chi lo ha sostenuto si è seriamente corretto e ha fatto autocritica nonostante le sue previsioni siano state smentite dalla realtà. E che «il fatto che non si siano avverate non ci ha guariti dal catastrofismo. Anzi». L’agricoltura, per dire, è in grado di sfamare l’umanità, a differenza di quanto si sostenne allora: i limiti non sono dati dalla capacità produttiva, ma semmai dai prezzi o da sciocchezze ideologiche. Tra i molti altri casi, Rampini ricorda anche quello dello Sri Lanka, isola finita in una crisi alimentare gravissima perché nel 2021 il governo vietò l’importazione di fertilizzanti chimici su spinta di consiglieri ultra-ambientalisti.

Rampini non è però disperatamente pessimista. Il modello dell’Occidente ha superato nei decenni crisi economiche, guerre, rivoluzioni: ne è sempre uscito più forte, ha creato sempre più benessere, ha prodotto libertà. Avrà la meglio «se non ammirerà chi lo odia».

L’analisi

S’intitola Il lungo inverno (Mondadori, pagine 240, euro 19) il nuovo saggio di Federico Rampini, che analizza i rischi a cui va incontro l’Occidente in una fase caratterizzata da molteplici crisi, alcune reali e altre gonfiate dagli annunciatori di catastrofi. Federico Rampini, nato a Genova nel 1956, è editorialista del «Corriere della Sera». In precedenza è stato vicedirettore del «Sole 24 Ore», editorialista, inviato e corrispondente de «la Repubblica». Ha insegnato alle Università di Berkeley, Shanghai, e alla Sda Bocconi. Tra i libri di Federico Rampini, tradotti in varie lingue: America (Solferino, 2022); Suicidio occidentale (Mondadori, 2022); L’impero di Cindia (Mondadori, 2006); Il secolo cinese (Mondadori, 2005)

La storia insegna: chi toglie la libertà è sempre comunista. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2022.

Si può fare una statistica ormai quasi secolare delle libertà violentate nel mondo. E da quella statistica spicca una verità senza rendiconto: vale a dire che quando c'è massacro di libertà, praticamente sempre c'è un comunista che lo compie, o lo nasconde, o lo giustifica. E mai, quando nel mondo le libertà sono state aggredite, mai il comunista si è posto a difenderle. Mai nel mondo il comunista ha combattuto il potere che di volta in volta reprimeva quelle libertà, se non per sostituirvisi impiantando un potere che a sua volta ne faceva sacrificio.

Sul grosso delle libertà sopraffatte nel mondo c'è la grinfia del comunista. C'è la censura del comunista a rendere impunita quella sopraffazione. C'è la propaganda del comunista a giustificarla. Non c'è solo l'aguzzino che a migliaia di chilometri da qui fa rogo di una iurta mongola piena di bambini: c'è anche il comunista di qui che contestualizza. Non ci sono solo i milioni di bambini denutriti nei paradisi del socialismo asiatico: c'è anche il comunista di qui che li oppone ai senzatetto di New York. Non c'è solo l'omosessuale con i testicoli spappolati nel carcere cubano: c'è anche il comunista di qui, con appeso il ritratto del "Che", che si leva a difesa dei diritti civili minacciati dal neoliberismo. Non c'è solo il male assoluto perpetrato in mezzo mondo da decenni di violenza comunista: c'è anche di chi quel male è patrono, procuratore, avvocato.

Siamo stato noi. Chi chiede più presenza dello Stato non sa quanto sia già invadente. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 3 Settembre 2022

La mancanza di produttività, il ritardo rispetto alle economie avanzate, la stagnazione trentennale degli stipendi non hanno un responsabile unico, ma molto è dovuto alle inefficienze dello statalismo: chi non ha il coraggio di ammetterlo è ancora lontano dalla soluzione

Bisognerebbe intendersi, quando si dice «più Stato». Intendersi, innanzitutto, sulla realtà del sistema da cui sale quell’invocazione. Si ammetterà, infatti, che se il sistema è il nostro, che fu della pummarola nazionalizzata ed è tutt’ora quello dell’impresa posseduta al quarantacinque percento dal potere pubblico (un dato senza eguali nelle economie di mercato), allora reclamare «più Stato» non significa cambiare registro ma usare esattamente lo stesso apponendovi altre poste dello stesso segno. 

Si può sostenere che occorra e che sia giusto, ma a patto di riconoscere – ed è questo che invece generalmente si rinnega, non solo a sinistra – che l’intestazione statale di altre quote di economia, di produzione, di commercio, di acquisizione in esclusiva monopolistica di attività altrove ragionevolmente lasciate alla concorrenza privata, interviene su un ordinamento già molto impostato nella medesima direzione.

Poi si tratta di riconoscere che è «più Stato» anche quello che si auto-limita, anche quello che pianifica e organizza le ragioni della propria astensione, della propria retrocessione da attività che meglio e a minor costo possono svolgere i privati. 

È «più Stato» quello che non lascia sottoposti all’arbitrio delle procure della Repubblica i cantieri e gli investimenti produttivi. È «più Stato» quello che sgrava l’economia dall’intermediazione parassitaria di burocrazie la cui inefficienza non è più neppure un difetto, ma esattamente una causa di giustificazione della propria esistenza: too bureaucratic to fail. 

È «più Stato» quello che imponendo troppi tributi e dovendo far giustizia sociale ne toglie qualcuno anziché aggiungere un sussidio. È «più Stato» quello che non protegge le imprese e i cittadini dalle brutture del mercato impiantando il mercato falso del calmiere, del dazio, dell’esenzione, cioè le misure che spostano in là, aggravandolo, il rendiconto. 

È «più Stato» quello che non pretende di garantire il decoro e le efficienze delle professioni tramite gli Ordini professionali. È «più Stato» quello che rinuncia a garantire la sanità pubblica rendendola obbligatoria. È «più Stato» quello che fa scaricare dalle tasse l’acquisto di un libro rispetto a quello che precetta le scuole all’organizzazione della Giornata contro l’omotransfobia.

Infine, si tratterebbe di intendersi su questo: il tanto di Stato che abbiamo (poco o tanto, a seconda dei punti di vista), è sì o no responsabile della nostra mancanza di produzione, del nostro posizionamento di coda tra le economie avanzate, dello stazionamento trentennale e anzi della recessione del livello di reddito individuale? Rispondere no, suppone che si spieghi perché. Che si spieghi perché il tanto Stato che abbiamo non abbia responsabilità, per la quantità del proprio esserci, in relazione ai problemi che abbiamo. Che si spieghi perché quei problemi sarebbero invece prodotti dalla porzione minoritaria del non esserci dello Stato.

Keynes e l'idealismo dell'economia creativa. Stenio Solinas il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

Nella biografia del grande studioso inglese troviamo la storia del '900 scandita dalle differenti dottrine.

Nel 1944 l'inglese John Maynard Keynes si mise in viaggio per Bretton Woods, negli Stati Uniti. Qui le potenze destinate a uscire vincitrici dalla Seconda guerra mondiale avevano in programma un vertice nel quale delineare i futuri destini economici e politici. Era ormai arrivata l'estate, Keynes era malato di cuore, l'idea di trascorrere anche solo pochi giorni oltreoceano, magari a Washington, era superiore alle sue forze. «Portarci lì a luglio non sarebbe sicuramente un gesto d'amicizia» fece sapere da Londra. Era ancora un mondo senza aria condizionata...

Settecentotrenta delegati, per quattordici delegazioni significava almeno il doppio in termini di personale operativo, senza tener conto di una pletora di giornalisti, almeno cinquecento, di cui si paventava la chiassosità e l'esuberanza alcolica. Scartata la capitale, nonché un resort nello Stato dell'Indiana che non dava garanzie di sicurezza, un senatore del New Hampshire, Charles Toby, che faceva parte della delegazione Usa, suggerì il Mount Washington Hotel, in una remota valle delle Montagne Bianche: chiuso da un paio d'anni, ma a lungo un gioiello della hotellerie made in Usa, aveva 350 camere, mille finestre, duemila porte... In fretta e furia venne riadattato per l'occasione, ma Lidija Lopuchova, l'ex ballerina di Diaghilev che Keynes aveva sposato vent'anni prima, restò inorridita non appena vi mise piede: «I rubinetti perdono tutto il giorno, le finestre non si chiudono né si aprono, i tubi aggiustati si rirompono e non si riesce ad andare da nessuna parte» scrisse alla madre di Maynard.

Ancora bella e sempre comunque russa, Lidija tutte le mattine faceva il bagno nuda nelle acque del vicino fiume Ammonoosuc e quando era il marito a presiedere i lavori ogni tanto entrava nella sala e provvedeva a fargli un massaggio cardiaco. La delegazione russa, che aveva una vasta componente femminile, decise di attestarsi al fianco del Rosebrok Bar: ai primi raggi del sole le «compagne» si mettevano in costume da bagno ed era difficile schiodarle da lì. Alcuni membri della delegazione cinese decisero invece, al secondo giorno, di esplorare i sentieri che dall'albergo portavano alle cime, alte sino a duemila metri. Dopo qualche ora furono visti tornare, sorvegliati a vista da montanari armati: erano stati presi per paracadutisti giapponesi... C'erano poliziotti in servizio all'ingresso, gruppi di boy scout facevano da collegamento fra i congressisti, ogni due per tre una delegazione offriva un rinfresco alcolico per ammorbidire la posizione della delegazione ritenuta contraria... Una sera Keynes e la moglie si ritrovarono a cantare Sul bel Danubio blu agli ospiti della lounge, accompagnati al pianoforte da E.H. Brooks, membro della delegazione britannica.

Al di là del folclore, del caos, dell'improvvisazione e del pressapochismo di molti delegati, Keynes sapeva che Bretton Woods era un'occasione storica, ma che per giungere a un risultato che non fosse fallimentare ci voleva molta pazienza, nonché molta intelligenza. Della seconda ne aveva in abbondanza, della prima molto meno. Per fare un solo esempio delle difficoltà a trovare una linea comune, basterà dire che il segretario della delegazione Usa, Henry Morghentau jr., avrebbe voluto una Germania postbellica agricolo-pastorale, mentre il suo assistente Harry White voleva tirar dentro l'Urss a scapito dell'Inghilterra e l'Urss non ci stava a vedere gli Stati Uniti fare economicamente la parte del leone. Quanto a Keynes, voleva il bancor (la valuta internazionale da lui ideata) al posto del dollaro, detestava il linguaggio tecnico e il legalismo guardingo dei suoi colleghi americani. «Scrivono in cherokee» diceva.

Oltre a essere l'economista più famoso dell'epoca, Keynes aveva un'arma in più rispetto agli altri convegnisti presenti a Bretton Woods. Era l'unico ad aver vissuto in prima persona e da posizione privilegiata le trattative di Versailles con cui si era conclusa la Prima guerra mondiale. Ed era stato il suo libro Le conseguenze economiche della pace a predire che gli accordi finanziari di quel trattato avrebbero portato l'Europa alla rovina economica, alla dittatura, alla guerra.

All'epoca di Versailles, Keynes era un trentacinquenne uomo di mondo, cresciuto a Cambridge, amico di Bertrand Russell come di Ludwig Wittgenstein, esponente di quel «gruppo di Bloomsbury» dove, fra Virginia Woolf e Lytton Strachey, si concentrava il meglio del peggior snobismo made in England: intellettualismo di altissima caratura, promiscuità sessuale tanto disinvolta quanto sofferta (gelosie, pettegolezzi, invidie), classismo mascherato da afflati umanitari, bullismo etico e estetico nei confronti di chi del gruppo non faceva parte, disinteresse per le vili questioni di denaro, dovuto anche al fatto che, in linea di massima, nessuno dei suoi membri doveva veramente guadagnarsi da vivere... Era una sorta di serra artificiale in cui si fioriva stando ben attenti a non contaminarsi con l'esterno, pena l'appassire dei suoi virgulti.

In Il prezzo della pace, la bella quanto particolare biografia che Zachary D. Carter ha dedicato alla vita di Keynes e che ora Neri Pozza pubblica in italiano (pagg. 622, euro 28, traduzione di Leonardo Clausi), l'autore mette bene in chiaro i tanti paradossi che ne accompagnarono l'esistenza: «Un burocrate che aveva sposato una ballerina; un omosessuale il cui più grande amore era una donna; un fedele servitore dell'impero britannico che inveiva contro l'imperialismo; un internazionalista che aveva assemblato l'architettura intellettuale per il moderno Stato-nazione; un economista che mise in discussione i fondamenti dell'economia».

«Particolare biografia» ho scritto prima. Perché in realtà Carter, attraverso Keynes costruisce qualcosa di più e di diverso, un resoconto straordinariamente informato della storia economica del Ventesimo secolo, protezionisti e liberoscambisti, mercatisti e monetaristi, teorici dell'intervento statale e teorici del liberismo senza se e senza ma, su su fino alla finanza globale del nuovo secolo e ai fallimenti economici che lo hanno punteggiato. Una cavalcata complessa per chi magari della materia è un neofita, ma comunque affascinante e al termine della quale viene da dire che così come la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai generali, lo stesso vale per l'economia e gli economisti...

Tornando a Bretton Woods, sia pure a prezzo di fatiche e di rinunce Keynes riuscì a orchestrare il sistema internazionale, Fondo monetario e Banca mondiale, che da lì sino agli anni Settanta avrebbe tenuto banco. Nel viaggio di ritorno a Washington in treno, Keynes svenne nel vagone ristorante e il successivo trasbordo sul Queen Mary rischiò di trasformarsi in funerale e il piroscafo nella cassa da morto. Testardamente riuscì a morire in patria, nella Pasqua di quello stesso anno, e nel suo necrologio il Times lo definì «il più grande economista dopo Adam Smith».

Per Kynes, scrive Zachary D. Carter, «l'economa era nella migliore delle ipotesi un campo di regole pratiche, tendenze e modelli suscettibili di mutamento». La scuola di pensiero cui diede vita cercava di combinare la spesa statale per lavori pubblici e salute pubblica «con una tassazione distributiva per aumentare le domande dei consumatori, creando nel contempo un ambiente in cui potesse prosperare la grande arte». Credeva che alla fine «le buone idee avrebbero trionfato sulle cattive», il che era ammirevole, ma anche tragicamente ingenuo. Eppure, conclude Carter, «ci ritroviamo con Keynes, non solo perché i deficit possono consentire una crescita sostenuta o perché il tasso d'interesse è determinato dalla preferenza per la liquidità, ma perché siamo qui, ora, senza un posto dove andare se non il futuro. Nel lungo periodo siamo tutti morti. Ma nel lungo periodo quasi tutto è possibile».

Marx è andato a vivere a New York. Marcello Veneziani 

La Verità ha riproposto uno stralcio dal libro-antologia di Karl Marx Contro la Russia, che le edizioni de Il Borghese pubblicarono per primi negli anni settanta. Ma c’è un’integrazione essenziale, e attualissima, da fare: in queste pagine emerge il Marx filo-americano, persuaso che il suo pensiero radicale potesse meglio attecchire in una società nuova, moderna, priva di storia, radici e tradizione come gli Stati Uniti. Non a caso questi scritti furono pubblicati tra il 1858 e il 1861, sul New York Tribune, poi raccolti dalla figlia Eleanor con il titolo The eastern question; articoli antirussi, filoamericani, occidentalisti, che auspicavano l’avvento del mercato libero globale e del pensiero radicale. Per la rivoluzione comunista Marx non pensava alla Russia zarista ma all’America descritta da Tocqueville, che era poi l’espansione “giovanile“ dell’Inghilterra, da Marx non a caso eletta a sua residenza, rispetto alla natia Treviri, in Germania.

Marx è il filosofo che più ha inciso nella storia del ‘900 attraverso la tragedia mondiale del Comunismo. Poi tramontò nel fallimento del comunismo, precipitò con l’impero sovietico, sopravvisse ibrido nella Cina mao-capitalista. Ma fu davvero archiviato? Da anni sostengo la tesi opposta che esposi in Imperdonabili.

Il marxismo separato dal comunismo è lo spirito dominante dell’Occidente. Scrive Marx nel Manifesto: “Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a osservare con occhio disincantato la propria posizione e i reciproci rapporti”. E’ la prefigurazione della nostra epoca volatile e mondialista. Il marxismo fu il più potente anatema scagliato contro Dio e il sacro, la patria e il radicamento, la famiglia e i legami con la tradizione, la natura e i suoi limiti. Fu una deviazione la sua realizzazione in paesi premoderni come la Russia e la Cina, la Cambogia o Cuba. Il marxismo non si è realizzato nei paesi che hanno subito il comunismo, dove invece ha fallito e ha resistito attraverso l’imposizione poliziesca e totalitaria; si è invece realizzato nel suo spirito laddove nacque e a cui si rivolse, nell’Occidente del capitalismo avanzato. Non scardinò il sistema capitalistico ma fu l’assistente sociale e culturale nel passaggio dalla vecchia società cristiano-borghese al neocapitalismo nichilista e globale, dal vecchio liberalismo al nuovo spirito radical. Marx definisce il comunismo: “è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. E’ lo spirito radical del nostro tempo, cancel e correct.

Nell’Ideologia tedesca, Marx dichiara che il fine supremo del comunismo “è la liberazione di ogni singolo individuo” dai limiti e dai legami locali e nazionali, famigliari, religiosi, economici. Non le comunità ma gli individui. Il giovane Marx onora un solo santo e martire nel suo calendario: Prometeo, liberatore dell’umanità. Padre dell’Occidente faustiano e irreligioso, proteso verso la volontà di potenza.

Il giovane Marx auspica nei Manoscritti economico-filosofici l’avvento dell’ateismo pratico. E nella Critica della filosofia del diritto di Hegel scrive: “La religione è il sospiro della creatura oppressa…essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire poterne esigere la felicità reale”. Liberandoci da Dio e dalla religione per Marx ci liberemo dall’alienazione e conquisteremo la felicità terrena. La società di oggi, atea ma depressa, irreligiosa ma alienata, smentisce la promessa marxiana di liberazione. L’utopia di una società “libertina”, dove ciascuno svolge la sua attività quando “ne ha voglia”, che abolisce ogni fedeltà e introduce “una comunanza delle donne ufficiale e franca”, fa di Marx un precursore della società permissiva. Il principio ugualitario perde la sua carica profetica e si realizza in negativo come uniformità e negazione dei meriti, delle capacità e delle differenze.

La società capitalistica globale ha realizzato le principali promesse del marxismo, seppur distorcendole: nella globalizzazione ha realizzato l’internazionalismo contro le patrie; nell’uniformità e nell’omologazione standard genera uguaglianza e livellamento universale; nel dominio globale del mercato ha riconosciuto il primato mondiale dell’economia sostenuto da Marx; nell’ateismo pratico e nell’irreligione ha realizzato l’ateismo pratico marxiano e la sua critica alla religione; nel primato dei rapporti materiali, pratici e utilitaristici rispetto ai valori spirituali, morali e tradizionali ha inverato il materialismo marxiano; nella liberazione da ogni legame naturale e da ogni ordine tradizionale ha realizzato l’individualismo libertino di Marx, liberato dai vincoli famigliari e nuziali. E come Marx voleva, ha realizzato il primato dell’azione sul pensiero. Lo spirito del marxismo si realizza in Occidente, facendosi ideologicamente radical, economicamente liberal, geneticamente modificabile.

L’ultima frontiera del marxismo si ritrova nelle porte aperte agli immigrati, dove un nuovo proletariato, sradicato dai paesi d’origine, sostituisce le popolazioni d’occidente, a sua volta sradicate. La lotta di classe cede alla lotta antisessista, antinazionalista e antirazzista. La difesa egualitaria dei proletari cede alla tutela prioritaria delle minoranze dei “diversi”.

Il marxismo vive sotto falso nome ma si muove a suo agio nella società global made in Usa; un marxismo al ketch-up, transgenico. Marx con passaporto americano sembra strizzare l’occhio ai dem di Biden. Noi ci attardiamo da anni a celebrare il suo funerale; ma è un caso di morte apparente. La Verità (21 aprile 2022)

Il richiamo della foresta. Augusto Minzolini il 3 Luglio 2022 il 3 Luglio 2022 su Il giornale.

I segnali si moltiplicano. E gli autori o i potenziali leader di un ipotetico nuovo soggetto di sinistra spuntano come funghi

I segnali si moltiplicano. E gli autori o i potenziali leader di un ipotetico nuovo soggetto di sinistra, massimalista, anti-sistema, anzi com'è tradizione anti-tutto, spuntano come funghi. Maurizio Landini mette a disposizione la Cgil come serbatoio per l'esperimento. Michele Santoro la sua popolarità televisiva e il suo bagaglio di esperienze di quarant'anni passati ad aizzare le piazze. In mezzo c'è anche chi dovrebbe portare i voti se li ha ancora, quel Don Chisciotte di Giuseppe Conte, leader dimezzato dei 5stelle, con accanto Marco Travaglio suo novello Sancio Panza che gli sussurra all'orecchio consigli di vita: è lui che dovrebbe accendere la miccia mandando a casa il governo Draghi solo che ha il problema di non poco conto di dover convincere i ministri grillini a lasciare il posto. Mission impossible. E poi, ancora, i tanti che in passato, a vario titolo, hanno fatto parte di quel caravanserraglio dall'ex-sindaco di Napoli De Magistris ad Antonio Ingroia, entrambi ex-magistrati fuori servizio, e l'immancabile Vauro.

È come un richiamo della foresta. L'inflazione vola causa la crisi energetica, le aziende sono in difficoltà, l'economia non tira, il carrello della spesa costa sempre di più e si preannuncia un autunno caldo, bollente come la siccità estiva. E allora l'allegra combriccola, i populisti di oggi che hanno lo stesso dna dei comunisti di ieri, annusa l'aria e pensa che ci siano le condizioni favorevoli per aprire un nuovo ciclo. Pardon per ritornare al passato. In fondo se siamo tornati all'inflazione del 1986 perché non ci dovrebbero essere gli stessi eroi, gli stessi mondi a guidare gli arrabbiati. Il primo successo di Santoro televisivo con la trasmissione Samarcanda è datato 1987, per cui ci siamo. E in fondo il pacifismo degli anni 80 inneggiava a Breznev e all'Unione Sovietica quando sfilava contro gli euromissili come quello del 2022, cinquant'anni dopo, guarda a Putin e alla Russia.

Si può scommettere che anche se cambiano le «crisi» le ricette di questo mondo saranno le stesse di tanti anni fa. Tributi su tributi perché la proprietà privata per loro è un reato. Il punto vero è che alla base della crisi di oggi ci sono proprio i programmi, sarebbe meglio dire gli slogan, di questa agorà che condiziona da sempre la sinistra (all'ultimo evento della Cgil erano presenti tutti, da Fratoianni, passando per Conte, fino a Calenda, tranne Renzi che forse di sinistra non è più). La crisi energetica che ci ha messo alla mercè della Russia è il risultato di un ambientalismo ideologico propugnato nel tempo da Santoro, grillini e compagni, che ci ha paralizzato per decenni. Le politiche del lavoro targate Cgil hanno creato nel nostro Paese una situazione paradossale: ci sono tanti disoccupati, il reddito di cittadinanza, ma anche tante offerte di lavoro che non trovano risposte. Non parliamo poi delle infrastrutture: tra autorizzazioni e regolamenti per realizzare un'opera pubblica ci vogliono tempi biblici. Insomma, la crisi che ci sta arrivando addosso oggi, nasce da politiche che non sono state fatte ieri. Il motivo? Perché i massimalisti che rispondono al richiamo della foresta della crisi, sono gli stessi che hanno bloccato il Paese per anni. Sono quelli che trovano un ruolo, un habitat nelle crisi. Che si cibano delle crisi. Come gli stregoni che ballavano la danza della pioggia a cui però capitava anche di essere travolti dalla tempesta.

Economia pianificata. Le affinità tra Hitler e Stalin sulla proprietà privata e le nazionalizzazioni. Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 2 Luglio 2022.

Nel suo nuovo libro, Rainer Zitelmann analizza il pensiero economico e socio-politico del dittatore tedesco che durante il regime nazista sottolineò quanto disporre dei propri beni non era in alcun modo un affare privato degli industriali. E tollerava la proprietà individuale solo se utilizzata nella cornice di obiettivi stabiliti dallo Stato 

Rispondere alla domanda sulla posizione di Hitler sulla proprietà privata e sulle nazionalizzazioni appare piuttosto semplice. In genere si ritiene che Hitler riconoscesse la proprietà privata dei mezzi di produzione e rifiutasse la nazionalizzazione. Ma fermarsi qui, come si fa di solito, significherebbe essere superficiali, perché questa affermazione è troppo generica e lascia aperte troppe domande. Nel mio nuovo libro Hitler’s National Socialism, analizzo il pensiero economico e socio-politico del dittatore.

In un articolo sul sistema economico del nazionalsocialismo pubblicato nel 1941, l’economista e sociologo Friedrich Pollock (cofondatore dell’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte, che in seguito divenne il nucleo della Scuola di Francoforte) sottolineava quanto segue: «Sono d’accordo sul fatto che l’istituto giuridico della proprietà privata sia stato mantenuto e che molti tratti caratteristici del nazionalsocialismo comincino a manifestarsi, sia pure in modo ancora vago, in Paesi non totalitari. Ma questo significa che la funzione della proprietà privata non è cambiata? È vero che l’aumento del potere di pochi gruppi è il risultato più importante del cambiamento avvenuto in Germania? Io credo che sia molto più profondo e che debba essere descritto come la distruzione di tutti i tratti essenziali della proprietà privata, con una sola eccezione. Anche alle imprese più potenti fu negato il diritto di aprire nuove attività in settori in cui si aspettavano maggiori profitti, o di interrompere una linea di produzione quando questa diventava poco redditizia. Questi diritti furono trasferiti in toto ai gruppi al potere. Il compromesso tra i gruppi al potere determinava inizialmente l’estensione e la direzione del processo produttivo. Di fronte a una tale decisione, il titolo di proprietà è impotente, anche quando si basa sul possesso della stragrande maggioranza del capitale sociale, figuriamoci poi quando ne possiede solo una minoranza».

Come sappiamo, il metodo di Hitler raramente consisteva nella radicale eliminazione di un’istituzione o di un’organizzazione. Viceversa, egli continuava a corroderne la sostanza fino a che non rimaneva pressoché nulla della sua funzione o del suo contenuto originari. Solo per amore dell’analogia, dobbiamo osservare che neppure la Costituzione di Weimar venne mai formalmente abrogata: la sua sostanza e il suo intento vennero indeboliti poco a poco e, infine, all’atto pratico eliminati.

Nei discorsi pronunciati agli esordi, Hitler propugnava la nazionalizzazione della terra, ma, in linea di principio, si dichiarava ancora favorevole alla proprietà privata. Come appare evidente dalle note di Otto Wagener, lo scetticismo di Hitler in materia di nazionalizzazione derivava dalle sue convinzioni darwinistico-sociali. Otto Wagener, capo del Dipartimento di Politica Economica della NDSAP (il partito nazista) dal gennaio 1931 al giugno 1932 e che rivestiva il ruolo di consigliere politico di Hitler, riporta che nel 1930 il futuro Führer aveva dichiarato «A questo proposito, mi sembra che l’intero concetto di nazionalizzazione, nella forma che è stata sperimentata e richiesta finora, sia erroneo e sono giunto alla medesima conclusione di Herr Wagener. In qualche modo, dobbiamo applicare a tale questione un processo di selezione. Se vogliamo addivenire ad una soluzione naturale, sana e soddisfacente del problema, [è necessario] un processo di selezione di quei soggetti aventi titolo – e ai quali sia permesso – di vantare pretese e far valere il diritto di proprietà sulle aziende del Paese».

D’altro canto, in numerose occasioni Hitler sottolineò con forza che come disporre dei propri beni non era in alcun modo un affare privato degli industriali. Il 9 ottobre del 1934, ad esempio, egli dichiarò: «Pertanto la ricchezza, in particolare, non solo comporta maggiori possibilità di godimento, ma soprattutto maggiori responsabilità. L’idea che l’uso di una fortuna, non importa quanto grande, sia esclusivamente una questione privata dell’individuo dev’essere corretta, a maggior ragione nello Stato nazional-socialista, giacché, senza il contributo della comunità, nessun individuo sarebbe mai stato in grado di godere di un tale beneficio».

Per Hitler, il mantenimento formale della proprietà privata non era importante. Una volta che lo Stato ha un diritto illimitato di stabilire le decisioni dei proprietari dei mezzi di produzione, l’istituto giuridico formale della proprietà privata non ha più significato. È questo che afferma Pollock quando individua «la distruzione di tutti i tratti essenziali della proprietà privata, con una sola eccezione». Dal momento in cui i proprietari dei mezzi di produzione non possono più decidere liberamente il contenuto, l’occasione e l’entità dei loro investimenti, le caratteristiche essenziali della proprietà privata sono abolite, anche se rimane un a garanzia formale del diritto di proprietà.

Nei suoi colloqui a tavole del 3 settembre 1942 Hitler affermò che la terra era «proprietà nazionale e, in definitiva, concessa agli individui solo in prestito». Hitler riconosce la proprietà privata solo nella misura in cui essa viene utilizzata in accordo con il principio del beneficio comune prima del beneficio privato, il che significa, in concreto, solo nella misura in cui essa viene utilizzata nella cornice di obiettivi stabiliti dallo Stato. Per Hitler, il principio di “beneficio comune prima del beneficio privato” significa che, se risulta necessario per l’interesse collettivo, lo Stato ha sempre il diritto di decidere il modo, l’entità e il momento dell’uso della proprietà privata, mentre l’interesse collettivo, ovviamente, è definito dallo Stato stesso.

Nel maggio 1937 Hitler dichiarò: «Dico all’industria tedesca, ad esempio: “adesso dovete produrre questo e quello”, dopo di che ritorno su questo punto nel Piano Quadriennale. Se l’industria tedesca dovesse replicare “non possiamo farlo”, allora risponderei: “Benissimo, assumerò io il controllo delle vostre officine, ma dev’essere fatto”. Ma se l’industria mi dice “lo faremo”, allora sono ben lieto di non dover assumerne il controllo».

Che queste affermazioni di Hitler non fossero vuote minacce divenne chiaro agli industriali già il 23 luglio 1937, quando Göring annunciò la formazione della “SpA per l’Estrazione Mineraria e Fusione della Ghisa Hermann Göring”. Il processo avviato con le ripetute minacce di Hitler e di Göring condusse infine alla creazione delle Reichswerke [Industrie del Reich] Hermann Göring, che nel 1940 impiegavano 600.000 persone. La fabbrica di Salzgitter sarebbe diventata la più grande d’Europa. In tal modo lo Stato nazional-socialista aveva dimostrato che il più volte proclamato “primato della politica” era una cosa seria e che non avrebbe esitato ad avviare attività e costruire imprese controllate dallo Stato ogniqualvolta l’industria privata avesse opposto resistenza alle direttive statali. In occasione di una conversazione tenuta il 14 febbraio 1942 con Josef Goebbels sul problema dell’aumento della produzione, Hitler ebbe a dire: «…qui dobbiamo procedere rigorosamente, che l’intero processo di produzione debba essere riesaminato e che gli industriali che non vogliono assoggettarsi alle direttive che emaniamo dovranno perdere le loro fabbriche, senza curarci del fatto che ciò possa causare la loro rovina economica».

Il modello di Hitler: Stalin e la sua economia pianificata

I nazional-socialisti intendevano espandere l’economia pianificata anche nel periodo successivo alla guerra, come sappiamo da numerosi commenti di Hitler. Al trascorrere del tempo, l’ammirazione del Führer per il sistema economico sovietico crebbe. «Se Stalin avesse continuato nella sua opera per altri dieci o quindici anni – ebbe a dire Hitler ad un gruppo ristretto di ascoltatori nell’agosto del 1942 – la Russia sovietica sarebbe diventata la nazione più potente sulla terra, per centocinquanta, duecento, trecento anni, tanto è unico questo fenomeno! Che il livello di vita si sia accresciuto, non c’è dubbio. Il popolo non ha patito la fame. Tutto considerato, dobbiamo dire: hanno costruito fabbriche dove due anni fa non c’era nient’altro che villaggi sperduti, fabbriche grandi quanto le Industrie Hermann Göring».

In un’altra occasione, sempre parlando alla cerchia dei collaboratori più stretti, egli affermò che Stalin era «un genio», nei confronti del quale si doveva avere un «rispetto indiscusso», particolarmente in considerazione della vasta pianificazione economica che aveva guidato. Hitler aggiunse di non avere il minimo dubbio che nella Russia sovietica, a differenza dei paesi capitalisti come gli Stati Uniti, non è mai esistita la disoccupazione.

In diverse occasioni il dittatore tedesco osservò in presenza dei propri collaboratori che sarebbe stato necessario nazionalizzare le società per azioni più grandi, il settore dell’energia e tutti gli altri rami dell’economia che producevano “materie prime essenziali” (ad esempio, l’industria siderurgica). Ovviamente, in tempo di guerra non era il momento più opportuno per attuare nazionalizzazioni radicali di questa portata. Hitler e i nazional-socialisti ne erano ben consapevoli e, in ogni caso, avevano fatto tutto il possibile per calmare i timori per le nazionalizzazioni degli uomini d’affari del paese. Ad esempio, nell’ottobre 1942 un memorandum di Heinrich Himmler, il capo delle SS, afferma che «finché dura la guerra» non sarebbe stato possibile un cambiamento fondamentale dell’economia capitalistica tedesca.

Chiunque si fosse battuto contro di essa avrebbe suscitato “una vera e propria caccia alle streghe” ai suoi danni. In un rapporto preparato nel luglio 1944 da un Hauptsturmführer (grado paramilitare equivalente a capitano) delle SS, alla domanda «Perché le SS sono impegnate in attività economiche?» si rispondeva «Questa domanda è stata specificamente sollevata da circoli che pensano esclusivamente nei termini del capitalismo e che non amano assistere allo sviluppo di aziende pubbliche, o quanto meno aventi una natura pubblica. L’epoca del sistema economico liberale imponeva il primato degli affari, vale a dire, prima vengono gli affari, poi lo Stato. Al contrario, il Nazional-Socialismo sostiene la posizione opposta: lo Stato dirige l’economia, lo Stato non è qui per le aziende, ma le aziende sono qui per lo Stato».

Mises: «Socialismo con l’aspetto esteriore del capitalismo»

Era in questi termini che Hitler e il Nazional-Socialismo vedevano l’essenza del sistema economico che avevano instaurato, come avevano ben compreso studiosi attenti come l’economista Ludwig von Mises. Incidentalmente, egli giunse alla medesima conclusione dell’economista di sinistra Friedrich Pollock che abbiamo visto poc’anzi. Il 18 giugno 1942 von Mises inviò una lettera al New York Times nella quale, più chiaramente di tanti dei suoi contemporanei e, soprattutto, più chiaramente di tanti autori che scrivono oggi in materia di nazional-socialismo, egli riconosceva che «il modello di socialismo tedesco (Zwangswirthschaft) è contraddistinto dal fatto di conservare, sia pure solo nominalmente, alcune istituzioni del capitalismo.

Il lavoro, ovviamente, non è più “una merce”; il mercato del lavoro è stato solennemente abolito; lo Stato stabilisce i salari e assegna a ciascun lavoratore il posto che deve occupare. La proprietà privata, in teoria, è stata mantenuta. Di fatto, tuttavia, alcuni imprenditori sono stati ridotti alla condizione di capireparto (Betriebsführer). Lo Stato dice loro cosa devono produrre e in che modo, da chi ottenere forniture e a quali prezzi, così come a chi vendere a quali prezzi.

Le aziende possono presentare rimostranze in occasione di decisioni inopportune, ma la decisione finale rimane nelle mani delle autorità … Gli scambi di mercato e l’imprenditorialità, pertanto, non sono che una facciata. Lo Stato, non la domanda da parte dei consumatori, dirige la produzione; lo Stato, non il mercato, stabilisce il reddito e le spese di ciascun individuo. Si tratta di socialismo con l’apparenza esteriore del capitalismo: pianificazione ovunque e controllo totale di tutte le attività economiche da parte dello Stato. Alcune delle etichette dell’economia capitalistica di mercato sono state conservate, ma esse significano qualcosa di completamente diverso da quello che indicherebbero in un’autentica economia di mercato».

Come sappiamo dalle dichiarazioni di Hitler, una volta terminata la guerra egli si sarebbe voluto spingere ulteriormente verso un’economia diretta dallo Stato. Nei monologhi diretti al circolo dei collaboratori più intimi (le cosiddette “conversazioni a tavola”) e tenuti il 27 e 28 luglio 1941, Hitler affermò che «un impiego sensato delle risorse di un. paese può essere realizzato esclusivamente in un’economia diretta dall’alto». Più o meno due settimane dopo egli aggiunse: «Per quanto riguarda la pianificazione dell’economia, siamo a mala pena agli inizi e immagino che sarà meraviglioso costruire un ordine economico tedesco ed europeo che comprenda tutto».

·        Il Capitalismo.

Il capitalismo salverà il mondo. Storia di Alberto Giannoni su Il Giornale il 13 dicembre 2022.

Non saranno gli ambientalisti a salvare il mondo. Ammesso - e non concesso - che il nostro pianeta corra un pericolo di vita imminente, e che quindi debba essere urgentemente sottratto alla morte certa per autodistruzione, non sarà la sinistra apocalittica a farlo, sottraendolo alle «grinfie» dell'uomo occidentale, egoista per definizione. Oggi si capirà qualcosa in più sulle prospettive della fusione nucleare: il dipartimento dell'energia Usa spiegherà in una attesissima conferenza stampa come gli scienziati sono stati in grado, per la prima volta nella storia, di produrre - senza emissioni e con pochi costi - un esperimento che genera più energia di quella necessaria per innescarla. Oggi si saprà qualcosa in più, si capiranno tempi e modi di questa nuova rivoluzione copernicana. Eppure già l'annuncio evoca suggestioni, e dà ragione alle prediche solitarie degli ambientalisti liberali. Non saranno i «no» a salvare il Pianeta, non saranno i vincoli, le crociate verdi, le tentazioni luddiste che si accaniscono - per esempio - sulle auto e gli automobilisti.

In Italia abbiamo di fronte i guasti di un ambientalismo ideologico, nato con il «no» al nucleare e poi irrigiditosi, stritolato dall'abbraccio mortale della sinistra neocomunista, sempre più rosso dentro mentre si dava appena una manata di verde fuori. Non saranno il catastrofismo e la burocrazia occhiuta dei divieti ideologici a darci una speranza. Sarà invece la tecnologia, il suo continuo sviluppo, che si nutre anche di denaro privato, sarà la modernità, la ricerca scientifica, probabilmente quella che viene condotta nei laboratori - non necessariamente pubblici - della esecrata società capitalista e di mercato, magari americana, più detestata che mai da una sinistra antagonista che ha pensato di riscoprire nell'ambientalismo le ragioni della sua antica ostilità per il mercato, presentato come la giungla di un consumismo immancabilmente «sfrenato». Al contrario di quanto sostiene la narrazione imperante anche sui media, il mercato è il luogo in cui tutto si autoregola naturalmente, anche l'eventuale avidità dell'individuo, e il mercato oggi premia l'attenzione al Pianeta. Liberando l'ambientalismo dall'ipoteca ideologica della sinistra, si scoprirà dunque che non avevano poi torto gli anarco-capitalisti, che volevano «privatizzare il chiaro di luna».

Laburista a chi? Se la destra attacca i poveri, la sinistra non dovrebbe difendere la povertà. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 25 Novembre 2022.

Il modo in cui il Partito democratico si sta accodando a Conte nella battaglia sul reddito di cittadinanza è un altro segno dell’egemonia grillina

A giudicare dai toni e soprattutto dal lessico con cui il Partito democratico sembra deciso a schierarsi in difesa del reddito di cittadinanza, si direbbe che il Movimento 5 stelle abbia già vinto la battaglia decisiva per l’egemonia a sinistra.

Ci sono naturalmente mille buoni motivi per contestare le scelte del governo, ma dal momento in cui dichiara di voler sostituire il reddito di cittadinanza con una norma mirata al sostegno alla povertà, sarebbe forse il caso di incalzarlo sul merito e di impegnarsi per incidere sul modo in cui tale provvedimento sarà disegnato, non foss’altro perché questa è stata esattamente la posizione del Partito democratico, per anni, almeno fino al 2019.

Inutile rifare ancora una volta tutto l’elenco delle scelte che i dirigenti del Pd si sono rimangiati pur di inseguire Giuseppe Conte, persino su una riforma costituzionale contro la quale avevano votato ben tre volte in Parlamento (il taglio dei seggi). Inutilissimo ricordare cosa dicevano del reddito di cittadinanza fino al 2018, o per essere più precisi fino al 5 settembre 2019 (giorno in cui è entrato in carica il secondo governo Conte, fondato sull’alleanza Pd-M5s).

Interessante è invece lo slittamento lessicale e culturale, per non dire ideologico, che si riscontra nel modo in cui tanti esponenti del Pd, e specialmente della sua ala sinistra (stavo quasi per dire «laburista»), denunciano l’attacco ai poveri, la caccia ai poveri, la crociata contro i poveri del governo Meloni, rappresentata dalla scelta di cancellare il reddito di cittadinanza.

È naturale che i politici di oggi non si esprimano come i partiti comunisti, socialisti e socialdemocratici del secolo scorso (e risultano anzi grotteschi quando lo fanno), tuttavia c’era una ragione se quei partiti parlavano di proletariato, classe operaia, classi popolari, ma raramente di poveri. E non certo perché nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta non ci fossero poveri e non ci fosse un problema sociale legato alla povertà diffusa, ben più grave di adesso.

C’era però l’idea che obiettivo della politica, e in particolare di quei partiti, dovesse essere l’emancipazione, attraverso la partecipazione e attraverso il lavoro. Di qui l’articolo uno della Costituzione, l’idea cioè del lavoro – non del reddito – come fondamento della cittadinanza.

Una vecchia frase fatta dice che la sinistra dovrebbe combattere la povertà, non la ricchezza. Un’altra frase fatta, non meno diffusa, dice che la destra combatte i poveri, anziché la povertà. Giustamente, però, a nessuno è mai saltato in mente di dire che la povertà vada difesa.

Mirella Serri per "la Stampa" il 14 febbraio 2022.

Moderni, bisogna essere assolutamente moderni: al capezzale del grande malato d'Europa, l'impero ottomano, il sultano Mahmud II lanciò a metà degli anni Trenta dell'Ottocento il piano di "riorganizzazione". Ordinò divise militari ultimo grido copiandole da quelle europee e vestiti occidentali per tutti i funzionari. Impose che fosse appeso ovunque un suo ritratto alla maniera dei monarchi d'Europa. E, sempre sulla scia degli Stati più avanzati, costruì strade e ponti, promosse la sanità e l'istruzione. 

Anche il suo successore realizzò questo tipo di investimenti, che comunque si rivelarono assai esigui rispetto agli appetiti delle strutture militari che succhiavano circa il 60 per cento della spesa pubblica, il 30 per cento della quale era destinata a ripagare l'immenso debito pubblico.

Il piano di questi sultani naufragò miseramente, determinando le disastrose vicende dell'impero e la sua dissoluzione con la Prima guerra mondiale. Facendo un salto di alcuni anni, anche nell'Italia di fine Ottocento, con un'economia in crescita in tanti settori del triangolo industriale Milano-Torino-Genova (tessile, siderurgico, della gomma, chimico, automobilistico, elettrico), ci si illuse di poter operare un capovolgimento delle sorti italiane e di modernizzare l'intera penisola. 

Ma fu un fallimento. Nonostante il suo notevole incremento, lo sviluppo non riuscì a eliminare il divario tra nord e sud, poiché dal settentrione e dall'estero non giunsero investimenti per il Mezzogiorno. Napoli, per esempio, che aveva oltre 500mila abitanti, continuò a essere in mano agli stranieri, con i francesi che gestivano la rete di distribuzione del gas, gli svizzeri quella elettrica, gli inglesi le forniture idriche e i belgi il sistema tranviario.

Dall'impero ottomano all'Italia il passo è breve se è lo studioso Donald Sassoon a spiegarci, con la sua erudizione straordinaria e con dovizia di dati, che in entrambi i casi non vi fu uno Stato dinamico e pronto con le dovute misure economiche a potenziare una crescita asfittica. L'ultima ricerca del grande storico britannico, Il trionfo ansioso. Storia globale del capitalismo 1860-1914 (Garzanti), scava nelle radici del capitalismo, ne descrive l'impatto nella formazione degli Stati moderni e analizza in che modo la creazione di comunità nazionali, del welfare state e di una regolamentazione del mercato abbiano contribuito a rafforzare il sistema che ha sconfitto gli altri regimi economici.

Ma rispetto al quale continuamente ci si chiede se e come sopravviverà: risalendo dal diciannovesimo secolo, l'autore di Sintomi morbosi finisce così per porre domande fondamentali sul nostro presente. Lo studioso di Gramsci e di Marx s' interroga su quali furono le condizioni che determinarono la nascita del moderno capitalismo in Gran Bretagna, il suo consolidamento in tutta Europa, negli Stati Uniti e in altre parti del mondo, come la Cina e il Giappone. 

Nel 1849, osserva Sassoon, «pur non essendo ricca come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna era il paese più ricco d'Europa e di gran lunga la prima nazione commerciale al mondo». Gli elementi che contribuirono a questa espansione furono molteplici. In particolare, vi fu la produzione di carbone che dai tre milioni di tonnellate del secolo precedente, nell'Ottocento superò i 15 milioni.

Poi ci fu la diffusione su tutto il territorio di innovazioni geniali ideate nel Settecento, dal motore a vapore al procedimento di conversione del carbone in coke. Però il vero segreto della società britannica, permeata di iniziativa imprenditoriale, osserva lo storico, fu il sostegno dello Stato (la cui presenza si avvertì anche in altre nazioni europee, in Belgio e in Russia, per esempio, dove supportò la realizzazione delle ferrovie; in Francia e in Italia, dove mobilitò prestiti e offrì garanzie). 

In Gran Bretagna il governo regolamentò le partecipazioni ai capitali sociali, rafforzò il servizio postale statale e nel 1870 sviluppò il telegrafo. Nel 1875, con l'acquisizione del 40 per cento delle azioni del Canale di Suez, «il governo divenne il più grande azionista singolo nella più grande azienda di servizio pubblico internazionale al mondo». Alla vigilia della Prima guerra mondiale, lo Stato salvò dal fallimento la Anglo-Persian Oil Company (divenuta BP nel 1954).

Le istituzioni statali sono naturalmente promotrici di sviluppo economico? Assolutamente no, poiché, secondo Sassoon, un governo per essere determinante deve impegnarsi, come avvenne in Gran Bretagna, in modo forte e deciso. Solo uno sforzo di tal fatta favorì in tutta Europa la riuscita del sistema capitalistico, che peraltro non si è mai verificata in modo indolore: ha creato sconfitti e vincitori in un processo di ininterrotta innovazione. Questa instabilità cronica è la ragione stessa del successo del capitalismo, in perenne conflitto con lo Stato. 

Quest' ultimo, anche quando è federale e non centralizzato, è monolitico, ha regole stabilite, ed è ancorato all'interno di un territorio. Il capitalismo invece ha tendenze globali, è anarchico, non mosso da una volontà unica: «è come un albergo sempre pieno di gente», scriveva Schumpeter, «ma di gente sempre diversa». Nonostante la sua espansione e il trionfo della società dei consumi, la disaffezione nei riguardi di questo sistema è attualmente sempre più diffusa, osserva Sassoon, come testimonia il fatto che da tempo gli elettori, in tutta Europa, si sono allontanati dalle urne. 

Noi occidentali siamo oggi più ricchi di quanto non lo siamo mai stati ma, malgrado ciò, sale lo scontento e aumentano le diseguaglianze. «Sono un storico», è solito ripetere lo studioso, «non so predire il futuro». Adesso sta prendendo piede la rivoluzione green, i cui obiettivi ambientali appaiono in contrasto con i consumi e la produttività e che sembra foriera ancora una volta di instabilità e di ansia. È probabile, per Sassoon, che il capitalismo sopravviva e che abbia slancio anche nel nuovo ambiente facendo comunque molte vittime.

Costruirsi la sorte. Non è vero che le persone di successo sono più fortunate delle altre. L'Inkiesta il 18 Gennaio 2022. La storia è piena di individui che riescono a raggiungere i propri obiettivi superando difficoltà e impedimenti iniziali. Pensare che il caso sia decisivo è fuorviante: non conta quello che accade, ma il modo in cui si reagisce agli eventi.

È innegabile che fortuna e caso ricoprano un certo ruolo nel determinare il successo nella vita delle persone. Chiunque può rievocare innumerevoli esempi di fortuiti avvenimenti e fortunate coincidenze nella propria vita. Indipendentemente da ciò, il quesito rimane invariato: quanto importante è il ruolo della fortuna?

Che sia il caso a offrire a qualcuno delle opportunità o meno non è la domanda chiave, piuttosto ci si deve domandare:

La persona fortunata sarà in grado di riconoscere le proprie occasioni? O fallirà nell’apprezzare le opportunità che queste portano in seno? Lo scrittore svizzero Max Frisch diceva: «Il caso mi porta a riconoscere i miei talenti».

Dovesse questa persona riconoscere gli eventi fortunati, cercherà di trarne vantaggio? Agirà di conseguenza? O sarà una di quelle persone che reagiscono a questi episodi pensando: «Questo è qualcosa di cui mi ricorderò in futuro…»

Lo stesso può applicarsi alle circostanze avverse e alle sfortune verso le quali le persone senza successo addosseranno tutta la colpa dei loro fallimenti. Un ristrettissimo numero di persone si troverà nella posizione perfetta per iniziare la scalata al successo. Alcuni devono fare i conti con disabilità fisiche, altri non hanno titoli di studio di nessun tipo, altri ancora potrebbero sentirsi troppo giovani o troppo attempati per raggiungere determinati traguardi e infine altri potrebbero sostenere che siano le responsabilità verso i propri figli o verso la loro famiglia a trattenerli dall’impegnarsi appieno in un progetto.

In realtà, tutte queste persone stanno solo cercando scuse e giustificazioni per la loro mancanza di successo. Nelle biografie di persone più o meno celebri si possono trovare una miriade di esempi di come alcuni individui abbiano avuto successo nonostante soffrissero di gravi malattie o mancassero di una vera e propria formazione scolastica, altri che invece hanno raggiunto i loro obbiettivi a cinquanta o sessant’anni o che a quindici anni si stavano già affermando. Nessuno di questi ha mai lasciato che tali ostacoli, da molti considerati insormontabili, fermassero il loro cammino. Hanno fatto carriera nonostante questi impedimenti.

Stephen Hawking

Prendiamo ora come esempio il celebre fisico Stephen Hawking. Per tutta la sua vita ha sofferto di una rara forma di sclerosi laterale amiotrofica: una malattia neurodegenerativa che colpisce esclusivamente i motoneuroni. I dottori predissero che avrebbe vissuto solo per pochi altri anni. Hawking venne dunque costretto su una sedia a rotelle e perse progressivamente la sua abilità di parlare autonomamente, servendosi di un computer per comunicare verbalmente.

Nonostante tutto ciò viene ora annoverato universalmente tra i più famosi scienziati del mondo e alcuni lo considerano persino il più famoso in assoluto. Si sposò due volte, viaggiò per tutto il mondo, conobbe i più grandi scienziati e politici del suo tempo e scrisse libri diventati bestseller internazionali. La chiave per tutto ciò è stata la sua attitudine, soprattutto la sua capacità di vedere i vantaggi della sua disabilità.

Nella sua autobiografia scrisse che, grazie alla sua malattia, non dovette mai svolgere conferenze o tenere lezione per gli studenti del primo anno e non dovette mai partecipare a lunghe e tediose riunioni di facoltà, potendosi dunque interamente dedicare alle sue ricerche. La sua disposizione ottimista giocò dunque un ruolo fondamentale nella sua vita, più importante di quello ricoperto dalla sua disabilità. «È mia convinzione che chi soffre di disabilità debba concentrarsi su ciò che può compiere nonostante i propri handicap invece di rammaricarsi per ciò che viene precluso. Nel mio caso, sono sempre riuscito a fare quasi tutto quello che ho desiderato».

Un esperimento psicologico

Nello stesso modo in cui circostanze esterne avverse non impediscono a personalità di successo di raggiungere i loro obbiettivi, coloro i quali non sono in grado di riconoscere e approfittare di eventi fortunati non verranno mai toccati da “felicità” e “opportunità”.

Lo psicologo Richard Wiseman ha trovato molte particolarità interessanti su ciò che le persone pensano del ruolo ricoperto dalla fortuna nelle loro vite e su come queste reagiscono quando viene presentata loro un’occasione inaspettata. Nel corso di una delle sue ricerche, Wiseman ha presentato a un numero di soggetti due “colpi di fortuna”. Il primo rappresentato da una banconota appoggiata su una panchina sulla strada verso il centro di ricerca, il secondo dall’essere avvicinati per un’interessante opportunità lavorativa da un potenziale datore di lavoro dentro a un caffè. Questo dimostra che l’abilità di riconoscere e sfruttare occasioni fortuite deriva da determinate caratteristiche della personalità e attitudine degli individui.

Nondimeno, spesso si sente affermare che il caso e la fortuna sono i principali fautori del successo delle persone. I libri che sostengono questa teoria sono diventati molto popolari perché spiegano in maniera estremamente basilare gli incredibili successi altrui a chi, di successi, ne ha avuti pochi o nessuno.

In termini psicologici, questa ultima categoria di persone userà queste semplici spiegazioni del successo altrui per consolarsi dei propri fallimenti in una maniera che non vada a toccare la propria autostima. Nel libro “Fuoriclasse. Storia naturale del successo”, il giornalista canadese Malcolm Gladwell cerca di spiegare gli straordinari trionfi di alcuni individui. L’ipotesi centrale del libro è che le abilità, la personalità, l’intelligenza e tutte le altre caratteristiche personali hanno un ruolo marginale nelle carriere di personalità eccezionali.

Speculazione controfattuale: “Cosa sarebbe successo se…”

Autori come Gladwell seguono sempre una linea di ragionamento simile. Se una persona di successo non si fosse trovata nel posto giusto al momento giusto, o non avesse conosciuto le persone giuste, non sarebbe mai riuscita nei suoi intenti. Nei libri come quello di Gladwell, le supposizioni controfattuali assumono un grande significato, anche se poi mancano di una spiegazione chiara o non vengono sviluppate ulteriormente.

Il lettore si troverà costantemente davanti a domande come: «Cosa sarebbe successo se Bill Gates non avesse avuto la possibilità di utilizzare un potente computer gratis?». È difficile approfondire queste congetture e portarle a una soddisfacente conclusione. Gates avrebbe avuto lo stesso successo nel suo campo di lavoro? Se la risposta fosse negativa, sarebbe stato possibile per lui avere successo in altri settori sfruttando la sua intelligenza e i suoi talenti imprenditoriali, o ancora tramite la sua personalità e la sua abilità nell’applicazione di strategie imprenditoriali corrette?

Libri come quello di Gladwell, che cercano di minimizzare il successo di persone come Bill Gates o Steve Jobs a una serie di fortunate coincidenze, cercano di portare il lettore a chiedersi: se una determinata circostanza o una qualche fortunata occasione non si fossero presentate, cosa sarebbe cambiato?

Il maggior numero di fortunate coincidenze l’autore riesce a trovare, più il lettore tenderà ad assumere che la persona in questione non avrebbe avuto gli stessi successi, se queste non avessero avuto luogo. Tutto ciò è ovviamente impossibile da provare in maniera definitiva. È altresì molto facile identificare un numero consistente di eventi sfortunati o coincidenze infelici nelle vite degli stessi individui messi sotto esame, che, avessero fallito nelle loro carriere, sarebbe stato facile utilizzare per spiegare suddetto fallimento. Tutto questo non tiene però conto del fatto che è la reazione di un individuo agli eventi in cui incorre, non gli eventi stessi, che lo porterà o meno a certi risultati.

Nessuno è “sempre fortunato” o “sempre sfortunato”

La probabilità che qualcuno avrà sempre e solo a che fare con coincidenze esclusivamente positive o esclusivamente negative per tutta la sua vita è decisamente irrisoria. Nell’arco di anni e decenni, fortuna e sfortuna tendono sempre, o, perlomeno, nella maggior parte dei casi, a bilanciarsi. Indubbiamente il caso e la fortuna hanno un ruolo nella vita degli individui, ma l’importanza di tale ruolo varia sempre a seconda del campo in cui si sta operando.

Michael J. Mauboussin, autore di “The Success Equation”, enfatizza il ruolo della fortuna, ma allo stesso tempo ammette che questo cambia a seconda del campo o delle attività prese in considerazione. Mauboussin propone dunque un “Continuum fortuna/abilità” e usa come esempi diversi sport e attività. Ai poli di questo spettro che va da “pura fortuna” e “pura abilità” pone la roulette e gli scacchi rispettivamente. Per decidere dove collocare una determinata attività all’interno di questo spettro basta rispondere a una semplice domanda: «È possibile perdere intenzionalmente in questa attività o sport? Nei giochi e negli sport di abilità questa possibilità è decisamente una possibilità, mentre nella roulette o nella lotteria è virtualmente impossibile».

Questo test è stato utilizzato per supportare la loro posizione, persino dagli avvocati incaricati di portare la legalizzazione del poker online negli Stati Uniti.

Dovesse anche essere vero che eventi fortuiti influenzino il successo di una persona, il modo in cui questa persona reagisce a tali eventi è decisamente più significativo degli eventi stessi. Vincere la lotteria è un esempio di un colpo di fortuna inaspettato, ma la maggior parte dei vincitori perde tutte le vincite entro pochi anni.

Numerosi sono anche i milionari o miliardari “self-made” che hanno perso tutta la loro fortuna per poi ricostruirla da capo in archi di tempo piuttosto brevi. Il famoso scrittore irlandese George Bernard Shaw non «credeva nelle circostanze fortuite del caso» e sosteneva che «le persone che fanno strada in questo mondo sono quelle che le circostanze favorevoli le cercano e, se non le trovano, se le creano».

Statistiche. I soldi fanno la felicità (e stavolta c’è pure un grafico che lo prova). Carlo Valdes, ricercatore Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, su L'Inkiesta il 28 Marzo 2019.

L’ultimo rapporto sulla felicità misura il grado di soddisfazione delle persone per la propria vita in 156 Paesi. Il risultato? Il benessere personale è fortemente correlato con il reddito pro capite. Chi governa dovrebbe ricordarselo. 

C’è un modo di dire molto diffuso che recita: “I soldi non fanno la felicità, figuriamoci la miseria!”. È questa una delle possibilità con cui si può sintetizzare l’ultimo rapporto sulla felicità di Helliwell, Layard e Sachs. L’intenzione di fondo del loro studio è osservare quali siano i Paesi in cui le persone sono maggiormente soddisfatte della propria vita. Così, Paese per Paese viene chiesto a un campione di persone di valutare la propria vita da zero a dieci, dove zero è la peggiore vita possibile e dieci la migliore, e viene creata una “classifica della felicità” che ordina 156 paesi.

Sia chiaro, il rapporto è alla sua settima edizione e va molto oltre la semplice classifica. A leggere lo studio si trovano infatti analisi piuttosto interessanti ma, al di là dei vari approfondimenti, c’è un elemento quasi banale nei risultati che merita di essere evidenziato: il reddito per sé non è una variabile sufficiente per spiegare il grado di soddisfazione delle persone rispetto alla propria vita (e gli autori e molta letteratura economica hanno già ampiamente documentato questo fatto), ma nei dati il legame tra queste due variabili è eccezionalmente forte.

Per vedere a colpo d’occhio la relazione, è sufficiente inserire in un grafico il reddito pro capite di diversi Paesi misurato in parità di potere d’acquisto e il “grado di felicità” medio rilevato in ogni nazione.

Così, un Paese (un pallino nel grafico) sta tanto più a destra quanto più è alto il suo reddito pro capite. Ragionamento simile vale per la felicità media del Paese: i pallini più in alto rappresentano i Paesi i cui cittadini sono mediamente più felici, mentre quelli più in basso rappresentano i Paesi “più tristi”.

Guardando il grafico è evidente come al crescere del reddito pro capite cresca l’indice di soddisfazione media per la vita. Ora, non se ne abbiano gli appassionati della decrescita felice: a meno che non si sostenga che la relazione è inversa (e cioè che il Pil sia più alto in alcuni Paesi perché le persone sono più felici), o a meno che non si voglia dire che questa relazione è del tutto casuale, questo grafico è già sufficiente per dimostrare che un buon livello del Pil non fa la felicità, ma quasi.

Certamente ci sono altri fattori oltre il Pil che aiutano a spiegare le differenze della felicità nel mondo. Tra questi c’è, per esempio, il supporto sociale, che viene misurato chiedendo agli intervistati se, in caso di problemi, abbiano parenti o amici su cui contare per chiedere aiuto. Si osserva che all’aumentare del supporto sociale aumenta il grado di felicità dichiarato dagli intervistati. Lo stesso vale anche per altri elementi che già intuitivamente operano a favore di una maggiore qualità della vita, come l’aspettativa di vivere a lungo e in salute, la generosità diffusa nel paese o la sensazione di poter scegliere liberamente cosa fare nella propria vita.

Alcuni esponenti del governo hanno più volte dichiarato che si sarebbero presi cura della qualità della vita degli italiani, ma quegli stessi politici hanno mostrato pubblicamente un sostanziale disinteresse rispetto ai dati sul tasso di crescita del Pil negli ultimi trimestri

L’Italia, guardando ai dati medi degli ultimi tre anni, è 36esimo per felicità su 156. Tra gli elementi che aiutano a spiegare la nostra discreta felicità media, occorre notare che siamo in 23esima posizione per supporto sociale e 48esimi per generosità. Riusciamo a fare malissimo, invece, nella sensazione di poter scegliere liberamente cosa fare nella propria vita (132esimi) e nel nostro grande classico, la corruzione percepita (128esimi, tra il Madagascar e il Camerun). Nel Pil pro capite siamo invece 29esimi. A leggerla così, l’immagine del nostro Paese è un po’ quella che siamo abituati a raccontarci: c’è corruzione diffusa e le persone sentono una sostanziale incapacità di poter scegliere cosa fare nella propria vita, ma in fondo il reddito pro capite è alto, si vive abbastanza a lungo e siamo pure propensi ad aiutarci a vicenda.

Tuttavia, oltre la commedia c’è un aspetto da trattare seriamente. Alcuni esponenti del governo hanno più volte dichiarato che si sarebbero presi cura della qualità della vita degli italiani, ma quegli stessi politici hanno mostrato pubblicamente un sostanziale disinteresse rispetto ai dati sul tasso di crescita del Pil negli ultimi trimestri. Eppure anche solo il grafico che abbiamo mostrato dovrebbe essere sufficiente per convincerli che prendersi cura della qualità della vita degli italiani significa, innanzitutto, fare in modo che il reddito pro capite aumenti. Ne tengano conto e saremo tutti più…felici! 

Lavori. I soldi non fanno la felicità, soprattutto sul posto di lavoro (e sì, abbiamo le prove). Luciano Canova su L'Inkiesta il 3 Giugno 2019.

Esiste uno strumento in grado di misurare la felicità? Il denaro è ancora imprescindibile per il benessere? "Il metro della felicità" è un libro divertente e al tempo stesso profondo che, ridisegnando il nostro sguardo sul mondo, ci aiuta a capire di più le leggi economiche che lo governano. 

Esiste uno strumento in grado di misurare la felicità? Il denaro è ancora un elemento imprescindibile del benessere di un individuo e di una nazione? Prendendo spunto da questi e altri interrogativi il libro di Luciano Canova cerca di sfatare un luogo comune duro a morire: che gli economisti, alfieri di una «scienza triste», non si siano mai occupati di felicità. È vero il contrario. Insieme ai filosofi, i primi a porsi la domanda cruciale – che cosa ci serve per vivere una vita migliore? – sono stati i padri della scuola neoclassica. I risultati dei loro esperimenti empirici – che Canova riassume in maniera semplice – mostrano che accanto al reddito e alla salute vi sono altri elementi che concorrono a una vita felice: la propensione alla generosità, il supporto sociale, la libertà di prendere una decisione in autonomia, il grado di fiducia nella comunità in cui si vive, e in particolare la motivazione, vero e autentico motore delle decisioni. “Il metro della felicità” è un libro divertente e al tempo stesso profondo, che nel ridisegnare i confini del nostro sguardo sul mondo ci aiuta a capire qualcosa in più delle leggi economiche che lo governano. E di noi stessi.

Pubblichiamo un estratto di “Il metro della felicità” di Luciano Canova (edizioni Mondadori)

Il rapporto tra felicità e lavoro merita un’attenzione speciale, non fosse altro per il fatto che spendiamo una gran parte della giornata in ufficio, in officina, in fabbrica o in qualunque altro posto che classifichiamo come luogo di lavoro. Il lavoro cambia e si trasforma rapidamente, ma questo non sminuisce il significato profondo che esso riveste nelle nostre vite e, di riflesso, nella nostra percezione di felicità. La scienza, a tale riguardo, si serve di numerosi indicatori, tra cui la soddisfazione generale, ma anche quella specifica, che si registra mentre si fa ciò per cui si viene pagati (la job satisfaction), nonché l’engagement, parola entrata sempre di più nel lessico quotidiano della vita di un’impresa.

Occuparsi di lavoro e felicità significa insomma raffinare i pensieri, passare da una visione puramente platonica a un approccio alternativo, o quanto meno complementare, che necessita un pizzico di aristotelismo empirico. Il valore dello stipendio e dei propri guadagni rimane un fattore importante, anzi decisivo, nel predire la nostra felicità quando lavoriamo, ma quella che vogliamo offrire in queste pagine è un’immagine più composita e sfaccettata, in grado di arricchire la nostra considerazione di questo tema imprescindibile. Per fare ciò, partiamo da lontano. Anzi, dalla preistoria. Avete in mente il film L’era glaciale e, in particolare, il personaggio di Sid, il bradipo? All’inizio del primo episodio della fortunata serie, Sid pronuncia una frase per spiegare il senso delle sue azioni: «Hey, I’m a sloth. I see a tree, eat a leaf, that’s my tracking» (Hey, io sono un bradipo. Vedo un albero, mangio la foglia, fine del discorso). Il cervello non evoluto di un bradipo non ha bisogno di molti stimoli informativi per elaborare una risposta in termini di azione: ma che dire di quello umano? E in particolare, come prende le decisioni una persona che ha di fronte a sé una spinosa questione, vale a dire decidere quante ore lavorare e come? Comprendere la leva comportamentale che ci spinge a lavorare, e il complesso insieme di emozioni e sentimenti connesso, è cruciale per chi vuole studiare le ragioni di una scelta tanto importante. Da questo punto di vista, possiamo affermare che l’economia neoclassica, con le dovute cautele, non si rivela troppo diversa dalla logica della filosofia di vita di Sid. La tradizionale curva di offerta di lavoro, infatti, appare come nel grafico che segue:

Se aumentano i soldi guadagnati, aumenta la quantità di ore che una persona offre sul mercato del lavoro. Non troppo diverso dal topolino che riceve il formaggio in laboratorio ogni qual volta esegue uno specifico compito. Ma funziona davvero così? Non è detto o, comunque, non sempre. Un famoso esperimento svolto sul campo, per esempio, mostra che la curva di offerta di lavoro tradizionale non è necessariamente il modo migliore per spiegare il comportamento di un essere umano. L’articolo è firmato da Linda Babcock, Colin Camerer, George Loewenstein e Richard Thaler (sì, di nuovo lui), e analizza il comportamento dei taxisti newyorchesi. Grazie alla disponibilità dei dati sulle corse effettuate (in termini di chilometri e di denaro ricevuto), l’obiettivo è capire le scelte lavorative di un individuo in condizioni particolari. Il lavoro dei taxisti, infatti, come di chiunque svolge un’attività in autonomia o, per fare il verso a certi profili Facebook, diventa imprenditore di se stesso, è soggetto a condizioni estremamente mutevoli e difficilmente prevedibili: una giornata di sciopero o il maltempo possono modificare le prospettive remunerative in modo drastico. C’è una grossa variabilità inter-giornaliera e infra-giornaliera e tutto ciò rappresenta un setting ideale per testare le previsioni del modello standard, secondo il quale, a variazioni anche temporanee nel reddito, corrispondono aumenti nell’offerta di lavoro. In altri termini le persone preferiscono lavorare quando è più remunerativo e divertirsi quando è più conveniente, secondo logica.

Lo studio citato, però, mostra dati completamente differenti: la curva è a forma di boomerang: Questi grafici si chiamano backward binding perché, come un boomerang, appunto, mostrano che oltre una certa soglia la crescita del reddito non si traduce in un aumento corrispettivo di lavoro, ma in una sua significativa riduzione. Che fa tornare la curva indietro. Perché avviene tutto ciò? Una delle ipotesi degli studiosi è che i taxisti (e, probabilmente con loro, tutti i lavoratori che hanno di fronte prospettive di reddito molto variabili di giorno in giorno) non utilizzano una visione di lungo periodo al momento della loro scelta, ma operano sulla base di un obiettivo di giornata predefinito che non necessariamente porta a massimizzare reddito e quantità di ore lavorate.

Quando raggiungono tale livello, anche se le prospettive di guadagno (vuoi, appunto, perché c’è uno sciopero dei mezzi e tutti prendono il taxi, o vuoi perché c’è una pioggia incessante che rende problematici gli spostamenti coi mezzi in città) sono di fatto allettanti, i taxisti si ritirano e preferiscono tornarsene a casa. Gli studi sperimentali, in tema di economia del lavoro, hanno contribuito e contribuiscono a gettare luce sulla complessità del tema e, a proposito di felicità, ci servono aristotelicamente a mostrare qualcosa di banale, forse, ma anche di molto importante: non è il denaro l’unica leva che spinge le nostre azioni, meno che mai quando si tratta del lavoro. Se, per alcune attività e mansioni è legittimo utilizzare la logica consueta, dove il denaro è l’unico incentivo efficace, per altri invece – e sono la maggioranza in un’economia di servizi – la questione è più complessa.

La sfida, dunque, è cercare di capire il rapporto tra lavoro e felicità e, in ultima analisi, sfaccettare il concetto di motivazione nelle sue molteplici dimensioni. Anzitutto, la motivazione e la felicità sul lavoro assumono sfumature e nomi diversi a seconda del contesto: ci sono persone, per esempio, che lavorano per un senso di orgoglio. Pensate a un cooperante che decide di partire per la Siria per andare ad aiutare le persone vittime della guerra: senz’altro, la remunerazione è un elemento fondamentale ma quanto incide il suo slancio ideale e il desiderio di costruire un mondo migliore? Per altre persone, poi, accanto ai soldi gioca un ruolo chiave la reputazione connessa allo svolgimento di una certa attività. Altri, ancora, hanno bisogno, per motivarsi, di uno scopo o di un senso di gratificazione: troppe volte ci lamentiamo di lavori che, nel corso del tempo, diventano monotoni e, come dire, non ci scaldano il cuore. Perché alcune persone stanno in ufficio fino a tardi? Cosa le motiva? È lo stipendio o, appunto, una sorta di passione intrinseca per ciò che fanno? Vi siete mai trovati ad appassionarvi a un progetto in modo tale da non dormirci, letteralmente, la notte? È un flusso di concentrazione che si traduce in lavoro no stop. Come quando leggete un libro avvincente e non riuscite a staccare gli occhi dalle pagine. A noi interessa capire meglio questo atteggiamento: fermarsi fino a notte fonda in ufficio, lavorare anche nei weekend, non dormire per vedere se l’assassino è il maggiordomo. È soltanto il denaro la leva motivazionale che può spiegare lo stakanovismo?

Qualcuno ha coniato la parola workaholic, alcolisti del lavoro. Ma perché – fatto salvo il denaro che ricevono come compenso per il proprio zelo – coloro che lavorano senza orari spesso sono i più soddisfatti? A essere talvolta trascurata, in questi casi, è la dimensione ludica, edonistica, di puro piacere. Il gioco, del resto, è lo strumento attraverso cui apprendiamo più facilmente e trasferire le leve comportamentali del gioco in ciò che si fa lavorando potrebbe essere una chiave (non l’unica) per la felicità.

La logica del mercato. Protesta per partito preso. Perché non si vuole riconoscere i successi del capitalismo. Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 23 Dicembre 2021. Il sistema politico, economico, sociale in cui viviamo ha portato miliardi di persone fuori dalla povertà, ha ridotto il lavoro minorile, ha prodotto benefici diffusi in tutto il mondo. Ma ancora in molti si ostinano a considerarlo come l’origine di tutti i mali. Prima della nascita del capitalismo, la maggioranza della popolazione mondiale viveva in estrema povertà: nel 1820 era il 90% delle persone; oggi è meno del 10%. E la cosa più notevole è che negli ultimi decenni, dalla fine del comunismo in Cina e in altri paesi, il declino della povertà ha accelerato ad un ritmo mai visto in qualsiasi periodo precedente della storia umana. Nel 1981, il tasso di povertà ammontava al 42,7%; nel 2000, era sceso al 27,8%, e nel 2021 era al 9,3%. Ci sono altre buone notizie: il numero di bambini costretti a lavorare in tutto il mondo è diminuito significativamente, scendendo da 246 milioni nel 2000 a 160 milioni di bambini vent’anni dopo, nel 2020. E questo nonostante il fatto che la popolazione mondiale sia aumentata da 6,1 a 7,8 miliardi di persone negli stessi due decenni.

Alla maggior parte delle persone il capitalismo però non piace. L’Edelman Trust Barometer, un sondaggio condotto in 28 paesi, conclude che, in media, il 56% degli intervistati crede che «il capitalismo come esiste oggi faccia più male che bene nel mondo».

In Europa, la Francia è il paese maggiormente d’accordo con questa affermazione (69%), seguita dagli intervistati in Italia (61%), Spagna (60%), Germania (55%) e Regno Unito (53%). Sia negli Stati Uniti che in Canada, il 47% è d’accordo con questa valutazione critica del capitalismo.

L’anticapitalismo è una religione politica. Nelle religioni classiche, il diavolo è l’espressione del male nel mondo. Nella religione politica dell’anticapitalismo, il capitalismo assume il ruolo di male incarnato.

Di conseguenza, il capitalismo non è solo responsabile di tutti i mali della società, ma anche dei problemi personali di ognuno. La gente incolpa il capitalismo per la fame, la povertà, la disuguaglianza, il cambiamento climatico, l’inquinamento, la guerra, l’alienazione, il fascismo, il razzismo, la disuguaglianza di genere, la schiavitù, il colonialismo, la corruzione, il crimine, la malattia mentale e il decadimento culturale.

Le guerre erano più frequenti nell’epoca pre-capitalista che nel periodo successivo all’avvento del capitalismo. E numerosi studi scientifici sulla “pace capitalista” hanno dimostrato che il libero scambio riduce la probabilità di conflitti militari. C’è anche una serie di studi che mostrano come gli standard ambientali siano migliori nei paesi capitalisti che in quelli non capitalisti.

Allora perché la maggior parte della gente non vuole considerare questi fatti?

Una ragione è che quando si tratta di argomenti come la fame, la povertà, il cambiamento climatico e la guerra, è molto difficile impegnarsi in una discussione basata sui fatti. Più un argomento è carico di aspetti emotivi, meno le persone sono disposte a riconoscere i fatti, specialmente quando questi contraddicono le loro opinioni personali. Gli scienziati hanno incontrato questo fenomeno in molti esperimenti e indagini.

In numerosi sondaggi rappresentativi, che gli scienziati hanno condotto negli ultimi decenni, agli intervistati è stato dato un foglio con un’immagine ed è stata presentata loro la seguente situazione: «Vorrei ora raccontarvi un incidente accaduto l’altro giorno durante una tavola rotonda su [poi seguivano vari argomenti come l’ingegneria genetica, il cambiamento climatico, l’energia nucleare, l’inquinamento dell’aria, ecc., tutte questioni “emotivamente polarizzanti”]. Gli esperti stavano parlando dei rischi e dello stato della ricerca. Improvvisamente, una persona del pubblico salta su e grida qualcosa ai relatori e a tutti i presenti».

I ricercatori hanno poi chiesto agli intervistati di guardare questa persona presente sul foglio e di leggere le parole a essa attribuite: «Cosa mi importa di numeri e statistiche in questo contesto? Come si può parlare in modo così freddo quando è in gioco la sopravvivenza dell’umanità e del nostro pianeta?». Sempre sul foglio, sotto queste parole, compariva la domanda per i partecipanti al sondaggio: «Diresti che questa persona ha ragione o torto?».

Questa domanda è stata posta ripetutamente per un periodo di 27 anni in 15 diversi sondaggi rappresentativi su una varietà di argomenti altamente emotivi e controversi. Invariabilmente, la maggioranza degli intervistati era d’accordo con il “disturbatore” che non era interessato ai fatti. In media, il 54,8% dei rispondenti ha detto che il disturbatore resistente ai fatti aveva ragione, solo il 23,4% non era d’accordo.

Gli anticapitalisti non possono essere convinti dai fatti: se si produce poco, la colpa è del capitalismo; lo stesso vale se ci sono troppe merci in circolazione (il consumismo!). E anche quando vado a fare shopping e non riesco a trovare quello che cerco, la colpa è del capitalismo.

La scrittrice americana Eula Biss è ampiamente celebrata per i suoi romanzi. In “Having and Being Had” (2020) inizia il libro parlando di possesso, capitalismo e valore delle cose, utilizzando questo aneddoto: «Stiamo tornando a casa da un negozio di mobili, di nuovo. Che cosa pensare del capitalismo, si chiede John: abbiamo soldi e vogliamo spenderli ma non riusciamo a trovare niente che valga la pena comprare. Abbiamo quasi comprato una cosa chiamata credenza, ma poi John ha aperto i cassetti e ha scoperto che non era fatta per durare. Penso che ci siano dei limiti, dico io, a ciò che la produzione di massa può produrre».

Più avanti nel libro, la scrittrice racconta di una conversazione con sua madre, che le chiede se pensa che il capitalismo sia buono o cattivo. «Dico che sono tentata di pensare che sia una cosa cattiva, ma non so davvero cosa sia».

Per molte persone, l’anticapitalismo è una questione emotiva. È un sentimento diffuso di protesta contro l’ordine esistente. Tutte le cose negative, nella società e nella mia vita personale, si dicono gli anticapitalisti, sono causate dal “sistema” capitalista. È colpa del capitalismo anche se non riesco a trovare un mobile da comprare.

·        I Liberali.

Il dogma del liberale: la Libertà è fare quel che si vuole nel rispetto della Libertà altrui.

La libertà propria è la Libertà altrui sono diritti assoluti e nessuno di questi diritti deve essere limitativo o dannoso all’altro.

Il socialismo (fascio-comunismo) è il potere dato in mano a caste, lobbies, massonerie e mafie.

La libertà. Libertà da, libertà di. Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente il 10 Dicembre 2022.

La libertà è una dea, di lei non si può parlare, si sbaglia sempre a nominarla. La sentiamo lontana su un piedistallo, irraggiungibile, oppure gettata nella polvere, nel fango, come un’innocente perseguitata.

La libertà è donna, non perché è fragile, ma perché genera, partorisce sempre qualcosa, ma il suo partner è oscuro, non si rivela.

La libertà è una donna lasciata ingiustamente sola, priva lei di scegliere, di farsi amare da chi desidera. La libertà deve generare rispetto, non paura, la libertà vera si allea con l’ignoto ma ha bisogno di certezze. Lei, la libertà, è prigioniera, delle ideologie, delle fedi sbagliate, lei è decantata per la sua bellezza ma tradita, umiliata, contesa tra persone di lei spesso indegne.

Se però il potere è di genere maschile, la parola ‘potere’ intendo, allora capiamo perché libertà e potere siano sempre sull’orlo del divorzio. Perché il potere troppe volte la bestemmia, la violenta, la contraddice, la tradisce, la proclama mentre la schiaccia.

La ‘libertà di’ è l’espressione di una volontà, di una intenzione, di un progetto, oppure è semplicemente la libertà come respiro, come sguardo senza limiti, senza zone oscure, senza maschere, senza veli.

La ‘libertà di’ esiste se c’è una scelta, se è l’espressione di te che sei al mercato e ti fai convincere dalla merce che ti piace e che ti puoi permettere, la ‘libertà di’ è scrivere la storia della tua vita con gli accenti che fanno sentire meglio la tua voce, i tuoi sentimenti, senza censure preventive. La ‘libertà di’ è quella che porti con te e che sai condividere con altri, senza prevaricare, progettando insieme.

La ‘libertà da’ è invece quella che ti appaga, che ti lascia vincente nel silenzio e nel digiuno, è la libertà di una vittoria che sembrava una sconfitta, che ti consente di rinunciare agli obblighi imposti, alle forzature ipocrite, alle convenienze dettate da chi sta vincendo.

La ‘libertà da’ è, si dice, la libertà dal bisogno. No. Perché del bisogno c’è sempre bisogno, e i tuoi orizzonti siano tuoi, non di altri. Purché la felicità non pretenda di dartela lo Stato o il governo o qualsiasi istituzione. Loro limitino i tuoi danni, se ne sono capaci.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

L'addio ad 83 anni. Addio a Sforza Fogliani, liberale contro i liberal. Si è spento Corrado Sforza Fogliani, mr. Confedilizia e figura di spicco del mondo bancario. Carlo Lottieri su Nicolaporro.it 10 Dicembre 2022.

Con la scomparsa di Corrado Sforza Fogliani, perdiamo molto. Sui giornali si dirà che l’avvocato piacentino è stato un importante liberale, il dominus per un quarto di secolo di Confedilizia e una figura cruciale del mondo bancario. Si tratta, però, di formule riduttive, che dicono davvero ben poco dell’uomo e dell’intellettuale che egli fu.

Ho avuto modo di conoscere Sforza Fogliani molti anni fa, al tempo del vecchio Pli. Egli apparteneva – come chi scrive – alla schiera di quanti avversavano la svolta liberal che a fine anni Settanta fu impressa da Valerio Zanone, che nei fatti sviluppò quanto già Giovanni Malagodi aveva avviato, dopo un’opposizione al centro-sinistra che non gli aveva dato grandi frutti elettorali. Da einaudiano, Sforza Fogliani non poteva certo accettare quello slittamento verso sinistra: una scelta che forse andava incontro alle mode del tempo, ma che avrebbe reso ancor più inutile la presenza di quel partitino sulla scena pubblica.

In seguito è stato soprattutto grazie a Confedilizia che ho avuto modo d’incontrarlo, e confesso che mi ha sempre colpito come una realtà istituzionalmente schierata a difesa dei ben precisi interessi (più che legittimi!) dei proprietari di case nelle sue mani sia divenuta molto di più: un solido baluardo dei principi di libertà. Per Sforza Fogliani, in effetti, la tutela di chi ha una casa contro la voracità dello Stato tassatore era inscindibile dalla promozione – più in generale – di una società in cui gli individui e le famiglie fossero più forti e rispettati. Proprietà privata e libertà individuale dovevano andare di pari passo.

Anche quando lasciò l’associazione nelle mani di Giorgio Spaziani Testa, che ha continuato a governare la Confedilizia lungo le linee programmatiche definite da chi l’aveva preceduto, l’avvocato rimase sempre molto attento a quanto riguardava l’autonomia degli italiani da un potere pubblico sempre più soffocante.

Sforza Fogliani, quel suo appello contro la “pandemia statalista”

Ricordo bene, ad esempio, che quando nel 2020 la pandemia cominciò a diffondersi egli mi contattò, chiedendomi di buttar giù un manifesto contro quella che egli volle giustamente definire la “pandemia statalista”. Sapeva bene come la peggior politica nazionale – da Giuseppe Conte a Mario Draghi – avrebbe sfruttato a proprio favore questa crisi per angariare ancor più tutti noi. E un giorno egli mi confidò anche che, quando fu imposto l’obbligo vaccinale ai lavoratori dipendenti, fece tutto il possibile e anche di più per tutelare quei lavoratori della Banca di Piacenza che (per le ragioni più diverse) non avevano alcuna intenzione di subire il trattamento sanitario imposto dai poteri pubblici.

Alcune questioni erano per lui fuori discussione. Egli non avrebbe mai voluto una società dominata da obblighi e restrizioni, e anche per questo fu un accesso oppositore dell’Unione europea, burocratica e centralizzatrice. Aveva ben chiaro quali fossero le origini del progetto e in quale baratro esso rischi di trascinarci. D’altra parte, proprio alla guida di Confedilizia egli aveva voluto dare spazio a tutta una serie di tesi in tema di città private (“privatopie”) che non soltanto riaffermavano il legame tra libertà e proprietà, ma oltre a ciò s’opponevano alle logiche prevalenti in un establishment che vorrebbe controllare e regolare ogni cosa.

Uno dei tratti più rilevanti della sua personalità era riconoscibile nel suo saper sfidare i luoghi comuni. A dispetto degli abiti gessati e dell’aria rassicurante e pacata, Sforza Fogliani aveva un animo rivoluzionario: perché era una persona curiosa e in cerca della verità, perché detestava lo stile e le scelte delle nostre classi dirigenti, perché non doveva piacere a nessuno ma voleva invece essere fedele ai principi in cui credeva.

Anche per questo si batté, alla guida della banca della sua città (Piacenza), per un sistema bancario più plurale e vicino alle esigenze dei territori, facendo del suo istituto un centro propulsore della vita culturale della provincia.

Non è scomparso un liberale, un uomo di Confedilizia e un banchiere. È scomparso un grande uomo.

Carlo Lottieri, 10 dicembre 2022

"Vi spiego perché il Padreterno è liberale". Andrea Indini su Il Giornale il 30 Novembre 2022

Esce in libreria per Piemme il nuovo libro di Nicola Porro, Il Padreterno è liberale. Un saggio su Antonio Martino e sulle idee liberali che non muoiono mai

"Va riscritto tutto quanto". A dirlo è Nicola Porro. Che non solo ce lo dice senza troppi giri di parole, lo dimostra pure concretamente, nei fatti. Per riuscire in questa impresa titanica si è ispirato ad uno dei più grandi collaboratori dell'economia del nostro giornale, Antonio Martino, e ha dato alla luce a Il Padreterno è liberale. Antonio Martino e le idee che non muoiono mai (Piemme, pagg. 208, euro 18,90). Porro e Martino si conoscevano bene, tanto che avevano pensato di scrivere un libro insieme. Avevano persino iniziato a lavorarci. Poi però, lo scorso 5 marzo, l'ex ministro è mancato e così il vice direttore de ilGiornale ci ha lavorato da solo dando alle stampe un lavoro che punta già ad essere una delle pietre miliari del pensiero liberale contemporaneo.

Nicola, da sempre la sinistra dipinge Gesù come una sorta di hippie. Ora ribalti tutto dicendo che il Padreterno è liberale. È un "conflitto generazionale" all'interno della Trinità o è arrivato il momento di riscrivere tutto?

"Era stato proprio Martino a spiegarmi che l'inizio e la fine di tutto, appunto il Padreterno, sono liberali. Colui che ha deciso tutti i dettagli della natura, e quindi anche come siamo fatti, avrebbe anche potuto decidere di farci incapaci di peccare. Cosa ci sarebbe voluto a infilare nell'uomo un piccolo chip orwelliano che ci vietava di non credere in Dio?"

Invece lui ci ha lasciato la libertà di scelta...

"Esattamente. Nell'atto più supremo della Sua creazione, il Padreterno ci ha lasciato il libero arbitrio. Che è esattamente il fondamento dei principi liberali: lasciare all'individuo la possibilità anche di sbagliare. Il vero punto del liberalismo, a differenza di altri sistemi, è che questo lascia all'individuo l'opportunità di essere responsabile di se stesso".

Oggi ti senti di vivere in un Paese liberale?

"In ogni periodo storico convivono tendenze liberali e illiberali. Valeva anche prima che nascesse il liberalismo. C'è sempre una faida all'interno delle società. La Cina del 1380 con i Ming era un Paese liberale, senza che ci fosse stata una Rivoluzione Francese o fosse stata scoperta l'America. L'Italia del Covid è un'Italia illiberale, nonostante ci fossero già state la Rivoluzione Francese e la scoperta dell'America. In tutto l'Occidente ci troviamo in una fase di restaurazione dei principi illiberali".

Che prospettiva vedi per le future generazioni?

"Ormai siamo assuefatti all'idea che lo Stato spenda soldi senza capire bene da dove escano. Si pensa sempre: 'Mettiamo 3, 4 o 5 miliardi qui, uno di là'. Ma si ragiona molto poco sul fatto che tutti questi denari provengano dalle tasche dei contribuenti. Vengono forniti allo Stato che poi decide, secondo la propria volontà, come spenderli. Pensare che lo Stato spenda meglio del privato è una delle tendenze restauratrici dell'illiberalismo nato negli anni Ottanta e che prosegue ancora oggi".

Dove ci sta portando questo modo di pensare?

"Aver reso più efficiente l'apparato pubblico ha anche reso più pericoloso l'uso da parte dello Stato dei nostri soldi. Negli anni Ottanta la palese inefficienza della macchina pubblica innervosiva i contribuenti. In quegli anni c'era, però, una tassazione molto ridotta. Oggi abbiamo il paradosso di una tassazione elevatissima e di una efficienza maggiore. Questa non è però una medicina ma una droga".

Come valuti l'ultima legge di Bilancio?

"Per farla il governo ha avuto pochissimi giorni e pochissimi tecnici da impiegare. Un governo che si insedia e in trenta giorni deve licenziare una legge di Bilacio, la prima risorsa che deve avere dopo i soldi - anzi, forse ancor prima dei soldi - sono le risorse umane per comprendere di cosa si sta parlando. Perché portare nella realtà un disegno politico è complicatissimo. È quello che in ambito manageriale potrebbe essere definito l'execution. Tutti possono avere buone idee, poi serve qualcuno che le traduca in realtà".

Si sono poi trovati a gestire un'emergenza energetica non da poco...

"E, infatti, lì hanno riversato il cuore della manovra".

Hanno anche messo mano al reddito di cittadinanza.

"Già Martino aveva criticato duramente il reddito. Ma le misure sbagliate vanno cancellate con gradualità. E così ha dovuto fare il governo. Purtroppo il danno che fa l'eroina va attutito nella sua astinenza".

Serviva una sorta di metadone?

"Esatto. In questo modo si sono iniziati a ridurre gli errori del passato. E questa è la parte positiva della manovra. Ci sono, però, diverse scivolate pesanti".

Quali?

"Le extra tassazioni sono una follia. Così come considerare ricchi coloro che incassano più di duemila euro al mese, soprattutto se sono pensionati. L'equità sociale si raggiunge non tanto intevenendo su chi viene considerato ricco, ma su chi percepisce assegni previdenziali per cui non sono stati pagati i contributi".

In certe scelte ci si è messa pure l'Unione europea. Lo abbiamo visto anche sul tetto al Pos...

"La cosa allucinante è che un Paese sovrano, come il nostro, che partecipa ad una comunità come quella europea, debba chiedere il permesso per definire il tetto entro cui usare o meno un mezzo di pagamento elettronico. Questo dà un senso della follia europea. Negli anni Ottanta raccontavamo che l'Europa decideva la curvatura delle banane. Oggi ha trasferito questa volontà di controllo dagli alimenti alla Finanza. È impressionante. Noi non ce ne rendiamo conto perché associamo la vicenda dei pos all'evasione fiscale, che già di per sé è una sciocchezza. Ma anche avvicinandola all'evasione fiscale, l'idea che si debba chiedere il permesso per il limite sul pos rende bene l'idea di cosa si occupi veramente l'Europa: di pos e banane e non di indipendenza energetica".

Torniamo a Martino. Come lo ricordi?

"Era una persona dotata di una signorilità non scontata. Viveva in un mondo raro. Uno di quelli che rinunciano al seggio perché non vogliono avere a che fare con i parlamenti. La sua unica ambizione era quella di rendere sempre più diffusa l'idea liberale".

C'è un insegnamento in particolare che ti ha lasciato e che vorresti regalare ai lettori del Giornale?

"Prima di tutto la capacità di rendere semplici e divertenti anche le cose più complicate. Poi il fatto che non bisognava litigare sui dettagli ma, allo stesso tempo, non si doveva abdicare ai propri principi. Ed è questo il motivo per cui non ha voluto fare il ministro dell'Economia. Se lo avesse fatto, avrebbe dovuto abdicare ai suoi principi. Invitato a ricevere un premio in una prestigiosa università, non si presentò e inviò una lettera. Disse che quel che più gli dava fastidio, prima di coloro che parlavano male di lui, era chi parlava bene della sua persona".

Oltre ad essere un liberale convinto, sei anche un ottimista convinto. Forse i due aspetti vanno di pari passo, ma sono sicuramente il fondamento della tua "Ripartenza". Cos'hai in serbo per il 2023?

"In media partnership con ilGiornale.it partirò il 19 gennaio con una 'Ripartenza' milanese a tema energetico. Poi rifarò la solita 'Ripartenza' di luglio, al Teatro Petruzzelli di Bari, sulle infrastrutture. Il mio ottimismo nasce anche dalla grande storia del nostro Paese. Vorrei citare un aneddoto recente, di un grande comandante della X Mas, Salvatore Todaro, che affondò una nave belga. Riuscì a farlo in maniera straordinaria, dal punto di vista militare. La nave aveva 15-20 superstiti che stavano morendo. E il capitano decise di salvarli tutti. Il generale tedesco, che era con lui, gli disse che, fosse stato per lui, li avrebbe lasciati annegare. Todaro gli rispose: 'La differenza tra me e te è che io ho duemila anni di storia'".

Muore a Napoli Benedetto Croce. Azzarita sulla Gazzetta del 21 novembre 1952 : «Luce di cultura». Annabella De Robertis su la Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Novembre 2022

Il 21 novembre 1952 «La Gazzetta del Mezzogiorno» annuncia in prima pagina la morte di uno dei più importanti intellettuali del Paese e dell’Europa intera. «La morte di Benedetto Croce è giunta improvvisa per i famigliari e per i medici che avevano vegliato tutta notte intorno all’illustre infermo»: il filosofo si trovava nella sua casa, a Napoli. «Alle 10,50 di questa mattina si è spento nella sua abitazione di palazzo Filomarino, attorniato dalle figlie e dalla consorte Donna Adele, il senatore Benedetto Croce» La notizia si diffonde presto in città: «Nell’umida e piovosa giornata autunnale Spaccanapoli si era svegliata stamane come avvolta in una coltre ancora più malinconica del consueto. [...] Erano le 12,30 precise quando il custode del palazzo segnato col n. 12 ha accostato i battenti del portone e su uno di essi ha inchiodato un cartoncino listato a lutto. Presso il portone era già radunata, dalle primissime ore del mattino, una piccola folla».

Nato il 25 febbraio 1866 a Pescasseroli (Aq), Croce si era formato a Napoli e poi a Roma, città in cui viveva lo zio, Silvio Spaventa, che si prese cura di lui dopo la scomparsa dei genitori a causa del terremoto di Casamicciola del 1883. Senatore dal 1910, Ministro dell’Istruzione con Giolitti nel 1920-21, redasse il Manifesto degli intellettuali antifascisti e diventò il punto di riferimento della lotta al regime. «L’antifascismo di Benedetto Croce è stata la più alta e nobile affermazione di libertà contro un regime oppressore, perché esso ha compendiato in ogni protesta umana e civile», scrive nel suo editoriale Leonardo Azzarita.

«L’attività spesa da Benedetto Croce per la cultura, la storia, per la filosofia, per la scienza, la letteratura e l’arte non si presenta al commento giornalistico se non da parte di chi tutt’intera la conosce e l’ha approfondita, giacchè essa è di una vastità immensa e tocca in profondità tutti i dominii dello spirito. per noi giornalisti e per gli uomini politici d’Italia si è spenta una luce di dottrina e di cultura che, pur nella lotta politica quotidiana, dentro e fuori le aule parlamentari, costituiva un esempio, uno sprone, un monito. Benedetto Croce ha creduto con fervore di apostolo nell’Italia e nella libertà e tutto se stesso ha dato nella politica e negli studi per servire questa sua essenziale, luminosa, inestinguibile fede». Conclude Azzarita: «I suoi studi possono essere dominio di numerose e vaste élites non solo dell’Italia e dell’Europa, ma del mondo; ma il suo nome grande e glorioso è arrivato al popolo d’Italia e ai popoli del mondo come quello di un fervido, tenace e impavido assertore di libertà e di cultura, un maestro sommo di vita civile».

Bari, 70 anni dalla morte di Benedetto Croce, Emiliano: «Simbolo antifascismo». «La comunità ne deve essere orgogliosa». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Novembre 2022

"La Regione Puglia ha voluto fortemente celebrare proprio qui in via Sparano a Bari, dove sorge la Libreria Laterza, il settantesimo anniversario dalla morte di Benedetto Croce. Un filosofo che in tempi difficili, sulla base di una convinzione che partiva da uno dei suoi grandi maestri Giambattista Vico che la storia fosse una maestra di vita, scrisse pagine straordinarie dal punto di vista filosofico, storico e anche politico, nonostante il suo spirito libero l’avesse portato a guardare negli occhi le novità che man mano emergevano nella storia italiana. Benedetto Croce diventa il punto di riferimento non marxista, non comunista, non socialista, non basato sul materialismo storico, dell’antifascismo liberale italiano".

Così il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano durante la cerimonia per i 70 anni dalla scomparsa di Benedetto Croce, organizzata dalla Regione Puglia e dal Comune di Bari, svoltasi questa mattina a Bari tra via Sparano e via Dante, dove è collocata la targa in sua memoria.

"La Regione Puglia Puglia – ha affermato Emiliano – insieme al Comune di Bari, alla famiglia Laterza, all’Osservatorio per l’Antifascismo, all’Anpi, è qui per celebrare questa personalità che ha contribuito, in momenti così complessi e insieme a una schiera di grandi intellettuali, a costruire l’Italia repubblicana e democratica. Croce era legatissimo alla città di Bari non solo perché la casa editrice ebbe il coraggio, anche a pena di qualche arresto familiare, di pubblicare i suoi libri e di riunire dentro la libreria i momenti di pensiero che erano vietati a quel tempo, ma anche e soprattutto per l’orgoglio con il quale questa città ospitò il primo Congresso dei Comitati di liberazione nazionale, Radio Bari. Una storia bellissima nella quale intellettuali di diversi orientamenti dissero la loro in un momento difficilissimo consentendo, sia pure con ritardo, nel 2006 al Presidente della Repubblica di insignire la Città di Bari della Medaglia d’oro al valor civile. Una medaglia alla resistenza lunga cominciata in una libreria, proseguita nelle carceri dove furono detenute tante persone, passata dalla strage di via Nicolò dell’Arca e poi finalmente dopo il referendum costituzionale arrivammo a costruire questo Paese fondato sull’antifascismo e sulla resistenza. La cosa più importante oggi è ricordare che l’antifascismo non è una cosa solo della sinistra, tra i più fermi avversari del fascismo durante la seconda guerra mondiale è stato Winston Churchill. E dobbiamo a questa grande alleanza democratica la resistenza dell’Europa, la costruzione del disegno europeo e il fatto che ancora oggi siamo un punto di riferimento in momenti difficili. Ricordare Benedetto Croce non è una semplice ricorrenza, ma è un momento in cui quella resistenza comune degli uomini e delle donne che amano la libertà, la fraternità, l’uguaglianza si riuniscono a prescindere dalle reciproche appartenenze. Quindi viva Benedetto Croce, la Città di Bari, la Libreria Laterza, viva l’antifascismo, la democrazia, la Costituzione, la Repubblica italiana".

Il sindaco di Bari Antonio Decaro ha aggiunto: "Oggi siamo qui per ricordare il 70° anniversario della scomparsa di Benedetto Croce, uno dei più grandi intellettuali del 900 e con lui un pezzo della storia antifascista della nostra città. Il suo legame con Bari e con la casa editrice Laterza, per decenni punto di riferimento importante per la militanza culturale antifascista di tutta Italia è testimoniato oltre che dalle tante sue opere edite proprio da Laterza anche dalla sua partecipazione al congresso nazionale di liberazione che si svolse nel nostro teatro Piccinni a fine gennaio del 1944 dove ebbe impulso il percorso per la costituente e la nascita della Repubblica Italiana.

Qualsiasi nostro commento oggi sullo straordinario contributo morale, culturale e politico che Benedetto Croce ha dato al nostro Paese sarebbe certamente parziale e incompleto perché parliamo di una figura che oggi viene riconosciuta tre le più autorevoli e importanti del pensiero moderno. Celebrarlo qui a Bari è per noi un onore e un importante esercizio di memoria collettiva sul ruolo della nostra città negli anni della liberazione e della lotta al nazifascismo. Non a caso, questa giornata e questa tappa sono state inserite nel percorso dei luoghi della memoria nella guida "Puglia In Viaggio nella Memoria" promossa da Pugliapromozione e dalla Regione Puglia che ringrazio perché appuntamenti come questo, come anche la strage di Nicolò dell’Arca, la difesa del porto, il ricordo dell’uccisione di Benedetto Petrone di cui  tra qualche giorno ricorrerà l'anniversario ci aiutano a ricordare il passato e cioè da dove veniamo e soprattutto ci  aiutano a capire dove andare. È importante oggi ricordare alla città e alla nostra comunità che l’antifascismo non è un vessillo ideologico di cui vergognarsi né tantomeno da relegare ai libri di storia ma l'antifascismo è carne viva, è pensiero e azione quotidiana perché non esiste solo il fascismo del ventennio, esistono tanti nuovi fascismi, apparentemente silenti, più subdoli perché si mascherano di normalità. Ed è per questo – ha concluso Decaro - che ancora oggi è importante nutrire quegli anticorpi che la storia ci ha lasciato per permettere a noi e alle nuove generazioni di riconoscere i nuovi fascismi e di contrastarli con il coraggio della forza del pensiero e delle parole, come Benedetto Croce ci ha insegnato".

"È una giornata molto importante – ha spiegato Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto Pugliese per la Storia dell'Antifascismo e dell'Italia Contemporanea – perché proprio la Regione Puglia ha sollecitato il recupero dei luoghi della memoria in una prospettiva italiana e europea. E i luoghi della memoria rappresentano oggi, soprattutto per i più giovani, gli aspetti più profondi del passato. La guida della Regione, che contempla anche questa vicenda di resistenza culturale straordinaria, ha un valore internazionale. Il recupero della memoria di queste vicende, rappresenta un forte elemento di civiltà e anche di attenzione nei confronti delle nuove generazioni".

"Noi siamo qui perché la memoria e la storia hanno ancora un valore – ha detto Antonella Morga, coordinatrice Osservatorio Antifascimi - E mai come in questo momento è bene ed è giusto che si facciano iniziative come questa perché nessuno deve dare per scontato niente. A cominciare dal tema della libertà che sembra una conquista a noi consegnata dalla resistenza e dalla lotta di liberazione che ci ha lasciato in dote una Costituzione che, dobbiamo ricordarlo sempre, è una delle pagine più belle della nostra storia. E che noi dobbiamo difendere".

Per l’editore Alessandro Laterza "mantenere viva la memoria della città è un'operazione importante. Ringrazio le Istituzioni per aver deciso di dedicare un ricordo di Benedetto Croce sulle strade di questa città. Croce è stato un punto di riferimento imprescindibile per coltivare quella che lui chiamava religione della libertà, di cui lui è stato un sacerdote laico".

Pasquale Martino a nome dell’Anpi ha ricordato che "con il congresso del Cln qui a Bari furono gettate le basi della nostra Costituzione. Molti ricorderanno le parole di Calamandrei quando disse "se volete sapere dove è nata la Costituzione venite sulle montagne" perché la resistenza è la principale artefice del cambiamento dell'Italia. Ma parte di quel percorso è nato qui a Bari, ne dobbiamo essere consapevoli e dobbiamo custodire questa memoria".

La lezione di Benedetto Croce, 70 anni dopo. Roberto Esposito su La Repubblica il 19 Novembre 2022.

Benedetto Croce (1866-1952) 

Il 20 novembre 1952 moriva a Napoli il grande filosofo. Simbolo di resistenza al regime fascista e profeta di quella religione della libertà che resta il suo insegnamento

Settanta anni fa, il 20 novembre 1952, si spegneva, nella sua casa di Napoli, Benedetto Croce. Filosofo, storico, politico, scrittore, è stato, per riconoscimento unanime, uno dei maggiori intellettuali europei del Novecento. Ma non solo questo. Dalla metà degli anni Venti alla fine del regime è stato la guida morale dell'antifascismo. Senza di lui, senza la sua strenua difesa della libertà, sarebbe stato più difficile, per il nostro Paese, mantenere viva la relazione con la grande cultura europea.

Benedetto Croce: il filosofo e il senatore della libertà. A settant'anni dalla morte del filosofo e senatore italiano, la sua eredità rimane attuale. Difendere la libertà e le democrazie liberali dalla tracotanza del potere. Federico Bini su Il Giornale il 3 Dicembre 2022

La vita come un’opera d’arte; l’arte della filosofia come vita. La libertà come fondamento di ogni individuo. La libertà come musica, ricorrente e travolgente nelle domeniche di casa Croce a Palazzo Filomarino, dove si riunivano prima del fascismo gli amici, i discepoli e illustri passanti che ricercavano nell’incontro con il grande maestro quasi una forma di elevazione sociale.

La libertà come meta verso cui navigare e orientarsi anche quando i tempi e i venti spingevano in una direzione opposta. Quella del totalitarismo, fascista e comunista a cui il filosofo napoletano sempre si oppose in nome della libertà. E se Gentile, il suo "carissimo Giovanni", portò la filosofia al potere, lui la portò all’opposizione.

Benedetto Croce, prima di diventare il punto di riferimento del pensiero liberale occidentale, fu un uomo profondamente turbato, angosciato e sofferente, a cui la vita aveva sì dato tanto in termini materiali e di glorie (future), ma niente di paragonabile a quel vuoto causato dai tanti lutti che segnarono la sua travagliata esistenza.

Il terremoto di Casamicciola, nell’isola di Ischia del luglio 1883 sgretolò non solo la casa ma anche le certezze e i futuri sogni della famiglia Croce, portandosi via con sé il padre, la madre e la sorellina; egli stesso, come ricorderà molti anni più tardi, rimase "sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo" (parole che si leggono ora in B. Croce, Soliloquio, Adelphi 2022, p. 25).

Della famiglia il giovane Croce subì positivamente l’influenza e l’ascendente della madre Luisa Sipari che gli aveva trasmesso l’amore per i libri, la storia e i racconti passati che spesso si tramandano da generazione in generazione: "Mia madre aveva anche l’amore per l’arte e per gli antichi monumenti; e debbo a lei il primo svegliarsi del mio interessamento per il passato […]" (G. Desiderio, Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce, Liberilibri, 2014).

L’amatissima Angelina Zampanelli, compagna per quasi venti anni, ma mai sposata, cosa che attirò le ire dei preti, morì dopo una lunga e lenta malattia al cuore. Un amore intenso che contribuì non solo ad alleggerire le fatiche umane e letterarie del filosofo ma che ne fece emergere tutto il suo talento, potendosi ad oggi affermare che in quegli anni Croce divenne Croce.

L’amore travolgente, "che muove il sole e l’altre stelle" spinse il filosofo verso l’Olimpo dei più grandi pensatori di sempre.

Croce è soprattutto europeo

Giuseppe Prezzolini - il più italiano tra gli arcitaliani - lo definì il "poeta della filosofia", e Croce attraversò in ‘volo’ l’Atlantico ben prima del celebre Italo Balbo. E lo fece senza uso di idrovolanti, ma con la forza delle idee, del pensiero, degli scritti che uscivano dalle stanze definite dallo scrittore Desiderio un "laboratorio di idee" - ognuna aveva un nome e un ordine ben preciso - che contribuirono a costruire il mito di un titano della cultura europea e occidentale.

Perché Croce fu sì abruzzese, napoletano e quindi italiano, ma soprattutto europeo, e la sua Storia d’Europa è considerata da un ammiratore come Giovanni Spadolini, "la più importante delle sue opere". E Federico Chabod la definì - scomodando Sant’Agostino - : "La città di Dio della nostra epoca".

La forza della sua filosofia, nonostante i muri, le censure, i pedinamenti e l’isolamento affettivo che fu innalzato intorno al suo conviviale e a tratti teatrale cenacolo letterario - descritto magistralmente dalla figlia Elena in L’infanzia dorata e ricordi familiari (Adelphi) - travalicò i confini locali e nazionali per innalzarsi a religione della libertà e quindi a fondamento della civiltà occidentale moderna.

La crescita intellettuale di Croce fuoriesce da ogni canone accademico e forse la ragione del suo successo, oltre che nella straordinaria genialità, sta proprio qui, nello studio, nell’approfondimento libero, vincolato solo ai suoi impulsi ed interessi che spazieranno dalla storia alla letteratura, dalla filosofia (che sarà comunque il suo grande amore) alla politica.

Fu il Croce autodidatta che riportò agli antichi fasti il suo ‘Maestro’ De Sanctis e fece rivivere nuovamente nel suo antico splendore il Giambattista Vico che come il filosofo di Pescasseroli – pur laureandosi in Giurisprudenza – preferì lo studio privato e la lettura dei classici, da Platone a Sant’Agostino.

Il trionfo di Benedetto Croce è il trionfo della scuola della libertà, che si manifesta nei salotti conviviali (non modaioli e radical di oggi) di Roma e Napoli.

A Roma, in via della Missione, a casa dello zio Silvio Spaventa, storico esponente della Destra storica, suo tutore e ‘maestro’, tra professori, politici e intellettuali conobbe il frizzante e scoppiettante Arturo Labriola. È sotto la sua influenza che Croce, anni dopo, si immergerà nello studio del marxismo tanto da essere chiamato "compagno"; ma dopo aver analizzato i testi di Marx non li mandò "in soffitta", come Giolitti, bensì in una "bara".

Ma è in questo frangente che il giovane Croce si aggrappa alla filosofia come ad una zattera in mezzo al mare per ricercare un po’ di quiete in quella sua terribile angoscia che lo porterà alla depressione e a pensare anche al suicidio. La filosofia diviene quindi un armonioso strumento utile per la sua sopravvivenza fisica e psicologica.

A Napoli si costituì nel tempo il vero salotto letterario di casa Croce - uno dei più importanti dell’Italia liberale - che si animò vivacemente fino all’arrivo del fascismo e che fu governato prima da Angelina e poi dalla moglie Adele.

Don Benedetto Croce, definito dalla figlia Elena "uomo profondamente socievole", riceveva amici, discepoli e importanti figure politiche nella sua abitazione di Palazzo Filomarino, quasi adibita completamente a biblioteca. Famose erano le domeniche pomeriggio, e gli ospiti erano fatti accomodare nella "stanza di Mondragone" (nome derivato dall’Istituto presieduto da Adele Rossi).

Dal momento che il filosofo napoletano era attento a non sprecare tempo, una volta che la conversazione si faceva vivace e combattiva, lui si ritirava in una delle varie stanze adibite a studio e biblioteca e proseguiva le letture, la correzione di bozze rimaste in sospeso nell’accogliere i diversi ospiti.

Le due grandi rinunce

Oltre agli storici e stretti amici di famiglia come Fausto Nicolini e Alessandro Casati, c’erano figure che rimandano alla commedia napoletana dei De Filippo, Totò… tra questi spiccano il comm. Antonio Padula, "piccolo di statura, e di ‘epoca’ prettamente umbertina […] Aveva una raccolta da bibliofilo, cospicua di edizioni perfette e rare […] E avendo poi sposato in secondo nozze la sua perpetua per assicurarle l’esistenza, a lei e alla sua pesante famiglia, vendé nei suoi ultimi anni la biblioteca; di nascosto a mio padre, che non lo vedeva quasi più, ma fu sempre con lui affettuoso […]". Ed Enrico Ruta "un esteta e uno snob, e un intellettuale di enormi pretese: il tutto incarnato in un personaggio di vaudeville ottocentesco napoletano".

L’evento più atteso e scenografico era sicuramente l’arrivo di Giustino Fortunato, l’altro grande intellettuale meridionale. "Trattato come un prediletto pupillo" (Elena Croce), entrava nell’androne del palazzo con la carrozza e saliva le scale seguito da una corte di accompagnatori, quindi l’immancabile abbraccio con Croce che ricambiava con un affettuoso bacio sulla fronte.

È innegabile che in queste stanze, prima e dopo la caduta del fascismo, si scrisse parte della (vera) storia d’Italia, titolo di un’altra celebre opera crociana che Giolitti riuscì a leggere prima di morire e di cui disse: "È un vero inno alla libertà".

Benedetto Croce non è stato solo l’ultimo grande filosofo dell’età moderna, ma ne è stato protagonista, riuscendo a coniugare pensiero e azione con un impegno politico-istituzionale che lo portò – con la solita ed eccezionale signorilità – a rinunciare, nel 1946, alla presidenza della Repubblica, quindi a rifiutare la carica di senatore a vita offertagli da Einaudi.

Questo non gli impedì tuttavia di rivestire ruoli di prestigio: Senatore del Regno e poi della Repubblica a partire dal 1910, fu ministro della Pubblica Istruzione con Giolitti (1920-1921), quindi, nell’immediato dopoguerra, presidente del ricostituito Partito liberale e nuovamente ministro nel 1944 nei governi Badoglio e Bonomi.

Una profonda amicizia umana e politica, fu quella tra Croce ed Einaudi, l’altro grande gigante del pensiero liberale italiano. E i due, nonostante la famosa 'polemica' su liberalismo e liberismo, appartenevano a quella tradizione di sentimenti e valori risorgimentali, ereditati da quella Destra storica che da Cavour, Sella e Spaventa (zio di Croce) arrivò – nonostante l’oppressione fascista - al secondo dopoguerra, del cui risanamento morale, politico ed economico essi furono artefici. Per poi spegnersi lentamente e scomparire per sempre dalla cultura italica, viziata nelle sue fondamenta ideologiche e parlamentari dal compromesso tra cattolicesimo e comunismo. Anche se Croce scrisse che in fondo "il liberalismo visse da un capo all’altro del paese, tra strette di mano e qualche salotto".

"Un terremoto origina la sua filosofia; la sua opera terremota la filosofia", così si è espresso G. Desiderio, che dopo Fausto Nicolini ne è stato appassionato e autorevole biografo. A dimostrazione di come un libro, il più delle volte preso per caso da bambini, possa cambiare - in meglio - la vita e alimentare quel sogno dalla cui potenza dipende la bellezza dell’esistenza stessa.

Il filosofo della libertà rivive nelle sue eterne opere, nel ricordo dei nipoti e degli affezionati studiosi (come la Dott.ssa Teresa Leo), ma c’è un luogo in cui si intuisce la vastità e la potenza del pensiero di Croce: la sua monumentale biblioteca di circa 80.000 volumi, custodita oggi dal prezioso lavoro della Fondazione a lui intitolata, istituita nel 1955 dalle eredi del filosofo e presieduta oggi dal professor Piero Craveri, figlio di Elena Croce e di Raimondo, tra i fondatori del Partito D’Azione.

Salendo al secondo piano del Palazzo Filomarino, si legge una bellissima targa: "Tra queste secolari mura, Benedetto Croce trovò pace domestica e invincibile virtù per la ricerca del vero, per la difesa della libertà, in mirabile opera, in vita esemplare, segnando il suo pensiero alto nell’eterno umano sapere".

Qui, in questo angolo chiassoso di una Napoli un tempo popolare, Croce ci conduce in un gioco di passi verso la ricerca della consapevolezza di quella libertà per cui combatté – anche se ‘solo’ con la forza del pensiero e del calamaio – tutta la vita.

Sapeva parlare con tutti

In Soliloquio, breve antologia curata da Giuseppe Galasso, c’è un piccolo ma significativo estratto in cui Benedetto Croce parla della "vista dalla casa": "Quando, levandomi dal tavolino, mi affaccio al balcone della mia stanza da studio, l’occhio scorre sulle vetuste fabbriche che l’una in contro all’altra sorgono all’incrocio della via della Trinità Maggiore con quelle di San Sebastiano e Santa Chiara. Mi grandeggia innanzi a destra, e quasi mi pare di poterlo toccare con la mano, il campanile di Santa Chiara, che sull’alto basamento di travertino, fasciato delle iscrizioni dedicatorie in lettera gotica di re Roberto D’Angiò e della regina Sancia di Maiorca […]".

Da una stanza all’altra, dove sono allineati libri preziosissimi e rari, dal maestro De Sanctis a Vico, dove sono custoditi i carteggi con Gentile, Giolitti e Sonnino, si respira tutto il fervore letterario e l’impegno civile a cui Croce dedicò anima e corpo senza risparmiarsi.

Il filosofo napoletano viaggiò molto in Italia e in Europa, conosceva inglese, francese, spagnolo e tedesco, ebbe amicizie e corrispondenze con figure di primissimo piano nel campo della scienza, della letteratura e della politica, da Einstein a Mann. Ma soprattutto sapeva interloquire con tutti, dal più alto e prestigioso letterato all’umile popolano, arricchendo la conversazione di piacevoli aneddoti.

Erano in tanti a ricercare in Croce un consiglio, una parola, un aiuto, anche economico. E lui, data la sua vita così tragicamente segnata, aveva quasi un senso di partecipazione e condivisione della sofferenza altrui.

Prima di salire le scale che portano al secondo piano di Palazzo Filomarino (dove abitò dal 1911 al 1952) c’è una piccola panchina in pietra che fece costruire per permettere ai suoi visitatori di attendere seduti il loro momento.

Dalla città di Napoli, quella città che seppe farlo innamorare con la sua vivacità e vitalità, dove amava passeggiare, udir quei detti così spiritosi lasciò andare la sua anima al termine di una tormentata esistenza. Ma non per sempre. Perché Benedetto Croce continua a vivere e vivrà in eterno in quei corridoi pieni di libri che conducono verso la libertà. Il bene supremo per ogni individuo.

Croce fu dunque sì il filosofo della libertà, del patriottismo carducciano, ma soprattutto il padre di una civiltà, quella occidentale, che ha il dovere di tutelare e preservare quello Stato liberale garanzia dei diritti giuridici, economici e politici senza i quali non ci sarebbe futuro.

Un futuro fragile nelle sue fondamenta democratiche che Croce, filosofo ma anche lungimirante politico, aveva già intravisto.

Con la morte di Benedetto Croce, avvenuta il 20 novembre 1952, se ne andava "l’ultimo grande uomo d’Europa" che si oppose alla tracotanza del potere in nome della libertà.

70 anni dalla morte del filosofo. Benedetto Croce, il patriota che tollerò il fascismo: con Mussolini dopo delitto Matteotti e detenzione Gramsci. Michele Prospero su Il Riformista il 24 Novembre 2022 

Cadono a poca distanza tra loro l’anniversario della marcia su Roma (28 ottobre 1922) e quello della morte di Benedetto Croce (20 novembre 1952). Questo "patriota alla maniera antica", come amava definirsi anche per differenziare il suo ideale etico dal culto magico del nazionalismo più deteriore e naturalistico, non colse il carattere distruttivo del fascismo, che egli appoggiò anche dopo il delitto Matteotti. Quella somministrata dai fascisti era, per lui, "una pioggia di pugni utilmente e opportunamente somministrata". In una celebre intervista del 1924, Croce confermava il sostegno al governo e si premurava di definire "un così grande beneficio la cura a cui il fascismo ha sottoposto l’Italia". La sua preoccupazione era semplicemente che una terapia d’urto che appariva così incisiva contro "la bestia democratica" potesse durare lo spazio di un attimo.

Ancora in Politica in nuce il bersaglio preferito del filosofo della religione della libertà erano i democratici, che non gli piacevano per via delle loro edificanti prediche sull’eguaglianza, sulla libertà e sulla fraternità. Non turbavano in alcun modo le violenze dei fascisti, che anzi erano presentati come "uomini di vivo senso storico e politico divenuti appassionati partigiani della forza". Odiosi erano i rossi, i democratici, non il partito armato delle camicie nere. Anche se quella distribuita dai fascisti era solo una forza "grossolanamente intesa", il movimento politico di Mussolini aveva comunque il merito, agli occhi comprensivi di Croce, di dare "scappellotti" ai sostenitori delle "forme insulse" della democrazia. Nel vecchio mondo liberale si sentiva da tempo il bisogno di una pulizia ideologica che liberasse il tessuto molle della nazione dalla "mala gramigna" del socialismo.

Per questo Croce (Cultura e vita morale, cit., p.196) raccomandava di insistere nell’opera di distruzione degli idola tribus del conflitto sociale e di "non darsi troppo pensiero della signora Democrazia e del signor Socialismo". La seduzione del filosofo per le pratiche spicciole di repressione dei moti sovversivi affondava le proprie radici in un timore per l’avanzata delle masse che coinvolse molta intellettualità europea negli anni della rivoluzione conservatrice. Contro "il mito delle masse" che ricercano altre forme di potere, i veri pensatori "si comportano da reazionari", ammoniva Croce (Scritti e discorsi politici, Bari, II, p. 139). Dinanzi al fenomeno nuovo dei movimenti popolari che nel loro impeto rappresentano un soggetto politico assai temibile, il problema principale diventava la difesa dell’antico ordine statuale traballante. Nelle scelte tragiche del dopoguerra Croce assunse via via "l’atteggiamento del conservatore che vedeva nel fascismo una pratica politica restauratrice di una legalità violata" (N. Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, p. 219). Con il suo peculiare liberalismo, che dopo la guerra di Libia del 1911 palesava delle tinte sempre più marcatamente conservatrici, Croce (Etica e politica, p. 234) asseriva che era necessario scagliarsi contro le "vuote" idee d’eguaglianza. E, nell’ottica di una fiera battaglia delle idee che non disdegnava la forza, avevano per lui ragione quanti prendevano "a scappellotti i creduli in quelle formule insulse e coloro che le vanno ripetendo a uso dei gonzi" (ivi). Proprio mentre il filosofo era alla ricerca di risposte forti contro i fenomeni politici degenerativi immessi nello spazio pubblico dalla crescita del socialismo e della democrazia, l’avvento del fascismo "galvanizzò Croce in una nuova attività. Dapprima egli diede al regime di Mussolini la sua autorevole approvazione, giudicandolo una forza capace di rivitalizzare la nazione" (H. Stuart Hughes, Coscienza e società, Einaudi, p. 211).

La nazione, la vita erano diventati motivi centrali nella filosofia crociana. Con l’inno alla Vita, e con delle ricorrenti suggestioni bergsoniane, Croce "pur così strenuo assertore della ragione, si trovò non di rado a confondersi con i distruttori della ragione" (E. Garin, Storia della filosofia italiana, Einaudi, p. 1297). Con le correnti dell’irrazionalismo europeo, che pure contrastava sul piano teorico, Croce "condivise il generale atteggiamento antintellettualistico, la rivalutazione del mondo delle passioni, delle forze vitali e irrazionali" (N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Einaudi, p. 75). Non si trattava solo degli sbandamenti occasionali di un pensatore colto di sorpresa dinanzi alle ambiguità che sempre accompagnano i processi politici di rottura. Secondo Bobbio (Politica e cultura, p. 239), alla fonte delle incertezze che accompagnarono il filosofo nella decifrazione delle tendenze autoritarie del primo Novecento c’era il fatto che "la formazione culturale del Croce era avvenuta interamente al di fuori della tradizione liberale". Ostile al giusnaturalismo e al suo "astratto ideale di una natura umana fuori della storia umana", perplesso sui diritti naturali (dopo l’originario significato laico- razionale, l’espressione assume "un chiaro e popolare empirismo"), refrattario alla "mentalità settecentesca" del contrattualismo con il suo dover essere astratto e individualistico, Croce prediligeva taluni motivi romantici, ovvero il sacrificio, la tradizione, la disciplina sociale.

Il liberalismo inglese di Stuart Mill egli lo inquadrava con un disprezzo teorico irriducibile per via dei suoi "poveri e fallaci teorizzamenti", che risultavano alla base di degeneri inclinazioni atomistiche, agnostiche, sensistiche, edonistiche. Estranea al liberalismo inglese era per Croce la consapevolezza del processo storico come un tragitto nient’affatto unilineare (come una rassicurante "via di progresso piana, sicura e priva di accidenti") e, anzi, aperto a "rischi di ridiscese", a "crudeli conflitti e devastazioni", a "vie scabrose e dirupi". Anche il liberalismo in versione tedesca, sia pure con i "grandiosi sistemi filosofici" sfornati per disarmare edonismo ed empirismo, mostrava, agli occhi di Croce, uno scarso senso della libertà. Il soggetto libero risultava, di fatto, "schiacciato sotto l’idea dello stato, una sorta di astrazione personificata con attributi e atteggiamenti da nume giudaico". L’idealismo tedesco, con la sua "statolatria", andava ridimensionato entro la cornice di un liberalismo più attento agli spazi di libertà del singolo.

Era alla Francia della Restaurazione che Croce guardava come ad un interessante momento di riflessione in cui compariva un’efficace "congiunzione di storicismo e libertà", inficiato però dalla cronica mancanza di "menti filosofiche poderose". Significativo è l’accenno che egli faceva alla figura di Tocqueville, pensatore politico al quale il filosofo abruzzese si volgeva con notevole interesse perché vi riscontrava "un certo tratto conservatore, sebbene fosse un conservatorismo secundum quid, di origine nobilissima, un attaccamento a talune tradizioni, istituzioni e condizioni di fatto in quanto egli le vedeva necessarie alla libertà" (B. Croce, Scritti e discorsi politici, Laterza, I, p. 115). Per rimarcare una convergenza di vedute con il pensatore francese, Croce precisava: "Per sospetta o poco attraente che suoni sovente questa parola ‘conservazione’, non si vorrà certo protestare contro coloro che si studiano di conservare la robustezza dell’intelletto, il sentimento del bello, il discernimento morale, l’amore della libertà" (ivi, p. 116). Il conservatorismo, nell’accezione di Croce, era da intendersi, al pari di quell’atteggiamento apprezzato da Tocqueville, come "raccoglimento e approntamento di forze per bene operare e sempre andare innanzi nella lotta della vita". La sostanza più profonda dell’approccio inseguito dal filosofo italiano poggiava nella "concordia discors di liberalismo e democrazia".

Nell’impegnativo saggio del ‘39 a proposito della teoria filosofica della libertà (in Il carattere della filosofia moderna, Bari, 1940, pp. 104 sgg), Croce sviluppava una riconsiderazione critica della parabola del liberalismo del primo ‘900. Parlava, a tal proposito, di "una strana crisi" che vide le idee di libertà (un "ideale morale di umanità e civiltà") soccombere al cospetto della violenza e dell’irrazionale che accompagnavano il virus del materialismo. I moti di protesta lasciavano le élite deboli e in declino dinanzi all’impetuosa massa emergente. La "religione della libertà" non disponeva di miti per tradurre la filosofia liberale in un "convincimento e giudizio popolare". Tale religione senza popolo era travolta dalle onde minacciose della storia. Contro "le cosiddette masse, a cui un demagogico romanticismo attribuisce misteriose e magiche virtù e presta un correlativo culto", Croce richiamava il ruolo costruttivo delle èlite. La caduta delle civiltà si arginava solo con la capacità di "accrescere la classe dirigente di sempre fresche forze".

L’incomprensione dell’esigenza di sollevare una energica azione di massa contro il regime totalitario appare evidente. Il liberalismo veniva rilanciato come una "primavera spirituale" che richiedeva i suoi "geni religiosi e apostolici, ai quali, lento o rapido, si è congiunto poi il consenso delle genti". La battaglia contro il fascismo, ha notato F. Valentini (La controriforma della dialettica, Editori Riuniti, p. 62), Croce, approdato a istanze critiche, la "combatté sul piano dell’eterno, più che sul piano storico. Preferì vedervi una manifestazione della malattia del secolo, l’attivismo irrazionalistico, e quindi una sorta di peccato contro lo spirito". E però c’era anche chi resisteva al regime totalitario. Depurato da una certa ostilità verso le correnti storicistiche e da alcuni schematismi interpretativi, il drastico giudizio etico-politico di Zeev Sternhell (Contro l’Illuminismo, Baldini Castoldi, p. 506) evidenzia però un dato reale: "La dissidenza non è stata molto dura per Croce, comodamente sistemato nella propria casa, mentre Gramsci è stato liberato solo per non farlo morire in prigione. Non c’è bisogno di dire che la detenzione di Gramsci in durissime condizioni non suscita alcuna reazione da parte di Croce. In tutti gli anni del fascismo, egli continua a pubblicare la sua rivista La Critica e, separando la cultura dalla politica, rende a Mussolini un servizio senza prezzo per il regime. Mentre Gramsci sta pagando con la libertà, e in pratica con la vita, la convinzione che una simile separazione comporti un tradimento della cultura, l’odio di Croce per il comunismo è abbastanza profondo per rendergli il fascismo tollerabile". Michele Prospero

Non possiamo non dirci crociani. Non possiamo non dirci crociani per molti motivi. Il filosofo condannava sia il fascismo sia il comunismo. Una lezione semplice ma importante. Alessandro Gnocchi il 20 Novembre 2022 su Il Giornale.

Non possiamo non dirci crociani per molti motivi. Il filosofo condannava sia il fascismo sia il comunismo. Una lezione semplice ma importante. L'Italia tuttora non è in grado di impararla. Mentre la condanna per il fascismo, giustamente, è ormai unanime, una parte consistente della sinistra è ancora convinta della favola secondo la quale il comunismo sarebbe una splendida idea purtroppo applicata male. Al cristianesimo abbiamo preferito qualsiasi dottrina materialista. Croce, pur non essendo credente, si dichiarava cristiano perché sapeva che, se togli il cristianesimo, la società inizia a scivolare su un piano inclinato in fondo al quale c'è sempre il disprezzo per la vita e l'individuo. Croce racconta in Contributo alla critica di me stesso di aver perso la guida della dottrina religiosa e di sentirsi «insidiato da teorie materialistiche, sensistiche e associazionistiche, circa le quali non mi facevo illusioni, scorgendovi chiaramente la sostanziale negazione della moralità stessa, risoluta in egoismo più o meno larvato». Fu il confronto con lo zio e tutore Silvio Spaventa a restituire la fede, laica e liberale, sui «fini e doveri» della vita. Maestro di Retorica, Croce disprezzava la retorica, il vero cemento (friabile) delle istituzioni italiane. Nel Contributo, il filosofo esprime il «fastidio per la rettorica liberalesca e la nausea per la grandiosità di parole e per gli apparati di qualsiasi sorta». Spirito realmente morale e dunque non moralista, politico quasi suo malgrado ma con una visione netta, Croce si chiese cosa fosse l'onestà, appunto, in politica. La risposta è secca: «L'onestà politica non è altro che la capacità politica: come l'onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». L'Italia ha appena vissuto un momento drammatico in cui sono approdati in parlamento uomini nuovi e interi movimenti che facevano vanto di non conoscere le istituzioni, di non essersi mai sporcati le mani con la gestione della cosa pubblica e di essere onestissimi. Risultato: una tragedia con punte di selvaggia ma involontaria comicità. Non meno importante è l'estetica crociana. Lo studioso aveva chiara un'idea che pare estranea a gran parte del mondo letterario di oggi: la critica militante non ha alcun senso se non è preceduta e accompagnata da una filosofia estetica. In caso contrario, presto o tardi, prestissimo nel caso italiano, diventa l'ancella del mercato e la sorella della pubblicità, un triste scambio di piaceri tra amici o un regolamento di conti tra bande, niente che possa convincere e stimolare un lettore. Per forza la critica non si fa più: è irrilevante, con le dovute eccezioni, e allora è meglio l'intrattenimento più o meno colto. Quando esisteva la cultura italiana, in un tempo che sembra spaventosamente lontano, si poteva procedere mettendosi in continuità con il maestro Croce oppure andare oltre il suo magistero senza contestarne la grandezza. Così fece, ad esempio, Gianfranco Contini rivendicando la critica delle varianti come integrazione (e superamento) della critica crociana. Altra epoca, altro spessore.

I liberali e il no alla sinistra. Redazione e Michele Gelardi su L'Identità il 19 Ottobre 2022

Se la Thatcher, leader dei conservatori inglesi, si contrapponeva ai laburisti; se Reagan, leader dei repubblicani americani, si contrapponeva ai “democratici”; se in ogni angolo d’Europa i liberali sono avversari politici dei socialisti; una ragione deve pur esserci. E se ovunque gli uni si chiamano “destra” e gli altri “sinistra”, la radice del bipolarismo, programmatico e semantico, non può non avere solide basi storiche.

Solo in Italia la confusione delle lingue rende possibile la commistione lib-lab, in virtù della quale tutti fanno a gara a definirsi “liberali”, a prescindere dal contenuto di libertà dei programmi politici. Vorrei suggerire un criterio minimale per riconoscere il contenuto liberale, al di sopra e al di fuori del nominalismo di facciata. Prendiamo in considerazione la linea discriminatoria fondamentale: dirigismo/spontaneismo.

I socialisti non possono non essere dirigisti, per la necessità di attuare politiche di redistribuzione, posto che la distribuzione di mercato non pare loro soddisfacente; il che impone loro di essere statalisti, dovendo demandare all’autorità politica e agli apparati di Stato l’onere di togliere agli uni per dare agli altri. I liberali apprezzano gli ordini spontanei, fondati sull’innata socialità dell’uomo e sullo scambio volontario; diffidano al contempo della potestà coercitiva dello Stato e intendono ridurne al minimo gli interventi.

Il primo e fondamentale ordine spontaneo consiste nel linguaggio umano. La semantica linguistica non è frutto della pianificazione politica; non è programmata da alcuna autorità; si evolve con l’apporto di tutti e il comando di nessuno.

Eppure in quest’ordine spontaneo risiedono le basi del nostro sapere. Se il consesso umano progredisce in scienza e tecnologia, non lo si deve certo alla benevolenza dello Stato, i cui apparati burocratici possono tutt’al più intralciarne le vie.

In ultima analisi, la stessa civiltà umana consiste in un ordine spontaneo che non obbedisce alle deliberazioni autoritarie, dalle quali tuttavia può risultarne distorto.

Ebbene se la lingua è la più limpida espressione della libertà; il primo e fondamentale ordine spontaneo, sul quale si edifica il castello della convivenza umana; chiediamoci se colui che intende imporre vocaboli “politicamente corretti” possa definirsi liberale. La violenza della politica ha inizio nelle piccole cose; ma se la tolleriamo nelle piccole, non potremo certamente fermarla o arginarla nelle grandi.

Se taluno vuole imporci la parola “direttora”, al posto della comune direttrice, o “presidenta” etc.; e ci vuole impedire di usare il termine “negro” per nulla dispregiativo (semmai è il “nigger” americano a suonare dispregiativo); e vuole chiamare “mammo” il padre; e vuole chiamare genitore 1 e genitore 2 il padre e la madre; può costui definirsi liberale?

E questo sedicente liberale, che vuole violentare perfino la nostra lingua, si porrà forse qualche scrupolo nel “dirigere”, “indirizzare”, “pianificare”, “omologare” le nostre relazioni economiche e sociali, in nome del “supremo bene comune”?

Ovviamente, i dirigisti vogliono dirigere la società per tutelare i consociati, con tutte le forme possibili di “prevenzione”; e ovviamente, nella libera dinamica della democrazia, hanno tutto il diritto di patrocinare il loro dirigismo; non hanno, tuttavia, il diritto di chiamarsi liberali.

Lettera aperta (sulla giustizia sociale) agli statalisti ottusi. La lezione di due cattolici liberali per un vero sistema di sostegno al reddito. Giancristiano Desiderio il 6 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Un aneddoto rivelatore. Abitavo in una via anonima fino a qualche tempo fa. Ora la strada ha un nome. Illustre: Luigi Einaudi. Solo che quando hanno collocato la targa c'era scritto: Luigi «Einaudi». Se il nome del primo presidente della Repubblica ma, soprattutto, uno dei maggiori pensatori della libertà economica del secolo scorso fosse conosciuto ai più non ci sarebbe stato quel tanto banale quanto significativo errore di stampa.

Invece, nome e opera di Luigi Einaudi, che fu l'artefice della politica economica e monetaria del governo di Alcide De Gasperi, sono bellamente ignorati da politici ed elettori del Paese europeo che ha il più grande debito pubblico. Proprio per questo motivo ha particolare valore la lettera ai «liberali distratti» e agli «statalisti ottusi» che due cattolici liberali come Dario Antiseri e Flavio Felice hanno ora pubblicato: Libertà e giustizia economica vivono e muoiono insieme (Rubbettino, pagg. 108, euro 14)

Antiseri e Felice discutono prima con Hayek e Popper, Einaudi e Friedman per poi prendere in considerazione le idee «spesso trascurate di liberali cristiani» come Angelo Tosato, Michael Novak, Wilhelm Ropke per giungere alla conclusione che l'economia sociale di mercato permette la produzione di beni e di ricchezza con la libertà economica e, tramite uno Stato più o meno avveduto, una ragionevole distribuzione di risorse che sia insieme un sostegno al reddito e ai più bisognosi che, non potendo lavorare si pensi ai malati, ai disabili, ai vecchi possono confidare sull'aiuto dei connazionali che lavorano. Il punto centrale della discussione, come si sarà facilmente intuito, è quanto sarà avveduto questo benedetto e maledetto Stato che va precisato di suo non esiste nemmeno ed è fatto dai governi e dalle classi politiche che di volta in volta lo guidano. Infatti, come da sempre ha messo in luce Hayek il cui liberalismo, proprio come in Einaudi e Croce, è animato da un vivo senso storico se si parte dall'idea che la «giustizia sociale» sia la «correzione» che si deve fare del mercato, allora, si otterranno due disastri: «ingiustizia sociale» e illibertà economica. Se, invece, si è politicamente consapevoli che la «giustizia sociale» non è la correzione di un bel niente ed è questione di esperienza, equilibrio, avvedutezza, allora, proprio attraverso la ricchezza e la produzione del libero mercato e della società aperta si potranno fare operazioni fuori mercato. Il grande economista liberale scrive testualmente: «Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può più provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande società in cui l'individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato».

Vale la pena mettere in luce che ci può essere reddito minimo se c'è libertà economica che genera ricchezza. Si tratta di un'osservazione più che significativa perché senza libertà economica non ci potrà essere nessuna legislazione sociale e, quindi, come dice Einaudi con parole attualissime, «anche chi ammette il concetto del minimo nei punti di partenza, sa che bisogna cercare di stare lontani dall'estremo pericolosissimo dell'incoraggiamento all'ozio. Questo è il freno che deve stare sempre dinanzi ai nostri occhi». Ma questo «freno» spesso e volentieri non sta dinanzi agli occhi del governante di turno che attraverso le perversioni della «giustizia sociale» crea proprio ozio, pigrizia, privilegi. Ecco perché è fondamentale chiarire che la «giustizia sociale» non corregge la libertà ma la presuppone e solo attraverso la stessa libertà, economica e morale, si potrà avere anche l'aiuto sociale.

Ecco perché è particolarmente significativa la figura di don Angelo Tosato che propone una interpretazione dei testi evangelici che lo porta a concludere che «il Vangelo non condanna come demoniaca la ricchezza terrena» e denuncia, invece, «che essa sia caduta nelle mani del Demonio e dei suoi servitori». In altre parole di ricco buonsenso di Antiseri e Felice: «Il Vangelo non condanna i ricchi in quanto tali, né impone loro di sbarazzarsi della loro ricchezza, piuttosto mette in guardia il cristiano dal diventarne schiavo, eleggendola a proprio Signore, promuovendola a proprio Dio». Non è questa l'etica stessa del liberalismo, sia esso classico o novecentesco, che ha come mezzo e come fine non il denaro in quanto tale ma lavoro e libertà?

Verrebbe quasi da parafrasare il titolo della «lettera» di Antiseri e Felice: libertà e lavoro vivono e muoiono insieme.

La logica del mercato. Motore individuale. Che cosa vuol dire essere libertari oggi. Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 25 Agosto 2022

Durante la conferenza mondiale di Liberty International, a Tbilisi, alcuni intellettuali ed economisti provenienti da Paesi di tutto il mondo hanno discusso della guerra in Ucraina, di migrazione e big tech, cercando una radice comune per spiegare meglio al mondo quali siano i valori del libertarismo

Dall’11 al 14 agosto ho partecipato alla conferenza mondiale di Liberty International a Tbilisi. Libertari provenienti da 19 Paesi hanno discusso su come conquistare maggiore libertà. Forse non è stato un evento a cui i media hanno dato grande risalto, ma è stato sicuramente un appuntamento internazionale, con ospiti e relatori provenienti da Georgia, Russia, Polonia, Serbia, Romania, Tagikistan, Cile, Venezuela, Colombia, India, Giappone, Nepal, Corea del Sud, Stati Uniti, Regno Unito, Danimarca, Islanda e Germania.

I libertari sono a destra o a sinistra dello spettro politico? Sentendoli parlare di socialismo e capitalismo, alcuni potrebbero collocarli a destra. D’altra parte, ci sono molti libertari, ma non tutti, che sostengono ardentemente l’apertura delle frontiere e l’immigrazione illimitata. Uno dei libertari più noti è l’americano Ken Schoolland, un professore di economia che vive alle Hawaii e il cui libro, Le avventure di Jonathan Gullible, è stato pubblicato in 61 lingue, in Italia dall’editore Liberilibri. L’argomento del suo intervento è stato “Accettare la libertà dei rifugiati”. Perché, si è chiesto, c’è una tale disponibilità ad accogliere i rifugiati provenienti dall’Ucraina, mentre invece molti europei si opponevano all’arrivo dei rifugiati sul continente nel 2015?

A suo avviso, le diverse reazioni sono in gran parte dovute al fatto che i profughi provenienti dall’Ucraina hanno maggiori probabilità di essere donne e che la cultura, la religione e l’etnia degli ucraini sono più vicine a quelle di molti europei rispetto a quelle dei rifugiati provenienti dagli Stati arabi o dall’Africa. Tuttavia, sostiene Schoolland, si tratta di spiegazioni, non di giustificazioni, per lo scetticismo delle persone nei confronti della migrazione. Inoltre, il fatto che molti rifugiati siano attratti dalle elargizioni dello Stato sociale non rappresenta una valida argomentazione contro di loro, perché non è colpa loro se esiste lo Stato sociale, che Schoolland – come tutti i libertari – rifiuta. 

Ogni imprenditore, sostiene Schoolland, dovrebbe essere libero di assumere i dipendenti che vuole e che ritiene migliori, a prescindere dalla loro nazionalità. Non si dovrebbe, ad esempio, dare priorità ai cittadini statunitensi rispetto agli immigrati provenienti dall’America Latina. Nessuno dovrebbe avere maggiori possibilità di ottenere un lavoro solo perché è nato in un certo Paese. 

Personalmente sono d’accordo solo in parte con queste opinioni. Lo Stato sociale, che lui disapprova, è una realtà e comprensibilmente attira un gran numero di immigrati da altri Paesi. La combinazione di Stato sociale e frontiere aperte è chiaramente insostenibile dal punto di vista economico. E chiunque sia a favore della libertà dovrebbe accettare anche il fatto che la maggioranza delle persone in un Paese voglia fissare dei limiti massimi per l’ingresso degli immigrati – per qualsiasi motivo.

Gli orrori della Rivoluzione culturale

Anche la moglie di Ken Schoolland, Li, è una delle persone più conosciute della scena libertaria. Ha tenuto un discorso straziante sulla sua vita in Cina dal 1958 al 1984. Quelli furono i decenni peggiori per vivere in Cina, perché il 1958 segnò l’inizio del “Grande balzo in avanti” di Mao, il più grande esperimento socialista della storia umana, in cui morirono circa 45 milioni di cittadini cinesi. 

Nel 1966, quando lei aveva otto anni, iniziò la successiva campagna di Mao, la “Grande rivoluzione culturale proletaria”, che fece sprofondare il Paese nel caos per i dieci anni successivi. Suo padre, un chirurgo, fu messo in prigione per aver fatto una battuta politicamente inopportuna e sua madre, una professoressa, fu umiliata pubblicamente. Alle donne come lei fu fatto un «taglio di capelli alla Yin-yang», che le rendeva immediatamente identificabili come appartenenti ai neri, i malvagi sostenitori del capitalismo, in contrapposizione ai rossi che sostenevano Mao. Davanti ai suoi occhi, sua madre fu picchiata dai fanatici seguaci di Mao. Poi, quando aveva nove anni, era presente quando le Guardie Rosse entrarono in casa sua e sequestrarono tutti i beni suoi e della sua famiglia. Questo fu un evento cruciale per la sua vita, perché l’aiutò a formarsi questa convinzione: «potete prendere tutto ciò che possiedo, ma non potete prendere i miei pensieri e i miei sentimenti».

Le Guardie Rosse chiesero a Li, nove anni, e a suo fratello, otto anni, di spifferare ciò che la madre aveva detto contro i comunisti. I due bambini si rifiutarono. Il loro silenzio fu considerato una prova contro la madre. Il loro rifiuto di denunciare la madre, agli occhi delle Guardie Rosse, dimostrava che lei aveva detto loro di non obbedire alle autorità. Altri bambini hanno vissuto esperienze ancora più traumatiche: un bambino, ad esempio, ha dovuto assistere al momento in cui la dinamite è stata legata intorno al padre, che è stato fatto esplodere in pubblico.

Big tech: una minaccia per la libertà?

Un altro tema è stato affrontato durante la tavola rotonda “Le Big Tech sono una minaccia per la libertà?”. Questa sessione ha visto uno scontro tra opinioni diverse. Da una parte, i libertari che sostengono le politiche antitrust contro i monopoli e i cartelli per limitare il potere di aziende come Google, Facebook, Amazon e Apple. Dall’altro lato, gli economisti che sottolineano che i “monopoli” di oggi, apparentemente onnipotenti, non lo saranno più nel lungo periodo e un giorno perderanno il loro potere, proprio come è successo a Xerox, IBM, Kodak, Nokia e molti altri in passato. 

Io stesso ho scritto un intero capitolo sull’argomento nel mio prossimo libro sul capitalismo che verrà pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni, concludendo che, in primo luogo, i monopoli non hanno solo lati negativi, ma, come ha dimostrato l’economista austriaco Joseph Schumpeter, spesso svolgono una funzione economicamente utile e, in secondo luogo, vengono eliminati nel medio termine dalle innovazioni e dalle nuove imprese. Il più grande nemico dei monopoli è il capitalismo stesso, non la legislazione statale anti-monopolio.

I socialisti hanno una migliore comprensione del marketing

I libertari sono un piccolo gruppo e la loro influenza sulla politica, sull’opinione pubblica e sui media – nonostante i numerosi think tank che esistono in tutto il mondo – è limitata. Lo svedese Per Bylund lo ha detto chiaramente nella sua conferenza: «Sebbene noi libertari capiamo il mercato meglio dei socialisti, i socialisti sono molto più bravi e hanno più successo nel mercato dell’opinione pubblica». Il messaggio libertario, ha detto, è spesso troppo astratto e non raggiunge le persone. I libertari parlano molto di imprenditorialità, ma falliscono quando si tratta di realizzare le loro idee. «Chi è il cliente? Qual è il prodotto?» – sono domande a cui ogni imprenditore deve rispondere per avere successo. Eppure i libertari si pongono queste domande troppo raramente. Qual è il beneficio per le persone in generale? Come, in termini reali, una maggiore “libertà” può migliorare le loro vite? «Pensate al movimento libertario come a un’azienda che fornisce un prodotto di valore, non come a un’organizzazione no-profit o di beneficenza», ha raccomandato.

Città libere e isole libertarie 

Jan Bertram, relatore della Free Cities Foundation, ha illustrato il concetto di città libere e ha mostrato una serie di esempi reali. Idealmente, le città libere sono luoghi con proprie forze di polizia e prigioni, proprie leggi e propri sistemi fiscali. Isole libertarie, per così dire, all’interno di Paesi governati da una costituzione statale completamente diversa. Le relazioni tra le città e i loro cittadini dovrebbero essere regolate esclusivamente sulla base di trattati. In caso di conflitti, questi verrebbero giudicati da una terza parte, citando come modello i tribunali arbitrali internazionali. 

Bertram ha ammesso, naturalmente, che una cosa del genere sarebbe difficile da immaginare in Paesi come gli Stati Uniti o l’Europa di oggi. Esistono tuttavia progetti modello che non corrispondono completamente all’ideale delle città libere, ma per certi aspetti vi si avvicinano, come il Dubai International Finance Center. Ci sono due progetti modello in Honduras, ma c’è il rischio che vengano aboliti, qualora i socialisti dovessero andare al potere in questo Paese. Attualmente, come mi ha spiegato in una conversazione privata, ci sono altri progetti specifici in altri Paesi, ma sono ancora in fase preparatoria. «Senza l’approvazione del rispettivo Stato, ovviamente, non è possibile realizzare tali progetti».

La Georgia e lo strano caso del suo professore libertario

Anche la Georgia ha un movimento libertario e un proprio partito libertario, “Girchi – More Freedom”, rappresentato alla conferenza dal professore di politica Zurab Japaridze. Japaridze è popolare tra i giovani georgiani e odiato da molti elettori più anziani perché, ad esempio, è favorevole alla legalizzazione delle droghe ed è un convinto sostenitore dei diritti LGBTQ. Si oppone inoltre alla coscrizione obbligatoria. Attualmente il 20% del Paese è occupato dalla Russia e molte persone temono un attacco russo sulla scia della guerra in Ucraina. Tutto questo ha messo molti contro di lui. Egli sottolinea di essere favorevole al rafforzamento dell’esercito e all’adesione alla NATO, ma ritiene che la coscrizione obbligatoria sia un approccio sbagliato. 

Per aggirare l’obbligo di leva, ha persino fondato una sua “religione” e ha nominato 70.000 “sacerdoti”, che sono esenti dal servizio di leva. A colazione mi intrattengo con un georgiano di nome Nika, anche lui “prete” da qualche anno: «Ho i genitori da mantenere, quindi non potevo permettermi di fare il militare per un anno», mi spiega. Ora è uno dei 70.000 “sacerdoti”. Mi dice che il modello di “prete” di Zurab Japaridze ora ha persino la concorrenza della Chiesa ortodossa in Georgia, che offre ai giovani uno status simile per evitare il servizio militare. Non tutti i libertari presenti alla conferenza sono favorevoli: una donna georgiana ha attaccato duramente Zurab Japaridze, affermando che il rifiuto del servizio militare va oggettivamente a vantaggio di una sola persona: Putin.

Zurab Japaridze ha ripetutamente attirato l’attenzione con metodi provocatori: durante le elezioni presidenziali del 2018, Japaridze ha pubblicato banner elettorali sul sito porno Pornhub con il messaggio: «Più sesso, più libertà». Quando il governo ha vietato ai proprietari privati di affittare alloggi alle prostitute, ha affittato per protesta un appartamento in un edificio residenziale di lusso, spacciandolo in modo provocatorio per un bordello (anche se in realtà non lo era) e appendendo giocattoli sessuali alla finestra. Per strada, ha distribuito gratuitamente spinelli di marijuana. Per molte di queste bravate, Japaridze è già stato incarcerato più volte per diversi giorni, il che ha aumentato la popolarità del professore di idee politiche non convenzionali tra i giovani georgiani.

Mi sembra discutibile che questi piccoli partiti libertari possano portare a un cambiamento politico. Nel frattempo, il piccolo partito chiamato Girchi si è diviso e ora ci sono due partiti libertari minori con lo stesso nome (per distinguerli, il partito di Japaridze ha aggiunto “More Freedom” dopo il nome).

Discussioni accese sulla guerra in Ucraina

C’è stata una discussione appassionata sulla guerra in Ucraina. Naturalmente, tutti hanno condannato la guerra di aggressione della Russia, ma un membro del partito libertario degli Stati Uniti si è detto contrario a sostenere l’Ucraina con le armi. Alcuni settori del movimento libertario statunitense sono impegnati in posizioni pacifiste e/o isolazioniste. L’argomentazione del libertario statunitense è stata: nella storia americana, la guerra porta sempre e solo a un rafforzamento dello Stato. 

Era presente anche un membro del partito libertario russo, che ha visto emigrare circa un terzo dei suoi membri, molti dei quali in Georgia. Altri sono in prigione. I membri del partito libertario russo sono in maggioranza critici nei confronti della guerra. La maggior parte dei libertari in Europa sta comunque chiaramente dalla parte dell’Ucraina. «Il nostro obiettivo finale non è la pace, ma la libertà», ha detto una libertaria polacca. In definitiva, ha affermato, solo la Russia trae vantaggio da una posizione pacifista.

Liberare il mondo liberando se stessi

L’intervento che ho preferito è stato quello della figlia di Ken e Li Schoolland, KenLi Schoolland. Il titolo della sua sessione a cui ha partecipato era “Liberare il mondo liberando se stessi” e il suo messaggio principale è stato: non bisogna sentirsi vittima della società e non aspettare che la società cambi, ma cominciare da se stessi. Ha raccontato in modo impressionante di aver attraversato un periodo molto difficile come “nativa digitale”, ma di aver poi trovato la felicità grazie alla meditazione e ad altre tecniche. Ogni giorno, ha detto, faceva qualcosa di cui aveva paura o passava dieci giorni in silenzio. «Quando vogliamo ridurre il potere dello Stato, dobbiamo rafforzare l’individuo. Non è una buona considerare la libertà solamente come libertà politica». Due frasi che forse riassumono bene ciò che i libertari rappresentano. La prossima conferenza si terrà a Madrid nell’agosto del 2023.

"Una vita liberata" di Roberto Ciccarelli. Se il capitalismo diventa una seconda natura. Lea Melandri su Il Riformista il 14 Agosto 2022 

Il “neoliberalismo – scrive Roberto Ciccarelli nel suo ultimo libro Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista (Derive e Approdi, 2022) – indica una politica più ampia del neoliberismo. Si basa su una rivoluzione antropologica che investe la formazione della soggettività, i suoi rapporti con lo Stato, il mercato, le istituzioni e le norme (…) un progetto pedagogico e spirituale di trasformazione della mentalità e dei comportamenti dell’essere umano (…) il cui scopo è la rifondazione della cittadinanza in senso imprenditoriale e la sussunzione di ogni aspetto biologico, relazionale e intellettuale della vita alla logica della valorizzazione capitalistica”.

Quando un sistema dura così a lungo, è inevitabile che quelli che sono stati gli effetti di una organizzazione del mondo, appaiano inalterabili, quasi fossero una “seconda natura”. Così è stato per il patriarcato, così è oggi per un modello economico, sociale e politico che sta colonizzando ogni aspetto dell’esistenza. Nella figura del “capitalista umano” il dominio maschile e tutte le forme di violenza, di ingiustizia e di sfruttamento che ne hanno segnato la storia, sembrano aver toccato un acme e al medesimo tempo un punto di non ritorno. La fine della separazione tra il destino di un sesso e dell’altro e di tutte le polarizzazioni che vi hanno fatto seguito – cultura, sentimenti e ragione, individuo e società, ecc. -, anziché muovere verso la ricerca di “nessi” che vi sono sempre stati tra parti inscindibili dell’umano, vede nell’accorpamento di Io e mondo un connubio perverso, apparentemente senza via di uscita, di eclissi della storia, depressione e onnipotenza.

La fine di “una” storia si va a confondere con la fine di “tutte le storie”, un’apocalisse senza resurrezione, ma, ed è questo l’aspetto più insidioso dell’“apocalisse capitalistica”, anche una “rivoluzione – conservazione”, un “capovolgimento nell’opposto” , che mira a prevenire ogni possibile cambiamento e uso alternativo della vita. “La contro–rivoluzione neoliberale è il condensato delle forze che si oppongono a chi cerca una discontinuità reale rispetto ai torti e alla violenza, che vogliono riprodurre l’ordine dell’ingiustizia legittimata come naturale e come tale insuperabile (…) La paura della fine del mondo ha come fine rendere più docili i corpi e le menti (…) impedire ogni resistenza, lasciare gli esseri umani nel terrore”. Aver visto nella “umanizzazione del Capitale” il rischio di una patologia mortale e, nel medesimo tempo, la possibilità di una “vita liberata”, quella “potenza di essere” e riscoperta di energie che viene dopo una guarigione, è l’aspetto più interessante dell’analisi di Ciccarelli.

Il “postumo” è il venire dopo una catastrofe, ma anche il “risultato di una resistenza della vita alla morte e della creazione di una potenza dell’agire e del pensiero (…) il momento aurorale di un’esistenza”. Il “desiderio dissidente” , come scriveva già Elvio Fachinelli rispetto ai movimenti antiautoritari del Sessantotto, è “inevitabile e imprevenibile”. Lo stesso, si può dire per Ciccarelli, della “forza lavoro”, quella “facoltà delle facoltà” che accomuna tutti gli umani, al di là della sua riduzione a merce. La pandemia del Covid ha reso con particolare evidenza che cosa significa “sopravvivere” e vedere invece nel crollo di tante certezze la necessità di ripensare quella che è stata fino a quel momento la “normalità”. Ma se la “nuova vita” non cessa di farsi strada ogni volta dall’interno di un sistema che la contrast appropriandosene in modo distorto, resta comunque la vischiosità legata al radicamento dei modelli dominanti nel corpo e nei pensieri di ogni singolo individuo. Se riconoscere la profondità del male è l’unico modo per aprirsi all’alternativa, mai come oggi l’attenzione va portata su quell’altrove della politica che è stata considerata la storia personale, la soggettività, riserva di creatività ma anche materia di facili catture e di antichi pregiudizi.

Paradossalmente, è proprio riconoscendo il “colono” che è dentro di noi – che si tratti del sessismo, del razzismo o del classismo, che si può parlare del processo rivoluzionario come di una “liberazione” portata alle radici dell’umano. La “schiavitù volontaria” – nella coraggiosa e sorprendente considerazione di Ciccarelli – , diventa “libera obbedienza” a cui l’individuo liberale rivolge il proprio desiderio. “Confondere il tremendo lavoro di obbedire liberamente con l’essere schiavi, significa liquidare la principale differenza tra la soggettività contemporanea e quella precedente (…) L’individuo interiorizza il comando e accetta i suoi obiettivi perché condivide con i dominanti un principio di realtà così assoluto da rimuovere ogni resistenza (…) La peculiarità di questa strategia sta nell’agire sul terreno della libertà e non solo della coercizione”.

Di uno “scambio” accettato per necessità si può parlare a proposito di ogni forma di dominio, a partire dall’originaria sottomissione e colonizzazione del sesso femminile. Che altro potevano fare le donne per sopravvivere, ma anche strappare un qualche potere e piacere, se non incunearsi dentro quei ruoli e quelle identità che le hanno confinate fuori dalla storia, identificate con una sessualità al servizio dell’uomo e una maternità come obbligo procreativo? Alla complicità estorta per non morire va riconosciuto l’ambiguo annodamento di bisogno e desiderio, di resa e resistenza, adattamento e ribellione. Dove rinascerebbero altrimenti la spinta al cambiamento, i tanti “postumi” e le altrettante rinascite che ha conosciuto la storia? Resistere in un percorso che porta alla rassegnazione e all’adattamento richiede un lavoro su se stessi che impegna la vita nella sua interezza e nella sua singolarità. La presa di coscienza, diceva Carla Lonzi, è un passaggio che le donne devono fare “ad una ad una”, ma che ha bisogno di una pratica collettiva quale è stata per il femminismo l’autocoscienza. Un problema analogo è quello di una liberazione che oggi “connette e trasforma la lotta politica delle donne in tutti gli ambiti dove sono oggetto di violenza e sfruttamento: la razza, la classe, il genere.

“La classe come soggetto politico è la capaci tà la capacità di organizzare una molteplicità sociale (…) Si continua ancor oggi a credere che le lotte per la giustizia climatica, contro il sessismo o il razzismo, e le altre forme di potere abbiano una centralità maggiore rispetto alla lotta di classe (…) La classe è politica quando abolisce la società divisa in classi e, attraverso una lotta di classe, abolisce se stessa in quanto classe degli sfruttati, dei subalterni, degli oppressi”. Riemergono, in questa originale analisi di un tempo che sembra fatalmente avviato al suo declino, quelle “esigenze radicali” che, emerse negli anni Sessanta e Settanta come il “reale e il possibile”, erano destinate a ricomparire in una “ripresa” aperta a nuove soluzioni. Lea Melandri

Anna Lombardi per “la Repubblica” l'8 giugno 2022.

«Il liberalismo è l'unica dottrina politica che ha successo sulla lunga durata: nato dopo le guerre di religione, rilanciato alla fine delle Guerre mondiali, si basa sull'idea che c'è diversità all'interno della società e bisogna trovare il modo di dialogare e convivere. Oggi è però in pericolo. Nei decenni di pace che ci ha garantito, da destra e da sinistra c'è chi si è impadronito cinicamente dei suoi valori, estremizzandoli». 

Francis Fukuyama, 69 anni, è il politologo di Stanford autore del celebre La Fine della Storia e l'ultimo uomo: il saggio scritto nel 1992, dopo lo sgretolamento dell'Unione Sovietica, dove sosteneva che il liberalismo democratico - che nell'accezione americana è l'innesto tra dottrina classica e democrazia - non aveva più rivali: «Capolinea dell'evoluzione ideologica dell'umanità».

Trent'anni dopo ammette: «Le cose sono più complicate». Col suo nuovo Il liberalismo e i suoi oppositori, edito da Utet, prova a dimostrare che quella dottrina è ancora il fondamento della democrazia: e va difeso a livello politico e culturale.

Lei sostiene che il liberalismo classico è stato particolarmente deformato negli ultimi decenni.

«Da destra i sostenitori dell'economia neoliberista hanno trasformato il libero mercato in dogma, distorcendo l'economia fino a renderla instabile mentre l'individualismo è diventato opposizione a tutte le regole che limitano il sé, anche quando imposte per il bene collettivo.

Da sinistra, convinti che il liberalismo è un sistema elitario che opprime determinati gruppi in base a etnia, genere, orientamento sessuale si è arrivati a rivendicazioni identitarie che stanno trasformando il bisogno di rispetto insito nel politicamente corretto in intolleranza». 

Come affrancarsi dalle estremizzazioni, senza minare i diritti di individui o gruppi che patiscono effettivamente ingiustizie?

«Per garantire equità e democrazia serve vigilanza, dibattito, un approccio che ne rivitalizzi costantemente i valori moderandone le depravazioni.

Solo la buona politica sconfigge gli estremismi. La società è troppo eterogenea per pretendere che funzioni sostenendo solo gli interessi di alcuni: individui o gruppi che siano. Per sopravvivere deve essere aperta e accogliere la diversità che esiste al suo interno». 

Lo ha detto lei stesso: "Il liberalismo oggi è in pericolo".

«I suoi principi base, ovvero tolleranza delle differenze, rispetto dei diritti individuali, stato di diritto, sono oggi effettivamente minacciati. Lo conferma un rapporto di Freedom House, secondo cui fra la fine degli anni '70 e il 2008 il numero di democrazie nel mondo è passato da 35 a oltre 100 mentre oggi quel numero è in declino: se non nominalmente, certo per qualità del sistema.

D'altronde, basta pensare agli scossoni subiti di recente dalle due democrazie più grandi del mondo, Stati Uniti e India. E all'arroganza di autocrazie come Cina e Russia». 

Già nel 2019, parlandone al "Financial Times", il presidente russo Vladimir Putin attaccò duramente il liberalismo definendolo "sorpassato".

«Putin è da tempo motore di una campagna anti-liberale globale, condotta con l'aiuto di leader populisti come Viktor Orbán in Ungheria e Donald Trump in America. Figure che, dopo essere state elette democraticamente, hanno minato proprio il sistema che li ha portati al potere. Di sicuro con l'invasione dell'Ucraina, Putin ha fatto chiarezza morale: mostrando qual è l'alternativa al liberalismo e quanto questa sia brutale. Terribile che sia accaduto ma utile lezione per tanti».

Lei scrive: "La democrazia non sopravvive se i cittadini non credono di far parte di uno stesso sistema politico". La crisi ucraina ci restituirà il senso di istituzioni come l'Unione Europea, fino a poco tempo fa duramente criticata dai sovranisti?

«Il lungo periodo di pace e prosperità seguito alla caduta dell'Urss ha spinto tanti a dare il liberalismo democratico per scontato. Putin ha invaso il suo vicino proprio perché convinto che l'Occidente fosse troppo diviso e non credesse più in niente. È stato smentito. Le istituzioni europee sono generalmente sane. Certo più di quelle americane».

È molto duro nei confronti degli Stati Uniti...

«La democrazia americana è sotto stress. I liberali secondo la mia definizione, politici come Joe Biden per intenderci, credono nella legge e in un sistema giudiziario indipendente, non partigiano. Proprio ciò che Donald Trump ha attaccato fin dalla sua elezione, arrivando, ad esempio, al totale sbilanciamento della Corte Suprema. Ci salva, per ora, il check and balance, il meccanismo che mantiene l'equilibrio dei poteri. Ma ha funzionato perché all'interno del sistema c'erano dei liberal democratici veri. Purtroppo, coloro che vorrebbero comportarsi come Putin a dispetto della legge, aumentano».

Trump lo ha ripetuto più volte: con lui alla Casa Bianca, non ci sarebbe guerra in Ucraina...

«Quando Putin dichiarò l'indipendenza delle due repubbliche in Donbass, Trump lo definì "genio" e disse: "Vorrei poter fare lo stesso al confine col Messico". L'illiberalismo è quel che vorrebbe per l'America. Per questo temo la possibilità di una sua rielezione nel 2024». 

Se la Storia non è finita, dove siamo?

«La "Storia universale" tende verso il progresso. Ma quella delle nazioni non è lineare né va in una sola direzione. In tal senso, siamo in un momento di regresso. Se guardiamo al lungo termine scopriamo però che è già accaduto e che i sistemi illiberali sono destinati a fallire».

Lei non è l'unico pensatore a riflettere oggi sul liberalismo classico. Yascha Mounk ne ha appena scritto, Michael Walzer lo sta facendo. Tanta necessità di riscoprirlo, non è forse l'ammissione della sua crisi?

«Morirà solo se la gente smetterà di crederci. E questo accadrà se non ne sostanziamo l'importanza. Ecco cosa mi ha spinto a scrivere questo libro: e forse vale anche per altri. Finora abbiamo vissuto in una società democratica senza interrogarci sulle sue fondamenta e sulle alternative. Bisogna ricordare alla gente che il liberalismo ha ottimi motivi e vale la pena difenderlo. Non sta in piedi da solo, serve l'impegno di tutti». 

“Non è la libertà che manca; mancano gli uomini liberi”. Di ALessandro Gnocchi su Culturaidentita.it il 26 Maggio 2022.

Chi è stato Leo Longanesi? L’inventore del “rotocalco”, parola ormai misteriosa? Un brillante editore di libi e periodici? Più probabilmente oggi sarà identificato come uno scrittore di aforismi a misura di social network. Uomo sempre in contraddizione con i suoi tempi, fondatore del settimanale frondista Omnibus sotto il fascismo e del settimanale frondista Il Borghese sotto l’antifascismo, Leo Longanesi (Bagnacavallo,  30 agosto 1905  –  Milano,  27 settembre  1957) non esibisce un pensiero sistematico (nel caso lo avrebbe deriso lui stesso) ma propone un pensiero profondo ed espresso in un italiano da fuoriclasse. Il frammento era la misura perfetta per un provocatore nato, capace di trovare sempre il dettaglio incongruente, quello che strappa un sorriso (amaro) nello stesso istante in cui mostra il crollo del castello di carte chiamato Italia. Parliamo dell’elefante (1947), Ci salveranno le vecchie zie? (1953), i postumi La sua signora (1957) e Fa lo stesso (1996) sono libri, quasi sempre pubblicati per la propria casa editrice, la Longanesi appunto, tuttora necessari per capire l’Italia. Il tradimento della borghesia è uno dei temi esplorati con maggior costanza da Longanesi. La borghesia dell’Ottocento è stata una fonte di ricchezza e sviluppo per l’intera comunità.

Oggi è tutta un’altra storia, fatta di avidità, volgarità e ignoranza: “Il capitale ha perduto forza: è soltanto un peso da difendere: non seleziona, non raffina. Chi possiede un miliardo, possiede novecentonovantanove milioni di più di chi ne possiede uno soltanto: una differenza di zeri, fra gente che vale zero”. L’eredità morale dei vecchi borghesi è andata persa: “I figli, i nipoti, i pronipoti di quei vecchi borghesi non chiedono di rimanere borghesi, non vogliono più esserlo, non vogliono più sembrarlo. Essi ripudiano la loro storia: la storia pesa loro, li annoia, li copre di polvere. La storia attira l’agente delle tasse; la storia impone dei doveri; la storia chiede anche di morire. E al borghese d’oggi, la sola cosa che sta a cuore è di vivere, di vivere coi quattrini, anche a costo di perderli a poco a poco, ma lentamente, dolcemente”. 

A Longanesi non sfugge la oscena alleanza tutta italiana tra socialismo (statalismo) e capitalismo. Burocrati e (im)prenditori sono pronti a spogliare il Paese, cioè la classe media, di ogni ricchezza attraverso le tasse e i regali alla grande impresa. In Italia, parlare di libero mercato rasenta il ridicolo. Scrive Longanesi: “È l’amicizia, è la confidenza che, in Italia, tesse le stoffe, fonde i metalli e stampa la latta; è l’unione di più influenze, il fascio di più amicizie, l’accordo di più interessi che crea quella forza che piega la legge, che corrompe i costumi, che spezza la concorrenza; è la pastetta, la sola, la vera, la grande capacità tecnica che domina il mercato”.

Di fronte a questo scenario, al saccheggio e allo spreco sistematico, Longanesi si chiede se non sia possibile fare a meno di questo Stato e come sia possibile difendersi. Ecco la risposta: “Ma oggi, oggi io vi dico, cittadini, che è giunta l’ora della grande riscossa; io vi dico che non dobbiamo più pagare le tasse; se lo Stato spende, noi risparmieremo. A lui il marmo nero, a noi la carta straccia: e vedremo”. Longanesi non si illude sui benefici della democrazia. Finirà male. Uscita vittoriosa dalla guerra perderà la pace, trasformandosi in una tecnocrazia: “Costretta ad affrontare ogni giorno problemi industriali e finanziari gravissimi, ubbidisce soltanto alla sua pratica economica; la difesa della libertà o dei diritti dell’Uomo, o quel che c’è d’altro, la preoccupano soltanto in astratto”. Lo Stato, inteso come un’unità economico-finanziaria ormai autonoma, decide sopra le nostre teste. Ma il brutto, dice Longanesi, è che se il potere fosse realmente esercitato dalle masse sarebbe ancora peggio.

Bibliografia essenziale: Parliamo dell’elefante, In piedi e seduti, L’italiano in guerra, Ci salveranno le vecchie zie?, La sua signora, Fa lo stesso.

STARE AL PASSO CON I TEMPI. Il capitalismo democratico è vivo ma deve sconfiggere le disuguaglianze.  CARLO TRIGILIA su Il Domani il 26 marzo 2022

Nel trentennio postbellico si era realizzata nelle democrazie avanzate una convergenza verso un “capitalismo democratico” che coniugava crescita economica, forte riduzione delle disuguaglianze di reddito e rafforzamento della democrazia.

Negli ultimi decenni si assiste invece a un “ritorno delle disuguaglianze”. Centinaia di milioni di persone escono faticosamente dalla povertà nei paesi emergenti, ma peggiorano le condizioni di molti salariati e di settori del ceto medio nelle democrazie avanzate.

È così che la democrazia rappresentativa si trova sotto attacco di forze populiste di varia natura, ma accomunate dalla protesta e dal rifiuto della rappresentanza tradizionale. Il simbolo forse più evocativo di tali rischi è l’attacco a Capitol Hill.

CARLO TRIGILIA. Professore emerito di sociologia economica  dell’università di Firenze, socio dell’Accademia dei Lincei, è stato ministro per la Coesione Territoriale nel governo Letta (2013- 2014).

Una storia controcorrente. Il lungo sogno di un’Italia liberale e le speranze per il domani. Beppe Facchetti su L'Inkiesta il 26 Marzo 2022.

Come sarebbe stato il panorama politico del Dopoguerra se Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Carlo Rosselli e Giacomo Matteotti non fossero stati eliminati? Se lo chiedono Panebianco e Teodori nel loro ultimo libro (Solferino editore). In un Paese diviso tra due chiese una terza forza sarebbe stata auspicabile. Ma forse adesso qualcosa si muove.

Il libro di Angelo Panebianco e Massimo Teodori (“La parabola della repubblica”, edizioni Solferino) ha il notevole pregio di riempire un vuoto, e cioè una rilettura della presenza e della carenza liberale, intesa in senso lato, nell’Italia del secondo dopoguerra.

Ma è anche a sua volta la descrizione di un vuoto, ovvero del tentativo sostanzialmente mancato di presidiare in modo organico uno spazio politico – talora erroneamente geolocalizzato come di centro – che pure poteva essere molto importante nell’evoluzione mancata della storia politica italiana in chiave schiettamente europea. Certamente non oggetto di attenzione di una cultura che ancora un po’ soffre della sovrarappresentazione degli anni in cui in Italia Laterza faceva fatica a ristampare Croce.

Il sottotitolo, “Ascesa e declino dell’Italia liberale”, non rispecchia il modo in cui sono andate effettivamente le cose. Forse potremmo invertire i termini, e parlare di declino iniziale e poi di tentata ascesa di una Italia liberale al contrario. Perché, nell’immediato dopoguerra, l’ascesa potenziale che poteva esserci non si realizzò, e se mai è nei giorni nostri che si assiste a tutto un fiorire di autocelebrazioni liberali, in un eccesso di elogi talora imbarazzante.

Entrambe fasi peraltro ingannevoli, perché negli anni iniziali, di formazione della Repubblica, i liberali erano sparsi, e accomunati solo da due diverse supponenze: quella della scampata classe dirigente prefascista cui l’anagrafe offriva ancora per poco l’illusione di una seconda chance e quella – avversa alla prima – di coloro che pretendevano di contendere il passo ai partiti di massa in nome di una superiore sintesi intellettuale liberal socialista un po’ presuntuosa.

Gli autori ci fanno intravedere quella che avrebbe potuto essere la sorte illuminante di un’Italia moderna, quando evocano nelle prime righe i nomi di Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Carlo Rosselli e Giacomo Matteotti. Sarebbero stati certamente in primo piano nella nuova Italia repubblicana, e nel 1945 ne avrebbero ancora avuto l’energia, ma il dittatore li aveva eliminati prima, stroncando sul nascere quel tipo di futuro, in questo dimostrando una lucida ancorché perversa intuizione. Difficile dire come sarebbe andata a finire se questa fosse stata davvero la leadership dell’Italia dopo il 25 luglio e il 25 aprile, ma è suggestiva la constatazione di Panebianco e Teodori, e cioè che Mussolini fu di mano più leggera verso i Gramsci, ma aggiungiamo anche verso i De Gasperi e i Croce. 

In parallelo, subito dopo, i comunisti – intuendone la funzione alternativa – furono più intransigenti verso questa area politica e culturale che non verso quella cattolica.

L’evocazione di un’Italia ipoteticamente guidata da questo antifascismo di grana più intellettualmente qualitativa è certamente invitante, ma la storia si fece poi con i materiali di una realtà politica diversa, e forse era inevitabile.

Il campo liberale e socialista sarebbe stato occupato solo da dirigenti più anziani, in parte scampati al regime, o nel caso migliore ai loro delfini, come Craxi con Nenni.

E sarebbe stato fatalmente un campo di forti divisioni, di personalismi, di fratture e scissioni, con responsabilità forti di tutti: dei liberali, ma forse ancor più dei socialisti, arrivati all’appuntamento in oggettivo ritardo.

Panebianco e Teodori fanno ovviamente capire che avrebbero comunque preferito questo orizzonte, lamentando l’assenza di una terza forza, contrappeso modernizzante rispetto ai difetti comuni delle due chiese che hanno tanto lungamente dominato la politica della Repubblica. La politica, intendiamo, che ha lasciato respirare malamente una alternativa solo di cattiva destra insistentemente nostalgica, sfociata infine nel peggiore tra i populismi occidentali, quello a due teste, che ha rischiato seriamente di portare il Paese fuori dall’ancoraggio ai valori occidentali. Quei valori che il cattolicesimo liberale e il realismo berlingueriano hanno comunque almeno salvato: il lascito più importante, anche se sofferto e contraddittorio, spesso sul ciglio del baratro, dei due grandi partiti di massa.

Accomunati da una interpretazione convergente, i due autori sono portatori di ben diverse esperienze personali, e il lettore segue più facilmente il filo logico del politologo che non certe reminiscenze eccessivamente di parte del politico. Il contributo di Teodori rende infatti sovrastimato il ruolo del Partito radicale nel quale ha militato, almeno fino alla rottura critica con il Marco Pannella in versione “sciamanica”. Comunque, con una generosità verso il PR non pari all’attenzione per il ruolo degli altri partiti laici.

Tocca quindi a Panebianco un gesto di valorizzazione molto apprezzabile per leader dimenticati come Giovanni Malagodi e Giuseppe Saragat che hanno invece avuto un posto importante, anche nei contenuti da essi specificamente sviluppati, al di là dell’innegabile storicità della frattura saragattiana dentro la sinistra, e della netta presa di distanza del liberalismo europeo di Malagodi nei confronti della destra. Avrebbero meritato almeno lo spazio che ancor oggi viene unanimemente riconosciuto, in forme talora acritiche, a Ugo La Malfa.

Qualcuno non ha mai perdonato il successo del Pli nei primi anni ’60, frettolosamente liquidato come una semplice presa di distanza dal primo centrosinistra. Vero è che, in termini di schieramento, la mossa era anche elettorale, ma vero è anche che il PSI visse con un complesso di colpa verso il PCI quell’alleanza con la DC. Solo a metà del decennio successivo la nuova generazione socialista di Craxi e dei suoi alleati interni avrebbe aperto la strada di un riformismo socialista che ha segnato una delle pagine più importanti proprio per l’area politica a cui il libro è dedicato.

E non a caso, a quell’appuntamento del nuovo centrosinistra a guida laica (Spadolini e poi Craxi) non sarebbe mancato il nuovo Pli di Valerio Zanone.

Un partito arrivato al governo dopo una lunghissima traversata del deserto all’opposizione, che forse meriterebbe di essere rivalutata in quanto tale, anche perché non fu facile al Pli far mancare il voto di fiducia ad Andreotti la mattina del rapimento di Aldo Moro.

Era il governo degli equilibri più avanzati, o del compromesso storico, ma non avrebbe avuto molta strada davanti a sé. Importante che ci fosse da subito un partito di opposizione pronto a denunciare i rischi di omologazione e di consociativismo realizzato, con un retroterra democratico di elettori moderati, che non lasciava al solo MSI e alle frange dell’estrema sinistra il monopolio di una contrapposizione che, in quegli anni di terrorismo, finì ad un certo punto fuori controllo.

Curiosamente, il libro non accenna neppure alla stagione del lib lab, interpretata da Enzo Bettiza e dalla nuova leva dei giovani parlamentari liberali entrati in scena nel 1983, forse perché non ebbe anch’essa molta fortuna, ma avrebbe potuto essere la strada giusta per cominciare a costruire finalmente lo spazio di terza forza. Una forza che non poteva far a meno del socialismo democratico come polo di riferimento di ciò che Amendola e Matteotti avevano appena accennato. Per la prima volta dai tempi di Giolitti e Turati, liberali e socialisti si sarebbero trovati comunque dalla stessa parte.

Era l’Italia dei contrappesi, degli equilibri riformatori. Non a caso è stata spazzata via dalla furia di Mani Pulite, alimentata non solo da magistrati in vena di protagonismo e potere che ancor oggi si cerca di sottoporre a verifica referendaria, ma da forze interne ed esterne che non avrebbero gradito in Italia la sepoltura di quel bipolarismo paralizzante e consociativo che sarebbe caduto davvero solo insieme al Muro di Berlino.

Il messaggio del libro non è comunque solo la constatazione di un’occasione lungamente perduta.

C’è molto scetticismo, ma c’è anche la speranza che proprio il declino attuale del populismo, cioè del peggior nemico che la democrazia liberale possa incontrare, dia spazio ad una politica che faccia affidamento su un centro forte.

Le conclusioni sono addirittura nette: «Una forza centrale non sarebbe solo un agente di stabilità: sarebbe anche l’unico possibile mezzo per ricostruire in Italia una presenza liberale».

Con una importante precisazione: «Una forza centrista non è necessariamente una forza liberale. Ma una presenza liberale, intesa come antidoto nei confronti delle pulsioni autoritarie, di destra o di sinistra, non può, nelle attuali condizioni, che collocarsi al centro».

È lì, al centro che ai gioca dunque una battaglia decisiva. Gli autori ripropongono in sostanza politicamente quella rivoluzione istituzionale che Matteo Renzi tentò senza fortuna con la riforma bocciata dal referendum del 2016.

È significativo che a dire queste cose, e scriverle, sia proprio con onestà intellettuale lo stesso Angelo Panebianco che fu sostenitore tenace e instancabile del maggioritario. Un amore sconfitto dai fatti e cioè dalla sequenza oscena delle leggi elettorali, tutte declinate in latino, uscite dall’esito ingannatorio dei referendum di Mariotto Segni. Ma non poteva essere diversamente, perché non si affida alle urne referendarie una catarsi istituzionale. Al massimo ne esce solo un verdetto antipolitico, e infatti agli elettori del 1993/1994 ben poco interessavano la preferenza unica o lo scorporo per il diritto di tribuna. Quei referendum, ancora in piena era di Mani Pulite e di ascesa leghista, furono solo un modo di dare il colpo di grazia ad una classe politica in crisi e cominciare a sperimentare senza rete il “vento del cambiamento” che successivamente avrebbe portato a Virginia Raggi e Danilo Toninelli.

Si esaltava la virtù teorica dell’uno contro uno e un po’ di colpa fu anche del maggioritario all’italiana se si arrivò invece all’uno che vale uno.

Ma dove sono finiti i liberali? Marcello Veneziani su Panorama.it il 17 marzo 2022.

Qualche giorno fa se n’è andato Antonio Martino, liberale e gentiluomo. Facile la tentazione di definirlo l’ultimo liberale, almeno se facciamo riferimento alla scuola, alla politica e al partito liberale. Martino era liberale di tradizione famigliare e di convinzione personale, anticomunista e atlantista, fautore del libero mercato e dei diritti individuali; ma aveva anche il senso dello Stato, della dignità nazionale e della sovranità, e nel nome stesso dei principi liberali ebbe il coraggio di votare contro il fiscal compact, dissociandosi anche dal centrodestra, perché vide in quell’inserimento del pareggio in bilancio nella nostra Costituzione, una cessione di sovranità e un rigido controllo eurocratico sul nostro Stato libero e sovrano.

Liberali in questi anni si sono definiti in tanti, a cominciare da Berlusconi e dal suo partito, anche se il suo partito è sempre stato una monarchia popolare. La tradizione liberale ha perduto via via i suoi riferimenti viventi, senza sostituirne con nuovi. C’è ancora a destra chi ha il coraggio di definirsi liberale (per esempio Guido Crosetto) e non mancano liberali su altri versanti, e tra autori, istituti o fondazioni; ma si fanno sentire sempre meno, soprattutto come liberali.

Il liberalismo, in Italia, è sempre stata una forza di minoranza, con percentuali minime; mai è esistito un partito liberale di massa, notava già Longanesi; è sempre stata una nicchia, un club riservato a pochi. Eppure personalità liberali hanno caratterizzato la repubblica, a partire da Benedetto Croce e Luigi Einaudi, e poi i liberali in politica come Malagodi e poi Zanone, Bozzi, Biondi, Costa e altri esponenti del Partito liberale. Vi era poi una tendenza liberale-radicale, di sinistra, più vicina ai progressisti e ai liberal angloamericani e con qualche vaga ascendenza gobettiana, per non parlare delle ibridazioni liberal-socialiste e del Mondo di Pannunzio.

Mentre il Partito liberale spariva senza lasciare segni, colpito perfino da alcune brutte inchieste sul malaffare in Tangentopoli, tutti da sinistra a destra, passando per il centro, rivendicarono la matrice liberale; in tanti auspicavano la rivoluzione liberale e reputavano la definizione di liberale come necessaria per superare i test d’accesso all’Europa, alla Modernità, al Mercato. Perfino la definizione di democratico era scivolata alle spalle dell’autocertificazione liberale. Sicché «il fantasma liberale», per citare un vecchio libro di un liberale del dopoguerra, Giulio Colamarino, dominava la scena politica. Ma negli ultimi due anni sono accadute varie cose: tra pandemia, sospensione di molte libertà e molti diritti costituzionali; poi il regime di controllo e di sorveglianza che si è esteso al di là dei confini sanitari, e da ultimo la guerra in Ucraina, come un’esperienza totale, che assorbe tutta l’informazione, detta comportamenti consoni allo stato di guerra e non consente divergenze d’opinione. Oggi è possibile cacciare un artista solo perché di nazionalità russa, cancellare un programma di studi perché dedicato alla letteratura russa, perfino sequestrare beni a imprenditori che hanno il torto di essere russi. O censurare giornalisti, studiosi e osservatori nostrani che mostrano qualche divergenza rispetto al canone di guerra imposto alla nostra democrazia: viene tradotta come intelligenza col nemico, e dunque tradimento.

Il risultato è che tutto quanto sapeva di civiltà liberale, diritti costituzionali, garanzie e libertà di opinione subisce una griglia di divieti o di inibizioni illiberali, di sospetti e misure restrittive. E anche le leggi di libero mercato vengono sottoposte a leggi di guerra, embargo e stati d’emergenza. L’alleanza tra progressisti dem, centristi di estrazione cristiana, radicali e verdi avviene su un terreno in cui di liberale è rimasto ben poco, forse una declamazione retorica e poco altro. L’alibi che da anni sentiamo ripetere ma che viene ormai applicato a contesti diversi - di tipo sanitario e giuridico, politico, economico e militare - è che quando ci sono cause di forza maggiore, quando è in gioco la biopolitica, cioè la salute, la vita e la morte della gente, la guerra, non si possono porre limiti e attaccarsi a garanzie di tipo liberale e costituzionale, si devono poter sospendere e revocare. Il risultato è la scomparsa dei liberali, come esponenti e come comportamenti; e il passaggio da una società aperta a una società coperta, con rigidi compartimenti stagni, in stato di perenne allarme e mobilitazione, sotto quella che ho definito La Cappa.

Possibile che non ci sia oggi nessun movimento liberale pronto a dissociarsi da questa pericolosa uniformità di atteggiamenti e di parole d’ordine e a denunciare questa abdicazione della libertà e questo reticolo di prescrizioni e proscrizioni? L’esempio più vistoso e deprimente è dato proprio dal regno dell’informazione che dovrebbe essere la prima sentinella della libertà e della differenza di opinioni al confronto: e invece regna un conformismo piatto, plumbeo, da Giornale Unico. Fino a poco tempo fa si gridava al rischio della libertà per l’avvento dei populisti, dei nazionalisti, dei sovranisti. Oggi che quelle forze contano poco e sono del tutto assimilate al «mainstream» vigente, la libertà è assai più in pericolo di quanto si temesse prima. Lo chiedo da non liberale: c’è qualcuno ancora vivo e attivo tra i liberali, disposto a farsi sentire?

Le idee liberali da Epicuro a Bruno Leoni. Carlo Lottieri il 27 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Escono tre preziose raccolte di saggi firmati da Cubeddu.  

Quella elaborata da Raimondo Cubeddu è una lunga e ininterrotta ricerca sulle ragioni della società libera e sui suoi fondamenti intellettuali. Filosofo politico cresciuto alla scuola di Giuliano Marini, in mezzo secolo di ricerca egli ha affrontato autori e temi molto diversi, ma sempre entro un progetto di ricerca volto a comprendere le ragioni schierate a difesa dell'autonomia degli individui e le condizioni indispensabili alla convivenza.

Presso i tipi di Salomone Belforte, è uscita un'antologia dei suoi scritti dal titolo Il valore della differenza. Studi su Carl Menger, in cui sono raccolti alcuni tra i principali testi che egli ha dedicato al padre dell'economia austriaca. Il volume ha molte virtù e tra le altre quella di aiutarci a capire perché un filosofo possa (anzi: debba) orientarsi verso la riflessione mengeriana e quindi verso la più radicale teorizzazione dell'idea che il valore è sempre soggettivo: ciò che rende impensabile ogni prospettiva socialista e ogni idea di un interesse generale. In stretta connessione con questa opera è l'antologia Scambio dei poteri e stato delle pretese. Scritti su Bruno Leoni (pubblicato da IBL Libri, con una prefazione di Alberto Mingardi), dedicato a quello studioso che Cubeddu più di tutti ha avuto il merito di «riscoprire» nel corso degli anni Novanta, sottraendolo alla zona d'ombra in cui era finito a causa delle sue tesi anti-stataliste e del suo realismo giuridico, incompatibile con l'impostazione post-kelseniana di larga parte della filosofia del diritto contemporanea. In questi scritti Leoni è collocato nelle sue fitte relazioni intellettuali, ma anche di tale pensatore è evidenziata la ricchezza degli spunti presenti nei diversi lavori, le cui potenzialità non sono state ancora totalmente comprese.

Di Leoni si parla pure anche ne La cultura liberale in Italia (edito da Rubbettino), ma stavolta insieme a Manzoni, Rosmini, Einaudi, Croce e tanti altri. I testi raccolti delineano un quadro culturale ben specifico, quello del liberalismo italiano, che nell'arco degli ultimi due secoli ha assunto caratteri suoi propri. Ed è chiaro che di questo universo, Cubeddu rappresenta una delle figure fondamentali da vari decenni a questa parte. Nello studioso sardo, in effetti, la passione per la libertà è genuina, ed è unita a una sincera passione per la conoscenza, che lo porta a scavare nei testi e ricostruire le genealogie intellettuali, e soprattutto lo conduce a muoversi senza dogmi e senza preconcetti. Pur nutrito di una visione della società che deve molto all'idea straussiana secondo la quale il liberalismo sarebbe la soluzione del problema politico attraverso mezzi economici (e quindi di un sostanziale disinteresse per ogni etica politica o metafisica secolare), Cubeddu ha sempre prestato attenzione alla religione e in particolare al cristianesimo: nella convinzione che, a dispetto del fatto che la Chiesa oggi si faccia ascoltare quasi soltanto quando si «mondanizza», il fenomeno religioso ha una sua dimensione strutturale che non può essere sottostimata.

Come ha rilevato Adriano Fabris, per Cubeddu nella modernità «l'eudemonismo di massa viene posto a fondamento della società politica e dello Stato»: e da questo discende che il contrasto cruciale del nostro tempo è tra la lezione di una Chiesa, che permane tale quando è restia ad accettare la corrente, e una sorta di epicureismo sempiterno, secondo il quale «il soddisfacimento delle aspettative individuali diventa l'unica unità di misura che consente di valutare fini, comportamenti e istituzioni». Sono considerazioni originali e sulle quali ogni uomo di fede dovrebbe riflettere; ed è interessante che vengano da «un liberale, laico ma non anticlericale», e anche per tali ragioni indotto a osservare i nostri anni tempestosi con la massima onestà intellettuale.

Le idee liberali da Epicuro a Bruno Leoni. Carlo Lottieri il 27 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Escono tre preziose raccolte di saggi firmati da Cubeddu.  

Quella elaborata da Raimondo Cubeddu è una lunga e ininterrotta ricerca sulle ragioni della società libera e sui suoi fondamenti intellettuali. Filosofo politico cresciuto alla scuola di Giuliano Marini, in mezzo secolo di ricerca egli ha affrontato autori e temi molto diversi, ma sempre entro un progetto di ricerca volto a comprendere le ragioni schierate a difesa dell'autonomia degli individui e le condizioni indispensabili alla convivenza.

Presso i tipi di Salomone Belforte, è uscita un'antologia dei suoi scritti dal titolo Il valore della differenza. Studi su Carl Menger, in cui sono raccolti alcuni tra i principali testi che egli ha dedicato al padre dell'economia austriaca. Il volume ha molte virtù e tra le altre quella di aiutarci a capire perché un filosofo possa (anzi: debba) orientarsi verso la riflessione mengeriana e quindi verso la più radicale teorizzazione dell'idea che il valore è sempre soggettivo: ciò che rende impensabile ogni prospettiva socialista e ogni idea di un interesse generale. In stretta connessione con questa opera è l'antologia Scambio dei poteri e stato delle pretese. Scritti su Bruno Leoni (pubblicato da IBL Libri, con una prefazione di Alberto Mingardi), dedicato a quello studioso che Cubeddu più di tutti ha avuto il merito di «riscoprire» nel corso degli anni Novanta, sottraendolo alla zona d'ombra in cui era finito a causa delle sue tesi anti-stataliste e del suo realismo giuridico, incompatibile con l'impostazione post-kelseniana di larga parte della filosofia del diritto contemporanea. In questi scritti Leoni è collocato nelle sue fitte relazioni intellettuali, ma anche di tale pensatore è evidenziata la ricchezza degli spunti presenti nei diversi lavori, le cui potenzialità non sono state ancora totalmente comprese.

Di Leoni si parla pure anche ne La cultura liberale in Italia (edito da Rubbettino), ma stavolta insieme a Manzoni, Rosmini, Einaudi, Croce e tanti altri. I testi raccolti delineano un quadro culturale ben specifico, quello del liberalismo italiano, che nell'arco degli ultimi due secoli ha assunto caratteri suoi propri. Ed è chiaro che di questo universo, Cubeddu rappresenta una delle figure fondamentali da vari decenni a questa parte. Nello studioso sardo, in effetti, la passione per la libertà è genuina, ed è unita a una sincera passione per la conoscenza, che lo porta a scavare nei testi e ricostruire le genealogie intellettuali, e soprattutto lo conduce a muoversi senza dogmi e senza preconcetti. Pur nutrito di una visione della società che deve molto all'idea straussiana secondo la quale il liberalismo sarebbe la soluzione del problema politico attraverso mezzi economici (e quindi di un sostanziale disinteresse per ogni etica politica o metafisica secolare), Cubeddu ha sempre prestato attenzione alla religione e in particolare al cristianesimo: nella convinzione che, a dispetto del fatto che la Chiesa oggi si faccia ascoltare quasi soltanto quando si «mondanizza», il fenomeno religioso ha una sua dimensione strutturale che non può essere sottostimata.

Come ha rilevato Adriano Fabris, per Cubeddu nella modernità «l'eudemonismo di massa viene posto a fondamento della società politica e dello Stato»: e da questo discende che il contrasto cruciale del nostro tempo è tra la lezione di una Chiesa, che permane tale quando è restia ad accettare la corrente, e una sorta di epicureismo sempiterno, secondo il quale «il soddisfacimento delle aspettative individuali diventa l'unica unità di misura che consente di valutare fini, comportamenti e istituzioni». Sono considerazioni originali e sulle quali ogni uomo di fede dovrebbe riflettere; ed è interessante che vengano da «un liberale, laico ma non anticlericale», e anche per tali ragioni indotto a osservare i nostri anni tempestosi con la massima onestà intellettuale.

L’ordine mondiale liberale per come lo conosciamo è morto? Alessandro Maran, Consulente aziendale, appassionato di politica estera, su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.

“Siamo nei guai. Spero che lo capiscano tutti. Non si tratta di guai da cui non possiamo uscire, ma non siamo sulla strada giusta”. Lo ha detto John Kerry, l’inviato presidenziale americano per il clima. Parlava del riscaldamento globale in vista della prossima conferenza delle Nazioni Unite sul clima che si terrà in Egitto a novembre, ma come sottolineano Stephen Collinson e Shelby Rose della CNN, il suo commento sconsolato potrebbe riferirsi tranquillamente all’ondata di crisi mondiali che si sta abbattendo sugli Stati Uniti.

La Russia tiene in ostaggio l’Ucraina e punta a riscrivere l’esito della Guerra Fredda. Fiona Hill, senior fellow alla Brookings Institution ed ex esperta di Russia alla Casa Bianca, ha scritto sul New York Times che Putin “vuole espellere gli Stati Uniti dall’Europa”. Secondo Hill, Putin avverte che il dominio americano sta svanendo e “crede che gli Stati Uniti attualmente siano nella stessa situazione della Russia dopo il collasso sovietico: gravemente indeboliti in patria e in ritirata all’estero”. Oltre a sfidare la Nato, l’aggressione di Putin in Ucraina minaccerebbe “l’intero sistema della Nazioni Unite e metterebbe in pericolo gli assetti che hanno garantito la sovranità degli stati membri dalla Seconda guerra mondiale: qualcosa di simile all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, ma su una scala ancora più grande”. Anche Jill Dougherty, esperta di Russia ed ex bureau chief della CNN a Mosca, è dello stesso parere: “Vogliono rigiocare la fine della Guerra Fredda”.

Ma, si sa, le disgrazie non vengono mai sole. La Corea del Nord ha accelerato i test missilistici. Le tensioni tra gli Stati Uniti e la Cina su Taiwan si stanno acuendo. Dopo le manovre aeronavali congiunte tra Stati Uniti e Giappone nel Mare delle Filippine, 39 aerei da combattimento cinesi sono entrati nella cosiddetta zona d’identificazione della difesa aerea (Adiz) dell’isola. Anche Tehran fa le sue mosse sulla scacchiera mediorientale. I guerriglieri Houthi, la milizia filo-iraniana impegnata nello Yemen, hanno sparato dei missili ad Abu Dhabi, costringendo gli americani ad abbatterli con le batterie dei Patriot. E l’Iran potrebbe essere sempre più vicino a dotarsi di armi nucleari. Per soprammercato, c’è la pandemia. Insomma, stanno succedendo un sacco di cose. Ovviamente, si tratta di sviluppi che maturano da anni, ma sono in molti a chieresi quale sarà il ruolo che gli Stati Uniti svolgeranno in futuro?

Come lascia intendere l’impasse sull’Ucraina, i nemici dell’America percepiscono la sua debolezza e vedono uno spiraglio in cui infilarsi. “Le sfide montanti all’autorità degli Stati Uniti, vengono in un momento in cui all’estero c’è la diffusa percezione che Washington non è più la potenza che è stata nella seconda parte del XX secolo”, scrive Stephen Collinson. “Nonostante le assicurazioni di Biden che ‘l’America è tornata’, il ritiro caotico dall’Afghanistan dell’anno scorso, ha sollevato più di un dubbio sulla competenza e la serietà degli Stati Uniti. Gli avversari dell’America sanno che gli americani sono sfiancati da vent’anni di guerra all’estero, un fattore che può condurre alcuni di loro a reputare che Washington potrebbe eludere i suoi impegni strategici per ragioni politiche”. Messe così le cose, non deve stupire che potenze ostili come la Cina e la Russia, che stanno diventando sempre più spavalde e agiscono d’intesa, cerchino di mettere alla prova la determinazione del presidente americano. Persino i leader amici ed alleati cercheranno di cogliere le opportunità che si profilano (non per caso il presidente francese Emmanuel Macron ha sollecitato la UE a partecipare al gran ballo della diplomazia che prosegue di pari passo ai giochi di guerra del Cremlino).

Del resto, il mondo è cambiato. La Cina sta mostrando i (nuovi) muscoli (il presidente cinese Xi Jinping approfitterà anche delle Olimpiadi invernali per richiamare l’attenzione sulla superpotenza cinese ) e Washington non può far altro che cercare di rispondere se vuole restare un protagonista del Pacifico. Il presidente russo Vladimir Putin sa bene che gli Stati Uniti vogliono “puntare sull’Asia”. Perciò vuole saggiare se gli Stati Uniti sono vigili o si sono stufati di proteggere i loro amici transatlantici. Oltretutto, l’influenza economica di Putin ha ostacolato una risposta unitaria europea nei confronti della Russia e dato che l’obiettivo russo è quello di frantumare l’unità dell’Unione europea e della Nato, il North Stream 2, il gasdotto che trasporta il gas naturale dai giacimenti russi alla costa tedesca, si è rivelato uno strumento straordinario. E con le elezioni alle porte in Francia, un governo alle prime armi in Germania e la Gran Bretagna alle prese con gli scandali del primo ministro Boris Johnson, perché non provare a vedere se gli alleati sono uniti e in stato allerta?  Vale anche per la Corea del Nord e per l’Iran che sta dimostrando che, per l’America, lasciare il medio oriente più facile a dirsi che a farsi. 

I leader globali sanno che Biden, ad un anno dal suo insediamento, è sotto forte pressione in patria e ascoltano i repubblicani quando rimproverano al presidente di essere debole e inetto. Non c’è perciò da stupirsi, che cerchino di rendergli la vita ancora più difficile. Eppure il destino di Biden ci riguarda molto da vicino. La vittoria di Joe Biden nelle elezioni presidenziali del novembre 2020 ha aperto una finestra di opportunità essenziale anche da questa parte dell’Atlantico. La crisi economica del 2008 e poi la pandemia hanno destabilizzato la società e il sistema economico neoliberisti. E come scrivono Michele Salvati e Norberto Dilmore nel loro ultimo libro (che si intitola appunto “Liberalismo inclusivo”), i recenti sviluppi politici, economici e culturali potrebbero creare le condizioni per aprire una nuova fase stabile nella storia del capitalismo nei Paesi avanzati (che i due economisti definiscono “una nuova forma di capitalismo inclusivo”). E come per altre fasi stabili del capitalismo, i confini tra Stato e settore privato, tra efficienza e inefficienza dei mercati e sostenibilità sociale e ambientale dovranno essere ridefiniti per dare una risposta alla tensione (che ha caratterizzato tutta la storia del capitalismo) fra la libertà economica e l’esigenza di assicurare condizioni di benessere al più gran numero di cittadini.

Ma come loro stessi ammettono, Salvati e Dilmore non avrebbero potuto scrivere le loro note di cauto ottimismo se fosse riuscita la riconquista della presidenza degli Stati Uniti da parte di Trump. Per capirci, “il ritorno a Keynes” è difficilmente attuabile a livello mondiale o anche nel nostro piccolo angolo di mondo, senza un potere internazionale egemone in grado di sostenerlo. È, infatti, grazie all’assoluto predominio militare ed economico degli Stati Uniti che, nei trent’anni postbellici, i paesi a regime liberal-democratico sono riusciti a “conciliare tre cose che sino ad allora erano risultate inconciliabili: un sistema politico liberal-democratico, un’economia capitalistica, un benessere popolare diffuso”. Il guaio è che il paese che Biden si trova a governare è ben lontano dalle condizioni di forza economico-militare di cui diponevano gli Stati Uniti dopo la vittoria nella Seconda guerra mondiale; non ha la chiarezza di visione politica di Roosevelt e dei suoi successori ed è molto più diviso e polarizzato di allora. Ed il presidente americano si trova in una situazione più difficile per avviare un passaggio ad un liberalismo inclusivo e indurre l’angolo di mondo di cui l’America è egemone a seguirlo.

Per compensare la maggiore debolezza e incertezza dell’America, il nostro continente dovrebbe assumersi maggiori oneri di leadership del nostro angolo di mondo liberal-democratico, pur mantenendo una stretta alleanza con gli Stati Uniti. Ma se l’Unione europea non riesce ad esercitare una maggiore assertività e un maggior protagonismo nei campi cruciali della politica estera e della difesa, è molto difficile che riesca a raggiungere obiettivi avanzati di liberalismo inclusivo anche sul fronte interno.

Fare i libertari con le tasse degli altri. Marco Gervasoni il 14 Gennaio 2022 su Il Giornale.

A molti sarà capitato, conversando con qualche renitente al vaccino (non li chiamate No Vax sennò si inalberano), di sentirsi dire: "Esercito una mia libertà: e poi a te cosa costa?". Da oggi potremo rispondere: 140 milioni di euro. Al mese.

A molti sarà capitato, conversando con qualche renitente al vaccino (non li chiamate No Vax sennò si inalberano), di sentirsi dire: «Esercito una mia libertà: e poi a te cosa costa?». Da oggi potremo rispondere: 140 milioni di euro. Al mese.

Non male come valore di un diritto, ammesso poi lo sia veramente.

È la cifra calcolata sulla base dei ricoveri di non vaccinati tra metà novembre e metà dicembre, evitabili se fossero ricorsi al vaccino. E ci pare del tutto congrua se si pensa che mediamente la terapia intensiva costa tremila euro al giorno e che la durata in tale condizione con il Covid è di una decina di giorni. Quindi trentamila euro a persona, ma probabilmente molti di più. Senza contare, tema che esula solo in parte da quello economico, che infermieri e medici non possono così occuparsi di malati di altre patologie, per le quali non esiste vaccino. Insomma, dato che il «siero» (come lo chiamano i No Vax) è in commercio ormai da un anno, decidere di non utilizzarlo significa mettere in conto un'alta probabilità di ammalarsi: peraltro molto più alta ora con la variante Omicron. Che può essere come un raffreddore o un'influenza, sì, come ritiene Matteo Bassetti, ma per chi si è inoculato tre dosi di vaccino. Chi ne sia sprovvisto, rischia di finire in terapia intensiva assai più che sei mesi fa.

Il No Vax a questi argomenti (a parte il più irrecuperabile, che dirà trattarsi di cifre false) risponderebbe che, pagando le tasse, egli ha diritto ad essere curato. D'accordo, ma perché deve farlo con anche i miei soldi? Cioè perché io, vaccinato, devo contribuire finanziariamente a curare chi ha scientemente deciso di affrontare il rischio di ammalarsi? Perché in un sistema sanitario pubblico è cosi, non siamo negli Usa. Non è un ragionamento assurdo: in molti Paesi da tempo si discute se far pagare le spese sanitarie a obesi, fumatori, bevitori, a coloro che mantengono uno stile di vita anti salutare. E badate bene, ad argomentare a favore sono economisti e intellettuali liberali e conservatori, giustamente più sensibili dei socialisti al dispendio di denaro pubblico, formula eufemistica a significare i soldi dei contribuenti, presi dalle nostre tasche.

Arrivare a fare pagare le cure ai No Vax, nel nostro sistema, è impossibile, sia tecnicamente sia politicamente. Ma quando qualcuno di loro vi farà capire di considerarvi uno «schiavo» perché vaccinato, voi ricordategli che, quando gli eroi venivano feriti, pagavano in prima persona. È facile, e anche molto italiano (in senso deteriore), fare il libertario con le tasse degli altri. Marco Gervasoni

"Lo Stato non risolve problemi, li complica". Corrado Sforza Fogliani il 3 Gennaio 2022 su Il Giornale. Il 29 e 30 gennaio liberali a confronto su oppressione normativa e crisi. A fine gennaio, come di consueto, sentiremo la voce dei liberali (e dei libertari). Questa volta, in sostanza, sulla pandemia (i suoi effetti, il suo sviluppo, le attese). Agli inizi del 2020 un gruppo di 25 intellettuali liberali richiamò l'attenzione dell'opinione pubblica sul fatto che si stava predisponendo un gigantesco meccanismo di deresponsabilizzazione, in ogni settore, esteso ad ogni categoria e classe sociale. «Le risorse si diceva che sono nella disponibilità dello Stato devono direttamente pervenire agli interessati, senza passare necessariamente attraverso tutto quell'armamentario che ne ritarda l'erogazione e, soprattutto, che incide sulla consistenza degli aiuti stessi, riducendoli in modo sensibile e favorendo quel clientelismo e quella corruzione che con facilità si annidano proprio negli apparati burocratici». Oltre a ciò «bisogna disboscare la selva delle regole, perché quanti evocano il boom successivo alla Seconda guerra mondiale dovrebbero ricordare come allora chi voleva intraprendere poteva farlo con facilità: non c'erano tutte le leggi che ora impediscono ogni iniziativa, né vi era una pressione fiscale come l'attuale».

Agli inizi del 2021, un secondo «Appello», un primo bilancio. «L'interventismo autoritario è sotto gli occhi di tutti. Trova la sua (inventata) ragion d'essere nella lotta al virus Corona. In realtà, ogni giorno si fa violenza allo stato di diritto e si aumenta la spesa pubblica. L'imposizione fiscale insopportabile va di pari passo. Facciamo ecco la conclusione che lo Stato lasci lavorare in pace chi vuole fare, eliminando ogni norma che ostacola quanti intraprendono».

È ora, adesso, di fare ancora il punto e, soprattutto, di parlare chiaro. Di disboscamento normativo neppure si è parlato. Si è anzi continuamente alimentata l'illusione che a tutto possa pensare l'apparato pubblico, così gravandolo di ulteriori compiti e responsabilità anche sul piano sanitario. Le banche centrali hanno dal canto loro continuato a fare politica, e a dettare comportamenti, più dei Parlamenti. L'Europa appare come la grande salvatrice (pur con preteso rimborso, di cui nessuno si occupa e si preoccupa), in un vorticoso tourbillon di denaro pubblico del quale non si sanno né si comprendono, i precisi confini. Il futuro è incerto perché è incerto che futuro vogliamo creare.

Di questo ed altro si discuterà a Piacenza il 29 e 30 gennaio (anteprima nel pomeriggio di venerdì 28) nel corso della sesta edizione del Festival della cultura della libertà, organizzato anche con la collaborazione del Giornale.

Diceva Einstein: «Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi porta progressi. È nella crisi che sorgono l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Tacere nella crisi è esaltare il conformismo». Non taciamo, troviamoci a Piacenza. Corrado Sforza Fogliani

·        Il Realismo.

Il dovere di essere realisti. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2022.  

Essere democratici ha sempre significato inevitabilmente essere dalla parte del futuro e del progresso, legati in un legame di coppia indissolubile. Ma rompere con il valore del passato non è rimasto senza conseguenze.

Perché l’Europa è precipitata nella drammatica caduta di potenza cui assistiamo ormai da anni? E perché la stessa cosa è accaduta agli Stati Uniti? Perché si profila da tempo e in misura ognora crescente quella che potremmo definire una vera e propria crisi del potere democratico mondiale, un potere che — con l’importante eccezione di qualche dominion britannico e del Giappone — è stato e nella sostanza resta tuttora un potere euro-americano?

Le risposte in chiave economica, militare, geopolitica, si sprecano. Forse, però, dovremmo spingere lo sguardo più in profondità, oltre la dimensione della pura potenza e delle sue dinamiche. Forse dovremmo pensare che all’origine di tutto c’è qualcosa di più basilare che riguarda il modo di pensare, le idee, la mentalità. Dovremmo forse chiederci, ad esempio, se la crisi mondiale del potere democratico stia addirittura nell’idea stessa di democrazia.

«La democrazia, ha scritto Tocqueville, dà agli uomini una specie di istintivo disgusto per ciò che è antico». Sono parole che danno l’idea dell’enorme frattura che l’avvento di questo nuovo regime ha significato nelle società occidentali, innanzitutto rispetto al passato: il principio della libertà e della sovranità individuali, il potere che ne è risultato per ognuno di affermare la visione del mondo, i desideri, le opinioni, le regole sociali, che più gli andassero a genio.

È tutto questo che ha prodotto — anche a non contare le conquiste della scienza e della tecnica — un formidabile rifiuto della continuità storica, un radicale distacco dalla grigia dimensione del passato, della tradizione, e la sostituzione di tutto ciò con l’esaltante dimensione della novità, del futuro. Al prestigio del passato la democrazia ha sostituito l’attesa e il fascino del futuro, considerato in quanto tale necessariamente migliore dell’oggi e ancor più dello ieri. Ha sostituito l’idea del progresso. Fin dall’inizio essere democratici ha significato inevitabilmente essere dalla parte del futuro e del progresso, legati in un legame di coppia indissolubile.

Ma rompere con il valore — e dunque inevitabilmente anche con la conoscenza — del passato, raffigurandosi di essere all’inizio di un mondo ormai nuovo votato a un futuro sostanzialmente di progresso, non è rimasto senza conseguenze. Ha voluto dire alla lunga un effetto di enorme portata sulla mentalità delle società democratiche, sulla loro cultura politica nonché sulle élite al potere e le loro scelte, perché ha voluto dire rompere con la dimensione del realismo.

Infatti, avere confidenza con il passato e conoscerne le vicende, conoscere i multiformi casi occorsi ai popoli e agli Stati, sapere della varietà infinita delle loro sorti, del ruolo dell’imprevisto, del crollo talora repentino di idee e poteri che apparivano solidissimi, e infine della misteriosa e mutevole complessità di quanto si agita nella mente degli esseri umani (da soli o in gruppo) spingendoli all’azione, tutto ciò costituisce di per sé una straordinaria lezione di realtà. Che induce a farsi poche illusioni, a essere cauti, a stare in guardia contro la moltitudine dei pericoli sempre in agguato, a ritenere indispensabile poter contare sempre sulle proprie forze: e dunque anche ad avere una propria forza. E questo è per l’appunto il realismo, che sempre si accompagna a una vena più o meno esplicita di pessimismo.

Ma è una dimensione che alla mentalità democratica è estranea se non addirittura ripugna. Alla mentalità democratica essere realisti appare invariabilmente solo la prova di un animo malvagio. Tutte orientate al futuro e al progresso le folle e le classi dirigenti democratiche si lasciano assai difficilmente convincere a non avere uno sguardo ottimistico sul mondo. Aiutate per giunta da una cieca fiducia nella scienza, esse sono troppo compenetrate dell’idea che così come ogni desiderio o inclinazione o scelta personale sia legittima se non reca danni ad altri, che così come non esistono regole o istituzioni sociali che non possano essere mutate o cancellate dal voto di un Parlamento, allo stesso modo ad ogni problema corrisponda sempre una soluzione positiva che si tratta solo di trovare; che non ci siano conflitti incomponibili; che in qualche modo tutto possa andare per il meglio, tutto finirà per sistemarsi. È il medesimo atteggiamento psicologico all’origine della secolarizzazione di massa o del tentativo di cancellare/esorcizzare la morte dalla nostra vita individuale e sociale.

Decenni e decenni di diffusione capillare di ideologia democratica di questa fatta hanno prodotto nelle società occidentali e in particolare nelle sue élite politiche una decisa messa in mora di ogni istanza realistica, di ogni sobrio ma salutare pessimismo nella valutazione delle cose del mondo e dei suoi attori, una sorta di fiduciosa leggerezza nel trattare anche gli affari più delicati. Come è stato possibile, ad esempio, accettare a cuor leggero che la Cina entrasse nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) senza avere la garanzia che non ci mangiasse vivi o, per dirne un’altra, assistere tranquillamente alla sua occupazione di enormi parti dell’Africa? Come è stato possibile fidarsi della parola dei talebani nelle trattative di Doha consegnandogli l’Afghanistan senza colpo ferire? Come è stato possibile credere alle «primavere arabe»? Come è stato possibile credere che un giorno Al Sisi ci avrebbe fornito gentilmente l’indirizzo dei carnefici al suo servizio? O credere oggi che Putin si spaventi delle sanzioni, o che qualsiasi cosa dica l’Unione europea conti qualcosa?

Sì, è vero, negli ultimi tempi l’atmosfera ha forse cominciato a cambiare. Forse: Dio non voglia che sia quando le onde già lambiscono la tolda del Titanic.

L’onda del realismo sull’Europa. Lorenzo Vita su Inside Over il 13 gennaio 2022.

L’Europa e il realismo. Un binomio che per molti anni è sembrato impossibile, specialmente in una fase in cui le forze più progressiste apparivano orientate su una serie di derive ideologiche che hanno spesso fatto emergere posizioni sempre più nette e radicali. Idealismi che non hanno certo cambiato, come si promettevano, l’Europa. Ma che hanno impantanato molto spesso la politica su binari morti: di scontro e di polarizzazione invece che di convergenza e azione. Fino a qualche tempo fa tutto questo sembrava talmente evidente da essere ritenuto scontato. Simboli e simbolismi di una nuova società e di battaglie ideologiche hanno spesso sopraffatto il piano della dialettica creando steccati culturali, e dando l’impressione che l’unica strada percorribile fosse quella radicale.

Eppure negli ultimi tempi qualcosa sembra essere cambiato. Quella ricerca ideologica delle soluzioni ai problemi sembra avere perso la sua forza più violenta e dissacrante. L’utopia dei movimenti (spesso più mediatici che reali) che ha invaso la politica fino a essere battistrada dei dibattiti scientifici pare abbia ceduto il passo al pragmatismo. In parte, probabilmente, per l’esigenza di una società che ha subito la pandemia e la disaffezione verso il futuro, di guardare al concreto. In parte per l’avvento di alcuni rappresentanti o sostenitori di questo mondo nelle stanze del potere: momento in cui l’utopia si scontra con una realtà molto più complessa rispetto agli slogan di piazza o dei social network. Di fatto, però, quello che sembra affiorare è una forma di realismo generale che può essere indicativa di una società cambiata ma non rivoluzionata.

Il realismo ambientale

La questione climatica è un esempio interessante. Per molto tempo il cambiamento climatico è stato utilizzato come clava, e abbiamo visto Greta Thunberg, paladina di un ambientalismo “duro e puro”, prendersi le aule del consesso internazionale. Ci eravamo lasciati con giovani con le mani dipinte di rosso che manifestavano nelle piazze occidentali scandendo slogan sul futuro del pianeta. Ora, dopo alcuni mesi, ci troviamo a osservare da vicino i costi reali della transizione ecologica e una sfida geopolitica, prima ancora che economica, tra le potenze sponsor delle fonti energetiche del presente e del futuro. Francia, Germania, Italia, Spagna, Ue, Russia e Stati Uniti giocano una partita ambientale ed energetica importantissima e decisamente scevra da qualsiasi utopia. E anche sulle aperture nei confronti del nucleare e del gas naturale, così come dello sfruttamento delle risorse nazionali dopo anni di “no”, sembra aver preso piede una logica di razionalità e concreta attuazione dei programmi.

Una nuova politica migratoria

Sulla politica migratoria, il discorso è più risalente ma per certi veri simile. La disperazione di chi ha preso la rotta del Mediterraneo e dell’Europa orientale si è spesso innestata sull’avvento di soluzioni ideologiche ma non pragmatiche. Oggi, e lo si vede anche dai summit internazionali, si inizia a considerate il fenomeno delle grandi migrazioni come un tragico mix di condizioni disperate di partenza, conflitti irrisolti, sfruttamento da parte di attori statali e organizzazioni criminali. Si è imposto, soprattutto in sede europea, un dibattito più centrato sul realismo, dove si è compresa l’importanza delle condizioni dei Paesi di partenza, del controllo delle rotte, della stabilità nei Paesi di transito, fino alla comprensione della protezione delle frontiere esterne. Lo ha capito anche la parte socialdemocratica dell’Ue, che una volta al potere si è resa conto delle difficoltà di imporre una traiettoria troppo radicale a un tema che rischia di provocare ulteriore polarizzazione.

La resistenza alla cancel culture

Il tema si incrocia anche con un altro di recente affermazione (e delusione), quello culturale. Quando la cancel culture si è innestata su movimenti di protesta antirazzista in America, è sembrato che la storia dovesse essere riscritta a prescindere dal suo studio. Il furore ideologico, anche in questo caso, appariva come un’onda inarrestabile capace di cancellare il passato che non piaceva. Un passato letto con lenti del presente, con categorie dell’oggi applicare allo “ieri”. La cosa sembrava aver preso piede anche nelle cosiddette élite, in quell’establishment spesso molto attratto dalle teorie ultraprogressiste e radicali. Eppure, passata la grande onda, il mondo ha iniziato a interrogarsi su questi nuovi riferimenti ideologici e sono arrivati primi moniti nei confronti dei suoi fautori. Prima quello del presidente francese Emmanuel Macron e del suo governo. Poi, più di recente, quello di Papa Francesco, che ha messo in guardia sul fatto che “si va elaborando un pensiero unico – pericoloso – costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca, non l’ermeneutica di oggi”. Frasi importante che fungono da avvertimento a una società sempre più incline alla distruzione più che alla sedimentazione.

Difficile comprendere se questa nuova fase politica sia solo frutto di una concatenazione di eventi, tornate elettorali o schemi internazionali, oppure sia il frutto di un rallentamento delle tensioni e della comprensione più ampia dei fenomeni. Quello che però sembra evidente è che in Europa si inizia a osservare la realtà con uno sguardo differente: più basato sul realismo, su soluzioni concrete, con margini di dibattito che non sforano nella polarizzazione. Mettendo in parallelo questa nuova realtà a quella della gestione del coronavirus, che da emergenza pandemica si sta iniziando a considerare una condizione endemica in cui la normalizzazione è il nuovo obiettivo, si può dire che all’ondata ideologica si inizia a rispondere con il realismo. Il problema c’è, ma si risolve con una lettura che per usare categorie della politica potremmo definire “moderata”. Vedremo se sarà definitivamente questa la nuova realtà del 2022.

·        Il Sovranismo-Nazionalismo.

Roberto Saviano: “Dio, Patria e famiglia non sono valori, sono un crimine”. Giampiero Casoni l'01/09/2022 su Notizie.it.

Il tweet di Saviano sul caso Venezi: “Dio, Patria e famiglia è slogan in uso prima del fascismo, diventa sintesi della visione di Mussolini" 

Per Roberto Saviano “Dio, Patria e famiglia non sono valori, sono un crimine”. Lo scrittore si inserisce nel dibattito sui temi “fondanti” della destra e dà la sua opinione con un post social a cui correda le foto di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi.

L’autore di Gomorra ha contestualizzato il suo giudizio ed ha spiegato con un post comunque molto duro: “Dio, patria e famiglia, slogan in uso prima del fascismo, diventa sintesi della visione di Mussolini”.

Saviano contro “Dio, Patria e famiglia”

“Dio come unica verità, Patria come confine da difendere, Famiglia come monopolio dell’affetto”. Poi spiega: “Dio, Patria e famiglia, così declinati, non sono valori, sono un crimine”. E nella foto pubblicata su Twitter ci sono tre immagini-icona del centrodestra in lizza per le elezioni del 25 settembre: Matteo Salvini con un rosario in mano, Giorgia Meloni su un palco con il Tricolore e Silvio Berlusconi insieme alla compagna Marta Fascina.

Il caso Venezi e l’opinione dello scrittore

Il dibattito era nato dopo che la direttrice d’orchestra Beatrice Venezi si era pubblicamente richiamata a quei temi ed aveva espresso un’opinione affatto sfavorevole al loro valore. Libero spiega che “secondo Saviano la Venezi e il centrodestra si richiamano evidentemente al fascismo”.

Valentina Nappi: "Dio, patria, famiglia? Col cu***": la vergogna, valanga di insulti. Libero Quotidiano il 02 settembre 2022

Valentina Nappi si iscrive al partito anti-Meloni. Adesso la pornostar mette nel mirino la leader di Fratelli d'Italia. E lo fa a modo suo con un tweet che ha fatto parecchio discutere. Sul suo profilo è apparsa questa frase: ""Dio, Patria, Famiglia" ma sono tutti divorziati, evasori fiscali e cattolici con il c... degli altri".

L'attacco è diretto e nemmeno tanto velato. Infatti la Nappi attacca senza se e senza ma i tre valori su cui si basa la campagna elettorale della Meloni che più di una volta ha spiegato di essere una donna cattolica, una mamma e soprattutto di essere italiana. Ma a quanto pare l'uscita della Nappi non è stata apprezzata dai suoi follower che l'hanno presa di mira insultandola. Evitiamo di riportare qui le frasi apparse sotto il tweet della Nappi per rispetto verso i nostri lettori. Ma di certo va sottolineato che la sinistra si sta mobilitando anche nel mondo delle pornostar per mettere in cattiva luce il centrodestra e la Meloni in questo periodo elettorale che porta dritti dritti alle elezioni del 25 settembre. Insomma la campagna si fa sempre più accesa e non sono esclusi ancora colpi di scena e altri attacchi (gratuiti) ai leader moderati. 

La vera storia (non fascista) di Dio, patria e famiglia. Le idee contestate come reazionarie sono "figlie" del rivoluzionario risorgimentale. Alessandro Gnocchi il 20 Settembre 2022 su Il Giornale.

Sembra impossibile ma la campagna elettorale ogni giorno sprofonda nel passato. Dal fascismo è stato un attimo ripiombare nel Risorgimento, probabilmente a insaputa dei leader politici. L'allarme per il ritorno del fascismo non ha preoccupato nessuno a parte qualche opinionista seriale da Twitter o Facebook. Ma boia chi molla! E la sinistra non molla, anzi rilancia. Adesso se la prende con la triade Dio, patria e famiglia, valori retrivi, che nascondono, a scelta: il ritorno del patriarcato, il no alle famiglie omosessuali, la difesa delle frontiere con il coltello tra i denti, la rinascita di un bigottismo che porterà alla negazione dell'aborto, per fare un esempio. Accadrebbe questo se vincesse il centrodestra? Ne dubitiamo. Senz'altro attribuire «Dio, Patria e Famiglia» al fascismo significa fare un regalo immeritato al fascismo stesso, abboccando, decine di anni, dopo alla propaganda del regime.

Dio, Patria e Famiglia sono i valori al centro dei Doveri dell'uomo (1860) di Giuseppe Mazzini, uno dei testi chiave del Risorgimento. Il titolo, implicitamente polemico, segna la distanza dei rivoluzionari italiani da quelli francesi. Questi ultimi ponevano l'accento sui diritti dell'uomo come occasione di libertà individuale. Mazzini non è contrario ai diritti. Tutt'altro. Ritiene però che insistere solo sui diritti conduca a una società materialista, infelice, egoista, poco coesa. Prima dei diritti ci sono i doveri, sintetizzati nei valori di Dio, patria e famiglia.

Dio ci ha creati liberi. Per questo il tiranno teme la religione e si impone con profana violenza. La religione trasmette il sistema di idee alla base di una corretta convivenza. Mazzini: «Voi dovete adorar Dio per sottrarvi all'arbitrio e alla prepotenza degli uomini». Mazzini scrisse queste parole, per altro, rimanendo acerrimo nemico del potere temporale del Papa.

Anche la Patria è uno scudo contro l'oppressione: «Non v'illudete a compiere, se prima non conquistate una Patria, la vostra emancipazione da una ingiusta condizione sociale: dove non v'è Patria, non è Patto comune al quale possiate richiamarvi: regna solo l'egoismo degli interessi, e chi ha predominio lo serba». La Patria, insomma, è il regno della Legge uguale per tutti. Ma dove nasce questo regno? Dio pose confini naturali e innate tendenze nei popoli. La guerra ha introdotto divisioni arbitrarie che non possono durare nel tempo.

La Famiglia è la Patria del cuore. La sua missione è l'educazione dei cittadini. Ma ora trascriviamo un passo per chi ha usato, storpiandole, le parole di Mazzini: «Amate, rispettate la donna. Non cercate in essa solamente un conforto, ma una forza, una ispirazione, un raddoppiamento delle vostre facoltà intellettuali e morali». Vi sembra poco? Allora aggiungiamo questo passaggio rivolto ai maschietti: «Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. Un lungo pregiudizio ha creato, con una educazione diseguale e una perenne oppressione di leggi, quell'apparente inferiorità intellettuale dalla quale oggi argomentano per mantenere l'oppressione».

Enrico Letta, segretario del Partito democratico, ha appena finito di dire in televisione che lo slogan «Dio, Patria e Famiglia» si riassume in una sola parola: «patriarcato». È l'esatto opposto, a leggere Mazzini.

Giuseppe Prezzolini, nel Manifesto dei conservatori (1972), «corresse» Dio in Religione e aggiunse un altro pilastro: la Proprietà privata. «Gli elementi naturali della società sono per un Vero Conservatore la proprietà privata, la famiglia, la patria e la religione». La «correzione» dipende dal fatto che, in Italia, il cattolicesimo è stato un ostacolo alla unità. Quindi Prezzolini aveva in mente una sorta di religione civile: «La religione ha certamente un grande valore politico. Può tenere insieme dei popoli, come si vede in Polonia». Alla Patria, il progressista contrappone una generica umanità; al posto della Religione coltiva il materialismo; alla famiglia riserva solo contestazione. Anche Prezzolini fu in aperto scontro con la propria famiglia. Poi si accorse che la famiglia è il luogo dove si tramandano «il compimento dei propri doveri, l'onestà personale, la capacità di giudizio non partigiano, il mantenimento della parola data, la specchiatezza dei costumi, la coerenza dell'azione con il pensiero, la modestia nella vita sociale». L'educazione, insomma. In quanto alla proprietà privata, essa è il motore dell'azione individuale e deve essere intoccabile. I conservatori incoraggiano i piccoli imprenditori e il risparmio famigliare. I progressisti vorrebbero invece collettivismo, grosse aziende con le quali venire a patti, assistenza statale obbligatoria per trasformare il cittadino in suddito.

Abbiamo citato due dei mille autori impegnati a tessere le lodi di Dio, Patria e Famiglia. Si potrebbero aggiungere molti classici del liberalismo, a partire dalla Democrazia in America (1835-1840) di Alexis de Tocqueville. Fermiamoci qua. Non vogliamo però dare l'impressione di aggirare un problema. Il fascismo, grazie a Giovanni Gentile, ha dato una spolverata a Dio, Patria e Famiglia, truccando le carte a favore dello Stato, detentore di ogni diritto. Con quale esito? Non resta che prendere in mano qualche libro di storia. Ad esempio, Il fascismo e i partiti italiani. Testimonianze del 1921-1923 (Cappelli, 1966) a cura di Renzo De Felice. È un'antologia dove figurano scritti di Arturo Labriola, Dino Grandi, Guido De Ruggiero tra gli altri. Possiamo misurare quanto fosse già ampia, sul nascere, la distanza tra realtà e propaganda. Mussolini aveva un passato anticlericale, i Patti Lateranensi erano uno strumento politico. La Famiglia, beh, nonostante i solidi affetti, Mussolini non poteva essere un testimonial credibile. In quanto alla Patria, nel libro di De Felice si nota che la parola sarà impronunciabile per decenni proprio a causa di Mussolini. Il Fascismo ha voluto identificarsi nello Stato e nella Patria, trascinandoli con sé nella vergogna.

Infine, vorremmo chiedere ai Letta: credete sul serio che ci sia in giro qualche sostenitore di Dio, Patria Famiglia? Sono tre idee che hanno perso. Dio è morto di materialismo acuto, basta fare un salto in Chiesa per ammirare la desolazione, la Patria ha ceduto il posto alla globalizzazione, la famiglia è costantemente sotto accusa. Su tutto si può ragionare, discutere, mediare. Dio, Patria e Famiglia forse avranno bisogno di una cura rivitalizzante. Ma la sinistra davvero non vede niente di buono in questi valori antichi?

Le radici romane della Costituzione. Valditara racconta la battaglia alla Costituente per difendere la famiglia. Stefano Zurlo il 17 Novembre 2022 su Il Giornale.

Due visioni del mondo che si scontrano. La tradizione occidentale che poggia sulle spalle antiche duemila anni di Roma e l'ideologia comunista che arriva, tornante dopo tornante, dalle riflessioni di Hegel. Due interpretazioni della realtà che si confrontano nel 1947 nei lavori della Costituente: si parte da Cicerone, ma si arriva all'articolo 29 della Carta fondamentale dell'Italia repubblicana, quello che definisce la famiglia. Di qua Camillo Corsanego, e con lui Giorgio La Pira, di là Nilde Iotti. Settantacinque anni dopo, Giuseppe Valditara, da pochi giorni ministro dell'istruzione e, se ci riuscirà, del merito ricostruisce quelle battaglie e quelle discussioni in un libro denso e affascinante: Alle Radici romane della Costituzione (pagg. 224, euro 22,80) appena pubblicato da Guerini E Associati.

Corsanego mette le mani avanti: «La famiglia preesiste allo Stato, il quale non crea, ma ne riconosce e regola i diritti innati e inalienabili». Ecco, dunque la formulazione proposta dell'articolo: «Lo Stato riconosce la famiglia come la unità naturale e fondamentale della società, con i suoi diritti originari inalienabili e imprescrittibili concernenti la sua costituzione, la sua finalità e la sua difesa».

«Se la famiglia è un organismo naturale - spiega La Pira nella seduta pomeridiana dell'Assemblea dell'11 marzo 1947 - allora è evidente che la Costituzione, veste del corpo sociale, deve parlare della famiglia. Quando infatti si dice organismo naturale traducendo quel termine tecnico latino che è la societas naturalis, si vuole intendere un organismo di diritto naturale... E lo Stato deve fare una una sola cosa: riconoscere questi diritti connaturati all'uomo e proteggerli».

É quel che accade poi con la stesura definitiva dell'articolo 29: «Dalla tradizione romana - annota Valditara - deriva dunque la definizione della famiglia come società naturale, societas naturalis; da Cicerone proviene la concezione della famiglia come fondamento della repubblica, seminarium rei publicae. Questa è la linea vincente, poi però in quell'aula viene introdotto un testo alternativo che accartoccia l'eredità classica e cristiana, virando verso l'utopia sovietica: «Lo Stato - scandisce Nilde Iotti, compagna di Palmiro Togliatti e futura presidente della Camera - riconosce e tutela la famiglia, quale fondamento della prosperità materiale e morale dei cittadini della Nazione».

«Nella proposta comunista - commenta Valditara, qui professore di diritto romano - la famiglia non appare come una societas naturalis bensì come semplice fondamento della prosperità della Nazione. Non vi è alcun richiamo alla concezione romana così come presupposta da La Pira. Nulla si dice del suo carattere originario, ci si limita a registrarne la funzionalità al benessere nazionale».

Insomma, c'è anche Cicerone dietro l'articolo 29 e tanti passaggi della Costituzione, ma avrebbe potuto esserci Stalin, sia pure in una versione temperata. E Togliatti si prende una mezza rivincita quando si affronta il tema incandescente della libertà, fissata all'articolo 125 della Carta sovietica. Qui La Pira, figura complessa e articolata, subisce come Giuseppe Dossetti le suggestioni che arrivano da Botteghe Oscure. per la Pira infatti la libertà deve essere esercitata «in armonia con le esigenze del bene comune». Qualcosa che apparente il suo pensiero a quello del segretario comunista che ancora la libertà «al continuo incremento della solidarietà sociale».

Così La Pira butta alle ortiche la classicità e sposa l'idea del Pci.

È l'illusione del paradiso in terra che porta dritti all'inferno.

Mazzini, pensiero e azione: Dio, Patria, Famiglia. Di Francesco Borgonovo il 10 Marzo 2022 su Culturaidentità.it

Da quanto tempo siamo costretti ad ascoltare le intemerate progressiste contro il patriarcato? Come sempre, dei fenomeni si parla quando ormai sono passati. E infatti oggi la nostra società non è affatto patriarcale bensì grande materna, che tende a ridurre gli adulti a bambinoni persi in un gigantesco negozio di giocattoli. Non è un caso che oggi prevalga il vittimismo infantile e si dia assoluta priorità ai diritti invece che ai doveri. Mancano padri che diano l’esempio, che fissino regole e allo stesso tempo insegnino la libertà. Di questi padri non hanno bisogno soltanto i singoli individui, ma i popoli nel loro complesso. La Patria – che di per sé, in quanto terra, è madre – necessita di figure maschili che generino figli virtuosi. Purtroppo, però, questi padri tendiamo a cancellarli, dimenticarli o comunque ne pervertiamo la lezione.

Ecco perché, oggi più che mai, sarebbe il caso di riscoprire alcuni di loro, a partire da quel grande ispiratore dei patrioti italiani che fu Giuseppe Mazzini (nato a Genova nel 1805, morto a Pisa nel 1872). Fu esattamente 200 anni fa, nel 1821, osservando dalla Liguria il fallimento dei moti piemontesi, che Mazzini iniziò a convincersi della necessità di lottare per la Patria, con ogni mezzo necessario. Dieci anni dopo, egli avrebbe fondato la Giovine Italia, che sarebbe stata d’esempio per tutti i successivi movimenti rivoluzionari europei, socialisti o nazionalisti (o entrambi) che fossero. Troppo spesso tendiamo a consegnare alla polvere e ai sussidiari la figura austera di Mazzini e ci perdiamo così la rovente attualità del suo pensiero, che ancora oggi continua a essere conteso fra destra e sinistra. Gli autori radical, ovviamente, tendono a calcare la mano sull’aspetto «sovversivo» dell’austero genovese; a destra invece si insiste di più (e probabilmente a ragione) sull’afflato patriottico. In realtà, Mazzini era lontanissimo dal comunismo. Come notò Giano Accame nello splendido Socialismo tricolore, egli «aveva lavorato, in concreto, più dei suoi contestatori per la promozione di società operaie».

Tuttavia nei Pensieri sulla democrazia in Europa, Mazzini già intuiva dove sarebbe sfociato il pensiero comunista: «Tirannide. Essa vive nelle radici del comunismo e ne invade tutte le formole. […] L’uomo, nell’ordinamento dei comunisti, diventa una cifra». Il pensiero mazziniano, che riconosce l’esistenza delle classi ma le invita a collaborare, si fonda – pensate un po’ – sulla trinità più pericolosa che oggi si possa evocare: Dio, Patria e Famiglia. Nel formidabile I doveri dell’uomo (1860), si spiega che la famiglia va difesa a tutti i costi, respingendo «ogni assalto che potesse venirle mosso da incauti che, irritati nel vederla sovente nido d’egoismo e di spirito di casta, credono che il rimedio al male sia nel sopprimerla».

Per Mazzini, la famiglia è «la patria del core». Essa è il luogo in cui si perpetua la tradizione proprio perché «la Famiglia ha in sé un elemento di bene raro a trovarsi altrove, la durata. Gli affetti in essa vi si estendono intorno lenti, inavvertiti, ma tenaci e durevoli, siccome l’ellera intorno alla pianta». Tale durata della famiglia la rende il fondamento della Nazione, la prima cellula di una comunità più ampia. Mazzini, il cui riferimento a Dio è costante praticamente in tutte le opere, vedeva appunto la famiglia come la culla dell’educazione. Ed è attraverso l’educazione che si possono formare gli italiani di domani: «Chi non amerà la famiglia che assumendosi parte dell’educazione del mondo e riguardandosi come germe e primo nucleo della Nazione, mormorerà al fanciullo, tra il bacio materno e la carezza del padre, il primo insegnamento del cittadino?». Padre e madre, ben distinti nelle loro funzioni, sono dunque i primi educatori dei cittadini. Mazzini, dal canto suo, si trova molto a suo agio nel ruolo paterno, di genitore di una nazione intera. Non è un caso che egli preferisca appunto concentrarsi sui doveri invece che sui diritti di cui tutti straparlano e di cui oggi regolarmente si abusa.

Già nel suo più celebre scritto, Mazzini aveva intravisto dove avrebbe condotto l’eccessiva insistenza sui diritti e sulle libertà individuali: «Ciascun uomo prese cura dei propri diritti e del miglioramento della propria condizione senza cercare di provvedere all’altrui; e quando i propri diritti si trovarono in urto con quelli degli altri, fu guerra. […] In questa guerra continua, gli uomini s’educarono all’egoismo, e all’avidità dei beni materiali esclusivamente. La libertà di credenza ruppe ogni comunione di fede. La libertà di educazione generò l’anarchia morale». Non è esattamente quello che sta accadendo sotto i nostri occhi, con le minoranze (sessuali, etniche e religiose) che si combattono sul «mercato dei diritti» in cerca di riconoscimento? Egli non stava forse descrivendo l’antagonismo di massa che caratterizza la società dell’apparente benessere? «Gli uomini» scriveva «senza vincolo comune, senza unità di credenza religiosa e di scopo, chiamati a godere e non altro, tentarono ognuno la propria vita, non badando se camminando su quella non calpestassero le teste de’ loro fratelli, fratelli di nome e nemici di fatto. A questo siamo oggi, grazie alla teoria dei diritti».

Ecco allora che ai diritti Mazzini antepone i doveri. La sua è una ascetica dell’uomo d’azione, un votarsi interamente – per gratitudine verso i genitori, e dunque verso la patria – al sacrificio di sé. Ed è questo moto dell’animo che ora, più di tutto, ci manca.

111. Ricordi di un europeo. Alessandro D’Avenia su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2022.  

«La più intima missione cui per quarant’anni avevo dedicata ogni energia, la pacifica federazione dell’Europa, era andata in rovina; quello che io avevo temuto più che la mia stessa morte, la guerra di tutti contro tutti, era ormai scatenata». Parole scritte allo scoppio della Seconda Guerra mondiale da uno scrittore che amo, Stefan Zweig, nel suo capolavoro del 1941 Il mondo di ieri: ricordi di un europeo. Pochi mesi dopo, nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1942, fu trovato morto a Petropolis, in Brasile, dove si era rifugiato. Viennese, apolide da quando Hitler aveva preso l’Austria, i suoi libri erano stati bruciati e lui perseguitato. Quella notte di 80 anni fa, marito e moglie si erano suicidati, anche se alcuni sostengono che «siano stati suicidati» dai nazisti. Zweig aveva chiamato «Europa» la sua villa a Salisburgo, dove aveva scritto memorabili biografie e racconti di personaggi di tutte le nazioni europee (Balzac, Dostoevskij, Nietzsche, Freud...) proprio per cogliere il genio di ognuna: sognava un’Europa unita dai suoi fondatori spirituali. Nei Ricordi la narrazione si ferma simbolicamente il 1° settembre del 1939, giorno dell’invasione della Polonia da parte dei Tedeschi: era finito il sogno umanistico dell’Europa unita. Affido alle sue parole (la coincidenza del giorno della sua morte con l’invasione dell’Ucraina mi ha portato a farlo) il requiem per un’Europa che, unita apparentemente dalla moneta, è stata in questi anni incapace, per mancanza di cultura della pace, di respirare con i suoi due polmoni, occidente e oriente, dall’Atlantico agli Urali. Perché? «Sono stato contemporaneo delle due più grandi guerre dell’umanità. Nel periodo prebellico ho conosciuto il grado e la forma più alta della libertà individuale, per vederla poi al più basso livello cui sia scesa da secoli; sono stato festeggiato e perseguitato, libero e legato, ricco e povero. Tutti i cavalli dell’Apocalisse hanno fatto irruzione nella mia vita, carestie e rivolte, inflazione e terrore, epidemie ed emigrazione; ho visto crescere e diffondersi sotto i miei occhi le grandi ideologie delle masse, il bolscevismo in Russia, il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania, e anzitutto la peste peggiore, il nazionalismo che ha avvelenato la fioritura della nostra cultura europea». La peste dell’Europa viene, per Zweig, dal male comune a tutte queste ideologie: il nazionalismo, corruzione del sano amor di patria che permette alle nazioni di cooperare (mettere in comune il meglio) e non di competere (affermare la propria potenza). Ci riempiamo la bocca della parola pace, ma poi a partire dal nostro sistema educativo costruiamo la cultura sulla competizione e non sulla cooperazione. Per educare alla pace bisogna prima che ciascuno scopra la sua unicità e poi che capisca che, per realizzarla, la strada migliore è metterla a disposizione di altri. Se tutto è invece centrato sull’affermazione della propria potenza, sin da bambini impariamo a vedere accanto a noi ostacoli, non alleati necessari a raggiungere obiettivi più grandi di quelli perseguibili da soli. Questo vale per gli studenti di una classe come per le nazioni di un continente: non saranno unite dalla stessa moneta ma solo dalla qualità delle loro relazioni. Papa Francesco ha affermato in una recente intervista che se per un anno si smettesse di produrre armi si potrebbe dare cibo ed educazione a tutto il mondo gratuitamente. Ma può farlo solo chi smette di affrontare la paura di non esistere con la ricerca della propria autoaffermazione (i nazionalismi costruiscono narrazioni abnormi sull’identità proprio perché non ce l’hanno). La crisi attuale sta portando invece verso nuovi armamenti: non è cambiato nulla in decenni di pace apparente, perché non ci si è realmente avvicinati agli altri. Proprio ciò che portò alla Prima Guerra mondiale un’Europa illusa dal proprio benessere: «Nessuno credeva a guerre, rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale e violenza apparivano impossibili nell’età della ragione... In questa commovente fiducia c’era una presunzione pericolosa. L’Ottocento, col suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via diritta ed infallibile verso il migliore dei mondi possibili. Guardava con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come fossero state tempi in cui l’umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. Tale fede in un «progresso» ininterrotto ed inarrestabile ebbe per quell’età la forza di una religione. Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei... I nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza. Oggi è facile deridere l’illusione ottimistica di quella generazione accecata dal suo idealismo: illusione che il progresso tecnico dovesse immancabilmente avere per effetto un non meno rapido miglioramento morale». Le parole di Zweig sembrano profetiche ma sono soltanto attuali perché siamo fermi lì: il progresso tecnico e il benessere a cui affidiamo sempre di più le nostre ansie di salvezza ci dà l’illusione di diventare migliori, ma non è così. L’uomo non si salva grazie al progresso esteriore ma grazie a quello interiore: quando, per esistere, smette di cercare il potere e quindi la potenza, e si mette a servire. A tal proposito per me sono centrali le parole e la vita di Cristo: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire» (Mc 10). Utopia? Nell’ultimo capitolo del Mondo di ieri, intitolato «L’agonia della pace», Zweig racconta la sua amicizia con Freud: «Avevo parlato spesso con Freud dell’orrore del mondo hitleriano e della guerra. Non era per nulla stupito da simile spaventoso scoppio di bestialità. L’avevano sempre accusato, mi diceva, di essere un pessimista, perché aveva negato il predominio della civiltà sugli istinti; ora si poteva vedere orrendamente confermata la sua affermazione, essere cioè indistruttibile nell’animo umano l’elemento barbarico e l’istinto elementare dell’annientamento. Forse nei secoli futuri si sarebbe potuta trovare una forma per domare tali istinti, almeno nella vita sociale dei popoli, ma essi permanevano nella vita quotidiana e nella natura più intima quali energie indistruttibili e forse anche necessarie al mantenimento della tensione vitale». Non sembra possibile domare (con il diritto, le armi, le sanzioni, le organizzazioni internazionali...) questi istinti nelle relazioni tra i popoli, proprio perché questi istinti appartengono a tutti, da chi guida nel traffico a chi governa una nazione. Questi istinti sono necessari alla tensione vitale, come dice Freud, ma non è vero che questa tensione si realizza meglio nella competizione che nella cooperazione (lo dice anche la biologia). Credo che qui stia l’enorme vuoto educativo della nostra cultura e la sfida per il futuro: per unirci non basteranno mai le soluzioni tecniche (dalla moneta agli eserciti) che non sono altro che maschere della competizione. Allo scoppio della Seconda Guerra mondiale di cui ignorava l’esito finale Zweig scrive: «Mi fu chiaro: ancora una volta il passato era morto, il lavoro compiuto distrutto, l’Europa, la nostra patria per la quale avevamo vissuto, era distrutta e per un tempo che andava ben al di là della nostra vita. Si iniziava qualcosa di nuovo, un’altra epoca, ma quanti inferni e quanti purgatori era necessario attraversare per giungere sino a lei!». Io non so quanto questa guerra ci toccherà da vicino, ma non posso ignorare che a noi è affidato il compito e il coraggio di aprire un’epoca nuova sulle macerie dell’attuale che poi sono le stesse del mondo di ieri. Lì dove siamo, oggi, a partire da come tratteremo chi ci sta accanto, da come collaboreremo con colleghi, da come staremo nel traffico. Solo questo potrà liberarci dal pessimismo che attanaglia il nostro cuore.

Storia di una dottrina. Il nazionalismo di Kedourie e i pericoli della politica moderna. Antonella Besussi su L'Inkiesta il 17 Febbraio 2022.

Lo studioso britannico mette in luce, analizzando la genesi dell’ideologia, le sue radici kantiane e le distorsioni che sono sopravvenute. In particolare il suo accostamento al razionalismo, che avrebbe dato vita a vere e proprie patologie del pensiero 

Ringrazio Alberto Mingardi per avermi coinvolto in questa presentazione altrimenti non avrei forse avuto occasione di leggere un libro brillante, sontuosamente servito dalla sua introduzione né di incontrare un temperamento intellettuale eccentrico e tough-minded che non conoscevo (confesso una certa preferenza per i tough-minded rispetto ai tender-minded).

Credo che Kedourie abbia ragione quando dice che la filosofia politica è la sua materia e la storia del Medio-Oriente un hobby. Questa è per me una circostanza fortunata perché so poco di storia del Medio Oriente e qualcosa di filosofia politica. In questo libro è evidente la propensione a confrontarsi teoricamente – e con profonda conoscenza di causa – con alcuni snodi concettuali decisivi nel passaggio mai abbastanza indagato tra illuminismo e romanticismo. Il nazionalismo diventa in questo senso un’occasione per fare i conti con il razionalismo della politica moderna.

Razionalismo che è molte cose insieme in una linea Burke-Oakeshott: una metafisica politica che sacrifica la realtà all’ideologia, l’esperienza a principi prestabiliti; una tesi filosofica secondo cui la teoria ha priorità sulla pratica; un approccio che alimenta il bovarismo politico degli intellettuali. Sono proprio queste le caratteristiche che secondo Kedourie fanno del nazionalismo uno stile politico razionalista, che fa valere ideologia contro storia, astrazione contro immersione, monismo contro pluralismo.

Filosofie scadenti distorcono il principio kantiano dell’autodeterminazione, individualistico e universalistico, mettendolo al servizio del particolarismo linguistico, etnico e culturale e quindi dei vincoli comunitari. La nazione è una forma politica costrittiva, o sei dentro o ne sei espulso, come mostra l’esperienza degli ebrei a Baghdad vissuta da Kedourie in prima persona.

Che l’invenzione del nazionalismo tradisca le intenzioni di Kant è innegabile, ma Kedourie fa anche riflettere su cosa nell’impianto kantiano offre risorse a questa impresa.

Citerei tre aspetti: a) l’allineamento tra il razionalismo etico e la rivoluzione, quindi l’idea che eventi politici trovino la giustificazione in filosofie; b) la pubblicizzazione della filosofia, cioè l’idea che gli accademici devono uscire dalle aule, dove Burke vorrebbe riportarli (si è spesso tentati di dargli ragione e senza dubbio Kedourie lo fa); c) la subordinazione della politica alla moralità, il moralismo, che prevede la politica debba essere governata da criteri esterni alle sue dinamiche. Sono tre ami che potremmo dire hanno pescato molti pesci, e di varie specie.

Il nazionalismo è uno di questi pesci. Estendendo la portata dell’autodeterminazione a un soggetto collettivo modellato da specifici fatti contingenti si offre giustificazione a eventi politici che vogliono affermarlo; si offrono opportunità di intervento pubblico a burocrati e intellettuali che vogliono rappresentarlo; si radica l’appartenenza politica in fatti affettivi in modo da rendere la conformità un fenomeno automatico. Ne viene fuori un costrutto dottrinario esportabile, che impone lessico e aspirazioni occidentali a esperienze e dinamiche politiche inadatte a sopportarli, con esiti distruttivi.

La costellazione di nozioni a prima vista eterogenee che Kedourie riconduce al nazionalismo trova su questo sfondo una ricomposizione. Romanticismo, idealismo, moralismo sono categorie che usa per descrivere i tratti patologici dello stile razionalista applicato alla nazione.

L’idea che la ragione non solo permette, ma richiede di cambiare il mondo secondo principi di giustizia alimenta esperimenti politici anche in contesti dove quei principi sono parole vuote; porta coloro che si percepiscono come funzionari dei suoi imperativi a agire politicamente come predicatori o ideologi, ma anche come cavalieri o soldati dell’ideale; alimenta l’aspettativa che la politica non sia una pratica autonoma e limitata, ma una missione salvifica.

Il ritratto magistrale – anche se fin troppo ostile – del colonnello Lawrence come eroe della nazione araba sintetizza bene questi tratti patologici in una sola persona. Devo dire però che aggiungere a questi tratti patologici il liberalismo mi è parso improbabile per quanto l’uso del termine sia idiosincratico. Lawrence sarebbe liberale in quanto sottovaluta la distanza tra i principi e le pratiche: non piace a Kedourie il suo ricorso alla politica come strumento di salvezza, che ne fa un romantico idealista, ma soprattutto l’attivismo correttivo cieco alle realtà caratteristico di coloro che “sognano di giorno”.

L’attivismo correttivo, però, può prendere diverse forme, non tutte idealistiche, romantiche o moralistiche.

Il nazionalismo che Kedourie avversa è un’invenzione tedesca, non c’è in Inghilterra e Stati Uniti, che non intendono la lealtà istituzionale come un imperativo culturale. Inglesi e americani ragionano sullo sfondo di libertà civili e religiose che l’autogoverno deve tutelare, mentre per i continentali è la nazionalità a garantire la libertà dei membri e l’autodeterminazione è attributo di un’identità condivisa. Un conto è pensare che la questione del governo deve essere decisa dai governati, un conto è invece dissolvere il rapporto tra governanti e governati in un costrutto comunitario che ai governati non lascia alcuna libertà se non quella di rappresentarlo.

Ignorando deliberatamente queste sfumature che ben conosce Kedourie respinge nel nazionalismo una manifestazione della modernità politica in quanto tale, trattandola come un monolite ingombrante e pericoloso, al quale si può forse soltanto girare intorno. Restando reattivo, quindi con lo sguardo rivolto all’indietro, il conservatorismo di Kedourie esclude qualsiasi possibilità propositiva e prende l’aspetto di una posizione malinconica che non riesce a elaborare il lutto della fine di principi di ordine superati. Il suo argomento resta comunque un ottimo antidoto alla politica assoluta dalla quale la modernità può essere tentata.

Voltare pagina. Tutti dovrebbero leggere “Nazionalismo” di Kedourie, anche gli avversari politici. Sergio Scalpelli su L'Inkiesta il 18 Febbraio 2022.

È un’analisi potente e precisa, ripubblicata dalla benemerita casa editrice Liberlibri, che aiuta a orientare il dibattito su un tema che sembra tornato d’attualità. Uno strumento utile soprattutto per chi combatte questa ideologia

Se un fantasma si aggira per l’Europa, negli ultimi anni è stato quello del nazionalismo. Inframmezzato ai più diversi motivi populisti, travestito da “sovranismo” per evitare il richiamo a un’idea di nazione spesso usurata nella società globale, il nazionalismo sembrava morto, consegnato al cimitero delle idee del secolo passato. E invece è più presente che mai, entra quotidianamente nella comunicazione di leader diversissimi, per cui popolo e nazione sono formule totalizzanti, armi puntate contro l’Europa delle élite e la globalizzazione dei banchieri.

Quando un’idea sopravvive a tempi tanto diversi, e quando ritorna ciclicamente anche nella discussione pubblica più minuta e puntuale, vuol dire che di un’idea forte si tratta. Magari sbagliata, ma forte.

Nelle scorse settimane Liberlibri, benemerita casa editrice di Macerata che tanto ha fatto per dare a questo Paese una cultura liberale degna del sostantivo, ha pubblicato in traduzione “Nationalism” di Elie Kedourie. È un libro del 1960, forse quello dopo il quale si riaccende la discussione sul tema, riferimento per Ernest Gellner (il cui “Nazioni e nazionalismo”, con la sua interpretazione funzionalista e, in realtà, para-marxista del nazionalismo, fu invece prontamente tradotto da Editori Riuniti). Il libro prende il nazionalismo sul serio, lo inquadra nell’idealismo tedesco dell’Ottocento, lo interpreta (per usare una felice espressione di Alberto Mingardi, che ha tradotto e introdotto il volume) come “romanticismo in politica”.

I romantici sono schiavi di alcuni assunti, come il primato dell’autenticità. E l’autentico, in politica come nella vita, è totalizzante, fa piazza pulita degli artifici e di quanto di più artificiale ci sia: cioè le regole complesse di quell’impresa complessa che è il vivere civile.

Abbiamo ospitato una presentazione del libro al Centro Brera (potete rivederla su Radio Radicale) e ospitiamo su Linkiesta gli interventi, bellissimi, di Sergio Belardinelli, Antonella Besussi e Fiona Diwan.

Si capisce che rispetto ai nazionalisti noi stiamo sull’altra barricata. Ma qualsiasi cultura politica che si rispetti studia e cerca di comprendere il suo avversario. Così dobbiamo fare. Il libro di Kedourie è uno strumento potente e speriamo lo sia anche il dibattito di cui come Linkiesta abbiamo dato conto e che speriamo prosegua.

Storia di un’idea. Quando il nazionalismo era ancora una novità. Elie Kedourie su L'Inkiesta il 28 Gennaio 2022.

È un concetto nato in tempi recenti: sorto dalle argomentazioni dei philosophes francesi, è cresciuto con lo scoppio della Rivoluzione francese, fino a imporsi insieme al nuovo ordine politico nato in quel periodo.

Il nazionalismo è una dottrina inventata in Europa all’inizio del Diciannovesimo secolo. Essa pretende di fornire un criterio per la determinazione dell’unità di popolazione più adatta ad avere un proprio governo per l’esercizio legittimo del potere nello Stato, e per l’organizzazione corretta di una società di Stati.

In estrema sintesi, tale dottrina ritiene che l’umanità sia divisa naturalmente in nazioni, che tali nazioni siano conosciute in virtù di certe caratteristiche che possono essere verificate e che l’unico tipo legittimo di governo sia l’autogoverno nazionale. Non è il minore dei trionfi di questa dottrina che tali proposizioni siano ormai comunemente accettate e ritenute di per sé evidenti, e che persino la parola “nazione” sia stata dotata dal nazionalismo di un significato e di una importanza che era ben lungi dall’avere sino alla fine del Diciottesimo secolo.

Queste idee sembrano ora pressoché naturali nella retorica politica dell’Occidente della quale ci si è poi appropriati in tutto il mondo. Ma ciò che ora appare naturale un tempo era tutto fuorché familiare, doveva essere spiegato tramite argomenti, facendo ricorso alla persuasione, portando prove di tipo diverso; quello che oggi sembra semplice e trasparente è in realtà oscuro e macchinoso, ed è l’esito di circostanze ormai dimenticate e di preoccupazioni ormai accademiche, il residuo di sistemi metafisici talora incompatibili e persino contraddittori. Per spiegare questa dottrina è necessario interrogarsi sul destino di alcune idee nella tradizione filosofica dell’Europa e domandarsi perché abbiano occupato il centro della scena in un particolare momento storico. 

La fortuna delle idee, come quella degli uomini, dipende tanto dal caso quanto dal loro valore e dal loro carattere, e se la dottrina del nazionalismo divenne tanto rilevante al volgere del Diciottesimo secolo, ciò accadde non soltanto a causa dei dibattiti dei filosofi, ma anche in ragione degli eventi che ammantarono le questioni filosofiche di un rilievo immediato ed evidente.

La filosofia dell’Illuminismo prevalente in Europa nel Diciottesimo secolo riteneva che il mondo fosse governato da una legge di natura uniforme e che non ammetteva variazioni. Per il tramite della ragione l’uomo poteva scoprire e comprendere questa legge, e affinché regnassero pace e felicità bastava che la società fosse ordinata secondo i suoi dettami. Questa legge era universale, ma ciò non significava che non ci fossero differenze fra gli uomini; significava invece che tutti avevano qualcosa in comune, che contava di più delle loro differenze. Si poteva dire che tutti gli uomini erano nati eguali, che tutti avevano un diritto alla vita, alla libertà e a perseguire la propria felicità o, in alternativa, che gli uomini erano soggetti a due padroni, Dolore e Piacere, e che le migliori disposizioni sociali erano quelle capaci di massimizzare il piacere e minimizzare il dolore.

Quale che sia il modo in cui questa dottrina viene presentata, se ne possono trarre alcune conseguenze. Lo Stato, in questa visione filosofica, è un insieme di individui che vivono assieme affinché meglio possano assicurare il proprio benessere, ed è dovere dei governanti produrre il massimo benessere possibile per gli abitanti del loro territorio, facendo uso di mezzi messi a punto dalla ragione.

È questo il patto sociale che unisce gli uomini gli uni agli altri, e che definisce diritti e doveri di sovrani e sudditi. Questa non era soltanto la prospettiva dei philosophes, che ne rivendicarono la validità universale, ma anche la dottrina ufficiale dell’assolutismo illuminato.

Secondo tale dottrina il sovrano illuminato regola le attività economiche dei sudditi, fornisce loro un’istruzione, si cura dell’igiene e della salute, garantisce una giustizia equanime e veloce, e in generale si preoccupa del benessere dei suoi sudditi, anche contro i desiderî di questi ultimi se necessario, poiché la grandezza dello Stato è la gloria del sovrano e uno Stato può diventare grande solo in proporzione alla popolazione e alla sua prosperità. In questo senso va intesa la massima di Federico il Grande di Prussia (1712-1786), secondo cui un re è il primo servitore dello Stato.

Un’operetta costruita nella forma di uno scambio di lettere fra Anapistemone e Filopatro, scritta da Federico stesso, le “Corrispondenze sull’amore della patria” (1779), può ben illustrare queste idee. L’autore vuole mostrare che l’amor patrio è un sentimento razionale e rifiutare l’idea, attribuita a «qualche enciclopedista», che siccome la Terra è la casa comune della razza umana l’uomo saggio dev’essere cittadino del mondo. È vero, Filopatro ammette di buon grado che gli uomini sono fratelli e debbono amarsi l’un con l’altro; ma questa vasta benevolenza di per sé richiama l’esistenza di un dovere più pressante e più specifico, quello, cioè, verso quella società particolare alla quale l’individuo è legato dal contratto sociale. «La buona società», Filopatro informa Anapistemone, «è la tua. Senza accorgertene, tu sei così fortemente legato alla patria che non puoi né isolarti da essa né separartene senza patire le conseguenze del tuo errore. Se il governo è lieto, tu prosperi; se esso soffre, la sua sfortuna ricade su di te. Similmente, se i cittadini godono di un’onesta prosperità, il sovrano prospera, mentre se i cittadini sono travolti dalla povertà anche la condizione del sovrano sarà miserevole. L’amor patrio non è dunque un mero concetto della ragione, esso esiste nella realtà».

Non a caso Filopatro arriva a suggerire che l’integrità di tutte le province dello Stato tocca direttamente il cittadino. «Non vedi», chiede, «che se il governo dovesse perdere tali province, esso finirebbe per indebolirsi, e perderebbe le risorse che ne ha tratto, e pertanto sarebbe meno efficace nell’aiutarti, in caso di bisogno?».

In questa prospettiva, dunque, la coesione dello Stato, e la lealtà verso di esso, dipendono dalla sua capacità di assicurare il benessere dell’individuo, mentre per quest’ultimo l’amor patrio è una funzione dei beneficî ricevuti. Accanto all’argomento del re, possiamo osservare quello di un privato cittadino. Goethe, recensendo nel 1772 un libro intitolato appunto “Sull’amore della patria”, scritto per promuovere la lealtà agli Asburgo nel Sacro romano impero, aveva questo da dire: «Ce l’abbiamo noi una patria? Se abbiamo un luogo dove possiamo stare in pace coi nostri possessi, un campo per cibarci e una casa per ripararci, non è quella la nostra patria?»

Tale era l’opinione corrente in Europa quando divampò la Rivoluzione francese. È essenziale rammentare il significato di quest’evento. Non fu soltanto un rivolgimento civile, un coup d’état, che sostituì un certo gruppo di potenti con un altro. Eventi simili erano del tutto usuali in Europa, e da principio furono in molti a considerare la Rivoluzione francese alla stregua di sommovimenti simili, o comunque un tentativo di realizzare quello stesso programma di riforme che l’assolutismo illuminato aveva fatto proprio.

Ma divenne sempre più evidente che la Rivoluzione francese aveva introdotto nuove possibilità nell’uso del potere politico e trasformato i fini riconosciuti legittimi per i governanti. Se i cittadini di uno Stato non approvavano più le istituzioni politiche della loro società, essi avevano il diritto e il potere di sostituirle con altre più soddisfacenti; come recitava la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino: «Il principio di ogni Sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa».

Ecco il prerequisito senza il quale una dottrina come il nazionalismo non sarebbe concepibile. Tale dottrina vuole stabilire il modo migliore nel quale una società può condurre i suoi affari politici, e realizzare i suoi scopi, se necessario attraverso cambiamenti radicali: la Rivoluzione francese aveva dimostrato, in modo clamoroso, che un’impresa di tal fatta era possibile. Così, essa aveva grandemente rafforzato una tendenza all’irrequietezza politica implicita nelle riforme predicate dall’Illuminismo e in apparenza fatte proprie dall’assolutismo illuminato. Tali riforme dovevano essere realizzate secondo un piano; e l’afflato riformista non doveva cessare fino a che tutta la società e le sue parti finalmente non si fossero adattate a quel piano.

Crebbe così un’inesauribile aspettativa di cambiamento, un pregiudizio in favore del cambiamento stesso e una convinzione che lo Stato si trovasse a essere stagnante fintanto che non fosse immerso in un costante processo di riforma. Un tale clima di pensiero era necessario per lo sviluppo e la diffusione di idee come quelle nazionaliste.

di Elie Kedourie, “Nazionalismi” (a cura di Alberto Mingardi), Liberlibri, 2022, pagine 195, euro 20

Sovranisti per caso. Marco Gervasoni il 16 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La notte buia della politica. Dove tutti sono sovranisti. E se il sovranismo fosse stato solo un equivoco? Se dietro a questa parola si celasse poco o niente, non solo oggi, quando è quasi sparita dal vocabolario politico, ma anche nel suo momento di massimo fulgore in Italia, tra il 2016 e il 2020? Anche dopo aver letto il volume di recentissima pubblicazione del politologo Thomas Guénolé, Le souverainisme (Parigi, Presses Universitaries de France, 9 euro) che avrebbe il principale obiettivo di spiegarci cosa esso sia, l'impressione è questa. Ci pare che collegata a questa parola alla fine non vi sia realmente una «cosa», cioè che il sovranismo non sia riuscito ad essere né una teoria né una ideologia politica (giusta la classica distinzione di Michael Freeden).

È stato soprattutto, almeno in Italia, un marchio per farsi spazio nel marketing politico, oltre che uno straordinario strumento polemico per gli avversari. I sovranisti avevano qualche difficoltà a definirsi, mentre per i loro avversari fu compito facile catalogarli per delegittimarli. Che il sovranismo non sia né una teoria né una ideologia politica è chiaro appunto dalla lettura del libro dello studioso, che non è certo ostile, visto che è stato consigliere di Jean Luc Mélenchon. Egli infatti finisce per classificare alla stregua di sovranismo una cosi grande varietà di esperienze da produrre il classico effetto hegeliano di notte in cui tutte le vacche sono nere. Sovranisti, gli indipendentisti del Quebec francese, che in effetti negli anni Sessanta il termine l'hanno inventato. Sovranisti gli autonomisti di ogni tipo, compresi scozzesi e catalani, ma anche zapatisti in Messico. Sovranisti i gollisti che nel 1992, diversamente dall'apparato di partito, condussero la campagna per il no a Maastricht. Sovranisti, i comunisti sopravvissuti. E trasformatisi in Podemos in Spagna e in Syrizia in Grecia. Sovranisti i socialisti di Jean Pierre Chevenement che si staccarono a loro volta da Mitterrand ed erano per il no alla Ue. Sovranisti i Le Pen. Più avanti nel tempo sovranisti i Brexiteers, ma non sovranista Trump. Sovranisti, ovvio, i 5 stelle fino al 2019.

A questo punto tanto varrebbe riprendere la categoria di anti europeisti, che è del tutto insoddisfacente, visto che ognuno di questo attori giurava essere non esser contro l'Europa ma contro questa Europa, cioè la Ue. Ma che almeno fa chiarezza perché, se c'era un elemento comune, forse il solo, a tenere assieme esperienze, culture, teorie e ideologie cosi diverse, è stata proprio la ostilità alla Ue. Ma era un fascio di forze puramente negative, esistevano solo per contrapporsi a qualcosa, perché poi, quanto a proposte di riforma dell'Europa, ognuno ne aveva una diversa.

Per fare un po' di ordine Guénelé distingue tra sovranismo civico, sovranismo etnico, sovranismo economico: il primo è quello della sinistra, il secondo quello della destra, il terzo è concentrato contro la moneta unica. Ma il sovranismo economico, come mostra chiaramente l'autore, possiede matrici nettamente di sinistra, di stampo socialista e keynesiano: il sovranismo di destra, privo di una sua dottrina economica, è stato costretto a prenderle in prestito. Ecco perché, durante gli anni d'oro della campagna anti euro, a sentire parlare Marine Le Pen o sovranisti di altri paesi, sembrava di ascoltare un vetero socialdemocratico. Nella sua definizione, Guénelé poi non riesce a spiegare in cosa differisca il sovranismo dal nazionalismo. E a noi pare infatti che siano la stessa cosa, solo che nell'Europa continentale, diversamente che nel mondo anglosassone, la parola nazionalismo era diventata tabù per varie ragioni: serviva un eufemismo, un termine che lo addolcisse, ed ecco il concetto di sovranismo. Non a caso, diversamente dai grandi ismi della contemporaneità, liberalismo, socialismo, popolarismo, conservatorismo, la parola esiste solo nel vocabolario politico italiano e francese ed è del tutto assente nel mondo anglosassone. Nello stesso tempo, mentre i partiti del passato spingevano a costituire una loro cultura politica, che fosse socialista, popolare, conservatrice, liberale, i cosiddetti sovranisti adottarono il registro anti intellettualistico del populismo: che non lascia molto spazio alla riflessione.

Ecco perché, a tutt'oggi, non esistono che tre quattro volumi che cerchino di definire la specificità del sovranismo. Insomma, forse era impossibile edificare sopra questa parola una cultura politica, ma nessuno tra gli attori politici ha neppure tentato di provarci. Sta di fatto che, con la pandemia, molti spunti critici provenienti dalla protesta sovranista sono stati recepiti dall'establishment europeo: ad esempio la fine della austerità finanziaria e il controllo delle frontiere. In tal modo, visto che la Ue era diventata sovranista, i partiti cosiddetti sovranisti sono rimasti senza proposte. Ecco perché sarà il caso di riprendere le antiche categorie di destra e di sinistra, e le vecchie e care culture politiche. E di domandare, a quelli che ancora si definiscono sovranisti, di capire esattamente chi sono e cosa vogliono, per poi collocarsi in una di esse. Marco Gervasoni

·        I Conservatori. Cos’è la Destra?  Cos’è la Sinistra?  

I cattolici in politica votano spesso conservatore. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 23 settembre 2022.

Caro Aldo, i leader dei partiti di centrodestra, descrivendo la loro visione di società, fanno spesso riferimento alla difesa di un’identità cristiana. Io lo trovo molto azzardato. Alcune loro proposte politiche sembrano ben lontane dai concetti cristiani (vedi l’accoglienza ai migranti, la multiculturalità e il rispetto delle diversità, la condanna di chi elude i tributi dovuti, etc). Quindi una tale affermazione così generica, a me pare solo il tentativo di ottenere facile consenso in una parte specifica di elettorato. Lei cosa ne pensa? Roberto Rinaldi 

Caro Roberto, Guardi che l’elettorato cattolico è naturaliter conservatore. In Francia essere cattolico significa quasi sempre essere di destra, con eccezioni che confermano la regola (pensi al culto dell’abbé Pierre). In Italia abbiamo la tradizione del cattolicesimo democratico, aperto al dialogo con la sinistra, che ha generato l’Ulivo di Beniamino Andreatta e Romano Prodi; ma numericamente si tratta di una posizione, per quanto feconda, minoritaria. Il papato di Francesco ha posto l’accento sull’accoglienza dei migranti e in genere sulla lotta alle disuguaglianze, che sono temi più cari alla sinistra. Ma la difesa della vita, così come l’opposizione ai matrimoni e alle adozioni omosessuali, sono temi della destra. Un discorso a parte meritano le tasse. Quando Prodi entrò in urto con la Conferenza episcopale di Camillo Ruini, disse che i prelati avrebbero dovuto invitare i fedeli a pagare le tasse. Papa Francesco l’ha fatto davanti agli industriali ricevuti in Vaticano. In effetti, «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» è scritto nel Vangelo. Poi certo è stato scritto pure — non nel Vangelo — che i leader della destra italiana amano tanto la famiglia che spesso ne hanno due o più. Ma questo fa parte della sfera personale. L’ideale sarebbe arrivare a una politica in cui la dimensione religiosa resta privata. Pochi sanno o ricordano, ad esempio, che Carlo Azeglio Ciampi, alfiere della laicità dello Stato, era un cattolico praticante che faceva la comunione tutte le domeniche.

Manila Alfano per “il Giornale” l'11 settembre 2022.  

Mutevoli e plasmabili. I valori che ci accompagnano lungo il tragitto della vita sono destinati a cambiare con noi. Una vera e propria trasformazione che si determina non in base all'età- e questa è la vera scoperta- ma in base alla scelta di diventare genitori. Avere figli: è questa la molla che ti fa cambiare idea sulle priorità, sugli obiettivi. E chi li ha diventa più conservatore. 

I ricercatori hanno scoperto che le persone che non hanno figli tendono ad essere più liberali dei genitori e che avere figli aiuta a spiegare perché le persone tendono a diventare più di destra con l'età. «C'è questa idea che invecchiando diventi più conservatore», ha affermato il dottor Nick Kerry, coautore della ricerca dell'Università della Pennsylvania ripresa dal Guardian.

«Ma non sembra essere così. Se guardi le persone che non sono genitori, semplicemente non vedi una differenza di età». Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the Royal Society B, offre potenzialmente una nuova visione del calo delle nascite osservato in molti paesi. 

«Penso che potrebbe contribuire alla liberalizzazione in quei paesi», ha affermato Kerry, aggiungendo che i paesi che vietano gli aborti potrebbero subire una spinta nella direzione opposta. L'esperimento ha coinvolto 376 studenti universitari negli Stati Uniti, divisi in due gruppi. A un gruppo sono state mostrate immagini di oggetti domestici e gli è stato chiesto di parlare di come utilizzarne uno, mentre all'altro gruppo sono state mostrate immagini di bambini e gli è stato chiesto di pensare a possibili nomi e interazioni positive.

Entrambi i gruppi hanno poi completato un sondaggio sulle opinioni su questioni come l'aborto e il matrimonio tradizionale. Il team ha scoperto che i partecipanti che immaginavano il tempo con un bambino davano risposte socialmente più conservatrici rispetto a quelli che pensavano agli oggetti per la casa. 

Poi, il team ha intervistato 2.610 adulti in 10 paesi, dal Libano al Giappone, ha scoperto che le persone più motivate a prendersi cura dei bambini tendevano a essere socialmente più conservatrici. Inoltre, i genitori erano socialmente più conservatori di quelli che non avevano figli. E mentre il conservatorismo sociale è aumentato con l'età, questa relazione è scomparsa una volta presa in considerazione la genitorialità.

I risultati del team sono stati supportati da un'analisi dei dati del World Values Survey, raccolti in un periodo di 40 anni e che ha coinvolto 426.444 partecipanti in 88 paesi, il che ha inoltre suggerito che più bambini avevano i genitori, più tendevano ad essere socialmente conservatori.

Tuttavia, in alcuni paesi, tra cui India e Pakistan, la genitorialità non era legata ad atteggiamenti più conservatori: una scoperta secondo Kerry ha evidenziato che avere figli è solo un fattore che può influenzare i valori sociali. 

Uno studio accolto e apprezzato da diversi ricercatori come Diana Burlacu, dell'Università di Newcastle, che ha però ha posto un'ulteriore interessante considerazione: difficile dire se la genitorialità rende le persone più conservatrici o se le persone conservatrici siano più propense a scegliere di diventare genitori.

Da Vico a Leopardi i padri nobili (e spesso dimenticati) di una tradizione italiana custode di libertà. Nel saggio di Marco Gervasoni sono ricostruite le basi filosofiche e storiche della corrente che da sempre percorre la nostra vita politica. Magari non dichiarata...Marco Gervasoni il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

Da qualche tempo la parola conservatore è entrata nel dibattito politico quotidiano. Il concetto di conservatore ha tuttavia sempre portato con sé scarsa fortuna sul piano della comunicazione, della propaganda e insomma del mercato politico. Forse perché a ben vedere non sarebbe fino in fondo una ideologia politica?

A questo quesito cercheremo di rispondere tracciando i lineamenti di una filosofia politica conservatrice italiana, da Giambattista Vico fino ad Augusto del Noce, passando per Vincenzo Cuoco, Giacomo Leopardi, Gaetano Mosca. Contrariamente alla vulgata, in Italia è infatti stata importante e ramificata tanto una cultura politica conservatrice quanto una politica pratica orientata a quei principi: solo che per una serie di ragioni essa non si è mai voluta o potuta presentare come tale. L'Italiano è sempre stato conservatore, e decisamente più conservatore di altri popoli: solo che non lo sa.

Il pensiero conservatore italiano è quindi animato da un realismo pessimista che incontra le categorie dell'impolitico. Nel sua impoliticità, nel riconoscere l'eternità del potere dell'essere e del potere sull'essere, finisce tuttavia per rovesciarsi nel suo opposto, cioè nella capacità di cogliere con rara nettezza i rapporti di forza. Il potere, per il pensiero conservatore italiano, è dunque nella sua essenza un intreccio di rapporti di forza e dominio, un dominio quasi sempre bruto, crudo, spietato. Sono tre le conseguenze derivanti da questa presa d'atto: una è il rapportarsi al potere con gli strumenti e i mezzi della cultura e dell'arte, la seconda consiste nell'assumere un atteggiamento nicodemico, entrare nelle cittadelle del potere, cercando di mitigarne gli aspetti più brutali; la terza consiste infine nell'allontanarvisi per colpire meglio, secondo una strategia che poi Ernst Jünger avrebbe chiamato del rifugio nel bosco e Carl Schmitt del partigiano.

In ogni caso il conservatore agisce non per estendere il potere politico piuttosto per frenarlo, lasciando che la comunità lo equilibri. Essa è ovviamente attraversata da rapporti di potere, ma al suo interno i costumi, la tradizione, la religione, ne limitano il carattere distruttivo o almeno lo diluiscono. Quando questi rapporti di potere si fanno Stato, però, il rischio della comunità di essere stritolata è quasi certo. Il pensiero conservatore italiano è consapevole che il potere utilizza ogni spazio simbolico per legittimarsi, ma al tempo stesso che questa operazione è una rappresentazione fantasmatica, un teatro di maschere.

E qui il conservatore italiano mantiene un atteggiamento ambiguo. Costumi, tradizione, religione appartengono alla sfera del sacro, l'elemento di coesione indispensabile della comunità. Al tempo stesso, il conservatore sa che il potere utilizza proprio il sacro per legittimarsi. Per quanto il potere sia sempre tentato di cadere nella sfera del male, esso è tuttavia necessario per mantenere l'ordine; in ogni caso un nuovo potere, che prometta di eliminare il sacro, che cioè affermi di fondare la sua legittimazione sulla razionalità, non sarebbe diverso da quello precedente - anzi sarà persino peggiore, proprio perché avrà abbandonato la dimensione trascendentale.

E allora il conservatore accetta il gioco, da un lato riconosce la maschera del sacro che il potere indossa per legittimarsi, e arriva persino a costruirla, se si tratta di mantenere in sicurezza la comunità. Ma dall'altro, nel proprio intimo, il conservatore non vi aderisce; la maschera del sacro non è il sacro, e non diversamente da Sant'Agostino, il conservatore sa che il potere investe la società terrena ma che, oltre alla Città terrena, esiste la cura della Città sacra, quella della tradizione, delle radici e del costume. Da qui una sorta di dissimulazione onesta, da parte del conservatore nei confronti del potere. Che in alcuni casi ha potuto confondersi con ambiguità, doppiezza o ipocrisia, ma che dal punto di vista filosofico parte dalla assunzione che il potere, e soprattutto quello che si incarna nella politica, sia il male, anche se un male, necessario, e che per questo vada il più possibile limitato.

Dobbiamo distinguere chiaramente il conservatorismo come proposta politica, dal suo significato all'interno della società e della cultura. Sembrerebbe infatti che i valori dei conservatori stiano per essere completamente cancellati dall'avanzamento di quello che chiamiamo differenzialismo inclusivo del politicamente corretto e del woke. Sul piano della cultura, infine, quella un tempo detta di massa esalta quotidianamente valori agli antipodi del conservatorismo, mentre quella alta, rappresentata da case editrici e da università, è solidamente controllata dai progressisti.

Altro che trionfo o rinascita del conservatorismo: sembra di assistere al suo declino... In realtà, da un punto di vista politico ma non solo, dovremmo collocare la crisi dell'egemonia conservatrice nei primi anni del nuovo millennio, che hanno condotto anche a una sorta di guerra interna ai conservatori. Questa lotta vede tutt'ora i vecchi conservatori, i neo, contrapporsi a coloro che prima erano classificati come paleo, e che invece oggi possiamo definire populisti. Molti si chiedono però se questi ultimi non rischino però di lasciare per molto tempo all'opposizione i Repubblicani, o se siano in grado, nelle loro tentazioni isolazionistiche, di rispondere allo scenario di una nuova guerra tra blocco occidentale e blocco orientale (Cina, Russia, Iran e così via). Oppure ancora se la torsione trumpiana del conservatorismo non ne abbia decretato, dopo quasi due secoli, addirittura la morte.

Tutto questo vale nel mondo anglo americano: perché nella Ue non abbiamo assistito a nulla di tutto questo, quasi a dar ragione a chi considera il conservatorismo una ideologia limitata al mondo atlantico. Al contrario, siamo convinti che il conservatorismo sia al tempo stesso una cultura, una sensibilità e un ethos, non necessariamente politici, di carattere universalistici.

Se è vero che nell'Europa continentale non hanno mai sortito molta fortuna partiti conservatori dotati di quel nome, non possiamo certo pensare il conservatorismo inesistente: altrimenti come definire, giusto per citare alcuni personaggi dal dopoguerra ad oggi, De Gasperi, Adenauer, De Gaulle, Kohl, Sarkozy, Aznar, Berlusconi?

Molti di questi leader rifiutavano e rifiutano di definirsi e di farsi definire conservatori, nonostante larga parte delle misure che hanno introdotto nei rispettivi Paesi, oltre alla loro cultura e ideologia, fossero di tale impronta. A credere a George Urban, non si sarebbe sentita conservatrice neppure... Margaret Thatcher: «Il problema del Partito conservatore - gli confessò poco dopo aver lasciato Downing Street - è il nome... Noi non siamo un partito conservatore; siamo un partito di innovazione, di immaginazione, di libertà, di ricerca di nuove soluzioni, di un rinnovato orgoglio e di un nuovo senso della leadership... Questo non è essere conservatori». A sua volta Ronald Reagan non utilizzava sovente questo termine per definirsi, nella sua autobiografia si presenta piuttosto come un alleato dei conservatori, con cui però spesso litiga mentre i suoi studiosi accompagnano o precedono il termine conservatore con aggettivi come pragmatico, rivoluzionario, populista.

Insomma il termine conservatore non sembra gradito neppure ai principali fautori politici del conservatorismo, mentre in altre formazioni politiche non si è mai vista timidezza nel definirsi socialisti, liberali, cristiano democratici .

Una storia di famiglia, la destra. PIETRANGELO BUTTAFUOCO su Il Quotidiano del Sud il 27 Settembre 2022.  

ALLE TRE di notte parla Giorgia Meloni e Lia – la signorina Lia, mia zia – batte le mani. La vincitrice del 25 settembre dedica il risultato a chi non c’è più e Lia batte le mani nella stanza importante della propria casa con la raggiante felicità delle sue ottantacinque primavere.

Ognuno ha un mondo intero nei propri ricordi, pezzi di vita che sono solo batticuore ormai, la piccola bionda ostinata arriva al governo d’Italia, parla da Roma, e quella sua dedica – “a chi non c’è più” – fa commuovere Lia, mia zia, che di ogni lacrima se ne fa un film.

Ed è una pellicola che va a svolgersi alle ore tre del mattino, questa di Lia – la signorina, mia zia – con tutti quelli che non ci sono più: genitori, fratelli, cugini, amici di stagioni andate e poi le piazze.

Sono – ebbene sì, bagnate dal pianto gioioso di Lia – le tante piazze tricolori e festanti con la fiamma degli esuli in patria, degli esclusi a prescindere e della gioventù nazionale. Quella che – nel ricordo di ciò che non c’è più – tra baci, fiori e rose canta “…oh Italia, oh Italia del mio cuore/tu ci vieni a liberar”.

Piazze affollate di paesani che hanno consumato l’addio a questa terra consegnandosi alla storia e alle pareti di casa di zia Lia, a Leonforte. Tutta un’allegria di cornici, portaritratti e fotografie affastellate nella vetrinetta che racconta di certificati elettorali e di ragazzi diventati poi deputati, onorevoli, sindaci e perfino protagonisti al parlamento di Strasburgo.

È una storia che sa di famiglia quella della destra che fu, in Italia. La fiamma che Giorgia Meloni non ha tolto dal suo simbolo è la fiamma di Paolo Borsellino, la fiamma di Dino Ferrari che se la porta nel bavero della giacca, nel letto di morte, è la fiamma di Walter Chiari che ci fa le mattane in scena, beffandosi di tutte le cautele ed è – e zia Lia lo sa – la fiamma di Padre Pio.

Partivano i torpedoni per il lungo viaggio da Leonforte verso San Giovanni Rotondo, le pie donne si mettono in fila per la Santa Confessione per domandare al santo cappuccino – “Padre, ma è peccato votare per la Fiamma?” – e dalla penombra del confessionale Padre Pio tuona loro: “Peccato è non votarla!”. La risposta del santo è troppo mobilitante per mantenerla nel segreto della penitenza, ed è liberatoria per le poche – tra i pellegrini – decise a disobbedire l’ordine del parroco di votare la Democrazia cristiana.

Alle tre di notte, seguendo lo spoglio del responso elettorale, il film trova sipario nelle lacrime di felicità di Lia – la signorina, mia zia – e lei è l’unica di tutto un mondo ad avere visto il 25 settembre.

Il successo di Giorgia Meloni non è certo il ritorno del Novecento, la sua storia è un libro nuovo ma l’applauso nella stanza di Lia diventa corale, emozionante, pazzo dell’incontenibile riscatto di giovinezze ubriache di politica e di sogni fatti di soli tre colori: il bianco, il rosso e il verde.

Giusto quelli di “Rinaldo in Campo”, il capolavoro teatrale di Garinei & Giovannini, con le tre pitture dai picciotti in scena, con Dragonera e la sua bella Angelica al seguito di un’avventura tutta italiana per cantare il perché di quei tre colori: il bianco delle nevi delle Alpi, il verde delle valli di Toscana e il rosso dei tramonti siciliani. E poi ancora – con tutte le foto alle pareti a fare il coro – “Col bianco dei capelli di mia madre/col verde di due occhi tanto belli/col rosso, rosso sangue dei fratelli”.

Una storia che sa di famiglia, la destra. Conclusa nel tempo di un applauso, con le lacrime a far da sipario.

Da “la Repubblica” il 27 settembre 2022.

Caro Merlo, ho letto l'intervista di Carmelo Lopapa a Pietrangelo Buttafuoco, un intellettuale di destra, ma che tutti conosciamo come libero e spiazzante. Buttafuoco sostiene che Giorgia Meloni è una secchiona che studia, riempie quaderni e che le sue radici più che nel Msi stanno nei ragazzi che si ispiravano a Tolkien.

Giulia Masera - Torino 

Risposta di Francesco Merlo

Tolkien al governo? La chiamavano "destra fantasy". Nel 1977 organizzò "i campi Hobbit", raduni giovanili che non piacevano ad Almirante. Si ispiravano a una cultura molto confusa, come allora accadeva anche nell'estrema sinistra. E va detto che si piacevano, gli estremisti opposti ma "rivoluzionari".

Inventarono canzoni che si intitolavano La foiba di San Giuliano, Storia di una SS , La ballata del nero, e con mille balzi di immaginazione misero insieme Tolkien, un grande scrittore britannico che solo in Italia è stato annesso dalla destra (non azzardatevi a dirlo a un inglese), con il Lucio Battisti di "guidare a fari spenti nella notte per vedere se poi è così difficile morire", e con Evola, un astruso filosofo filonazista e antisemita che viene citato soprattutto da chi non l'ha letto. 

Sicuramente non l'ha letto Giorgia, anche se Evola finisce nei suoi quaderni, sia in quello bianco dove segna le cose che deve "fare" e sia in quello giallo dove segna le cose che deve "dire".

Tra le frasi che eroicamente le suonano di destra, Giorgia attribuisce ad Almirante "Vivi come se tu dovessi morire subito, pensa come se tu non dovessi morire mai", che nei campi Hobbit attribuivano a Evola e altri attribuirono a Moana Pozzi, ma, secondo Stefano Lorenzetto che ha scritto il Dizionario delle citazioni sbagliate , è di Luigi IX (1214-1270), fatto santo, per altre ragioni, da Bonifacio VIII. In quanto a Tolkien bastano i film, peraltro molto belli, anche se meno dei libri. Pietrangelo Buttafuoco, che ha visto Giorgia nascere, le vuole così bene da regalarle qualche lettura.

Ma, per tagliarla corta, la sottocultura di Giorgia è così illiberale che, ora che avrà davvero il potere, accoglierà i trasformisti (che sono già in fila), mentre gli spiriti liberi come Buttafuoco, anche se di destra, saranno i primi a subirne le conseguenze.

Giampiero Mughini per Dagospia il 27 settembre 2022.

Caro Dago, ti confesso che per tutta la durata della campana elettorale mai un momento ho provato un’emozione pari a un centesimo di quella che ho provato vedendo Federer e Nadal che si tenevano la mano e piangevano. Naturalmente ho votato per Calenda/Renzi e che altro potevo fare?, ma - a differenza del mio amico Francesco Merlo - mai un attimo ho sentito che fosse in gioco chissà che del nostro futuro imminente venturo, pur dopo la vittoria di Giorgia Meloni. 

E siccome, a differenza di quegli “artisti” semianalfabeti (mi piacerebbe entrare nelle loro case e vedere quali libri stanno nelle loro biblioteche) che stanno declamando qua e là le loro angosce antifasciste, tengo in gran conto i giudizi di Merlo, confesso di essere un po’ sorpreso dalla perentorietà con cui lui accusa la Giorgia Meloni di essere così profondamente “illiberale”. L’ho avuta di fronte non so quante volte e da quando aveva più o meno vent’anni, non mi pareva che quei tratti la marchiassero se non altro generazionalmente. 

Perché questo è il punto decisivo confermato da tutto ciò che è accaduto in campagna elettorale. Che quella storia che per molti di noi è stata a lungo sacra, la storia cui appartiene in modo cruciale l’avversatività tra la destra e la sinistra, è una storia morta e sepolta. Era la storia di quando quelli di sinistra tuonavano dalle pagine dell’Unità, di Rinascita, dei Quaderni piacentini, e non come adesso che vanno a fare i loro predicozzi su Tik-tok. 

Era la storia di quando in campagna elettorale si facevano sentire tipini come Giovanni Spadolini, Alfredo Reichlin, Claudio Martelli, Antonio Cirino Pomicino, Gianni De Michelis, Pietro Ingrao, Aldo Moro e potrei continuare a lungo, non adesso che (sia detto con rispetto della persona) la Santanché sommerge elettoralmente un avversario che si chiama Carlo Cottarelli, uno dei pochi che sa quello di cui sta parlando quando parla dell’Italia di oggi. 

Tutto quello di cui dicevo è morto e sepolto, non è più il tempo in cui vale la pena citare Antonio Gramsci e bensì il tempo in cui fa storia se non leggenda una qualche sortita della (a mio giudizio geniale) Ferragni. 

Detto in parole povere. Siamo entrati da tempo nel terzo millennio e ci siamo entrati zoppicando alla grande, incapaci di legge quel che è divenuta la società post industriale, quando la “sinistra” è rappresentata da un astuto avvocato che gira il meridione promettendo reddito di cittadinanza a palate.

Destra, sinistra? Fascismo, antifascismo? Baggianate quando vai al sodo e affronti i problemi reali. Di sicuro c’è solo che quanto a indizi che caratterizzano una società moderna, quelli che riguardano l’Italia sono fra i peggiori d’Europa sia quanto a libri letti sia quanto a milioni di euro evasi fiscalmente. Illiberale o meno, è con questo che dovrà fare i conti il prossimo governo. Compiti che non augurerei al mio peggiore nemico, e sempre che in questa melma che è divenuto il nostro sistema politico riesca a durare più di un paio di stagioni. Tutto qui.

Gli insulti di Scanzi. Lo Scanzi piddino rispolvera il pericolo fascista. In una diretta su Facebook, il giornalista del Fatto Quotidiano si scaglia contro Giorgia Meloni e gli elettori di destra. Bianca Leonardi il 22 Luglio 2022 su Nicola Porro .it.

Il Governo è caduto, Draghi ha rassegnato le dimissioni ed ora è corsa alle elezioni con campagne elettorali più o meno improvvisate. In queste ultime ore convulse, a suon di dichiarazioni, ne abbiamo sentite tante e nella maggior parte dei casi tutto il contrario di tutto: comprensibile, considerato il caos politico in virtù del quale i parlamentari, ora, sono alle prese con la grande incognita di chi resterà sulle poltrone e chi, invece, sarà costretto a capire cosa fare da grande.

Ego smisurato

Non è una sorpresa, come non lo è la macchina della propaganda già innescata nei giornali “fedeli alla linea”, o meglio, fedeli a quel centrosinistra che, oltre allo spauracchio del fascismo – trasformato per l’occasione in quello del putinismo – sembra non abbia altre carte da giocare. Ed è proprio su questo che si scaglia la rockstar del giornalismo italiano – come lui stesso si definisce – Andrea Scanzi, che poi per colmare “il suo ego che fa provincia” è anche attore, scrittore, autore, saggista, critico musicale, enologo, critico gastronomico e magari pure incantatore di serpenti.

Siamo abituati alla satira di uno dei volti di Accordi e Disaccordi, siamo abituati alla sua ironia che cela, nemmeno velatamente, giudizi sparati senza il benché minimo rispetto degli altri e della professione – quella del giornalista, tra le tante – che ha scelto.

Disprezzo

Prima era un fan sfegatato dei 5 Stelle, poi con il vento elettorale che ha tirato negli ultimi tempi ha rivisto leggermente la sua posizione, avvicinandosi a quel Pd che, come ha raccontato nell’ultima diretta di ScanziLive sulla sua pagina Facebook, potrebbe votare alle prossime elezioni. Eppure, se c’è una cosa su cui non ha mai cambiato idea è il disprezzo per la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Rispettabilissima opinione, come tutte le altre, se non fosse che il perbenismo e l’altruismo che ogni giorno sfodera in modo ossessivo nei suoi post, con protagonisti anche gatti brutalmente investiti e gabbiani a dieta, si trasforma spesso in violentissimi attacchi verbali contro la leader di FdI.

“Fratelli di ricino”: così a lui piace definire “Fratelli d’Italia”. Un’affermazione tutt’altro che politica, ma maleducata e ignorante nei confronti di quel passato che lui tanto critica. Uno scivolone squallido quello di Scanzi che trasforma quell’arguzia e sagacia – che gli altri gli attribuiscono – in banalissima e bassa cialtroneria social. “L’Italia è un paese di maggioranza destrosa, che non conosce la storia e non ha memoria – ha detto – se la maggioranza (dei votanti) sarà così fascista, imbecille e ignorante da credere che la soluzione siano Meloni, Santanchè, Salvini e Berlusconi, vorrà dire che questo paese si meriterà anche quella gogna lì”.

Una uscita imbarazzante, segno di un’ideologia confusa che tenta di “acchiappare” gli italiani a suon di slogan sentiti e risentiti, triti e ritriti, invocando la correttezza, l’umanità, il progressismo e il rispetto mediante la stigmatizzazione, non poi così lontana da quella usata dai pericolosi antenati che Scanzi non manca mai di ripudiare.

Oggi più che mai Andrea Scanzi ha tutti i requisiti per essere l’uomo del centrosinistra che il Pd, oltre a ciò che rimane dei 5 Stelle, va cercando: chissà che non voglia aggiungere alla sa lista dei mestieri anche quello di politico. Bianca Leonardi, 22 luglio 2022

Gli incorreggibili. Il miraggio della sinistra buona e di fronte alla destra cattiva. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 23 Luglio 2022

Sono almeno trent’anni che i sogni dei progressisti vengono infranti, ma tutti si rifiutano di riconoscere la realtà per quel che è. Per loro si tratta solamente di un’incomprensibile ma correggibile malformazione in un corpo altrimenti sano

Sono almeno trent’anni che l’osservatore di sinistra osserva la sinistra non diventare ciò che essa non ha nessuna voglia di diventare. E almeno da trent’anni l’osservatore di sinistra si rifiuta di osservare e riconoscere quella riluttanza, facendo le viste che si tratti di errori, di ritardi, dell’incapacità di capire, dell’incapacità di rischiare, dell’incapacità di rinnovarsi e di rinnovare e, insomma, che si tratti di tutto, ma proprio di tutto, tranne di ciò che è palesemente e irrevocabilmente.

Non un difetto, ma una caratteristica; non la sofferta rinuncia a un profilo alternativo, ma la riaffermazione convinta di quello più aderente e identitario; non il ripudio delle ragioni che ne determinano l’arretratezza rispetto alle ambizioni di superamento in cui si intestardisce l’osservatore di sinistra, ma la convinzione che sia semmai questione di riproporle interpretandole meglio. Che sia questione di essere veramente sinistra, insomma.

E così il partito dei pensionati e dei ministeriali, delle patrimoniali democratiche e delle tasse bellissime, dell’Atac e delle italiche compagnie di Bananas, del populismo gentile e delle manette anti-impunitiste, del provincialismo tecnologico e dell’esproprio dei brevetti, della centralità del parlamento decapitato e del processo dalla culla alla tomba, dei deportati dell’istruzione e del Talmud Arcobaleno in Sabato Progressista, dei porti mica tanto aperti e mica tanto chiusi e della correlazione evidente tra Covid e immigrazione, della sicurezza sul lavoro e dei cantieri affidati alle procure della Repubblica, insomma la meglio essenza della sinistra così com’è, della sinistra come non riesce a non essere perché non vuol essere nient’altro, continua a essere osservata dall’osservatore di sinistra come un’incomprensibile ma correggibile malformazione in un corpo altrimenti sano.

Bei lombi democratici da lambire whatever it takes, perché davanti al pericolo delle destre è impellente che la sinistra non sia molestata nel suo sforzo di fare uguale a quelle.

«Mai con…»: a sinistra si schifano tutti. Ma non era il regno dell’inclusione e della tolleranza? Michele Pezza  sabato 23 Luglio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Chi l’avrebbe mai detto: quelli che ci fracassano i timpani con la ineluttabilità della open society (non c’entra nulla George Soros), la società inclusiva, aperta e senza confini ora si fracassano la testa a colpi di veti, minacce e dispetti. Li sentite pure voi, no? Letta che dice «mai con Renzi», il quale aggiunge «mai con Conte», che a sua volta avverte «mai con Calenda», che per non essere da meno intima «mai con Di Maio». Benvenuti nella sinistra ex-post e neodraghiana, apoteosi della discriminazione, del rifiuto, del pregiudizio. Un allucinante babele politica che ove mai diventasse coalizione di governo ci riporterebbe di colpo ai tempi epici dell’Unione prodiana disintegrata in un amen dai distinguo dei vari Rossi, Turigliatto e Malavenda.

A sinistra impazzano veti e dispetti

Per sfortuna loro e per fortuna nostra (e dell’Italia) i sondaggi dicono altro. Ma l’abuso del «mai con…» è fenomeno interessante da osservare proprio perché impazza a sinistra, patria di elezione (almeno a chiacchiere) della virtù della tolleranza, dell’accoglienza e della fraternità. Baggianate. Le cronache politiche di questi giorni di introduzione alla campagna elettorale ci dimostrano quanto invece i suoi esponenti siano in realtà soprattutto arcigni custodi del proprio orticello. Ironia della sorte è stato proprio Mastella, il re degli ortolani, a sottolinearlo: «Così – ha avvertito – non andiamo da nessuna parte». Ha ragione: il problema esiste.

L’effetto-spocchia è un boomerang

D’altra parte, puoi inventarti tutti i fascismi della storia e della preistoria, ma quale credibilità potrebbe avere uno schieramento che va da Brunetta e Fratoianni, passando per Calenda e Speranza? Nessuna, evidentemente. Al confronto, la proposta di dare 1000 euro ad ogni pensionato e ad ogni casalinga già lanciata da Berlusconi ha quanto meno il pregio di dirottare l’attenzione dalle formule ai programmi. Ma tant’è: la sinistra è talmente inzuppata di spocchia, è talmente sicura di poter intortare tutti (o quasi) con le sue menate sull’agenda-Draghi da non rendersi conto del penoso teatrino che ha allestito in queste ore. Meglio così. Meglio, soprattutto, osservare in silenzio. E da lontano. Come diceva Napoleone: «Non interrompere mai il tuo nemico mentre sta facendo un errore». Perciò, zitti e mosca!

Lo scacchiere da comporre. Calenda dice no a un’ammucchiata anti-sovranisti guidata dal Pd. L'Inkiesta il 22 luglio 2022.

«Per carità, se si liberano di certe frattaglie a sinistra, se dicono sì ai rigassificatori e ai termovalorizzatori...», spiega il leader di Azione. «Ma la vedo dura. Anche perché la linea del Partito democratico non si capisce. Noi vogliamo creare un vero fronte repubblicano, europeista, pragmatico, che punta a risolvere le cose. E le soluzioni non sono né di destra né di sinistra»

«Io a fare l’ammucchiata contro i sovranisti non ci sto». Lo dice a Repubblica il leader di Azione Carlo Calenda, mentre altrove si immaginano già grandi rassemblement elettorali in vista della tornata elettorale del 25 settembre. «Se vogliono l’Unione bis, facciano pure. Senza di noi».

Non basta insomma che il Pd molli i Cinque Stelle di Giuseppe Conte. Nel nuovo schema del post-Draghi, Calenda capta il possibile corteggiamento del Pd, che nei prossimi giorni potrebbe farsi insistente. «Ma per ora non mi hanno fatto nemmeno una telefonata. Mi ha chiamato solo il sindaco di Firenze, Dario Nardella, persona che stimo». E dunque, dice: «Hic manebimus optime». Che vuol dire: «Qui staremo benissimo».

E poi chiede: «Ma lei è sicuro che il Pd correrà senza Cinque Stelle?». Calenda non ne è sicuro. «Domani ci saranno le primarie Pd-M5S in Sicilia», dice. «Il senatore Luigi Zanda ha parlato di alleanza elettorale per settembre. Nel Pd c’è gente che ancora oggi si riconosce in Conte più che in Draghi, vedi Goffredo Bettini». Insomma, «ad oggi le condizioni non ci sono».

Il problema per Calenda non sono solo i grillini. «Se nella coalizione ci sono anche persone come Nicola Fratoianni o come Angelo Bonelli, che hanno marciato contro il rigassificatore di Piombino, di che parliamo?», dice. «Magari candideranno anche Luigi Di Maio, uno che ieri si è dato la zappa sui piedi da solo, dicendo che non ce la faremo a ottenere i fondi del Pnrr… L’agenda Draghi non è che si fa solo a parole, come posizionamento tattico. Si fa sui contenuti. Letta è contrario a investire sul gas egiziano, noi no. Noi vogliamo una profonda revisione del reddito di cittadinanza, con le agenzie private e la perdita del sussidio dopo il primo rifiuto. Loro no. Quindi ripeto: di che parliamo?».

Nemmeno uno spiraglio? «Per carità, se si liberano di certe frattaglie a sinistra, se dicono sì ai rigassificatori e ai termovalorizzatori… Ma la vedo dura. Anche perché la linea del Pd non si capisce. Noi vogliamo creare un vero fronte repubblicano, europeista, pragmatico, che punta a risolvere le cose. E le soluzioni non sono né di destra né di sinistra».

Ma così non si rischia di consegnare il Paese a Giorgia Meloni e Matteo Salvini? «Se noi prendiamo il 10% blocchiamo il governo di Meloni e si creerà una maggioranza Ursula, per fare davvero l’Agenda Draghi», risponde Calenda. «Magari proprio con Draghi, mi piacerebbe potesse tornare. Anche se è difficile che lo faccia solo con una mano di bianco».

E sui transfughi di Forza Italia, dice: «Mariastella Gelmini è stata molto coraggiosa e non da ieri. È stata l’unica in Forza Italia ad avere detto che le frasi di Berlusconi su Putin erano vergognose. Mi piacerebbe se venisse venisse in Azione. Del resto il nostro obiettivo è riunire riformisti, liberali e popolari».

Mentre su Giancarlo Giorgetti, dice: «Sono molto deluso. Non fai il governista e poi al dunque dici: se c’ero dormivo».

Manca un mese alla consegna delle liste. Calenda dove si candiderà? «A Roma. Anche al collegio Roma 1, uninominale». Quello che è roccaforte del Pd, dove da candidato sindaco ha sfiorato il 30% a ottobre 2021.

Nicola Fratoianni: «Chi sono le “frattaglie” lo decidono gli elettori. Costruiamo una coalizione antidestre». VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 22 luglio 2022

Il segretario di Sinistra italiana replica a Calenda: «Mi faccio scivolare le battute addosso, lavoriamo a un fronte contro le destre». «La destra italiana», dice Fratoianni, «è molto pericolosa per le cose che dice e pensa»

«Bisogna sconfiggere queste destre e bisogna mettere in campo una proposta che metta al centro i diritti sociali, la lotta per la disuguaglianza, l’aumento dei diritti dei lavoratori, la transizione ecologica. Tutti si devono sentire responsabili». Nicola Fratoianni non pone veti in vista del voto del 25 settembre ma fa proposte e si prepara a parlare con il segretario del Pd Enrico Letta: «Ci siamo sentiti molte volte negli scorsi mesi e lo continueremo a fare nelle prossime settimane». La sua battaglia è contro Giorgia Meloni. Per lui il rapporto del centrosinistra con il Movimento 5 stelle «va scongelato». 

A cosa puntate?

A noi interessa discutere per costruire un’alleanza che sia in grado di sconfiggere la destra. La destra si è dilaniata prima della caduta di Draghi, ma un minuto dopo si è riunita, dunque la prima cosa che mi sento di dire con grande forza che consideriamo quello che propone la destra un problema per il paese.

La destra della flat tax che immagina di togliere a chi ha poco per dare ha chi ha molto. Quella che scatena la guerra contro i poveri, quella che nelle politiche energetiche pensa che bisogna investire nel fossile. Come Donald Trump pensa che se si innalza il livello del mare avremo più case vista mare.

Avete già parlato con il segretario del Pd Enrico Letta?

Ci siamo sentiti moltissime volte e continueremo a farlo, esattamente come vogliamo discutere con altri. Ma tutti sono chiamati a sentirsi responsabili.

Voi non avete votato la fiducia al decreto Aiuti, ma adesso volete discutere con i partiti che facevano parte del governo Draghi.

Noi siamo stati all’opposizione di questo governo insieme a Europa Verde. Il voto ha aperto problemi in questa maggioranza, ma dico una cosa: nessuno può immaginare di fare una campagna elettorale sull’agenda Draghi. Quello è un governo di emergenza e di larga unità nazionale. Non esiste. Non pensiamo a quello che è accaduto ieri, noi guardiamo al futuro.

Ma il Pd sembra di un altro avviso…

Non credo che voglia fare questo, perché è chiaro che non esiste. Oggi discutiamo dell’Italia dei prossimi anni, questo governo era nato fuori da qualsiasi perimetro legato all’attuale conformazione politica. O si pensa che si voglia fare un governo di quel tipo, come Carlo Calenda che cerca una formula trasversale. Serve un’alternativa di sinistra ambientalista che metta in campo proposte.

Lui ha già detto che non vuole mettersi in coalizione con le «frattaglie a sinistra». E ha menzionato lei e il coportavoce di Europa verde Angelo Bonelli.

Lo decidono gli elettori e le elettrici chi sono le frattaglie, aspettiamo il 25 settembre. Dice che con noi non ci può stare perché è un nuclearista, perché vuole rigassificatori nei porti e termovalorizzatori, perché ha idee diverse sul salario minimo. Io dico a tutti che c’è una possibilità: lavorare a un fronte molto ampio antidestra e affrontare i temi in maniera meno arrogante. Il tema è la politica, io guardo alle proposte. Mi faccio scivolare le battute addosso.

Quindi stareste in maggioranza con Azione?

Se qualcuno si propone di fare una larga coalizione per dare una prospettiva alternativa alla destra c’è una discussione. Di certo non considero praticabile un’ipotesi che faccia dell’agenda Draghi l’agenda del nuovo governo come Calenda continuamente invoca.

L’ipotesi di termovalorizzatore di Roma che ha innescato la crisi può essere ancora una volta un ostacolo per mettere in piedi un’alleanza?

Non credo che fosse una scelta necessaria e temo che continui a nascondere un problema. Questo mi sembra il paese in cui si costruiscono in ritardo le politiche, come dimostra il fatto che siamo vittime della minaccia di Vladimir Putin per il gas. Allo stesso modo le politiche sul ciclo dei rifiuti adesso hanno una loro importanza. Non è l’inceneritore di Roma che definisce la possibilità di costruire un’alleanza, stiamo discutendo del governo dei prossimi cinque anni.

Invece vi trovereste bene con il Movimento 5 stelle che Calenda e il Pd sembrano escludere?

Io penso che il dialogo con il Movimento 5 stelle vada scongelato sulla base di una considerazione: questo governo era un governo di eccezione. Questa eccezione si è chiusa. Si tratta di fare un’altra discussione. Sono consapevole delle ferite che si sono prodotte nella società e di quello che ha comportato, ma non può essere il perimetro in cui si può costruire il futuro. Chi pensa che sia necessario opporre un’alternativa alla destra deve ragionare anche con il Movimento 5 stelle e non solo.

Ci saranno le primarie in Sicilia?

Certo che ci saranno. Si vota domani. Quella è una prospettiva per la Sicilia, sosteniamo Claudio Fava e mi auguro che vinca, la miglior figura per un governo di alternativa radicale alla destra siciliana, che come abbiamo visto da Palermo è preoccupante.

Siete pronti ad allearvi con Matteo Renzi e Italia viva?

Noi non abbiamo mai posto veti individuali, ma immaginare di depositare un quesito referendario sul reddito di cittadinanza senza sapere che non può essere depositato nell’anno pre-elettorale sia una bestialità. Significa che c’è una distanza di contenuto e di merito altissima, ma non ho mai posto vincoli o veti, la discussione riguarda la prospettiva. Mi pare poco utile costruire sovrapposizioni improprie tra quello che ha rappresentato il governo Draghi e quello che serve adesso. 

La destra si è già lanciata nella campagna elettorale, sembrano tornati i temi pre-pandemia: immigrazione, sicurezza, pace fiscale, no al reddito di cittadinanza.

Una bruttissima impressione che non fa che confermarmi che la destra italiana è molto pericolosa per il paese per le cose che dice e che pensa. E non può che mettere in campo ricette pericolose: ha una cultura xenofoba e che riduce i diritti delle persone. Sul piano economico ha in mente soluzioni che allargano al disuguaglianza. Sulla transizione ecologica ha in testa scelte pericolose. L’Europa è schiacciata dalla siccità: che cosa deve succedere ancora per capire che il mutamento climatico è una tragedia? E cosa dovremo aspettare ancora?

Il Guardian ha detto che dopo Draghi c’è il rischio di un governo guidato da Fratelli D’Italia, un partito post-fascista. Lei cosa ne pensa?

Mi sembra una definizione adeguata. Che Fratelli d’Italia derivi da quella storia mi sembra una tautologia. Continua a fare i conti con fenomeni che oggi, qui e ora, richiamano quella terribile storia. È altrettanto evidente.

Di recente Fratelli d’Italia è stato anche colpito da vicende giudiziarie di cui nessuno parla. Indagato l’europarlamentare Carlo Fidanza, indagata la sindaca di Terracina insieme all’ex portavoce Nicola Procaccini. Solidarietà tra i partiti? Pensate che possa accadere a tutti? Non è argomento da campagna elettorale?

Noi non temiamo nulla. Il punto non è se è da campagna elettorale. Quando emergono fatti che attengono il rapporto tra politica e affari, e soprattutto con la criminalità, sono temi politici, non solo giudiziari, e devono essere affrontati per quello che sono. Nel rispetto delle garanzie. Questo è un terreno di cui la politica deve occuparsi e bisogna leggere politicamente cosa significa l’aumento dei fenomeni corruttivi. Questo è un problema di interesse generale. 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Animali fantastici. La destra moderata e i grillini responsabili non esistono. Emanuele Pinelli su L'Inkiesta il 23 Luglio 2022

Il Partito democratico si è illuso che il Movimento Cinque Stelle e una parte consistente di Lega e Forza Italia fossero addomesticabili. Ma la storia politica degli ultimi 30 anni dimostra che nei fatti non è mai stato così. E non lo sarà mai

C’è da stupirsi che qualcuno si stupisca per come è caduto il governo Draghi. Cinquestelle, Lega e berlusconiani non hanno fatto nulla di imprevedibile, nulla che fosse in discontinuità con la loro natura o con le scelte del loro passato. Nessun passaggio delicato della storia repubblicana recente li aveva mai visti su posizioni responsabili.

Dieci anni fa, col governo Monti, la Lega restò all’opposizione per lucrare voti sulla crisi economica, i berlusconiani si sfilarono per opportunismo elettorale a pochi mesi dalla fine della legislatura, e i Cinquestelle costruirono il loro primo enorme successo tuonando contro i «politici tutti ladri» e «l’Europa delle banche».

Sei anni fa, col referendum costituzionale, la Lega restò all’opposizione per lucrare voti sull’antirenzismo, i berlusconiani si sfilarono per opportunismo elettorale sostenendo il No alle urne dopo aver sostenuto il Sì in Parlamento, e i Cinquestelle costruirono il loro secondo ancor più enorme successo tuonando contro «la riforma di JP Morgan».

Sei mesi fa, con l’elezione del presidente della Repubblica, la Lega si mise a bruciare uno dopo l’altro candidati improbabili, Berlusconi insistette su una candidatura personale ancora più improbabile, e i Cinquestelle cercarono di portare al Quirinale una poco conosciuta diplomatica a capo dei servizi segreti. L’inevitabile risultato fu la distruzione di qualsiasi candidatura autorevole e il frettoloso dietrofront di Mattarella come ultima opzione percorribile.

Perché mai col governo Draghi avrebbe dovuto essere diverso?

Una volta chiusa (per un po’) la partita contro il Covid, nella quale il prestigio di Draghi e le capacità tecniche dei draghiani facevano oggettivamente comodo a tutti, perché mai quei tre partiti avrebbero dovuto mostrare per un altro anno una responsabilità che gli è sempre stata estranea?

La grande allucinazione di massa per cui ci si aspettava che Giancarlo Giorgetti, Licia Ronzulli, Luca Zaia e Fabiana Dadone avrebbero avuto un sussulto di dignità e spaccato i loro partiti per salvare il governo era, appunto, solo un’allucinazione. E ancora più allucinata era l’allucinazione per cui ci si aspettava che gli stessi Salvini e Berlusconi avrebbero anteposto non meglio precisati interessi del loro elettorato, degli imprenditori del Nord o addirittura del paese alla propria antipatia per le riforme draghiane o al puro calcolo elettorale.

La più allucinata delle allucinazioni era forse quella che riguardava Conte: per quale strana ragione un leader al quale è rimasto solo un bacino elettorale di fanatici convinti che l’Ucraina sia una guerra per procura e che quello di Draghi sia il governo dei banchieri contro il popolo non avrebbe dovuto staccare la spina? Anche il trasformismo ha un limite. Ma perché questa allucinazione è stata così diffusa e così dura a morire?

La spiegazione è semplice: perché il Partito democratico, i centristi e gli altri responsabili si sono assuefatti all’idea che non sia possibile battere in campo aperto alle elezioni tutti gli irresponsabili contemporaneamente. L’unica via era addomesticare almeno una parte degli irresponsabili per portarli dall’altro lato della barricata in cambio di qualche concessione.

Le formule più ingegnose, da quelle elettorali come il campo largo a quelle squisitamente parlamentari come la maggioranza Ursula, sono state ideate per questo scopo.

È vero, nelle correnti di sinistra del PD c’è una fascinazione autentica per i Cinquestelle, ritenuti «l’unico vero movimento popolare nato in Italia» (cit. Massimo D’Alema), e per Conte, ritenuto «l’uomo più popolare in Italia» (cit. sempre D’Alema), che in diretta Facebook rinchiudeva in casa gli untori e distribuiva soldi pubblici ai poveri. Ma alla fine sono le scelte che definiscono l’identità di un partito, e il Pd nel suo complesso ha sempre scelto la conservazione dell’ordine a prescindere – non a caso è stato al governo per 9 degli ultimi 10 anni anche senza aver mai vinto le elezioni.

È ragionevole pensare, perciò, che l’addomesticamento dei grillini fosse stato intrapreso più per mancanza di alternative che per vera affinità di vedute.

Eppure, c’era stata una breve stagione in cui si riusciva a sbaragliare insieme tutta la destra e tutti i grillini, invece di passarli al setaccio in cerca di responsabili e moderati: la stagione del Pd renziano tra 2014 e 2015 (Europee e Regionali).

Quale allineamento astrale aveva permesso quelle vittorie? È possibile oggi riprodurlo e fare in modo che non sia altrettanto effimero? A mio parere sì.

Per prima cosa occorre creare subito una solida lista unitaria di centro, che prosegua lo sforzo riformatore di Draghi e risponda alla domanda di un ambientalismo serio (fortissima soprattutto tra gli under 40). Questo soggetto nuovo farebbe da polo di attrazione magnetica per il PD, che è in perenne crisi d’identità e alla continua ricerca di ispirazione dall’esterno. Con la giusta narrazione e i giusti candidati esposti sui media, non sarebbe difficile intercettare i molti elettori di Forza Italia e della Lega delusi dal draghicidio del 20 luglio.

Non sarebbe neanche così difficile, se si usa il giusto linguaggio e si rinnega ogni estremismo, rendere attraenti agli occhi di un elettorato più ampio alcune misure sociali storicamente confinate alla sinistra, come lo Ius Scholae, la settimana lavorativa corta, il congedo di paternità obbligatorio o la liberalizzazione della cannabis.

Resta il problema del leader mediatico dell’eventuale coalizione. Ma non è escluso che la formula di una leadership condivisa possa incontrare le simpatie dell’elettorato, ormai esausto e disgustato da qualsiasi riferimento alla politica così come è stata negli ultimi anni.

I margini sono stretti, ma ci sono. Chissà se c’è anche la volontà.

Roberto Michels, l'élite rimarrà sempre al potere. Francesco Perfetti il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.

Nel 1911 il politologo tedesco naturalizzato italiano teorizzò la "legge ferrea dell'oligarchia"

 Pur facendo parte della cosiddetta «generazione classica» della sociologia tedesca quella di Max Weber, Ferdinand Tönnies, George Simmel e tanti altri Roberto Michels (1876-1936) fu uno dei principali esponenti dell'«elitismo», di quel filone di studiosi cioè, tipicamente italiano, che si occupa di «classe politica». Insieme a Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, anzi, egli, con la sua «legge ferrea dell'oligarchia», può esserne considerato uno dei co-fondatori nel senso che le sue conclusioni rappresentano uno sviluppo delle tesi degli altri due secondo una precisa traiettoria: Mosca elabora la «teoria della classe politica» evidenziano il ruolo delle «minoranze organizzate», Pareto introduce il concetto di «circolazione delle élites politiche» e ne studia la dinamica per la conquista di una leadership, Michels applica le loro conclusioni al caso del partito politico.

Nato a Colonia, Michels si sentiva però, com'ebbe a scrivere, «toto corde e senza restrizioni, cittadino d'Italia», anche se ottenne la cittadinanza avanti negli anni. Poliglotta e eclettico, studiò in diversi Paesi frequentando significativi intellettuali del tempo, dall'economista Lujo Brentano agli storici Karl Lamprecht e Gustav Droysen fino al sociologo Max Weber. Dal punto di vista politico fu all'inizio vicino al socialismo e strinse rapporti di amicizia e collaborazione coi protagonisti del sindacalismo rivoluzionario, da Georges Sorel e Hubert Lagardelle, da Arturo Labriola a Enrico. Nel 1907 si trasferì a Torino dove conobbe Luigi Einaudi, Achille Loria e Gaetano Mosca, personalità che avrebbero contato molto per l'evoluzione del suo pensiero. Nel 1928, dopo più di un decennio in Svizzera dove insegnava Economia politica all'Università di Basilea, fu chiamato, per diretto intervento di Mussolini, come professore di Economia generale e corporativa nella Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Perugia, considerata la facoltà fascista per eccellenza e vi rimase fino alla morte. L'incontro con Mussolini era avvenuto pochi anni prima, nel 1924, e si era tradotto ben presto in un rapporto di stima reciproca e amicizia. Non a caso Michels finì per individuare in Mussolini l'incarnazione del tipo di «capo carismatico» secondo la dizione weberiana da lui ripresa e teorizzata nel Corso di sociologia politica tenuto all’Ateneo romano nel 1926. Cionondimeno egli non fu un intellettuale organico nel senso proprio del termine, ma rimase uno studioso il cui nome è legato alle ricerche sulla fenomenologia del partito politico nella società contemporanea.

Proprio il suo libro più celebre e fortunato, quello dedicato a La sociologia del partito politico è stato appena ripubblicato (Oaks editrice, pagg. CXXXIV-576, euro 38), con una bella introduzione critico-biografica di Gennaro Sangiuliano nella quale è ben ricostruito l'itinerario intellettuale dell'autore ed è sottolineata l'importanza dell'opera nella nascita e gli sviluppi della scienza politica contemporanea. Una importanza riconosciuta a livello internazionale come dimostrano, per esempio, gli studi del francese Maurice Duverger, autore del più importante lavoro sui partiti politici, e dell'americano Charles Wright Mills, il cui celebre lavoro su Le élites del potere lascia trasparire l'influenza delle tesi michelsiane.

Pubblicata nel 1911 in Germania, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna (questo il titolo originale) apparve in lingua italiana l'anno successivo con notevole successo. Michels vi esaminava studiando la socialdemocrazia tedesca, unico partito all'epoca con una struttura ben definita le organizzazioni politiche di tipo «volontaristico», cioè i partiti che si definivano «democratici» perché sceglievano i propri leader attraverso meccanismi di tipo elettivo o referendum. E giungeva alla conclusione che essi finivano per trasformarsi in oligarchie di fatto, diverse da quelle de jure solo perché in queste ultime le élites non venivano elette né volevano correre l'alea di elezioni. Tale conclusione condensava la cosiddetta «legge ferrea dell'oligarchia» sintetizzata in due frasi celebri di Michels: «La democrazia non è concepibile senza organizzazione» e «Chi dice organizzazione dice tendenza all'oligarchia».

Per Michels le elezioni non erano affatto indice di democraticità: «La volontà popolare non è criterio di democrazia», scriveva con una battuta lapidaria, perché i criteri di misurazione della democraticità di una organizzazione ovvero di un sistema politico non potevano essere quelli formali basati solo sull'esistenza di un procedimento elettorale a suffragio più o meno esteso, ma dovevano essere invece criteri sostanziali legati ai presupposti della teoria democratica. Dalla sua ricerca sulla leadership e sulla fenomenologia della dinamica partitica egli ricavava la convinzione che un partito politico strutturato sul piano organizzativo fosse, comunque, un'organizzazione non democratica avendo insita in sé la tendenza oligarchica. Questa tesi della non democraticità dei partiti organizzati implicava, per Michels, l'idea della irrealizzabilità della democrazia in ogni grado proprio perché, egli precisava, «la democrazia porta all'oligarchia, diviene oligarchia».

Il discorso di Michels riguardava le organizzazioni private volontarie il partito politico, in primis, ma anche sindacati, associazioni professionali e via dicendo e non ignorava l'esistenza di un rapporto tra queste e lo Stato. Per lui, però, la «legge ferrea dell'oligarchia» operava ovunque vi fosse un minimo di organizzazione. Prendendo come esempi il caso dell'imperatore Guglielmo II che invitata i malcontenti a emigrare e quello del fondatore della socialdemocrazia tedesca, August Ferdinand Bebel, che sollecitava gli scontenti ad andarsene dal partito, Michels si domandava, infatti, retoricamente: «Che differenza esiste mai fra l'atteggiamento di questi due, tranne quella che esiste tra un'organizzazione volontaria (partito) ed una non volontaria (Stato), tra un organismo cui si aderisce esclusivamente per propria scelta e un altro cui invece si appartiene già per nascita?».

Che il discorso di Michels, ma anche di Mosca e di Pareto, abbia una forte carica di critica alla democrazia è evidente. Tuttavia, non a caso, accanto a tante riserve polemiche (a cominciare da Gramsci) non sono mancati i tentativi (da Gobetti a Bobbio, passando per Dorso e Burzio) di recuperare le teorie elitiste al pensiero democratico. Al netto delle diatribe politico-accademiche rimane il fatto, come ben osserva Sangiuliano nella prefazione, che «nell'epoca in cui le democrazie sono corrose dalla dittatura del politicamente corretto e dalla cancel culture, dominate spesso da club tecnocratici privi di legittimazione e consenso, le analisi di Michels ritrovano una attualità».

Massimo Colaiacomo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 18 luglio 2022.

Come trasformare un museo da deposito, prezioso e importante quanto si vuole, di testimonianze e memorie artistiche in un luogo che parla al presente del visitatore e alza il velo sul futuro? Una domanda simile pareva improponibile a metà del Novecento e non poteva certo avere risposte ovvie e scontate. 

Palma Bucarelli, storica direttrice della Gnam (la Galleria nazionale di arte moderna di Roma ) dal 1942 al 1975, è stata in questo una pioniera, una visionaria che ha rivoluzionato per quel tempo la fruizione dell'arte. Grande apertura culturale e preparazione scientifica, indipendenza di giudizio, viaggiatrice infaticabile, protagonista della vita mondana e curiosa di ogni novità, erano qualità che in lei si esaltavano grazie anche a un carattere forte e asseverativo. 

Nata a Roma nel 1910, Palma si era laureata con Piero Toesca in storia dell'arte. Al corso di perfezionamento post- laurea conosce Giulio Carlo Argan, storico dell'arte e futuro sindaco di Roma, con il quale stabilisce un rapporto, personale e professionale durato l'intera vita.

Dopo aver vinto un concorso " per la carriera direttiva degli storici dell'arte", lavora per un periodo alla Galleria Borghese, prima di essere trasferita a Napoli dove rimane per un anno. Nel 1937 torna a Roma, ispettrice alla Sovrintendenza del Lazio. Su questa circostanza aleggiavano già all'epoca non poche voci: si disse che il suo rientro a Roma fosse stato favorito da Paolo Monelli, prestigioso giornalista, suo compagno e molto amico di Giuseppe Bottai, ministro della Cultura nel regime fascista.

Oppure da Argan, collaboratore, con Cesare Brandi, dello stesso ministro. Senza escludere che sia stato lo stesso Bottai, di sua iniziativa, invaghito della giovane Bucarelli, ad accogliere la richiesta di trasferimento. Perché Palma aveva bellezza e fascino, capace di sedurre chiunque. Il buon Monelli ne fu ammaliato, se è vero che dal loro primo incontro, nel 1936, aspettò 27 anni prima di sposarla, nel 1963. 

Sulla vita privata di Bucarelli, però, fa aggio il suo profilo di sovrintendente innovatrice se non proprio rivoluzionaria alla Galleria. 

Amante e mecenate della pittura astratta e informale, la sua apertura all'arte contemporanea, con la costruzione di percorsi didattici e cicli di conferenze per favorirne la comprensione a un più ampio pubblico incontrò non pochi ostacoli e resistenze, al punto che arrivarono interrogazioni parlamentari. 

Come quelle di Mario Alicata, geloso custode dell'ortodossia estetica marxista, nel 1951, mentore di quel "realismo socialista" lontano dai gusti della Bucarelli. E l'anno dopo, una nuova interrogazione per denunciare l'acquisto di opere di Klee, Ernst, Giacometti e Picasso. Fra gli italiani Morandi, Scipione, Savinio.

E ancora Perilli, Consagra, Dorazio, Turcato, Corpora, Scialoja, Capogrossi. 

A ogni acquisto e a ogni grande mostra ( Picasso, Scipione, Mondrian) si accompagnano polemiche infuocate da parte della politica. Solo negli anni Sessanta arrivano i primi importanti riconoscimenti. È il caso del ciclo di conferenze, nel 1961, negli Stati Uniti e la nomina, nel 1962, a commendatore della Repubblica da parte del presidente Antonio Segni.

L'ansia di promuovere quelle novità che incontrano il suo gusto non cessa con gli anni. Diventa anzi febbrile se è vero che Palma decide di imprimere un'inedita svolta all'attività della Galleria ospitando gli spettacoli di Tadeusz Cantor, i concerti di Nuova Consonanza, la mostra di Piero Manzoni ( 1971) con il controverso acquisto della " Merda d'artista", con ovvie e inevitabili nuove interrogazioni parlamentari. La sua vita pubblica si conferma un crocevia di polemiche feroci seguite automaticamente da altrettanti riconoscimenti. Così nel 1972 riceve la Légion d'Honneur e diviene Accademica di San Luca, per essere nominata, nel 1975, Grande ufficiale della Repubblica. Lasciata la Galleria per la pensione, prima di morire, nel 1998, dona una sessantina di opere d'arte a quella che era stata la sua casa e in cui effettivamente abitò, dal 1952, dopo averne ricavato un piccolo appartamento.

Gli antimoderni che dicono no a ogni novità. Vincenzo Trione su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.  

C’è un ampio gruppo di intellettuali di sinistra impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma e iniziativa che riguardi i beni culturali

Le concessioni dei siti archeologici per i concerti (Circo Massimo per i Måneskin e Caracalla per l’opera lirica)? Il trasferimento della Biblioteca di Storia dell’arte da Palazzo Venezia a Palazzo San Felice (a Roma)? Lo spostamento della Biblioteca Nazionale di Napoli all’Albergo dei poveri? E ancora: il patrimonio dei libri di Umberto Eco diviso tra Brera e Università di Bologna? Il prestito all’estero di alcuni capolavori? L’esposizione delle straordinarie sculture della controversa famiglia Torlonia? E l’arena da costruire al Colosseo? Domande diverse alle quali la risposta è sempre la stessa. «Io preferirei di no», come ripete il Bartleby di Melville.

Potrebbe essere, questa, la battuta utilizzata dai tanti iscritti all’ampio, diffuso e trasversale partito degli antimoderni di sinistra. Nella maggior parte dei casi, si tratta di intellettuali che condividono inclinazioni conservatrici. Da anni questo partito è in azione, impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma dei beni culturali. Pur indossando la maschera dei progressisti, gli animatori del gruppo sembrano non essere mai usciti dal Novecento.

Mirano a non intaccare lo status quo, attenti a non alterare consuetudini oramai ridotte a ritualità svuotate di senso, afflitti da un passatismo rigido, ostili nei confronti di ogni avanguardia e di ogni contaminazione, interpreti di un’Italia che guarda soprattutto dietro di sé, ancorata al culto dell’antichità e del Rinascimento. I rischi insiti nelle sistematiche e prevedibili interdizioni sono chiari. Incapaci di farsi coscienze critiche, gli antimoderni di sinistra tendono a valutare in modo pregiudiziale iniziative e provvedimenti volti ad alterare l’ordine delle cose, senza entrare davvero nel merito di quelle proposte. Voci di un Paese che troppo spesso vive il presente non come opportunità né come domanda aperta, ma come inciampo della storia.

Rivoluzionari, cattolici, anarchici ed elitari. Il pantheon è questo. Francesco Giubilei il 14 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il conservatorismo ha tante facce e va da Gioberti e Croce fino ai giornalisti-intellettuali di destra

Se Giuseppe Prezzolini ha rappresentato nel '900 una figura centrale per il conservatorismo italiano, nel secolo scorso è esista una tradizione di pensiero conservatore caratterizzata da numerose figure di primo piano. Sebbene in Italia il termine conservatore non abbia mai goduto di buona stampa (d'altro canto già Leo Longanesi affermava «Sono un conservatore in un Paese in cui non c'è nulla da conservare»), è possibile tracciare un pantheon del conservatorismo italiano pur con alcune necessarie precisazioni.

In Italia il conservatorismo è stato spesso identificato come un'area culturale legata al mondo americano e anglosassone, anche se esiste una tradizione latina con proprie specificità. Dovendo riscontrare una genesi del conservatorismo italiano, possiamo identificarla già nell'antica Roma con il concetto di mos mairoum e nel Medioevo cristiano in cui si forma l'identità italiana ma anche nelle figure di Giambattista Vico e Vincenzo Cuoco, nel pensiero di Giacomo Leopardi e nel Del Primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti.

Eppure è nel '900 che si concretizza un pensiero conservatore ben definito a partire dalla pubblicazione de La filosofia di Marx di Giovanni Gentile (uscito nel 1899) e Materialismo storico ed economia marxista di Benedetto Croce pubblicato l'anno successivo. Sebbene né Gentile né Croce siano stati conservatori tout court, troviamo in loro tratti di conservatorismo (come nel Perché non possiamo non dirci cristiani crociano). D'altro canto, a posteriori si possono individuare nel pensiero di autori che in vita non si sono definiti conservatori, posizioni vicine al conservatorismo, non essendo un'ideologia ma uno stato di natura e un modo di essere.

Fucina del pensiero conservatore nostrano a inizio secolo sono le riviste letterarie fiorentine, dal Leonardo a La Voce passando per Lacerba, con i rispettivi protagonisti e il trittico Prezzolini, Giovanni Papini e Ardengo Soffici.

Come parlare di una singola destra sarebbe sbagliato poiché esistono tante destre, allo stesso modo il conservatorismo non è un monolite, lo testimonia l'esistenza di un pensiero rivoluzionario conservatore che, sebbene sia nato in Germania nei primi anni Venti del '900, si sviluppa anche nella penisola. Riferimento è il movimento di Strapaese rappresentato da Mino Maccari, Curzio Malaparte e Leo Longanesi e le rispettive riviste Il Selvaggio, Italia Barbara e L'Italiano (antesignano di questo filone è il romagnolo Alfredo Oriani). C'è anche un conservatorismo cattolico il cui principale esponente è Augusto Del Noce, uno nazionale rappresentato da Enrico Corradini, uno estetico incarnato da Mario Praz e uno contrario alle derive della massa interpretato da Panfilo Gentile. Non a caso i teorici delle élite, Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca e Roberto Michels, costituiscono un riferimento indiscutibile.

Un contributo spesso sottostimato nella diffusione della cultura conservatrice lo hanno avuto gli editori a partire da Attilio Vallecchi, passando per Giovanni Volpe nel dopoguerra e Alfredo Cattabiani come direttore editoriale della Rusconi, oltre a Leo Longanesi, al quale si deve la rivista Il Borghese (trampolino di lancio per Gianna Preda) e il ruolo insuperabile di scopritore di talenti tra cui Ennio Flaiano. Sorte diversa toccò a Giuseppe Tomasi di Lampedusa il cui Gattopardo (romanzo a tutti gli effetti conservatore), fu pubblicato da Giangiacomo Feltrinelli. Se i temi affrontati nei libri di Guido Piovene, Carlo Sgorlon e anche Dino Buzzati con i suoi racconti intrisi di spiritualità (lo spiega la critica di Fausto Gianfranceschi all'autore bellunese) rientrano in una visione del mondo conservatrice, lo è senz'altro il piccolo mondo antico dell'autore italiano più venduto al mondo: Giovannino Guareschi.

Che dire poi del mondo giornalistico? Sarebbe sufficiente citare l'anarco conservatore Indro Montanelli ma non si può dimenticare Giovanni Ansaldo, così come il direttore del Corriere della Sera Mario Missiroli.

Essere conservatori significa avere a cuore la forma tanto quanto la sostanza, vuol dire amare l'eleganza, la bellezza, l'educazione, rispettare la natura e il sacro, credere nello spirituale ancor prima che nella vita materiale, conservare la propria identità proiettandola nel futuro, amare la patria e la famiglia, difendere i più deboli, rispettare la legge, credere nel principio di autorità. Essere conservatori è prima di tutto uno stile di vita e, chiunque incarni questi valori, rientra di diritto nel pantheon del conservatorismo.

110 anni dalla nascita. Chi era Joseph Gabel, il sociologo che smascherò la falsa coscienza. Giulio Laroni su Il Riformista il 13 Luglio 2022. 

Walter Benjamin diceva che le potenzialità rivoluzionarie di un’opera o di un fatto passato si esprimono pienamente solo in una certa epoca, in un momento propizio in cui si compie la sua “ora della conoscibilità”. Per nessuno ciò è così vero come per Joseph Gabel (1912-2004), nato il 12 luglio di 110 anni fa, il cui pensiero si abbatte come uno choc improvviso sul nostro presente. Autore di un testo fondamentale come La falsa coscienza (1962), il più importante e attendibile studio esplicitamente dedicato alla reificazione, fu uno dei più interessanti sociologi marxiani del Novecento ed ebbe un’influenza profonda sul pensiero di Guy Debord. Fu anche un attento indagatore delle dinamiche del razzismo, del maccartismo, della tortura giudiziaria.

L’intera opera di Gabel è leggibile alla luce di un tragico episodio che accade alla sua famiglia, che egli ricorda nella dedica dell’edizione in inglese de La falsa coscienza: la morte di sua madre ad Auschwitz, nel 1945. Auschwitz può infatti essere inteso come un vero e proprio luogo di reificazione, animato dall’intenzione di togliere agli esseri umani la loro facoltà di totalità concrete e di trasformarli in cose, in numeri. In termini gabeliani, si potrebbe dire che l’universo concentrazionario esprime idealmente un rifiuto assoluto della dialettica e di ciò a cui essa in ultima analisi conduce: il riconoscimento e la libertà. Esponente di un “marxismo aperto”, come lui stesso lo definisce, Gabel è immerso in un orizzonte culturale audace ed eterodosso: c’è ovviamente il Lukács di Storia e coscienza di classe, l’Adorno degli Studi sulla personalità autoritaria, la psichiatria fenomenologica di Eugène Minkowski e Ludwig Binswanger (egli ha anche una formazione psichiatrica), l’assiologia di Eugène Dupréel. E, anche se non è tra i suoi autori di riferimento, si sente in lui una profonda affinità con l’umanesimo di Erich Fromm.

Ne La falsa coscienza i temi della reificazione, dell’alienazione e dell’ideologia vengono sottoposti ad una serrata indagine filosofica, sociologica e psichiatrica, che porta alla luce il rapporto prima misconosciuto che li lega alle strutture della schizofrenia. Scopriamo dunque che certe forme di propaganda politica, di etnocentrismo, di populismo hanno in comune con il linguaggio schizofrenico un numero sorprendente di meccanismi. La prospettiva di Gabel è all’insegna di una critica immanente, che lascia parlare l’oggetto e rifiuta di imporsi dall’esterno su di esso. Il pensiero reificato è per lui soprattutto un pensiero non dialettico, un pensiero cioè che rifiuta di farsi campo di tensioni e così facendo si pietrifica, si dogmatizza, si trasforma in codice etico binario. La dialettica, parafrasando Georges Lapassade, è invece per lui una “logica della libertà”.

Incredibilmente attuali sono le sue riflessioni sul garantismo giuridico, nelle quali sottolinea il carattere reazionario del giustizialismo – che lui definisce “alienazione giudiziaria” – e afferma appassionatamente la funzione progressiva del principio della prescrizione. Questa, secondo lui, contribuisce a rendere la giustizia più dialettica e personalizzante, facendosi inoltre portatrice di un’istanza di temporalità storica. “Per il pensiero totalitario – scrive ne La falsa coscienza – l’attività antistatale è extratemporale al pari dello stato stesso. Quali che siano le sue formulazioni teoriche, è certo che in materia politica la giustizia totalitaria si preoccupa scarsamente di questioni di prescrizione e di non-retroattività.” Secondo Gabel il diritto non è separabile da una certa quota di reificazione, ma esistono degli strumenti “dereificanti” che in qualche modo arginano questa tendenza, prima fra tutti la figura dell’avvocato, da lui associata a quella dello psicoanalista.

Ma l’impressionante attualità del suo pensiero si estende a molte altre questioni. Egli ci dà ad esempio una chiave di lettura per approfondire la psicologia del razzismo andando oltre la mera denuncia. Alla base del comportamento razzista, ci dice Gabel, agisce un processo di essenzializzazione. L’individuo di etnia diversa viene visto non come una “sintesi dialettica di qualità e di difetti”, come lo sono tutti gli esseri umani, ma come un soggetto privo di sfumature, tipizzato, spersonalizzato e dunque trasformato in cosa. La sua eterogeneità viene quindi negata dalla percezione razzista, che proietta su di lui un’immagine caricaturale e pretende di ricondurlo a uno schema sempre ripetibile. Ciò ci mette in guardia dai paradigmi di tipo identitario ed essenzialista oggi così diffusi anche a sinistra, che rischiano di riprodurre a volte consciamente e a volte involontariamente i meccanismi stessi della percezione razzista.

Gabel si sofferma anche sul fenomeno del sociocentrismo (inteso qui in un senso mutuato da Piaget), attraverso il quale i convincimenti egemoni di una certa società vengono considerati come portatori di verità assolute, quasi divine, alle quali le coscienze degli individui debbano necessariamente sottomettersi. Di questa forma di egocentrismo collettivo, lo stesso che nei fascismi induce all’autorepressione del dissenso, egli indaga la funzione delirante e reificazionale. Una nozione che può rivelarsi preziosa in un tempo, come il nostro, nel quale la società – e l’assetto capitalistico che ne è alla base – viene elevata a natura, in cui sono tornate di gran moda le sanzioni sociali e i roghi delle streghe, in cui il pensiero di gruppo minaccia qualsiasi approccio dialogico al dibattito culturale. Tra le espressioni del sociocentrismo vi è anche la cosiddetta “ideologizzazione della sensibilità storica” o “storia riscritta”, che induce a dare della storia un’interpretazione piegata alle convenienze del contesto sociale in cui si vive. Un processo che Gabel definisce “reificazione del tempo” (affine a quella che oggi chiamiamo “cancel culture”) e che ritrova anche nella clinica della schizofrenia. Per spiegarlo fa l’esempio di un generale americano che si sia distinto per una condotta di grande nobiltà e che poi abbia tradito il suo Paese.

Secondo una concezione ideologizzata della storia, il suo tradimento rivela la sua intima natura di traditore. Secondo una lettura dialettica, invece, egli non si è mostrato all’altezza dei successi prima ottenuti. Con un’espressione particolarmente affascinante, Gabel ci invita a cogliere di questo generale la “melodia vitale”, il percorso di vita, a non usare il suo tradimento come lente attraverso cui rileggere la sua vita passata. Inutile dire che ciò nulla ha a che vedere con letture revisionistiche del fascismo (che sin dai suoi esordi ha rivelato la sua natura mortifera), ma anzi offre argomenti per contestarle. Gabel si occupa anche di molti altri temi. Compie ad esempio un’interessante critica dell’aggressività come comportamento antidialettico e, al contrario, allude alla carica rivoluzionaria e dereificante dell’erotismo. Dal suo pensiero radicale, umanistico e libertario potrebbe nascere, domani, una sinistra nuova. Giulio Laroni

Dagospia l'11 luglio 2022. RADIOGRAFIA DELL’ELETTORATO - I CETI DIRIGENTI, IMPIEGATI, PENSIONATI E INSEGNANTI VOTANO SOPRATTUTTO PD, GLI OPERAI VANNO SULLA LEGA - TRA GLI AUTONOMI, CASALINGHE E MENO ABBIENTI SPOPOLA FRATELLI D’ITALIA - E IL VOTO CATTOLICO? SI ORIENTA SOPRATTUTTO SUL PD (NONOSTANTE I DEM SIANO PRO-LGBT, PRO-ABORTO E FAVOREVOLI ALL’EUTANASIA) - MENTRE TRA QUELLI CHE NON CREDONO SEGUONO LA MELONI, CHE HA SPOSATO TEMI IDENTITARI ULTRA-CATTOLICI...

Nando Pagnoncelli per il “Corriere della Sera” l'11 luglio 2022.  

La volatilità del voto di cui si è dato conto nell'analisi sui flussi elettorali pubblicata sabato su queste pagine rappresenta un elemento di complessità per i partiti che devono fare i conti con il cambiamento del proprio elettorato e la difficoltà ad individuare proposte da indirizzare ai segmenti sociali che lo compongono e a mettere a punto strategie comunicative efficaci.

Dunque, come sono composti gli elettorati delle singole forze politiche? E come votano i singoli segmenti sociali? Nel grafico sopra riportato si può osservare per ciascun partito la percentuale delle diverse componenti socio-demografiche che va confrontata con il peso di quella stessa componente sulla totalità degli elettori. Ad esempio, prendendo in esame i due principali partiti, emerge la seguente radiografia: il Pd ha un elettorato più maschile, di età più matura (60% ha più di 50 anni contro il 54,6% della totalità degli elettori), più istruito (61% è diplomato o laureato, 10 punti più della media), di condizione economica elevata o medio alta (42%, 15 punti più della media). Uno su tre (32%) è pensionato, il ceto impiegatizio e quello dirigente sono più presenti rispetto alla media degli elettori (33%, +10%) mentre operai e disoccupati sono sottorappresentati (16% contro 26,4%).

Anche tra gli elettori di Fratelli d'Italia è più presente la componente maschile (54%) rispetto a quella femminile, inoltre prevalgono le classi centrali di età, tra 35 e 64 anni (pesano per il 62%, contro il 51,3% della media italiana), mentre il livello di istruzione non si discosta molto dalla media nazionale (con una maggiore accentuazione dei diplomati 38% contro 34,4%), come pure le persone che hanno una condizione economica media (35% contro 30,1%) e gli appartenenti al ceto impiegatizio o hanno un lavoro autonomo (29% contro 23,4%); e i ceti non occupati pur essendo numerosi, sono molto meno presenti rispetto alla media (46% contro 54,3%). 

L'analisi odierna presenta anche la graduatoria dei partiti per ciascun gruppo sociale, mettendo in evidenza elementi di profondo cambiamento rispetto al passato. Il tramonto delle ideologie ha da tempo indebolito o addirittura annullato le appartenenze. Un esempio su tutti: il partito più votato dai ceti dirigenti (imprenditori, quadri e liberi professionisti) è il Pd (24,2%) seguito da FdI (22,5%), Lega (11,5%) e Forza Italia (11,1%); mentre tra gli operai e i lavoratori esecutivi, un tempo rappresentati dalle forze della sinistra, il partito più votato è la Lega (23,1%), seguita da FdI (21,9%), M5S (14,6%) e solo al quarto posto il Pd (12,5%).

Tra i lavoratori autonomi si impone nettamente FdI con il 24,8% dei consensi (10 punti di vantaggio sul Pd), mentre tra impiegati e insegnanti tornano a prevalere i dem (25,4% a 20,8% di FdI). Le casalinghe, un tempo baluardo dell'elettorato berlusconiano, oggi prediligono il partito della Meloni (20,4%) che precede la Lega (17,8%), il Pd (16,5%) e Forza Italia (14,3%) oggi retrocessa al quarto posto. Tra i pensionati prevale nettamente il Pd con il 29,2%, seguito da FdI (19,4%) e dalla Lega (12,8%). E anche tra i più giovani (18-35 anni) i dem sono in testa con il 19%, ma le distanze tra i partiti sono più ridotte.

Altro elemento che sorprende non poco, se letto con le lenti del passato, riguarda la situazione economica: il Pd prevale con il 31,4% tra i benestanti e con il 25,9% tra le persone di condizione economica medio alta, mentre tra i meno abbienti FdI prevale con il 21,5%, seguito dalla Lega (19,7%), dal M5S (18,6%) e da FI e Pd appaiati al 10%.

Un cenno al voto cattolico, che si rivela non certo da oggi tutt' altro che omogeneo, a conferma di una frammentazione identitaria che riguarda anche i credenti: infatti, tra coloro che partecipano regolarmente alla messa domenicale il Pd, con 27,1%, precede in misura netta FdI (18,3%), Lega (15,3%) e FI (11,8%).

Viceversa, tra i fedeli meno assidui prevalgono gli elettori della Meloni sui dem mentre la Lega si colloca al terzo posto. Da ultimo un cenno agli astensionisti che hanno raggiunto livelli ragguardevoli (42,5%), rappresentando il «primo partito» del Paese: ebbene, gli elettori che evidenziano la propensione più elevata a disertare le urne sono coloro che hanno una condizione economica bassa (54,8%) o medio-bassa (50,6%), le casalinghe (54%), le persone di oltre 65 anni (53,2%), i residenti nel Mezzogiorno (51,1%) i disoccupati (49,3%), le persone meno istruite (47,3%).

Pur non essendo la sola ragione per disertare le urne, la situazione economica risulta il tratto prevalente degli astensionisti. È difficile non comprendere il senso di auto-esclusione e le ragioni dei ceti più fragili, soprattutto dopo aver sperimentato negli ultimi trent' anni ogni possibile maggioranza politica e formula di governo.

Stessa solfa. Le bugie di destra e sinistra per coccolare (e illudere) i loro elettori. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'11 Luglio 2022.

Che siano taxisti, balneari, insegnanti o pensionati, i partiti si comportano allo stesso modo: difendono un’identica realtà anti-concorrenziale, sussidiata, inefficiente, conchiusa nell’arretratezza che infatti tiene a rigorosa distanza il progresso e gli investimenti, soprattutto stranieri

Dire che gli immigrati portano le malattie o invece spiegare che c’è «una correlazione evidente tra Covid e immigrazione» è pressappoco lo stesso: salvo che la seconda teoria, di fonte progressista, rispetto alla prima sfoggia una pretesa di esattezza statistica che la fa anche più detestabile e pericolosa.

Opporsi al referendum sulla limitazione della custodia cautelare spiegando che altrimenti i criminali restano a piede libero o invece indugiando sul pericolo dell’impunitismo è più o meno la stessa cosa: salvo che quest’ultima giustificazione, di stampo democratico, presenta il supplemento odioso dell’equanimità farlocca che invece di vellicare il pelaccio della plebe forcaiola alliscia quello soffice e perbene degli ermellini.

Il comizio borgataro contro le multinazionali straniere non è sostanzialmente diverso rispetto alla divagazione de sinistra sulla globalizzazione della povertà per il venir meno delle tradizioni operaiste: ma l’uno poggia sulla disinvoltura quasi patetica, per quanto non meno temibile, di un potere avventizio; l’altra su un entrismo incistato nel sistema che produce il 45% dell’impresa in mano pubblica e fiorisce nella requisitoria del parlamentare che nel 2022, in perfetta serietà, reclama redistribuzioni «a ognuno secondo i suoi bisogni».

La coltivazione del collegio elettorale tramite la promessa protezionista in favore dei taxisti e dei balneari non è meno corrotta rispetto a quella più risalente e vasta a garanzia di insegnanti e pensionati d’adolescenza: e il campo complessivo che ne risulta si rinnova eternamente nei lotti di un’identica realtà anti-concorrenziale, sussidiata, inefficiente, conchiusa nell’arretratezza che infatti tiene a rigorosa distanza il perfido investitore straniero.

L’occhieggiare di destra alle ragioni della pace e alla ragion di Stato che rende comprensibile l’aggressione russa, con i voti a favore delle armi dati per il nobilissimo fine di non passare dall’ombrello del Draghi I agli ombrelloni del Papeete II, è agli effetti equiparabile al contegno del pacifista comunista sindacalista che reitera i pregressi slogan anti-Nato di Capitan Ruspa: con la differenza che questa volta essi finiscono ripetuti in bella copia sulla stampa coi fiocchi che discute della vanità degli ucraini posta a difesa d’un paio di province ammuffite.

Si potrebbe continuare. Ma è sufficiente per capire che abbastanza spesso la competizione tra destra e sinistra, l’una e l’altra in scambievole stronzaggine, è questa: nel peggio, e per il peggio.

Luca Josi per “Prima comunicazione” il 3 giugno 2022.

Paolo Sorrentino, nell’immaginario dialogo tra il suo giovane Papa e la sua addetta marketing affrontò il tema così: Pio XIII: “Chi è lo scrittore più importante degli ultimi vent’anni? … Attenta però, non il più bravo. La bravura e degli arroganti… L’autore che ha destato una curiosità così morbosa da diventare il più importante?“. 

Sofia Dubois: “Non saprei. Philip Roth?”.

Pio XIII: “No. Salinger. Il più importante regista cinematografico?”. 

Sofia Dubois: “Spielberg?”.

Pio XIII: “No. Kubrick. L’artista contemporaneo?”. 

Sofia Dubois: “Jeff Koons … Marina Abramovich?”.

Pio XIII: “Banksy. Il gruppo di musica elettronica?”. 

Sofia Dubois: “Ohh, non so assolutamente nulla di musica elettronica …”.

Pio XIII: “E poi c’è chi dice che Harvard è una buona università… Comunque. I Daft Punk. E invece la più grande cantante italiana?”.

Sofia Dubois: “Mina”. 

Pio XIII: “Brava. Adesso lei sa qual è l’invisibile filo rosso che unisce tutte queste figure che sono le più importanti nei loro rispettivi campi? Nessuno di loro si fa vedere. Nessuno di loro si lascia fotografare”.

Potremmo definirlo il teorema dell’assenza che alimenta la presenza. Certo occorre aver guadagnato una notorietà da cui fuggire perché scatti l’interrogativo Morettiano: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”. 

Ecco, adesso parliamo di politica italiana e del suo deficit di carisma. 

Proviamo a dividere la storia della comunicazione politica, democratica, in Avanti ’92 e Dopo ’92; escludiamo, per ora, le cosiddette leadership per concentrarci sull’esercito di carneadi assurti a ruoli apicali in ragione di un metodo di selezione parente più della lotteria che di un processo di formazione; isoliamo i due principali argomenti di critica - “Son tutti una banda di ladri” e “Son tutti una banda d’incompetenti” asserzioni atemporali e di declinazione universale – e domandiamoci: ma come mai è così difficile costruire fascinazioni durature? 

Subito dopo il ’92, lustri prima dell’esplosione e della frammentazione dei canali di auto promozione (i social) iniziò una deriva di protagonismo in cui un desiderio incontenibile di presenzialismo cominciò a erodere qualunque aura della leadership (vi ricordate quando si diceva che gli attori cinematografici non dovevano comparire fuori dallo schermo per non veder vanificata la loro magia di estraneità al quotidiano?). 

Il più geniale distruttore di tutto questo fu Gianfranco Funari con il suo “Mammozzone”; concepì una specie di carro allegorico viareggino in cui l’ospite, appollaiato sul trabiccolo, veniva spinto in pasto al pubblico; la posizione era così grottesca che avrebbe reso goffa Coco Chanel. E loro, i politici, ci andavano. Da lì, il diluvio.

I partiti non c’erano più o ne nasceva uno al mese con tanto di araldica botanica o rapita ai supermercati. Intanto i nuovi volti cominciavano a occupare ogni spazio televisivo, con forme di transumanza che li portava ad albergare in pianta stabile nei vari format ispirati ai principi fondamentali della serialità: definisci le figure chiave della narrazione e fai trovare allo spettatore, in modo metodico e continuativo, quelle facce per creare abitudine e appartenenza (a Roberto D’Agostino il merito di aver definito questa categoria prepolitica di ospiti: “Morti di fama; famosi per essere famosi”; pensate oggi a quello che Antonio Ricci cucina quotidianamente; parlamentari che per pochi secondi di visibilità si consegnano alla “perculata” dell’inviato di turno e che per affacciarsi a quelle finestre di visibilità venderebbero le mamme. Anche le loro).

Ma com’è possibile che a questa infestante presenza mediatica non corrisponda un'equivalente memoria e ricordo da parte degli spettatori dei succitati protagonisti? 

Ipotesi: 

-       Per il sospetto che il loro “sapere di nulla e parlare di tutto” denunci la loro insradicabile incompetenza (condizione che però, oggi, sembra abilitare più o meno a qualunque incarico).

-       la vocazione a coprire con l’estroflessione delle loro opinioni ogni cosa e il suo contrario (opinionismo a tergicristallo, forte della totale incapacità dello spettatore di memorizzare una posizione e di verificare che il medesimo oratore sosteneva, poche ore prima, l’opposto).

 -       lo svaccamento voyeristico del mostrare ogni angolo privato per catturare attenzione può aver alimentato l’effetto Tunik (dal fotografo Spencer, Tunik, quello delle immagini di distese di corpi nudi sdraiati nei contesti urbani; riesci a distinguerne più qualcuno in particolare? No).

Suggerimenti non richiesti:

 -       acquisire una competenza differenziante: meglio presidiare un campo, risultare degli inavvicinabili esperti dei bigodini catarinfrangenti anziché mostrarsi come un “emporio vendi tutto” di conoscenze tanto superficiali quanto evanescenti. 

-       lasciate ai conduttori l’obbligo di essere sempre presenti in scena. Rendete non consecutive le vostre presenze e apparizioni (non prevedibili); lasceranno il sospetto che abbiate dedicato il tempo della vostra assenza a studiare (o, ancor più nobilitante, a lavorare).

-       in ultima analisi, parafrasando l’irrinunciabile testo dell’abate di Dinouart su “L’Arte di tacere” affidiamoci a Oscar Wilde: “È meglio tacere e sembrare stupidi, che parlare e togliere il dubbio”. 

Prospettive: 

-       Aldilà di quegli scherzi, tragici, della storia - come il riaffacciarsi della guerra che toglierà frivolezza a chi invita alla calma della pace senza aver mai subito un graffio dalla guerra e a chi parla di guerra senza aver mai giocato nemmeno a soldatini - il futuro appare complesso.

Perché? Perché un consumismo delle aspettative ha abituato gli elettori, spettatori di talent e reality, a un’usura dei protagonisti assai rapida e assolutamente inconciliabile con i lunghi tempi di formazione necessari alla costruzione di una cosiddetta classe politica.

Sono due curve che non s’incontrano. Una, quella dei cittadini, si stufa sempre più velocemente dei suoi politici e l’altra, quella che dei politici, avrebbe bisogno di sempre più tempo per prepararsi ad affrontare una società sempre più complessa. Auguri a tutti noi.

Da “Libero quotidiano” il 3 giugno 2022. 

Pubblichiamo un estratto dal libro Trasformazioni della politica, di Alessandro Campi. Docente di Scienza politica all'università di Perugia, Campi è uno dei principali studiosi della destra europea. Il volume è uscito per Rubbettino (18 l'edizione cartacea, 9,99 digitale).

Tradizionalmente, il leader in senso politico - secondo l'etimologia del termine inglese leadership (to lead: condurre, stare avanti, capeggiare, essere al comando) - è colui che guida e indirizza il popolo e riesce a farsi seguire dai cittadini grazie alle sue competenze, al suo programma d'azione, alla sua forza visionaria e alle sue capacità retoriche. Nell'accezione consueta, il follower (seguace o adepto in senso politico) è invece colui che obbedisce al capo partito e che aderisce, emotivamente e attraverso il voto, alle sue indicazioni o formule propagandistiche. 

Ma cosa accade quando il leader si "orizzontalizza" e diventa a sua volta un follower?

Cosa succede nella vita di una democrazia quando un capo politico - come sempre più spesso si registra - si limita a seguire e ad assecondare le masse e a costruire la sua agenda politica e il suo programma di governo sulla base dei sondaggi che quotidianamente registrano i cambiamenti dell'opinione pubblica? Insomma, cosa accade quando chi comanda prende ordini, in senso lato, da coloro che dovrebbero invece obbedirgli? 

Un primo cambiamento riguarda l'origine sociale dei leader e la loro formazione intellettuale e professionale. Sempre più spesso ci imbattiamo in personalità che non hanno alle spalle un classico pedigree politico. Anzi, in molti casi si tratta di personalità che orgogliosamente esibiscono come un titolo il non aver mai fatto politica in precedenza o il fatto di avere conquistato competenze, successo e popolarità in altri settori di attività: dallo sport allo spettacolo, dall'economia (un imprenditore, un banchiere) al giornalismo. Ma anche i leader che si sono formati nei partiti tradizionali tendono ormai a presentarsi come espressione dell'antipolitica, o come i fautori di una "nuova politica".

GENERICO È MEGLIO Il libro di Alessandro Campi si richiama al saggio Trasformazioni della democrazia di Vilfredo Pareto del 1921 per analizzare i cambiamenti dei sistemi politici attuali. 

La seconda caratteristica è il fatto che oggi il leader si presenta come trasversale e inclusivo, cerca voti a destra e a sinistra, parla a tutti in modo indistinto, non ha una fisionomia culturale immediatamente riconoscibile o definibile in modo rigido. Per fare tutto ciò ha naturalmente bisogno di utilizzare messaggi generici, slogan efficaci ma poco impegnativi, nonché di ricorrere sempre più spesso a formule retoriche e a proposte demagogiche. 

Le leadership odierne sono largamente dipendenti dall'uso dei media. In alcuni casi, esse sono il frutto di un sistema dell'informazione che è ormai in grado di rendere popolare un individuo nel giro di poche settimane o mesi. Niente di più facile oggi che convertire il successo nel campo dello spettacolo in un successo politico-elettorale. Le elezioni in Ucraina dell'aprile 2019 - con l'ascesa alla presidenza di un comico che era divenuto celebre per aver recitato in televisione la parte di un cittadino qualunque che quasi per caso diventava Presidente della nazione - sono solo un esempio di un fenomeno che tende a ripetersi con sempre maggiore frequenza. Era già accaduto in Italia con Silvio Berlusconi, in senso lato un uomo di spettacolo. Si è ripetuto con la fondazione del M5S a opera del comico Beppe Grillo.

Ciò significa che senza apparire in televisione ogni giorno, senza una presenza martellante e ossessiva sui media, senza la capacità di saturare o invadere qualunque spazio informativo-comunicativo, si rischiano un immediato oblio e la scomparsa dalla scena. 

Ma questa dipendenza quasi esistenziale dai media implica anche una dipendenza dalle logiche discorsive e dalle modalità d'espressione che sono proprie degli strumenti di comunicazione di massa. Quando si parla in televisione, è cosa nota da decenni, bisogna utilizzare concetti semplici e parole che tutti possono capire. Bisogna essere martellanti e persuasivi: il ritmo è fondamentale. Se ci si sposta sui social media, questi caratteri tendono ad accentuarsi. La semplificazione del linguaggio politico, al limite della sua banalizzazione, è oggi un'esigenza vitale per qualunque leader politico.

Si deve essere veloci, brevi, puntuti, polemici, brutali.

CONSENSO AD OGNI COSTO A ciò si aggiunga che la ricerca del consenso - giorno per giorno, a qualunque prezzo, con qualunque mezzo - è divenuta l'ossessione dei leader contemporanei. Un tempo il consenso dei cittadini serviva per governare. Oggi è il contrario: ogni scelta di governo viene fatta in funzione del consenso mediatico-politico che essa può assicurare. Nessuno si sogna più di prendere decisioni che, sondaggi alla mano, possono risultare impopolari, o che rischiano di far perdere al leader qualche punto percentuale nell'indice di gradimento. I leader si trovano così impegnati in una campagna elettorale permanente, dove alla fine nemmeno contano le scelte che si fanno, ma ci si limita solo a promesse e annunci. 

Tutti questi cambiamenti hanno come conseguenza negativa quella di rendere le leadership delle democrazie potenzialmente sempre più fragili. Un leader che tende forzatamente a presentarsi come un cittadino qualunque, sin dal modo di parlare, alla fine non viene più percepito come il portatore di una specifica competenza, o come un modello da seguire. Un leader poco autorevole è un leader poco credibile, del quale è giusto e normale diffidare.

Occorre poi segnalare la contrazione temporale delle leadership contemporanee. Un capo di partito o di governo, anche quando gode di un grande consenso popolare, tende oggi ad avere una carriera politica breve e spesso effimera. Cicli politici lunghi come quelli che, nel passato più o meno recente, hanno avuto per protagonisti Tony Blair o Angela Merkel, Felipe González o Silvio Berlusconi, Margareth Thatcher, Helmut Kohl o François Mitterrand, nelle democrazie contemporanee sono sempre più delle eccezioni. Le leadership odierne, proprio perché molto condizionate dagli umori popolari (che sono per definizione instabili, cangianti e imprevedibili), tendono a durare sempre meno. Si sale al potere e si scende dal potere con estrema velocità. Si potrebbe dire che i leader contemporanei sono le prime vittime della loro stessa retorica. A furia di invocare il cambiamento a ogni costo e il bisogno di novità, anch' essi finiscono per apparire vecchi e obsoleti nel giro di poco tempo.

Samsara & Santoro. Da Michele il guerrapiattista ai comunisti per Donato: è l’eterno ritorno del ridicolo. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 2 giugno 2022.

Crociata leghista contro Littizzetto che sui referendum fa la parte di Craxi («Italiani, andate al mare»), Rizzo e Ingroia schierati con l’ex leghista no euro, il padre di Samarcanda in difesa di Salvini. A riprova di come nella politica italiana tutto si ripeta infinite volte, tutte in forma di farsa (e questa è la tragedia).

Dovendo riassumere in una frase l’inizio di tutto – l’inizio della fine della Prima Repubblica, l’inizio dell’infatuazione per i referendum elettorali come surrogato della rivoluzione, l’inizio di un modo delirante di costruire crociate sulle parole, ripetendole ossessivamente fino a dimenticarci persino del motivo per cui avevamo deciso d’indignarcene – io, come chiunque abbia qualche memoria degli anni novanta, direi senz’altro la famosissima dichiarazione pronunciata nel 1991 da Bettino Craxi a proposito del referendum sulla preferenza unica: «Italiani, andate al mare».

A riprova di come nella politica italiana tutto si ripeta infinite volte, tutte in forma di farsa – e questa è la tragedia – ieri la Lega ha presentato addirittura un’interrogazione parlamentare perché su Rai tre Luciana Littizzetto, in un monologo satirico, a proposito dei referendum sulla giustizia promossi dalla Lega insieme con i radicali, pensate un po’, ha detto di volersene andare al mare.

La giustizia, i referendum, la Lega, la sinistra, Raitre e pure il mare: ci sarebbe una collana intera di cerchi che si chiudono di cui parlare, ma non ce n’è il tempo, perché la ruota implacabile delle rinascite immaginata da certe filosofie orientali ha raggiunto ormai il parossismo proprio qui e ora.

Ed ecco dunque Michele Santoro, nella sua ultima reincarnazione da pacifista, o per meglio dire da guerrapiattista (geniale definizione che non ricordo più a chi ho rubato, ma chi ritenesse di avere titolo scriva pure alla redazione, sono sicuro che Rocca sarà felice di riconoscervi il dovuto), l’uomo che negli anni novanta su Raitre inventò il populismo televisivo di sinistra (diciamo così), che ora si schiera clamorosamente in difesa di Matteo Salvini e della sua surreale missione moscovita. «Adesso che ha cercato di fare qualcosa per andare incontro alla pace viene massacrato da tutti – dichiara sconsolato il padre di Samarcanda – mancano solo i bombardamenti della Nato su Salvini».

Ad averne la voglia e il tempo, anche su questa nuova fenomenale accoppiata si potrebbero scrivere volumi di sociologia politica e di sociologia della comunicazione, ma la grande ruota gira implacabile, e tocca tenere il passo.

Mentre il Santoro guerrapiattista abbraccia il Salvini pacifista, infatti, c’è già un altro pezzo di sinistra radicale pronto a buttarsi addirittura su Francesca Donato. Per chi si fosse distratto, una specie di Vito Petrocelli del Carroccio, con la differenza che è stata lei, l’europarlamentare no vax, no euro e sì Putin, a lasciare la Lega (del resto, dovessero espellere tutti i parlamentari con tali caratteristiche, ne rimarrebbero ben pochi nella Lega, e Salvini non sarebbe tra questi).

A sostegno della sua candidatura a sindaca di Palermo si è schierato Marco Rizzo, che dopo avere sostenuto il primo e anche il secondo governo Prodi, con il Partito dei comunisti italiani (scissione di Rifondazione comunista consumatasi proprio sulla questione dell’appoggio responsabile al governo di centrosinistra), si è da tempo reincarnato in leader comunista ortodosso, nel senso sovietico del termine. Ma la dichiarazione di sostegno più bella, per Donato, è venuta da un’altra luminosa icona della sinistra, l’ex pm antimafia Antonio Ingroia, uno che per rifondare la sinistra ha fondato e affondato già due o tre partiti (La mossa del cavallo, Rivoluzione civile, Azione civile…). Il padre dell’inchiesta sulla Trattativa Stato-Mafia ha infatti dichiarato di voler formare con l’ex leghista niente di meno che un «fronte costituzionale, popolare e democratico» per costruire «un’opposizione trasversale al sistema oggi rappresentato dal Governo Draghi».

Resta da capire dove sia rappresentato questo sistema, visto che in tv e sui giornali si vedono praticamente solo questo genere di rivoluzionari. Forse sarebbe stato meglio se gli italiani fossero andati al mare nel ’91 (e soprattutto nel ’93), lasciandoci una legge elettorale e un sistema politico certamente pieni di difetti, ma ben lontani da questa continua, interminabile, sfibrante trattativa Stato-Matti

FEUDATARI E MANDARINI, I GATTOPARDI DI STATO. I NEMICI DELLE RIFORME. Ecco chi nell’ombra frena affinché l’Italia non diventi il Paese guida della modernizzazione europea. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud l'1 giugno 2022.

Chi governa si rende conto che il sistema non funziona. C’è chi pensa solo a tenere il potere e chi invece vuole cambiare. Chi vuole cambiare imposta il cambiamento, ma in pratica non te lo fanno fare perché c’è un sistema di tribù e di corporazioni che controllano tutti i colli di bottiglia che bloccano il Paese. Questo sistema ha i suoi feudatari o mandarini di riferimento, fate voi, che agiscono nell’ombra, non sai nemmeno come si chiamano, tirano le file da dietro le quinte, ma controllano tutti i corpi dello Stato o per lo meno hanno la loro rete o comunque sanno farsi sentire. È una specie di oligarchia molto più complessa di quella russa. Stanno dappertutto. Perché feudatari e mandarini di Stato, Regioni e Comuni sanno che se il governo Draghi riesce a smantellare la feudalità delle corporazioni che è il problema storico delle riforme in Italia, loro sono finiti. Perché in Italia, questa è la regola principe del nostro declino, si deve sempre dire che le riforme si fanno, ma non si fanno

C’è un problema reale di un coacervo variegato di soggetti, a volte molto distanti tra di loro, che sta lavorando alle spalle di Draghi che a nostro avviso non ce la farà a raggiungere il suo scopo, ma di cui si parla troppo poco perché questo silenzio non aiuta a capire la posta in gioco e il rischio reale a cui bizzarrie, miopi calcoli elettorali, gelosie, interessi di casta che sono il potere reale e invidie personali diffuse, espongono tutti insieme il Paese.

C’è la mistificazione grillina sull’uso delle armi che si scioglierà come neve al sole ma intanto alimenta ogni forma di pacifismo interno che genera ribellismo e slogan vigliacchi su Draghi tipo “servo degli americani” che punta comunque a indebolire la posizione italiana all’estero. C’è la sceneggiata del viaggio di Salvini in Russia che viola tutti i canoni propri di lealtà e di rispetto delle regole imposti dalla partecipazione a una maggioranza di governo, ma che riesce anche a trovare qualche sponda russa del tipo “speriamo che Salvini venga proprio” che il suo danno lo fa comunque. Si rendono almeno conto questi signori che si sta scherzando con il fuoco?

Perché si indebolisce, anche indirettamente, una leadership che sta facendo finalmente contare l’Italia in Europa e non è vero che in politica estera, come si dice in casa nostra, si rappattuma sempre tutto. Perché non è così. Fin qui siamo all’evidente. Poi c’è qualcosa di meno evidente e qualcosa che si muove dichiaratamente nell’ombra. Questo qualcosa ultimo rappresenta l’insidia maggiore. Ma vi siete resi conto di come aumenta in chiave di politica interna il numero di soggetti che ripetono “non oso pensare che cosa possa succedere da qui al 2024”? Interrogativo che sottintende peraltro un dato assolutamente reale che coincide con il massimo (reale) di incertezza globale visto che siamo davanti a una serie di shock da guerra e pandemia che incidono su inflazione, materie prime energetiche e agricole.

L’insistenza ripetitiva, però, dell’argomento (reale) unita a cenni di partecipazione a seconda dei casi dottrinaria o quasi di tormento fisico personale, mette a nudo le troppe invidie di troppi personaggi che continuano a pensare che dovevano essere loro a salvare il Paese e a loro non piace tanto che sia Draghi. Anche questo tipo di atteggiamento dà il suo contributo. Siamo, infine, arrivati al punto nascosto del problema che riguarda una parte alta dell’amministrazione centrale e territoriale che ha l’atteggiamento di chi è abilissimo a spostarsi di lato in modo quasi impercettibile per cui, a parole, spingono il premier a caricare su riforme e investimenti, ma dentro di sé pensano “così te la faccio pagare perché tu carichi e vai a sbattere sul muro e noi nel frattempo ci siamo spostati di lato”.

Questa parte alta e diffusa dell’amministrazione del Paese non si è resa conto che è cambiato il mondo. Sono dieci-quindicimila persone che si trovavano molto a loro agio con Conte e ora pongono in atto nell’ombra la rivolta dei feudatari, da questo punto di vista i politici che manovrano sono solo gli “utili idioti” nelle loro mani. Perché feudatari e mandarini di Stato, Regioni e Comuni sanno che se il governo Draghi riesce a smantellare la feudalità delle corporazioni che è il problema storico delle riforme in Italia, loro sono finiti. Perché in Italia, questa è la regola principe del nostro declino, si deve sempre dire che le riforme si fanno, ma non si fanno. Ernesto Ragionieri, che era uno storico attento e non c’è più, coniò la frase del riformismo senza riforme di Giolitti, ma la si potrebbe anche considerare una specie di maledizione storica italiana. Perché riguarda quasi tutte le stagioni politiche degli ultimi trent’anni tenendo conto anche qui che le eccezioni ci sono state, ma le hanno fatte sempre durare poco.

Chi governa si rende conto che il sistema non funziona. C’è chi pensa solo a tenere il potere e chi invece vuole cambiare. A quel punto, però, che cosa succede? Che chi vuole cambiare imposta il cambiamento, ma in pratica non te lo fanno fare perché c’è un sistema di tribù e di corporazioni che controllano tutti i colli di bottiglia che bloccano il Paese. Questo sistema ha i suoi feudatari o mandarini di riferimento, fate voi, che agiscono nell’ombra, non sai nemmeno come si chiamano, tirano le file da dietro le quinte, ma controllano tutti i corpi dello Stato o per lo meno hanno la loro rete o comunque sanno farsi sentire. È una specie di oligarchia molto più complessa di quella russa. Stanno dappertutto. Una volta semplicisticamente e riferendosi a una quota riduttiva di questa multiforme galassia li chiamavano boiardi.

Oggi Draghi vuole vincere la scommessa della modernizzazione del Paese e attuare il Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) sia dal lato delle riforme sia dal lato degli investimenti ed è riuscito ad avere con sé la parte più sana e consapevole del tessuto produttivo, sociale e civile del Paese, ma è bene che sappia che lui e i suoi ministri devono fare i conti ogni giorno con questo muro “mobile” di feudatari e mandarini. Perché il “muro mobile” passa da un territorio all’altro e crea piccole e grandi barriere insormontabili. Ma vi rendete conto che cosa succederebbe al Sud se riuscisse davvero ad attuare questa azione di modernizzazione? Se la molla del cambiamento scattasse con il Pnrr proprio in casa nostra, alla fine dell’opera avresti un altro Sud e, quindi, avresti un’altra Italia. Avremmo tutti un’altra amministrazione.

Ricordatevi che il successo in Europa e la credibilità internazionale di Draghi non tranquillizzano ma agitano le lobby mentre noi dobbiamo cambiare nella manifattura come nel fisco, nella concorrenza come nella scuola. Dobbiamo misurarci con gli squilibri territoriali, la produttività, il lavoro, la demografia. Non a parole, ma con i fatti. Dobbiamo misurarci con la sfida del nuovo equilibrio interno. Tutto questo deve cambiare per forza perché è cambiato il livello internazionale, ma i vecchi e i loro eredi dei mandarinati italiani sono terrorizzati e frenano. Demagogia, gelosie, interessi di casta e micro partitici fanno il resto. Con Draghi e l’esperienza del governo di unità nazionale potremo partecipare al cambiamento del sistema internazionale e dire la nostra sul nuovo ordine mondiale, ma ci potremo essere e contare se non rimarremo quello che siamo o, meglio ancora, solo se per una volta per davvero saremo così cambiati da diventare il Paese guida della modernizzazione europea. Volendolo abbiamo tutte le energie e le risorse per esserlo.

Il consenso a tutti i costi. Le promesse a vuoto della politica hanno cancellato la cultura dei doveri. Alberto Brambilla su L'Inkiesta il 2 giugno 2022.

L’elettorato italiano, viziato da regalie e bonus, è spinto verso l’insoddisfazione, la rabbia, il populismo e la ricerca di un «partito messia». Come spiega Alberto Brambilla nel suo ultimo libro (Guerini), la risposta dei cittadini è l’infedeltà alle urne. E il risultato è disastroso.

Nonostante siano ormai chiari gli errori del passato e i relativi costi in termini di debito pubblico e mancata crescita, le proposte di politici e sindacati, soprattutto in questi ultimi anni, non sono cambiate; neppure oggi, alla fine del 2021, a fronte dell’enorme debito pubblico accumulato per arginare gli effetti della crisi pandemica. Come abbiamo detto, se osserviamo le dichiarazioni di politici, sindacalisti, giornalisti e religiosi, la parola più usata in questi ultimi anni è «diritti», seguita da «lotta alle disuguaglianze», «non lasceremo indietro nessuno» ed «eliminare la povertà» (copyright del M5S); la parola meno usata è «doveri». Eppure, se ci riflettiamo bene, non possono esistere i diritti senza i doveri.

La conferma sta nella Dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell’uomo adottata nell’aprile del 1948, in cui nei 37 articoli, accanto a un elenco dei diritti, civili e politici, economici, sociali e culturali, delle persone, è inserito in modo speculare un elenco dei doveri che le stesse hanno nei confronti dei propri simili e della società; nel testo si specifica che «L’adempimento del dovere per ogni individuo è un prerequisito per i diritti di tutti. Diritti e doveri sono interrelati in ogni attività sociale e politica dell’uomo. Mentre i diritti esaltano la libertà individuale, i doveri esprimono la dignità di quella libertà».

È il dovere di cui parla, in un documento che presenta ancor oggi tutta la sua attualità, Giuseppe Mazzini nel suo Doveri dell’uomo dell’aprile del 18603:

La cultura del diritto ha generato uomini che si sono impegnati nel miglioramento della propria condizione senza provvedere a quella degli altri; in conseguenza della teoria dei Diritti, gli uomini, privati di una credenza comune, calpestano le teste dei loro fratelli… È dunque una questione di educazione: Educazione a un principio: il Dovere. Attraverso l’educazione al Dovere si può arrivare a comprendere che lo scopo della vita non è quello di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori. Questo non vuol dire rinunciare ai diritti, bensì arrivare al loro raggiungimento attraverso la pratica dei Doveri. Quando udite dire dagli uomini che predicano un cambiamento sociale che lo fanno per accrescere i vostri diritti, è opportuno diffidare della proposta perché loro conoscono i mali che vi affliggono e la loro condizione di privilegio giudica quei mali come una triste necessità dell’ordine sociale; per questo lasciano la cura dei rimedi alle generazioni che verranno. 

È di 159 anni fa ma sembra un testo scritto oggi in risposta ai governi che si sono succeduti in questi ultimi anni, che hanno parlato solo di diritti e non di doveri, fatto una quantità di promesse che sono sfociate, come vedremo, in una spesa sociale per assistenza enorme e insostenibile, e molto spesso la mancanza di diritti non dipende da cause economiche ma è causata da quelli che non fanno il proprio dovere e che hanno un elevato livello di povertà educativa e sociale e di incapacità ad assumersi responsabilità. Questa povertà sfocia inevitabilmente in povertà economica e purtroppo in mancati diritti o privazioni dei bambini spesso causati dai loro genitori. Questo è il problema più grave che attanaglia il nostro Stato e non si risolve distribuendo sussidi a destra e a manca ma facendo migliore istruzione e più cultura dei doveri e delle responsabilità.

Invece, la classe politica italiana, probabilmente senza essere conscia degli effetti pericolosi del suo operato, con le continue promesse e parlando solo di diritti, sta trasformando il sentimento collettivo della maggioranza dei cittadini verso l’insoddisfazione, la rabbia, il populismo e la ricerca continua di un «partito messia» che possa migliorare la loro situazione, straordinariamente ottima se confrontata con la maggior parte dei Paesi mondiali ma pessima agli occhi di un popolo cui si predicano solo diritti. L’impegno di tutti dovrebbe essere quello di indicare a fronte di ciascun diritto il dovere equivalente; non promettere solo soldi o prestazioni assistenziali ma dare educazione e senso dello Stato. Aumenterebbero i diritti, si ridurrebbe la spesa e sarebbe una società migliore; invece, la politica preferisce la scorciatoia degli annunci, della spesa facile e la ricerca a tutti i costi del consenso immediato.

E come ha risposto il popolo degli elettori? Con un’infedeltà elettorale su cui questi politici dovrebbero riflettere. E così dopo i lunghi anni, dal 1996 al 2011, del bipolarismo Prodi-Berlusconi, i cittadini hanno cercato spasmodicamente un leader che desse loro quello che, spesso e in modo mendace o inconsapevole dei rischi, la politica definisce «le risposte che gli italiani si meritano», indicando così una specie di risarcimento per diritti non riscossi ma che in realtà sono del tutto inesistenti; e questo promesso risarcimento i cittadini se lo aspettano e se non arriva cambiano cavallo.

Dopo il titubante governo di Enrico Letta che è durato 9 mesi e 25 giorni (dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014), ecco la travolgente avanzata del PD di Renzi che raggiunse alle elezioni europee del maggio del 2014 un consenso del 40%; il governo guidato da Matteo Renzi si dimise il 7 dicembre 2016 con un PD in forte calo di consensi, e questo nonostante avesse introdotto il bonus giovani da 500 euro, agevolazioni contributive per oltre 10 miliardi per le assunzioni e soprattutto il bonus da 80 euro che porta il suo nome e che costa al Paese circa 10 miliardi l’anno dal 2016. Insomma, una montagna di soldi che però non ha soddisfatto le brame del popolo che in un’indagine di quei mesi giudicava il nostro servizio sanitario nazionale «insufficiente».

Un popolo cattivo e severo? No, solo una popolazione a cui hai promesso la luna e che quindi è insoddisfatta anche di uno dei migliori sistemi sanitari mondiali, peraltro totalmente gratuito nel senso che per garantire la sanità a circa il 60% dei cittadini che non pagano quasi nulla di IRPEF, il restante 40% deve sborsare 54 miliardi ogni anno, oltre naturalmente a pagarsi la propria quota sanitaria.

Dopo il governo-ponte di Gentiloni (dal 2 dicembre 2016 al 1° giugno 2018) durato 1 anno, 5 mesi e 20 giorni, l’assetato popolo dei diritti e dei bonus si invaghisce di chi promette un reddito certo per tutti e un posto fisso per tutti (il decreto dignità), incurante del fatto che il debito pubblico sia aumentato al 132,08% del PIL. È un plebiscito in Sicilia e un enorme successo a livello nazionale con oltre il 34% di share; il maggior partito in Parlamento che conquista anche Roma e Torino. I governi Conte I e II saranno un disastro, come vedremo tra breve, per la povera Italia nella lotta al COVID-19. Tuttavia, nonostante i pesanti effetti della pandemia da SARS-CoV-2, le promesse dei capi e capetti di tutti i partiti si moltiplicano e con esse la rabbia degli italiani che insoddisfatti voltano le spalle al M5S in meno di un anno e mezzo (Renzi era durato almeno tre anni e Berlusconi, nei suoi ultimi due governi, oltre nove) e si innamorano della Lega di Salvini che tra Quota 100, cancellazione e rottamazione delle cartelle esattoriali (leggasi condono), alle europee del 2019 raggiunge il 37% di consensi, meno di 3 punti dal record Renzi.

Le promesse continuano e sono talmente tante e insostenibili finanziariamente che buona parte di esse non viene mantenuta, aumentando così il rancore degli italiani verso la politica. Così cala nei sondaggi anche Salvini, che già nel 2021 è intorno al 17%, un dimezzamento come per Renzi, e sale l’innamoramento per «io sono Giorgia»; la Meloni con una serie di richieste molto popolari raggiunge e supera la Lega anche se di poco, scatenando la bagarre nel centrodestra a chi la spara più grossa in termini di promesse, con la posta in palio che chi ha più consensi diverrà presidente del Consiglio. In uno sprazzo di realismo, alla domanda del direttore de La Stampa Massimo Giannini: «Senta, siamo sinceri, ma se Draghi va a fare il presidente della Repubblica poi a chi dà l’incarico di fare il nuovo governo? A Salvini? Alla Meloni?», la risposta di Berlusconi è stata: «Ma dai, non scherziamo», una frase che è tutto un programma, anzi un dramma per l’Italia.

Complice il SARS-CoV-2, il debito sale al 153%. Il 13 febbraio al Conte II subentra il governo Draghi anche per la totale incompetenza di Conte, l’uomo che il 27 gennaio 2020 dichiarava che «l’Italia è prontissima a fronteggiare l’emergenza virus avendo adottato misure cautelative all’avanguardia»; meno di un mese dopo lotteremo tutti a mani nude e senza protezioni con migliaia di morti, diventando uno dei tre peggiori Paesi tra i principali trenta nell’affrontare la crisi e con le salme trasportate dai camion dell’esercito. Per molto meno si sono dimessi fior di capi di Stato.

Oggi, nonostante i 159 miliardi di nuovo debito accumulato nel 2020 per cassa integrazione, NASpI, DIS-COLL, Reddito o pensione di Cittadinanza e di emergenza, bonus di ogni genere e i circa 137 miliardi di nuovo debito 2021, i partiti veleggiano tutti sotto il 20%; il M5S nonostante l’invenzione del Reddito di Cittadinanza che ha regalato soldi a oltre 3,8 milioni di persone, nonostante il «decreto dignità» che di questa parola non ha nulla, nonostante la follia del superbonus del 110% (inesistente in qualsiasi altro Paese), il cashback e altre elargizioni, arriva malamente al 16% dei consensi.

da “Il consenso a tutti i costi. Quando la politica promette, il cittadino deve sempre chiedere: chi paga?”, di Alberto Brambilla, Guerini e associati, 2022, pagine 304, euro 18,50

Candidati alle elezioni: trasformisti, condannati e negazionisti: l’elettore sapeva, ma li ha votati lo stesso. Milena Gabanelli e Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2022.

Ci sono volte in cui l’elettore viene tradito dall’eletto per cui ha espresso una preferenza, o dal partito che l’ha candidato, quando ormai è troppo tardi: succede di fronte ai cambi di casacca in corso di legislatura, ai tradimenti dei valori o del programma elettorale, alle condanne passate in giudicato. In questi casi all’elettore ferito non resta che rifarsi al prossimo appuntamento con le urne. Ma ci sono anche volte in cui l’elettore non può che prendersela con sé stesso. Tutte le volte in cui sapeva prima del voto delle criticità relative ad alcuni candidati, eppure li ha votati lo stesso, mandandoli alla Camera e al Senato.

Il caso Dessì, il ritiro promesso e mai avvenuto

Alle ultime elezioni del 2018, quelle che hanno espresso i deputati e i senatori tuttora in carica, c’erano delle situazioni «al limite» su cui gli elettori hanno deciso di sorvolare. Sono casi che riguardano non tutti i partiti ma la maggior parte. Sabato 3 febbraio 2018, l’allora capo politico del M5S Luigi di Maio consegna ai cronisti queste frasi: «Ho sentito Emanuele Dessì oggi e abbiamo prima di tutto convenuto che è incensurato, non è un impresentabile, ma lui stesso ha convenuto con grande senso di responsabilità che continuare a farsi strumentalizzare per attaccare il M5S non ha senso, quindi mi ha dichiarato la sua volontà di rinunciare alla sua candidatura e ha rinunciato alla sua eventuale elezione in Parlamento». Siamo nel pieno di una bufera sulle liste elettorali del Movimento Cinquestelle e a un mese esatto dalle elezioni politiche. Di di Dessì – candidato al numero 2 della lista proporzionale del Movimento nella circoscrizione Lazio 3 – si parla e si scrive ovunque per un vecchio video che lo ritrae insieme a un esponente del clan Spada di Ostia, per un vecchio post su Facebook in cui si era vantato di aver menato un rumeno che l’aveva insultato nella sua lingua (sua del rumeno), e del fatto che paga una manciata di euro d’affitto su una casa popolare che gli è stata assegnata. Ebbene, a dispetto delle promesse - sue a Di Maio e di Di Maio agli elettori - non ha rinunciato alla sua candidatura e men che meno all’elezione. Quattro anni dopo, Dessì siede a Palazzo Madama. Non sta più nei Cinquestelle, è diventato espressione del rinato Partito comunista, e il 21 marzo scorso si è rifiutato di ascoltare l’intervento di Zelensky in Parlamento. 

I taroccatori di bonifici: Cecconi, Martelli e Buccarella

Dessì non è l’unico caso, e forse neanche il più grave, di parlamentare eletto nonostante criticità che erano emerse non a legislatura in corso, quando ormai era troppo tardi; bensì prima, quando si poteva scegliere. Perché a dispetto della vulgata, con la legge elettorale in vigore il cittadino può ancora decidere, forzando la volontà dei partiti: non votando un candidato che ritiene «impresentabile» all’uninominale, non votando liste che contengono nomi di candidati «impresentabili» soprattutto quando gli stessi figurano ai primi posti e sono facilmente eleggibili. Quasi cinquantamila elettori del collegio uninominale Marche 6 alle ultime elezioni hanno visto stampato sulla scheda elettorale il nome del Cinquestelle della prima ora Andrea Cecconi, e hanno messo una croce sul suo nome pur avendo appena scoperto (l’inchiesta era de Le Iene) che falsificava i bonifici con le restituzioni – destinate, come da promessa elettorale, all’ente per il microcredito – di parte dello stipendio. Forse si sono fidati dell’ennesimo giuramento di Cecconi, che una volta sorpreso aveva dichiarato «di rinunciare alla mia elezione, visto che il 4 marzo del 2018 cederò il passo e andranno avanti gli altri candidati che trovate nel listino». Cecconi non ha rinunciato ad un bel niente, e oggi è ancora alla Camera, anche se fuori dal gruppo Cinquestelle, da cui è stato espulso (ha traslocato nel Gruppo Misto). Lo stesso vale per altri candidati del Movimento scoperti a rendicontare bonifici di restituzione poi annullati nell’arco di tempo in cui è possibile farlo, cioè ventiquattr’ore. Tutti eletti, tutti siedono ancora in Parlamento, anche se hanno trovato riparo sotto altri tetti: Carlo Martelli (era capolista al Senato nella circoscrizione Piemonte 2, impossibile che non venisse eletto) oggi sta con ItalExit di Gianluigi Paragone; Maurizio Buccarella (capolista al Senato nella circoscrizione Puglia 2, come sopra) ha trovato ospitalità nella componente Leu del Gruppo Misto. 

Le candidate anti-scienza: Ciprini e Cunial

Tiziana Ciprini (Collegio plurinominale Umbria, posto in lista numero 1, Movimento Cinquestelle) è stata confermata nel 2018 alla Camera dopo aver avanzato dubbi sul prestigio scientifico di Umberto Veronesi («Da lui non mi farei mai fare una mammografia») e sull’efficacia della chemioterapia contro cancro («Mi chiedo se sia veramente efficace, spesso dopo cinque anni c’è la morte, altri invece si salvano»). A Sara Cunial, di professione imprenditrice agricola, che a gennaio 2018 dichiara «i vaccini ai bambini? Un Genocidio gratuito», i Cinquestelle avevano riservato due posti (Plurinominale Veneto 2 e secondo collegio uninominale Veneto 2, sempre alla Camera) perché potesse mantener fede a Montecitorio al suo approccio anti-scientifico. Si è poi guadagnata l’espulsione dal gruppo, per finire addirittura citata in giudizio per oltraggio e minaccia a pubblico ufficiale a seguito di una manifestazione contro le misure anti Covid-19. Oggi alloggia nel Gruppo Misto. Le sue posizioni erano ben note all’elettorato, dunque, prima del voto del 2018.

Dopo le sentenze: Colla, Cecchetti e Sciascia

Ben 54.226 residenti del settimo collegio uninominale Lombardia 1 hanno messo, alle elezioni del 2018, la crocetta sul nome del leghista Jari Colla, che tre anni prima aveva restituito 36.657 euro e 30 centesimi di rimborsi che la Corte dei Conti aveva giudicato «non legati » alla sua attività di consigliere regionale della Lombardia, di cui oltre trentamila di soli ristoranti in soli due anni (2008-2010): eletto alla Camera. La condanna (1 anno e 8 mesi con pena sospesa e nessuna menzione) è arrivata solo nel 2019, la stessa del capogruppo al Senato della Lega Massimiliano Romeo; ma nel caso di Colla così come in quello di Fabrizio Cecchetti (collegio 4 della circoscrizione Lombardia 1, capolista, soldi restituiti 49mila euro), vista la sentenza della Corte dei Conti, l’elettore aveva avuto la possibilità di farsi un’idea già prima del voto. Come anche su Salvatore Sciascia (Forza Italia), condannato in via definitiva per corruzione nel 2001 (riabilitato nel 2005), rieletto in Senato nel 2018 grazie a oltre 110mila voti del collegio uninominale Lombardia 3. 

I trasformisti e il segregazionista: Labriola, Caiata e Paolini

Gli elettori berlusconiani della Pugliahanno premiato invece Vincenza Labriola, secondo posto in lista nel proporzionale (circoscrizione Puglia 3). Nel 2013, appena eletta alla Camera nelle liste del M5S manifesta il suo pensiero: «con Berlusconi l’Italia è nel Medioevo». Pochi mesi dopo lascia il Movimento ed entra nel Gruppo Misto, per uscirne nel 2017 con una certezza: «sto con Berlusconi per rilanciare Taranto, siamo noi il vero cambiamento». Il candidato dal Movimento Cinquestelle Salvatore Caiata veniva dal Pdl, ma – pur sapendolo – i 60.706 elettori lucani hanno comunque espresso una preferenza per mandarlo a Montecitorio. Non si meraviglieranno se oggi siede tra i banchi di Fratelli d’Italia. 

Rimane saldamente a destra Luca Paolini della Lega. Prima delle elezioni del 2018 aveva suggerito alle Società di Trasporto concessionarie «di prendere esempio dalla Alabama o Mississippi degli anni 50 e riservare alcuni posti a bianchi, anziani e italiani affinché possano viaggiare seduti, dopo aver pagato il biglietto». La segregazione è vietata dal ‘56 in Alabama, e la discriminazione razziale dall’art 3 della nostra Costituzione. Ma agli elettori della Lega della Circoscrizione Marche 2, l’idea deve essere piaciuta visto che hanno barrato il simbolo della lista in cui era capolista. E l’hanno eletto alla Camera.

Il giusto pensiero. Giorgio Armillei e le moltitudini della politica raccolte in un libro. Antonio Preiti su L'Inkiesta il 27 maggio 2022.  

Il volume “La forza mite del riformismo” (il Mulino) conserva gli scritti di uno degli intellettuali più importanti del cattolicesimo riformista, in grado di cogliere in anticipo le direzioni della società e le sue evoluzioni e favorevole a una visione poliarchica della realtà.

«Giorgio, tu vorresti un partito d’ispirazione cattolica non integralista; che poi sia anche democratico, ma senza le eredità marxiste; e anche liberale, perché sei contro lo statalismo. Sai che con l’intersezione di queste aree è persino difficile arrivare all’1%?». E lui, con la sua calma serafica, con un lampo negli occhi, e il lieve sorriso da un lato, che accompagnava ogni sua discussione, quasi che forza interiore e forza nella ragione fossero una cosa sola, mi risponde: «No, questa è la base di un partito che arriva oltre il 50%: non devi separare, ma aggiungere». Non ne rimasi convinto, ma quell’idea ha lavorato come un tarlo, e oggi mi porta a dire che sì, Giorgio Armillei aveva ragione.

Giorgio aveva un approccio sistematico e tuttavia non ha mai scritto un saggio sulle sue concezioni politiche, forse per innata modestia; forse perché amava il lavoro sulle piccole cose (brevi articoli, brevi saggi, lavoro comunitario con piccoli gruppi di persone) o ancora, perché ha sempre creduto che il dovere di una persona che lavora nella politica è stare sul tema del giorno, partendo da un singolo evento per risalire poi alle ragioni più generali entro cui quell’evento si inscrive. Era sistematico Giorgio, ma condensava tutto in poche righe. Era tutto lì, raccolto in poche frasi e in grandi concetti, bastava dedicargli attenzione. Profondità e asciuttezza, analisi e sintesi tutto nella brevità del testo.

Adesso che Il Mulino pubblica una selezione dei suoi scritti, in un volume curato da Stefano Ceccanti e Isabella Nespoli, possiamo vedere con più luce la sua grandezza di analista e la sua leadership di pensiero. Il titolo, “La forza mite del riformismo”, riconduce a unità la mitezza personale e la mitezza del riformismo, ma può trarre in inganno, perché alla mitezza di Giorgio si accompagna sempre la radicalità delle sue idee, non perché siano radicali in sé, ma per l’estrema coerenza e convinzione con cui le ha sempre manifestate. Una mitezza del carattere e una straordinaria integrità delle sue posizioni politiche. Mitezza e integrità: ecco la chimica della sua personalità.

Come si può proporre la “summa” del partito che aveva in mente Armillei, e che di tratto in tratto ha coinciso con la leadership Pd del momento, senza mai esaurirsi in essa? Detto in altre parole: perché è interessante quello che scrive? La frase chiave da cui iniziare è, «non credo nella politica come una guardiana della società giusta, come unica custode del bene comune. Questa visione della politica conduce alla ricerca spasmodica di un potere e di un ordine e alla inevitabile riduzione ad unità dei conflitti».

Per Armillei la politica contribuisce, insieme al mercato, all’associazionismo, alla religione e altre innumerevoli sfere sociali, in competizione e in conflitto tra loro, allo sviluppo dei diritti e delle opportunità, ma non ha il monopolio della dimensione collettiva. Rifiuta in sostanza la visione piramidale secondo cui alla base c’è la società civile, sopra la società c’è la politica e sopra la politica c’è lo Stato. Questa piramide è l’immagine della società chiusa, compressa, in cui alla fine tutto passa attraverso lo Stato e lo Stato determina la vita delle persone. Per un cattolico c’è il primato della persona umana; per un democratico c’è la libera partecipazione a scegliere da chi e come essere governato; per un liberale c’è l’assunzione della libertà come bene indivisibile.

Sapendo che «non c’è da qualche parte, là fuori, un ordine giusto con il quale salvarci dal male». Perciò la politica è essenziale per lo sviluppo della qualità della vita, ma è un’illusione che possa cancellare la dimensione, sovraordinata rispetto alla politica, del male. Non c’è un mondo ideale che la politica possa avverare, ma un mondo reale che la politica può migliorare.

Per questa ragione Armillei crede che l’asse tradizionale dello scontro destra-sinistra sia in gran parte superato, semmai bisogna contrapporre a quello schema l’opposizione tra società chiusa e società aperta (secondo le migliori tradizionali anglosassoni e in Italia di Sturzo e De Gasperi); tra unionismo e sovranismo, dove il primo termine (e lo spiega in maniera perfetta Sergio Fabbrini, commentando nel medesimo volume i testi di Armillei) significa la costruzione dell’Europa politica (e anche in questo caso si tratta di un Europa che bilanci i poteri nelle sue varie dimensioni territoriali, non di un nuovo statalismo con una superficie più ampia). Il terzo asse dello scontro è tra pluralismo e populismo, dove il primo termine ha un senso molto ampio, come presenza di culture diverse, impostazioni filosofiche molteplici, ruolo pubblico della religione, conflitto aperto per l’egemonia culturale, mentre il populismo indica solo la riduzione di ogni cosa (politica, società, stato) a un solo capo e al “suo” popolo indistinto.

Anche rispetto alla socialdemocrazia Armillei ha una posizione critica (o meglio conviene sulla necessità del suo superamento) perché la sussidiarietà nasce in un orizzonte pluralistico, esprime la precedenza dei diritti della persona rispetto allo Stato, ma poi la socialdemocrazia finisce inesorabilmente con l’affidare allo Stato il soddisfacimento di quei diritti. Secondo Armillei, la dimensione pubblica non coincide con lo Stato: anche attori privati possono (anzi, debbono) svolgere un ruolo pubblico, «né allo Stato è chiesto di ridurre a unità il molteplice». Sembra dire che lo Stato non è sacro, ma è la persona che è sacra. Quale modernità nella semplice affermazione che dove c’è il bene comune, non necessariamente ci dev’essere lo Stato. La sua opzione è a favore della poliarchia, una visione della società nella quale la politica è forte, cioè capace di decidere (su questo non ha dubbi: la democrazia serve per rappresentare ma, soprattutto per decidere, cioè per governare) ma limitata, cioè priva di ogni sovranità sulle altre sfere sociali.

In questa visione aperta Armillei vede lo stesso termine di “bene comune” non abbastanza esplicativo della nuova modernità e perciò meglio dirlo al plurale, beni comuni, da pensare in termini di «differenziazioni incomprimibili piuttosto che in termini di ricapitolazione unitaria». In questa logica, scrive Armillei, anche i soggetti privati, «anche quelli che operano in una logica di mercato, possono svolgere funzioni di rilievo pubblico e curare interessi di carattere generale». Quale modernità, quale ampiezza di pensiero e quale respiro liberale per un autore che, comunque, ha sempre in mente la priorità della dimensione sociale, collettiva delle cose e non quella privatistica.

E la politica? Anche qui la sua modernità è clamorosa. Come si può concepire la politica che, dopo essersi data i limiti prima indicati, agisca davvero per lo sviluppo della democrazia? Avevamo i partiti, scrive Armillei, che in una società ignorante servivano per socializzare, per costruire la dimensione politica dello stare assieme. (Ricordiamo che per alcuni anni in Italia il numero degli iscritti ai partiti superava i cinque milioni, cioè circa il 10% della popolazione “faceva politica”). 

Ma oggi, in una società strapiena di informazione, dove i canali di partecipazione al dibattito pubblico sono infiniti, e le organizzazioni politiche sono ridotte all’osso, e spesso senza nessun dibattito interno, e alcune governate autocraticamente, a cosa servono i partiti? Armillei risponde: servono a fare i governi, cioè a creare un sistema di selezione della classe dirigente; però «per riformare i partiti occorre intervenire sulla forma di governo». Su questo la sua convinzione è che c’è una “pulizia” del sistema che bisogna avverare, e lo si fa ancorando ogni tipo di elezione al principio del “Majority assuring”, cioè che ogni livello di governo deve essere conquistato attraverso il voto della maggioranza della popolazione, come avviene per l’elezione dei sindaci. Da qui la sua propensione verso un sistema semipresidenziale. È la moralità del meccanismo elettorale che determina (o induce, o influenza) la moralità del sistema. Quando chiunque sia candidato a una carica deve conquistare la maggioranza degli elettori, è indotto a sfuggire dagli estremismi, da concezioni minoritarie identitarie e dalla semplice somma di specifici interessi. Non è detto che sia tutte le volte così, nessuno può assicurare che sia certamente così, ma l’obbligo della maggioranza inclina, aumenta le probabilità che sia così.

Volete ancora una prova della lungimiranza di Giorgio Armillei? Nel volume c’è un suo articolo dell’aprile del 2014 a commento dell’annessione di Putin della Crimea. Scriveva che «c’è bisogno di reclamare una posizione energica sulla crisi ucraina» e aggiungeva: «cedere sperando di portare a casa buoni risultati su altri tavoli negoziali (la Siria, nda), immaginando un più ampio gioco nel quale tutti guadagnano qualcosa, non sembra realistico».

Lo stiamo vedendo oggi quanto non fosse realistico, perché la mancata risposta a quell’annessione ci ha portato all’invasione del 24 febbraio scorso. In quello stesso articolo criticava Blair, di cui pure aveva apprezzato il lavoro di trasformazione del Labour Party, perché Blair era disposto a riconoscere il ruolo della Russia nel Medio Oriente, perché così, scrive Armillei, «si sottovalutano pesantemente i rischi del nazionalismo russo sullo scacchiere dell’Est europea». Nazionalismo russo! Non c’è che da rimanere ammirati per tanta lucidità.

E già vedeva il “rischio neutralista” nelle posizioni di Federica Mogherini, al tempo ministro degli Esteri, «che sarebbe difficile non catalogare come andreottiana, secondo la quale non ci sarebbero buoni e cattivi, ma solo situazioni complesse nelle quali cercare l’interesse comune, cioè la possibilità di mettere in piedi giochi win-win». Scriveva Armillei, che «dal neutralismo pacifista si può guarire, basta coglierne tempestivamente i sintomi e scegliere la terapia giusta». Evidentemente né i primi, né la seconda sono stati perseguiti, e ci ritroviamo otto anni dopo (quasi) con la stessa storia.

Non si delinea da queste idee, rigorose, ma di buon senso; coerenti, ma aperte; intransigenti ma inclusive, un partito che raccolga la simpatia della metà della popolazione italiana? Forse sì, forse no. Certo si può dire per Giorgio quello che Walt Whitman diceva di sé (Song of myself) e della democrazia americana: «Mi contraddico? Benissimo, mi contraddico; sono grande, contengo moltitudini». Se abbiamo gli occhi fissi alle posizioni politiche paralizzate e pigre, vediamo tutte le contraddizioni o le impossibili addizioni, ma se seguiamo il suo spirito e il suo pensiero, vediamo solo moltitudini che si uniscono senza perdere, nessuno, la propria ragione di stare al mondo.

L'epica del Giro che svelava la vera identità italiana. Andrea Muratore il 10 Maggio 2022 su Il Giornale.

Curzio Malaparte in "Coppi e Bartali" raccontò nell'Italia postbellica la rinascita del Paese sulle tracce della rivalità tra i due campioni del ciclismo sulle strade del Giro.  

Gino Bartali, Fausto Coppi e un dualismo rimasto nella storia fino ai giorni nostri, a simboleggiare le diverse anime dell'Italia della Ricostruzione: "Se Bartali è più uomo, Coppi è più sportivo", scriveva Curzio Malaparte nel suo racconto dell'Italia postbellica condotto con le lenti della rivalità sportiva più celebre del tempo. Bartali e Coppi pedalavano sulle strade di un Giro d'Italia divenuto, dal 1946, tra i simboli della ritrovata unità dell'Italia nata dalla Resistenza. Un Giro che affascinò Indro Montanelli, per diverse edizioni intento a seguirne la carovana, e stregò Malaparte, che nel suo Coppi e Bartali, traduzione italiana di un saggio pubblicato nel 1949 dalla rivista francese Sport Digest (Le deux visages de l’Italie: Coppi e Bartali), costruì un racconto del Paese nell'era repubblicana partendo da un dualismo noto anche all'estero.

"Democristiano" Bartali, "comunista" Coppi, secondo la vulgata dell'epoca. Ma per Malaparte questo dualismo è riduttivo. In Bartali e Coppi Malaparte vedeva due anime complementari del nostro Paese, due figli di due diverse province d'Italia capaci di portare un comune contributo alla riconciliazione nazionale. "Bartali appartiene a coloro che credono alle tradizioni e alla loro immutabilità, Coppi a coloro che credono al progresso", notava Malaparte, "Gino è con chi crede al dogma, Fausto con chi lo rifiuta, nella fede, nello sport e nella politica così come in ogni altro ambito". Il primo uomo dell'Ottocento nato per pedalare, il secondo uomo del suo tempo e atleta del Duemila in anticipo, per la cura spasmodica al dettaglio, ai particolari, alla preparazione atletica. E ancora, "Bartali crede all'aldilà, al paradiso, alla redenzione, alla resurrezione, a tutto ciò che costituisce l'essenza della fede cattolica" è per Malaparte come Montanelli il De Gasperi della carovana rosa, mentre "Coppi è un razionalista, un cartesiano, uno spirito scettico, un uomo pieno di ironia e di dubbi che confida solo in se stesso, nei propri muscoli, nei polmoni, nella buona sorte".

Per Malaparte Ginettaccio è un uomo nel senso antico e metafisico della parola, mentre Coppi è un meccanico, attento alla messa a punto del suo corpo-macchina. L'Italia che procedeva verso il boom economico tra tradizione e innovazione in larga misura scelse di fermarsi all'artigianato: in campo economico, con i distretti industriali; in campo sociale, con il placido rifugiarsi delle comunità all'ombra delle parrocchie e delle Case del Popolo; in campo sportivo, riscoprendo l'unità per mezzo della bicicletta ben prima che attraverso l'automobile e le grandi infrastrutture. Un'Italia che si trovava su più fusi orari storici, come sottolineato da Malaparte: "Mentre Bartali è passato dall'aratro alla bicicletta, Coppi, quando ha sposato la bicicletta, aveva già ripudiato la terra. Bartali è figlio di una zona della Toscana che è rimasta contadina, Coppi di una zona del Piemonte in cui il contadino appariva già tinto di spirito proletario".

E del resto l'Italia del tempo presentava molti dualismi di questo tipo. Dualismi che non sempre erano nati sulla scia di rivalità o competizioni, ma è difficile non vedere in fin dei conti in letture come quella di Malaparte (o Montanelli) dell'epica del ciclismo e dei suoi protagonisti la spasmodica ricerca di punti di riferimento capaci di identificare l'Italia con la rinascita figlia della fatica e dell'operosità. Come se fosse certo che, come ha scritto Contrasti, "nel susseguirsi di vittorie e sconfitte, trionfi e delusioni tra questi due titani della bicicletta, non possono che ritrovarsi le vicende umane, delle generazioni e dei popoli. Forse, come già Pindaro millenni prima, in questi atleti egli ritrova l’incarnazione della sofferta corsa degli uomini verso la pace, la libertà e la felicità". Una corsa paragonata a quella di un Paese intero che col duro lavoro sarebbe, proprio a partire dalla provincia, rinato dopo la distruzione bellica. La provincia, che è la vera natura dell’Italia, il liceo severissimo in cui la classe dirigente del Paese in ricostruzione si era formata (si pensi a Alcide De Gasperi, Enrico Mattei, Giorgio La Pira), era anche l'habitat naturale della rivalità Coppi-Bartali. Snodatasi per sentieri alpini ed appenninici, borghi e centri isolati nelle tappe lontane dalle grandi città. Capaci di ricondurre a unità un Italia figlia della sua anima più profonda, quella della particolarità, che nel sudore dei "girini" e nella dialettica tra campioni si riconosceva. Nel giorno in cui parte il Giro d'Italia, le parole di Malaparte parlano anche all'Italia della nuova Ricostruzione post-pandemica.

Altri fascismi. Il riflesso illiberale è ormai diffuso nella politica e società italiana. Iuri Maria Prado u L'Inkiesta il 16 Marzo 2022.

C’è un atteggiamento autoritario e costituzionalmente antidemocratico sempre più dilagante nel nostro paese: dai magistrati combattenti per la causa dei centottanta giorni di ferie, agli economisti in monopattino, fino alla carovana di sgherri della politica dell’onestà.

C’erano pochi fascisti tra i democristiani. Pochissimi presso i liberali e i repubblicani. Alcuni tra i socialisti. Moltissimi tra i comunisti.

Oggi – e in questo senso avrebbe ragione chi denunciasse il pericolo di un risorgimento neofascista, se non sbagliasse nel vederlo unicamente presso qualche sparuto raggruppamento di teste rasate – oggi, dicevo, la presenza fascista è dilagata.

Lo zoccolo duro del fascismo italiano, cioè quello di stampo comunista, è sempre lì, tuttavia adornato dai multiformi aloni progressisti ineducati alla pregressa ortodossia ma perciò anche più disponibili e propensi al riflesso illiberale, autoritario e costituzionalmente antidemocratico che nel Partito comunista italiano si presentava col vestimento triste del gerarca, nell’oscenità uniformata degli Alessandro Natta, dei Pietro Ingrao, degli Enrico Berlinguer, dei Massimo D’Alema in versione pre-parvenu, mentre nel milieu spensierato e facilone di adesso sboccia bello bello nello splendido quarantenne con zainetto e completino da commercialista la versione erasmus del ragioniere anni ’50, solo più ignorante.

E sboccia anche nella trasognatezza della post-massaia inviata sul fronte del giornalismo da trincea, la trincea dell’impegno in tinello nell’attesa di uscirne migliori, dei professorucci con zazzera da Antonio Gramsci post-atomico, degli architetti da bosco verticale, dei magistrati combattenti per la causa dei centottanta giorni di ferie, dei designer con consulenza ministeriale, dei reggisti con due g, degli attori con sussidio ATAC, degli economisti col trolley, tutti felici felici di implotonarsi sulla scena dell’Italia unita contro l’odio e presidiata da tanta bella galera democratica per chi non canta dal balcone, statisticamente abusivo, che le tasse sono bellissime, che la Repubblica fondata su Sanremo e sul PNRR è la più gajarda de tutte e che Sergio Mattarella è il punto di riferimento fortissimo di tutti i doveri morali.

Poi c’è il rincalzo falangista della piazza del vaffanculo, lo squadrismo degli schedatori e degli schedati della Casaleggio Associati, la carovana di sgherri della politica dell’onestà, che rispetto al fascismo progressista di cui sopra, fatto perlopiù di conformismo tontolone, rappresentano la versione più spiccia e rozza, più violenta perché ancora espressione di un potere avventizio, di una criminalità civile e politica in predicato di assoluzione, pour cause, grazie ai programmi di affascinante avventura comunitaria con la meglio sinistra delle decapitazioni parlamentari e del fine processo mai.

In questo quadro, le contribuzioni di Capitan Ruspa in epilogo polacco e quelle della Madre bianca e cristiana, checché se ne dica, non sono eccentriche ma armoniche, e il vero tenore fascista del Paese non è determinato, ma solo partecipato, da quei due pittoreschi sprovveduti.

Cos’è la destra?  Luigi Iannone il 5 marzo 2022 su Il Giornale.  

  Chiedersi cosa sia la destra, due decenni dopo l’inizio del terzo millennio, può risultare esercizio sfiancante per gli analisti e soporifero anche per il lettore più diligente e appassionato.

Il buon Prezzolini, mezzo secolo fa, tirò fuori con l’acume che gli era proprio una sintesi analitica perfetta che si fa fatica ancora oggi a confutare. A chi gli chiedeva quante fossero le destre, rispondeva laconico e irridente: «Sono tre, trentatré o trecentotrentatré»… e, in fondo, a restare su questi paradigmi, potremmo replicare ciò che si va dicendo da tempo immemore e che nella sua asciutta naturalità descrive il vero. La destra è infatti racchiusa sul piano teoretico generale in poche formule: essa si consacra con molta schiettezza alla realpolitik e, in linea di massima, ha una vocazione religiosa, patriottica e comunitaria; o almeno, dovrebbe essere rappresentativa di un mondo che fa riferimento a tutto ciò.

Queste tesi vanno però poi calate nella realtà, praticate nel dibattito parlamentare e soprattutto inverate nella quotidianità del conflitto politico e sociale e nella pratica dell’amministrazione pubblica. Ma è proprio in questa quotidianità che si ripresentano le contraddizioni e con esse le trecentotrentatré destre.

Almeno sul piano della qualità dell’azione politica e dei risultati raggiunti, la messa in pratica di questi dettami ha infatti smentito ogni più rosea previsione. Un’orda di parvenu catapultati in ruoli e responsabilità molto più grandi delle loro reali capacità professionali e politiche sta operando in direzione uguale e contraria da almeno tre decenni; e quando, pur con ogni sforzo possibile, tenta di raddrizzare la barra per riconvertire quei dettami teorici in pratica politica, fallisce ogni tentativo o lo depotenzia a tal punto da sfibrarlo alla radice.

Perché accade tutto ciò? Forse per mancanza di connessione tra l’impianto dei principi, la qualità della classe dirigente e una oggettiva impraticabilità nel contesto politico. Ma non è solo questo! I tempi sono profondamente mutati più di quanto sia accaduto in ogni altra epoca storica. La postmodernità ci mette di fronte a sfide etiche nuove, la Tecnica sobilla dalle fondamenta ogni nostra antica certezza e il mondo si sta posizionando su paralleli valoriali del tutto inediti; di concerto, le vecchie categorie politiche sembrano (sono!) un passo indietro, se non proprio insignificanti sotto il profilo delle azioni di governo, perciò sempre asfittiche e inservibili.

A dare uno scossone a questo tipo di lettura stagnante è il bel libro di Antonio Carulli, Teoria della destra contemporanea. Nuovi indirizzi per vincere le sfide del presente e del futuro (Idrovolante edizioni, pp.490) in cui ogni antica ipotesi analitica è saltata a piè pari, senza però essere messa in disparte in maniera definitiva. Non viene depennata a inservibile ideologia ma nemmeno raschiata fino alle fondamenta per essere del tutto eliminata.

Un libro strano, per certi versi futurista, in cui si miscelano aforismi, frammenti dal taglio filosofico, confessioni private, analisi politiche, brani in corsivo o intere frasi in maiuscolo. Non un classico saggio strutturato in rigorosi paragrafi e capitoli ma un volume che esonda di vitalità e di caos, da cui il lettore può trarne una lettura arricchente. Heidegger, de Maistre, e poi la Tecnica, la bioetica, l’eutanasia e mille altri temi dispiegati senza alcuna grettezza manichea e volontà di preservare una parte dall’altra. Un sentiero che tenta di andare oltre «la stagnazione del paradigma teoretico della Destra» e soprattutto un invito al caos dell’intelligenza per ritrovare il viottolo seminascosto della tradizione e un senso etico immutabile.

Da Corriere della Sera il 11 ottobre 2021. Lettera: Qualche anno fa il grande e compianto Giorgio Gaber cantava “ ma cos’è la destra, cos’è la sinistra “ e, continuare a costruire teoremi identitari per le elezioni amministrative, è ancora più improbabile che per le politiche: oggi intanto si vota molto meno che in passato, si vota soprattutto contro e quando lo si fa a favore, spesso è per figure di appeal e che sappiano vendersi in TV e sui social, vogliamo fare un esempio molto prossimo ? Il fenomeno 5 stelle. Nelle amministrative entrano in gioco fattori locali che quasi sempre esulano dai vecchi schemi della politica, ( nella scorsa edizione Beppe Sala dissuase cortesemente Niki Vendola dal salire sul carro del vincitore), sul fatto che gli amministratori locali cosiddetti di sinistra siano meglio di quelli di destra andiamoci cauti, faremmo torto a tutti coloro che governano regioni come la Lombardia, il Veneto, la Liguria più altre undici, quanto alla scalata a incarichi di partito o governativi, Zingaretti ad esempio c’era riuscito ma ha dovuto fare dietrofront, Emiliano fu respinto come un reietto, per non parlare del brillante caso Renzi che, dopo aver rottamato a destra e manca è rimasto rottamato a sua volta, soprattutto dai suoi ex “compagni”, ad altri probabilmente l’argomento non interessa proprio e preferiscono fare solo bene il proprio lavoro di amministratori. La Presidenza del prof. Draghi è purtroppo la dimostrazione dell’attuale fallimento della politica in tutte le sue declinazioni, da destra a sinistra, e quella delle amministrative è tutta un’altra storia. Francesco Lagrasta.

Ma cos’è la Destra, cos’è la Sinistra? Francesco Polizzotto il 13 Novembre 2016 su ecointernazionale.com.

Di Francesco Polizzotto – «Ma cos’è la Destra, cos’è la Sinistra?» Giorgio Gaber continuava a chiederselo in una delle sue più celebri canzoni, immaginando di associare le due categorie politiche ad oggetti o posti fisici nei quali ci si imbatte quasi quotidianamente. Ripercorrendo quel testo, scopriamo così che fare il bagno nella vasca è di Destra mentre far la doccia è di Sinistra, la cioccolata svizzera è di Destra e la nutella invece è di Sinistra; oppure che la donna emancipata è di Sinistra e quella riservata di Destra, il bastardo è di Sinistra mentre il figlio di puttana è di Destra.

Al di là delle vecchie ideologie, ancora esistenti negli anni in cui cantava Gaber, oggi invece dissolte sia politicamente che culturalmente, la domanda “Ma cos’è la Destra, cos’è la Sinistra?” può comunque essere riproposta, provocando verosimilmente dibattiti ancora più infuocati di quelli che scaturirono al lancio della canzone di Gaber.

Come rispondere quindi alla questione? Cosa possiamo oggi definire di Destra e cosa invece di Sinistra? A chi pensiamo quando vogliamo identificare la Destra o la Sinistra?

Norberto Bobbio, nel suo illustre pamphlet “Destra & Sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica”, forniva un quadro preciso delle due categorie, distinguendole in base al diverso atteggiamento assunto di fronte all’ideale di eguaglianza. Secondo Bobbio, esiste un contrasto di vedute e di posizioni che contrassegna i due opposti schieramenti, chiamati abitualmente Sinistra e Destra. I primi considerano gli uomini più eguali che diseguali, mentre i secondi li ritengono più diseguali che eguali.

La dicotomia sarebbe così rappresentata dalla differente valutazione del rapporto tra eguaglianza/diseguaglianza naturale ed eguaglianza/diseguaglianza sociale. A Sinistra si collocano gli egualitari, che partono dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che li indignano siano sociali ed in quanto tali eliminabili. A Destra si posizionano invece gli (in)egualitari, che partono dalla convinzione opposta, cioè che le diseguaglianze siano naturali ed in quanto tali ineliminabili.

Ragionando invece sul diverso approccio nei confronti dell’ideale di libertà, Bobbio sostiene che esso, seppur storicamente rilevante quanto quello dell’eguaglianza, non attiene alla dicotomia Destra/Sinistra. Il criterio relativo all’ideale di libertà distingue l’universo politico rispetto ai mezzi e non rispetto ai fini. Ecco quindi che tale criterio serve a distinguere le dottrine ed i movimenti libertari dalle dottrine e dai movimenti autoritari; ma entrambi possono trovarsi sia a Destra che a Sinistra. Confrontando e sovrapponendo le due distinzioni, fatte sulla base dei due diversi criteri, Bobbio giunge ad uno schema che differenzia le seguenti quattro tipologie di dottrine/movimenti politici:

1) A sinistra i movimenti egualitari ed autoritari, il cui esempio storico più importante è rappresentato dal giacobinismo;

2) Al centro-sinistra dottrine e movimenti egualitari e libertari, che comprendono tutti i partiti socialdemocratici, pur nelle loro diverse prassi politiche;

3) Al centro-destra dottrine e movimenti libertari ed (in)egualitari, tra cui rientrano i partiti conservatori, che si distinguono dalle destre reazionarie per la loro fedeltà al metodo democratico;

4) All’estrema destra dottrine e movimenti antiliberali ed antiegualitari, i cui esempi storici più noti sono il fascismo ed il nazismo.

Probabilmente lo schema presentato da Bobbio poco si addice agli scenari politici odierni, nei quali le correnti di partito, le faziosità, i personalismi e le faide tra diversi leader  finiscono spesso per scavalcare gli schieramenti e stravolgerne le identità.

La dicotomia politico-culturale Destra/Sinistra, nata ai tempi della rivoluzione francese, ci appare oggi come un retaggio storico e risulta inapplicabile in diversi sistemi di partito. Pensiamo a quanto è avvenuto in Italia con l’affermazione del Movimento 5Stelle o anche in Spagna con Podemos. Non è questa la sede per dissertare sull’applicabilità odierna del contrasto-continuum Destra-Sinistra e certamente vanno analizzati i diversi contesti nazionali e le differenti contingenze politico-elettorali. Quel che occorre rilevare è però la difficoltà attuale nell’inquadrare sic et simpliciter partiti e movimenti nella rigida struttura bipolare.

Le categorie di Destra e Sinistra vanno quindi tenute sì come base di partenza per qualsiasi ragionamento di natura politica, ma è necessario altresì rileggerle e rivalutarle, soppesandole ed adattandole alle nuove realtà. Ritornando a Gaber ed alla sua canzone, riproponiamo la strofa conclusiva: «Tutti noi ce la prendiamo con la storia, ma io dico che la colpa è nostra; è evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o destra».

Francesco Polizzotto. Direttore editoriale di Eco Internazionale, responsabile "Storie di Sport". Tra le mie passioni segnalo la storia, il giornalismo ed il Milan. Sono strano, sono di destra ma ho anche dei difetti.

MA COS’È LA DESTRA, COS’È LA SINISTRA? Marco Campione il 20 Giugno 2018 su stradeonline.it.  

“Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?” si chiedeva una ventina d’anni fa Giorgio Gaber, un grande interprete delle cose umane scomparso troppo presto.

È dai tempi dei DS che la sinistra interna al più grande partito della sinistra spiega che è in atto una svolta moderata. Anzi, da prima a ben vedere. Erano "di destra" Craxi e La Malfa, ma anche Lama e Napolitano; perfino D’Alema (quando contava qualcosa) è stato un chiaro fautore di politiche neoliberiste. Per non parlare di Bersani, che alcune timide liberalizzazioni le ha fatte veramente. Il tanto osannato (postumo, ovviamente) Governo Prodi? Andatevi a rivedere la parte di “Aprile” in cui Nanni Moretti spara a zero sulla composizione del governo Prodi: tutti democristiani, che schifo! E potrei continuare con gli intellettuali: non sono stati risparmiati Vittorini, Pasolini, Eco, Mafai...

Ovviamente Renzi non poteva scamparla. E si vede, adesso che la destra di Salvini governa davvero, quanto fossero in errore: evidentemente se la sono presa con il Matteo sbagliato. Ma questo articolo non vuole parlare di questo, ma provare a portare il ragionamento a conclusioni meno ovvie di un infantile gne gne.

Non servono reazioni stizzite del tipo “ve li siete coccolati adesso teneteveli”. Non serve, anzi è dannoso. Il modo per condurre al riscatto dopo la sconfitta di marzo non è inseguire quelli che pensano che Renzi sia di destra provando a convincerli che Salvini è peggio. Questa è una scorciatoia e come tutte le scorciatoie raramente in politica funziona. Provate a immedesimarvi in un elettore che ha creduto alla propaganda del “fuoco amico”. Da almeno vent’anni si sente ripetere che la Vera Sinistra è altra cosa. Che deve pensare?

Se la riforma costituzionale respinta al referendum era di destra perché dava troppo potere al Presidente del Consiglio, un Presidente del Consiglio che risponde ad una Srl sarà la cosa più di sinistra immaginabile sulla faccia della terra. Se il Jobs Act è di destra non può che essere di sinistra il decreto “dignità”, quello che trasformerà i riders da precari pagati poco in lavoratori in nero pagati ancora meno o in disoccupati.

Se è di destra assumere a tempo indeterminato decine di migliaia di docenti del sud nelle scuole del nord, vorrà dire che è di sinistra costringere i bambini del nord a cambiare ogni anno docenti (scusate, ma i bambini stanno al nord: sarebbe stato di sinistra spostare i bambini?); e ancor più di sinistra dev’essere costringere i docenti del sud a restare ingolfati in graduatorie a esaurimento che non si esauriscono mai. Se il bonus cultura per i diciottenni è di destra, abolirlo è certamente di sinistra. Se gli 80 euro per i redditi bassi è una politica di destra, la flat tax che premia i redditi alti sarà di sinistra. Se definire regole con le ONG è di destra, chiudere i porti dev’essere la nuova frontiera della sinistra. Se la rottamazione delle cartelle Equitalia è di destra, il condono tombale sarà certamente di sinistra.

Se la legge Fornero è l’atto più di destra compiuto da un governo della Repubblica, mandare in pensione qualche anno prima i beneficiari di “quota 100”, facendone pagare il costo ai loro e ai nostri figli, sarà certamente una riforma degna della sinistra rivoluzionaria. Se fare accordi con la Fiat è di destra e salvare Ilva di estrema destra, come non considerare di sinistra ridimensionare l’industria metalmeccanica (o siderurgica) e dare a tutti gli (ex) operai un reddito di cittadinanza? Se aumentare l’export è di destra, perché non deve essere di sinistra mettere i dazi?

In altri termini, cari amici e compagni, avete spiegato per anni, decenni, che le politiche riformiste che faticosamente i governi Prodi, D’Alema, Amato, Letta, Renzi e Gentiloni hanno portato avanti erano di destra. Di che vi stupite se gli italiani “di sinistra” vi hanno preso sul serio? Pensate davvero di convincerli a votare di nuovo per voi mettendo alla guida del Pd un ex funzionario della FGCI (quelli del PCI no, ma solo per sopraggiunti limiti d’età) al posto di un ex boy-scout?

Inutile e inefficace scorciatoia. La via maestra è un’altra, dicevo. Più difficile, più densa di ostacoli, più lunga, ma a parere di chi scrive l’unica possibile. La via maestra è dolorosa ed è questa: lasciamoli andare. Chi preferisce la flat tax agli 80 euro non lo convincerai a votare per te con un paio di dichiarazioni contrite su tutti gli errori commessi. Chi preferisce “quota 100” all’equità generazionale è giusto che voti per Salvini e Di Maio. Chi pensa che il “contratto” di governo penta-leghista sia di sinistra e le proposte della Leopolda di destra non tornerà a votare i partiti di centrosinistra solo perché non ci saranno più iniziative politiche in una vecchia stazione di Firenze, magari sostituite da preziosi convegni con intellettuali più o meno organici.

Basta gne gne, basta perdere tempo con le recriminazioni. Noi siamo altra cosa. Noi chi? Noi che chiamiamo sinistra il discorso di D’Alema al Congresso PDS di Roma (quello della rottura con Cofferati), o il discorso di Veltroni al Lingotto, o il discorso di Renzi dopo la sconfitta contro Bersani. Io la chiamo sinistra riformista e liberale. Chiamatela come vi pare, ma solo su queste idee di può pensare di ricostruire qualcosa di utile al paese.

In quel testo richiamato in principio il pessimismo spinge Gaber a concludere che “la colpa è nostra: è evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o destra”. Può essere che abbia ragione lui anche in questo caso. Io sono più propenso a credere che il problema non sia tanto la penuria di serietà quanto l’eccesso di pigrizia (intellettuale): noi di sinistra chiamiamo “destra” tutto ciò che non riconosciamo, ci spaventa o più banalmente ci sta sulle balle. Lascio al lettore decidere se sono più pessimista io o Gaber: in entrambi i casi sarà il caso di darsi una mossa.

Destra storica: cronologia, protagonisti e ideologia. A cura di Bianca Dematteis su Studenti.it.

La Destra Storica: cronologia, nome, composizione.

Destra storica: 1861-1876. Nel 1861 venne proclamato il Regno d’Italia. Nel giugno dello stesso anno morì Camillo Benso conte di Cavour, una delle figure principali del Risorgimento italiano. A partire da questa data e fino al 1876 fu al governo quella formazione politica definita dagli storici come “Destra storica”.  

Perché “storica”? L’aggettivo “storica” fu aggiunto successivamente per marcare il ruolo fondamentale assunto dai politici di tale schieramento in questa prima fase del Regno d’Italia e per segnalare la distanza con i successivi governi. Il nome dato a questa formazione è riconducibile al posizionamento assunto dai suoi esponenti all’interno del Parlamento. Tale formazione politica era ispirata da valori moderati e liberali.  

Esponenti della Destra storica. Tra gli esponenti della Destra storica comparivano in prevalenza uomini provenienti dalle regioni dell’Italia centro-settentrionale. Molti di essi erano ricchi proprietari terrieri e numerosi erano di origine nobiliare.   

Legislazione unitaria e accentramento della Destra Storica.

Accentramento del potere. A livello amministrativo e burocratico, nei governi che si susseguirono tra il 1861 e il 1876 prevalse in maniera netta la tendenza ad accentrare il potere per esigenze pratiche e di controllo.

Estensione dello Statuto Albertino. Tra le prime azioni della Destra storica vi fu l’estensione dello Statuto Albertino a tutto il Regno d’Italia. La legge fondamentale che aveva regolato il Regno di Sardegna dal 1848 divenne così il testo scritto che disciplinava il funzionamento di tutti i territori italiani.

Piemontesizzazione. Parimenti, la struttura amministrativa piemontese divenne la struttura amministrativa di tutto il regno d’Italia. Per questa ragione, gli storici, riferendosi alla legislazione varata in questi anni, parlano di piemontesizzazione. Questa tendenza fu accentuata dal fatto che i prefetti, posti a capo delle neonate regioni e figure fondamentali per collegare il centro alla periferia, erano generalmente di provenienza piemontese.

Le leggi. Tra le principali riforme volte all’unificazione del Paese, vennero estese a tutto il Regno di Italia importanti leggi:

Legge Casati1. La legge Casati: è la legge che stabiliva l’obbligo per tutti i bambini di seguire i primi due anni della scuola elementare. Questa norma era stata in precedenza emanata nel 1859 e, dopo l’unificazione, venne estesa al resto del Paese.

Legge Rattazzi2. La legge Rattazzi: secondo questo provvedimento la gestione dei comuni era demandata a un consiglio eletto a suffragio ristretto; i sindaci erano nominati dal re e ai prefetti competeva il controllo delle province.

Unificazione del codice civile, commercio e navigazione3. Vennero unificati il codice civile e quelli sul commercio e sulla navigazione. Non compiutamente realizzata fu invece l’unificazione del codice penale. Salvo che in Toscana, nelle regioni restò infatti in vigore la pena di morte.

Introduzione della leva obbligatoria4. Una decisione che più di altre incise anche a livello culturale ed ebbe pesanti conseguenze soprattutto nel Meridione fu l’introduzione della leva obbligatoria. Nel Sud Italia questa era una pratica sconosciuta. Tale misura creò difficoltà inedite per le famiglie contadine meridionali che, tradizionalmente, contavano sugli uomini giovani dei loro nuclei famigliari per lavorare nei campi. Questa norma fu accolta con sfavore nelle regioni del Sud Italia e segnò una spaccatura tra governo centrale e popolazione meridionale.

La situazione nel Sud Italia: il brigantaggio e la legge Pica

Malcontento nel sud Italia. Con il processo di unificazione, nelle regioni meridionali si diffuse ben presto un generale malcontento. Non solo la coscrizione obbligatoria che toglieva alle famiglie i lavoratori più importanti per l’attività nei campi, ma un regime di tassazione esoso e centralizzato fecero sì che dal basso e in modo spontaneo scoppiassero delle agitazioni popolari.

Movimenti di protesta. Si organizzarono così dei movimenti di protesta al cui interno confluirono non solo ribelli, ma anche ex soldati dello stato borbonico e contadini poveri.

I briganti. Costoro, chiamati briganti dallo stato che intendeva reprimerli, si muovevano di villaggio in villaggio spesso commettendo saccheggi e omicidi nei confronti dei notabili del luogo. Lo stato unitario affrontò con estrema durezza il fenomeno del brigantaggio, ricorrendo all’esercito. 

La legge per la repressione del brigantaggio. Nel 1863 fu inoltre emanata la legge Pica in base alla quale erano previsti i tribunali militari per giudicare i cosiddetti briganti e furono istituite come pene la fucilazione per chiunque opponesse resistenza alla autorità e il lavoro forzato.

Il distacco tra istituzioni e masse meridionaliLa repressione durissima segnò un netto distacco tra istituzioni e masse meridionali. Il governo colpì infatti gli atti più violenti, ma non risolse i problemi di fondo del Mezzogiorno. Nel 1865 il brigantaggio era un fenomeno ormai sedato e controllato, il disagio e l’arretratezza di queste terre, invece, continuavano a essere il nodo irrisolto dell’unificazione nazionale.

La politica economica

Il liberismo e la lira come moneta unica. A livello economico, la politica della destra storica fu improntata ai principi del liberismo che avvantaggiò soprattutto il settore dell’agricoltura. Per unificare il Paese anche a livello economico si procedette in questi anni all’estensione di una unica moneta – la lira – in tutto il territorio e all’introduzione di pesi e misure uniformi.

La costruzione di reti ferroviarie. Lo Stato investì soprattutto per la costruzione delle reti ferroviarie in modo avviare un processo di unificazione anche territoriale e rendere più efficace e veloce il sistema degli scambi commerciali. Tuttavia, il passaggio all’unità nazionale non segnò in generale un miglioramento delle condizioni di vita delle masse rurali.

L’aumento delle tasse. A fronte delle ingenti spese volte ad accentrare il potere e a modernizzare il paese, la Destra storica decise di rispondere con la vendita dei beni dell’asse ecclesiastico e con un aumento notevole della tassazione diretta e indiretta.

L’introduzione della tassa sul macinato. Tra le imposte che maggiormente incisero sulla vita quotidiana delle persone e generarono un diffuso malcontento vi fu la tassa sul macinato. Essa venne introdotta nel 1868 e doveva essere pagata direttamente ai mugnai al momento della macinazione del grano. Tale imposta fu vissuta come un tributo sul prodotto di base dell’alimentazione degli italiani dell’epoca: il pane.

Le proteste contro la tassa sul macinato. Proprio in opposizione a questa tassa scoppiarono alcuni moti di protesta in tutta Italia di fronte ai quali la Destra storica non mancò di attuare una politica repressiva, ricorrendo anche in questa occasione all’esercito. Il bilancio delle vittime fu molto duro: 250 furono i morti in seguito all’azione delle forze militari.

Il corso forzoso della lira. Il governo decise inoltre di introdurre il corso forzoso della lira. Con questa iniziativa era possibile stampare una maggior quantità di carta moneta e non vi era obbligo di convertire in oro il denaro.

Il pareggio di bilancio nel 1875La politica economica si concluse con il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 1875, l’ultimo anno in cui la Destra storica fu al governo. Ad essa succedette, a partire dal marzo 1876, il primo dei governi della Sinistra Storica.

L’unificazione territoriale dell’Italia

I territori ottenuti dalla Destra storicaDurante il governo della Destra storica, si procedette inoltre nel tentativo di completare l’unificazione del territorio italiano. Tale obiettivo fu raggiunto solo in parte. Al 1861 mancavano ancora all’Italia i territori del Veneto, la Venezia Giulia, il Trentino, il Lazio e Roma. La Destra storica riuscì a ottenere alcune importanti acquisizioni territoriali. Il Veneto e il Lazio con Roma furono i territori ottenuti in questi anni attraverso l’impiego degli eserciti:

Il Veneto1) Nel corso della guerra austro-prussiana del 1866, l’Italia si schierò con la Prussia contro l’Austria. Nonostante le sconfitte subite dall’esercito italiano a Custoza, un paese nei pressi di Mantova, e dalla flotta nell’isola di Lissa nel Mar Adriatico, l’Italia riuscì a ottenere il Veneto. Per gli italiani questo conflitto è ricordato come Terza Guerra d’indipendenza.

Il Lazio e Roma2) Il 20 settembre 1870 i bersaglieri, un corpo di fanteria, dopo essersi scontrati con le truppe del Papa, entrarono a Roma attraverso la breccia di Porta Pia. Roma venne occupata – con l’eccezione dei palazzi del Vaticano – e un successivo plebiscito sancì l’annessione dei territori di Roma e del Lazio al Regno d’Italia. L’anno successivo la capitale fu spostata da Firenze a Roma. I rapporti tra Regno d’Italia e Santa Sede vennero regolati dalla legge delle guarentigie che, emanata nel maggio 1871, riconosceva al papa numerose libertà e tutele.

Concetti chiave

La Destra storica: cronologia, nome, composizione

Dal 1861 e fino al 1876 fu al governo del Regno d’Italia la Destra storica, una formazione politica ispirata da valori moderati e liberali.

Gli esponenti erano in prevalenza proprietari terrieri, spesso di origine nobiliare e provenienti soprattutto dall’Italia centro-settentrionale.

Legislazione unitaria e accentramento

L’accentramento del potere fu realizzato attraverso:

l’estensione dello Statuto Albertino a tutto il Regno d’Italia.

la legge Casati, sull’istruzione, e la legge Rattazzi, sull’ordinamento amministrativo.

l’unificazione del codice civile e di quelli sul commercio e sulla navigazione.

la leva obbligatoria.

La situazione nel Sud Italia: il brigantaggio e la legge Pica

Nel Meridione si diffuse il fenomeno del brigantaggio.

Lo stato rispose con durezza inviando l’esercito ed emanando la legge Pica (1863).

Sedato il brigantaggio, disagio e arretratezza permasero nel Sud Italia.

La politica economica

A livello economico, la politica della destra storica fu improntata ai principi del liberismo.

Venne avvantaggiata l’agricoltura; furono introdotti la lira, pesi e misure uniformi.

Lo Stato ampliò la rete ferroviaria e aumentò la pressione fiscale.

Il governo rispose con l’esercito alle proteste popolari che erano seguite all’introduzione della tassa sul macinato (1868).

La politica economica si concluse con il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 1875.

L’unificazione territoriale dell’Italia

Durante il governo della Destra storica il Regno d’Italia riuscì ad acquisire il Veneto (1866) e il Lazio (1870). La capitale venne spostata a Roma nel 1871. 

Il nuovo governo dell’Italia unita si trovò subito a dover affrontare i problemi relativi alle differenze tra le varie parti del paese. Gli uomini che composero la nuova classe di governo (la Destra storica), subito dopo l’Unità d’Italia, si erano formati alla scuola cavouriana ed erano per lo più di origine piemontese, per questo motivo estranei alle diverse realtà che il territorio italiano presentava.

C’era inoltre una forte distanza tra il “paese legale” e il “paese reale”, le classi dirigenti (compresa la Sinistra storica) erano molto ristrette e rappresentavano solo una piccola parte della popolazione, soprattutto a causa della legge elettorale piemontese, estesa a tutto il territorio, che dava il diritto di voto agli uomini che avessero compiuto 25 anni, sapessero leggere e scrivere e pagassero un’imposta annuale di almeno 40 lire. Non esistevano inoltre dei veri e propri partiti, la politica era legata alla singola persona e alla sua capacità di esercitare influenza.

Il nuovo Stato che il nuovo governo era chiamato a formare doveva essere liberale, laico, moderato e liberista, secondo quella che era stata la politica di Cavour. Doveva essere dotato di un apparato amministrativo e burocratico e doveva essere inserito in una economia di mercato. Per ottenere questi risultati, i governi attuarono una politica di accentramento, con una forte impronta statalista, deludendo le aspettative di autonomia soprattutto del meridione. Tale politica fu dettata anche dalla paura di spinte autonomistiche di stampo democratico, che sfaldassero l’unità territoriale appena conquistata.

La nuova organizzazione dello Stato non fu quindi frutto di una riflessione sulle reali esigenze del paese, ma venne attuata attraverso l’estensione dell’organizzazione dello Stato sabaudo a tutto il resto d’Italia. L’unificazione politica e amministrativa avvenne attraverso l’estensione dello Statuto Albertino a tutto il territorio. Un altro passo nel percorso di unificazione del paese fu la Legge Casati, che istituiva l’istruzione obbligatoria fino al primo biennio della scuola elementare scuola elementare e regolamentava il sistema scolastico.

In politica estera il nuovo Stato si mosse per ottenere il Veneto (1866) e lo Stato Pontificio (1870) e trasferì la capitale da Firenze a Roma. A causa di quest’ultima annessione territoriale, il nuovo governo italiano entrò in conflitto con la Chiesa, la quale vietò ai cattolici di partecipare alla vita politica del paese (Non expedit di Pio IX), nonostante lo Stato italiano garantisse alla Chiesa una serie di libertà sancite dalla legge delle guarentigie (1871): libero svolgimento delle funzioni spirituali, libertà di avere delle forze armate, extraterritorialità dei palazzi del Vaticano e del Laterano, libertà di comunicazioni telegrafiche e postali, etc.

In politica economica fu realizzata l’unificazione monetaria e tributaria. Fu adottata una politica di stampo liberista, con l’abbattimento delle barriere doganali per agevolare i commerci. Venne avviato lo sviluppo industriale anche grazie alla costruzione di nuove infrastrutture (strade, ponti, ferrovie).

Uno degli obiettivi principali era anche quello del pareggio del bilancio che si raggiunse nel 1875 attraverso una forte politica fiscale che culminò con la tassa sul macinato, che andava a colpire anche le fasce più povere della popolazione e che per questo provocò un malessere diffuso contro la nuova classe di governo.

LA QUESTIONE MERIDIONALE  

Fu il primo grande problema che il nuovo governo dovette affrontare. Nell’ex Regno delle due Sicilie, la liberazione dal regime borbonico era stata vista come liberazione dall’oppressione, dalla corruzione, dai privilegi che le classi più deboli erano state costrette a subire da secoli. I contadini speravano infatti in forme di autogoverno e di distribuzione delle terre, ma videro rimanere la situazione uguale a quella di prima con la differenza che adesso erano governati dai piemontesi. I grandi signori rimasero al loro posto e in più venne aumentata la pressione fiscale e venne imposto il servizio militare obbligatorio che sottraeva braccia al lavoro dei campi. La conseguenza di questo malessere diffuso fu l’insurrezione dei contadini e l’aggravarsi di un fenomeno già presente nel sud Italia: la presenza di vere e proprie bande armate, al servizio dei baroni, che utilizzavano la forza per il controllo del territorio in assenza di un forte potere centrale. Tali bande di briganti divennero lo sfogo per tanti contadini impoveriti, determinando l’ingrandimento e l’inasprimento di tale fenomeno che divenne una vera e propria piaga del sud.

Il nuovo governo, probabilmente non comprendendo le reali cause del fenomeno e vedendovi solamente un rischio di ritorno del regime borbonico, istituì lo stato di guerra (con la legge Pica del 1863) e inviò l’esercito a reprimere il brigantaggio che come fenomeno venne debellato nel giro di due anni. Il sud, sconfitto nella sua componente democratica, rimase caratterizzato dalla presenza di una forte aristocrazia che ne controllava il territorio. 

LA SINISTRA STORICA  

L’ultimo governo della Destra fu messo in minoranza nel 1876 in seguito alla questione della nazionalizzazione dalle ferrovie. Il re affidò il nuovo governo ad Agostino Depretis esponente dello schieramento di sinistra. Ebbe inizio così il primo governo della Sinistra Storica.

La nuova classe politica aveva una composizione diversa dalla precedente, aveva una base sociale più ampia ed era espressione di ceti medio-borghesi e comprendeva anche operai e artigiani. Nei primi anni dell’Unità d’Italia portò avanti rivendicazioni democratiche quali il suffragio universale e il decentramento amministrativo. Quando divenne schieramento di governo tuttavia aveva perso un po’ della sua componente democratica e si era spostata su posizioni più moderate. Nonostante questo riuscì a esprimere il desiderio di democratizzazione della società e a soddisfare le esigenze di una borghesia in crescita. Ecco alcune riforme attuate nei primi governi di sinistra di Depretis:

aumento dell’obbligo scolastico fino a nove anni (legge Coppino 1887);

ampliamento della base elettorale: diritto di voto a 21 anni, pagamento dell’imposta di 20 lire, alfabetizzazione minima (con questa legge poteva votare il 7% della popolazione).

Dopo l’attuazione di queste riforme la politica della Sinistra prese una piega più moderata, per paura del diffondersi di tendenze estremiste. Ha inizio una pratica politica detta trasformismo attraverso accordi elettorali tra esponenti di sinistra (Depretis) e di destra (Minghetti) che portarono alla creazione di un governo che non era più né destra né sinistra ma si poneva al centro tra i due schieramenti.

In politica economica venne diminuita la pressione fiscale (abolizione della tassa sul macinato) che insieme ad una spesa pubblica in aumento provocò un deficit nel bilancio statale. Per favorire il decollo industriale e la ripresa dell’agricoltura venne attuata una politica protezionistica mettendo al riparo l’economia dalla concorrenza straniera.

In politica estera la Sinistra stipulò nel 1882 la Triplice Alleanza con la Germania e con l’Austria-Ungheria per uscire da una situazione di isolazionismo, rinunciando quindi alla conquista delle terre irredente, Trentino e Venezia Giulia. Nel frattempo si inserisce nella politica imperialista che stava caratterizzando l’Europa e tenta l’occupazione dell’Etiopia ma viene sconfitta a Dogali.

Nel 1892 veniva fondato il Partito Socialista italiano quale espressione della classe operaia che si cominciava a presentare come soggetto politico. Nel frattempo si andava formando anche un movimento cattolico, l’Opera dei congressi, il cui programma rimaneva comunque ostile al nuovo governo.

Nell’ultimo ventennio dell’800 il governo venne affidato ad un uomo politico di origine siciliana, Francesco Crispi che governò dal 1887 al 1896, con una interruzione di un anno (primo governo Giolitti). Crispi attuò quella che venne definita “democrazia autoritaria”: vennero emanati alcuni provvedimenti come l’eleggibilità dei sindaci, il diritto di sciopero, l’abolizione della pena di morte ma contemporaneamente veniva portata avanti una politica repressiva e accentratrice attraverso una forte riorganizzazione dell’apparato statale.

In politica estera voleva riaffermare il valore dell’Italia come potenza coloniale. Venne fondata la Colonia Eritrea e si posero le basi per l’occupazione della Somalia. Nel 1892 cade il governo Crispi proprio a causa della sua politica coloniale. Abbiamo il primo governo di Giovanni Giolitti, che sarà protagonista della storia d’Italia nei primi decenni del ‘900.

Giolitti propone un programma molto avanzato, in particolare era contrario alla repressione del movimento operaio e dei Fasci siciliani, le organizzazioni di contadini siciliani che si opponevano alla pesante tassazione e al malgoverno locale, ma non riuscì a portare avanti il suo programma a causa di uno scandalo finanziario in cui rimase coinvolto (scandalo della Banca di Roma).

Secondo governo Crispi (1893):

istituzione della Banca d’Italia con funzioni di controllo del sistema bancario e finanziario;

proclamazione delle stato d’assedio in Sicilia per reprimere i Fasci siciliani ed emanazione delle leggi antisocialiste, il Partito socialista fu dichiarato fuori legge;

ripresa della politica coloniale, secondo tentativo di conquista dell’Etiopia che si concluse con la sconfitta di Adua (1896).

Crispi uscì dalla scena politica italiana. Il governo fu affidato ad Antonio di Rudinì che si affrettò a stipulare la pace con l’Etiopia.

DESTRA E SINISTRA STORICA: ANALOGIE E DIFFERENZE 

Il 17 marzo 1861 il parlamento italiano, riunitosi a Torino, proclamò Vittorio Emanuele II re d’Italia.

La nuova Italia unita presentava due problemi principali: un complessivo ritardo dello sviluppo economico e una grave frantumazione dal punto di vista politico, amministrativo e culturale, risultato di secoli di divisione politica e dominazione straniera. Nel Paese l’agricoltura, che occupava la maggioranza della popolazione attiva, era molto arretrata soprattutto al sud dove veniva ancora praticato il latifondo, facevano eccezione solo alcune zone della Pianura Padana e della Toscana; inoltre l’industria nazionale era fragile salvo poche fabbriche tessili e siderurgiche del nord.

Leggi, codici e sistemi fiscali erano diversi da una zona all’altra del Paese. L’analfabetizzazione era molto diffusa e soltanto un quarto della popolazione parlava la lingua italiana. Le condizioni di vita dei contadini e dei pochi nuclei di operai erano pessime per l’insufficiente alimentazione e le cattive condizioni igienico-sanitarie che rendevano ancora molto diffuse malattie come colera, tifo e vaiolo debellate dagli altri paesi. Questa era l’Italia che, affacciandosi sulla scena internazionale, si trovava a competere con gli stati di grande forza economica e politica; inoltre questa era l’Italia che si trovarono ad amministrare, tra il 1861 e il 1896, i governi della Destra e della Sinistra Storica.

DESTRA E SINISTRA POLITICA 

Durante i primi quindici anni, dal 1861 fino al 1876, fu al governo la Destra, rappresentata da personaggi quali Cavour, Ricasoli e Minghetti. Dal 1876 al 1896, salvo brevi interruzioni, fu al governo la Sinistra di Depretis, Crispi e Giolitti. Quando si parla di Destra e Sinistra non bisogna pensare a due partiti ben distinti e contrapposti: in realtà le maggioranze su cui si appoggiarono i governi furono composte da elementi eterogenei provenienti sia da destra, sia da sinistra. Tuttavia erano presenti delle differenze: dal punto di vista sociale, i deputati di Destra provenivano prevalentemente alle regioni del Settentrione e del Centro ed erano perlopiù appartenenti all’aristocrazia e all’alta borghesia, invece molti deputati della Sinistra erano l’espressione della borghesia cittadina ed erano stati legati a Garibaldi e al Partito mazziniano; dal punto di vista ideologico, i deputati della Destra erano in prevalenza cattolici, quelli di Sinistra erano massoni e anticlericali; per quanti riguarda l’economia, nella Destra prevalevano i legami con la grande proprietà, la Sinistra rappresentava soprattutto la piccola borghesia urbana e la nascente industria.

Destra e Sinistra Storica: riassunto breve

LA CLASSE DIRIGENTE DESTRA E SINISTRA 

Per quanto riguarda l’effettiva amministrazione del Paese, tra il governo di Destra e Sinistra storica, possiamo riscontrare delle analogie e delle differenze.

Destra e sinistra erano accomunate dalla stessa concezione di stato liberale, tuttavia si resero conto che per l’Italia era necessario applicare un modello di Stato accentrato che si servisse delle province con a capo i prefetti per avere maggiore controllo delle differenti condizioni in cui si trovava il Paese.

POLITICAMENTE SCORRETTO. Covid 19, Gaber si chiederebbe: cos'è la destra, cos'è la sinistra? L'opinione di Massimo Puricelli su Affari Italiani. Mercoledì, 8 luglio 2020.

"Destra-sinistra ", così si intitola una delle ultime canzoni del "genio" Giorgio Gaber, datata 1994.

L'artista milanese comprese che le formazioni politiche, già 25 anni fa, erano solite definirsi di destra e di sinistra, ma inscenavano una falsa rappresentazione di una diatriba non più basata e fondata sui capisaldi storici. Nel solco della trasformazione (meglio definirla devastazione) della società moderna, rappresenta dal sociologo Baumann, come liquida, dove i valori fondanti e i cardini di riferimento secolari sono stati immolati sull'altare della globalizzazione, i partiti politici hanno abiurato i loro dogmi per accattivarsi i consensi del popolo elettore. Un "popolo" (accezione non propriamente idonea), dove, dati alla mano, per la prima volta dall'Unità d' Italia, il numero dei cittadini che non lavorano ha superato quelli che hanno un' occupazione, l'opulenza dei consumi è ad appannaggio di una larga fetta di cittadini, la produzione è ferma da vent'anni. Così l'affresco che ci regala il Professor Luca Ricolfi, sociologo e politologo, nel suo recente saggio intitolato, "Società signorile di massa". 

Una società dove molti consumano, e pochi producono.

Un Paese, l'Italia, trasformato in un gigantesco "Luna Park", che impone scelte e direttive, anche ai partiti e movimenti politici a caccia di consensi nella sempiterna campagna elettorale.

Anche in questo periodo pandemico, la rotta seguita è la medesima.

Il quadro che viene proposto quotidianamente è chiaro.

Giorgio Gaber aggiornerebbe il testo della sua canzone con i comportamenti durante questa pandemia, ma continuando a domandare, "...che cos'è la sinistra, cos'è la destra...".

 

Legge e ordine i dogmi della vecchia destra.

In questi mesi pandemici, la destra, non solo italiana, ha scientemente scordato quei cardini rgoristi. per difendere gli assiomi del più radicale liberismo coniugato con il sistema edonistico-vacanziero.

E allora ecco la rivoluzione copernicana delle destre che adottano il principio sessantottino del "vietato vietare".

Distanziamento, mascherine, norme igieniche, controlli e chiusura delle frontiere, sanzioni, norme e comportamenti liberticidi che affossano l'economia, così si sente ripetere da eminenti leader che una volta venivano denominati come reazionari.

Gli ex rivoluzionari della sinistra storica, invece, adottano la linea del rigore a fasi alterne, a categorie alterne. 

Droni, elicotteri, serrate, la spasmodica voglia di "un grande fratello" in stile DDR per il periodo di lockdown, considerati pochi giorni prima dello scoppio dello sfacelo epidemico, ma con  il virus già presente e circolante, come inutili e pericolosamente razzisti e discriminatori. 

E allora ecco che la sinistra diventa autoritaria nei confronti del popolo italico, ma lassista e tollerante se si tratta di immigrati, profughi o sedicenti tali, da cui si corre per abbracciarli, accoglierli e consumare con loro un modaiolo aperitivo e lasciarli scorazzare nelle lande dello Stivale anche se positivi al covid 19.

Un' ondivaga e sconcertante manifestazione di incoerenza e confusione, giustificata, a detta di alcuni, dalle ondivaghe e contraddittorie indicazioni provenienti dal mondo scientifico.

Scuse e giustificazioni poco credibili e sinonimo di poca capacità politica.

Del resto la politica, da tempo ha abdicato al volere dei tecnici, della magistratura, dei potentati economici finanziari, prona nel voler "lisciare il pelo agli elettori".

Nella "liquidità" della società moderna, non poteva che essere così, anche durante questa pandemia.

E' d'uopo, rileggere la storia; riassumere i valori della civiltà; di riappropriarsi dei cardini vitali per la salvaguardia del genere umano.

Alla destra e alla sinistra, per quanto siano inappropriati tali appellativi, è utile ricordare alcuni vecchi adagi, antichi proverbi generati da vecchie pandemie.

Giovanni Filippo Ingrassia medico italiano del XVI secolo , contrastò in maniera efficace la pestilenza che colpì Palermo nel 1575 applicando la regola del "fuoco, della forca, dell'oro".

Un antico proverbio inglese recita: "spera nel bene, ma preparati al peggio".

Antiche saggezze che non sono né di sinistra, né di destra.

Solo senso civico e di responsabilità. 

Ma sono di destra o di sinistra ?

Destra-sinistra. Brano di Giorgio Gaber. Testo

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

Ma io dico che la colpa è nostra

È evidente che la gente è poco seria

Quando parla di sinistra o destra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

Fare il bagno nella vasca è di destra

Far la doccia invece è di sinistra

Un pacchetto di Marlboro è di destra

Di contrabbando è di sinistra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

Una bella minestrina è di destra

Il minestrone è sempre di sinistra

Tutti i film che fanno oggi son di destra

Se annoiano son di sinistra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

Le scarpette da ginnastica o da tennis

Hanno ancora un gusto un po' di destra

Ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

È da scemi più che di sinistra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

Con la giacca vanno verso destra

Il concerto nello stadio è di sinistra

I prezzi sono un po' di destra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

I collant son quasi sempre di sinistra

Il reggicalze è più che mai di destra

La pisciata in compagnia è di sinistra

Il cesso è sempre in fondo a destra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

La piscina bella azzurra e trasparente

È evidente che sia un po' di destra

Mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

Sono di merda più che sinistra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

L'ideologia, l'ideologia

Malgrado tutto credo ancora che ci sia

È la passione, l'ossessione della tua diversità

Che al momento dove è andata non si sa

Dove non si sa, dove non si sa

Io direi che il culatello è di destra

La mortadella è di sinistra

Se la cioccolata svizzera è di destra

La Nutella è ancora di sinistra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

Il pensiero liberale è di destra

Ora è buono anche per la sinistra

Non si sa se la fortuna sia di destra

La sfiga è sempre di sinistra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

È un antico gesto di sinistra

Quello un po' degli anni '20, un po' romano

È da stronzi oltre che di destra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

L'ideologia, l'ideologia

Malgrado tutto credo ancora che ci sia

È il continuare ad affermare

Un pensiero e il suo perché

Con la scusa di un contrasto che non c'è

Se c'è chissà dov'è, se c'è chissà dov'è

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

La mancanza di morale è a destra

Anche il Papa ultimamente è un po' a sinistra

È il demonio che ora è andato a destra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

La risposta delle masse è di sinistra

Con un lieve cedimento a destra

Son sicuro che il bastardo è di sinistra

Il figlio di puttana è a destra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

Una donna emancipata è di sinistra

Riservata è già un po' più di destra

Ma un figone resta sempre un'attrazione

Che va bene per sinistra e destra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

Ma io dico che la colpa è nostra

È evidente che la gente è poco seria

Quando parla di sinistra o destra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

Ma cos'è la destra, cos'è la sinistra

Destra, sinistra

Destra, sinistra

Destra, sinistra

Destra, sinistra

Destra, sinistra

Basta!

·        Il Riformismo progressista.

Il lungo cammino. Cos’è l’Illuminismo industriale, che ha regalato all’Occidente gli ideali di progresso e libertà. Walter Scheidel su L'Inkiesta il 24 Settembre 2022

Secondo la monumentale ricostruzione storica di Walter Scheidel (Luiss University Press) le origini del benessere e dell’innovazione tecnica e scientifica del Vecchio Mondo sono da ricondurre a una fortunata coincidenza di idee, aspirazioni e situazioni economiche

Illuminismo industriale

L’Europa latina presentava condizioni di vario tipo. La Rivoluzione industriale britannica trovò le sue radici in una serie molto specifiche di circostanze che Mokyr chiama “Illuminismo industriale”. Si basava sui capisaldi dell’Illuminismo in generale – misurazioni, esperimenti, replicabilità, intelligibilità della natura – ma anche sulla loro applicazione pratica e sul loro aspetto economicamente remunerativo.

Le scienze applicate furono parte integrante di tale processo. L’Illuminismo industriale consentì il progresso materiale utilizzando la sempre maggior comprensione della natura e rendendola accessibile a chi poteva usarla per scopi produttivi. Gli obiettivi chiave erano la risoluzione di problemi concreti e il taglio dei costi.

La democratizzazione della conoscenza scientifica sospinse il progresso. Nella sola Francia del diciottesimo secolo c’erano cento accademie locali. Gran parte di questi enti pubblicavano le proprie ricerche. Le università divennero meno importanti per il progresso delle conoscenze utili: diminuì il numero degli scienziati provenienti dalle principali istituzioni, mentre in genere gli ingegneri non avevano un’istruzione di alto livello. La conoscenza si diffondeva con le pubblicazioni specializzate, i resoconti scientifici, i quotidiani, le conferenze e le accademie, «molte delle quali sfuggivano alle norme restrittive imposte da Stato o religione».

Con la loro diffusione le informazioni raggiungevano anche gli uomini delle classi più umili, consentendo loro di partecipare alle imprese scientifiche, che privilegiavano ricerche con possibili applicazioni pratiche. Quest’apertura non fu uguale in tutti i paesi. Da ogni punto di vista, la Gran Bretagna ebbe un ruolo pionieristico. La sua tradizionale istruzione elitaria aveva ben poco da offrire a scienziati e ingegneri. La scienza era ancora abbastanza semplice da essere comprensibile anche a chi aveva solo un’istruzione di base. A beneficiarne fu la Gran Bretagna: le iscrizioni alla scuola primaria e il tasso di alfabetizzazione erano molto alti, creando un vasto bacino di lavoratori qualificati. Anche i lavoratori comuni come i costruttori di mulini potevano accedere a conoscenze applicate e alla meccanica teorica. L’alta alfabetizzazione e comprensione dell’aritmetica, frutto della Riforma e dello sviluppo economico della regione, si rivelarono precondizioni cruciali.

Ne scaturì inoltre un gruppo di poche migliaia di ingegneri, chimici, medici e filosofi naturali che ebbe un’influenza enorme. Potevano contare su qualche decina di migliaia di lavoratori qualificati che offrivano loro strumenti e abilità tecniche; tra di loro c’erano meccanici, costruttori di macchinari e operai metallurgici. Nel diciottesimo secolo queste competenze si diffusero al punto da non essere più ricompensate con salari speciali. Questo contesto tanto favorevole permise alle “macroinvenzioni” – innovazioni che cambiavano nettamente il modo di fare qualcosa – di essere affiancate e calibrate da un numero ancor maggiore di “microinvenzioni” dovute alla ricerca di continui miglioramenti.

La scienza formale non diede un grande contributo diretto alle prime fasi di un’industrializzazione dall’approccio tanto pratico. Il motore a vapore si basava su conoscenze non derivabili dalla mera osservazione, ma i progressi nella lavorazione del ferro e del cotone non erano debitori dell’avanzamento della scienza. Il contributo della scienza era soprattutto una questione di metodo: la sperimentazione controllata passò dalla scienza alla tecnologia.

La prima Rivoluzione industriale sfruttò al meglio il libero flusso di informazioni, tramite pubblicazioni di meccanica, registrazioni di brevetti, manuali e studi tecnici accessibili anche a un pubblico non elitario. Questa apertura non solo permise la diffusione di conoscenze pratiche, ma rese anche la Gran Bretagna un approdo più appetibile per gli emigranti. Dopo aver attratto per molto tempo esuli intellettuali o religiosi provenienti dal continente, ora attirava detentori di brevetti e affaristi che potevano sfruttare l’abbondanza di capitale e il suo sistema per registrare e proteggere i diritti di proprietà.

L’economia politica ebbe un ruolo importante. La legge sui brevetti risaliva al primo diciassettesimo secolo e contribuì a dare garanzie agli inventori che avrebbero goduto i frutti della loro fatica. I brevetti al tempo stesso proteggevano e diffondevano l’innovazione. Le autorità britanniche, un’élite strenuamente materialista, in genere si schieravano con gli interessi delle industrie, anche se significava prendere decisioni impopolari. Si opponevano a nuovi regolamenti e annullavano quelli che ostacolavano il cambiamento, non ascoltando le lobby in guerra contro le macchine: le rivolte luddiste furono soprattutto un segno di impotenza. Riconoscendo esplicitamente il ruolo del sistema di Stati competitivo europeo, il governo affermò perfino che l’industria delle macchine aveva bisogno di varcare i confini per prosperare. La volontà politica contribuì pertanto a creare un contesto nel quale le conoscenze utili e dirompenti «venivano usate con un’aggressività e un focus senza precedenti in nessun’altra società».

Gli innovatori della tecnologia furono tanto influenti anche grazie al loro rapporto con gli affaristi. Fu soprattutto l’industria privata, e non lo Stato, a patrocinare le loro imprese. La fusione tra un’ideologia dominante basata sullo sviluppo commerciale e le innovazioni della meccanica mise in collegamento capitale e scienze applicate. Questo processo non solo favorì un contesto che apprezzava i miglioramenti tecnici, ma fece collaborare ingegneri e investitori. Gli uomini d’affari apprendevano i princìpi della meccanica tramite la scuola e la lettura, ed erano ben accetti dalla cultura scientifica. Imprenditori e ingegneri operavano in un sistema di competenze e valori condivisi, dove «la cultura industriale si sposava con la conoscenza scientifica e la tecnologia». Tra tecnici, imprenditori e scienziati c’erano meno ostacoli rispetto al continente, e ci si concentrava di più sui risultati pratici.

L’interesse per la scienza, vero o falso che fosse, divenne un tratto distintivo «dell’alta società», proprio come era divenuta di moda «una mentalità volta al progresso». La conseguenza fu il legame «tra savants e fabriquants», una rarità nelle società dove le distinzioni di classe e di status facevano da freno. In Spagna, ad esempio, la cultura aristocratica si oppose alle novità, mentre in Francia la rigida piramide dello status separava agricoltura e commercio.

Queste differenze ci dimostrano ancora una volta l’importanza del pluralismo politico in Europa. L’élite della Francia pre-rivoluzionaria non mollava la presa sull’istruzione, mentre erano i finanziamenti dello Stato a creare una nuova élite di scienziati al suo servizio. La competenza ingegneristica veniva considerata «proprietà dello Stato, al servizio dell’interesse nazionale». Un approccio potenzialmente promettente, ma che subordinava la scienza ai vezzi della politica, che in genere preferiva la conservazione dello status quo. La dipendenza dallo Stato costringeva gli scienziati a rapportarsi personalmente col potere politico, invece di collaborare maggiormente con gli industriali come accadeva in Gran Bretagna. In Gran Bretagna comandava un’élite che privilegiava gli affari, mentre i re di Francia erano troppo deboli per accantonare gli interessi personali anche quando l’intenzione era quella di mettere in atto delle riforme.

Il periodo tormentato della Rivoluzione francese e della restaurazione non facilitò le cose, anzi rallentò il progresso. La guerra impedì la diffusione delle novità britanniche in Francia in un periodo cruciale. Nel 1793 vennero abolite le accademie scientifiche, anche se quella di Parigi venne presto riaperta. Dopo il 1815 il clero ritornò a una posizione di preminenza nel sistema educativo, con l’incarico di promuovere «la religione e l’amore per il re»: gli insegnanti della scuola primaria dovevano sottoporsi a test di rettitudine religiosa e l’istruzione scientifica subì una battuta d’arresto malgrado l’interesse pubblico. Vennero censurati i libri che ispiravano «sentimenti di animosità contro le classi elevate», mentre lo sviluppo industriale veniva visto con sospetto, quasi favorisse la sovversione politica. Anche l’educazione superiore finì nella sfera d’influenza del clero. Solo la Rivoluzione di luglio del 1830 pose fine a questo ostracismo.

La sovranità era la chiave. In Gran Bretagna la sicurezza – sia nei confronti dei nemici stranieri, sia internamente, in materia di diritti di proprietà – e l’economia politica che sosteneva furono decisive per l’avvento di un’innovazione tecnologica trasformativa, e per accedere al commercio internazionale e al carbone britannico: tutti questi input erano necessari perché uno sviluppo continuativo fosse sostenibile. Anche se lo Stato britannico non diede un grande contributo diretto al progresso scientifico e tecnologico, di certo non lo ostacolò. Nel complesso, contribuì alla creazione di un clima favorevole all’innovazione e alle sue applicazioni pratiche. Da questo punto di vista, si distinse da molti Stati dell’epoca. Se l’Europa latina fosse stata dominata da una sola economia politica egemone, non sarebbe potuto emergere nessun altro contendente dello stesso livello.

Valori

L’ascesa di una cultura illuminista basata sulla conoscenza e la sua applicazione pratica comportarono inevitabilmente dei cambiamenti nel modo di considerare imprenditoria e dignità di lavoratori e artigiani. Dobbiamo chiederci in che misura questi cambiamenti valoriali abbiano favorito uno sviluppo economico trasformativo. Deirdre McCloskey ha elaborato una tesi coraggiosa che pone i valori al centro della modernizzazione e della Grande Fuga. Nella sua ricostruzione, «furono le idee liberali a causare l’innovazione» necessaria a questo processo. Nel 1700, la classe media cominciò a parlare e a esprimersi in modo nuovo. «L’opinione generale divenne sempre più favorevole alla borghesia, e soprattutto favorevole al suo modo di commerciare e innovare», di conseguenza gli scambi e gli investimenti nel capitale umano crebbero di volume.

Fu il cambiamento dei valori a determinare tale espansione, e non viceversa. Questo portò alla «rivalutazione borghese», incarnata da una nuova retorica che difendeva l’arte di fare affari: il discorso aristocratico in precedenza l’aveva stigmatizzata come un’attività volgare, ma ora diveniva una pratica accettata, o perfino ammirata. Questo nuovo modo di pensare consentì alla borghesia di entrare a far parte della classe dominante, portandole una ventata di novità e un inedito spirito competitivo. Nel complesso, la principale forza motrice di questo cambiamento fu l’attribuzione di libertà e dignità alle persone comuni.

Secondo McCloskey, questo processo seguì una serie di tappe. La Riforma, la crescita del commercio, la frammentazione dell’Europa e la libertà delle sue città consentirono ai borghesi olandesi di godere di libertà e dignità. Col tempo, l’influenza olandese portò all’emulazione delle sue pratiche su commercio, banche e debito pubblico, e grazie anche alla diffusione della stampa la borghesia britannica raggiunse gli stessi traguardi, dando il via alla moderna crescita economica.

Le quattro R – lettura (reading), riforma, rivolta (nei Paesi Bassi) e rivoluzione (nel 1688 in Inghilterra) – diedero origine nell’Inghilterra del tardo diciassettesimo secolo alla quinta e decisiva R, la rivalutazione della borghesia, una «riconsiderazione egalitaria della gente comune».

La democratizzazione della Chiesa dovuta alla Riforma diede coraggio ai comuni cittadini; il protestantesimo del nord favorì inoltre l’alfabetizzazione. Per McCloskey anche la frammentazione politica fu necessaria perché avvenissero tali processi: si trattava di miglioramenti che funzionavano meglio su scala ridotta. Furono però le idee politiche, anzi, le idee in genere a determinare il cambiamento: «Fu necessario, e forse sufficiente, un cambiamento retorico». McCloskey documenta inoltre nel dettaglio l’emergenza di una retorica pro-borghese nella Gran Bretagna del diciottesimo secolo.

Questa prospettiva idealista, per quanto insolita per un’economista, è comunque compatibile col concetto che il policentrismo politico sia stato essenziale. Così come il successo della Riforma fu una contingenza della mancanza di un impero egemone, e il sistema di Stati protesse la crescita della ricchezza dovuta ai commerci, l’espansione del commercio internazionale derivò dall’espansione via mare dettata dalla frammentazione competitiva. Lo stesso vale per i cambiamenti nella retorica. Lo dice la stessa McCloskey: fino a quando le norme e le opinioni sociali riguardo agli affari furono controllate da élite aristocratiche, cristiane o confuciane, il loro dominio ostacolò «la marcia verso la modernità, che arrivò quando vennero riconosciute l’importanza del progresso e la dignità della vita economica delle persone comuni».

McCloskey ribadisce che il concetto in grado di far diventare egemone una classe in precedenza subalterna fu la «libertà». Difficile immaginare che grandi imperi tradizionali dalle classi dominanti arroccate – che si trattasse di ereditieri aristocratici, élite di guerrieri o di ricchi burocrati – potessero stabilire o accettare un cambiamento nei valori, soprattutto a favore di quelli riguardanti la libertà e la dignità della borghesia mercantile. Il tardo impero romano e la cristianità del medioevo non furono certo periodi adatti a una rivalorizzazione del genere, così come l’egemonia intellettuale e morale confuciana, volta a limitare gli interessi dei mercanti.

Provare una negazione non è semplice: non possiamo dimostrare che sia stato l’impero in sé a impedire un tale cambiamento valoriale.

Storicamente si è verificato solo nell’Europa nordoccidentale e in condizioni estremamente specifiche, profondamente segnate dalla natura policentrica della formazione degli Stati e del potere sociale: secondo la ricostruzione di McCloskey, è accaduto a partire dalla fine del sedicesimo secolo nei Paesi Bassi, dalla fine del diciassettesimo secolo in Inghilterra, nel diciottesimo secolo in New England e Scozia, e dopo il 1789 in Francia. McCloskey sottolinea con estrema cautela che non significa che nelle altre culture ci fossero «ostacoli permanenti e insormontabili a un miglioramento rapido», ma che fossero prive delle precondizioni necessarie. La variabile cruciale fu la frammentazione competitiva.

Mi fermo qui. In linea di principio niente ci impedisce di approfondire ulteriormente gli approcci ancor più idealisti, su tutti la celebre tesi di Max Weber sull’etica protestante, ma ci costringerebbe a ripetere le stesse argomentazioni. La diffusione e il successo di questi atteggiamenti e sistemi valoriali dipesero esclusivamente dalle circostanze che resero possibile la rivalutazione spiegata da McCloskey: non possono essere considerati autonomi e ancor meno esogeni. 

da “Fuga dall’impero. La caduta di Roma e le origini della prosperità occidentale”, di Walter Scheidel (traduzione di Paolo Bassotti), Luiss University Press, 2022, pagine 684, euro 35

Le frasi di ieri poco «progressiste». Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 26 luglio 2022.  

Conte: Salvini razzista? «Mai notato». «Viene descritto come razzista e xenofobo ma nei nostri dialoghi non ho mai raccolto elementi né di xenofobia né di razzismo». 

Salvini razzista? «Mai notato». Al sedicente «progressista» Giuseppe Conte, il quale pare aspetti che i dem sbolliscano la rabbia per il Draghi-cidio e si rifacciano vivi, potrebbe non essere facile far digerire a quelli che progressisti (magari delusi, sconfitti, emarginati, divisi...) si sentono da sempre, certe cose incancellabili dette dall’ex premier grillino: «Con Salvini ci incontriamo spesso. Viene descritto come razzista e xenofobo ma nei nostri dialoghi non ho mai raccolto elementi né di xenofobia né di razzismo. (...) Alcune frasi o dichiarazioni possono sembrare molto veementi (sic...), ma le politiche del governo sono in linea con gli standard europei».

Parlava del decreto sicurezza. Condiviso al punto di farsi una foto trionfante col Capitano reggendo entrambi il cartello: «#decretosalvini - sicurezza e immigrazione». Era il 24 settembre 2018. Tre anni e sul Corriere, voltata la casacca giallo-verde con quella giallo-rossa, sparava a zero: «I decreti sicurezza hanno messo per strada decine di migliaia di migranti dispersi per periferie e campagne. L’eliminazione della protezione umanitaria ha impedito a molti migranti di entrare nel sistema di accoglienza e ad altri di farli uscire, con il risultato che migliaia sono diventati invisibili. Insomma, Salvini da ministro dell’Interno sui rimpatri e sull’immigrazione ha fallito».

Ma come: se quel decreto l’aveva varato lui sostenendo che «non scardina(va) affatto il quadro degli impegni internazionali e delle tutele dei diritti fondamentali» e che le forme di protezione umanitaria dovevano «essere marginali»! Cosa c’era, in quei decreti, di «progressista»? Vi chiederete: ma chi glielo ha fatto fare oggi, a «Giuseppi», di autodefinirsi così?

Una risposta spiritosa sarebbe: tanto i dem ci stanno sempre. Difficile smentirlo. L’asse col Salvini filorusso («Cedo due Mattarella per mezzo Putin»), il decreto sicurezza, i porti bloccati, i profughi per il 92% in fuga dalla guerra in Eritrea, la difesa dei populisti («Se “populismo” è l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente, prendo spunto da riflessioni di Dostoevskij tratte dalle pagine di Puskin, se “anti-sistema” significa mirare a introdurre un nuovo sistema, che rimuova vecchi privilegi e incrostazioni di potere, ebbene queste forze politiche meritano entrambe queste qualificazioni») erano già tutti noti al momento del patto giallo-rosso. Come sia andata a finire si sa.

Il canone progressista. Perché mezza Italia non voterà mai a sinistra. Iuri Maria Prado su Linkiesta il 27 Luglio 2022.

I nostri concittadini scelgono spesso i partiti di destra perché li trovano meno artificiali e artefatti. Non sopportano quella cappa di superiorità di chi chiede ai propri elettori di essere democratici e di sinistra e non semplicemente italiani

Chi, a sinistra, fosse interessato a capire perché mezza Italia vota dall’altra parte pressoché indipendentemente da quel che fa e dice la destra, dovrebbe innanzitutto rinunciare a spiegare il fenomeno in base alla tradizionale interpretazione secondo cui si tratta alternativamente del popolo buggerato dalle promesse di una classe dirigente magliara o involuto nella propria impermeabilità retriva e reazionaria. Non fosse per altro, perché analoghe spiegazioni spiegherebbero anche certe fissità, sia pure altrove e su altre categorie attestate, del voto di sinistra: e dunque non spiegherebbero nulla. 

In realtà la pregiudiziale del voto di destra ha una causa molto più profonda e implicante, di cui la sinistra provincial-ombelicale non si accorge perché non ha compreso la portata, e dunque anche nemmeno i limiti, del proprio accreditamento. 

Quell’altra Italia non vota a sinistra perché ha subìto il protocollo del buon vivere di sinistra e magari vi si uniforma, ma non vi si riconosce. Sottoscriverebbe probabilmente il merito delle stesse proposte illiberali, delle medesime soluzioni corporative, ma senza attribuirlo al progetto di giustizia sociale che a sinistra costituisce la rubrica giustificativa di quei provvedimenti. 

Pur bigotta, pur codina, arriverebbe anche ad affettare analoghe disponibilità alla tolleranza nei costumi di coppia e familiari, ma ancora grazie alla messa modernizzata, non secondo il canone del talk progressista. 

Corrotta fin nelle midolla da un’identica ambizione parassitaria, quell’Italia sigillerebbe con il medesimo Stato paternalista e intrusivo un patto anche più esauriente rispetto a quello che si perpetua in formula democratica nelle concertazioni redistributive, ma non nel quadro retorico che associa a quel regime provvidenziale il ripudio del Suv e la requisitoria ugualitarista del giornalismo cui scappa la sghignazzata sulle badanti ucraine. 

Quest’Italia non migliore dell’altra, che dell’altra ripete i tratti più detestabili, non vota a sinistra perché a destra trova un segno di rappresentanza meno artificiale, meno artefatto, meno adulterato, delle proprie aspirazioni. La sinistra dovrebbe meditare su questa differenza: essa chiede ai propri elettori di essere democratici, di sinistra; la destra chiede ai propri solo e soltanto di essere italiani.

Esigenza di progresso. Il riformismo come antidoto agli estremismi ideologici. L'Inkiesta il 16 Luglio 2022.

Il podcast “Riformismo Mon Amour”, curato dallo storico Alberto De Bernardi e da Carla Petrachi per Radio Leopolda, ricostruisce l’evoluzione storica di un pensiero politico che trova le sue origini nell’utilitarismo di Jeremy Bentham e nella lotta all’immobilismo conservatore

Il riformismo come soluzione politica alle esigenze dell’attualità. Quando a prevalere sono tavole di valori diametralmente opposte, come il sovranismo e il populismo, cioè costruzioni politiche ideologiche e conflittuali, nascono disastri. L’abbiamo visto con i governi di Donald Trump, Jair Bolsonaro, lo stesso Vladimir Putin nasce dalla stessa matrice. «Il riformismo è l’unica carta che possiamo giocare», dice a Linkiesta lo storico Alberto De Bernardi, Presidente della Fondazione PER (Progresso, Europa Riforme) e Coordinatore di REFAT (International Network for the Study of Fascism, Authoritarianism, Totalitarianism and Transitions to Democracy).

«La parola riformismo – aggiunge De Bernardi – è usata e abusata dalla politica, al punto da aver perso di significato: oggi tutti sono riformisti, questa parola si è snaturata fino a diventare sinonimo di altre questioni con cui in realtà ha poco a che fare, tipo moderatismo, radicalismo e una serie di posizioni che hanno dissolto il significato profondo di questa parola, che difende valori e posizioni e visioni del mondo specifiche, così come lo fanno il sovranismo, il marxismo, il socialismo e tante altre categorie».

Al fianco di Carla Petrachi, De Bernardi cura il podcast “Riformismo Mon Amour”, prodotto da Radio Leopolda. Il progetto si sviluppa su 12 episodi che ricostruiscono la storia del riformismo in un viaggio dalla fine del Settecento, dalle battaglie di Jeremy Bentham contro il conservatorismo, fino ai giorni nostri.

Una traiettoria che abbraccia gli ultimi due secoli della storia europea, tra filosofie politiche, movimenti, rivoluzioni, sconfitte, passando tra le vite di uomini e donne che hanno scritto la storia del riformismo, e dei movimenti politici che lo hanno professato, di chi ci ha creduto e chi invece ha fatto di tutto per ostacolarlo.

Il punto d’origine del riformismo va ricercato in Jeremy Bentham, il padre dell’utilitarismo: «Siamo abituati a pensare all’utilitarismo come un pensiero egoista, invece Bentham è un utilitarista perché pensa alla cosa pubblica, pensa all’utile come bene comune, come giustizia sociale», spiega De Bernardi. «Il riformismo trova qui il suo punto d’origine. Per Bentham, ma poi in tutta la tradizione di pensiero liberal democratica, la libertà ha senso se è definita dalla legge, se è integrata in un sistema che ne assicura l’esercizio combinandola tutti gli altri diritti definiti dalla legge. Altrimenti rischiano di sconfinare nell’arbitrio».

Nella società contemporanea questa esigenza di libertà deve necessariamente declinarsi su toni diversi rispetto a due secoli fa. Ma i principi possono essere gli stessi. Ne è una dimostrazione la pandemia: di fronte a una situazione eccezionale di emergenza sanitaria, che ha prodotto milioni di morti su scala mondiale, la cosiddetta “libertà di pensiero” nel ritenere che le vaccinazioni siano sbagliate o inutili o dannose, perde di valore rispetto alla necessità di garantire il diritto di tutti alla salute e alla protezione sociale.

Allora il riformismo deve dare sfogo alla sua esigenza di cambiamento, di progresso, va a contrastare tutte le forme di conservatorismo. Ma non è un cambiamento come un altro. «Il riformismo – dice De Bernardi – ha dentro di sé un’ansia di trasformazione che si fonda sulla necessità di cambiamento del mondo, così come il marxismo e tutte le ideologie della rivoluzione. La differenza rispetto a queste ultime è che bisogna guardare la realtà e riconoscerla in quanto tale: non si può creare una verità ideale da raggiungere, ma bisogna partire dalla realtà del mondo per cambiare e progredire».

Ecco allora che ritorna quella definizione di Bentham che del suo pensiero è diventata manifesto: il massimo della felicità per il massimo numero di persone. «Questa frase di Bentham è la sintesi perfetta di cos’è il riformismo: non la palingenesi dell’universo o il Sol dell’Avvenire, ma una tavola di valori che vuole portare il massimo della felicità possibile al massimo delle persone. Sappiamo che il mondo perfetto non esiste, questo ce lo insegna la storia, però abbiamo questa ansia di perfettibilità del mondo verso cui dobbiamo tendere».

·        Il Populismo.

Il rapporto Censis. Italiani poveri, rassegnati e con la paura della guerra: il rapporto Censis e la contraddizione populista. Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Dicembre 2022

Il cinquantaseiesimo rapporto del Censis – che ogni anno è uno degli “atti” più significativi della sociologia italiana – ci racconta di una società rassegnata e delusa ma con diverse buone idee. Delusa soprattutto dal fallimento del populismo, che aveva sollevato furiose speranze e si è afflosciato nel nulla. Il Censis descrive un paese che molto rapidamente è transitato dallo spirito guerriero alla fatal quiete.

Parla di epoca post-populista, sebbene i risultati elettorali ancora indichino una prevalenza schiacciante dei partiti della destra populista. Come si spiega questa contraddizione? Probabilmente la contraddizione nasce dalla rassegnazione. La grande maggioranza degli italiani, secondo il Censis, è indignata soprattutto per le diseguaglianze economiche. Quasi il 90 per cento degli intervistati non sopporta l’enormità del gap di reddito che divide i manager dagli impiegati e dagli operai, e non sopporta neppure lo sfoggio di ricchezze (ad esempio l’uso di jet privati). Questa opinione così compatta non spinge però verso la rivolta ma verso la rassegnazione. Quasi il 93 per cento degli italiani si aspetta nuovi picchi di inflazione, e il 76 per cento non prevede aumenti del proprio reddito.

E perciò non è attratto dalla possibilità di salire sull’ascensore sociale, né dall’accesso al lusso o all’eccellenza. Vorrebbe un po’ di serenità, ma non crede di poterla avere. Vive drammaticamente il rischio della guerra mondiale e atomica (circa il 60 per cento teme l’una e l’altra) e naturalmente – come sempre – è preoccupato per l’aumento del crimine. Quest’ultima paura – osserva il Censis – è peraltro del tutto infondata. I reati nell’ultimo decennio sono diminuiti del 25 per cento, gli omicidi del 42 per cento, le rapine e le case svaligiate quasi dimezzate.

L’unico reato in aumento è lo stupro e il femminicidio. Rabbia senza rivolta? Forse. Però ho un ricordo: nel 1967 una grande casa editrice americana preparò un volume che raccoglieva molti saggi sulla nuova generazione. Descritta come imbelle, tranquilla, addormentata. Doveva andare sul mercato nella primavera del 68. Non andò mai in libreria…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di avanspettacolo, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Gabriele Ferrari per focus.it il 2 dicembre 2022.

Le pecore non sono solo un animale ma anche un simbolo, non necessariamente positivo, di chi obbedisce agli ordini altrui e segue il capo senza farsi troppe domande: pensate per esempio al dispregiativo "pecorone". Ora un nuovo studio della Université Côte d'Azur sembra volerle vendicare, o quantomeno riconoscere loro una complessità sociale che va al di là della struttura "uno guida, gli altri seguono". Pubblicato su Nature, lo studio dimostra che, almeno in certe condizioni, le greggi di pecore non hanno un solo capo, ma si alternano democraticamente (e casualmente) alla guida del gruppo.

Lo studio ha per ora un solo limite: è stato condotto su gruppi di piccole dimensioni, composti da 2 a 4 esemplari di femmine della stessa età. Queste mini-greggi sono stati osservati durante la giornata e da debita distanza (il luogo di osservazione era la cima di una torre vicino ai loro campi), per scoprire come si comportano quando non vengono guidate da un'"entità" esterna (per esempio, un pastore).

Il team ha scoperto che le pecore alternano momenti in cui brucano l'erba ad altri in cui si muovono in gruppo in cerca di altri pascoli; e che ogni volta che si spostano, il gruppo cambia leader: una pecora si mette alla guida e le altre la seguono ordinatamente. Il nuovo capo è scelto ogni volta in maniera casuale, o almeno così sembra.

In realtà, dietro questa forma di alternanza democratica ci potrebbero essere dei motivi pratici. Ogni esemplare, infatti, ha una diversa conoscenza dell'ambiente circostante: potrebbe, per esempio, conoscere la location di un prato particolarmente verdeggiante che le altre pecore non hanno mai visitato, e aspettare il suo momento di condurre per mostrarglielo.

Inoltre, sapere che prima o poi toccherà a te "fare il capo" aiuta anche ad accettare con più serenità le decisioni degli altri leader, e a evitare possibili conflitti. Il limite dello studio è tutto nelle dimensioni delle greggi considerate: non sappiamo (ancora) se la "rotazione dei leader" avviene anche in gruppi più numerosi, e se la presenza di maschi cambia qualcosa in termini di leadership. Per il team che ha condotto la ricerca si preannunciano dunque altri viaggi in cima alla torre di osservazione.

Il partido justicialista argentino. Cosa è il peronismo: il populismo argentino tra socialismo e regime. David Romoli su Il Riformista il 17 Novembre 2022 

Da anni l’accusa di populismo rimbalza da una sponda all’altra degli schieramenti parlamentari e tra i politici alzi la mano chi, una volta o l’altra, non se l’è sentita scagliare contro. Eppure in questa orgia di spettri populisti nessuno cita mai il solo compiuto esempio di populismo moderno, il Partido Justicialista fondato nel 1947 in Argentina da Juan Domingo Peròn, allora al potere da un anno. Giustizialista, in quel caso, aveva però un senso diverso da quello che ha poi acquisito: veniva dalla fusione della parola “Giustizia” con “Socialismo”.

Chissà com’è che in un dibattito farcito di esempi storici quasi sempre adoperati a sproposito, dalle SA naziste all’italianissimo Partito dell’Uomo Qualunque, è sfuggito proprio quello più attagliato. Ignoranza o distrazione in molti casi. Ma in altri pesa invece l’imbarazzo creato da una realtà che non si presta alla ridicolizzazione o alla riduzione a epiteto. Il populismo di Peròn è stato una cosa tutt’altro che risibile, sfuggente a ogni catalogazione precisa ma tanto pervasivo da giustificare una celebre risposta del Caudillo a un giornalista. Peròn aveva appena affermato che «gli argentini sono al 30% socialisti, al 20% conservatori, un altro 30% è di radicali…». Il giornalista lo interruppe: «E i peronisti?». Risposta secca: «Ma no, peronisti sono tutti quanti». Lo erano allora e lo sono ancora oggi. Divisi in correnti di destra e di sinistra l’un contro l’altra armate. Ma tutti peronisti e tutti devoti al culto di Santa Evita, Eva Duarte, la seconda moglie del presidente, morta di cancro a soli 33 anni nel 1952.

Nato nel 1895, Peròn era di discendenza mista ma certamente con una parte di sangue italiano. Lui stesso affermava di provenire “dal Regno di Sardegna” ed è appurato che i nonni vivessero a Genova. L’impatto più significativo con l’Italia non risale però all’albero genealogico ma agli incarichi che l’allora giovane maggiore, dopo essere stato per tre anni addetto militare in Cile, ricoprì in Italia dal 1939 al 1941. La conoscenza diretta del regime fascista influenzò a fondo la sua ideologia, soprattutto perché la interpretò come un tentativo inedito di coniugare capitalismo e socialismo in vista di una compiuta socialdemocrazia. Due anni dopo il ritorno dall’Italia il colonnello Peròn fu uno dei principali artefici del golpe del Grupo de Oficiales Unidos (Gou) che rovesciò il governo Castillo ponendo così fine a una fase della storia argentina nota come “il decennio infame” e l’amena definizione dice tutto. L’economia era in mano ai grandi allevatori e latifondisti e al capitalismo degli Usa e dell’Uk, che controllavano il 50% delle imprese argentine. Nel decennio infame i governi, sia in divisa che come quello di Castillo in abiti civili, rappresentavano strettamente questi interessi ignorando quelli dei piccoli e medi imprenditori e soprattutto di un proletariato urbano che nel corso di un decennio si era moltiplicato, modificando profondamente l’assetto sociale argentino. Il sindacato Cgt era cresciuto sempre più, in proporzione allo sviluppo dell’industria e del proletariato urbano, ma, dopo l’invasione tedesca dell’Urss del 1941, si era diviso in Cgt e Cgt2, vicina alla destra e al fascismo.

Il colonnello entrò nel primo governo dopo il golpe come capo della segreteria del ministero della Guerra ma già l’anno dopo, spinto dalla potente Cgt2 era ministro del Lavoro, poi anche della Guerra nonché vicepresidente del nuovo governo guidato dal generale Edelmiro Farrell. Nel frattempo aveva conosciuto , nel gennaio 1944, Eva Duarte, un’attrice di origine poverissima, figlia illegittima e per questo discriminata nell’infanzia, che aveva appena raggiunto la celebrità come interprete di telenovelas alla radio. Un mese dopo il primo incontro Peròn, vedovo, si trasferì a casa sua. La simpatia di Peròn e del presidente Farrell per il fascismo è indiscutibile. Le leggi varate dal nuovo ministro del Lavoro però erano altrettanto indiscutibilmente molto favorevoli ai lavoratori e sancivano conquiste per le quali il sindacato si batteva invano da un decennio: salario minimo garantito, giornata lavorativa di 8 ore, indennità per incidenti sul lavoro e malattie professionali, tredicesima, ferie retribuite, riconoscimento dei sindacati. Peròn, poi, incarnava una spinta che era forte a destra come a sinistra: l’ostilità verso il capitalismo anglo-americano e l’obiettivo di affrancare l’Argentina dalla condizione semicoloniale in cui era costretta. Su questa base si sviluppò, negli anni dell’esilio, la vicinanza con l’argentino Che Guevara, che nella dedica della copia del suo La guerra di guerriglia regalata all’ex presidente si definì “un ex oppositore evoluto”.

Gli Usa e il Regno unito fomentarono un nuovo golpe, stavolta per spodestare Farrell e soprattutto Peròn. Il 9 ottobre 1945 il vicepresidente fu costretto alle dimissioni. La radio stracciò tutti i contratti di Evita. Il 12 Peròn fu arrestato. L’intera Cgt proclamò uno sciopero generale per il 18 ottobre ma i lavoratori si mossero da soli il giorno prima occupando Plaza de Mayo e reclamando la liberazione di Peròn. Il sole martellava, moltissimi si tolsero la camicia restando a torso nudo. Da quel momento gli argentini delle fasce povere che del peronismo erano la base furono “los descamisados”,gli scamiciati. La sera stessa Peròn fu scarcerato, i golpisti estromessi dal governo, fissata per il febbraio successivo la data delle elezioni presidenziali. Appena libero Peròn sposò Evita e i due affrontarono insieme la campagna elettorale girando il Paese su un treno ribattezzato “El Descamisado”. Peròn fu eletto presidente con il 56% dei voti.

Juan Domingo Peròn sarebbe rimasto al potere fino al 1955,dopo aver rivinto le elezioni stavolta con il 62% dei voti, nel 1951. Proclamava di volere una terza via tra capitalismo e comunismo. Il suo regime aveva aspetti vicini al fascismo, come l’arresto di molti dirigenti marxisti e sindacalisti oppure l’ospitalità offerta ai gerarchi nazisti sfuggiti alla cattura. Ma ne vantava altri vicini invece alla sinistra, soprattutto come la politica redistributiva a favore dei lavoratori e le numerose nazionalizzazioni. La Costituzione che varò nel 1949 era ispirata sia alla Costituzione italiana approvata l’anno prima che alla Carta del Carnaro scritta da Alceste De Ambris e adottata nella Fiume dannunziana, probabilmente quanto di più socialmente evoluto ci sia mai stato nella storia italiana. Sanciva il diritto di sciopero, alla salute, all’istruzione, riprendeva dalla Carta italiana la funzione sociale dell’impresa, limitava la concorrenza col monopolio statale sul commercio estero. La popolarità di Peròn tra i poveri e i lavoratori era immensa, in buona parte grazie a Evita, che nel 1949 aveva fondato il Partito peronista femminile. Il presidente aveva lasciato a lei il compito di mantenere il rapporto col popolo e con i lavoratori, oltre che di illustrare la sua rivoluzione in un viaggio diplomatico in tutta l’Europa.

Lei stessa si definiva “il ponte che collega Peròn con il popolo”. Era animata da una sincera e spontanea, anche se certamente viscerale e ingenua, passione per la giustizia e in difesa dei deboli. Fu lei a imporre la legge che garantiva piena parità di diritti tra uomini e donne. La Fondazione che creò nel 1948 offriva, approfittando anche di una congiuntura economica estremamente positiva, sostegni economici a chiunque ne avesse bisogno, borse di studio e un massiccio programma di edilizia popolare, costruzione di nuove scuole con annesse mense e attività sportive per i bambini poveri, costruzione di ospedali, 13 dei quali ancora operativi, laboratori clinici e case di cura per anziani. Il decalogo dei diritti degli anziani da lei stilato sarebbe considerato un modello ovunque ancora oggi. Onnipresente, Evita fu presto circondata da una sorta di culto destinato a crescere dopo la prematura scomparsa. Peron fu rovesciato da un colpo di Stato nel 1955. La morte di Evita aveva eliminato uno dei suoi principali puntelli, la rottura con la Chiesa cattolica lo aveva ulteriormente indebolito. Sia il generale che Evita erano cattolici. Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII, aveva scritto alla moglie del presidente: «Signora prosegua nella sua lotta per i poveri ma sappia che quando questa lotta si comincia sul serio, termina sulla croce». Peròn aveva reso il cattolicesimo religione di Stato ma il tentativo di introdurre il divorzio e le ingerenze dello Stato nell’educazione portarono a una crisi sfociata nella scomunica, poi revocata da Paolo VI. Il Vaticano si associò alle pressioni americane e inglesi per destituire con le armi il detestato presidente.

Rovesciato dai militari Peròn rimase in esilio nella Spagna franchista fino al 1972. La salma di Evita, mummificata subito dopo il decesso, fu spostata in segreto da un posto all’altro. I golpisti sapevano che se l’avessero distrutta la rivolta popolare sarebbe stata certa ma anche che, se avessero permesso il pellegrinaggio, la tomba sarebbe diventata il centro di un culto ribelle. Alla fine fu portata in Europa e sepolta sotto falso nome a Milano. Nel 1971 la salma fu restituita a Peròn: oggi riposa in una sorta di cripta “a prova di attacco nucleare”. Nel 1973 il Caudillo fu rieletto presidente ma sopravvisse solo pochi mesi e la terza moglie Isabel, che gli succedette, fu rovesciata dal golpe di Videla due anni dopo. Era un Peròn molto diverso da quello di vent’anni prima, ormai completamente spostato a destra, tornato presidente ma in realtà sopravvissuto a se stesso. Il movimento peronista era tanto diviso che il giorno del suo rientro in Argentina si risolse in una battaglia tra peronisti di sinistra e di destra che lasciò sul terreno 13 morti. Erano peronisti i guerriglieri di estrema sinistra Montoneros, erano peroniste le organizzazioni di estrema destra ed erano peronisti anche i centristi cattolici a cui andavano le simpatie del peronista Jorge Bergoglio. Ma il peronismo è sopravvissuto al suo fondatore ed è ancora determinante, nelle sue varie versioni, nella politica argentina. Sono stati peronisti, di aree opposte i presidenti Menem che ha guidato il Paese dal 1989 al 1999, il suo rivale diretto Néstor Kirchner (2003-2007) e poi la sua vedova Christine Kirchner, presidente dal 2007 al 2015. È peronista l’attuale presidente dell’Argentina Alberto Fernandez, eletto tre anni fa.

Quando Eva Peròn, nel suo tour europeo, arrivò a Roma, alla fine degli anni 40, il Pci organizzò manifestazioni di protesta contro il “dittatore fascista”. Nel ‘68 era ancora considerato tale, anche se Lotta continua definì il peronismo “uno dei fenomeni più incompresi del secolo”. L’estrema destra, in particolare Terza posizione, riconobbe il generale argentino come un punto di riferimento eminente. E tuttavia, nonostante l’ammirazione di Peròn per Mussolini, ridurre il peronismo a una variante del fascismo è impossibile. Erano assenti la liturgia e la retorica militarista dei regimi fascisti. Era del tutto assente il fondamentale tradizionalismo: nel 1949 la quota del 33% di incarichi riservato alle donne del Partito peronista femminile sarebbe stata inimmaginabile anche nelle democrazie più evolute. Soprattutto, a differenza di tutte le varianti del fascismo, il peronismo non fece blocco con i poteri consolidati del latifondo e del capitale ma, sia pure nella versione della collaborazione di classe, rimase sempre sbilanciato a favore dei lavoratori. Lo stesso “culto della personalità”, concentrato soprattutto su “Santa Evita”, era fondamentalmente diverso da quelli dei totalitarismi del XX secolo, più simile a un culto popolare religioso non troppo distante da Padre Pio, col quale del resto Evita manteneva stabili rapporti epistolari. Certamente sincero era infine il suo terzomondismo, la determinazione nel sottrarre l’Argentina alla presa del controllo neocoloniale Usa.

Peròn non era “né di destra né di sinistra”. Era sia di destra, per alcuni versi, che di sinistra per altri. La formula della “terza via”, di solito ipocrita e vuota, nel suo caso si trasformò in un movimento reale, sopravvissuto in qualche misura al suo stesso fondatore, una realtà determinante nella storia dell’Argentina. Forse è proprio per questo che, nelle varie crociate contro il populismo, il solo movimento compiutamente ma anche seriamente populista, tale dunque da dover essere preso sul serio, viene puntualmente dimenticato. Anche se pochi politici hanno prefigurato l’attualità come l’argentino. In Trump come in Putin, in Macron come in Marine Le Pen in Conte come in Salvini, Giorgia Meloni, Salvini, Calenda o Renzi, c’è qualcosa, e a volte c’è molto, di Juan Domingo Peròn. David Romoli

Soncini spiega il populismo. Le mie tasse sprecate, i deputati poco ricchi e la beneficenza a metà di Ferragni. Guia Soncini su L’Inkiesta il 30 Novembre 2022

Non mi indigno mica per i cinquemila e cinquecento euro che i parlamentari si sono assegnati per comprarsi il cellulare per postare su TikTok, mi stupisce che ancora non capiscano come ragionano gli italiani: essere scrocconi non è elegante

Ho un amico professore di liceo che, ogni volta che parliamo di qualche film che ha visto al cinema, precisa: coi vostri soldi. Ci sono infatti, tra i molti modi in cui le mie tasse sgocciolano sul conto corrente di altri, anche quattro spicci che vanno agli insegnanti per aggiornamento professionale: libri, film, dischi (parlandone da vivi).

È giusto che il mio amico vada al cinema con le mie tasse? Sì, no, forse. Sì: avete presente che miseria guadagni un professore? No: sono ragionevolmente certa che lui sia uno dei pochissimi a usare quei quattro spicci per consumi culturali in proprio e non per fare i regali di Natale. Forse: il fatto che sia una persona con una conversazione interessante fa di lui un buon insegnante, e nessuno che si nutra di solo TikTok ha una conversazione interessante.

In linea di massima non è una buona idea che sia l’elettorato a decidere, che si tratti di scegliere quali pene vanno comminate per reati particolarmente odiosi o di stabilire a chi debbano andare i soldi delle tasse. Io, per dire, non vorrei che le mie tasse pagassero un’inutile istruzione a quegli irrecuperabili asini dei vostri figli, né i medici perlopiù cani, né la giustizia che ci mette centocinque anni a istruire un processo, né – capite bene che, se avessi diritto di decidere io, l’organizzazione dello Stato andrebbe a meretrici.

Tutto ciò premesso, non sarò certo io a indignarmi per i cinquemila e cinquecento euro che i deputati, porelli, hanno erogato a loro stessi per comprarsi il cellulare nuovo con cui fare i video su TikTok, il computer nuovo con cui mandare mail all’amante, e altre amenità (ecco, vedete, il populismo è sempre pronto a possederci, cosa dici Soncini, il computer e il telefono nel 2022 sono indispensabili strumenti di lavoro).

Il mese scorso ho letto un’intervista a una deputata venticinquenne, Rachele Scarpa. La rivista aveva fatto il titolo con la sua risposta alla ficcante domanda «ha già trovato casa a Roma?». Risposta che trascrivo: «Starò nella capitale tre giorni alla settimana per seguire i lavori parlamentari e vorrei spendere meno di mille euro al mese. Ma ho scoperto che è impossibile trovare una casa in centro a questo prezzo».

Sono populista io se faccio notare che, se guadagni quindicimila euro al mese, forse puoi anche far girare l’economia spendendone più di mille per l’affitto? È populista la deputata che, guadagnandone quindicimila, dà interviste con le preoccupazioni economiche d’una studentessa fuori corso? È populista il settimanale che titola «Come mi pago una casa a Roma centro?» sapendo che il tema degli affitti cari nelle città tira sempre? È una bella gara.

La vera domanda, ovviamente, non è come diavolo ti venga in mente di fare quella che non si può permettere l’affitto, come diavolo vi viene in mente di non comprarvi il telefono coi soldi vostri. La vera domanda è: che fine ha fatto il senso dell’opportunità?

Il senso dell’opportunità è quella cosa per cui se la fantastiliardaria Chiara Ferragni mette in vendita i suoi abiti usati, che «una parte del ricavato» andrà in beneficenza è un’affermazione imbarazzante: come si può essere così ricchi e non avere nessuno nello staff che ti dica Chiara, facciamo che in beneficenza va tutto e noi raddoppiamo la cifra di nostro, ché pensare che ci teniamo una parte degli spiccetti per pagarci il lavasecco non ci fa fare bella figura.

Il senso dell’opportunità è quella cosa per cui se tutti sanno quanto guadagni, e sanno che guadagni parecchio, non ti metti lì a scrivere una norma secondo la quale dev’essere la fiscalità generale a pagarti il telefono e il computer. Non perché c’è il populismo, non perché c’è la crisi, non perché la gente non arriva a fine mese, non perché «kasta»: perché è inelegante essere scrocconi.

Soprattutto, non si fa perché una qualità che è importante avere è quella di imparare non solo dai propri errori ma da quelli altrui. E, se c’è una cosa che le figure pubbliche in Italia hanno avuto la possibilità di apprendere dalla storia italiana degli ultimi decenni, è che, se la sensazione è quella d’una diffusa e reiterata crapula, poi l’elettorato lincia la classe dirigente e la sostituisce col primo scemo che passa di lì, finché anche quel primo scemo inizia a pensare che l’elettorato gli debba pagare i croccantini del cane e le gomme da masticare e i gioielli da regalare alla moglie per l’anniversario, e svacca, e viene punito e sostituito anche lui, e avanti con un nuovo giro d’incontinenza e castigo.

Poi certo, pure l’elettorato che ti rompe i coglioni se sei ricco di famiglia e cosa puoi capirne dei nostri problemi, e ti rompe i coglioni se sei uno che è stato povero fino a ieri e non gli pare vero fare la bella vita a scrocco, pure l’elettorato sarebbe da riformare, ma si fa prima a cambiare classe dirigente ogni decennio, e a farsi governare da sempre nuovi incompetenti i quali però abbiano la fedina della scrocconaggine pulita.

In Italia gli antisistema sono diventati sistema. E ora sono al potere. Nel nostro Paese la tradizione liberale è sempre stata debole e oggi i populisti hanno l’egemonia tanto sulla maggioranza quanto sull’opposizione. Massimiliano Panarari su L'Espresso il 2 Novembre 2022 

Dopo l’insediamento del governo Meloni è giunto definitivamente il momento di rivedere la dicotomia tra sistema e antisistema, quella frattura su cui i partiti populisti hanno costruito la conquista di palazzo Chigi. All’indomani di una sequenza inarrestabile di successi (con l’unica parentesi della sospensione della campagna elettorale permanente determinata dalla pandemia), l’antiestablishment si fa pertanto establishment. In Italia come in altri luoghi, ma con tutta una speciale valenza laboratoriale e “avanguardistica” proprio nel nostro Paese, fucina a getto continuo e di lunga durata dell’antipolitica e del populismo antiliberale (come aveva intuito Steve Bannon indicandolo compiaciuto come un avamposto della “rivoluzione” e della “Internazionale sovranista”, sin dalla fase gialloverde del Conte 1).

Popolo, libertà, individuo. Analisi di un populista antipopulista: tra l’Illuminismo e la critica al mito della Ragione. Filippo La Porta su Il Riformista il 29 Settembre 2022 

Si può essere populisti di sinistra? Si può riconoscere l’illuminismo – per Giorgia Meloni la causa di tutti i mali! – come la nostra uscita dallo stato di minorità, e pure nutrire qualche dubbio sull’illuminismo, sulla trasformazione della Ragione in un altro mito (come dicevano Adorno e Horkheimer) che riduce il mondo a materia da dominare? Personalmente mi sento sia populista che antipopulista. Cerco di spiegarne i motivi. Mi sento, a metà, populista perché la differenza tra intellettuali e gente comune è assai meno consistente di ciò che si pensi. La cultura, per quanto importante, non scava un abisso tra le persone, e ciò dovrebbe anzitutto vietare qualsiasi supponenza da parte degli intellettuali. San Tommaso distingueva tra intelletto attivo e intelletto passivo (o potenziale).

Il primo ce l’hanno solo alcuni, ma il secondo ce l’hanno (fortunatamente) tutti. Perciò non esiste quell’abisso. A volte anche negli intellettuali “professionali” l’intelletto resta potenziale, salvo un’apparenza di simulazione di intelletto attivo. Il barista o il meccanico di moto di Testaccio (quartiere dove abito) può dire nel corso di una qualsiasi conversazione più cose intelligenti di Cacciari o di Agamben o di Rovelli (i quali una volta che hanno avuto una intuizione magari notevole, possono benissimo ritornare nella inattività dell’intelletto possibile!). Se tutti disponiamo dell’intelletto passivo, la nostra mente allora non è mai una tabula rasa, dunque tutti potenzialmente possiamo gestire la cosa pubblica, come la famosa cuoca di Lenin, come un bibitaro dello stadio, a patto che riusciamo ad attivare l’intelletto passivo.

Peraltro mi considero, per l’altra metà, antipopulista perché ci sono tanti “popoli” in giro, e un popolo amorfo, emotivo, manipolabile come la massa attuale, è “stupido”, come riteneva Flaubert. Esistono innumerevoli tipologie di “popolo”, e siccome un populista ritiene sempre di parlare a nome del popolo, dovrebbe ogni volta specificare a quale popolo fa riferimento. Per il populista russo Herzen si identificava con le comuni rurali, per Jack London con il “popolo degli abissi”, i poverissimi dell’East End londinese, per Orwell con la piccola borghesia d’antan e i suoi valori di lealtà e decoro, per il peronismo (non a caso declinato sia a destra che a sinistra) con i diseredati contro le oligarchie esterofile. Populisti sono stati Pisacane e Chavez. C’è popolo e popolo: quello attivo delle democrazie e quello amorfo, manipolabile delle autocrazie. E spesso si chiamano “populisti” leader che invece semplicemente sono “demagoghi”, come ha osservato Gianfranco Bettin. Lo dico proprio perché mi sento, almeno in parte, “populista”.

Jean-Claude Michea (pubblicato da Neri Pozza ed Eleuthera), un autore populista e di sinistra (si richiama tra l’altro a Pasolini), assume a bersaglio la sinistra spregiudicatamente moderna o liberal, ironica e cosmopolita. Soprattutto: intende sganciare la sinistra autentica dall’illuminismo, dato che il socialismo nasce nell’’800 senza rifarsi specificamente ai lumi ma in relazione con i movimenti operai, popolari, luddisti, anarco-sindacalisti, etc. E infatti dell’illuminismo rifiuta l’individualismo egoistico, l’idea di una libertà individuale tendenzialmente sfrenata, che per lui si traduce nella libertà sovrana del consumatore, incurante di tabù, frontiere, vincoli, scrupoli morali, etc.

Michea contrappone alle élite liberali, giovanilistiche e “di sinistra” che secondo lui governano oggi il mondo (il settore dello spettacolo, la TV, la pubblicità, insomma che plasmano l’immaginario planetario) il caro vecchio “popolo”, il quale certo non è immune da sciovinismo, e mentalità gretta, però conserva per lui due valori preziosi per qualsiasi sinistra: il senso del limite e la comunità. Un discorso trasversale: ad esempio da noi, potrebbe intercettare elettori sia di Fratoianni che della Meloni, i quali pure si ispirano a “popoli” diversi! Ora, secondo me Michea ha ragione e ha torto.

Michea ha ragione quando sottolinea come la spocchia radical chic discende dall’illuminismo, da chi pretende di essere superiore agli altri in virtù dei suoi consumi culturali, e ha ragione anche quando nota che l’ideologia dominante è quella – dissacrante – di uomini di mondo ben contenti di non appartenere a niente, illimitatamente flessibili e in movimento, innamorati di innovazione e trasgressione. Ha torto quando dimentica che dall’illuminismo e dalla modernità ci viene altresì il valore fondamentale dell’individuo, con il suo nucleo inviolabile (che antecede la collettività cui appartiene, sia essa famiglia o clan), ). Come sapeva bene il suo maestro riconosciuto Orwell.

L’individuo non è una monade asociale o il borghese calcolatore, ma colui che dice no al potere, che si ribella e che decide di riconoscersi ogni volta nella comunità che lo rispecchia, anche prefigurandola (“Mi rivolto, dunque siamo”, Camus). E dall’illuminismo ci viene altresì l’idea universalistica dei diritti umani, superiori a tradizioni locali e costumi tribali (perciò non va “rispettata” l’infibulazione, pur essendo una pratica antichissima). Il “popolo” a nome di cui parla Michea, e cioè una comunità solidale che crede nella famiglia, nell’amicizia, in relazioni durevoli e nel lavoro ben fatto, oggi è a sua volta una proiezione. Si tratta solo di minoranze, quasi l’ultima memoria del “popolo” di una volta, tra le macerie del postfordismo e dentro una modernità sempre più liquida. Il punto è che mancano oggi le condizioni materiali in cui poteva formarsi quel “popolo”.

Oggi la destra identifica le radici con la patria intesa in senso angustamente nazionalistico (confini da difendere contro improbabili invasioni!), mentre la sinistra non si pone neanche più il problema delle radici. E invece il bisogno umano di radicamento resta fondamentale. Solo che questo radicamento non è più garantito e non è più esclusivamente territoriale: va cercato liberamente – da parte dell’individuo (così inviso a Michea!) – in quella tradizione che più gli somiglia, senza un’appartenenza segnata da sangue e suolo, ma scegliendo una identità al tempo stesso multipla – come è oggi l’identità di ciascuno di noi -, e però fatta di una materia non friabile, che possiamo condividere con altri. In definitiva il “popolo” per cui, da semi-populista, io parteggio, è formato da individui singoli, non omologati, indocili (e dal loro intelletto potenziale). Filippo La Porta

Populismo, la parola magica del grande equivoco. ROCCO VALENTI su Il Quotidiano del Sud il 25 Settembre 2022. 

È arrivato il giorno delle elezioni del nuovo Parlamento in formato ridotto. Chissà se da domani, o almeno fra un mese, il tempo di smaltire la sbornia della campagna (elettorale) d’estate, avremo qualche giorno in cui non sentiremo più parlare di populismo, populisti, iperpopulisti, populisti a metà e via discorrendo… Populismo, già.

Se non fosse che a scuola ci hanno avvertito che gli “ismi” solitamente esprimono una valenza negativa, verrebbe quasi da prendere in simpatia questa parola. Una parola che ci riporta al popolo, anzi, ai popoli, dal momento che il generoso eloquio della politica ha reso di uso comune espressioni quali “il popolo dei lavoratori dipendenti”, il “popolo delle partite Iva”… E il buon senso ci farebbe aggiungere altri “popoli” (quello, per esempio, delle famiglie in povertà assoluta o relativa) quali tessere del mosaico della società contemporanea. Tessere che esprimono, evidentemente, i bisogni comuni a gruppi del popolo italiano. Il termine populismo è usato da tempo con significati diversi da quello originario (si rimanda ad un buon dizionario per chi ne volesse sapere di più) e declinati di volta in volta secondo necessità.

POPULISMO, LA PAROLA DEL GRANDE EQUIVOCO

Negli ultimi mesi, solo a leggere o ascoltare le cronache politiche, è apparso legittimo il dubbio se siano più i populisti – intesi con maglie larghe e un po’ come più piaccia – o gli analisti che ne discettano sommati ai politici che apparentemente ne prendono le distanze. Questa parola, insomma, anche se non sappiamo che cosa indicasse quando è stata coniata, è entrata a far parte della nostra vita. Ci sono fior di saggi e dotte dissertazioni sul fenomeno, con argute reinterpretazioni tagliate per i nostri giorni. Così come, del resto, per quel che riguarda gli “ismi”.

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La scorpacciata di invettive contro nuovi e vecchi populismi, in tempi recentissimi, ha alimentato per la verità un dubbio. E cioè che questa parolina magica sia solo uno stratagemma per mascherare la lancia con cui colpire gli avversari e, in taluni casi, alimentare una battaglia “contro” che altro non è che un modo per allontanare artatamente da sé responsabilità e incapacità. Si intuisce facilmente che non è un discorso che dà per scontata una divisione netta tra forze politiche populiste e non populiste. Dal momento che proprio in questa campagna elettorale la gente si è resa conto che argomenti cari a coloro che vengono considerati “populisti ufficiali” sono stati utilizzati da candidati appartenenti a forze politiche che della lotta ai “populisti ufficiali” hanno una bandiera della propria proposta politica (sic, doppio sic: per la sottrazione indebita e per la qualità della piattaforma propositiva esternata agli elettori).

I DUBBI SUL VALORE DELLA PAROLA POPULISMO

Delle due l’una: o qualche volta le proposte populiste rispondono a esigenze sentite da uno o più “popoli” (e in questo senso la libera interpretazione manda temporaneamente in soffitta l’avvertenza generale sugli “ismi”) o questa parola è un fronzolo per abbellire il nulla.

Dopo il dubbio, in verità, c’è anche un grosso equivoco di fondo, sciolto il quale la nostra vita “acustica” sarebbe finalmente ripulita dal nulla, appunto, che spesso le parole populismo e antipopulismo esprimono.

Se uno promette che abolirà tutte le tasse, farà viaggiare gratis su treni e aerei e assicurerà un congruo corredo in dote ad ogni giovane nuova famiglia, per intenderci, e non spiega come farà a finanziare tutte queste belle cose, allora non è necessario dire che è un populista. Ci sono termini e aggettivi che non si prestano a equivoci o interpretazioni multiple (l’elenco è lunghissimo e comprende, in questo caso, parole poco carine persino da scrivere).

POPULISMO O POPOLARE, IL VOTO LIBERO È UN MOMENTO DI VERIFICA

Andiamo a votare, con la mente sgombra. Sapendo che c’è un altro terreno su cui i partiti devono misurarsi – se ne sono capaci – in questa fase delicatissima che si sta attraversando. È quello delle cose “popolari”, nel senso di atti e fatti che rispondono ai bisogni dei “popoli”, perché dopo le elezioni non c’è neanche il rischio che le cose “popolari” vengano usate come esche. Si fanno o non si fanno. Nell’uno e nell’altro caso il voto libero espresso avrà un momento di verifica. Che faremo senza che in sottofondo si blateri di “ismi”.

Populismi, cialtronismi, ultranazionalismi e trumpizzazione delle destre repubblicane minacciano sempre di più le democrazie europee. Caterina Avanza, Consigliera politica al Parlamento europeo, su Il Riformista il 22 Luglio 2022 

Le giornate del 20 e 21 luglio 2022 entreranno nella storia d’Italia e d’Europa, perché le conseguenze di questa crisi politica si faranno sentire ben al di là delle frontiere nazionali, come il trionfo di populismi, cialtronismi e trumpizzazione di quel che restava del centro destra italiano. Ma una volta passato lo sgomento, è compito di ogni democratico, oserei dire di ogni elettore, fermarsi ad analizzare le cause. La crisi italiana, non è solo italiana, ma si iscrive in una crisi generale delle democrazie liberali.

La democrazia rappresentativa è sempre più spesso messa in dubbio.

L’astensione ne è il primo sintomo. Votare non è più un dovere, non è più un diritto nato da secoli di battaglie e non è più nemmeno un piacere. Nella maggior parte delle grandi democrazie europee vota meno del 50% degli aventi diritto, quando erano il 90% negli anni 70. E come non pensare oggi a Capitol Hill. Il fatto che un presidente in carica sconfitto possa aizzare “il popolo” per prendere d’assalto le istituzioni rappresentative non ha precedenti nella storia americana, che non ha mai vissuto un colpo di Stato o un putsch militare. Ma quello che ci dice Capitol Hill è che poiché “uno vale uno”, poiché la rappresentanza è iniqua, poiché le classi dirigenti sarebbero per definizione contro il popolo, si crea una situazione in cui, fra l’individualismo sfrenato dei singoli cittadini e gli impulsi incontrollabili della folla, non ci sono più corpi intermedi o cuscinetti che tengano. E come non ridere (per non piangere) quando il Movimento 5 Stelle, dopo aver ricevuto 11 milioni di voti attraverso i meccanismi rappresentativi democratici, decide di sottoporre il suo progetto di coalizione con la Lega a una consultazione popolare sulla piattaforma Rousseau. 40.000 voti di “democrazia diretta” hanno quindi deciso la nascita del governo Giallo/Verde…

La fiducia fra governati e governanti e nella parola istituzionale e mediatica, è ai minimi storici

Durante la crisi dei Gilet Gialli, lavoravo per il presidente Macron all’interno del suo partito En Marche! Andai sulle rotonde a discutere con i manifestanti e quello che più mi colpì fu l’impossibilità di trovare una base comune di credenze. Si può non essere d’accordo su come analizzare un fenomeno e sulle politiche da elaborare, ma per istaurare un dialogo è necessario stabilire un punto di partenza condiviso. Prendiamo il tasso di disoccupazione, possiamo dibattere sulle cause e sulle soluzioni, ma è necessario trovarsi d’accordo sui dati comunicati dall’Istat o dal ministero del lavoro. E invece non è più cosi. La pandemia ha dimostrato quanto la parola istituzionale fosse contestata. C’è poi chi gioca su questa sfiducia per trarne vantaggi elettorali, senza capire che il danno può essere irreversibile. Penso per esempio a Jean-Luc Mélenchon, che dopo il primo turno delle legislative in Francia ha pubblicamente dichiarato che i dati forniti dal ministero degli interni erano falsi…

A questa crisi politica va aggiunta una crisi sociale molto importante: l’aumento della disoccupazione, della disuguaglianza, della precarietà e oggi dell’inflazione sono carburante per partiti populisti e esperienze anti sistema. Nel periodo 1985-2001, le quote di reddito detenute dal 10% più ricco e dal 50% più povero divergono delineando probabilmente la fase di maggiore crescita della disuguaglianza nella storia recente del nostro Paese. Un’esperienza simile si rileva in tanti altri paesi europei. Non è un caso se in quel periodo, in tutta Europa emergono partiti che si collocano al di fuori del classico bipolarismo centro-destra, cristiano/conservatore e centro-sinistra/socialdemocratico progressista. Emersero in quegli anni partiti nazional-populisti di estrema destra come le Front Nazional in Francia, l‘FPÖ in Austria o la Lega Nord in Italia.

L’indebolimento o la sparizione delle destre repubblicane a profitto di destre estreme ha reso l’alternanza politica estremamente pericolosa.

Il successo di esperienze populiste di estrema destra anti sistema come la Lega Nord ha portato le destre repubblicane, Gaulliste (come direbbero in Francia) ad essere sempre più accondiscendenti verso gli estremi. Va ricordato che fu Berlusconi il primo in Europa a rompere il cordone sanitario e a sdoganare l’estrema destra alleandosi con la Lega di Umberto Bossi, per poi ritrovarsi, nel giro di qualche decennio, in minoranza di fronte all’ ingombrante alleato! Il successo di questi movimenti populisti, ha spinto anche i partiti di estrema destra di tradizione fascista a sposare, a loro volta, i codici del populismo. Alleanza Nazionale sotto la direzione di Fini rifiutò l’utilizzo di strategie populiste e scomparì dal panorama politico a profitto di Giorgia Meloni che invece le adottò a grande scala, diventando il primo partito italiano nei sondaggi.

Infine, vanno aggiunti altri tre ingredienti, per completare la ricetta della crisi della democrazia liberale, il primo è il sentimento di una messa in discussione, per un’intera fascia di popolazione, della propria identità, della propria cultura. La sensazione di non riconoscere più il proprio paese, la propria strada, la propria comunità, cedendo alle sirene dei vari Orban che promettono un mondo che non esiste più e non potrà più esistere. La società monoculturale, bianca, cristiana venduta da Trump dopo otto anni di presidenza Obama, ha funzionato come promessa elettorale in quella parte di America in crisi identitaria ma non si è mai trasformata in realtà e mai si trasformerà in realtà (per fortuna!).

Il secondo è l’ingerenza di regimi autoritari e di movimenti ultraconservatori, da Putin, a Steve Bannon, il progetto di far capottare le democrazie liberali europee e con esse l’Unione europea, è pensato e finanziato, tant’è che il Parlamento europeo ha deciso di costituire una commissione “ingerenze” per monitorare i flussi finanziari, le ingerenze nelle campagne elettorali (fu provato nel caso della Brexit) e gli attacchi cyber, per tentare di proteggere l’Unione dalle strategie esterne di destabilizzazione.

Il terzo, è l’incapacità dei partiti social-democratici europei di parlare alle masse e l’assenza di ricambio dirigenziale che alimenta la retorica anti élite, anch’essa carburante per i populismi.

Per cancellare il sentimento di profonda vergogna verso una larga fetta della classe dirigente del mio paese che ha mandato a casa l’Italiano più autorevole che ci sia, ho deciso che di questo 21 luglio 2022, riterrò nella memoria e nel cuore soltanto un’immagine bellissima e di speranza per il futuro della nostra democrazia: Draghi che annuncia l’interruzione della seduta alla Camera per “comunicare al Presidente della Repubblica le mie DETERMINAZIONI”. Questo rispetto assoluto per il Parlamento e per le istituzioni è il miglior scudo verso tutti i populismi e i cialtronismi del pianeta. A noi democratici, progressisti e europeisti non resta che scendere in campo, metterci in gioco, investirci e fare politica con la P maiuscola, con garbo e proposte che migliorino con efficacia la vita delle persone. Non c’è un minuto da perdere se vogliamo evitare all’Italia di scivolare verso la democrazia illiberale e verso il suo ingresso nel gruppo di Visegrad.

·        Il solito assistenzialismo.

UNA RICERCA AMERICANA. La città con più napoletani? Sorpresa: non è Napoli. Da primabergamo.it il 21 Luglio 2014

C’è un detto che vuole noi italiani presenti in ogni parte del mondo e in esso c’è certamente del vero. Che l’Italia sia per storia un Paese di emigrati non è una novità: sin dall’inizio del XX secolo, con la famosa valigia di cartone, tanti nostri connazionali in fuga dalla povertà hanno cercato fortuna all’estero. Stati Uniti, Sudamerica, Germania, Inghilterra: il mondo pullula di persone dal cuore tricolore che si son costruite una nuova vita lontano dall’Italia. Ad avere subìto in particolare il fenomeno migratorio è il Mezzogiorno, con migliaia di persone partite da Calabria, Sicilia, Campania e dalle altre regioni, e intere generazioni cresciute in città lontane e Paesi stranieri. Il fenomeno è stato talmente esteso che oggi ci riserva una simpatica sorpresa: Napoli non è la città con più napoletani al mondo.

Napoli solo quinta. L’istituto americano Demographic ha svolto una ricerca molto accurata sulla presenza di napoletani, o persone di origini partenopea, residenti in diverse città e ha scoperto che Napoli è solo la quinta al mondo (in una classifica di dieci) per presenza di napoletani. L’indagine è stata poi pubblicata sul sito Napolistyle.it, che parla di «stupefacente classifica». Prima al mondo per numero di napoletani è San Paolo del Brasile, seguita da Buenos Aires, Rio de Janeiro e Sidney. Dopo Napoli ci sono New York, Londra, Toronto, Berlino e Monaco di Baviera. Così nel mondo. In Italia i dati sono un po' più rassicuranti: Napoli resta la capitale della “napoletanità” e dietro di lei la sua provincia con Casoria (seconda). Seguono Roma, Milano, Torino, Torre del Greco (sesta), Pozzuoli (settima), Bologna, Giugliano in Campania (nona) e Latina.

I nuovi migranti. Con la crisi economica scoppiata nel 2008, l’Italia ha assistito ad una nuova consistente ondata migratoria. Niente più valigia di cartone, sostituita con una bella ventiquattrore per i sempre più numerosi giovani laureati italiani che davanti alle difficoltà di trovare un impiego decidono di cercare fortuna (spesso con successo) all’estero. Anche il territorio bergamasco, in passato meta di tante persone alla ricerca di lavoro, è ora diventato terra di migranti: lo ha detto  il Rapporto Italiani nel Mondo 2013, realizzato dalla Fondazione Migrantes, che ha indicato Bergamo come terza città in Lombardia per numero di iscritti all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero), appena dopo Milano e Varese. Precisamente sono, ad oggi, 41 mila e 92 i bergamaschi stabilmente trasferitisi all’estero negli ultimi anni. La maggior parte di questi sono di età compresa tra i 35 ed i 49 anni (25 percento), ma sale la percentuale di giovani tra i 18 ed i 34 anni (19 percento).

Resta comunque il Mezzogiorno ad avere la percentuale maggiore di italiani che fuggono (52 percento), mentre il Nord rimane stabile al 32 percento. A differenza del passato, l’Asia è uno dei continenti preferiti in cui trasferirsi, con un incremento del 18,5 percento nel numero di italiani accolti. Resta sempre forte l’amore per l’America (6,8 percento), comprendente sia USA che l’intero Sudamerica. Da nessuna parte del mondo mancherà una pizza napoletana.

Qual è la città con più napoletani? Redazione napolitoday.it l'01 ottobre 2021

Nell'ultima classifica demografica disponibile Napoli è solo al 4° posto per numero di napoletani.

Tra '800 e '900 le continue migrazioni hanno portato i napoletani in tutto il mondo: in quegli anni quasi 30 milioni di italiani partirono verso le Americhe, l’Australia e l’Europa occidentale e la maggior parte di loro era del Mezzogiorno e, soprattutto, della Campania.

L'ultima indagine sulla presenza di napoletani nel mondo è stata realizzata da un istituto statunitense specializzato in demografia, il “Demographic”, e mostra non solo l’incredibile diffusione di nostri concittadini in tutti i continenti, ma rileva anche l'incredibile dato che non è Napoli la città del mondo con più napoletani.

La classifica dei napoletani nel mondo

Realizzata qualche anno fa, l'indagine demografica rivela che la città del mondo dove vive il maggior numero di napoletani non è Napoli ma è San Paolo, in Brasile. 

Ecco l'ultima classifica disponibile delle città dove si contano più napoletani al mondo

San Paolo (Brasile)

Buenos Aires (Argentina)

Rio de Janeiro (Brasile)

Sydney (Australia)

Napoli (Italia)

New York (USA)

Londra (Regno Unito)

Toronto (Canada)

Berlino (Germania)

Monaco di Baviera (Germania)

Federica Olivo per huffingtonpost.it il 24 settembre 2022.

Giorgia Meloni sarà a Napoli per l'ultimo evento della campagna elettorale, e i centri sociali sono già in allerta. Non distante da lei ci sarà Luigi Di Maio, già protagonista di qualche bagno di folla nei vicoli partenopei. Giuseppe Conte è stato lì a prendersi gli applausi per il reddito di cittadinanza. E nel capoluogo campano sono corsi anche i leader del Terzo polo. Non per strada, non in piazza, ma alla stazione marittima. 

A ognuno la sua location, fatto sta che il capoluogo campano è meta ambita a pochi giorni dalle elezioni. Marino Niola, antropologo, docente all'Università Suor Orsola Benincasa e grande conoscitore di Napoli, ci ha spiegato perché.

Professore, tutti corrono nella sua città in cerca di voti. Perché è diventata il centro della campagna elettorale?

«Napoli è stata più volte decisiva per l'esito delle elezioni. Perché, oltre a essere molto popolosa, è una città campione. È un laboratorio che anticipa ciò che succede nel Paese. Per il suo essere meno definita di altri luoghi non è una città moderna. È post moderna». 

Possiamo, però, già prevedere il futuro: dopo le elezioni non ci sarà tutta questa attenzione nei confronti del capoluogo campano.

«Perché Napoli è la città delle emergenze. E ora l'emergenza è elettorale. Passata questa, come quando sono passate le altre, si pensa che Napoli torni in omeostasi. Cioè, che resti sempre uguale. In realtà non è vero, Napoli cambia moltissimo, è già cambiata moltissimo, ma questo ai media sfugge.

Perché la narrazione stile Gomorra e il racconto dell'emergenza rifiuti si vendono meglio. Così, per rappresentare Napoli non c'è solo la cartolina "pizza, golfo e Pulcinella", ma anche quella che io ho sempre chiamato olografia al nero: quella che rappresenta il degrado. Come tutte le olografie, non è né vera né falsa». 

A proposito di narrazione, adesso viene raccontata come il bacino più grande del Reddito di cittadinanza, quella dove Conte e Di Maio cercano di prendersi il premio di una misura su cui mettono il cappello. Un'immagine non falsa, dati alla mano, ma certamente riduttiva, non trova?

«È l'antico stereotipo, idiota, sul Sud. Si è sempre fatta l'equazione Sud=assistenzialismo e questa del reddito di cittadinanza è la versione aggiornata di un'idea falsa. Un'idea, declinata in vari modi, secondo cui Napoli è la città dei soldi a fondo perduto.

In realtà, reddito di cittadinanza a parte, dopo gli anni '80 il Sud nella ripartizione dei fondi non ha esattamente fatto la parte del leone. Inoltre, questo stereotipo offusca i poli di eccellenza che ci sono in zona. Non viene vista come città produttiva, invece lo è: se dici a qualcuno che una grande percentuale del tessile si produce a Nord di Napoli, questo qualcuno cade dalle nuvole». 

Ma, insomma, queste passerelle elettorali spostano qualche voto? Le fasce popolari che si sono allontanate dalla politica potrebbero decidere di andare a votare?

«Spostano qualcuno che fa parte della massa degli indecisi, ma non di più. Quanto agli sfiduciati, la percentuale non è molto più alta che altrove. Vede, il voto dei napoletani viene considerato, a posteriori, come un voto d'istinto, fatto senza ragionamento politico. Anche questa narrazione è falsa».

Mettiamoci nei panni degli abitanti dei quartieri popolari che vedono i leader politici fare le sfilate nelle loro strade. Cosa pensano?

«Non dimentichiamoci che la città ha 3mila anni di storia. I napoletani sono disincantati, le capiscono queste dinamiche. E cercano di fare il loro interesse. Di votare come conviene loro. E, attenzione, guai a pensare che mi riferisca al voto di scambio. La verità è che non credono a nessuno di questi politici qui».

Ci regala un ritratto della campagna elettorale vista da Napoli?

«Semplice: tanto rumore per nulla».

Povero Sud, il rischio è che resti soltanto un bancomat elettorale. Ci si sofferma sul Sud, però, con un obliquo sguardo compassionevole, legato alla contesa sul reddito di cittadinanza, ovvero sul sussidio statale che viene corrisposto a chi resta indietro e anche - non si può negarlo - a qualche finto indigente. Michele De Feudis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Settembre 2022.

I riflettori nazionali puntati sul risultato delle sfide elettorali nel Mezzogiorno restituiscono solo in apparenza una centralità alla questione meridionale. Se i seggi conquistati «a Sud» dal centrodestra, dai dem o dai 5S saranno pesantissimi nel computo che determinerà le future maggioranze, l’auspicio è che questa nuova occasione di essere rilevanti nel dibattito pubblico non sia sprecata.

Ci si sofferma sul Sud, però, con un obliquo sguardo compassionevole, legato alla contesa sul reddito di cittadinanza, ovvero sul sussidio statale che viene corrisposto a chi resta indietro e anche - non si può negarlo - a qualche finto indigente. L’effetto collaterale di questa dinamica politica è che alla parola Sud sia accomunata troppo spesso la parola povertà, o nei casi di imbroglio per ricevere il sussidio, di finta povertà. Non a caso, spesso, negli spazi dei talk, diventano preponderanti le testimonianze dei percettori, con una esposizione della sofferenza economica che spesso deborda nella spettacolarizzazione, come se fosse una vecchia cartolina del degrado di una terra, simile ai Sassi di Matera raccontati da Carlo Levi. Questa deformazione rende un popolo laborioso come quello meridionale trasformato in ritratto esotico, di cui occuparsi per il breve flash di una campagna elettorale, dimenticandone colpevolmente la laboriosità, la creatività, e i volti e i calli di chi va orgogliosamente in campagna o nelle acciaierie, non solo a servire frise ai turisti gaudenti sbarcati nel Tacco d’Italia dai voli delle compagnie low cost.

Questo affresco crea uno sconforto e anche un po’ di disamore per la politico, come ben sintetizzato in passato dall’intellettuale Giano Accame: «Nel generale tramonto delle passioni politiche le prossime scelte più che a consensi sembrano doversi affidare al contenimento o alla crescita di opposti astensionismi. Il passaggio dall’idea di valore da significati eroici, militari o nella lotta di classe, a più prosaiche valutazioni in denaro ha ridotto nel corso di mezzo secolo le elezioni a gara, peraltro sempre più costosa, tra chi delude di meno o suscita minor tedio».

Allora è utile, a poche ore dal voto, ricordare la radice orgogliosa del «pensiero meridiano» di Franco Cassano, ovvero «l’idea che il Sud abbia non solo da imparare dal Nord, dai Paesi cosiddetti sviluppati, ma abbia anche qualcosa da insegnare e quindi il suo destino non sia quello di scomparire per diventare Nord, per diventare come il resto del mondo». Spiegava il sociologo barese: «C’è una voce nel Sud che è importante che venga tutelata ed è una voce che può anche essere critica nei riguardi di alcuni dei limiti del nostro modo di vivere, così condizionato dalla centralità del Nord-Ovest del mondo. Io credo che il Sud debba essere capace di imitare, ma anche di saper rivendicare una misura critica nei riguardi di un mondo che ha costruito sull’ossessione del profitto e della velocità i suoi parametri essenziali».

Dopo questo rodeo elettorale il Sud e le sue classi dirigenti si troveranno di fronte alla realtà di disegnare un originale e inedito orizzonte di sviluppo e benessere sociale, sostanziato di risposte da dare alle periferie meridiane dell’Europa che non vogliono essere dimenticate. Ecco nel Sud del sud dei Santi (Carmelo Bene ci perdoni), se non nascerà un riformismo pragmatico, volto a dare un volto sostenibile al welfare e un supporto alle eccellenze industriali (dal manifatturiero all’aerospazio), potrebbe materializzarsi una insopportabile beffa. Ovvero quella del Sud trasformato in mero bancomat elettorale.

La partita che si gioca per il Sud torna a essere limitata ai problemi antichi. GIANNI FESTA su Il Quotidiano del Sud il 24 settembre 2022.

Problemi antichi del Sud da sempre inseriti solo nei programmi elettorali. Purtroppo le dimissioni e il conseguente disimpegno di Draghi hanno spezzato ogni prospettiva di riconquista di una rinascita meridionale

Perché i partiti, o quello che resta di essi, per il voto corrono all’arrembaggio verso il Sud? Solo perché qui ci sono molti percettori del reddito di cittadinanza che, temendo di perdere l’unico sussidio, nel segreto delle urne faranno la differenza?  O la radice anche di questo male è nell’assenza di una classe dirigente degna di questo nome che, anche nel corso di questa campagna elettorale, a Napoli come a Palermo, non viene mai chiamata in causa, né messa sotto accusa?

Dove è finito il meridionalismo dell’impegno, della costruzione di un pensiero capace di proporre e realizzare oltre la solita lamentela strappacuore che isola il Mezzogiorno più ancora di quanto già non lo sia? Se lo scontro per la cattura del consenso si gioca tutto e solo sugli elementi di debolezza (disoccupazione, servizi sociali limitati, ecc), come purtroppo sta avvenendo in queste ore, è evidente che la partita che si gioca per il Sud torna ad essere limitata a problemi antichi e da sempre inseriti solo nei programmi elettorali.

I PIANI PER IL SUD E I PROBLEMI PASSATO

Dal piano Sud di Berlusconi premier, al Masterplan di Matteo Renzi, fatta eccezione per il premier Draghi che aveva puntato tutto sulla novità di una riforma culturale e alla lotta senza quartiere per la bonifica del territorio meridionale dalla criminalità organizzata, resta proprio poco per il Sud nei proclami dei leader delle diverse forze politiche. Purtroppo le dimissioni e il conseguente disimpegno di Draghi hanno spezzato ogni prospettiva di riconquista di una rinascita meridionale. 

Quale Mezzogiorno è entrato nel dibattito politico di questa campagna elettorale? Molto spesso si è detto di un Sud straccione, alla ricerca di una identità, votato all’assistenzialismo. Di un territorio occupato dalla illegalità e del disegno della criminalità per accaparrarsi le nuove risorse… Eppure la politica come espressione del Sud, anche in questo turno elettorale, è rimasta muta. Talvolta si è limitata a evidenziare solo alcuni aspetti positivi di un territorio in cui la presenza di tesori monumentali, la risorsa climatica, le bellezze naturali e le risorse energetiche, come i vasti bacini acquiferi, rappresentano l’altra faccia di una medaglia spendibile sul piano nazionale e internazionale. L’operazione complessa è mettere insieme risorse e difficoltà per elaborare un programma di lunga durata, in grado di sconfiggere l’eterna emergenza che attraversa l’intero territorio meridionale.

IL FALLIMENTO DEL DISEGNO UNITARIO DELLE REGIONI DEL SUD

È evidente che per procedere su questa strada e ottenere risultati occorre una voce unitaria che rappresenti l’intero Mezzogiorno. Ci aveva provato, anni fa, Antonio Bassolino, nel ruolo di governatore della Campania. Lo ha seguito poi Nello Musumeci dalla Sicilia e, recentemente, anche Michele Emiliano dalla Puglia. Tutti tentativi falliti e il disegno di una regione meridionale unitaria si è frantumato, surclassato nella miope visione di guardare ciascuno alla propria cinta regionale, dando vita a quel deteriore campanilismo, al coro stonato che ancora oggi ha reso muta la prospettiva di una voce unitaria del Sud.

Il modello individualistico della rappresentanza a livello nazionale ha reso più fragile la questione meridionale che non sempre, e non solo, è riferita alla mancanza di risorse, non invece al ruolo mediocre svolto dalla classe dirigente meridionale. Ne è esempio l’incapacità a utilizzare i finanziamenti ordinari concessi dall’Europa alle regioni meridionali e restituite all’Europa per mancanza di capacità progettuale o a causa di progetti poco credibili. Di tutto questo, e di altro ancora, non c’è traccia in questa campagna elettorale che si avvita in un confronto con etichette sbiadite.

LE VOCI PER IL SUD E I SUOI PROBLEMI IN QUESTA CAMPAGNA ELETTORALE

Ascoltando le voci più recenti dei leader sulla questione meridionale si coglie il senso di una colpevole improvvisazione che non va oltre il già sentito. Come dire: niente di nuovo sotto il sole. Per Giorgia Meloni, ieri in chiusura di campagna elettorale a Napoli, in quell’arenile di Bagnoli, luogo di grandi lotte per il lavoro, “Il Sud per me – dice – è una grande occasione di sviluppo per questa nazione. Credo che sia mancata in questi anni soprattutto una visione industriale che coinvolga il Sud su settori non adeguatamente valorizzati, penso al tema dell’economia del mare e penso all’energia.

Nel dramma della situazione attuale noi abbiamo una grande occasione soprattutto per il Sud: i gasdotti dal Nordafrica e dal Mediterraneo occidentale arrivano qui al Sud, qui non mancano sole, mare e vento, con un po’ di soldi e un po’ di intelligenza noi possiamo fare del Sud l’hub di approvvigionamento”. Questo modo di guardare al Mezzogiorno si commenta da solo. Potrebbe essere una pagina di pubblicità oleografica per un Sud che di certo meriterebbe molto di più. Forse un qualche riferimento all’agricoltura, nel segno e nel sogno di Manlio Rossi Doria, certamente non guasterebbe.

LA QUESTIONE GIOVANILE

Da Meloni a Letta. “Ho girato molto il Sud in questa campagna e per me è profondamente ingiusto raccontare il Sud come solo quella parte del Paese che è interessata al reddito di cittadinanza. È vero – afferma il segretario nazionale del Pd –  che c’è il tema, soprattutto nelle fasce di maggiore povertà, ma c’è anche tantissima voglia di creare nuove iniziative. Serve un piano di grandi investimenti e di detassazione, specie per i giovani, per il nuovo lavoro che si crea al Mezzogiorno”. Giusto.

Sembra, però, che Letta non abbia compreso fino in fondo la lezione del passato, quando la leggendaria Tina Anselmi, con la legge per il lavoro giovanile, e Salverino De Vito, ministro per il Mezzogiorno nel governo Craxi, qualche anno dopo, posero le basi per arrestare la fuga dei cervelli, tema che avrebbe rappresentato il vero dramma dello spopolamento del sud interno. Argomento, invece, che la Chiesa di Francesco sta affrontando con determinazione e volontà, come risulta dal percorso intrapreso da molti vescovi con il manifesto “Notte a Mezzogiorno”.

IL SUD, I SUOI PROBLEMI E L’ENNESIMA OCCASIONE PERSA

Si potrebbero commentare altri pezzi di un mosaico che non c’è seguendo la campagna elettorale che domenica porta gli italiani al voto. Per concludere che ancora una volta, come avrebbe detto Guido Dorso, il Sud ha perso una grande occasione storica.

Politiche 2022, tutti al Mezzogiorno, ma è vera gloria? PIETRO MASSIMO BUSETTA su Il Quotidiano del Sud il 24 settembre 2022.

Tutti proiettati verso questa parte: le Politiche 2022 in chiave Mezzogiorno, ma sarà vero?

Sembra che il Sud sia diventato l’Eldorado politico del Paese. Tutti proiettati verso questa parte, tanto che a cominciare dalla star politica del momento, Giorgia Meloni, che ha concluso la sua campagna elettorale nientemeno che a Bagnoli, stretta tra l’esigenza di non perdere un bacino elettorale importante e dall’altra parte di barattare il presidenzialismo, al quale tanto tiene, con la richiesta ultimativa della Lega dell’autonomia differenziata.

In ogni caso, certamente, tutti si stanno impegnando molto per acquisire il consenso di questa parte. Dopo averlo dimenticato quasi completamente nei loro programmi elettorali, o addirittura dopo averne previsto la mortificazione e l’esigenza della statuizione dei due paesi di serie A e di serie B, adesso si sono svegliati con il chiodo fisso di un pensiero dominante verso il Mezzogiorno.

POLITICHE 2022, TUTTI A MEZZOGIORNO

“È vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza” avrebbe detto Alessandro Manzoni.

Più modestamente si può dire che questa corsa al Sud, questa ripresa di una posizione più equilibrata nei confronti del reddito di cittadinanza, hanno il senso di una ulteriore offesa ad un elettorato che sta cercando di capire chi possa proteggerlo da un destino infame, che prevede solo emigrazione o assistenza e invece rappresentare adeguatamente i suoi interessi.

Si rileva da un lato il quasi abbandono di una posizione di partito nazionale da parte della Lega Nord che, nelle dichiarazioni di uno dei suoi leader Zaia, afferma che la contesa è “fra chi vuole un nuovo Rinascimento con l’autonomia e chi si ostina a credere che la carta vincente sia l’assistenzialismo medievale” e che invece il problema è “la mala gestio che attanaglia il Paese soprattutto al Sud”.

Ma dall’altra parte il PD, che cerca voti da Palermo a Bari a Napoli, con un attivismo e una presenza che da molto non si erano visti, ma che ha difficoltà a rinnegare quell’autonomia differenziata, prodromo della secessione dei ricchi, portata avanti da Boccia, per non dispiacere Bonaccini, in pole position per la segreteria dopo la prevista sconfitta del PD nelle elezioni e la conseguente possibile messa da canto di Enrico Letta dalla posizione preminente nel partito.

Mentre Forza Italia si limita a mandare nella lotta i suoi luogo tenenti, non rinunciando a paracadutare la quasi moglie di Berlusconi in un collegio del trapanese siciliano, ma con un’attenzione particolare a promesse di pensioni a 1000 per tutti o di dentiere gratis che fanno capire quanta poca stima vi sia dell’elettorato attivo in particolare del Sud.

IL MEZZOGIORNO PER TERZO POLO E CINQUESTELLE

Forse l’unico raggruppamento che non ha troppo lisciato il pelo ad una realtà sempre considerata marginale è il terzo polo che continua con una evangelizzazione contro il reddito di cittadinanza, che avrebbe più senso se fosse meno estrema, più ragionevole, e si calcasse più la mano sull’esigenza di creare posti di lavoro veri.

Il movimento Cinque Stelle tenta invece di non farsi individuare come il partito del Sud per non perdere i consensi del Nord produttivo. Ed in tale logica evita anche esso di condannare troppo pesantemente, in ogni caso di parlarne il meno possibile, quella autonomia differenziata tanto divisiva.

POLITICHE 2022, IL SOSPETTO SULL’ATTENZIONE AL MEZZOGIORNO

La sensazione complessiva è che questa attenzione per il Sud, in zona Cesarini, nasconde una grande scarsa considerazione dell’elettorato relativo. Che si pensa si possa gestire tranquillamente anche paracadutando gente sconosciuta nelle realtà di riferimento, sicuri che in ogni caso la reazione non sarà particolarmente decisa.

Questo correre ai ripari quando si è visto che alcune delle candidature del maggioritario sono contendibili, cambiando posizioni e mostrando una attenzione farlocca rispetto alle esigenze dei territori, ci fa riflettere sulla convinzione sempre più consapevole dell’esistenza di un partito unico del Nord, che ha un atteggiamento coloniale anche nella politica. Cosa gravissima perché dimostra che in molti non si rendono conto del danno che una mancata coesione sociale delle varie parti del Paese può provocare alla gestione complessiva.

Il fatto che si possa pensare che esistano anche in politica due paesi diversi e contrapposti è un segnale di un disagio nazionale, che va assolutamente recuperato.

Il passaggio fondamentale è quello dell’unificazione economica, che non può più essere rinviata e che mette a rischio l’unità nazionale. Anche i vertici delle più importanti istituzioni del Paese mi pare non si rendano conto dei pericoli che corre la Nazione, o forse non vogliono sporcarsi le mani con un tema che certamente può essere dirompente.

Quello che accadrà subito dopo il 25 settembre sarà ci farà capire qual è la direzione sulla quale questo nostro Paese vuole indirizzarsi. Se vuole consolidare il suo ruolo di grande Paese fondatore dell’Unione oppure percorrere una deriva come quella dell’ex Cecoslovacchia o della ex Jugoslavia , estremamente pericolosa e certamente non illuminata.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passi

TUTTA QUESTA PROPAGANDA HA UN COSTO. IL PREZZO CHE IL PAESE PAGA SULL'ALTARE DI UN'INFORMAZIONE PRIVA DI MEMORIA STORICA. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 24 settembre 2022.

Non siamo capaci di valorizzare ciò che facciamo di buono né in casa né fuori. Non abbiamo orgoglio delle nostre cose e questo è abbastanza grave se ci confrontiamo con gli altri grandi Paesi europei. Servono ragionamenti pragmatici e azione pragmatica all’altezza della complessità dei problemi e della complessità del quadro geopolitico e finanziario internazionali. Perché il riformismo che cambia strutturalmente i Paesi e li indirizza in un percorso di crescita condivisa è quello dove l’alternanza di governo preserva un continuum che è l’esatto contrario di ricominciare sempre tutto daccapo e dove anche l’alternanza eventuale di donne e uomini in postazioni di comando non impedisce mai di preservare il pezzo di strada buona già fatto e spinge a concentrare gli sforzi per accelerare nel cammino intrapreso. Se ciò non avviene si perde l’ancoraggio con la realtà e ci si allontana inesorabilmente dai sistemi nazionali più avanzati dove la qualità del dibattito della pubblica opinione è la premessa di tutto.

VORREMMO insistere sulla qualità del dibattito pubblico italiano. Perché è vero che in campagna elettorale, soprattutto alle battute finali, tutto è consentito, ma il prezzo che il Paese rischia di pagare sull’altare di un’informazione priva di memoria storica e di capacità di controllo fattuale sulle mille propagande è davvero molto alto. Se tutto si risolve nel solito pollaio televisivo dove ogni affermazione è vera purché serva ad alzare i decibel della polemica con chi sostiene l’esatto contrario senza che mai a nessuno venga in mente almeno di provare a dire chi ha ragione, è evidente che si perde l’ancoraggio con la realtà e ci si allontana inesorabilmente dai sistemi nazionali più avanzati dove la qualità del dibattito della pubblica opinione è la premessa di tutto.

Perché il riformismo che cambia strutturalmente i Paesi e li indirizza in un percorso di crescita condivisa sono quelli dove l’alternanza di governo preserva un continuum che è l’esatto contrario di ricominciare sempre tutto daccapo e dove anche l’alternanza eventuale di donne e uomini in postazioni di comando non impedisce mai di preservare il pezzo di strada buona già fatto e spinge a concentrare gli sforzi per accelerare nel cammino intrapreso. Nelle grandi democrazie occidentali dove si cambia meno è in politica estera perché la politica estera di un Paese di stazza appartiene al cuore dell’interesse generale di una comunità e si muove, dunque, o almeno dovrebbe muoversi su solchi tracciati e riconosciuti in termini di alleanze, posizionamento geopolitico, idea condivisa di assetto del suo sistema economico e di tutto ciò che serve a livello di Pese per ridurre le diseguaglianze e consolidare le performance globali.

Anche per quanto riguarda le istituzioni l’approccio riformatore di livello alto è quello che opera all’interno della vita delle stesse istituzioni avvertendone in profondità le istanze di conservazione e di innovazione perché le due cose nelle grandi democrazie stanno sempre insieme. Se si perdono queste bussole di riferimento che sono sacrosante, può accadere che perfino uomini del calibro di Bersani e Letta, ai quali di sicuro non manca il senso dello Stato, si spingano a fare dichiarazioni apodittiche del tipo “non faremo mai ritoccare la costituzione”. Come se dall’83 a oggi non si fosse già infinite volte posto il problema di ritoccare la costituzione, che ha avuto e ha meriti che nessuno deve mai dimenticare, e loro stessi e chi li ha preceduti nelle responsabilità di partito non fossero sempre stati parte attiva di questi progetti di cambiamento. Il punto è che nessuno lo dice, nessuno ricorda mai niente, e il dibattito pubblico in genere, addirittura in special modo in campagna elettorale, diventa il megafono dell’ultima cosa che gira nel talk show di turno.

Non rifarsi mai a una storia pregressa, a fatti certi e riscontrabili, francamente inquieta, ma se ci pensate bene in questo stesso filone si inserisce il vittimismo della destra ogni volta che scatta una critica, anche internazionale, che al di là di eccessi evidenti e riconoscibili sono la norma in un sistema economico così interconnesso come è quello europeo soprattutto in una fase geopolitica tesa, segnata da una guerra nel cuore dell’Europa, che prelude di sicuro a un nuovo ordine mondiale. Quanti intellettuali e politici italiani hanno più volte manifestamente espresso la loro preferenza per Macron o per la Le Pen durante la campagna elettorale francese e a urne ancora aperte? Certo, se a dare le pagelle ai politici italiani è la presidente della Commissione europea, von der Leyen, che poi dovrà trattare con la nuova classe di governo di quel Paese il problema si pone e come, tanto è vero che si è subito corretta, ma se a parlare è un intellettuale non solo c’è tutta la libertà di ascoltarlo o meno e, anche se parla molto a sproposito di fascismi e post fascismi che non esistono, non sta facendo un’ingerenza.

In generale, ciò che mi ha preoccupato in questa campagna elettorale che per fortuna si è chiusa, è l’assenza nel dibattito pubblico italiano di qualsivoglia forma di capacità veramente propositiva. Tipo: abbiamo quel problema lì, si può risolvere seriamente non con la bacchetta magica o semplicemente urlando tout court che le bollette le pagherà lo Stato, per la semplice ragione che questa non è la soluzione, può esserlo per un pezzo del problema, per un periodo limitato. Servono piuttosto ragionamenti pragmatici e azione pragmatica all’altezza della complessità dei problemi e della complessità del quadro geopolitico e finanziario internazionali. Già solo affermare questi principi significherebbe avere fatto un bel passo in avanti.

Sul Mezzogiorno, ne scriviamo da giorni, siamo tornati alla questione settentrionale della secessione di Bossi che si tradusse in una colossale infornata di assunzioni clientelari nelle regioni del Nord. Che ha di certo fatto molto male al Sud, ma ancora di più al Nord. È tutto scritto anno dopo anno nel bilancio dello Stato italiano e complessivamente nel debito pubblico del Paese che non è nient’altro che la somma algebrica dei nostri vizi privati messi sul conto della collettività. Riecheggia questa questione quando si parla di infornate di assunzioni di centinaia di migliaia di persone nella pubblica amministrazione meridionale, perché a un problema giusto che è quello di dare tecnici informatici, ingeneri e uomini di legge di valore subito, quasi si sovrappone culturalmente l’idea della solita infornata di massa clientelare che è l’inizio e la fine della vera questione meridionale.

Non siamo capaci, viceversa, di valorizzare ciò che facciamo di buono né in casa né fuori. Non abbiamo orgoglio delle nostre cose e questo è abbastanza grave se ci confrontiamo con gli altri grandi Paesi europei. La nostra democrazia ha inglobato partiti totalitari come il Pci di Togliatti o l’Msi di Almirante, è stato un processo che si è sviluppato lentamente, in parte anche con la loro collaborazione. Ci siamo riusciti, però. E oggi nella democrazia italiana non c’è più chi voglia instaurare un regime di tipo sovietico o chi voglia instaurare un regime di tipo autoritario. È una vittoria meravigliosa. Dovremmo almeno esserne un po’ più orgogliosi.

IL PIFFERAIO MAGICO E LE COLPE DEGLI ALTRI. IL FENOMENO CONTE AL SUD - I partiti pagano di non avere fatta propria la proposta alternativa del governo Draghi e di essere scesi nell'arena delle promesse. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 22 Settembre 2022 

Il sentimento delle piazze racconta che al Sud si sfonda solo con l’assistenzialismo e, per di più, anche senza una classe dirigente. Ma tutto possiamo oggi ragionevolmente pensare meno che di affidare il futuro del Mezzogiorno a una prospettiva assistenziale. I Cinque stelle con oltre il 30% dei voti a livello nazionale si sono visti all’opera e possono essere ragionevolmente giudicati perché non sono riusciti a fare nulla o quasi di quello che serve. Questo presunto quadro di consensi ritenuto sorprendente è anche prodotto dalla debolezza degli altri partiti che non sono stati in grado di contrastare il pifferaio magico neppure sfruttando l’assenza altrui di una classe dirigente. Purtroppo, siamo alle prese con una crisi internazionale e una crisi economica senza precedenti e non c’è più tempo per fare maturare una proposta alternativa. O c’è già o non funzionerà. Siccome esiste e ci deve essere per forza cerchiamo di non barattare il Pnrr con qualche mancia destinata pure a saltare.

Al Sud si sfonda solo con l’assistenzialismo e, per di più, anche senza una classe dirigente. A dare ascolto al sentiment che viene trasferito dalle piazze – la comunicazione sui sondaggi è bandita – una fetta rilevante degli elettori meridionali avrebbe orecchie ben attente, trasporto e passione solo per chi va in giro da un capo all’altro a fare una televendita nelle loro città. Avesse prodotto questo partito della televendita almeno una classe dirigente sul territorio nuova, radicata, capace di fare convintamente assistenzialismo, non avrebbe mai la nostra approvazione, perché il futuro non si costruisce così, ma almeno si potrebbe capire da che cosa origina il presunto errore collettivo.

Invece questa classe dirigente non c’è: i migliori o non sono stati ricandidati o sono migrati altrove. Il Sud vota per il pifferaio magico che promette tutto gratis a tutti. Non sappiamo se sia davvero così e auspichiamo con forza che i criteri di scelta siano altri, che non vuol dire rimettere in discussione il reddito di cittadinanza per una platea vasta che non avrebbe alternativamente di che vivere, ma è giusto sottolineare che questo quadro ritenuto sorprendente è anche prodotto dalla debolezza degli altri partiti che non sono stati in grado di contrastare il pifferaio magico neppure sfruttando l’assenza altrui di una classe dirigente.

Non si è proprio affrontato nei tempi e nei modi dovuti il problema di un’offerta politica alternativa che non può essere solo elettorale. Avresti dovuto fare prima un lavoro in profondità per anni altrimenti ti ritrovi costretto solo a fare anche tu promesse e chi le fa addirittura gratis vince di sicuro su di te. Non hai preparato prima una proposta alternativa, non la hai fatta tua, non la hai spiegata in tempi non sospetti. È molto triste tutto ciò, soprattutto, perché il governo di unità nazionale guidato da Draghi in termini di scelte effettive di investimenti, dal capitale umano alle grandi reti, in termini di posizionamento strategico geopolitico del Paese e di operatività della macchina pubblica, ha fatto davvero tanto per restituire al Mezzogiorno una prospettiva di sviluppo produttiva.

I partiti che hanno fatto parte della coalizione di governo avrebbero dovuto impegnare molto di più del loro tempo per spiegare alle comunità del Mezzogiorno l’importanza delle scelte effettuate e la delicatezza della partita in atto. Avrebbero dovuto mostrare in pubblico di condividerle con la stessa passione con cui oggi il pifferaio magico rivendica le promesse mantenute di sostegno al reddito e addita alla pubblica opinione tutti coloro che, a suo avviso, hanno dichiarato guerra ai poveri.

Perfino il Pd che governa regioni come la Puglia e la Campania, al posto di difendere il valore di una proposta alternativa spesso loro malgrado bene avviata, non rinuncia del tutto alla tentazione di mettersi nella manica dei Cinque stelle pur di non farsi portare via tutto. Invece dovrebbe partire da molto più avanti se avesse ben seminato e potesse lanciare nell’arena una classe dirigente già formata e consapevole. Anche qui il responso verrà dall’urna.

Il centrodestra ha esperienze di governo nelle regioni e nelle amministrazioni meridionali e ha la possibilità di rendere credibile la sua sfida se è riuscita a esprimere una vera classe dirigente e se in questa classe dirigente la comunità degli elettori si è riconosciuta. Allora potrà contare e allora avrà risultati. Altrimenti non potrà fare altro che mettere la sua speranza nelle stazioni della lotteria con la ragionevole aspettativa che l’estrazione non si farà perché la lotteria non ha i fondi per soddisfare tali speranze. In modo diverso questo vale per il Sud come per il Nord. Perché con gli omuncoli di partito non si va da nessuna parte ovunque.

Come diceva il vecchio Moro “se non credi nell’alternativa degli altri, devi almeno crearti l’alternativa dentro”. Avresti dovuto operare all’interno del tuo partito contando sul fatto che gli altri non erano in grado di produrre l’alternativa. Tutto possiamo oggi ragionevolmente pensare meno che di affidare il futuro del Mezzogiorno a una prospettiva assistenziale. Peraltro i Cinque stelle con oltre il 30% dei voti a livello nazionale si sono visti all’opera e possono essere ragionevolmente giudicati perché non sono riusciti a fare nulla o quasi di quello che serve.

Purtroppo, siamo alle prese con una crisi internazionale e una crisi economica senza precedenti e non c’è più tempo per fare maturare una proposta alternativa. O c’è già o non funzionerà. Ci deve essere per forza. Cinicamente si potrebbe dire che siamo finiti dentro una nube dove c’è chi chiede la roba perché desidera un po’ di paradiso artificiale e ritiene che poi la pagherà. Il punto è che quella stagione è finita da un pezzo. Oggi se non hai i soldi per comprarla, la roba non te la danno più.

LA PROPAGANDA DELLE BUGIE E L'ORGOGLIO DELLA VERITÀ. Il dibattito pubblico malato che cancella il Sud migliore e toglie la speranza al Paese. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 23 Settembre 2022

Ognuno se la fabbrica e se la racconta da solo. Tanto sa che nessuno chiede conto. Tanto sa che nessuno controlla. Manca invece il racconto di ciò che nel Mezzogiorno è stato già fatto, non promesso. Come tutto quello che è stato stanziato e avviato per gli asili nido come nelle scuole, nella ricerca come nell’Università. Il porto di Gioia Tauro che può con un treno dedicato trasferire le merci all’interporto di Bologna e da qui raggiungere finalmente il cuore dell’Europa. Perché non scatta uno spirito di comunità che vede nel Pnrr del capitale umano e delle grandi reti immateriali e materiali voluto dal governo Draghi la bandiera della rinascita del Mezzogiorno prima ancora che della ripartenza dell’Italia? Perché non si sottolinea mai che gli investimenti privati sono cresciuti più nel Sud che nel Nord? E che, addirittura, è successo anche con l’occupazione? Perché si fa così fatica a rendere pubblico che con la legge di bilancio per la prima volta si sono fatti i livelli essenziali di prestazione per il welfare all’infanzia e agli anziani? Perché, mi chiedo, ci si vergogna di questi risultati strepitosi e si entra in competizione nella gara delle promesse dove chi la spara più grossa vince sempre? La vera sfida oggi è quella di impedire che il popolo meridionale si condanni per sempre all’assistenzialismo. Avremmo nuovi baratti, magari con l’autonomia differenziata, e avremmo spezzato l’incantesimo degli investimenti che ripartono e della fiducia che torna. Sarebbe il solito suicidio. Impediamolo costi quel che costi ricordandocelo nel segreto dell’urna

Siamo alla propaganda delle bugie. Ognuno se la fabbrica e se la racconta da solo. Tanto sa che nessuno chiede conto. Tanto sa che nessuno controlla. Soprattutto sa che in campagna elettorale ognuno crede a ciò che fa piacere credere. Dobbiamo avere il coraggio di dire che l’orgoglio della verità e il metodo del confronto comparativo-competitivo non appartengono all’agorà televisiva italiana, ovviamente con le dovute eccezioni, e questo misura come meglio non si potrebbe la distanza che separa la democrazia italiana da quelle spagnola, tedesca e francese.

C’è un tema vero non più eludibile che appartiene alla qualità del dibattito pubblico di un Paese perché la coscienza nazionale attraverso di esso si forma. Così come è bene rendersi conto che l’esercizio consapevole del primo dei diritti di una democrazia, che è quello di voto, passa attraverso la conoscenza dei fatti e il confronto nazionale e internazionale tra grandezze e comportamenti omogenei. A maggiore ragione in una stagione percorsa dai brividi di una guerra nel cuore dell’Europa che ridisegnerà l’ordine mondiale, in un conflitto mai risolto tra mondo autarchico e mondo occidentale. A maggior ragione se siamo all’apice di una serie concentrica di shock inflazionistici e monetari che mettono a dura prova il miracolo dell’Italia di Draghi facendo emergere le fragilità di un dualismo territoriale irrisolto che non appartiene più a nessun Paese europeo.

Per capirci, questa storica malattia italiana, aggravatasi di molto con le tv commerciali e l’inseguimento al ribasso dell’informazione pubblica, produce danni seri in tutti gli ambiti dell’economia e della società. Questo tipo di situazione vale per tutto, ma oggettivamente ancora di più per il nostro Mezzogiorno. L’assenza di un dibattito della pubblica opinione sano, che vuol dire prima di tutto veritiero, fa muro contro le forze sane dell’economia e della società spingendole a rimanere nei loro gusci e, di fatto, impedendole di uscire dalle secche dello stereotipo meridionale per farsi riconoscere e diventare comunità. In questo modo nella coscienza collettiva prevale sempre il solito stereotipo dell’impiego pubblico che è ovviamente un’altra cosa rispetto allo stipendio sottopagato nel turismo.

Quando invece la vera sfida da vincere è proprio quella di un’industria del turismo di livello internazionale che non ha più nulla a che vedere con qualche piccolo o grande datore di lavoro truffatore o logiche da rapina. Quando invece il vero vantaggio competitivo è quello di potere contare su un patrimonio unico al mondo che è la bellezza del territorio, del clima e della sua cucina. Tutte quelle cose, cioè, che non si inventano, ma vanno sfruttate in modo appropriato.

Manca totalmente il racconto di ciò che è stato già fatto, non promesso. Come tutto quello che è stato stanziato e avviato per la spesa negli asili nido come nelle scuole, nella ricerca come nell’Università. Il grande progetto di unire le due sponde del Mediterraneo attraverso una rete di eccellenze universitarie e il porto di Gioia Tauro che può finalmente con un treno dedicato trasferire le merci dall’hub marittimo all’interporto di Bologna e da qui raggiungere finalmente il cuore dell’Europa.

L’opportunità storica del Mezzogiorno di essere già e sempre più diventare l’hub energetico del Mediterraneo per l’Europa intera. Perché non se ne parla, mi chiedo? Perché non si dice tutto quello che è stato già fatto oltre al reddito di cittadinanza e al superbonus? Perché i partiti della coalizione di governo continuano a chiedere di investire ignorando quello che è già stato stanziato e appaltato con il Pnrr, dagli asili nido all’edilizia scolastica fino alla ricerca e all’università? Per non parlare di ospedali e medicina del territorio.

Perché non è scattato mai uno spirito di comunità che vede nel Pnrr del capitale umano e delle grandi reti immateriali e materiali la bandiera della rinascita del Mezzogiorno prima ancora che della ripartenza dell’Italia? Perché non si sottolinea mai che gli investimenti privati sono cresciuti più nel Mezzogiorno che nel Nord del Paese? E che, addirittura, anche l’occupazione, perfino in una stagione segnata dalla più iniqua delle tasse qual è l’inflazione, è cresciuta più al Sud che al Nord? Perché si fa così fatica a rendere pubblico che con la legge di bilancio del governo Draghi per la prima volta si sono fatti i livelli essenziali di prestazione per il welfare all’infanzia e agli anziani di modo che un cittadino di Cosenza non è più arbitrariamente di serie B rispetto a quello di Belluno di serie A?

Perché, mi chiedo, ci si vergogna di questi risultati strepitosi e si entra in competizione nella gara delle promesse dove chi la spara più grossa vince sempre? Forse, se vi ponete queste domande e ci pensate bene un attimo, capirete meglio perché la peggiore delle medicine possibili, che è l’assistenzialismo, incanta così tanta gente e perché la vera sfida è quella di impedire che il popolo meridionale si autocondanni per sempre all’assistenzialismo che domina la scena. Avremmo nuovi baratti, magari con l’assistenzialismo dell’autonomia differenziata, e avremmo spezzato l’incantesimo degli investimenti che ripartono e della fiducia che torna. Sarebbe il solito suicido. Impediamolo costi quel che costi ricordandocelo nel segreto dell’urna.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.

I veleni del Nord, le colpe da dividere. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022. 

Non va omesso di ricordare un nodo centrale: troppi meridionali sono stati uccisi dai veleni scaricati nelle terre e nei mari del Sud, da veleni prodotti al Nord

La Pianura padana è la regione più inquinata d’Europa», ha detto Roberto Castelli a L’Aria che tira su La7. Vero. Anche se la realtà è sempre stata spazzata sotto il tappeto per occultare le enormi responsabilità della più spregiudicata imprenditoria lombarda, veneta, emiliana e piemontese, le inchieste giudiziarie e parlamentari hanno detto parole definitive. Meno oneste sono invece quelle che l’ex guardasigilli ha aggiunto: «Migliaia di padani muoiono ogni anno per garantire il lavoro e quindi il reddito di cittadinanza per chi non lavora. Guardate che il Nord non ce la fa più». Con chi ce l’ha: con la Campania e il resto del Sud che secondo l’Osservatorio Inps ricevono 1,65 milioni su 2,65 milioni di assegni erogati? Buttata in così, l’accusa dell’ex ministro è monca e inaccettabile. Perché omette di ricordare un nodo centrale: troppi meridionali sono stati uccisi dai veleni scaricati nelle terre e nei mari del Sud, da veleni prodotti al Nord. Basti ricordare certe messe celebrate da don Maurizio Patricello, il parroco di Caivano, tra le foto dei bambini morti di cancro: «Qui sono pentiti tutti: i poveretti che hanno taciuto su quello che vedevano, i camionisti, i camorristi... Tutti meno gli affaristi e gli imprenditori settentrionali che si son liberati dei rifiuti tossici».

Certo, la catena di avvelenamenti assassini va attribuita soprattutto ai camorristi che si sono venduti i campi e i frutteti loro e di poveracci ricattati. Ovvio. Ma come ha spiegato alla giornalista Daniela De Crescenzo Gaetano Vassallo, il «ministro dei rifiuti» dei Casalesi nel libro Così vi ho avvelenato («Alla mia famiglia ho fatto sequestrare 43 milioni di euro in un colpo: 45 appartamenti, 7 ville, i terreni, un Park Hotel, un ristorante, tutti soldi...») non furono meno colpevoli per i morti avvelenati, troppi imprenditori del Nord: «Facemmo arrivare di tutto... Scaricammo fanghi, ceneri, residui di lavorazioni industriali, residui di conceria... Risparmiare faceva piacere a tutti e trovare clienti, viste le amicizie che avevamo coltivato, diventò facilissimo... Casalesi: un nome, una garanzia». Di più: «Sorrido quando al Nord parlano della Terra dei Fuochi con sufficienza: tanti sono convinti di essersi liberati dei rifiuti con poca spesa. Ma spesso le sostanze tossiche non hanno mai nemmeno lasciato i siti di provenienza». Giravano solo le carte. I veleni restavano lì. E il reddito di cittadinanza non c’entra un fico secco.

Estratto dell'articolo di Franco Bechis per "Panorama" pubblicato da “la Verità” il 22 settembre 2022.

Tra finanziamenti garantiti dallo Stato e sostegni, sull'Italia sono piovuti poco meno di 500 miliardi di euro fra 2020 e 2022. Una somma enorme di aiuti a vario titolo, che però si è dispersa in mille rivoli anche piccoli e piccolissimi. Lo scopo era quello di dare una mano a imprese e partite Iva in difficoltà per il lockdown [...]. Ma dopo le molte polemiche sui primi ristori che arrivavano striminziti e in ritardo a chi rischiava davvero di non farcela, gli aiuti alla fine del governo di Giuseppe Conte e all'inizio di quello di Mario Draghi sono scattati con automatismo e con accredito diretto in conto corrente. [...]

Non c'era però modo di valutare la reale necessità di quelle somme da parte di chi le richiedeva. E infatti quei contributi sono spesso finiti a gonfiare bilanci di società che con i sostegni realizzavano l'intero utile, o a sovvenzionare chi in realtà ne aveva poco bisogno, come Vip milionari che con le loro società facevano già profitti a cinque o sei zeri. [...] baffino Massimo D'Alema lasciata la politica (si fa per dire) prima ha aperto un'azienda agricola, la Madeleine, che produce vini a Narni in Umbria, poi ne ha lasciato la proprietà a moglie e figli e ha aperto altre società. Una di consulenza e l'altra - insieme all'amico enologo Riccardo Cottarella - per esportare quei vini lungo la Via della seta.

La società si chiama proprio per questo Silk road wines [...]. Alla voce «ricavi delle vendite e delle prestazioni» nel bilancio 2021 è affiancata una cifra che fa impallidire: zero. Si scorre qualche riga e si arriva al fatturato complessivo. Totale valore della produzione: 72.984 euro, contro gli 83.384 euro dell'anno precedente. Un miracolo, che viene tutto da una sola voce, quella dei «contributi in conto esercizio», che nel 2021 sono stati 72.604 euro rispetto ai 2.000 euro dell'anno precedente. Siccome i costi si sono ridotti all'osso, non incassando nulla dal fatturato tipico, alla fine il vero dato straordinario è quello dell'utile netto della società di D'Alema: 68.683 euro, contro i 31.293 euro dell'anno precedente.

Chi è riuscito mai a far raddoppiare l'utile in un anno di crisi? La risposta è contenuta nella nota integrativa: Mario Draghi. Non un regalo personale, certo: da premier però ha firmato i due decreti Sostegni del 22 marzo e del 25 maggio 2021 (quest' ultimo Sostegni bis). [...] A D'Alema non manca esperienza sulle leggi, dopo una vita in Parlamento, e ha saputo sfruttare le norme in ogni piega. Con due decreti Sostegni è riuscito a incassare tre contributi per la sua Silk road wines. Il primo di 24.168 euro. Il secondo identico: 24.168 euro. A quel punto sembravano finite le possibilità di ristoro.

Si legge però nella nota integrativa, «nel corso dell'esercizio in commento la società ha presentato apposita istanza per l'accesso al contributo a fondo perduto previsto dall'articolo 1, commi da 16 a 27» dello stesso decreto Sostegni bis [...]. Tre sostegni per un totale appunto di 72.604 euro incassati, che hanno consentito a D'Alema di raddoppiare l'utile dell'anno precedente a 66.683 euro. [...]

La famiglia dell'ideatore di questi decreti Covid, Giuseppe Conte, non si è fatta scappare le occasioni di un ristoro. Nella Agricola Monastero Santo Stefano vecchio, holding posseduta dalla fidanzata del leader M5s, Olivia Paladino, insieme alla sorella Cristiana, è arrivato uno sconto Irap per la pandemia dall'Agenzia delle entrate per 36.209 euro. Aiuto analogo (32.012 euro) ottenuto da Cesare Paladino, «suocero» dell'ex premier, per la sua Unione esercizi alberghi di lusso che gestisce l'hotel a cinque stelle Plaza a Roma [...].

Gli utili del cantante Fedez sono stati straordinari nelle due società amministrate dalla madre, Annamaria Berrinzaghi: la Zdf che ha portato a casa 3,3 milioni di euro per i soci quadruplicando il fatturato rispetto all'anno precedente, e la Zedef che ha chiuso l'anno con poco meno di 2,3 milioni di utili [...].

Nonostante gli ottimi risultati, entrambe le società in cima alla galassia Fedez hanno scelto di fare domanda all'Agenzia delle entrate nel 2021 per incassare il contributo perequativo previsto dal decreto Sostegni bis firmato da Draghi, a compensazione del calo del giro di affari (non nel 2021) causato dal Covid. Così con la Zdf sono arrivati in cassa, e hanno contribuito a quel super utile, 270.456 euro con accredito diretto. Stessa cosa è avvenuta sui conti correnti della Zedef, che di fatto è solo una holding di partecipazioni: ha ricevuto un «mini sostegno» di 10.335 euro.

Il ristoro causa Covid è arrivato anche alla moglie del cantante, la ricchissima influencer Chiara Ferragni. La sua Sisterhood srl ha avuto il 1° dicembre 2021 dall'Agenzia delle entrate uno sconto Irap sulla base del decreto Sostegni piuttosto sostanzioso: 140.047 euro. Un'altra società, la Fenice srl, ha ottenuto [...] due garanzie totali della Banca del Mezzogiorno-Mediocredito centrale: la prima su un piccolo finanziamento da 24.946,46 euro, e la seconda su un finanziamento da 1,4 milioni di euro. Il 10 dicembre 2021 si è concretizzata la stessa identica garanzia pubblica Covid su due finanziamenti di un'altra società della galassia Ferragni - la Foorban srl - per complessivi 303.336,42 euro. [...]

Aiutino di Stato - non ritocchino - anche per Belén Rodríguez [...]. La società di cui è socia al 50%, la Icona production, nel marzo 2021 ha fatto un tentativo con il Mediocredito centrale per la garanzia totale su un finanziamento, ma è andato a vuoto. Il 30 novembre è arrivata però una piccola buona notizia dall'Agenzia delle entrate che scontava a Belén 2.365 euro di Irap, di cui certamente aveva bisogno come il pane: la Icona production nel 2021 ha infatti fatturato 2,8 milioni di euro (contro 1,6 nel 2020). [...]

È un politico che salta all'occhio in due occasioni, Gianfranco Librandi: quando appare in tv con piglio normalmente aggressivo, e quando lui o la sua società, la Tci comunicazioni srl, appare nell'elenco dei finanziatori dei partiti. Politicamente Librandi è nato in Forza Italia, passato nel Pdl, trasferitosi a Scelta civica con Mario Monti, poi nel Pd dove ha seguito Matteo Renzi nell'avventura di Italia viva. Però, a queste elezioni, si è fatto candidare da Emma Bonino. [...] Per il Covid ha ottenuto su richiesta due volte [...] la garanzia totale della Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale, prima su un finanziamento da 166.906,39 euro e poi su un finanziamento da 10 milioni di euro. [...]

A Visibilia, concessionaria della parlamentare Daniela Santanchè, il 4 dicembre 2021 è stata riconosciuta una esenzione Irap dall'Agenzia delle entrate per 12.784 euro. Alla fine dell'anno prima erano arrivate invece le garanzie totali Mediocredito su due finanziamenti per complessivi 753.337,61 euro. [...]

Poteva mancare nell'elenco dei fortunati percettori di ristori Covid un virologo

di grido? [...] Il personaggio c'è e si chiama Roberto Burioni. La Medical facts srl, controllata al 75% dalla sua Rbs srl, ha ottenuto l'8 dicembre 2021 uno sconto Irap per Covid dalla Agenzia delle entrate classificato come «aiuto di Stato». Importo: 1.191 euro. [...]

Fabio Savelli per il “Corriere della sera” il 19 settembre 2022.

Due anni di pandemia: quasi 25 miliardi di ristori a fondo perduto. Due anni terribili per l'economia. Chiusure prolungate di bar e ristoranti, alberghi e sale scommesse, piscine e palestre. Coprifuoco notturno a partire dalle 18 per oltre sette mesi a cavallo tra il 2020 e il 2021 che hanno buttato giù il fatturato di migliaia di partite Iva. Misure di distanziamento, non più di quattro a pranzo allo stesso tavolo, assembramenti vietati, mascherina di ordinanza.

Eppure lo Stato sociale ha tenuto, aumentando il debito pubblico che ha superato il 150% in rapporto al Pil. L'economia però è ripartita se nel 2021 la crescita ha rimbalzato al 6,6%. Grazie ai vaccini certo, ma migliaia di esercenti, piccole e medie imprese, attività turistiche hanno superato l'emergenza anche attingendo ai diversi fondi messi in campo dal governo per affrontare una sfida dalla portata inimmaginabile.

I dati appena pubblicati dall'Agenzia delle Entrate restituiscono una diapositiva fedele di cosa abbiamo vissuto. Oltre 2,45 milioni di beneficiari dei vari aiuti erogati dall'Agenzia, guidata da Ernesto Maria Ruffini, nel 2020, circa 2,25 milioni nel 2021. Oltre 9,38 miliardi dispensati nel primo anno di pandemia, 15,34 miliardi nel secondo. Totale: 24,7 miliardi.

Quasi la metà delle risorse messe in campo dall'esecutivo nei primi due decreti Aiuti contro il caro energia. Poco meno del doppio dell'intervento appena varato, l'Aiuti ter, che movimenta circa 14 miliardi. Tredici i provvedimenti, nei due anni in questione, che hanno dato mandato all'Agenzia delle Entrate di effettuare i pagamenti sui conti correnti dei destinatari a seguito di triangolazione con la Banca d'Italia. Ristori nella gran parte dei casi arrivati in una decina di giorni dalle richieste. Dal primo decreto Rilancio, aprile 2020, ai due Ristori 1 e bis fino ai due Sostegni 1 e bis del 2021, per citare i più rappresentativi.

Procedure in tempi record grazie alla piattaforma informatica dell'Agenzia, gestita in collaborazione con Sogei, la società hi-tech del ministero del Tesoro, che aveva già a disposizione sui suoi cervelloni miliardi di dati degli italiani derivanti dall'anagrafe tributaria, tra dichiarazione dei redditi e fatturazione elettronica. Un cambio di passo applaudito anche dall'allora premier, Giuseppe Conte, dopo le prime criticità manifestate dall'Inps per il primo bonus autonomi di marzo 2020 in cui il portale andò in tilt in pochi minuti.

La regione destinataria della maggiore quota di contributi nel 2021 è stata la Lombardia (3.171.267.365), a seguire Lazio (1.617.317.622), Veneto (1.483.497.511), Campania (1.259.045.717), Emilia Romagna (1.258.814.413) e Toscana (1.245.521.274). Non a caso le più rilevanti in termini di popolazione e di presenza di attività economico-ricettive.

Interessante annotare che il numero dei beneficiari nel 2020 è stato superiore a quello dell'anno dopo ma l'ammontare delle risorse è invertito, con un aggravio sui conti pubblici di circa 6 miliardi nel secondo anno di Covid. Segnale che gli interventi sono cresciuti, ma sono stati anche più selettivi. Mirati su chi ne aveva bisogno. Ora la sfida del caro energia. Che incide sul debito ma produce un extra gettito da inflazione.

Bonus e sussidi. Nei programmi di Pd e M5S c'è il solito assistenzialismo. Superbonus, salario minimo e reddito di cittadinanza da rafforzare per il M5s. E poi c'è il Pd che corteggia il suo storico elettorato di riferimento. Domenico Di Sanzo il 15 agosto 2022 su Il Giornale.

Superbonus, salario minimo e reddito di cittadinanza da rafforzare per il M5s. E poi c'è il Pd che corteggia il suo storico elettorato di riferimento, con la proposta di aumentare gli stipendi a insegnanti e lavoratori dipendenti e la discussa idea dei 10mila euro di dote da regalare ai diciottenni. Gli esponenti grillini e di centrosinistra si chiedono da settimane dove siano le coperture per alcuni punti programmatici del centrodestra, in testa flat tax e aumento delle pensioni minime, ma più che altro è il programma dei vecchi giallorossi che sembra tutto improntato all'aumento della spesa pubblica.

Sono soprattutto i grillini a non badare a spese. Oltre al limite di due mandati esteso ai parlamentari degli altri partiti e allo stop ai cambi di casacca, proposto dal partito che ne ha subiti più di tutti dall'inizio della legislatura, il Movimento riparte dai soliti cavalli di battaglia. Tra assistenzialismo e decrescita felice, bonus e riduzione dell'orario di lavoro. È il ritorno a quel «lavorare meno, lavorare tutti» che è il mantra del sociologo Domenico De Masi, tra gli ideologi del grillismo e amico di Giuseppe Conte e Beppe Grillo. Le ricette economiche sono sempre le stesse. E allora via con il ritorno del cashback di Stato, una misura costata ai contribuenti circa 1,75 miliardi di euro e sospesa dal governo di Mario Draghi. E così nel programma dei Cinque Stelle di Conte si legge: «Introduzione di un meccanismo che permetta l'immediato accredito su conto corrente delle spese detraibili sostenute con strumenti elettronici». Poi c'è il capitolo Superbonus, un altro provvedimento criticato a più riprese da Draghi, di fatto una delle misure su cui il M5s ha impostato la sua campagna di logoramento del governo di unità nazionale. Sulla cessione dei crediti i grillini propongono di «stabilizzare l'innovativo meccanismo che ha decretato il successo del Superbonus, che è in grado di mettere a disposizione di famiglie e imprese ingente liquidità e che può essere esteso ad altre agevolazioni per investire a costi ridotti nella transizione ecologica». Ne deriva la conferma e la stabilizzazione del Superbonus a cui si andrebbe ad aggiungere «un nuovo superbonus energia imprese, sempre basato sulla circolazione dei crediti fiscali». Bis per un provvedimento che è costato allo Stato circa sei miliardi di euro più altri sei miliardi di euro di truffe ai danni delle casse pubbliche, secondo quanto dichiarato dal ministro dell'Economia Daniele Franco.

A proposito di truffe, il pensiero va subito al reddito di cittadinanza. Conte addirittura pensa a un «rafforzamento» del sussidio, ma anche il segretario dem Enrico Letta lo ha inserito nel suo programma, seppure facendo riferimento a «interventi migliorativi» sulla legge bandiera dei pentastellati. Non è un caso che il ministro del Lavoro del Pd Andrea Orlando non abbia escluso un ritorno di fiamma con il M5s, anche perché non mancano i punti di contatto tra i due partiti. Non solo il reddito di cittadinanza, al Nazareno pensano di confermare pure il Superbonus, ma con una differenziazione in base all'Isee delle famiglie. Stesso discorso vale per il salario minimo, che è una delle punte di diamante anche delle proposte dell'Alleanza tra Verdi e Sinistra Italiana. Grillini e rossoverdi puntano a portarlo a nove euro lordi all'ora, il Pd prevede l'introduzione del salario minimo ma in questa legislatura non è stato d'accordo con i Cinque Stelle sull'importo della paga oraria.

Il M5s nel programma pubblicato ieri va oltre. E propone la «sperimentazione di una riduzione dell'orario di lavoro soprattutto nei settori a più alta intensità tecnologica», la «riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario». Un vecchio cruccio di Grillo, oltre che del sociologo del lavoro De Masi. Ricchi premi e cotillons non mancano nemmeno nel libro dei sogni del Pd. Dall'aumento degli stipendi dei docenti per un costo che va dai sei agli otto miliardi di euro, a una mensilità in più per i lavoratori dipendenti. E poi la realizzazione di «500mila alloggi popolari nei prossimi dieci anni», «trasporti pubblici gratuiti per studenti e anziani» e un «contratto energetico sociale per famiglie a reddito medio-basso». Altro che coperture.

L’eutanasia del sud. Il programma meridionalista di Conte è il suicidio assistito del Mezzogiorno. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 10 Settembre 2022.

Mentre l’Italia si trova al centro di uno dei più straordinari programmi di investimento di cui abbia mai beneficiato, il Movimento 5 stelle continua a crescere al Sud anche grazie al reddito di cittadinanza, richiamando alla memoria tristi precedenti, esempi del più becero assistenzialismo 

Giuseppe Conte, l’ex fortissimo riferimento progressista e unico nome meritevole di succedere a se stesso (ovviamente in nome del “cambiamento”) prima che Renzi inventasse il Governo Draghi, negli scorsi giorni ha ammonito gli ex compagni di strada di destra e di sinistra a «non dire che Putin non vuole la pace».

Cioè a non dire la verità, lasciando che la guerra all’Ucraina e all’Occidente dell’ex beniamino degli uomini di mondo della politica italiana – in primis: Berlusconi e Prodi – sia normalizzata dalle contro-verità moscovite ed esorcizzata dalle recitazioni pacifiste degli ex complici, clienti e attendenti del Cremlino.

Per primi, ovviamente, l’indefesso pacifista di Volturara Appula, per cui agli ucraini aggrediti abbiamo già dato troppe armi e il Capitano del team Savoini, che ben dopo l’annessione della Crimea e malgrado la mattanza degli oppositori politici non si vergognava di dire che la Russia è più democratica dell’Ue.

Rubandogli le parole di bocca, qualcuno dei suoi sodali potrebbe dire: «Nessuno dica che Conte non vuole il bene del Sud», proprio nel momento in cui sta perfezionando – con discreto successo, dicono i sondaggi – la trasformazione del M5S in una Lega Sud neo-borbonica, piangendo la miseria, promettendo l’elemosina e minacciando la rivolta in nome di un meridionalismo opposto a quello delle élite cattoliche, liberali e socialiste del primo Novecento e a immagine e somiglianza di quello dei cacicchi e dei masanielli che, da ben prima dell’Unità d’Italia e fino a questi ultimi anni di Repubblica, hanno reso la fame una rendita, le plebi una massa di manovra, e l’assistenzialismo la vera forma dell’identità politica meridionale.

Il meridionalismo di Conte non ha nessuna parentela con quello di Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini o Antonio De Viti de Marco, discende al contrario da quello dei viceré della partitocrazia vincente, che sulla divisione dell’Italia costruirono l’occupazione e la spartizione dello Stato o, ancora più mediocremente, da quello di Achille Lauro, di Ciccio Franco, di Pino Aprile e dei cacicchi e masanielli che da decenni campano politicamente a sbafo sul rimbambimento dei disperati e sulla loro ingenua devozione per gli innumerevoli epigoni del Re Lazzarone.

Conte sta ideologicamente sulla loro linea, per cui il divario tra Nord e Sud è il prodotto di un’arretratezza sostanzialmente imposta da scelte politiche punitive, quando invece, poggiando purtroppo su solide basi storico-sociali, è andato crescendo proprio per il fallimento di prodighe e insensate politiche assistenzialistiche, cioè proprio per effetto del meridionalismo di potere.

Non può stupire quindi che il capo dei 5 Stelle additi non il lavoro, ma il reddito di cittadinanza come nuovo sole dell’avvenire, che peraltro come tutti i miti ideologici non ha bisogno di funzionare nella pratica per funzionare nelle urne. Anzi, come insegna proprio la storia meridionale, i poveri devono rimare poveri ed espropriati della speranza di un cambiamento reale, per potersi ogni volta votare alla carità del nuovo salvatore.

Infatti il reddito di cittadinanza non funziona, perché la sua rete di protezione esclude la maggior parte di quanti versano in condizioni povertà assoluta, oltre a essere deliberatamente discriminatorio (marchio di fabbrica giallo-verde) prevedendo l’esclusione di chi ha meno di dieci anni di residenza in Italia. Sul fronte del lavoro, poi, l’effetto più rilevante prodotto dal RdC è stato la procurata disoccupazione degli ex navigator.

Eppure il reddito di cittadinanza è diventato il sine qua non del solidarismo perbene, oltre che il crisma necessario del meridionalismo corretto, proprio perché non rappresenta un mero strumento di sostegno, come in precedenza il reddito di inclusione (di cui ora il PD si vergogna alla pari del Jobs Act, pur essendo anche questa farina del suo sacco), ma è diventato un ideale sociale, un vero sogno di giustizia.

Non può sorprendere che in aree a rischio concreto di desertificazione economica e demografica, avviluppate in un circolo vizioso di rinunce e frustrazioni, di servitù politiche dolorose e di accattonaggi elettorali umilianti, un programma di suicidio sociale assistito possa apparire agli occhi di molti una garanzia di sollievo. Il reddito di cittadinanza come alternativa al lavoro – com’era nella originale predicazione grillina, com’è rimasto nel subconscio politico della nazione, in particolare al Sud – è qualcosa di mostruoso, come il diritto all’eutanasia come alternativa al diritto alla salute.

Può apparire paradossale che questa mostruosità torni a riproporsi in modo così seducente mentre il Sud è al centro del più straordinario – e grazie a Dio vincolato e sorvegliato dall’Ue – programma di investimento di cui abbia mai beneficiato in così pochi anni (complessivamente 82 miliardi), quello del PNRR, che prospetta al Mezzogiorno italiano uno scenario alternativo a quello di diventare un hospice di massa e un esperimento di socialismo palliativo.

Però, visto che tutte le idee, anche le più cattive, hanno serie conseguenze, decenni di assistenzialismo e secoli di sudditanza rendono paradossalmente attrattiva, anche in questo scenario eccezionale, la triste normalità dell’ennesimo mestierante del meridionalismo peggiore.

CHI PAGA IL CONTO DELL'ASSISTENZIALISMO. VERSO IL VOTO, LA CATENA A STROZZO DEL POPULISMO CHE TOGLIE IL FUTURO A GIOVANI E SUD. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 14 Settembre 2022.

Andando avanti sulla strada dell’assistenzialismo, passate le elezioni, ci ritroveremo obbligatoriamente di fronte al bivio strettissimo della legge di bilancio. Quando devi fare una legge di bilancio e ci devi mettere dentro un deficit aumentato per accontentare il conto elettorale dell’assistenzialismo, dai inevitabilmente un messaggio molto preciso ai mercati, a tutti gli investitori esteri e italiani. Quando fai il bilancio pubblico di un Paese ti misuri con questo tipo di problemi, aggravati ora da una congiuntura internazionale geopolitica, economica e monetaria senza precedenti. Dovrai dare delle risposte che non sono quelle delle parole a vanvera urlate nella più pazza delle campagne elettorali italiane. Se farai il contrario verremo giudicati. Perché chi sa leggere il bilancio queste cose le vede e le capisce. Chi sa leggere il bilancio è anche chi ha in mano il nostro debito – sono investitori e banche stranieri e italiani – e sarebbe bene preoccuparsi fin da ora del loro giudizio. Siamo tutti noi a doverci preoccupar

Ogni assistenzialismo richiama altro assistenzialismo. Non chiude la partita, ma ne apre molte altre perché a questo punto tutti legittimamente chiedono: aiutateci. Con questo metodo in piena pandemia il governo della Repubblica italiana, nella versione giallo rosso, guidato da Giuseppe Conte ha assunto impegni pluriennali di spesa per 588 miliardi. Almeno la metà erano necessari, gli altri sono stati regali a chi i regali se li poteva fare da solo o, in genere, spreco. Questi interventi di secondo tipo sono “pugnalate” nella schiena dei nostri giovani perché ne piegano metaforicamente i corpi e cancellano ogni disegno di sviluppo in casa loro. L’assistenzialismo è da sempre la malattia italiana e ha la sua sintesi algebrica nel debito pubblico che non è nient’altro che l’altra faccia della somma algebrica di tante ricchezze private. Quando la malattia storica italiana si incrocia con il populismo i volumi di spesa assistita si impennano naturalmente, i fondamentali a posto dell’economia italiana vanno a farsi benedire e, con la velocità della luce, il Paese rischia puntualmente il suo default sovrano. La domanda è: fino a che punto si può andare avanti con questo tipo di scelte? O meglio: fino a che punto possiamo continuare a sproloquiare tutti ignorando il nostro debito pubblico e cancellandolo come problema, ovviamente solo a parole? Andando avanti sulla strada dell’assistenzialismo, passate le elezioni, ci ritroveremo obbligatoriamente di fronte al bivio strettissimo della legge di bilancio. Quando parli di scostamento di bilancio parli di qualcosa di nebuloso che molti neppure capiscono. Quando devi fare una legge di bilancio e ci devi mettere dentro un deficit aumentato per accontentare il conto elettorale dell’assistenzialismo, dai inevitabilmente un messaggio molto preciso ai mercati, a tutti gli investitori esteri e italiani, e al Paese stesso nella sua interezza. Allora, mi chiedo, come fai a gestire questa bomba sociale a orologeria dopo la campagna elettorale che abbiamo avuto? Chi si ricorderà più di tutelare gli investimenti produttivi diretti al Mezzogiorno e chi la smetterà di giocare con numeri fantasmagorici di assunzioni nella pubblica amministrazione senza porsi molto più concretamente il problema di trovare ingegneri e informatici bravi che servono per fare funzionare davvero le amministrazioni territoriali che gestiscono i progetti del Pnrr? Chi si preoccuperà più di dare un’occasione di lavoro serio a tutti quelli di valore che se non trovano un impiego soddisfacente al Sud se lo cercano nel mondo? Riusciremo mai, in questo al Sud come in tutta Italia, a uscire dal modello clientelare di gestione della spesa pubblica?

Il dibattito elettorale di questi giorni depone malissimo. Delinea il rischio reale di una situazione politica nuova in cui si mettono in fila una serie di cifre per il bilancio dello Stato che si traducono in una dichiarazione pubblica terribile verso il mondo. Se non fosse ridotto così male il quadro chiacchierologico italiano che incide sulla reputazione della sua classe politica, dall’esterno sarebbe anche meno difficile leggere con minore pregiudizio la finanza pubblica italiana discernendo il “dovuto da stato di necessità” con l’assistenzialismo di sempre, ma come diceva Totò “è la somma che fa il totale” e quando vai a fare il totale di tutti questi interventi svieni. Almeno questo è lo scenario più probabile. Per capire il circuito perverso dell’assistenzialismo italiano basti pensare che se non avessimo il debito pubblico che abbiamo, avremmo, ad esempio, molto più margine di intervento contro il caro bollette. Il fatto che non possiamo farlo è un sintomo evidentissimo, particolarmente attuale, dei danni prodotti da questa malattia storica. Perché sono l’assistenzialismo e il problema che esso ha generato a non metterci nelle condizioni di adottare misure compensative proporzionali alla dimensione del problema energetico attuale. Pur avendo fatto fino a oggi il governo Draghi il miracolo di tirare fuori 50 e passa miliardi di aiuti senza un euro di scostamento e volendo ancora intervenire agendo sul surplus di entrate dello Stato da caro energia e migliorando la mira sugli extra utili da piccoli e grandi profittatori delle distorsioni del mercato energetico di origine bellica. Anche se tutti sanno che il Draghi che ci serviva di più era quello che con la sua leadership politica europea avrebbe dovuto costringere tedeschi e olandesi a fare i conti con la realtà del ricatto di Putin sul gas così come era già riuscito a farlo soprattutto con la Germania nella scelta di campo a favore di Zelensky. Perché un Paese super indebitato come l’Italia ha bisogno di decisioni europee che blocchino la speculazione, non di fare nuovo debito interno. Ma perché, scusate, nessuno dice mai che se spostiamo risorse per continuare a pagare i superbonus dovremo inevitabilmente togliere un po’ di spesa sanitaria o scolastica o tagliare la formazione della pubblica amministrazione? Oppure, addirittura, come è già avvenuto in passato, saremo costretti a tagliare a destra e manca un po’ alla carlona producendo ovunque disastri terribili e bloccando la fiducia di consumatori e investitori? Ma davvero siamo convinti che il Paese può sopportare che per garantire un po’ di privilegi, elettorali e non, o per fare erogazione anche a favore di cose comprensibili, si possano tagliare all’infinito spese obbligatorie di manutenzione in tutti i campi? Visto che non la si fa più da nessuna parte, o quasi, negli ospedali come nella scuola dove tutto ciò avviene da decenni, visto che viviamo in un Paese dove si aprono voragini nelle strade e crollano ponti? Ci rendiamo conto che, procedendo di questo passo, non potremmo neppure più gestire le opere del Pnrr ammesso che si riescano davvero a fare le nuove scuole e i nuovi ospedali perché poi a gestirli dovrà essere la spesa pubblica corrente? Quando fai il bilancio pubblico di un Paese ti misuri con questo tipo di problemi, aggravati in questo autunno da una congiuntura internazionale geopolitica, economica e monetaria senza precedenti.

Dovrai dare delle risposte che non sono quelle delle parole a vanvera urlate nella più pazza delle campagne elettorali italiane. Se farai il contrario verremo giudicati. Perché chi sa leggere il bilancio queste cose le vede e le capisce. Chi sa leggere il bilancio è anche chi ha in mano il nostro debito – sono investitori e banche stranieri e italiani – e sarebbe bene preoccuparsi fin da ora del loro giudizio. Siamo tutti noi a doverci preoccupare.

·        La Globalizzazione.

Materie prime, terre rare e tecnologia: con la globalizzazione tutti dipendono dagli altri, anche la Cina. Milena Gabanelli e Massimo Sideri su Il Corriere della Sera il 24 Ottobre 2022.

Gli effetti della globalizzazione ci sono franati addosso tutti insieme. Prima con la pandemia, a cui è seguito il rallentamento della logistica che ha creato carenza di microchip, poi con la guerra russa in Ucraina, la crisi energetica, e lo scontro ideologico tra teocrazie e democrazie che stanno spingendo i Paesi a una maggiore indipendenza. Già nel 2018 commentando la Brexit e la dottrina dell’«America First» di Trump, il filosofo della scienza Bruno Latour segnalava che «la tecnologia apre le frontiere, ma il mondo libero si sta chiudendo». Ma in un mondo da trent’anni completamente interconnesso è possibile andare verso una deglobalizzazione? 

Il monopolio delle materie prime strategiche

Deng Xiaoping, il padre del capitalismo alla cinese, aveva le idee chiare: «Il Medio Oriente – disse nel 1987 – ha il petrolio, la Cina ha le terre rare». Oggi il 90% delle miniere di questa famiglia di metalli come il cerio, il disprosio e il samario, sono controllate dalla Cina. Metalli fondamentali per la nostra tecnologia, di cui siamo diventati ancora più dipendenti con la pandemia. 

Non a caso Pechino tende a non esportare quasi nulla della propria produzione di terre rare leggere e pesanti così da mantenere un vincolo sulla produzione e sull’assemblaggio di computer, smartphone e sempre di più tecnologia aerospaziale. Ma ormai tutte le materie prime stanno diventando «rare» a causa del consumismo tecnologico e della volontà di Pechino ad assumere un ruolo centrale nel nuovo equilibrio geopolitico. La Commissione europea ne ha individuate 30 considerate strategiche e dunque critiche. Solo nel 2011 erano 14. Prendiamo il litio, metallo con elevata conducibilità elettrica e termica, fondamentale per le batterie, ma anche per vetro e ceramica. Chi lo possiede? Il Cile ha riserve pari a 9,2 milioni di tonnellate, circa la metà di quelle mondiali; l’Australia 5,7; la Cina 0,9. L’Europa si sta attivando per sfruttare le riserve sul territorio, presenti soprattutto nei Paesi del Nord. Con un problema enorme: rispetto agli altri Paesi abbiamo regole molto più stringenti sulla sicurezza del lavoro nelle miniere e sul controllo delle filiere. Il risultato è che qui in Europa abbiamo di meno e costa di più, così lo compriamo quasi tutto dal Cile, un po’ dagli Usa e prima delle sanzioni anche dalla Russia. 

Cosa possiede l’Europa

Tungsteno, indio, gallio. Nomi che possono apparire lontani dalla quotidianità. Ma che invece «tocchiamo» tutti i giorni. Prendiamo l’indio. Serve per i display a schermo piatto di tv e smartphone, ma anche per le celle fotovoltaiche e per fare le saldature. Metà delle miniere sono in Cina. Fortunatamente è uno di quei minerali che riusciamo come Europa a soddisfare internamente. Arriva da Francia, Belgio, Regno Unito, Germania e anche Italia ( il 5% della richiesta Ue). Ma è una eccezione. Anche il cobalto, che serve per le batterie, le superleghe, i catalizzatori e i magneti, lo prendiamo per il 14% dalla Finlandia, ma il resto arriva dal maggior produttore mondiale, la Repubblica democratica del Congo. Il tungsteno fa vibrare i telefoni, il gallio è parte integrante della tecnologia a diodi elettroluminescenti (Led) presente nelle lampade, i semiconduttori hanno bisogno di silicio metallico e le celle a idrogeno e le celle elettrolitiche necessitano di metalli del gruppo del platino. 

Tutti metalli presenti nella lista della Commissione europea delle «materie prime critiche», e l’approvvigionamento è altamente concentrato. Ad esempio, la Cina fornisce all’Ue il 98 % delle terre rare pesanti (REE), la Turchia il 98 % del borato e il Sud Africa soddisfa il 71 % del fabbisogno di platino. Negli ultimi 30 anni abbiamo consumato più metalli dei precedenti 300 anni. In sostanza, se restiamo nel perimetro dei metalli strategici, siamo autonomi solo per lo stronzio che importiamo totalmente dalle miniere spagnole. La Germania ci fornisce il 35% del gallio. La Norvegia il 30% del silico metallico. La Francia l’84% dell’Afnio, importante per l’industria della fissione nucleare. 

Il grado di dipendenza Ue

È piuttosto forte: l’antimonio lo acquistiamo da Turchia, Bolivia e Guatemala. Il carbone da coke, che è un altro dominio cinese (il 55% dell’offerta mondiale), lo prendiamo da Australia, Polonia e Usa. Non abbiamo nemmeno la gomma naturale, altra materia prima strategica: la produzione mondiale è controllata da Thailandia (33%), Indonesia (24%) e Vietnam (7%). Molte di queste materie prime non sono fondamentali solo per l’industria aerospaziale, automobilistica ed elettronica, ma anche per quella tessile: come l’antimonio, la bauxite, il cobalto, la stessa gomma naturale. 

E gli Usa?

Gli Stati Uniti hanno, tra l’altro, miniere pari al 6% mondiale del tungsteno (leghe per aerei e missili), all’8% del silicio (microprocessori), al 24% del borato (vetro e magneti), all’88% del berillio (apparecchiature elettroniche, industria aerospaziale), al 10% della fosforite (concimi). Hanno anche il 2% della produzione mondiale delle terre rare leggere e pesanti. Non hanno tutto, ma controllando diversi mercati strategici hanno potere contrattuale. 

La complicazione della guerra

Dalla Russia l’Europa acquista il 40% del palladio. Ma non è solo l’importazione diretta il problema. Il posizionamento della Cina sta cambiando e molti Paesi da cui dipendiamo (per esempio la Turchia) hanno per ora un piede in due scarpe. Prendiamo la grafite: oggi è estratta per il 69% dalle miniere cinesi che ci fornisce metà del fabbisogno complessivo europeo. Al tempo di Napoleone la grafite inglese non venne più esportata in Francia e i francesi ebbero l’idea di mischiarla con l’argilla, idea da cui nacque la matita Conté, famosa ancora oggi. Oggi però non è più una questione di matite: la grafite serve per l’elettronica e per produrre grafene, fondamentale per le batterie di nuova generazione. 

Globalizzati malgrado tutto

Dunque se guardiamo alle materie prime, chi le ha se le tiene strette. Chi non le ha deve cercare degli accordi, fino a quando saranno possibili. Ma se cambiamo prospettiva, il mondo si complica, per tutti. Dai dati pubblicati da Eurostat emerge che nel 2021 l’export dei 27 paesi europei verso la Cina è stato di 223 miliardi di euro (più 22,3%, rispetto al 2020), mentre l’import è salito a 472 miliardi (più 30%). Conseguentemente, il deficit commerciale dell’UE è salito in termini percentuali del 47,8%. L’Europa dipende molto da Pechino, ma Pechino dipende comunque dagli acquisti europei. Le lunghe catene del valore ci legano gli uni agli altri. E poi non c’è solo il commercio. Nonostante la finanza e la digitalizzazione il mondo continua ad essere fatto di cose fisiche. L’industria aeronautica ne è forse l’esempio più lampante. 

Il caso Aeroflot

Secondo i dati dell’Easa, European Union Aviation Safety Agency metà della flotta russa dell’Aeroflot, fatta di Boeing (Usa) e Airbus (Europa) è a terra in questo momento. Certo c’è un traffico ridotto per via delle sanzioni economiche, ma questi aerei a terra hanno un’altra utilità: servono per fornire pezzi di ricambio all’altra metà della flotta che vola. Questo perché solo il costruttore può fornire le parti che si rompono, e quelle che devono essere sostituite dopo un certo numero di ore di volo. Ed è sempre il costruttore ad occuparsi della manutenzione straordinaria. Ovvero l’industria americana e quella franco-tedesca. Cosa accadrà quando gli aerei a terra saranno stati completamente cannibalizzati? Certo Putin può costruire una partnership con il compagno Xi, e in effetti lo sta facendo. Ma considerando che anche i cinesi utilizzano tecnologia occidentale per i loro aerei, prima di sostituire una flotta di 182 aerei passeranno almeno 10 anni. La realtà è che anche la Russia con tutto il suo gas e il suo grano non potrebbe diventare indipendente a meno di non decidere di tornare progressivamente verso l’epoca preindustriale. Il mondo moderno non è strutturato per tornare all’era dei blocchi. E nemmeno per rinunciare alla globalizzazione.

Le 6 bugie della globalizzazione. Pandemia e guerra in Ucraina hanno smontato alcuni illusioni e luoghi comuni diffusi in Occidente. Ecco quali. Corrado Ocone il 24 Marzo 2022su NicolaPorro.it su Il Giornale.

Con l’implosione dell’Unione Sovietica e del suo sistema di alleanze, con la fine cioè della “guerra fredda”, si diffuse in tutto l’Occidente la sensazione che ormai il mondo si era messo sulla via dritta e mai più avrebbe deviato dal suo cammino. Il che ovviamente non significa che qualcuno abbia mai creduto che crisi e distorsioni non ci sarebbero più state, nemmeno il molto frainteso Francis Fukuyama). Solo che l’orizzonte idealmente intrascendibile era stato per molti di noi ormai agguantato e anche i conflitti, attenuati, si sarebbero svolti all’interno quel perimetro. Quante ne abbiamo lette e sentite di parole dettate da questa illusione! Proviamo a farne un rapido, imperfetto, provvisorio elenco.

1. Due popoli che commerciano non si fanno la guerra; quindi, se la globalizzazione degli scambi si intensificherà ancora non avremo più da temere. Ora che la Russia non avesse raggiunto, fino a ieri, un intenso interscambio con l’Occidente non si può certo dire, tanto che ancor oggi è per noi una fonte imprescindibile di approvvigionamento energetico come ben sappiamo.

2. Il numero dei Paesi democratici tenderà ad aumentare sempre più e le stesse autocrazie poco alla volta si “addolciranno” e occidentalizzeranno. Oggi quella dei paesi democratici, almeno nel senso liberale del termine, sembra essere una piccola ridotta. E anche al loro interno la qualità della democrazia, sia formale (cioè istituzionale-parlamentare) sia sostanziale (leggi: conformismo culturale e libertà d’espressione), è nettamente peggiorata.

3. I mercati sono la precondizione delle libertà civili e politiche: essi fanno crescere la classe media, la quale chiederà potere e quindi diritti e libertà di ogni genere. Che il mercato potesse coincidere con la più ampia rete di sorveglianza e controllo, come accade in Cina, non era stato messo nel conto.

4. Gli Stati nazionali sono un residuo del passato, si va sempre più verso una governance mondiale affidata agli organismi sovranazionali che regoleranno con la partecipazione di tutti il commercio, la sanità, i conflitti. Una pia illusione, visto che questi organismi sono semplicemente diventati gli strumenti con cui gli Stati più forti hanno conquistato potere e influenza. Anche in questo caso, la Cina è stata da manuale: riuscendo a nascondere, ad esempio, con la complicità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità la “verità” sulla pandemia; e, già prima, a sfruttare le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio per falsare la competizione in campo economico e diventare la seconda economia del mondo in pochissimi anni. D’altronde, sempre su questo punto, non è l’aggressione dell’Ucraina un’aggressione di uno Stato sovrano ad un altro che lo è altrettanto, in spregio ad ogni diritto internazionale? E noi non stiamo forse difendendo la classica (ottocentesca) libertà, indipendenza e autodeterminazione di uno Stato sovrano? 

5. L’Unione Europea costruirà la sua identità non sui valori (Ratzinger) ma sul fatto di essere la prima entità a fare proprie le regole dello stato cosmopolitico a venire (Spinelli). Essa si fonderà sul soft power, e quindi non avrà bisogno di eserciti (Habermas-Derrida); sugli scambi commerciali, perché è il primo “mercato del mondo”; su un’idea universalistica dei diritti e della giustizia (la cosiddetta e fantomatica Global Justice!); sul progetto di un mondo migliore e cioè emendato dalle “colpe” storiche che l’Occidente stesso ha accumulato lungo il suo cammino; sul progetto di un mondo “sostenibile” basato su una riconversione ecologica drastica e rapida (gretismi di movimento e di governo). La pandemia prima, la guerra poi, hanno fatto crollare queste utopie, di cui nessuno più osa parlare nei termini ideologici che potevamo prima incosciente permetterci.

6. I paesi di Visegrad sono “fascisti” e non amano la libertà. Che non lo siano ma che semplicemente, avendo conosciuto le vecchie utopie non vogliono abbracciare acriticamente le nuove, sembra ora evidente; così come è probabile che quelle “imperfezioni” riscontrabili nelle loro democrazie non siano del tutto dissimili a quelle che, diversamente atteggiate, si riscontrano anche ad Ovest. In ogni caso, il fronte comune contro il nemico Putin aiuterà a superare le incomprensioni o a scalfire la malafede (ove c’è stata) degli uni e degli altri.

In effetti, il vero errore di Putin, dal suo punto di vista ovviamente, è forse stato proprio questo: non aver capito che le democrazie periscono esangui quando non hanno un “nemico” (già Popper si vide costretto a definire la “società aperta” in contrasto coi “suoi nemici”, e non “in positivo”). Con la sua scellerata invasione, un nemico all’Occidente glielo ha fornito su un piatto d’argento! Corrado Ocone, 24 marzo 2022

·        L’Italia è una Repubblica fondata sul debito pubblico.

L’Italia è una Repubblica fondata sul debito pubblico. Alberto Mingardi su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2022.

La sfida del futuro: le circostanze impongono allo Stato nuovi compiti. È sensato pensare che ciò possa avvenire senza che si ragioni anche su quali sono i compiti di cui si può alleggerirlo? 

L’Italia è una Repubblica fondata sul debito. In euro di oggi, dopo la seconda guerra mondiale la spesa pubblica era di circa venti miliardi. Quest’anno arriveremo a mille miliardi. In settantaquattro anni, è aumentata di cinquanta volte. Nello stesso periodo, il PIL è cresciuto da circa 150 a 1800 miliardi: grosso modo di dodici volte. Si dirà: siamo più ricchi e possiamo permetterci più Stato. Verissimo, ma il suo peso è passato da poco più del 10% a oltre la metà del prodotto.

Abbiamo avuto periodi di crescita economica tumultuosa (come il boom degli anni Cinquanta) e momenti, rari, nei quali la spesa pubblica sembrava essere sotto controllo (negli anni Novanta, quando siamo entrati nell’euro). L’unica costante è un’altra: il nostro bilancio non è mai stato in pareggio. Nonostante l’articolo 81 della Costituzione, che stabiliva per ogni nuova spesa la necessità di indicare «i mezzi per farvi fronte». Nonostante nel 2012 lo avessimo riscritto, quell’articolo della Costituzione, parlando di «equilibrio tra le entrate e le spese». Abbiamo cambiato sistema elettorale, partiti, personale politico: però non abbiamo mai smesso di indebitarci.

È così anche oggi. Come altri Paesi europei fortemente colpiti dalla pandemia, abbiamo preso i fondi del Pnrr: i trasferimenti (grants), esito di questo momento di solidarietà europea. A differenza di quasi tutti gli altri, abbiamo però anche preso denaro a prestito dall’Europa (loans). In più, ci abbiamo aggiunto trenta miliardi di spesa pubblica tutta nostra. Con un debito pubblico che valeva una volta e mezzo il PIL, abbiamo deciso che solo facendo altro debito potessimo finalmente tornare a crescere.

La situazione è cambiata, radicalmente, in pochi mesi. I venti di guerra hanno compresso le aspettative di crescita. Le stime più ottimistiche per il 2022 postulano che le ripercussioni del conflitto ucraino si limitino ai primi mesi dell’anno: il che appare abbastanza improbabile. Intanto, l’inflazione è di nuovo fra noi: trainata in parte dai prezzi dell’energia, in parte dalle grandi elargizioni in funzione di contrasto alla pandemia in tutto il mondo. Ci sono Paesi occidentali in cui il tasso di inflazione è attorno al 10%: in Italia, è poco più basso, il 7%. Il fenomeno è troppo rilevante perché la politica monetaria non ne tenga conto. Le banche centrali dovranno alzare i tassi d’interesse. Se salgono i tassi d’interesse, aumenta il costo di rifinanziare il nostro debito. Siccome il nostro debito è molto grande, questo «aggiustamento» si farà sentire.

Siamo pronti a fare i conti con tale fenomeno? La politica italiana sembra avere una strategia, per una volta, condivisa: continueremo a chiedere soldi all’Europa. E’ verosimile che ce li diano? Lo stesso NextGeneration EU non è gratis: i Paesi europei dovranno dividersene il peso, o pro quota o con delle imposte comuni europee. Possiamo sperare che ci costerà meno di quanto ci avremo guadagnato, tuttavia non è, nemmeno questo, un pasto gratis.

Se i partiti politici fossero almeno in grado di traguardare le prossime elezioni, comincerebbero a porsi il problema. Dopo la pandemia in molti hanno sostenuto la necessità di aumentare la spesa sanitaria. Con la guerra, si è stabilito un certo consenso per l’aumento delle spese militari. L’aumento del costo dell’energia viene affrontato mettendo in campo risorse pubbliche, e così pure la sfida dei cambiamenti climatici. È comprensibile che le circostanze impongano allo Stato la necessità di farsi carico di nuovi compiti. È sensato pensare che ciò possa avvenire senza che si ragioni anche su quali sono i compiti di cui si può alleggerirlo?

Dopo la parentesi del governo Monti, abbiamo vissuto pensando che la spesa pubblica fosse una coperta che si può sempre allungare. Ma il fatto che lo spread sia ritornato a salire suggerisce che c’è una percezione diffusa che le banche centrali non potranno andare avanti come hanno fatto negli ultimi anni. Fare politica dovrebbe essere scegliere: quali programmi finanziare, quali iniziative intraprendere, chi deve farsene carico. Indebitandoci, proviamo a non scegliere affatto. Possiamo andare avanti così?

Saggiamente, il primo ministro ha ricordato che il suo prestigio non basta a farne «lo scudo contro qualunque vento». Chiunque vinca le elezioni l’anno prossimo, non avrà il prestigio e le relazioni di Draghi. Il vento sarà presumibilmente più forte. Conviene affrontarlo issando a tutta tela le vele della spesa pubblica?

·        Le Politiche Economiche.

Chi siete? Che portate? Un fiorino! Luca Bocci il 18 marzo 2022 su L'Arno - Il Giornale.

Nonostante la Toscana sia famosa per i paesaggi da cartolina e la voglia dei propri abitanti di scherzare su tutto, questa simpatia è solo superficiale, un modo che noi toscani abbiamo per nascondere il fatto che, da qualche secolo, siamo ancora in lutto. In fondo ai nostri cuori abbiamo il dubbio atroce che, non importa quello che riusciremo ad inventarci per farci strada nel mondo, non riusciremo mai a replicare le conquiste straordinarie dei nostri antenati. Quella che ci perseguita è l’età dell’oro della nostra terra, quando una perfetta tempesta di potere finanziario, talento e scaltrezza politica rese la Toscana il cuore e l’anima della civiltà occidentale. Se i libri dedicati al Rinascimento si sprecano, non molto si dice del carburante che ha reso possibile questa straordinaria fioritura di arte, cultura e scienza: i soldi. La Toscana era ricca, talmente ricca da potersi permettere, per la prima volta in Europa dalla fine dell’Impero Romano di coniare regolarmente monete d’oro, i famosi “fiorini”. ASCOLTA LA STORIA

Le monetine con il giglio di Firenze e l’immagine di San Giovanni Battista, santo patrono della città del Duomo, diventò la moneta di scambio preferita della cristianità. I fiorini si guadagnarono una reputazione tale da essere considerati letteralmente “buoni come l’oro”. La storia del fiorino e di come la sua presenza rese possibile l’esplosione dei commerci che avrebbe cambiato per sempre la storia del Vecchio Continente è davvero affascinante – il che spiega perché questa settimana abbiamo deciso di dedicare una puntata al cosiddetto “dollaro del Medioevo”.

Per molti di noi con qualche giro attorno al sole di troppo, la parola “fiorino” riporta alla mente una famosa gag del film “Non ci resta che piangere“, avventura nel tempo dei due grandi mattatori della comicità degli anni ’70 e ’80, Roberto Benigni e Massimo Troisi, ma la nascita della famosa moneta ha le sue radici nel sangue e in una striscia di vittorie della coalizione guelfa fiorentina sui rivali ghibellini di Pisa e Siena. Il successo della valuta col giglio fu garantito con pene davvero draconiane: essere beccati a falsificare un fiorino ti spediva direttamente sul rogo, senza passare dal via. La complessa macchina che regolò la produzione e la qualità dei fiorini garantì per oltre tre secoli che, nonostante innumerevoli tentativi d’imitazione, la monetina regnasse sovrana in tutta Europa.

A fermare la corsa del fiorino fu un autogol clamoroso della famiglia che, più di ogni altre, aveva accumulato montagne di monete nei propri forzieri, i Medici. Gli esponenti della grande famiglia di banchieri iniziarono a credere alla propria propaganda, pensandosi più importanti della stessa Firenze. Pur di avere la propria immagine sulle monete, Alessandro Medici ammazzò la gallina dalle uova d’oro, in uno degli autogol più clamorosi della storia. Queste monete scintillanti sono ancora in giro, come tutte le storie e le leggende che sono fiorite nel tempo sulla moneta che fece la Toscana ricca e potente. Luca Bocci

"L'Italia della svolta 2011-2021". Dal governo Monti a quello Draghi: 10 anni di svolta politica italiana raccontata da D’Alimonte e Mammarella. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 20 Marzo 2022. 

Questo agile testo di D’Alimonte e Mammarella, uno scienziato della politica e uno storico, copre gli ultimi dieci anni della nostra vita politica con due punti di partenza e arrivo segnati entrambi da governi tecnici, Monti e Draghi. Due le tesi di fondo.

La prima, chiara sin da subito (p. 12) segnala che mentre la vita degli esecutivi nazionali è stata breve e stentata, invece quella degli esecutivi comunali e regionali, inquadrati da regole coerenti tra sistemi elettorali e forme di governo, hanno mantenuto la premessa di stabilità e di efficienza. Il sistema dei partiti è sostanzialmente lo stesso, eppure le regole hanno fatto differenza, al netto delle innegabili differenze di complessità e di dimensione di scala. Da qui, di fatto, anche una possibile proposta: non varrà forse la pena di ispirarsi a regole analoghe, non necessariamente identiche, per affrontare le difficoltà sperimentate a livello nazionale? A cominciare evidentemente dalla soppressione del doppio rapporto fiduciario con Camera e Senato, che, almeno fino all’ultima legge elettorale, era abbinato persino a leggi elettorali diverse e fino alla recente riforma costituzionale aveva anche una base elettorale diversa (p. 14). Si tratta quindi di abbandonare quel complesso del tiranno che ha contribuito a mantenere deboli le nostre istituzioni nazionali (p. 11).

La seconda tesi è che accanto al rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo (integrato peraltro dal ruolo presidenziale) si è venuto a creare, soprattutto dopo l’avvento dell’Euro, un rapporto di interdipendenza tra i governi dell’Eurozona che rende impossibile governare contro gli altri. Cosa di cui fece amaramente le spese il governo Berlusconi nel 2011 a cui Bossi impedì la riforma del sistema pensionistico (p. 23), la cui mancanza danneggiava anche gli altri Paesi. Più che di vincolo esterno (p. 27) bisognerebbe forse parlare di vincolo reciproco, ma non ci sono complotti né cose inspiegabili, è tutto alquanto chiaro e trasparente. Come del resto si vide poi col rifiuto da parte del presidente Mattarella di nominare al Ministero dell’Economia Paolo Savona, sostenitore di un’uscita surrettizia dall’Euro (p. 146).

I governi tecnici, almeno quello di Monti, appaiono quindi agli Autori come un passaggio necessario quando questo legame europeo si rompe, ma di per sé, anche per la loro durata fatalmente breve, non fanno miracoli, specie quando sono spinti a fare riforme con taglio di risorse (p. 42). D’Alimonte e Mammarella ripercorrono quindi gli anni intermedi tra i due governi tecnici e in particolare valorizzano il tentativo fallito della riforma costituzionale ed elettorale Renzi che sta a metà del periodo. Il suo fallimento col referendum 2016, seguito a catena dalla consequenziale sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale, in un clima di timore delle classi dirigenti per un possibile successo elettorale del Movimento 5 Stelle in un ballottaggio nazionale (p. 113) spinge di nuovo verso un Governo tecnico di derivazione presidenziale. Un sistema con tutte e due le variabili deboli, sia i partiti sia le istituzioni, finisce per trovare nel pilastro presidenziale il suo sostegno fondamentale.

Gli Autori spiegano bene la debolezza del sistema dei partiti. Se le tradizionali alleanze pre-elettorali avevano problemi a reggere per l’intera legislatura (come accaduto col fallimento di Berlusconi nel 2011 dopo l’ampia legittimazione popolare del 2008), il quadro con le alleanze post-elettorali in caso di esito non chiaro del voto è ancora più incomprensibile. Il primo Governo della legislatura 2018 è un esecutivo politico, ma il cui presidente, Giuseppe Conte, non si era candidato alle elezioni e non era il leader del primo partito della coalizione (a differenza della regolarità delle democrazie parlamentari europee), il programma appare una somma di rivendicazioni divergenti e come tale già dall’inizio poco credibile per garantire la durata della legislatura (a differenza degli analoghi patti fuori dall’Italia) e così via in un seguito di varie anomalie (p. 168). Davvero si pensa, ci dicono gli Autori, neanche troppo tra le righe, che un passaggio ad un sistema di tipo proporzionale senza più incentivi verso alleanze pre-elettorali, dopo la prova provata di questa legislatura, ci darebbe maggiore stabilità ed efficienza?

Si arriva infine al Governo Draghi, esperienza ancora in corso, che a differenza di Monti può dar vita a riforme in un quadro non di tagli, ma di importanti fondi europei. Un vantaggio non da poco. Una formula mista, tecnica e politica, ma coi tecnici obiettivamente nei ruoli guida (p. 190). Tuttavia anche questo governo tecnico può affrontare bene molte questioni, ma neanche esso sarà una panacea se esso non creerà il clima per dar vita a “nuove istituzioni” (p. 218) capaci di garantire standard analoghi a quelli sperimentati in Comuni e Regioni. Le conclusioni, in una sorta di circolo, ci riportano quindi alla prima tesi iniziale.

R. D’Alimonte – G. Mammarella L’Italia della svolta 2011-2021, Il Mulino, Bologna

 Stefano Ceccanti.

Se il "profitto" torna bersaglio della sinistra. Carlo Lottieri il 21 Marzo 2022 su Il Giornale.

Un problema cruciale del nostro Paese è il permanere di una cultura dominata da una profonda avversione per la libertà d'impresa.

Un problema cruciale del nostro Paese è il permanere di una cultura dominata da una profonda avversione per la libertà d'impresa. Ne offre conferma quanto ha dichiarato Giovanni Paglia, responsabile economia di Sinistra Italiana, secondo il quale «gli extraprofitti delle imprese energetiche sono letteralmente una rapina: 40 miliardi di euro che passano dalle nostre tasche a un pugno di grandi aziende senza alcun merito imprenditoriale». La nozione di extra-profitto lascia il tempo che trova. In una società libera ogni operatore può legittimamente cercare profitti, che possono essere alti (in talune circostanze) senza che di per sé siano illegittimi. È vero che il quadro italiano è caratterizzato da barriere all'ingresso che proteggono quanti sono già sul mercato, ma allora bisognerebbe fare tutto il possibile per combattere le rendite di un sistema economico non pienamente liberalizzato: non veramente libero. Purtroppo, però, non è in quella direzione che la maggior parte delle forze politiche intende muoversi.

Un odio così viscerale verso la proprietà, il profitto e la libera impresa non promette nulla di buono. Per giunta, la persuasione che lo Stato debba tutelare la società operando un costante esproprio delle risorse prodotte sul mercato concorrenziale è destinata a generare una crescente conflittualità: specie ora che l'aumento dei prezzi, in larga misura da addebitare alle politiche monetarie della Bce, sta riducendo il potere d'acquisto dei salari e degli stipendi.

Chi volesse difendere davvero le famiglie e soprattutto quelle più deboli dinanzi al rincaro delle bollette e della benzina dovrebbe richiamare semmai l'attenzione sulla pressione fiscale altissima: su quelle accise e imposte indirette che sono le prime responsabili di prezzi tanto alti. È lo Stato, e non già il mercato, che ci sta riducendo in uno stato di povertà. La continua denuncia degli «speculatori» (si tratti dell'aumento del prezzo del pane o di qualsiasi altro bene) manifesta invece una gravissima incomprensione di come, su un mercato aperto, i prezzi rispondano a logiche naturali: a leggi che non si possono violare senza andare incontro a conseguenze assai gravi (come illustrava già Alessandro Manzoni nel dodicesimo capitolo del Promessi Sposi, dedicato all'assalto ai forni).

L'ignoranza dei principi elementari dell'economia, associata a decenni di una propaganda fondata sull'odio di classe, fanno sì che ancora vi sia chi mette sotto accusa i profitti e difende misure governative espropriatrici. Seguendo questa strada, però, ci troveremo a far parte di un desolante Terzo Mondo.

La questione liberale. Il ddl concorrenza e lo strabismo ideologico dei sindacati. Valerio Federico su L'Inkiesta il 21 Marzo 2022.

Oltre il 90% dei servizi locali viene affidato direttamente a privati. La proposta del governo è quello di rafforzare il ricorso alle gare per essere più conformi alle regole europee, ma alcuni reazionari hanno paura di perdere il controllo diretto delle società che tanto peso hanno regalato alle classi dirigenti locali.

Nella comprensibile ridotta attenzione da parte dei media e dell’opinione pubblica, è in corso una straordinaria pressione politica da parte di enti locali, partiti, sindacati e perfino magistratura organizzata, per depotenziare il disegno di legge concorrenza fermo al Senato. La proposta Draghi, all’ormai noto articolo 6, prevede una sostanziale ed effettiva apertura del mercato, quindi alla concorrenza, quindi ai privati, dei servizi pubblici locali.  

Oltre il 90% dei servizi locali oggi attivi è stato affidato senza gara. L’affidamento diretto a società totalmente pubbliche (in house) è legittimo, ma il mancato ricorso al mercato dovrebbe essere, per le normative UE e nazionali, ridotto e adeguatamente motivato. 

Il ddl concorrenza prevede meccanismi tali da rafforzare il ricorso alle gare rendendo residuale l’affidamento diretto e determinando, finalmente, una reale separazione tra le funzioni regolatorie e quelle di gestione diretta dei servizi, tra controllore e controllato. 

Il provvedimento si pone peraltro obiettivi corrispondenti a quelli delle normative che si sono susseguite negli ultimi anni, tutte atte a tutelare la concorrenza nel settore, ma che sono risultate ineffettive, a partire dal testo unico delle partecipate del 2016. Queste norme non hanno inciso sufficientemente sulla riduzione delle società partecipate, sono infatti solo leggermente diminuite ma a fronte di un numero di addetti cresciuto; non hanno inciso sulla loro gestione: 1200 società non si trovano nelle condizioni, previste dalla legge, che ne legittimano il mantenimento in mano agli enti locali. Vi è poi, tuttora, una clamorosa dipendenza finanziaria di questi organismi rispetto alle istituzioni locali che li sussidiano anche oltre le necessità.  

Ma ecco dunque la logica, reazionaria, mobilitazione, partita dai sindacati, alle prime indiscrezioni sul testo, e proseguita con la parola d’ordine di stralciare l’articolo 6, presente in mozioni comunali, approvate qua e là, a difesa del controllo diretto dei servizi locali, delle proprie società che tanto peso hanno regalato alle classi dirigenti locali, spesso tradottosi in affari, assunzioni illegittime, perdite finanziarie, favori, inefficienze, corruzione, costi ingiustificati, rilievi della Corte dei Conti e raccolta di consenso.  

Tra gli ordini del giorno approvati dai consigli comunali anche quello milanese, a prima firma Carlo Monguzzi, che ha visto una pubblica contrarietà solo di Azione e +Europa. Nel testo si fa addirittura riferimento a «limiti evidenziati», nel corso della pandemia, di una fantomatica «società unicamente regolata dal mercato».

Perfino Magistratura Democratica ha pubblicato nel proprio sito un pezzo del già presidente di sezione del Tribunale di Milano Marco Manunta che si apre con un roboante «il ddl sulla concorrenza finirebbe per piegare alla logica del profitto servizi essenziali pregiudicando diritti primari delle persone e delle comunità locali», ricordandoci così la degenerata ideologizzazione di cui è ancora preda parte della nostra magistratura. 

È chiaro che a fronte di queste pressioni e di questo strabismo ideologico, che vede ancora nel libero mercato una minaccia e non un’opportunità, il cammino del ddl è fortemente a rischio depotenziamento, nel suo prossimo passaggio parlamentare, e che il carattere riformatore dell’azione di Draghi rischi di subire un duro colpo. 

La questione liberale resta, purtroppo, attuale nel Paese, nonostante il maquillage al quale si sono sottoposte molte forze politiche.

Molte riforme per nulla. Controstoria economica della Seconda Repubblica. Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle su L'Inkiesta il 21 Marzo 2022.

Negli ultimi 30 anni, l’azione riformatrice dei governi italiani è stata incompleta e intermittente. Ma la responsabilità di questa stagnazione economica pluridecennale non è solo colpa della politica. Il saggio di Saravalle e Stagnaro.  

La risposta comunemente fornita a chi si interroga sulle ragioni della nostra stagnazione trentennale è assai semplice: perché non abbiamo mai fatto le riforme. Ma è proprio vero? […]  

Sembrerebbe [piuttosto] che abbiamo fatto molte leggi e poche riforme. E c’è indubbiamente un grano di verità in questa interpretazione. Però, a onor del vero, dobbiamo riconoscere che queste leggi hanno nel loro complesso trasformato, almeno in parte, il paese, e in molti casi hanno prodotto importanti effetti benefici, che permangono tuttora. Per fare solo qualche esempio, si pensi alle semplificazioni e alle modifiche nel rapporto Stato-cittadino, alle privatizzazioni e liberalizzazioni, alla flessibilità introdotta nel mercato del lavoro e alla lunga marcia verso un sistema pensionistico sostenibile (nonostante le retromarce, specie negli ultimi anni). 

Insomma, è vero che ci sono state tante riforme che hanno contribuito a modernizzare il paese, ma è altrettanto evidente che l’azione riformatrice è stata incompleta, intermittente e inconclusiva. Tant’è che, a dispetto delle continue promesse di rilancio, l’Italia è ancora ferma al palo. È il solo paese dell’Ue che, tra il 2000 e il 2019, ha perso reddito su base pro capite: alla vigilia della pandemia eravamo, infatti, 0,8 punti percentuali al di sotto del livello di vent’anni prima. Torniamo alle riforme, allora, e alla promessa di crescita e di riscatto che si portavano appresso. In alcuni casi il percorso era stato quasi completato – o comunque, se n’era fatto un bel tratto – ma poi c’è stata una repentina retromarcia. […] 

Un secondo luogo comune è che l’eccessiva instabilità politica e la breve durata media dei governi abbiano reso vano, di fatto, ogni intento riformatore. Anche qui c’è del vero. In altri contesti una lunga permanenza al potere di un partito o di una maggioranza ha reso possibile una stagione di riforme che ha lasciato un segno indelebile nella società. […] In Italia destra e sinistra, pur avvicendandosi spesso al governo, hanno dimostrato una continuità maggiore di quanto comunemente si ritenga. […] In generale non è stata un’opposizione politica e di principio a guidare gli strappi controriformisti: sono stati più prosaici (e anche comprensibili) calcoli elettorali, alimentati dalla speranza di lucrare una sorta di rendita dall’opposizione. […] Se ripercorriamo le manovre di governo delle varie coalizioni che si sono succedute, ci rendiamo subito conto che, al contrario, la sinistra ha spesso promosso delle riforme che all’apparenza sarebbero di destra (privatizzazioni, liberalizzazioni), e la destra ha fatto delle politiche che a priori non esiteremmo a targare come di sinistra (ha, per esempio, aumentato gli ammortizzatori sociali durante la crisi finanziaria). […]

Infine, il terzo luogo comune che spesso viene ripetuto quando si parla della nostra incapacità di portare a compimento le riforme è che l’azione dei governi sia stata bloccata da potenti lobby che si sono messe di traverso e dall’apparato degli alti funzionari pubblici. Anche questo risponde in qualche misura al vero, ma non è certo stato il fattore determinante.

Quanto alle lobby, è vero che numerose corporazioni (avvocati, notai, tassisti, concessionari pubblici, enti locali, e anche i dipendenti o i dirigenti pubblici) hanno condotto battaglie di retroguardia per difendere i propri interessi, bloccando i tentativi di liberalizzare il mercato o ridurre i sussidi. […] Ugualmente superficiale è la tesi secondo cui la colpa sarebbe della burocrazia e degli alti dirigenti ministeriali che non vogliono perdere i propri privilegi (concedere sussidi, dare autorizzazioni ecc.). Ancora una volta qualcosa di vero c’è, soprattutto per quanto riguarda le lungaggini nell’adozione della normativa secondaria, ma pare davvero esagerato sostenere che sia questo lo scoglio su cui si sono infrante le riforme in questi trent’anni.

Non si può, però, circoscrivere la responsabilità di una stagnazione economica pluridecennale attribuendola solo alla politica o all’amministrazione: l’incapacità di disegnare, difendere e attuare riforme davvero incisive è dell’intera classe dirigente, economica e intellettuale, che spesso si è schierata contro i provvedimenti di modernizzazione, nel nome di un (percepito o reale) interesse particulare.

Infatti non di rado le riforme sono state perseguite contro l’opinione pubblica, e le controriforme sono state invece adottate tra fragorosi applausi. È ben vero che, per parafrasare Margaret Thatcher, nessuno ha mai fatto la rivoluzione nel nome del consenso ma, semmai, ha costruito il consenso attorno alla rivoluzione. Tuttavia la debolezza della classe politica – tra l’altro decapitata o azzoppata dai procedimenti giudiziari – non scusa in alcun modo i timidi tentativi, le ritrosie, i silenzi e, in ultima analisi, la pigrizia intellettuale delle élite che avevano gli strumenti per comprendere come l’interesse di lungo termine (la crescita economica) fosse incompatibile con quello di breve (la difesa delle rendite).

Da “Molte riforme per nulla. Una controstoria economica della seconda repubblica”, di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro, (Marsilio), 256 pagine,

·        Il Finanziamento ai partiti.

Estratto dell’articolo di Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 29 novembre 2022.

È un cashback da 5.500 euro. Ma vale solo per loro: i deputati. Mentre il governo sforbicia il Reddito di cittadinanza, taglia lo sconto sul caro benzina, destina le briciole alla sanità (2 miliardi già mangiati dall'inflazione), gli onorevoli si sono regalati, senza troppa pubblicità, un maxi-bonus per comprarsi tablet, smartphone, schermi a 34 pollici, Airpods e pc. 

La determina di Montecitorio è stata firmata giovedì scorso, il 24 novembre, dai questori della Camera. Giusto un mese prima di Natale. In calce ci sono le firme di tre deputati: Paolo Trancassini di Fratelli d'Italia, Alessandro Manuel Benvenuto della Lega e Filippo Scerra del M5S.

Lo spunto per elargire il gettone è il varo della nuova disciplina delle "dotazioni d'ufficio" a disposizione degli eletti. A sentire i tre questori che hanno licenziato il provvedimento, questo bonus andrebbe incontro alle "esigenze individuali e l'aggiornamento tecnologico" dei 400 onorevoli. Rispetto alla scorsa legislatura, balza all'occhio soprattutto l'importo: nel 2018, sotto la presidenza del grillino Roberto Fico, i questori confermarono l'extra per computer e telefonini. 

Ma era meno della metà rispetto a quello attuale: 2.500 euro a testa di rimborso spese. Ora invece il bonus è stato gonfiato, con un aumento del 120%, all'avvio di una legislatura segnata dall'austerity e con i soldi in cassa che, dicono un po' tutti i partiti, sono pochi e vanno spesi bene al centesimo. Con qualche eccezione per gli eletti, a quanto pare.

 In allegato al provvedimento, c'è un elenco di beni rimborsabili da Montecitorio, dunque dai contribuenti, lungo quanto una lista della spesa: portatili, smartphone, tablet completi di accessori, cuffie come le costose Airpods della Apple, monitor fino a 34 pollici (la scorsa legislatura erano 32, meglio abbondare). Già prima del voto qualche parlamentare aveva storto il naso per il gruzzolo troppo esiguo riservato agli acquisti tecnologici. Racconta un ex questore di Montecitorio: "Dicevano che 2.500 euro non bastavano. […] 

Incassare il gettone è facile. I controlli sono tutti interni: il vaglio è affidato al collegio dei questori. Insomma, alcuni deputati certificano gli scontrini presentati da altri deputati. Poi scatta il rimborso. Altra novità rispetto agli anni passati: nel 2018 i grillini inserirono alcune penali, per limitare l'erogazione dei fondi.

Per esempio, erano previste trattenute nel caso in cui un parlamentare non partecipasse ad almeno il 50% delle sedute in Aula o non presentasse almeno l'80% delle proposte di legge o degli atti ispettivi in formato elettronico, per risparmiare sulla carta. Di questo passaggio, nel provvedimento varato il 24 novembre, non c'è più traccia. 

Niente penali e bonus più che raddoppiato. La giostra dei gettoni di Montecitorio gira a pieno regime. L'austerity del Paese resta fuori dal Palazzo

Il Parlamento da 600 eletti costa fino al 2025 come quello da 945. Il Quirinale e la Consulta più cari. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Dicembre 2022.

La solita bufala grillina: non si risparmierà un centesimo per fare funzionare Camera e Senato nonostante il taglio dei parlamentari.

Fino all’anno 2025 il Parlamento costa come un anno fa, nonostante il taglio degli eletti, scesi da 945 a 600. L’amara sorpresa viene dalla tabella del MEF allegata alla legge di bilancio 2023: non vi sarà nessun risparmio, considerato che  nel 2023 , nel 2024 e nel 2025 resta lo stesso stanziamento del 2021: un miliardo e 455 milioni di euro per Camera e Senato. Lo ha scoperto il quotidiano economico Verità & Affari diretto da Franco Bechis.

Il grande “bluff” della riforma costituzionale

Le spese per la Camera dei deputati rimangono ogni anno di 943,16 milioni di euro come prima, nonostante il taglio di 245 onorevoli. Quelle per il Senato continuano ad essere ogni anno di 505,36 milioni di euro nonostante il taglio di 115 senatori. E’ quindi un bluff quello della millantata riduzione dei costi della politica promessa dal M5S che aveva messo tutti d’accordo sulla riforma costituzionale.

Consulta e Quirinale costano di più

Se chi doveva tirare la cinghia non lo fa, aumentano invece le spese per la Corte Costituzionale e perfino per il Quirinale. La Consulta aveva una dotazione di 58,5 milioni di euro nel 2022. Sale l’anno prossimo a 62,6 milioni di euro, quello successivo a 64,9 milioni di euro e nel 2025 a 66,15 milioni di euro con un incremento di 7,6 milioni complessivo. Il Quirinale resta con la dotazione di 224,259 milioni di euro da qui al 2024, ma nel 2025 ottiene altri 6 milioni di euro arrivando a 230,259. Redazione CdG 1947

Il bluff della casta: meno deputati alla Camera, ma stessa spesa. Il Tempo il 18 novembre 2022 

Il taglio del numero dei parlamentari non ha portato a risparmi reali nelle spese della Camera. A svelare l’assurdità è Francesco Verderami sul Corriere della Sera, spiegando che la scorsa estate, prima dello scioglimento delle Camere, c’è stato il via libera all’aumento dei costi della politica. Meno seggi avrebbero significato meno soldi per le forze politiche e così sono stati ideati alcuni stratagemmi per evitare il problema. Nella “previsione pluriennale” è stato deciso di non modificare la “dotazione” dello Stato, con la Camera che continuerà a percepire 943 milioni di euro anche nel 2023 e nel 2024. 230 seggi in meno non hanno avuto quindi benefici per le casse dei contribuenti.  

“Ma il vero capolavoro - scrive Verderami - si cela dietro un’altra voce. Siccome non si poteva agire sul fondo per le ‘indennità dei parlamentari’, che infatti diminuisce dai 145 milioni del 2022 ai 93 milioni del 2024, si usava l’escamotage dei ‘contributi ai gruppi’ per foraggiare i partiti. I 30,8 milioni attribuiti per l’anno in corso si riprodurranno anche negli anni seguenti. Se i gruppi nella legislatura con 630 seggi percepivano 49 mila euro l’anno per ogni deputato, con 400 seggi ne otterranno 77 mila a deputato”. E non ci sono partiti che si salvano da tale blitz sui conti, Movimento 5 Stelle compreso.

Gustavo Bialetti per “la Verità” il 19 novembre 2022.

La riduzione del numero dei parlamentari, approvata con referendum popolare a ottobre del 2019, ci avevano detto che avrebbe comportato grandi risparmi. Per i 5 stelle, grandi sponsor della riforma, scendere a 900 deputati avrebbe fatto risparmiare mezzo miliardo a legislatura. Calcoli più appropriati, elaborati a settembre da Pagella politica e Youtrend per il Corriere della Sera, parlano di 285 milioni. Ma ora si scopre che saranno ancor meno e c'è lo zampino dei grillini. 

Ieri, sempre il Corriere, ha raccontato che nel bilancio della Camera i soldi restano invariati, grazie a un escamotage firmato dall'ex presidente Roberto Fico, dei 5 stelle.

In sostanza, agendo sul capitolo dei fondi per i gruppi parlamentari, si è confermato uno stanziamento invariato da 30,8 milioni. Così, se prima ogni deputato «costava» 49.000 euro l'anno, oggi siamo a quota 77.000.

Naturalmente stiamo parlando di un meccanismo assai furbetto, per non dire indecente, che fa comodo a tutti i partiti e che tutti, in silenzio, si sono ritagliati su misura alla fine della scorsa legislatura. Però Fico davvero ha fatto un bel viaggio, da paladino della lotta alla casta a promotore di audaci colpi parlamentari. 

E i 5 stelle tutti, se oggi possono remunerare con contratti onerosi le consulenze di grandi ex come Vito Crimi e Paola Taverna, lo devono anche a questa astuta manovra del tenersi i budget dei bei tempi andati, quelli degli «sprechi» partitocratici. Le truppe grilline erano state mandate a Roma da Beppe Grillo con l'imperativo categorico di aprire le Camere «come una scatoletta di tonno». Hanno aperto la scatoletta, si sono presi il tonno e hanno pensato di metterci qualcosa anche per le stagioni a venire.

La Camera «ricca»: meno deputati dopo il taglio dei parlamentari, ma la spesa è uguale. Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 18 Novembre 2022  

Con i fondi anche i contratti di Crimi e Taverna. Un tempo i grillini l’avrebbero denunciato, stavolta invece hanno partecipato all’impresa 

Da casti si sono trasformati in «casta». Se i grillini sono diventati uguali agli altri , è perché insieme agli altri hanno fatto lievitare i costi della politica. È avvenuto la scorsa estate, giusto alla vigilia dello scioglimento delle Camere.

L’hanno fatto senza darlo a vedere e approfittando dell’alto patrocinio offerto dalla terza carica dello Stato. C’è la prova che abbiano addentato la mela del potere, sta nel Bilancio deliberato dall’Ufficio di presidenza di Montecitorio (anche) con la firma del presidente Fico. Quattro anni fa il campione dell’ortodossia a cinquestelle, nel discorso d’insediamento sullo scranno più alto della Camera, aveva puntato l’indice contro la famelicità dei partiti, avvisando che «l’epoca dei privilegi è finita» e che il taglio dei parlamentari sarebbe stato solo «il primo passo». Quattro anni dopo è caduto in tentazione.

Era il 13 luglio, il governo Draghi stava per entrare in crisi e nel Palazzo tutti davano ormai per scontato il voto anticipato. Il futuro Parlamento sarebbe però nato con un terzo di seggi in meno, per via della riforma. E ovviamente, meno seggi avrebbero significato meno soldi per le forze politiche. Per aggirare il problema bisognava escogitare una serie di artifizi. Così, nella «previsione pluriennale», si decideva intanto di lasciare invariata la «dotazione» dello Stato. Nel Bilancio veniva scritto che la Camera continuerà a percepire 943 milioni di euro anche nel 2023 e nel 2024. Strano, visto che il taglio di 230 seggi dovrebbe portare a una diminuzione dei finanziamenti. Che sono soldi dei contribuenti.

Ma il vero capolavoro si cela dietro un’altra voce. Siccome non si poteva agire sul fondo per le «indennità dei parlamentari» — che infatti diminuisce dai 145 milioni del 2022 ai 93 milioni del 2024 — si usava l’escamotage dei «contributi ai gruppi» per foraggiare i partiti. Ecco la sorpresa. Quel budget nel Bilancio resta costante: i 30,8 milioni attribuiti per l’anno in corso si riprodurranno anche negli anni seguenti. Il conto è presto fatto. Se i gruppi nella legislatura con 630 seggi percepivano 49 mila euro l’anno per ogni deputato, con 400 seggi ne otterranno 77 mila a deputato. E la riduzione dei costi della politica? Nemmeno calcolando un tasso di inflazione «argentina» si giustificherebbe un simile aumento.

Un tempo i grillini lo avrebbero denunciato, scagliandosi contro i partiti «brutti sporchi e cattivi». Stavolta invece hanno partecipato all’impresa, grati al loro compagno di Movimento che nel frattempo ha traslocato negli splendidi uffici posti sull’altana di Montecitorio. La dotazione per il gruppo M5S — attualmente composto da 52 deputati — varrà di qui in avanti 4 milioni l’anno, da utilizzare per spese di «personale» e «comunicazione». Sotto la prima voce di bilancio verranno ascritti — per esempio — i contratti di Crimi e Taverna, rimasti esclusi dalle liste e compensati con un quinquennale da tremila euro netti al mese come «collaboratori dei gruppi parlamentari». La seconda voce potrebbe venir utile anche per onorare l’accordo commerciale con Grillo, che percepisce dal Movimento trecentomila euro per pubblicare sul suo blog gli «interventi di spicco» dei dirigenti a cinque stelle.

Con buona pace dei venti dipendenti del gruppo appena mandati a casa, la firma di Fico sul Bilancio della Camera consentirà a una parte dei fedelissimi contiani di restare nella «scatoletta di tonno». In fondo, bisognava risarcirli dopo l’incidente di percorso: l’approvazione della riforma che ha tagliato i parlamentari, infatti, non era stata messa in preventivo dai vertici di M5S. Lo si capì dal modo in cui il sottosegretario Fraccaro commentò allora l’avvenimento: «Chi poteva immaginare che il Pd l’avrebbe fatta passare?». L’ingegnoso meccanismo contabile firmato da Fico è l’eredità che raccoglie oggi il nuovo inquilino di Montecitorio, Fontana. Insieme ad altri problemi. Il suo predecessore — quando s’insediò — aveva dichiarato di mirare a tre obiettivi. «Restituire centralità al Parlamento» (che è stato imbavagliato con il record di decreti legge e voti di fiducia). «Riscrivere i regolamenti della Camera» (ma l’ha fatto solo il Senato). E «tagliare i costi della politica»(omissis). Chissà se Conte vorrà ristabilire la «diversità» grillina, chiedendo per il prossimo Bilancio di abbassare i contributi ai gruppi...

Due leghe e una capanna. .  Report Rai PUNTATA DEL 12/12/2022 di Luca Chianca

Collaborazione di Alessia Marzi

Abbiamo vissuto una campagna elettorale mai vista finora.

Salvini ha tentato fino all'ultimo di contendersi la premiership con l'alleata Meloni, radunando migliaia di simpatizzanti nel sacro prato di Pontida, dove ha avuto inizio la storia del vecchio partito guidato da Umberto Bossi. Ma cosa nasconde questo prato dove son tornati a radunarsi i vecchi militanti della Lega Nord e di quella di Salvini Premier? Uno scambio di soldi tra i due partiti. La Lega di Salvini, infatti, ha versato all’immobiliare Pontida Fin, di proprietà della vecchia Lega nord, ben 250 mila euro per l'affitto di un solo giorno di raduno. Pochi giorni dopo, con una parte di quei soldi, il vecchio partito ha pagato Francesco Barachetti, l'imprenditore condannato a dicembre scorso a 5 anni nella vicenda dell’acquisto della nuova sede della Film Commission lombarda perché avrebbe sottratto fondi pubblici, con i due contabili del partito di Salvini, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Nomi noti per Report che si è occupato più volte della vicenda. L'estate scorsa, però, spunta una storia esclusiva che vede coinvolto sempre l’imprenditore Barachetti e un comune amministrato dalla Lega. Questa volta al centro dell'inchiesta è la caserma dei carabinieri di Trezzo sull'Adda, dove Barachetti nel 2016 si è aggiudicato un appalto da 600mila euro per terminarne i lavori.

Le risposte integrali dell'On. Giulio Centemero

Le risposte integrali di Francesco Barachetti

Da: On. Giulio Centemero Inviato: venerdì 9 dicembre 2022 20:45 A: [CG] Redazione Report Cc: Luca Chianca Oggetto: Re: Richiesta informazioni_Report, Rai 3 Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI

Spettabile Redazione di Report, in risposta alla vostra richiesta di informazioni in merito ai rapporti economici tra Lega per Salvini Premier e Lega Nord Vi rappresento quanto segue. Il partito Lega per Salvini Premier come Vi sarà certamente noto, successivamente alla sua costituzione, ha posto la propria sede a Milano in via Bellerio n. 41, nell’immobile di proprietà di Pontida Fin e sede storica del partito Lega Nord. Pertanto, Lega per Salvini Premier corrisponde un canone di locazione che nel tempo è aumentato in ragione degli spazi via via utilizzati dal partito e dei lavori di ristrutturazione che nel tempo sono stati realizzati nelle diverse aree dell’immobile, sino ad arrivare alla consistenza attuale a Voi nota che è pari a 320 mila euro all’anno. L’immobile originariamente acquisito dalla società Pontida Fin nel lontano 1993 da tempo aveva necessità di una imponente ristrutturazione degli spazi interni e in alcuni casi anche delle strutture esterne. Le opere di ristrutturazione sono state affidate alle società Barachetti Service srl e BMG srl riferibili a Francesco Barachetti che ha curato personalmente la realizzazione dei lavori dalla fase di progettazione sino a quella di messa in opera. Per tali opere le società hanno curato, quali general contractor, di individuare e mantenere i rapporti, anche di natura economica, con i diversi fornitori interessati alla realizzazione del progetto di ristrutturazione. La transazione sottoscritta tra le parti è semplicemente la scrittura con la quale si regolano in via transattiva i rapporti economici con la predetta società per l’esecuzione delle opere già svolte e non ancora saldate. Nella medesima scrittura, inoltre, si ridimensiona il progetto di ristrutturazione che originariamente prevedeva anche il rifacimento del corpo autonomo denominato “Tele Padania”, sede storica dell’omonima emittente televisiva, perchè eccessivamente oneroso rispetto alla situazione finanziaria di Pontida Fin srl. Le speculazioni sul tema dei pagamenti alla società Barachetti Service sono davvero incomprensibili. La società ha curato imponenti lavori di ristrutturazione e per questi ha esposto i costi comprensivi, come detto, in alcuni casi anche di terzi fornitori. I lavori come anche i pagamenti si sono in parte interrotti nel corso del 2021, a seguito della vicenda giudiziaria legata alla fondazione Lombardia Film Commission che ha visto coinvolto tra gli altri Francesco Barachetti, per poi essere ripresi e correttamente definiti. In definitiva, si sta semplicemente pagando quanto dovuto per i lavori eseguiti come avviene per ogni altro fornitore. Quanto infine all’utilizzo del terreno ove si svolge il consueto raduno di Pontida Vi confermo che Lega per Salvini Premier ha corrisposto la somma di 250 mila euro alla società Pontida Fin proprietaria dello stesso. Da ultimo, va precisato che, tra i vari soggetti da Voi citati, unicamente il sottoscritto riveste attualmente una carica apicale in entrambi i partiti politici. Sperando di aver chiarito i punti di vostro interesse, colgo l’occasione per evidenziare il tempismo non casuale della presente richiesta, che infatti ha ad oggetto profili che, sarà un caso, vengono negli stessi termini dedotti a supporto di una domanda giudiziale avverso il partito, su cui dovrà esserci pronuncia nel mese di gennaio. Cordialità, GC Inviato da iPhone

Da: Matteo Montaruli Inviato: venerdì 9 dicembre 2022 15:32 A: [CG] Redazione Report Cc: Luca Chianca Oggetto: R: Richiesta informazioni all'attenzione di Francesco Barachetti Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI

Gentile Dott.ssa Marzi, La ringrazio per la Sua richiesta. Relativamente alla prima questione, Le specifico che nel 2022 i rapporti tra Barachetti Service e Pontida Fin sono stati per lo più relativi alla gestione del recupero di un credito per attività eseguite e fatturate nelle annualità 2020/2021 per le quali è stata concordata una dilazione di pagamento oltre che alla definizione di un serie di rapporti rimasti sospesi nel periodo in cui il Sig. Barachetti era stato impossibilitato. Relativamente alle altre richieste, sinceramente, non comprendiamo la necessità di fornire riscontro, atteso che le stesse riguardano attività ordinarie aziendali e non fatti di interesse generale tipici del diritto di cronaca. Di contro, siamo a piena disposizione ove sia Sua intenzione approfondire la nota questione “Lombardia Film Commission”, la cui sentenza di primo grado è stata impugnata innanzi alla Corte d’Appello di Milano. Un cordiale saluto, Matteo Montaruli ________________________________

 Avv. Matteo Montaruli Keller Montaruli & Associati STA S.r.l. 24122 Bergamo (Italy)

DUE LEGHE E UNA CAPANNA di Luca Chianca collaborazione di Alessia Marzi immagini Fabio Martinelli montaggio di Emanuele Redondi

RADUNO DI PONTIDA – 18 SETTEMBRE 2022 SPEAKER Popolo di Pontida tutti insieme salutiamo il segretario federale della Lega Matteo Salvini. Tutto il prato: Matteo! Matteo! Matteo!

MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA - SALVINI PREMIER Lasciatemi dire che dopo tre anni di Covid, con la crisi economica, con la preoccupazione dei mutui, delle bollette, vedere voi, vedere decine e decine di migliaia di persone mi riempie il cuore e non c'è processo che mi possa e ci possa fermare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il processo è quello che lo vede accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, perché si sarebbe rifiutato, appunto, nelle vesti di ministro dell’Interno nel 2019, di far approdare la nave dell’Ong spagnola Open Arms. E lo fa difendendosi da quel palco di Pontida, da dove è cominciata tutta la storia della Lega, quella legata a Umberto Bossi che dopo anni di silenzio è tornato a farsi vivo. Il 3 dicembre scorso ha riunito alcuni fedelissimi approfittando della crisi di leadership di Salvini; lo ha accusato di aver tradito l’identità leghista. Insomma, è riemerso un problema irrisolto, quello delle due anime della Lega, Salvini da una parte e dall’altra Umberto Bossi. Anime che sono nate, scaturite dopo che la Procura di Genova ha chiesto la restituzione dei 49 milioni di euro, frutto secondo lei di una truffa elettorale. Il nostro Luca Chianca cerca di districarsi tra le due anime.

RADUNO DI PONTIDA – 18 SETTEMBRE 2022 MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA - SALVINI PREMIER Chi non ha memoria non ha futuro, chi dimentica le sue radici, non ha futuro, sempre grazie, onore e forza a Umberto Bossi, sempre. Umberto siamo qua grazie a te, siamo qua per te e andremo molto lontano. Grazie!

SPEAKER Salutiamo ancora il segretario federale della Lega, Matteo Salvini!

LUCA CHIANCA Chi votate voi, Lega Nord o Salvini Premier?

MILITANTE Noi votiamo per la Lega su Salvini premier, facciamo sulla croce lì. Cosa c'entra Lega Nord?

LUCA CHIANCA Eh, perché c'è ancora.

MILITANTE Eh ma non mi interessa, io voto Lega Salvini Premier.

GIANLUCA PINI – LEGA NORD INDIPENDENZA DELLA PADANIA Sicuramente Salvini è stato abile nel far credere alla gente che la Lega Nord si fosse trasformata; in realtà no, lui la Lega Nord l'ha congelata, surgelata, ibernata, sicuramente inchiodata senza possibilità di far politica e ne ha aperta un'altra.

LUCA CHIANCA Cioè, sembra un unico partito però tecnicamente diviso in due.

GIANLUCA PINI – LEGA NORD INDIPENDENZA DELLA PADANIA Sì, probabilmente per evitare di assorbirne i debiti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La Lega Nord, quella vecchia di Umberto Bossi, per volere del nuovo partito di Salvini non fa più attività politica, non presentandosi alle elezioni. Eppure, la Procura di Genova aveva permesso di spalmare per ben 70 anni il debito dei 49 milioni per le truffe dei rimborsi elettorali, proprio per evitare che un partito chiudesse e consentire a milioni di elettori di poter votare ancora Lega Nord.

GIANLUCA PINI – LEGA NORD INDIPENDENZA DELLA PADANIA Il problema è che è stata una presa in giro per la Procura, per la Cassazione, per la Corte dei Conti e per gli elettori della Lega Nord perché immediatamente dopo aver fatto questo tipo di accordo la Lega Nord non ha più fatto attività politica, pur continuando a percepire dei soldi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Oggi la Lega Nord continua a percepire il 2X1000 e con quei soldi paga il debito dei 49 milioni allo Stato, ma come ha scoperto Giovanni Tizian del Domani, la sua immobiliare, la Pontida Fin, incassa anche altri soldi che arrivano dalla Lega di Salvini. Primo tra tutti l'affitto per la sede di via Bellerio di proprietà della vecchia Lega.

GIOVANNI TIZIAN – GIORNALISTA “DOMANI” Inizialmente il contratto di locazione prevedeva il versamento di 120mila euro, poi dopo un anno incredibilmente, senza una motivazione particolare, viene triplicata questa cifra e diventa 320mila euro l'anno, che è una cifra sbalorditiva per quel luogo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La Lega di Salvini versa l’affitto all’immobiliare Pontida Fin, di proprietà della vecchia Lega Nord. Alla quale paga anche l’affitto del pratone per il raduno. L’affitto in questo caso è astronomico. Ben 250 mila euro per un solo giorno!

LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Non mi occupo degli affitti.

LUCA CHIANCA Però è strana, no?

LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO In che senso?

LUCA CHIANCA Perché la stessa Lega paga sé stessa sostanzialmente per l'affitto di un terreno.

LUCA ZAIA – PRESIDENTE REGIONE VENETO Fa domande a uno che non sa nulla di queste robe, se mi parli degli affitti del Veneto io so tutto.

LUCA CHIANCA La Lega di Salvini che paga l'affitto alla Lega Nord.

MASSIMILIANO FEDRIGA - PRESIDENTE REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Dovete chiedere all'amministrazione, non so.

LUCA CHIANCA Eh, ma perché?

MASSIMILIANO FEDRIGA - PRESIDENTE REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Chiedete qualcosa di cui non sono a conoscenza.

LUCA CHIANCA Paga Pontida, paga la sede di via Bellerio, perché un trasferimento di soldi tra i due partiti?

MASSIMILIANO FEDRIGA - PRESIDENTE REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Dovete parlare con gli amministratori, non con me, io sono abituato a parlare quando le cose le so.

LUCA CHIANCA Però è strano che non sappiate nulla di tutto ciò, no?

MASSIMILIANO FEDRIGA - PRESIDENTE REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Non sono mica sono l'amministratore della Lega.

LUCA CHIANCA Perché pagano l'affitto se sono fondamentalmente sempre loro?

GIOVANNI TIZIAN – GIORNALISTA DOMANI Probabilmente questo contratto di locazione serve proprio per tenere distinti e mostrare all'autorità giudiziaria a chiunque, al mondo, che Lega Salvini Premier e Lega Nord sono due cose distinte però, come dire, è una distanza fittizia perché ripeto i personaggi sono gli stessi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nei due partiti, la vecchia Lega e quella di Salvini, troviamo contemporaneamente Umberto Bossi, Igor Iezzi, Roberto Calderoli, il nuovo presidente della Camera Lorenzo Fontana e Giulio Centemero che è tesoriere e amministratore delle due leghe, di fatto con la mano destra paga, mentre con la sinistra incassa.

LUCA CHIANCA Un tesoriere che è lo stesso di qua e di là, utilizzano la stessa sede, via Bellerio, utilizzano Pontida, difficile dire che siano due partiti diversi, no?

FRANCESCO PINTO – PROCURATORE AGGIUNTO – PROCURA DELLA REPUBBLICA DI GENOVA Beh, è una valutazione che certamente può essere fatta.

LUCA CHIANCA Non sarebbe più semplice rivalersi sulla nuova Lega che di fatto è la vecchia Lega con qualche rivisitazione?

FRANCESCO PINTO – PROCURATORE AGGIUNTO – PROCURA DELLA REPUBBLICA DI GENOVA No, perché il soggetto politico che è stato indicato come indebito percettore di quelle somme è un soggetto che formalmente è ancora esistente.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Esiste, ma non all’elezioni e, con una parte degli affitti ricevuti dalla Lega Salvini Premier, a luglio la sua immobiliare, la Pontida Fin, ha girato altri soldi a una vecchia conoscenza di Report: Francesco Barachetti, l'imprenditore condannato in primo grado a dicembre scorso a cinque anni nella vicenda dell’acquisto della nuova sede della Film Commission lombarda per peculato e false fatture insieme ai due contabili del partito di Salvini: Alberto di Rubba e Andrea Manzoni.

GIOVANNI TIZIAN – GIORNALISTA “DOMANI” Lega Salvini Premier paga a Pontida fin 250mila euro per l'affitto.

LUCA CHIANCA Di un giorno di raduno.

GIOVANNI TIZIAN – GIORNALISTA DOMANI Di un giorno di raduno per Pontida, due giorni dopo, il 15 luglio 2022, Pontida Fin versa la prima rata a Barachetti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Abbiamo aspettato il segretario tutto il giorno, fino agli ultimi selfie e saluti con i suoi fan.

LUCA CHIANCA Senatore scusi se la disturbo.

MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA - SALVINI PREMIER Basta, basta.

LUCA CHIANCA Mi dia una risposta sui soldi che sono andati a Barachetti.

MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA - SALVINI PREMIER Basta

LUCA CHIANCA La Lega Salvini paga Pontida alla Lega Nord e la Lega Nord dà i soldi a Barachetti.

MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA - SALVINI PREMIER Basta ma non stai portando rispetto... io sono qua per loro.

LUCA CHIANCA Sì, però io vorrei avere una risposta da lei, ci faccia capire perché avete ancora rapporti con l'imprenditore Barachetti, no?

UOMO Dopo risponde, dopo risponde.

LUCA CHIANCA È stato anche condannato in primo grado per la Film Commission.

UOMO Dopo risponde, fai far le foto.

LUCA CHIANCA Cioè i soldi son partiti a luglio, non sono soldi vecchi eh. Perché avete ancora rapporti con Barachetti? Senatore, una domanda…

UOMO È un attimo in un momento privato, dai, ragazzi.

LUCA CHIANCA Privato, come privato?

UOMO Un secondo, ha finito il palco, dai, per piacere un attimino di cortesia nei suoi confronti anche come persona.

SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO La Lega Salvini premier ha pagato per l’affitto del prato la Pontida Fin, che poi ha girato parte dei soldi all’imprenditore Barachetti. Ci ha scritto il suo legale e ci dice "che si tratta di importi relativi ad attività eseguite e fatturate nelle annualità 2020/2021". Si tratta di imponenti lavori di ristrutturazione della sede di Via Bellerio. Ci scrive il tesoriere Centemero. Barachetti è anche forte di una scrittura privata che gli consentirà di incassare 400mila euro; è stata firmata a luglio del 2022. Ma chi è Francesco Barachetti? È intanto un imprenditore bergamasco, vicino di casa di uno dei contabili della Lega di Salvini, Di Rubba, ed è considerato un fornitore attendibile, solido. Ha incassato negli anni più di 2 milioni e mezzo di lavori. Viene utilizzato anche per alcune operazioni un po’ spregiudicate e infatti è stato condannato in primo grado a 5 anni per peculato e false fatturazioni con i contabili della Lega Di Rubba e Manzoni nell’operazione della sede della Film Commission Lombardia, dove sarebbero stati sottratti, secondo i magistrati, dei soldi pubblici. Ora Barachetti, emerge anche dalle intercettazioni di questa inchiesta, avrebbe anche tentato di tener buono Luca Sostegni, cioè il prestanome utilizzato in questa operazione del capannone. Avrebbe tentato di acquistare degli immobili di proprietà di Sostegni; operazione che poi non è andata a buon termine. Perché lo fa Barachetti? Perché Luca Sostegni aveva minacciato, non ottenendo il pattuito, di rivelare tutto a Report, e per questo aveva contattato il nostro Luca Chianca. Poi però il nostro Luca Chianca adesso ha scoperto un nuovo appalto che lega i leghisti al solito Barachetti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora parlavamo degli imprenditori di fiducia che ruotano intorno alla Lega di Salvini e degli appalti che vengono concessi e parlavamo nello specifico di Francesco Barachetti. È stato coinvolto, condannato in primo grado insieme ai contabili della Lega Di Rubba e Manzoni, nella vicenda della sede della Film Commission Lombardia, dove sarebbero stati sottratti, secondo i magistrati, dei denari pubblici. Barachetti è un imprenditore di fiducia della Lega, negli anni ha incassato oltre 2 milioni e mezzo di lavori. Ora il nostro Luca Chianca ha scoperto un nuovo appalto; riguarda i lavori di una caserma dei carabinieri che alcuni periti davano per quasi terminati; invece, un nuovo progetto li ha riaperti e ha aumentato, quasi duplicato, i costi dei lavori. Neanche a dirlo, gli amministratori in quota Lega chiamano alla procedura negoziata il solito Barachetti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Siamo a Trezzo sull'Adda, confine tra la provincia di Milano e quella di Bergamo. Qui Barachetti nel 2016 si è aggiudicato un appalto di 600mila euro per terminare i lavori della Caserma dei Carabinieri. Sindaco dell'epoca è il leghista Danilo Villa.

LUCA CHIANCA La nota interessante di questo appalto è che viene affidato alla ditta di Francesco Barachetti.

DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Ciao, ciao.

LUCA CHIANCA Francesco Barachetti lei lo conosce?

DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Personalmente no, però…

LUCA CHIANCA Sa chi è, no?

DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Sì, lo so, lo so…

 LUCA CHIANCA Casnigo, la storia della Lega, indagato, imputato nel processo, ha preso un sacco di soldini da…

DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Lo so, lo so, ma la vostra teoria di relazione tra Barachetti e quest'opera casca male, casca male.

LUCA CHIANCA No, non è una teoria. Mi chiedo: come ci arriva…

DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Prendete un appuntamento e ci vediamo.

LUCA CHIANCA Lo prendiamo adesso. Aspetti, aspetti…

DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 C’ho da fare!

LUCA CHIANCA Come c'arriva Barachetti qui a Trezzo sull'Adda dalla Val Seriana?

DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Credo legato al direttore lavori.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il direttore dei lavori e anche progettista della Caserma di Trezzo sull’Adda, è Italo Madaschi, che ha lo studio in Val Seriana, proprio dove c'è il quartier generale di Barachetti.

ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Io preferisco che mi vengano le ditte che so che mi fanno i lavori e mi finiscono i lavori piuttosto che quella precedente che non ha finito i lavori, è fallita e ha lasciato indietro i pagamenti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tuttavia, la ditta precedente gran parte dei lavori li aveva conclusi ed erano stati anche collaudati dal Comune, come ricorda un rappresentante della ditta stessa.

LUCA CHIANCA Quando arriva il fallimento della sua società i lavori sono completati per…?

FABRIZIO SALA – EX AMMINISTRATORE UNICO LE FOPPE SRL Al 95 per cento.

LUCA CHIANCA 95 per cento, firmato dal Comune? Tutti firmati dal…

FABRIZIO SALA – EX AMMINISTRATORE UNICO LE FOPPE SRL Sì, tutti gli stati d'avanzamento sono stati controfirmati dal collaudatore del Comune, oltre che al direttore lavori delle opere ovviamente.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Anche il perito del tribunale fallimentare certifica che gran parte dei lavori erano stati fatti e che per completare la caserma sarebbero servite opere per 491mila euro. E di questo era consapevole anche l’ex assessore al bilancio in quota Lega, Sergio Confalone.

SERGIO CONFALONE – ASSESSORE BILANCIO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2015 La caserma era, secondo quello che sapevamo noi già nella precedente legislatura, era già finita.

LUCA CHIANCA Era quasi finita?

SERGIO CONFALONE – ASSESSORE BILANCIO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2015 Il sindaco stesso ce la dava già finita nella prima legislatura.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Invece il direttore dei lavori Madaschi, voluto dal Comune a guida leghista di Danilo Villa, presenta un nuovo progetto per completare la caserma. Non bastano i 491 mila euro, quantificati dal perito del tribunale, ma il doppio: costo un milione e 50mila euro. Ed è qui che entra in campo Barachetti.

LUCA CHIANCA Com'è possibile 500mila euro in più?

ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Abbiamo trovato i tubi sottotraccia dove non passavano i cavi o non correva più l'acqua, perdite, abbiamo trovato un tubo dell'acqua calda collegato alla fredda e viceversa.

LUCA CHIANCA Però sorprende che un Ctu del tribunale fallimentare di Milano dica, no, addirittura, l'importo per completare e rendere funzionale l'opera, anche risolvendo le problematiche con vizi e difetti, sia di 490.

ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Sorprende però è così.

LUCA CHIANCA Ho capito ma non può sbagliarsi di 500mila euro, cioè qui stiamo… che lavoro ha fatto?

 ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Ho capito ma perché ho sbagliato io e non ha sbagliato lui?

LUCA CHIANCA Avete fatto un'altra caserma, no?

ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Allora, nella battuta nostra era: se la demolivamo e ricostruivamo non ci pensavamo tanto di più.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Per giustificare la congruità del nuovo intervento, Madaschi allega delle foto. Gli esterni, il piano interrato, il piano terra, primo piano e copertura del tetto.

SERGIO CONFALONE – ASSESSORE BILANCIO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2015 Però al di là di qualche presa mancante o qualche allagamento dovuto forse a qualche… cioè, sinceramente non si vedeva una situazione tale da dover investire, secondo me, una cifra così importante.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Alla fine alla gara negoziata più ghiotta da 600mila euro si presentano solo due ditte. E la vince Barachetti.

LUCA CHIANCA Solo la Colman Luca e Barachetti fanno l'offerta. Le suggerisce lei queste?

ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Se le ho indicate non gliel'ho so dire, non me lo ricordo.

LUCA CHIANCA Queste procedure negoziate però sono così, cioè si individua la ditta che deve fare i lavori e alla fine si fa vincere fondamentalmente, no?

ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) No, perché fanno le offerte, non lo sappiamo lì cosa esce dall'offerta.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L’anomalia è che nella gara appare una terza ditta che non fa neanche un'offerta. Secondo Banca d'Italia è in rapporti economici con quella di Francesco Barachetti.

LUCA CHIANCA Eh, ma se qui si conoscono tutti e son della stessa zona, si vedono a tavolino prima e dicono no, l'offerta non la faccio, la fai tu. ITALO MADASCHI – PROGETTISTA E DIRETTORE LAVORI CASERMA TREZZO SULL’ADDA (MI) Allora se dobbiamo pensar male, tutte le gare sono così. LUCA CHIANCA Mi sto occupando della caserma. FAUSTO NEGRI - CAPO UFFICIO TECNICO COMUNE DI TREZZO SULL'ADDA (MI) Caserma dei carabinieri. Oh signor, era iniziata male... LUCA CHIANCA Sì. FAUSTO NEGRI - CAPO UFFICIO TECNICO COMUNE DI TREZZO SULL'ADDA (MI) Oh signor, era iniziata male... LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Fausto Negri è amico di università del direttore dei lavori Madaschi, ma è anche il capo dell'ufficio tecnico del comune di Trezzo sull'Adda che aggiudica a Francesco Barachetti l'appalto di 600mila euro per finire la caserma.

LUCA CHIANCA Ma sorge il dubbio che venga invitata perché faccia parte del sistema del partito, questo è il punto.

FAUSTO NEGRI - CAPO UFFICIO TECNICO COMUNE DI TREZZO SULL'ADDA (MI) Allora da parte mia non ho mai avuto nessuno incarico da parte della Lega, quindi… posso avere delle simpatie leghiste ma questo...

LUCA CHIANCA Lei si è candidato proprio con la Lega.

FAUSTO NEGRI - CAPO UFFICIO TECNICO COMUNE DI TREZZO SULL'ADDA (MI) E vabbè.

LUCA CHIANCA Vabbè quindi oltre la simpatia no, è proprio leghista.

FAUSTO NEGRI - CAPO UFFICIO TECNICO COMUNE DI TREZZO SULL'ADDA (MI) Comunque Barachetti ha fatto i lavori, li ha fatti bene, li ha fatti nei tempi previsti, fatti i collaudi; poi che sia legato alla Film Commission eccetera questo purtroppo non…

LUCA CHIANCA Sembra un po’ un caso simile? Capannone che non costa nulla diventa un capannone che viene pagato 800mila euro, caserma che sembra quasi finita.

FAUSTO NEGRI - CAPO UFFICIO TECNICO COMUNE DI TREZZO SULL'ADDA (MI) Sembra. LUCA CHIANCA Beh, io vedo quello che scrive un Ctu di un tribunale fallimentare.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'ingegner Negri fino a poco tempo fa era anche in Ates, una multiservizi del Comune. Secondo Banca d’Italia, Ates avrebbe dato altri 200 mila euro di appalti alle società di Barachetti. Amministratore delegato è Ugo Zanello, fino al 2014 in Pontida Fin, l’immobiliare della Lega che paga Barachetti. Altra coincidenza è che quando Zanello lascia l’immobiliare, viene sostituito da Alberto Di Rubba, uno dei contabili del partito di Salvini coinvolto nella vicenda della Lombardia Film Commission.

LUCA CHIANCA Però ecco la coincidenza, così, fortuita chiaramente, è che qui a Trezzo arriva la ditta che Alberto Di Rubba ha sponsorizzato.

UGO OTTAVIANO ZANELLO – AMMINISTRATORE DELEGATO ATES ENERGIA SRL A maggior ragione quindi mentre in Pontida Fin c'era un proprietario che era la Lega Nord e quindi non poteva altro che essere lei a scegliere, qua ci sono 20 comuni.

LUCA CHIANCA Però l'ha scelta lui, eh, che è della Lega.

UGO OTTAVIANO ZANELLO – AMMINISTRATORE DELEGATO ATES ENERGIA SRL Non è vero.

DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Zanello, diciamogliela chiaramente: la scelta l'ho fatta come comune di Trezzo, essendo comune di maggioranza.

LUCA CHIANCA La Lega l'ha voluto qui. Attraverso lei che lo rappresenta.

DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 No, non la Lega, io! Io l'ho voluto.

LUCA CHIANCA Ma lei fa parte della Lega, è il rappresentante sul territorio della Lega.

DANILO VILLA – SINDACO TREZZO SULL'ADDA (MI) 2009-2019 Se in questo senso sì.

LUCA CHIANCA E certo!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E certo. Comunque, cosa è successo? Che c’erano da completare dei lavori di una caserma dei carabinieri secondo il collaudatore del Comune e un perito del Tribunale, erano quasi completati. Invece interviene un nuovo direttore dei lavori, fa un nuovo progetto e quei lavori vengono riaperti e aumentano del doppio: da 490 mila euro a 1 milione e 50. E alla procedura negoziata viene chiamato a partecipare Barachetti che poi alla fine realizzerà i lavori. Ricorda un po’ nel suo evolversi la storia del capannone della Film Commission, della sede che costa quasi niente e alla fine è costato quasi 800 mila euro di denaro pubblico. Anche qui è girato del denaro pubblico, tuttavia l’avvocato di Barachetti ci scrive e mantiene il riserbo: "non comprendiamo la necessità di fornire riscontro, atteso che le stesse riguardano attività ordinarie aziendali e non fatti di interesse generale tipici del diritto di cronaca". Insomma, sono fatti loro.

Da ilfattoquotidiano.it il 28 novembre 2022.

Il record sono i 100mila euro donati a Italia viva da Lupo Ratazzi, presidente di Noes Air e figlio di Susanna Agnelli. Ma ci sono pure i 75mila euro di Pier Luigi Loro Piana per Azione. Ammontano a circa tre milioni i soldi raccolti nel 2022 da Matteo Renzi e Carlo Calenda. 

A fare i conti in tasca al sedicente Terzo polo è il Corriere.it che riporta i dati contenuti nelle 700 pagine del registro dei finanziatori dei partiti, depositato alla Camera. Cifre che si riferiscono al periodo compreso tra gennaio e settembre 2022. Si scopre così, quindi, che Renzi e Calenda hanno scaldato i cuori di una serie di imprenditori italiani attivi nel mondo della moda ma pure della distribuzione e nell’acciaio. Sostenitori facoltosi e generosi visto che, in poco meno di un anno, hanno pompato circa tre milioni di euro nelle casse di Azione e d’Italia viva.

 Al partito di Calenda, per esempio, sono arrivati 10mila euro da Renzo Rosso di Diesel, 50mila da Patrizio Bertelli di Prada e ventimila da Luciano Cimmino del gruppo Yamamay-Carpisa. Diecimila euro sono arrivati pure dal patron di Ferrarelle Carlo Pontecorvo, mentre il gruppo Cremonini, leader nella produzione di carne, ha donato 30 mila ad Azione. Marco Tronchetti Provera si è fermato a tremila euro, mentre trentamila sono arrivati da Guido Maria Brera, finanziere e scrittore, tra i proprietari di Chora media. 

Molto denaro è arrivato anche dal mondo dell’acciaio: 50mila euro sono arrivati da Arvedi, 30mila da Antonio Marcegaglia. Gianfelice Rocca del gruppo Humanitas ha donato 80mila euro a Calenda, mentre Alberto Bombassei, presidente onorario di Brembo, ha inviato i suoi 50 mila euro. Non cambiano molto i nomi nell’elenco dei finanziatori d’Italia viva, che ha spinto sulla raccolta fondi nei primi venti giorni di settembre. Anche qui ci sono i diecimila euro del signor Diesel, mentre Emma Marcegaglia ha fatto un bonifico da 30mila. Il record, oltre a Rattazzi, appartiene al monegasco Manfredi Lefevre D’Ovidio, numero 1 delle crociere di lusso, che ha donato 100mila euro. Il finanziere Davide Serra, amico storico di Renzi, ha regalato 25mila euro, la metà rispetto alla donazione di un altro finanziere, Giovanni Tamburi.

Librandi finanzia il Pd – Renziani e calendiani hanno raccolto poco meno del Pd, che era dato perdente dai sondaggi e ha dunque perso il contributo storico di alcune grandi aziende. In totale, da gennaio a settembre, il partito di Enrico Letta ha raccolto circa tre milioni e mezzo: 100mila sono arrivati da Francesco Merloni, 97 anni, ex ministro della Dc e sette volte parlamentare. Sessantamila euro sono poi arrivati da una delle aziende di Gianfranco Librandi, ex deputato renziano eletto con Scelta civica, poi passato al Pd e infine a Italia viva. Alle ultime politiche era candidato con +Europa, che ha sostenuto con altri 100mila euro. Dodicimila euro sono poi arrivati da Elly Schlein, vicepresidente della Regione Emilia Romagna e parlamentare neo eletta dai dem. Al Nazareno chiedevano 15mila euro ai candidati nei collegi sicuri. Niente soldi invece ai 5 stelle, che per statuto accettano solo piccole donazioni online, a parte i mille euro al mese che devono essere versati dagli eletti: al partito di Giuseppe Conte nel il 2022 è arrivato meno di un milione. Da segnalare, però, che Luigi Di Maio ha raccolto circa 300mila euro da alcune aziende per il suo Impegno civico, nato dopo la scissione dai 5 stelle. Una cifra raccolta in un paio di mesi e che è servita a poco visto che l’ex ministro degli Esteri ha preso solo lo 0,6% alle elezioni.

I soldi della Santanchè a Fdi – Da segnalare, tra gli altri partiti, i tre milioni e mezzo raccolti da Fratelli d’Italia. Ventiseimila euro, come è noto, sono stati donati da Flavio Briatore e dalla socia Daniela Santanchè, che sono proprietari del Twiga: Santanchè, come è noto, è ministra del Turismo del governo Meloni. Una sua cara amica, e cioè l’ex conduttrice Rai Paola Ferrari, ha donato 40mila euro a Fdi. Altri 100mila euro sono arrivati da Giulia Cosenza, ex deputata di Alleanza nazionale oggi al vertice della Milano investimenti, società di costruzioni. Trentamila euro sono arrivati anche da Marco Rotelli, esponente della famiglia che guida il gruppo ospedaliero San Donato, che ha versato la stessa somma praticamente a tutti i partiti. Diecimila euro sono arrivati poi dalla Drass Galeazzi, azienda che si occupa di Difesa e che è iscritta all’Aiad, la federazione delle aziende del settore che era presieduta da Guido Crosetto. Il partito di Meloni ha chiesto trentamila euro ai candidati che potevano contare su un seggio blindato, oltre alle donazioni mensili.

Alla Lega i soldi delle sigarette elettroniche – Il vero record delle donazioni è però della Lega, che ha raccolto circa sei milioni e mezzo. Nel Carroccio la quota per i parlamentari sicuri dell’elezione è pari a 20mila euro, più i 3mila da versare ogni mese durante la legislatura. C’è chi però ha pagato per niente: il presidente dell’Unione ciechi, Mario Barbuto, ha fatto il suo bonifico ma poi ha perso all’uninominale di Palermo. Tra i privati spiccano i 100 mila euro arrivati dal Monte Finanziario europeo srl, società dei figli di Francesco Polidori, fondatore di Cepu. Cinquantamila euro sono poi arrivati dalla società Vaporart, che produce sigarette elettroniche e nel 2018 ne aveva versato il doppio. Sempre del centrodestra c’è poi Forza Italia, storico partito azienda di Silvio Berlusconi che pure a questo giro è stato sovvenzionato da Arcore: centomila euro a testa sono arrivati da Eleonora, Luigi, Marina, Piersilvio e Barbara, i figli dell’ex presidente del consiglio. Altri centomila euro sono arrivati da Fininvest, mentre Adriano Galliani si è fermato a 93mila. Renato Schifani, l’ex presidente del Senato eletto governatore in Sicilia, ha donato al suo partito 26mila euro, mentre ai candidati per un seggio sicuro è stato chiesto un versamento da 30mila euro a testa. Una richiesta ufficiale arrivata con tanto di lettera firmata dal tesoriere.

Chi ha finanziato i partiti alle elezioni? A Forza Italia mezzo milione dai figli di Berlusconi, a FdI l’aiuto dal Twiga, il flop del Pd. Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2022.

In 700 pagine il registro dei finanziatori delle forze politiche: il record della Lega, il balzo di Fratelli d’Italia (3,5 milioni) e il picco negativo del Pd. Facciamo i conti in tasca alla campagna elettorale più anomala della storia: chi e quanto ha finanziato

Nella cassaforte di Fratelli d’Italia, per sostenere la campagna elettorale che ha portato la prima donna a Palazzo Chigi, sono arrivati finanziamenti da aziende che operano nel settore militare e della Difesa, ma anche dal Twiga, il lussuoso bagno della Versilia della coppia Briatore-Santanchè, con la seconda poi diventata ministra del Turismo. Ci sono poi i conti di Forza Italia, salvati in buona parte dai 5 figli di Silvio Berlusconi con mezzo milione di euro. E poi la Lega, regina incontrastata con oltre 6 milioni raccolti, che tra le centinaia di sostenitori conta pure il sindacato dei gestori di slot machine e scommesse e un’azienda produttrice di sigarette elettroniche, spesso difese da Salvini (ex fumatore di tabacco “vero”). E c’è infine il Pd, le cui casse sono rimaste molto più vuote del solito perché, evidentemente, anche finanziatori e imprese storicamente amiche sono stati scoraggiati dai sondaggi. Un fund raising, quello del Nazareno, che è stato di fatto pareggiato anche dalla piccola federazione tra Azione e Italia viva. Analizzando le oltre 700 pagine del registro dei finanziatori dei partiti, depositato e aggiornato per legge presso la Camera, emerge un quadro assai interessante, che denota come i grandi finanziatori abbiano virato radicalmente le rispettive bussole avendo fiutato lo storico cambiamento politico al timone del Paese.

Al partito della premier Giorgia Meloni, che 10 anni fa conquistò l’1,96% e stavolta si è affermato primo partito con il 26%, non sono più arrivate le briciole degli esordi. In previsione di una grande vittoria, il forziere meloniano ha raccolto da inizio anno almeno 3,5 milioni. Una cifra importante, mai vista in Via della Scrofa, che dopo aver coperto le spese della campagna servirà anche per ampliare la sede e rafforzare l’organico del fu “partitino”, che ora poggia su una decina tra dipendenti e collaboratori: il Pd, per avere un paragone, ha circa 130 assunti. Una fetta importante del totale è stata versata da tutti i candidati che potevano contare su un seggio blindato: 30 mila euro a testa, oltre ai versamenti mensili. In cima alla lista dei finanziatori più curiosi c’è il tandem di Flavio Briatore e Daniela Santanchè, co-proprietari del Twiga: dalla società del bagno di Marina di Pietrasanta sono arrivati 26 mila euro nelle casse di FdI, partito decisamente contrario alla messa a bando per le concessioni balneari, come l’Ue impone da tempo secondo la legge Bolkestein. (Proprio nei giorni scorsi, Santanchè ha venduto le sue quote del Twiga suddividendole tra il suo compagno Dimitri D’Asburgo e il suo socio Briatore)

Santanchè è poi diventata ministro del Turismo e, però, subito incappata nel vortice di un’inchiesta della procura di Milano per il crollo di Visibilia, concessionaria pubblicitaria fondata proprio da Santanchè. Altri 40 mila euro sono arrivati da Paola Ferrari, ex conduttrice Rai de La Domenica sportiva e moglie di Marco De Benedetti. Poi ci sono i 10 mila donati dalla Red Lions srl, holding che controlla l’impero della pummarola Mutti, che ha sostenuto pure Azione di Carlo Calenda con 25 mila euro. Ben 100 mila euro sono arrivati da Giulia Cosenza, già deputata di An, e timoniere della Milano investimenti spa, società attiva nel campo delle costruzioni. Marco Rotelli, della famiglia che guida il gruppo ospedaliero privato San Donato, ha versato 30 mila euro non solo a Fratelli d’Italia, ma praticamente a tutti i partiti. Dalla Drass Galeazzi srl, azienda del settore della Difesa sono arrivati 10 mila euro; l’impresa con sede a Livorno, come evidenziato dal sito di fact checking Pagella Politica, è iscritta all’Aiad, sindacato del settore, costola di Confindustria, che fino a poco tempo fa era presieduto dall’esponente di FdI Guido Crosetto, poi nominato ministro della Difesa.

Da inizio anno Forza Italia ha ricevuto almeno 3,2 milioni di finanziamenti. La fetta più ampia è arrivata tra luglio e settembre, dopo l’addio di Draghi: 1,7 milioni. Scorrendo l’elenco dei sostenitori saltano subito all’occhio cinque nomi: Eleonora, Luigi, Marina, Piersilvio e Barbara, i figli di Berlusconi che hanno versato 100 mila euro a testa nelle casse del partito fondato dal padre. Mentre Fininvest, la cassaforte di famiglia, ha donato 100 mila euro. Altri 93 mila arrivano da Adriano Galliani, senatore uscente, amministratore delegato del Monza e da sempre braccio destro di Berlusconi. Circa 26 mila sono stati versati da Renato Schifani, ex presidente del Senato e da poco eletto governatore della Sicilia. Una buona fetta del tesoretto azzurro arriva dai parlamentari: a quelli che avevano un seggio sicuro era stato intimato, con tanto di lettera ufficiale del tesoriere, di versare 30 mila euro a testa. Anche per Forza Italia, partito anti Bolkestein, ha rilevanza la questione balneare: da Paola Marucci, moglie del senatore (non rieletto) Massimi Mallegni e proprietaria di hotel e un bagno in Versilia, sono arrivati 15 mila euro.

Il partito di Matteo Salvini, finito sotto al 9%, nonostante il deludente risultato alle Politiche del 25 settembre ha comunque attirato l’interesse dei finanziatori privati, evidentemente convinti che la Lega sarebbe stata il perno per spingere il centrodestra a Palazzo Chigi. Dall’inizio del 2022, il Carroccio ha incassato almeno 6,5 milioni, molti dei quali arrivati dai territori, specialmente al Nord, dove il partito denota ancora buon radicamento. I candidati nei collegi blindati, oltre ai 3 mila di contributo mensile durante la legislatura, hanno versato 20 mila euro a testa. Ma a qualcuno è andata male lo stesso: Mario Barbuto, presidente dell’Unione italiana ciechi, quei soldi li ha dati, ma poi ha perso nell’uninominale a Palermo. Analizzando la galassia dei sostenitori salviniani emerge il sostegno rilevante delle università private e telematiche.

Un nome su tutti: i 100 mila euro arrivati dal Monte Finanziario europeo srl, società riconducibile a Pietro Luigi e Martina Polidori, figli di Francesco, fondatore di Cepu. Altri 50 mila sono stati versati da Vaporart (furono 100 mila nel 2018), produttore di sigarette elettroniche. Basta una rapida ricerca su Google per ritrovare i video dello “Svapo day”, la protesta che Salvini organizzò contro il paventato aumento delle accise sulle e-cigarette. Altri 43 mila euro sono stati ricevuti da Assotrattenimento 2007, associazione che riunisce i gestori di slot machine e scommesse. Da annotare anche una curiosità in particolare: la Lega Nord (oggi soppiantata da Lega per Salvini premier dopo le vicissitudini giudiziarie) risulta ancora iscritta al registro dei partiti e continua a ricevere finanziamenti, come i 6 mila euro a testa dai ministri Giancarlo Giorgetti e Roberto Calderoli.

Il Pd era dato come “perdente” da tutti i sondaggi della vigilia; questo fattore ha condizionato in maniera pesante il fund raising del Nazareno, che storicamente riceveva finanziamenti massicci anche da molte grandi aziende. Aziende che, stavolta, sono sparite quasi del tutto. Il partito di Letta ha raccolto solo 1,2 milioni tra luglio e agosto, mentre il totale tra gennaio e settembre è di circa 3,5 milioni. La parte del leone l’hanno fatta i piccoli sostenitori a livello locale, oltre ai candidati nei collegi “blindati” che hanno versato 15 mila euro a testa. Tra gli aiuti più generosi salta all’occhio quello di Francesco Merloni, 97 anni, ex ministro della Dc con sette legislature alle spalle e amico personale di Enrico Letta. Merloni, oggi presidente onorario del colosso degli elettrodomestici Ariston Thermo, ha versato 100 mila euro nelle casse dem. Molto curioso è invece il nome di Gianfranco Librandi, che tramite la Milano Krea design srl (azienda di mobili) ha donato 60 mila euro al Pd.

Librandi, parlamentare eletto con Scelta civica, poi passato al Pd e infine a Italia viva, è un imprenditore renziano doc, tanto da aver versato a Open, la fondazione dell’ex premier (oggi liquidata), la bellezza di 800 mila euro. Ma non è finita, perché alle ultime elezioni Librandi era candidato con +Europa, partito sostenuto con altri 100 mila euro. «Non ci vedo niente di male» spiega Librandi a 7. «Ho finanziato la politica sperando di dare all’Italia una situazione di stabilità». Tra i politici salta poi all’occhio Elly Schlein, ex vicepresidente dell’Emilia-Romagna e oggi deputata, che pur non essendo iscritta al Pd ha versato al Nazareno un totale di 12 mila euro divisi in due tranche. E ora sta preparando la sfida alla segreteria per il dopo Letta.

Il tandem degli “amici per forza” formato da Carlo Calenda e Matteo Renzi, viste le istanze rappresentate, grazie a molti imprenditori generosi ha raccolto circa 3 milioni da inizio anno. Partiamo dai sostenitori del leader di Azione. In testa c’è Pier Luigi Loro Piana con 75 mila euro, mentre altri 20 mila sono arrivati sempre dalla moda (gruppo Zegna) e 10 mila da Renzo Rosso di Diesel. Il patron di Prada Patrizio Bertelli ha versato 50 mila euro, mentre da Luciano Cimmino (gruppo Yamamay-Carpisa) 20 mila. Dal patron di Ferrarelle Carlo Pontecorvo sono arrivati 10 mila euro; 30 mila da Cremonini, colosso delle carni. Tremila da Marco Tronchetti Provera e 30 mila da Guido Maria Brera, il finanziere scrittore milanese. Le acciaierie Arvedi hanno versato ad Azione 50 mila euro, e sempre dall’acciaio sono arrivati 30 mila euro da Antonio Marcegaglia; mentre un totale di 80 mila da Gianfelice Rocca del gruppo Humanitas e vertice di Techint. C’è infine Alberto Bombassei, già ai vertici di Confindustria e oggi presidente onorario di Brembo, che ha fatto un bonifico di 50 mila euro.

Molto serrata, specie nella parte finale della campagna, la raccolta fondi di Italia viva, che ha incassato quasi un milione in 20 giorni a settembre. Al partito di Renzi, in attesa che il Terzo polo nasca formalmente, sono arrivati 25 mila euro da finanziatori storici come Davide Serra, finanziere e fondatore di Algebris. È di 50 mila euro il bonifico di Giovanni Tamburi, finanziere con partecipazioni Amplifon, Alpitour, Moncler, Hugo Boss. Daniele Ferrero, “mago” del cioccolato con il marchio Venchi (ma nemmeno parente dei Ferrero di Alba), ha finanziato Renzi con 30 mila euro, oltre ai 100 mila del passato. Il patron di Diesel Renzo Rosso ha dato 10 mila euro, come a Calenda. Ben 100 mila euro è invece il finanziamento di Lupo Rattazzi, presidente di Neos air e figlio di Susanna Agnelli. Dall’acciaio sono poi annotati 30 mila euro da Emma Marcegaglia. E infine sono rilevanti i 100 mila euro bonificati dal monegasco Manfredi Lefevre D’Ovidio, fondatore della Silversea cruises e re (quasi) assoluto delle crociere di lusso.

Da statuto il M5S non accetta finanziamenti da imprenditori e aziende private. Sono ammessi sono sostegni contenuti, raccolti grazie a donazioni online, oltre ai versamenti da mille euro mensili versati da tutti gli eletti nell’arco della legislatura. Il partito di Giuseppe Conte da inizio anno ha raccolto meno di un milione di euro e, vista la bocciatura a livello burocratico, non ha potuto incassare nemmeno il 2 per mille, voce che per gli altri partiti è molto importante per il bilancio. Lo scissionista grillino Luigi Di Maio, ex ministro degli Esteri, con Impegno civico è riuscito a raggranellare circa 300 mila euro da aziende varie. Un mini tesoretto che però, a fronte dello 0,6% incassato alle elezioni, è servito per fare eleggere un solo parlamentare: Bruno Tabacci, per di più di un altro partito.

Carmine Gazzanni e Stefano Iannaccone per tpi.it il 17 novembre 2022.

Imprenditori che finanziano tanto a destra quanto a sinistra, associazioni, società e multinazionali. Addirittura scuole e ovviamente gli stessi parlamentari. Senza dimenticare chi intanto è diventato ministro. 

Nell’ultimo periodo e a cavallo tra le elezioni politiche e la formazione del governo di Giorgia Meloni, sono continuati a piovere sui principali partiti italiani lauti finanziamenti, che in parte evidentemente sono serviti a coprire le ultime spese di campagna elettorale, in parte serviranno per affrontare i prossimi impegni con le amministrative. 

Uno e trino

Tutto lecito, per carità, e tutto trasparente. TPI ha infatti consultato il documento relativo alle «erogazioni ai partiti e ai movimenti politici iscritti nel registro nazionale», da cui ad esempio emerge come Azione, tanto durante la campagna elettorale quanto dopo, ha attratto tante società private. 

Il 26 settembre, dunque un giorno dopo le politiche, la società immobiliare Ipi spa ha versato ben 30mila euro al partito di Carlo Calenda. Nei giorni precedenti, invece, a staccare un assegno erano state altre grandi imprese attive nel mondo dell’edilizia come la Bononia Holding (10mila euro), la Mst spa e la Stella Holding (entrambi 20mila euro).

Qualche giorno prima però, precisamente il 12 settembre, a versare 2mila euro è stata un’altra imprenditrice, Luisa Todini. Il nome è di quelli che contano. Parliamo dell’ex eurodeputata dal 1994 al 1999 (con Forza Italia), oltreché in passato consigliera di amministrazione in Rai (dal 2012 al 2014) e presidente di Poste Italiane (dal 2014 al 2017).

La vera curiosità, però, è che la Todini non ha pensato soltanto ad Azione. Risultano, infatti, a suo nome e nello stesso giorno altri due bonifici, sempre di 2mila euro: uno a Fratelli d’Italia e uno a Italia viva. Tanto per non farsi mancare nulla.

E a proposito del partito di Matteo Renzi, anche qui sorgono interessanti curiosità. A cominciare dal fatto che, in mezzo a tante elargizioni di privati e società, sempre il 12 settembre a finanziare Iv è stato un imprenditore monegasco di origini italiane: Manfredi Lefebvre d’Ovidio, uomo d’affari miliardario (ad agosto 2022 il suo patrimonio netto era stimato in 1,3 miliardi di dollari), presidente ed ex proprietario della società di crociere di lusso Silversea Cruises, che ha deciso di riprendere in mano le sue origini finanziando il partito di Renzi con un bonifico da 100mila euro. 

Cavalieri e giocatori

Non è stata da meno, spostandoci sul fronte del centrodestra, anche Forza Italia. Negli ultimi giorni di campagna elettorale, tanto per dire, sono arrivati importanti bonifici, come quello da 100mila euro risalente all’8 settembre dell’Ares Safety, società impegnata nel mondo dell’abbigliamento sanitario. 

Ad esempio? I tanto famigerati dpi, a cominciare dalle mascherine. Dopo 4 giorni altro contributo da 100mila euro, questa volta dalla Eurozona srl, impegnata sempre nel mondo dell’edilizia. Esattamente come la Ipi spa che già abbiamo incontrato parlando di Azione. Tra i beneficiari dei contributi della società per azioni non c’è solo Calenda ma anche Berlusconi: risultano, infatti, due elargizioni, una del 20 settembre (25mila euro) e una subito dopo il risultato elettorale, il 26 settembre (10mila euro).

D’altronde i versamenti sono continuati anche dopo la vittoria della coalizione del centrodestra. Un altro esempio? Gli ulteriori 10mila euro che il 27 settembre ha versato l’Associazione nazionale Sapar. Ovvero, l’associazione nazionale dei gestori del gioco di Stato che, nonostante sul sito si professi «assolutamente apolitica», ha deciso di foraggiare il partito di Silvio Berlusconi. 

Scuole “leghiste”

A questo lungo elenco ovviamente non poteva mancare Fratelli d’Italia. Che a quanto pare piace a mondi profondamente diversi l’uno dall’altro. Spiccano, ad esempio, i 30mila euro del gruppo Cremonini, leader nel settore alimentare, o di quelli della Eurologistics, che si occupa di locazione di immobili.

Curiosi, a proposito dell’imparzialità politica delle associazioni di categoria, anche i 3mila euro della Federalberghi di Roma. A proposito di ricettività, però, il partito di Giorgia Meloni piace anche alla Bassani srl, società attiva proprio nel mondo del turismo, che ha versato il 22 settembre altri 10mila euro al primo partito d’Italia. 

E la Lega di Matteo Salvini? Accanto a privati cittadini e società, piace anche agli istituti scolastici. Qualche esempio? Il 26 settembre (dunque un giorno dopo le elezioni politiche) l’Istituto paritario “Del Majo” di Pagani in provincia di Salerno ha versato la bellezza di 25mila euro alla Lega. E non è proprio una novità. Agli inizi di settembre, infatti, a foraggiare Salvini con 50mila euro era stato l’Istituto scolastico “Cesare Brescia”.

La particolarità? Parliamo sempre di una scuola campana, essendo l’istituto di Pompei. Su qualche punto, insomma, è riuscito a conquistare i cuori meridionali. Altra coincidenza è quella del 5 settembre: 20mila euro sono arrivati dall’Irsaf, Istituto di Ricerca scientifica e di alta formazione. Una delle sede principali? A Caserta. 

Ma non è tutto. In mezzo a tutte le altre elargizioni spiccano i 50mila euro versati il 6 settembre dalla Sostenya Green srl che a quanto pare si occupa di green economy. Tema in cui crede fortemente, dato che il giorno prima ha versato altri 30mila euro a Italia viva. Tanto per dimostrarsi bipartisan. 

Ministri benefattori

Le curiosità scorrendo gli elenchi dei “benefattori” dei partiti, però, sembrano non finire mai. E così si scopre un altro dettaglio. Molti dei politici e dei principali personaggi politici della XIX legislatura hanno finanziato i rispettivi partiti proprio in questo periodo, a cavallo delle elezioni e dunque poco prima delle nomine (o delle elezioni) che li hanno toccati. Prendiamo il ministro Gilberto Pichetto Fratin, oggi a capo del dicastero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica. 

Ebbene, dopo aver finanziato Forza Italia con 900 euro, a inizio settembre risulta un assegno di 20mila euro. Il 14 settembre, invece, risulta un bonifico di 10mila euro di Giovanbattista Fazzolari, oggi sottosegretario per l’attuazione del programma, a Fratelli d’Italia; qualche giorno prima (l’8 settembre) 8mila euro del nuovo presidente del Senato, Ignazio La Russa.

Il 20 settembre, invece, è toccato a Nello Musumeci, neo-ministro del Mare, che ha versato 5mila euro. Tutti contributi, ovviamente, legittimi e inevitabili per chi è iscritto a un partito. Certo, in altre circostanze più e più volte si sono accumulati ritardi nei pagamenti che invece dovrebbero essere mensili. Restano, insomma, le curiosità della mole dei finanziamenti e, soprattutto, delle tempistiche.

Da repubblica.it il 12 novembre 2022.

Forza Italia è sempre di più un "affare di famiglia". Quando a salvare i conti del partito non ci pensa il fondatore Silvio Berlusconi - dal 2014 ha sborsato di tasca propria quasi 100 milioni di euro - intervengono le sue aziende, gli amici più cari, i familiari. Barbara, Eleonora, Luigi, Marina e Pier Silvio, i figli del Cavaliere, hanno donato alle casse azzurre ben 500mila euro nel 2002, 100mila euro a testa. 

Spulciando l'elenco dei contributi percepiti dal partito quest'anno e resi pubblici per obbligo di legge, spiccano poi i 50mila euro versati il 2 agosto dalla 'Finanziaria d'investimento Fininvest spa' con sede a Roma, in Largo del Nazareno. Appena due mesi prima, il 14 giugno, il Biscione aveva donato la stessa cifra, confermandosi il principale 'finanziatore forzista'. Sempre Fininvest, un anno fa, l'11 febbraio, aveva staccato un assegno di 100 mila euro, stessa cifra nel 2020, il 3 febbraio, e nel 2019, il 15 luglio. Per un totale, ad oggi, di 400 mila euro.

Le donazioni dei Berlusconi

Quest'anno, come detto, in soccorso delle finanze di FI sono arrivati pure, per la prima volta tutti insieme, i cinque figli di Berlusconi con 100mila euro a testa: la primogenita Marina, Pier Silvio, Eleonora e Luigi hanno fatto il loro versamento il 16 agosto scorso, mentre Barbara ha fatto la sua donazione il 22. 

Stavolta è mancato all'appello Paolo, il fratello dell'ex premier, che però non ha fatto mancare il suo apporto in passato: 100 mila euro l'8 maggio del 2019 più la concessione di un pegno in titoli di 4 milioni di euro, come certificato dal bilancio chiuso al 31 dicembre dello stesso anno. Andando indietro nel tempo, inoltre, si scopre che Luigi, il più piccolo della 'nidiata', già il 21 settembre dell'anno scorso aveva contribuito alla causa con 100 mila euro.

Carte alla mano, solo nel 2022 la famiglia Berlusconi è arrivata a sborsare complessivamente 500 mila euro. Un vero e proprio tesoretto, in tempi di magra post abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ma soprattutto plastica rappresentazione di quanta parte ormai i figli del Cavaliere (rimasto, di fatto, l'unico proprietario della sua creatura politica) abbiano all'interno del partito, a cominciare dalla gestione delle casse. Lanciato nel '94, FI per circa vent'anni ha viaggiato a doppia cifra nelle urne per poi subire il sorpasso prima della Lega, nel 2018, poi di Fratelli d'Italia, 4 anni dopo, per fermarsi all'attuale 8 per cento delle ultime politiche grazie all'ennesima 'discesa in campo' del fondatore. 

I conti di Forza Italia

Secondo l'ultimo bilancio, chiuso al 31 dicembre 2021, FI presenta conti in lieve miglioramento ma sempre in rosso, con un disavanzo di 340.490 euro ed è debitrice verso 'altri finanziatori', ovvero l'unico creditore-padrone che l'ha creata 28 anni fa, l'ex premier, per oltre 92milioni di euro. Tutti garantiti attraverso fideiussioni personali.

A pesare notevolmente sulle finanze, raccontano, anche l'irrisolto problema dei morosi, ovvero di tutti quei deputati, senatori e consiglieri regionali, che non pagano regolarmente le quote dovute (900 euro al mese), una vera e propria gatta da pelare che ha comportato un buco di cassa di almeno 2 milioni di euro, visto che un parlamentare su tre non pagherebbe gli arretrati. 

In particolare, si legge ancora nel rendiconto, tra i contributi pervenuti de persone giuridiche risulta ancora una volta la Finanziaria d'investimento Fininvest spa con 100 mila euro, e "nei conti d'ordine" figura "nella voce garanzie (pegni, ipoteche) a/da terzi un ammontare di 7 milioni di euro relativo al pegno in titoli di 3 milioni rilasciato dal presidente Berlusconi in precedenti esercizi" e "ad ulteriori pegni in titoli per 4milioni di euro rilasciati" dal fratello Paolo "a fronte degli affidamenti concessi da un istituto bancario al movimento".

Soros, chi è l'anti-italiano che tanto piace alla sinistra. Gian Luca Mazzini su Libero Quotidiano il 16 novembre 2022

Ancora polemiche sui giornali per la vicenda del professore di Roma finito nella bufera per essersi rifiutato di sottomettersi all'ideologia gender nella sua scuola. Il docente, che non aveva accettato di chiamare con un nome maschile una studentessa femmina (che "si sente maschio"), ora rischia sanzioni disciplinari e legali.

Il modello gender dilaga nelle scuole italiane e da più parti si chiede l'intervento del nuovo ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara. A finanziare la diffusione di questo messaggio, c'è sempre lui: l'immancabile George Soros. Il filantropo ungherese che, con la sua Open Society, finanzia progetti e campagne a favore del globalismo come il sostegno alle Ong che favoriscono l'immigrazione clandestina. L'ultima iniziativa è quella a favore delle organizzazioni Lgbtq. Soprattutto in Europa. 

Non passa giorno che non si parli di intromissioni di Mosca nelle vicende politiche dei paesi occidentali. Le intromissioni di Soros in Italia risalgono alla fine del secolo scorso e sono sempre state salutate con favore dalla sinistra. La carriera anti-italiana di Soros inizia negli anni Novanta.

Nella recente campagna elettorale il leader del Terzo polo Carlo Calenda ha accusato suoi ex alleati del partito +Europa di aver ricevuto un milione e mezzo di finanziamento dal filantropo ungherese per creare un "listone antifascista".

Informazione fornita da Benedetto della Vedova. Il segretario di + Europa ha specificato che i soldi non sarebbero andati al partito (è reato) ma a singoli candidati. Emma Bonino precisa: «Non solo confermiamo questi soldi mali rivendichiamo: con Soros abbiamo una consolidata e duratura visione dei valori politici liberali e democratici e una comune visione europeista».

Doveroso ricordare che Soros è considerato una delle trenta persone più ricche del pianeta, in sintonia con i Radicali tanto da finanziare e promuovere in Italia di tutto: Ong per gli immigrati clandestini, aborto, eutanasia, droga libera. La popolarità in Italia risale al 1992 quando il finanziere, vendendo lire allo scoperto in cambio di dollari, costrinse la Banca d'Italia a bruciare 48 miliardi di dollari per sostenere il cambio portando alla svalutazione della nostra moneta di circa il 30% con l'estromissione dal Sistema Monetario Europeo. Nel 1995 Soros riceveva la laurea honoris causa da parte dell'Università di Bologna dal professor Prodi. L'ex presidente del Consiglio e della Commissione europea, insieme a tutta la sinistra, ha sempre finto di non ricordare che per rientrare nello Sme l'Italia fu obbligato a una delle più pesanti manovre finanziarie della storia da 93 mila miliardi. All'epoca fece la sua prima comparsa la tassa sulla casa: l'Ici oggi Imu. Uno dei tanti regali avvelenati dell'amico della sinistra anti-italiana George Soros. 

Essere George Soros: il filosofo mancato che sfida il populismo con la forza dei miliardi. A 92 anni il “nemico perfetto” delle destre nazionaliste non ha alcuna voglia di uscire di scena. E tra idealismo e speculazioni finanziarie porta avanti la sua battaglia. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 3 novembre 2022.

L’ultimo a chiamare in causa George Soros è stato il “nostro” Carlo Calenda che ha accusato la leader di + Europa Emma Bonino di aver ricevuto un milione e mezzo di euro dal magnate ungherese per abbandonare Azione e allearsi con il Pd nell’ultima campagna elettorale. L’obiettivo? Creare un “listone antifascista” per contrastare o almeno per tamponare la vittoria annunciata dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Dal partito nessuno nega, anche se il segretario Benedetto Della Vedova ci tiene a precisare che a ricevere i fondi sono stati solo «alcuni candidati».

Il tentativo è andato come è andato, ma, alla tenera età di 92 anni George Soros non si dà certo per vinto, lui continuerà fino all’ultimo a giocare il ruolo del demiurgo liberal, del filantropo progressista, invitandosi ai tavoli della politica senza bussare alla porta, influenzando e ingerendo, mobilitando le sue colossali ricchezze per sfidare l’ondata populista che da un decennio scuote la politica in Occidente. Contro i nazionalismi, contro la Brexit, contro i tycoon reazionari alla Donald Trump, contro le frontiere chiuse ai migranti e contro le autocrazie dell’Europa orientale di cui la sua Ungheria è un fulgido esempio.

Per il presidente Viktor Orban Soros è il pericolo pubblico numero uno, un avversario della patria e della coesione nazionale, agente George Soros è anche e soprattutto un acrobata della finanza che conosce a menadito i labirinti della speculazione, gli appetiti animali del mercato, la roulette delle borse mondiali ambienti nei quali si è mosso con agio a grande astuzia. In molti ricordano la sua scommessa contro la sterlina tramite il fondo di investimenti Quantum che nel 1992 affossò valuta britannica, il celebre “mercoledì nero” che peraltro portò anche alla svalutazione della lira e ai prelievi forzosi dai conti correnti da parte del primo governo Amato.

Sono almeno 15 i miliardi che Soros ha speso dal 1980, anno in cui ha lanciato la sua prima fondazione, per promuovere la “società aperta” in omaggio al venerato maestro Karl Popper: «Da bambino ho conosciuto il nazismo, poi il socialismo reale, mi sono sempre battuto contro l’oppressione politica e per la tolleranza, Popper è un modello».

Laureato alla London School of Economics si definisce con una certa paraculaggine «un filosofo mancato», ma probabilmente ha pensato che, a differenza delle chiacchiere, il denaro riesce a smuovere davvero le montagne e che dalle stanze dei bottoni del grande capitale è molto più facile cambiare il mondo – o semplicemente togliersi sfizi e soddisfazioni-. che da una polverosa aula universitaria. Da quasi quarant’anni due terzi del suo patrimonio stimato intorno ai 25 miliardi di dollari vanno a finanziare le attività sociali e politiche del gruppo.

La sua Open Society Foundations, che controlla la fitta rete di ong e associazioni di cui è a capo, è in prima linea nella difesa delle minoranze come i rom, nell’integrazione degli immigrati, nella promozione dei diritti civili degli omosessuali e delle persone Lgbtq.

Per le destre nazionaliste e populiste naturalmente George Soros è pura kriptonite, la sua idea di società, multietnica, multireligiosa, multiculturale, mondialista e in continua trasformazione è un vero e proprio incubo per chi ha costruito le proprie fortune politiche nella difesa ringhiosa della patria, delle identità nazionali, delle radici cristiane, dello Stato etico.

«Un capitalista ebreo, liberal pro globalizzazione che antepone l’Unione europea alle singole nazioni, si direbbe che Dio abbia creato il nemico perfetto delle destre», ironizzò una volta il politologo ungherese Lazlo Keri. E in effetti attorno alla sua figura di “signore del caos” si sono coagulate dicerie demoniache e inquietanti teorie del complotto di chiaro stampo antisemita sulla falsa riga del famigerato Protocollo dei savi di Sion. Sarebbe Soros secondo i cospirazionisti il burattinaio del fantomatico Piano Kalergi che punterebbe alla “grande sostituzione” dei popoli europei con gli immigrati provenienti dall’Africa e dall’Asia per creare un “meticciato” di razze deboli e in balìa delle élite politico- economiche.

Per alimentare il racconto in rete proliferano da anni falsità e fake news di ogni tipo sul suo conto come i finanziamenti alle carovane di migranti latinos durante l’amministrazione Trump. Oppure le carte di credito che avrebbe distribuito sempre ai migranti in viaggio per l’Unione europea tramite l’alto commissario dell’Onu per i rifugiati, bufala che venne cavalcata anche dall’attuale presidente del consiglio Giorgia Meloni. O dal ministro Matteo Salvini che l’accusò di volere «riempire l’Europa di finti profughi».

C’è persino chi lo taccia di essere un ex nazista e di aver aiutato il regime nella deportazioni verso i campi di sterminio hitleriani, come hanno fatto le radio pro- Trump dell’alt- right americana, illazione che appare particolarmente vigliacca se rivolta a un ebreo la cui famiglia è stata costretta a cambiare nome e a convertirsi al cristianesimo per sfuggire alle persecuzioni del Reich. Così la sua ombra viene continuamente evocata ogni volta che scoppia un movimento di protesta una rivolta o una rivoluzione colorata in un paese dell’est Europa, Georgia, Ucraina, Bielorussia. Macedonia, Polonia. «Ha stato Soros!», si diceva un tempo per irridere i complottisti che vedono lo zampino del magnate un po’ ovunque. E a lui in fondo questo ruolo leggendario non dispiace, contento assai di recitare la parte del finanziere illuminato che, per una crudele nemesi della Storia, è oggi assieme a papa Bergoglio, uno degli ultimi beniamini della sinistra.

George Soros, "se paga lui...": perché il Pd resta muto. Libero Quotidiano il 03 novembre 2022

Impegnata nell'infruttuosa ricerca dei finanziamenti di Putin al centrodestra nostrano, la sinistra è incappata nei soldi allungati da un miliardario ungherese senza scrupoli che, per diventare ancora più ricco, ha quasi fatto fallire l'Italia. È stato il leader di Azione, Carlo Calenda, a puntare il dito sui suoi mancati alleati di +Europa, accusandoli di aver preso un milione e mezzo di euro dallo speculatore George Soros per allearsi con la sinistra nella speranza di battere la Meloni e il centrodestra. I beneficiari hanno smentito che la finalità dello stanziamento fosse la creazione di un fronte anti-destra, ma hanno confermato di aver ricevuto il malloppo, con tanto di manifesto di ringraziamento - che Libero oggi esibisce in prima pagina - allo squalo magiaro. Per chi non lo ricordasse, trent'anni fa Soros aggredì il nostro Paese vendendo allo scoperto lire per un equivalente di dieci miliardi di dollari, provocando una svalutazione della moneta italiana del 30% in pochi giorni e mettendosi in tasca un miliardo e cento milioni di dollari. Il finanziere giudicò la sua mossa assassina «una legittima operazione finanziaria», ma di fatto essa segnò per noi l'inizio di una crisi dalla quale non ci siamo mai più ripresi e il preludio al crollo del nostro sistema politico.

PUBBLICO OMAGGIO

Per questo è raggelante che un partito del nostro Parlamento non solo prenda i denari malfatti dello squalo ungherese, ma pure lo omaggi pubblicamente. Bonino e soci si chiameranno +Europa, ma un minimo di amor patrio e orgoglio nazionale dovrebbero almeno fingere di mantenerlo, rappresentando i cittadini italiani. E vale la pena ricordare che, se fosse per gli elettori, i finanziati dal magiaro senza scrupoli non siederebbero alla Camera, perché sono stati votati da quattro gatti e non hanno superato la soglia di sbarramento proporzionale. Se quindi sono riusciti a infilare una sparuta rappresentanza a Montecitorio e a Palazzo Madama è solo perché il Pd di Enrico Letta, che ora fa il pesce in barile e non ha proferito verbo sulla vicenda, ha concesso loro un pugno di collegi uninominali sicuri per la sinistra. Questa storia è uno scandalo nazionale, ma l'aspetto più fastidioso non sono né l'esibito orgoglio offensivo verso la nazione con cui +Europa si vanta del finanziamento né l'imbarazzato silenzio con il quale i dem fanno pippa, sperando che passi in fretta la buriana, anziché chiedere conto di tutto ai loro alleati.

La cosa più avvilente è che quanti da anni, nei salotti televisivi, sui giornali, nei comizi di piazza, lamentano ingerenze straniere sulla politica italiana, denunciando finanziamenti da Mosca al centrodestra dei quali non c'è traccia mettano la sordina sui soldi dati da Soros alla nostra sinistra, denaro che gronda sangue italiano, migliaia di miliardi di lire di risparmi andati in fumo, milioni di persone risvegliatisi povere dalla notte al giorno, aziende fallite, posti di lavori persi. Le ingerenze e le pressioni che dovrebbero preoccupare i nostri politici con le cravatte e i pedalini rossi e i nostri inchiestisti d'assalto non sono quelle di Putin, che è così malmesso da non riuscire neppure a riprendersi il Donbass ma quelle di Soros, al quale già una volta è bastato un click sul mouse del computer per mandarci gambe all'aria. Come dimostra l'andamento della guerra in Ucraina, il pericolo più grande per la democrazia oggi non arriva dalle armate di forze straniere o da una nazione che è la più vasta al mondo ma ha un prodotto interno lordo inferiore a quello della Spagna. Il pericolo arriva dalla finanza, dalla speculazione, da Soros, che in una notte ci diede un pugno che ci tiene stesi da trent' anni o dalla Deutsche Bank, che vent' anni dopo, in un'altra fine d'estate, provocò con un'altra vendita assassina sui mercati la caduta dell'ultimo governo eletto dagli italiani prima di questo della Meloni.

SILENZIO

E però tutto questo non interessa alla dozzina di talkshow di approfondimento che da giorni insegue i duemila nostalgici del Carnevale che da sessant' anni a fine ottobre sfilano, autorizzati da governi di destra come di sinistra, intorno alla tomba del Duce a Predappio, o che sta processando i 400 medici no vax riammessi in ospedale dall'attuale governo un mese prima rispetto a quanto aveva previsto Draghi. Dove sono le denunce indignate di Gruber, Damilano, Formigli? E dove quelle dei loro ospiti, che rimpiangono le occupazioni illegali della scuola che facevano da giovani, come dimostrazione di libertà, senza mai essere colti dal dubbio che interrompevano il diritto allo studio dei loro compagni non di fede, garantito dalla Costituzione? La stampa democratica, diciamo dem per semplificare, tace, prona al dio denaro, il solo che conosce, e a chi lo possiede in abbondanza, fregandosene se l'ha tolto a noi. 

Giacomo Amadori per “La Verità” il 3 novembre 2022.

In vista delle ultime elezioni politiche avevano già ingaggiato il parlamentare più munifico d'Italia, il facoltoso imprenditore Gianfranco Librandi, famoso per aver versato 800.000 euro alla fondazione Open di Matteo Renzi. Ma nelle ultime ore si è scoperto, grazie a Bruno Vespa, che +Europa può contare sulle attenzioni di un finanziere ancora più ricco del già danaroso Librandi, ovvero l'imprenditore, filantropo e banchiere ungherese George Soros. 

Secondo il leader di Azione Carlo Calenda avrebbe finanziato la campagna elettorale del partito fondato da Emma Bonino con 1,5 milioni di euro. Una cifra che sarebbe stata versata affinché Bonino & C. si compattassero con il centro-sinistra in un «listone antifascista». Una notizia confermata in parte dal segretario di +Europa Benedetto Della Vedova. Quest'ultimo ha ammesso l'erogazione a favore di alcuni candidati per le spese della campagna elettorale, ma ha negato che quei contributi fossero vincolati alla nascita di un fronte anti Meloni.

Resta poco chiaro, visti i limiti di legge, come siano arrivate in Italia e come siano state rendicontate le generose donazioni. Generose assai se si pensa che sul sito della fondazione Open society di Soros nel 2020 risultavano destinati all'Italia «solo» 1,8 milioni di dollari in totale, sui 92,9 destinati all'Europa, poco più del 2 per cento per un Paese che rappresenta circa l'8 per cento della popolazione continentale. 

Ma adesso scopriamo che nel 2022 una cifra analoga sarebbe andata a un unico partito. Sarà per questo che ieri +Europa ha rivendicato quel prezioso sostegno con un messaggio social corredato di foto: «Grazie George. Rivendichiamo il suo sostegno a +Europa per le nostre battaglie sui diritti umani, civili, la democrazia e lo stato di diritto». Concetto anticipato da Della Vedova, il quale ha dichiarato: «Il filantropo di origini ungheresi da tempo condivide e sostiene i nostri valori europeisti e le nostre battaglie per i diritti umani e lo stato di diritto. Siamo orgogliosi che alcuni nostri candidati abbiano chiesto e ricevuto il suo sostegno, certamente disinteressato».

Dal suo sito apprendiamo che Open society è «una delle più grandi fondazioni private al mondo che supportano gruppi per i diritti umani, con un budget annuale di oltre 1.000 milioni di dollari» e che poco meno del 10 percento dei fondi va all'Europa. Il loro lavoro in Italia è iniziato nel 2008 supportando «le battaglie legali contro la concentrazione della proprietà dei media da parte di Berlusconi». 

Sugli 1,8 milioni di dollari del 2020 il 34 per cento è stato destinato a una non meglio precisata «pratica democratica», altrettanto per progetti aventi come obiettivo «uguaglianza e antidiscriminazione», il 29 a «movimenti e istituzioni per i diritti umani», il 3 per «istruzione e prima infanzia».

La Open society ha collaborato con le fondazioni Nando Peretti e Charlemagne, con la Fondazione con il Sud, con la Compagnia di San Paolo e con il Comune di Ventimiglia per il restauro di un parco pubblico frequentato dai migranti di passaggio. Nel 2017-18 Open society ha finanziato 70 progetti impegnando 8,5 milioni di dollari. Secondo l'Adnkronos 298.550 dollari andarono ai Radicali per «promuovere un'ampia riforma delle leggi italiane sull'immigrazione»; 385.715 dollari sono stati assegnati all'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione; 170.144 dollari all'Associazione 21, una onlus che si occupa di diritti umani. Il sito della fondazione, a proposito del 2020, non ci rivela, però, la notizia più interessante: il sostegno a un centro sociale con gran parte del comitato direttivo sotto inchiesta per associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata.

Infatti l'Open society institute (vecchia denominazione della fondazione) il 10 novembre 2020 ha inviato un bonifico da 100.937 euro e il 30 agosto 2021 uno da 48.324, aventi entrambi nella causale una «sigla alfanumerica», al Comitato per il Centro sociale di Caserta. L'informazione è contenuta in una segnalazione di operazione sospetta inviata cinque mesi fa all'Antiriciclaggio a proposito di alcuni movimenti effettuati sul conto dell'associazione tra il gennaio 2020 e il maggio 2022, con riferimento in particolare a pagamenti per circa 15.000 euro. 

Sono emersi così anche i bonifici provenienti dalla Svizzera che sarebbero stati utilizzati per sostenere un progetto per le vaccinazioni anti Covid19 per gli immigrati di Castelvolturno. I risk manager della banca hanno rimarcato un'«operatività anomala e non adeguatamente giustificata in capo a ente che si occupa di assistenza sociale, in particolare a favore degli immigrati per la loro inclusione, che ha indicato di ricevere finanziamenti da parte di sostenitori e associazioni». Il centro sociale, nell'aprile scorso, avrebbe ricevuto anche un bonifico da 50.000 euro dalla Fondazione Haiku di Lugano, nata nel 2014 e che persegue «esclusivamente finalità di solidarietà sociale».

Nella segnalazione viene evidenziato come nel 2019 la Procura di Santa Maria Capua Vetere nell'ambito di un procedimento penale abbia chiesto informazioni alla banca sul Comitato per il Centro sociale e su due dirigenti, Vincenzo Fiano e Fabio Basile. Si tratta di un'indagine, puntualizzano i risk manager, «per associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata nella gestione dei finanziamenti del progetto Sprar (Sistema di protezione e accoglienza per richiedenti a silo e rifugiati)». 

I conti sotto osservazione, secondo i funzionari, «sono caratterizzati da bonifici per emolumenti disposti a favore dei titolari effettivi e soggetti a loro collegati». Una donna, è precisato nella segnalazione, avrebbe ricevuto un bonifico da 400 euro di Fiano attraverso «un altro intermediario» con causale «mutuo». Fiano con noi cade dalle nuvole: «Non mi risulta e, comunque, non con i soldi dell'associazione».

 «Bonifici per emolumenti e pagamento di fatture» proverrebbero anche dal conto aperto in una seconda banca e riceverebbe contributi anche il Comitato Città viva, promosso dall'ex Canapificio all'interno del quartiere Acquaviva di Caserta, insieme ad altre associazioni e cittadini della zona. Il Comitato Città viva ha lo stesso indirizzo e contatto telefonico di Fiano. «Perché abito lì e non abbiamo una sede» spiega lui. 

A fine aprile 2022 il Comitato per il Centro sociale ha inviato un bonifico da 10.000 euro con causale «prestito» a favore del Comitato Città viva. Ma Fiano non sa spiegarne il motivo: «Non mi occupo dei conti». Rappresentanti legali e titolari effettivi dell'ex Canapificio varierebbero spesso. Nel febbraio 2019 sette degli operatori del centro sociale hanno ricevuto un avviso di garanzia, come detto, con l'accusa di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata.

Nell'inchiesta erano inizialmente indagati oltre a Basile e Fiano anche Giovanni Paolo Mosca, Massimo Cocciardo, Virginia Anna e Federica Maria Crovella e Immacolata D'Amico, tutti soci volontari e operatori dell'ex Canapificio. L'indagine ruota intorno alla gestione da parte del Centro sociale dei fondi erogati nell'ambito di un bando triennale relativo al progetto Sprar. Sette milioni e mezzo di euro destinati a coprire i costi dell'alloggio (venti appartamenti), del vitto e dei programmi di istruzione, formazione e integrazione per gli immigrati. Soldi che, secondo la Procura potrebbero non essere stati usati in modo corretto. 

Le investigazioni sono partite su denuncia di un ex operatore, il trentottenne ghanese Malik Donkor, già inserito nel progetto Sprar. Ma le sue motivazioni non sarebbero particolarmente nobili: dopo le perquisizioni i dirigenti del centro denunciarono di essere stati «colpiti per vendetta» da Donkor, il quale era stato «sorpreso a rubare» e per questo segnalato all'autorità giudiziaria. L'ex volontario è stato rinviato a giudizio per appropriazione indebita.

Alla prima udienza del processo è stata ammessa la costituzione di parte civile di alcuni migranti e dell'associazione, il cui legale rappresentante ha confermato le accuse contro Donkor, che avrebbe creato «un clima di nonnismo» nei confronti degli extracomunitari. L'uomo si sarebbe appropriato di parte della loro spesa settimanale e dei soldi destinati al vestiario. Nonostante l'inchiesta per truffa che coinvolge i dirigenti del Centro sociale sia partita su denuncia di un soggetto a sua volta denunciato, non c'è stata ancora nessuna archiviazione.

 Forse perché i fatti segnalati da Donkor, che era inserito all'interno del sistema, potrebbero aver trovato qualche riscontro. Dopo circa quattro anni le indagini dirette dalla pm Anna Ida Capone, sarebbero «alle battute finali», come ci spiega il procuratore facente funzioni Carmine Renzulli. Sempre nel 2019 la sede dell'ex Canapificio e dello Sprar di Caserta era stata sequestrata perché i capannoni risultavano «fatiscenti» e, secondo i consulenti della Procura, c'era «un concreto pericolo di crollo». «La pacchia è finita!» esultò Matteo Salvini al termine dell'operazione dei carabinieri che avevano posto i sigilli. Il vicepremier aveva lanciato per primo allarme definendo «abusivo» e «da sgomberare» il centro sociale. La giunta guidata dal sindaco pd Carlo Marino nel 2021 ha concesso al gruppo e a un'altra trentina di associazioni una nuova sede, l'immobile che ospitava l'Onmi di Caserta. Ma forse il Comune era all'oscuro dei robusti finanziamenti di Soros.

Soros, la rivelazione sul voto in Italia: "Perché ci ha dato i soldi". Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 03 novembre 2022

Deluso da Carlo Calenda, che ha «spifferato» a Bruno Vespa la notizia dei finanziamenti dati da George Soros a +Europa prima che assieme ad Emma Bonino li rendessero pubblici. Orgoglioso di quella donazione da un milione e mezzo di euro di ricevuta dal finanziere ungherese, «uno che certamente non ha niente da chiederti in cambio». La versione di Benedetto Della Vedova, segretario di +Europa, è diversa da quella che il suo ex alleato ha raccontato a Vespa: di vero, spiega, ci sono i soldi, non la contropartita politica. 

Calenda racconta che Soros ha posto come condizione la vostra partecipazione ad un «listone antifascista» finalizzato a fermare il centrodestra guidato da Giorgia Meloni. Interpellato da Vespa, lei ha detto che il sostegno di Soros era «disinteressato». Che significa? Che accordo avevate con Soros?

«Calenda vaneggia, ai limiti della diffamazione. Non c'è mai stata nessuna contropartita, né palese né occulta, per il sostegno ai candidati di +Europa da parte Soros, bensì una nota, consolidata e duratura condivisione dei valori politici liberali e democratici e una comune visione europeista fondata sui diritti umani e civili e lo stato di diritto. La cosa del "Listone antifascista" è una pura invenzione». 

È finita male, ma sino a poco prima i vostri partiti sembravano a un passo dalla fusione. Cos' è successo?

«Più Europa ed Azione si erano federate nel gennaio 2022, lontano dallo scioglimento delle Camere. Una volta caduto Draghi abbiamo valutato cosa fosse meglio fare. Insieme abbiamo negoziato e sottoscritto un accordo con Enrico Letta, che sostanzialmente fu scritto da Calenda stesso: un'alleanza politica imperniata sull'europeismo anti-Orban e anti-Putin, oltre che sulla continuità con il buon governo di Draghi e una presentazione comune nei collegi, in modo da contrastare meglio Meloni e Salvini, visto che la legge elettorale è maggioritaria per oltre i due terzi. In quei giorni Calenda rivendicava la scelta, spiegando che bisognava impedire la deriva "venezuelana" dell'Italia. Poi ha cambiato idea e non ho mai capito perché». 

Un'idea delle sue ragioni se la sarà fatta.

«Noi abbiamo rispettato l'accordo sottoscritto per convinzione. E certamente non abbiamo fatto la scelta più conveniente, visto che la sfida per il 3% era da brividi e che con il terzo Polo in campo i collegi diventavano insicuri. Mi viene da pensare che Calenda abbia cambiato idea perché pressato dai suoi finanziatori, ma sarebbero fatti suoi». 

Calenda sapeva del finanziamento che avevate ricevuto da Soros. Glielo aveva detto lei?

«Abbiamo parlato una sola volta di budget, per dieci minuti, nella fase in cui, dopo l'accordo con Letta, ragionavamo sulla campagna elettorale comune di +Europa/Azione.

Gli dissi che avremmo fatto la nostra parte con i nostri finanziatori e i nostri candidati e lui mi chiese se c'era anche Soros, che ci aveva notoriamente sostenuto anche in passato. Non avendo nulla da nascondere, ovviamente gli dissidi sì. Dopo tre o quattro giorni lui ci comunicò che si ritirava dal patto con il Pd, per fare poi l'accordo con Renzi, nonostante avesse detto cento volte che non avrebbe mai fatto nulla con lui, per via dell'Arabia Saudita e della sua presunta inaffidabilità. Da allora non ci siamo più visti e sentiti». 

Ora ha avuto sue notizie, tramite le anticipazioni del libro di Vespa.

«Quando Vespa mi ha interpellato mi sono chiesto chi avesse spifferato in anticipo la notizia, ma non pensavo davvero fosse stato Calenda e francamente mi spiace per lui: non è certo un comportamento da leader. Tempo qualche giorno e quei contributi sarebbero stati resi pubblici nei modi e tempi della legge, come sempre abbiamo fatto, rivendicando il sostegno di chi crede nella nostra azione politica liberale ed europeista. A partire proprio da Soros, che anche qui voglio ringraziare non solo per +Europa, ma perché sostiene in modo trasparente battaglie liberali sui diritti delle minoranze, sulla libertà di stampa, sui diritti civili e sull'antiproibizionismo. Lo avete scritto voi, peraltro: la notizia dei nostri rapporti con Soros è trita e ritrita».

Resta il fatto che la legge vieta ai partiti di ricevere finanziamenti da «persone giuridiche aventi sede in uno Stato estero non assoggettate a obblighi fiscali in Italia» e proibisce di accettare donazioni superiori ai centomila euro. Come ha fatto Soros a dare un milione e mezzo di euro a +Europa?

«Come le dicevo, alcuni nostri candidati hanno chiesto e ricevuto direttamente un contributo sui conti dei mandatari elettorali. In modo legittimo, trasparente e pubblico. Dico di più: rivendicato politicamente».

Bomba di Calenda sulla Bonino: “Vi ha pagati Soros. Soldi a +Europa per un listone antifascista”. Chiara Volpi su Il Secolo d'Italia l'1 novembre 2022.

«George Soros ha sovvenzionato con un milione e mezzo di euro Più Europa ponendo come condizione imprescindibile che si facesse un listone antifascista». Carlo Calenda riporta il timer alle elezioni del 25 settembre e sgancia la bomba: e le deflagrazioni continuano da ore a riecheggiare nell’aria. L’attacco è mirato contro Più Europa di Emma Bonino, e costringe il segretario del partito, Benedetto Della Vedova, a giustificazioni estemporanee. E con spiegazioni che siano convincenti pure…

La rivelazione di Calenda contro Più Europa: “Vi ha pagati Soros”

Dunque, soldi stranieri alla sinistra per l’ultima tornata elettorale: la “divulgazione” della notizia da parte di Calenda è contenuta nel libro di Bruno Vespa “La grande tempesta. Mussolini, la guerra civile. Putin, il ricatto nucleare. La Nazione di Giorgia Meloni” in uscita venerdì 4 novembre da Mondadori Rai Libri. Ed è lo stesso leader di Azione a spiegare che sarebbe venuto a sapere dei finanziamenti rivelati a Vespa quest’estate, quando era ancora alleato con +Europa. Poi l’intesa si fece, salvo poi affondare con l’ingresso nella coalizione di Sinistra Italia e Verdi che fecero fuoriuscire Azione.

Calenda: «Da Soros un milione e mezzo a Più Europa per un listone antifascista»

Dunque, il leader di Azione ricostruisce le fasi della rottura del patto con il Pd e svela il retroscena poi messo nero su bianco. «Dico a Letta che non può firmare due patti contraddittori (con Azione e con Verdi/Sinistra italiana), salta l’agenda Draghi, diventa un Letta contro Meloni. Vedo che Della Vedova è totalmente schierato con il Pd. D’altra parte ne conosco le ragioni: non ultima quella che il finanziere George Soros ha sovvenzionato con un milione e mezzo di euro Più Europa ponendo come condizione imprescindibile che si facesse un listone antifascista. Me lo disse ripetutamente Della Vedova prima della rottura».

Della Vedova costretto a precisare e correggere il tiro

La bomba scoppia e viene giù di tutto. L’establishment del partito della Bonino corre ai riapri, con il segretario Benedetto Della Vedova interpellato da Vespa, che dichiara: «Più Europa non ha ricevuto contributi da Soros, che altrimenti sarebbero già pubblicati. Comunque, il rendiconto elettorale della lista e dei candidati sarà ovviamente presentato nei tempi e nei modi prescritti». Poi però, di fronte alle insistenze del giornalista, riferite anche alla possibilità che contributi possano essere andati a singoli esponenti presentatisi alle elezioni, Della Vedova corregge il tiro ed è costretto a precisare: «Alcuni candidati di Più Europa – è la posizione ufficiale del partito – hanno ricevuto un contributo diretto da parte di George Soros per le spese della campagna elettorale».

Calenda tira in ballo Soros: e la faida coi suoi ex alleati continua…

E ancora. «Il filantropo di origini ungheresi da tempo condivide e sostiene i nostri valori europeisti e le nostre battaglie per i diritti umani e lo Stato di diritto. Siamo orgogliosi che alcuni nostri candidati abbiano chiesto e ricevuto il suo sostegno, certamente disinteressato. Naturalmente i contributi verranno presto resi pubblici nei termini di legge insieme ai rendiconti elettorali». Precisazioni puntuali che aggiornano la faida tutta interna alla sinistra, tra Calenda e i suoi ex alleati di +Europa (per un po’). Almeno per il momento…

Francesco Curridori per “il Giornale” l'1 novembre 2022.

«George Soros ha sovvenzionato con un milione e mezzo di euro +Europa ponendo come condizione imprescindibile che si facesse un listone antifascista». Carlo Calenda apre così un nuovo capitolo della faida con +Europa, iniziata poco dopo la rottura con il Pd di Letta. Il leader di Azione, intervistato da Bruno Vespa nel libro La grande tempesta, ripercorre proprio le fasi che hanno portato alla rottura.

«Dico a Letta che non può firmare due patti contraddittori (con Azione e con Verdi/Sinistra italiana), salta l'agenda Draghi, diventa un Letta contro Meloni», ricorda Calenda che poi vede Benedetto Della Vedova, segretario di +Europa (partito con cui Azione era federata), schierarsi completamente dalla parte del Pd.

«D'altra parte ne conosco le ragioni, non ultima quella che Soros ha sovvenzionato con un milione e mezzo di euro +Europa ponendo come condizione che si facesse un listone antifascista. Me lo disse ripetutamente Della Vedova prima della rottura», rivela Calenda. Il conduttore di Porta a Porta ha subito verificato con Della Vedova le parole del leader di Azione, che viene ancora ritenuto dagli ex alleati il responsabile della sconfitta di Emma Bonino nel collegio di Roma centro. 

«+Europa non ha ricevuto contributi da Soros, che altrimenti sarebbero già pubblicati. Comunque, il rendiconto elettorale della lista e dei candidati sarà ovviamente presentato nei tempi e modi prescritti», è stata la risposta di Della Vedova a Vespa.

«Soros con quella somma non avrebbe potuto sovvenzionare alcun partito né un singolo candidato, sia perché cittadino straniero sia perché c'è un tetto di 100mila euro per persona al finanziamento da parte dei privati», sottolinea il segretario di +Europa. 

Della Vedova, poi, precisa: «Alcuni candidati di +Europa hanno ricevuto un contributo diretto da parte di Soros per le spese della campagna elettorale. Il filantropo di origini ungheresi da tempo condivide e sostiene i nostri valori europeisti e le nostre battaglie per i diritti umani e lo Stato di diritto.

Siamo orgogliosi che alcuni nostri candidati abbiano chiesto e ricevuto il suo sostegno, certamente disinteressato.  Naturalmente i contributi verranno presto resi pubblici nei termini di legge insieme ai rendiconti elettorali». Basteranno queste puntuali precisazioni a porre fine alla contesa tra Calenda e i suoi ex alleati di +Europa? In attesa di una nuova puntata, ci permettiamo di dubitarne.

Meloni, i soldi di Soros per fermarla: cosa è successo prima del voto. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 02 novembre 2022

«George Soros ha sovvenzionato con un milione e mezzo di euro +Europa», dice Carlo Calenda a Bruno Vespa, che lo scrive nel libro in uscita il 4 novembre. Eppure a colpire non è tanto questo: i rapporti politici ed economici tra il finanziere/speculatore nato a Budapest nel 1930 ed Emma Bonino, leader di +Europa, sono antichi, solidi e risaputi. La notizia è ciò che il fondatore di Azione aggiunge subito dopo: elargendo quei soldi alla storica esponente radicale e al suo partito, Soros ha posto «come condizione imprescindibile che si facesse un listone antifascista». Significa che l'uomo che nel settembre del 1992 ebbe un ruolo decisivo nel far uscire la lira dal Sistema monetario europeo ha foraggiato +Europa a patto che partecipasse alla più ampia coalizione possibile contro il centrodestra guidato da Giorgia Meloni, ossia affinché si alleasse con il Pd e le altre sigle di sinistra e assieme a loro facesse blocco contro i candidati di Fdi, Lega e Forza Italia. Cosa che +Europa, a differenza di Azione, ha fatto, uscendo a pezzi dalle urne del 25 settembre, senza nemmeno riuscire a far eleggere la propria fondatrice. Calenda rievoca così i giorni in cui l'intesa tra i due partitini si ruppe: «Vedo che Della Vedova», socio della Bonino, ex radicale e segretario di +Europa, «è totalmente schierato con il Pd. D'altra parte ne conosco le ragioni, non ultima quella che il finanziere George Soros ha sovvenzionato con un milione e mezzo di euro +Europa ponendo come condizione imprescindibile che si facesse un listone antifascista. Me lo disse ripetutamente Della Vedova prima della rottura».

AFFINITÀ DI IDEE

È una vecchia abitudine di Soros quella di staccare assegni ai radicali, direttamente o tramite il suo Open Society Institute, poi diventato Open Society Foundations, e le altre entità create con i proventi delle sue speculazioni. Alla base di tutto c'è una forte affinità di idee. Già nel 1988, racconta Mauro Suttora, biografo della Bonino e di Marco Pannella, tramite le sue organizzazioni "filantropiche", Soros sponsorizzava la Lia, la Lega internazionale antiproibizionista, anche cofinanziando il primo Convegno internazionale sull'antiproibizionismo, organizzato da Pannella, che si tenne a Bruxelles con esperti da tutto il pianeta. Nessuno Tocchi Caino, associazione radicale contro la pena di morte, fondata nel 1993, fa parte della World coalition against death penalty, finanziata da Soros. Il quale nel 1996 iniziò a sostenere "Non c'è pace senza giustizia" e altre campagne internazionali promosse dalla Bonino.

Col tempo il rapporto tra i due è diventato personale. Nel 2004 l'allora eurodeputata radicale ricevette dalle mani del suo amico ungherese il "Premio perla società aperta", attribuito dall'Open Society Institute. In quello stesso anno Soros prestò alla Lista Bonino i due milioni di euro con cui pagare la campagna elettorale per le Europee. E due anni dopo concesse a Bonino e Pannella un altro prestito, da un milione e mezzo. Ambedue le somme, assicurano i Radicali, sono state restituite per intero. Visti i legami, non stupisce che nel settembre del 2013 la Bonino, all'epoca ministro degli Esteri, sia stata tra gli invitati al terzo matrimonio del miliardario. Naturale anche che Soros abbia preso la tessera del Partito radicale, e che nel 2015 la Bonino sia entrata consiglio d'amministrazione della Open Society Foundations. Mai, però, contributi diretti afondo perduto risultano essere stati dati da Soros al Partito radicale. A differenza di +Europa, che già nel gennaio del 2019, in vista delle Europee, ricevette da lui e da sua moglie, Tamiko Bolton, poco meno di 200mila euro. Regalando un facile spot alla Meloni: «Tenetevi i soldi degli usurai, la nostra forza è il popolo italiano».

I VINCOLI DI LEGGE

E ora il nuovo episodio svelato da Calenda, che ribalta la vulgata: dei finanziamenti che la Russia di Vladimir Putin avrebbe dato ad alcuni esponenti o sigle del centrodestra non c'è traccia, mentre è acclarato l'intervento dell'ungherese alfiere (e finanziatore) delle politiche pro-immigrazione e pro-aborto. Che qualche questione la pone, e non solo per le condizioni poste da Soros che, se confermate, configurerebbero una vera e propria ingerenza nelle vicende della democrazia italiana. La legge, modificata nel 2019, proibisce infatti ai partiti di accettare contributi «da persone giuridiche aventi sede in uno Stato estero», obbliga i tesorieri a rendere pubbliche, entro un mese, le donazioni superiori ai 500 euro e vieta di ricevere assegni superiori ai 100mila. Benedetto Della Vedova, a Vespa, la spiega così. Dice che il suo partito «non ha ricevuto contributi da Soros, che altrimenti sarebbero già stati pubblicati». A ricevere soldi sono stati invece «alcuni candidati di +Europa», i quali «hanno ricevuto un contributo diretto da parte di George Soros per le spese della campagna elettorale». Nessun imbarazzo, assicura, giacché «il filantropo di origini ungheresi da tempo condivide e sostiene i nostri valori europeisti e le nostre battaglie per i diritti umani e lo Stato di diritto. Siamo orgogliosi che alcuni nostri candidati abbiano chiesto e ricevuto il suo sostegno, certamente disinteressato». Aggettivo che stride col racconto fatto da Calenda, secondo il quale, in cambio dei soldi, Soros ha chiesto una contropartita politica.

Crisanti, luminare di furbizia. Si tiene lo stipendio più alto. Ma l'ospedale fulmina il virologo. Pd: "Niente retribuzione se non lavora". Francesco Maria Del Vigo il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.

C'è un virus che, senza dubbio, Andrea Crisanti ha debellato: ed è quello della povertà. Sua, ovviamente. Il celebre virologo-star e neoparlamentare del Partito Democratico, pur essendo un affermato e stimato microbiologo deve avere un piccolo problemino con la megalomania. Lo avevamo già notato - e invidiato - quando aveva comprato una villa del Cinquecento sui colli veneti.

Ora l'ex collaboratore di Zaia poi approdato su sinistri lidi, ha annunciato di voler rinunciare al suo stipendio da senatore. E pensi subito: accidenti che gesto nobile, che civil servant. Ma c'è un però grosso come una casa.

«Dovendo scegliere, ho deciso di mantenere la retribuzione che percepisco dall'Università di Padova, in qualità di direttore del laboratorio di Microbiologia e Virologia - ha commentato Crisanti al Corriere del Veneto -. Dopo l'elezione mi sono messo in aspettativa, ma con stipendio, e allora non potendo ovviamente cumulare due buste paga sono stato chiamato a scegliere tra quella da senatore e quella da specialista. Ho optato per quest'ultima, per motivi contributivi". Alt. Capiamoci bene, quindi è solo una questione pensionistica? Non del tutto e l'esimio luminare lo spiega senza peli sulla lingua. «Mi conviene, è un compenso più alto e poi è una questione di contributi previdenziali, di continuità nel versamento», ha spiegato il neo senatore 68enne. C'è qualcosa che non va. Chiariamoci le idee: Andrea Crisanti - come molti altri colleghi - durante la pandemia diventa una star. In campagna elettorale - anche in questo caso come altri virologi - viene corteggiato dalla politica e decide di candidarsi con il partito di Enrico Letta, venendo eletto senatore con i voti degli italiani all'estero.

Un ruolo di privilegio e di grande responsabilità e - per i comuni mortali - anche un grande stipendio. Ma per lui no. E quindi vorrebbe tenersi il precedente emolumento da direttore della Microbiologia di Padova, perché più alto. Epperò, nonostante i comprovati meriti scientifici, dubitiamo che il professore abbia il dono della bilocazione. Per quale motivo dovrebbe fare due lavori, per di più percependo lo stipendio di quello che - almeno in linea teorica - non svolgerà più? Oppure ha intenzione di continuare a fare il microbiologo bigiando le sedute di Palazzo Madama, facendo il senatore a mezzo servizio. E in quel caso non prenderebbe per il naso qualche decina di colleghi patavini, ma qualche milione di italiani. L'ipotesi di era talmente assurda che i primi a respingerla nettamente sono stati i dirigenti dell'ospedale di Padova: «Non verrà erogato alcun pagamento a fronte della mancata attività dirigenziale e assistenziale del Prof. Crisanti, dovuta alla recente elezione presso il Senato della Repubblica». In parole povere: Crisanti non lavoro e loro non lo pagano. Come è normale che sia.

La strampalata e furbesca (per modo di dire) del professore ci riporta alla megalomania di cui sopra, all'idea sbilenca e poco rispettosa che fare il parlamentare sia un non-impiego, un lavoro accessorio, un hobby, un blasone o una spilla con la quale infilzare l'occhiello della giacca. Una specie di club Rotary per vip. Ed anche per questo virus - molto diffuso - servirebbe un vaccino.

Dario Martini per iltempo.it il 28 ottobre 2022.

Andrea Crisanti, il virologo prestato alla politica, neo senatore del Partito democratico, annuncia di rinunciare all'indennità da senatore per non perdere lo stipendio da medico e professore a Padova. 

Una scelta che non nasconde. Anzi, la rivendica: «È vero, sì. Ho optato per lo stipendio d'origine, composto dall'attività con l'Università di Padova e con l'Azienda ospedaliera». Il motivo? Si guadagna di più. «È una questione di contributi previdenziali, di continuità nel versamento. Me l'hanno consigliato in Senato. Del resto è una cosa che fanno molti magistrati, è una prassi normale», dice al Mattino di Padova.

Insomma, dal momento che "pecunia non olet", è tutto in regola. Peccato che, dopo poche ore, l'azienda ospedaliera universitaria di Padova emetta una nota durissima: «Non verrà erogato alcun pagamento a fronte della mancata attività dirigenziale e assistenziale del Prof. Crisanti, dovuta alla recente elezione presso il Senato della Repubblica». 

Insomma, se Crisanti vuole fare il senatore (e su questo non ci possono essere ripensamenti) dovrà rinunciare al lauto stipendio da medico e professore. «Il trattamento economico del docente in aspettativa è dovuto dall'amministrazione di appartenenza, l'Università degli Studi di Padova, la quale riceve dall'Azienda ospedaliera una quota economica sulla base dei servizi effettivamente garantiti a favore dell'Azienda e di conseguenza dei pazienti».

In questo caso, sottolinea l'azienda ospedaliera, «è chiaro che gli importanti impegni del Professore presso il Senato non possono prescindere da un'aspettativa dal lavoro precedente, configuratasi anche a norma di legge come aspettativa parlamentare». 

Ci scherza su il collega Matteo Bassetti, direttore di Malattie infettive al San Martino di Genova, intervenuto a Un Giorno da Pecora su Rai Radio 1: «Crisanti ha detto che non accetterà lo stipendio da senatore preferendo quello da ricercatore, che è più alto? Questo mi fa piacere, vorrà dire che andrò a lavorare anche io all'Università di Padova, non pensavo fosse così alto lo stipendio».

Cambiando argomento, Bassetti valuta molto positivamente la scelta di Orazio Schillaci alla guida del ministero della Salute: «È l'uomo giusto al posto giusto, farà bene». E lo invita ad intervenire sul conteggio dei decessi causati dal virus, che «non è veritiero». «Basta isolamento per i positivi - dice Bassetti - sono otto mesi che non vedo morti Covid».

 Dagospia il 28 ottobre 2022. Da “Un giorno da pecora” – Rai Radio 1

“Invece che lo stipendio da senatore ho preferito mantenere quello universitario per assicurare l'attività contributiva per la pensione, un suggerimento che mi è stato dato proprio in Senato. Io l'ho fatta in totale trasparenza, legale e legittima. Insomma questa polemica è una notizia di distrazione di massa per non parlare ad esempio, del tetto dei contanti a diecimila euro”.

Lo afferma a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, il professor Andrea Crisanti, neo senatore del Pd, in riferimento alle polemiche degli ultimi giorni sulla scelta di rifiutare lo stipendio da parlamentare in favore di quello da accademico. Quale dei due stipendi è più alto? “Dipende da come si conteggiano le cose, la scelta non è stata fatta per questo motivo. Io l'ho fatto per continuare un po' di attività didattica e di ricerca”.

Dall'Asl di Padova fanno sapere però che non le pagheranno più il suo compenso. “Sono degli analfabeti dal punto di vista della legislazione - ha detto Crisanti a Un Giorno da Pecora - ma non bisogna confondere l'Università di Padova con l'azienda. La Asl di Padova è praticamente un covo di politici...”

Da “Un giorno da pecora” – Rai Radio 1

Il bollettino Covid settimanale? “Una decisione politica inutile, preferiscono non sapere quanto aumentano i casi. L'hanno tolto perché ai cittadini fa paura? Io lo avrei fatto ogni mezza giornata: se si è sicuri delle proprie scelte si aumenta l'informazione non la si diminuisce”. Lo afferma a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, il professor Andrea Crisanti, neo senatore del Pd, intervistato da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro.

Il primo novembre decade l'obbligo mascherine negli ospedali. Lei e' d'accordo? “Visto che c'è ancora trasmissione virale – ha detto Crisanti a Rai Radio1 -, basti pensare che solo Omicron ha fatto circa 40mila morti, mica stiamo parlando di influenza”.

I conti in tasca ai ministri. Quanto guadagna un ministro, la distinzione tra parlamentari e ‘tecnici’: addio al doppio stipendio. Redazione su Il Riformista il 18 Ottobre 2022 

In attesa di una quadra definitiva tra Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi sui nomi giusti per i ministeri del prossimo governo che sarà guidata dalla leader di Fratelli d’Italia, e anche sulle ‘dimensioni’ dell’esecutivo, da quello ‘mini’ di Lamberto Dini del 1995 a quello uscente di Mario Draghi composto da 23 ministri, si può iniziare a fare i conti in tasca ai prossimi titolari dei dicasteri.

Innanzitutto va fatta una distinzione tra ministri politici o ‘tecnici’: i secondi, non essendo eletti in uno dei due rami del Parlamento, guadagnano 8.863 euro lordi al mese.

Dal luglio 2019 è inoltre entrata in vigore una norma che prevede un taglio del 3,7% dei compensi per i ministri, così come per i sottosegretari, ma sempre solo quelli ‘tecnici’: prima lo stipendio complessivo era infatti di 9.203,54 euro lordi mensili.

I ministri eletti in Parlamento vedono sommare a questa cifra, che al netto delle trattenute si aggira intorno ai 4.500 euro netti, l’indennità della Camera di appartenenza. Così un ministro che è anche senatore arriva a guadagnare 14.634,89 euro al mese, mentre in caso di elezione alla Camera la cifra scende a 13.971,35.

Dal 2013 è stato invece abolito il doppio stipendio per i ministri parlamentari, una scelta presa dall’allora presidente del Consiglio Enrico Letta per ‘rispondere’ all’ondata anticasta portata in Parlamento dai 5 Stelle e cavalcata all’esterno dalla stampa.

Franco Bechis per “Verità & Affari” il 9 agosto 2022.

Tre bonifici. Uno da 30 mila euro in data 2 settembre 2021. E due da 10 mila euro, uno in data 9 settembre 2021 e uno in data 4 ottobre 2021. Sono i 50 mila euro che hanno finanziato la campagna elettorale del segretario Pd Enrico Letta per farlo diventare deputato alle elezioni suppletive dello scorso autunno nel blindatissimo collegio uninominale n. 12 per la Camera dei deputati a Siena. 

Sono tutti e tre riportati in copia- insieme alla sua dichiarazione dei redditi- nella sezione “documentazione patrimoniale” nella scheda del deputato Letta sul sito Internet dell'assemblea di Montecitorio. Ma di quei tre versamenti si conosce solo il destinatario- che è appunto il segretario del Pd- oltre all'importo e alla data del versamento. Non ci conoscono però i benefattori.

Sappiamo che sono due grazie alle schede di dichiarazione congiunta trasmesse alla segreteria della Camera via Pec: uno ha versato 10 mila euro a Letta, e l'altro 40 mila euro in due tranches. L'identità del benefattore è però segreta, perché in entrambe le schede di versamento il suo nome (o la sigla dell'organizzazione o della eventuale società) è oscurata da un tratto di pennarello nero che ne protegge la privacy. 

Un predecessore di Letta- l'ex segretario del Pd Massimo D'Alema, divenne famoso per una vignetta contestata di Forattini che ne faceva il mago del bianchetto. Il successore è un maestro del neretto. Ma il risultato è lo stesso: trasparenza zero. 

Addirittura nelle schede sono oscurati sia nome e cognome che firma del mandatario elettorale che raccoglieva i fondi per Letta. Ed è oscurata pure la firma di chi ha versato quei 50 mila euro, in modo da non avere alcun appiglio per risalire alla sua identità.

Trascinato dalla furia della “trasparenza zero” Letta allega anche la sua dichiarazione dei redditi 2021 (periodo di imposta 2020) annerendo in modo grottesco il suo codice fiscale per ragioni malposte di privacy. 

Una scelta davvero incomprensibile perché nella stessa scheda del deputato Pd sono indicati per esteso luogo e data di nascita, e chiunque potrebbe con quegli elementi risalire al codice fiscale con un banalissimo calcolatore che si trova su centinaia di siti Internet facendo una ricerca su google. 

Poco male per questo eccesso di neretto, perché quel che conta nella dichiarazione dei redditi è conoscere quanto guadagna un deputato. Nel caso di Letta non se la passava male: il suo reddito complessivo dichiarato nel 2021 era di 621.818 euro guadagnati in Francia grazie al suo incarico di direttore del dipartimento affari internazionali a SciencesPo a Parigi.

 Lasciando la politica dopo la spallata di Matteo Renzi del 2014 dunque Letta è stato più che sereno: ha sestuplicato il suo reddito rispetto all'ultimo conosciuto (quello 2015), che era di 193.436,80 euro. Anche sotto il profilo fiscale non sembra essergli andata male: l'imposta lorda da versare al fisco italiano è stata di 260.552 euro, ma in dichiarazione dei redditi risulta anche un credito di imposta per redditi prodotti all'estero di 61.631 euro, oltre a una detrazione di 144 euro per erogazione liberale. 

Quanto a beni posseduti, il segretario del Pd risulta nullatenente almeno in Italia (eventuali possedimenti all'estero non vengono obbligatoriamente dichiarati), e in effetti la bella casa romana da 10 vani più box auto dove Letta vive ancora oggi a Testaccio è intestata alla seconda moglie, la giornalista del Corriere della Sera, Gianna Fregonara e ha un valore di mercato che oscilla fra 5 e 600 mila euro.

Dunque il segretario del partito che gareggia per essere il numero uno in Italia ha una visione oscurantista del finanziamento della politica. Il nome di Letta è legato alla legge sui finanziamenti alla politica attualmente in vigore varata a inizio della scorsa legislatura, quando l'attuale segretario del Pd è stato per pochi mesi presidente del Consiglio dei ministri. 

Nella sua retorica Letta vorrebbe essere quello che ha abolito il finanziamento pubblico, e in effetti sono spariti i generosi rimborsi elettorali che allora venivano erogati secondo la precedente normativa. I finanziamenti dello Stato ai partiti sono restati tanto è che esistono anche oggi con quel 2 per mille dell'Irpef che devolve alle forze politiche in regola con gli statuti (dal 2022 anche al M5s) risorse proprie dell'erario.

I finanziamenti privati che con modello anglosassone avrebbero dovuto sostituire le risorse pubbliche sono poco noti agli elettori perché non è solo Letta a fare abbondante uso di quel pennarello nero. Avere nascosto i nomi dei suoi benefattori come nessun leader politico avrebbe possibilità di fare in altri paesi europei e tanto meno negli Stati Uniti, in Italia è sicuramente disdicevole dal punto di vista politico e del rapporto di lealtà con l'elettorato, ma è anche illegale secondo la normativa italiana vigente. 

Fosse stato per Letta no. Perché il suo famoso decreto legge 149/2013 sul finanziamento della politica, il peggiore provvedimento legislativo sulla materia nella storia della Repubblica italiana, condizionava la pubblicità dei finanziamenti privati alla politica fra 5 mila e 100 mila euro alla dichiarazione volontaria di consenso alla pubblicità del donatore. 

Una cosa che non esisteva manco nella prima Repubblica, visto che ai tempi di Bettino Craxi e Giulio Andreotti i finanziamenti legali alla politica (ovviamente non le tangenti) dovevano essere trasmessi alla tesoreria delle Camere a firma congiunta di benefattore e percettore e lì essere messi a disposizione di qualsiasi cittadino elettore ne facesse domanda.

Quella innovazione della legge Letta che premetteva di oscurare per ragioni di privacy i soldi che politici e partiti ricevevano da persone fisiche o giuridiche è stata abrogata dal primo governo di Giuseppe Conte (quello gialloverde) con la spazzacorrotti. Ora le norme dicono che nessuno- politico, partito o fondazione, può accettare finanziamenti piccoli e grandi da chi sia contrario a dare piena pubblicità all'atto. E quindi sono illegali i finanziamenti ricevuti e oscurati come quelli che hanno permesso a Letta di diventare deputato. Quel pennarello nero dunque non poteva oscurare l'identità dei finanziatori della campagna elettorale personale del segretario del Pd. Che ora si appresta a farne un'altra...

Giacomo Amadori per “La Verità”.

Si annuncia un autunno caldo per il Pd. Nel 2014 il governo di Enrico Letta ha tagliato il finanziamento ai partiti, quello di Matteo Renzi ha dato fondo alle ultime risorse del partito per vincere il referendum sulla riforma costituzionale e adesso, come il gatto che si morde la coda, lo stesso Pd si trova sull'orlo dell'abisso con la cassa integrazione straordinaria agli sgoccioli (la scadenza degli ammortizzatori sociali è prevista per l'autunno) per i suoi 122 dipendenti. Lavoratori che nel 2020 dovrebbero essere costati circa 6,5 milioni di euro, per una media di 53.000 euro l'uno.

Il più noto dei cassaintegrati è Gianni Cuperlo, ex candidato perdente alla segreteria contro il fu Rottamatore. Il decreto 149 del 28 dicembre 2013, convertito in legge nel febbraio del 2014, ha abolito, sull'onda della demonizzazione dei costi per la politica, il finanziamento pubblico e introdotto un sistema di contribuzione volontaria.

Il medesimo decreto estendeva ai partiti politici la normativa sulla cassa integrazione salariale e i contratti di solidarietà. A tal fine, il provvedimento autorizzava la spesa di 15 milioni di euro per il 2014, di 8,5 milioni per il 2015 e di 11,25 milioni di euro a decorrere dal 2016, alla quale si provvedeva attraverso l'utilizzo di quota parte dei risparmi conseguenti alla progressiva riduzione del finanziamento pubblico.

Non sappiamo se ci troviamo di fronte a una nemesi, a un contrappasso o a una norma scritta con astuzia, fatto sta che a quel piccolo tesoretto in questo momento sta attingendo soprattutto il Pd. 

Purtroppo non è facile avere un quadro chiaro della situazione, anche perché sia all'Inps (presieduta da Pasquale Tridico) che al ministero del Lavoro, guidato dal piddino Andrea Orlando, il dicastero che emette i decreti autorizzativi di pagamento e quindi conosce anche gli importi, non sono stati particolarmente generosi con le informazioni. Anzi si sono chiusi a riccio e per questo c'è da augurarsi che qualche parlamentare faccia un'interrogazione su un tema che evidentemente viene ritenuto particolarmente sensibile.

Sul portale del ministero si legge che l'intervento straordinario di integrazione salariale può essere chiesto quando la sospensione o la riduzione dell'attività lavorativa sia causato da riorganizzazione o crisi aziendale, da contratti di solidarietà. La durata per il primo motivo può essere al massimo di 24 mesi «anche continuativi, in quinquennio mobile». 

Per lo stato di crisi sono previsti solo 12 mesi e per avere una seconda autorizzazione devono essere passati almeno altri otto mesi dalla precedente. Nel terzo caso si oscilla dai 24 ai 36 mesi.

L'unico che ci ha degnati di una risposta (all'ufficio stampa per una settimana si sono comportati come le tre note scimmiette), è stato il direttore generale dell'Inps Vincenzo Caridi: «Le difficoltà di risposta probabilmente riguardano l'oggetto della richiesta. Le scelte relative alla cassa integrazione attengono all'azienda così come il contingente di personale da destinare ad essa. Per questo motivo il dato che chiede può reperirlo esclusivamente presso i diretti interessati. 

L'Inps, in quanto ente di previdenza può fornire solo dati statistici opportunamente anonimizzati sui servizi di sua competenza». Quando abbiamo fatto notare che si trattava di un dato di sicuro interesse pubblico, Caridi ha replicato così: «Certo che sì. Ma non può essere l'ente previdenziale a fornire numeri individuali se non lo fa il datore di lavoro».

E allora ci siamo rivolti ai principali partiti per fare chiarezza. Lega, Fratelli di Italia e Movimento 5 stelle hanno negato di avere lavoratori in cassa integrazione. Da Forza Italia, invece, nessuna risposta. Comunque la situazione più delicata è, a quanto ci risulta, quella del Pd. 

Nei giorni scorsi il tesoriere Walter Verini e la responsabile delle risorse umane Antonella Trivisonno ci hanno fatto pervenire la loro versione su carta intestata del partito. Dalla tesoreria ci tengono subito a far sapere di aver rispettato tutte le norme sull'accesso agli ammortizzatori sociali e sulle loro proroghe. «Il Pd, come altri partiti, ha avuto la necessita di richiedere la cassa integrazione» ammettono.

E precisano che la Cigs riguarda tutti i 122 dipendenti e che la percentuale di riduzione oraria e in media del 40%. Quindi puntualizzano il motivo del ricorso alla Cassa a partire dal settembre del 2017: «È stato necessario a causa delle difficoltà finanziarie derivanti dalle uscite della campagna referendaria del 2016 e accentuate - a seguito delle elezioni politiche del 2018 - dalla consistente riduzione dei parlamentari e delle conseguenti entrate attraverso le "erogazioni liberali"». 

Dal Nazareno precisano che «all'epoca fu deciso di intraprendere questo percorso di tutela occupazionale perché il Partito democratico non ha mai voluto considerare l'ipotesi di procedere a riduzione del personale attraverso licenziamenti dei propri lavoratori».

E così l'1 settembre 2017 il Pd ha avviato la cassa integrazione con la causale «crisi».

Successivamente l'ha mutata in «riorganizzazione» fino al periodo della pandemia, quando ha fatto ricorso alla cassa Covid. Terminata l'emergenza sanitaria, il partito ha richiesto «un'ulteriore proroga della Cigs per la riorganizzazione». 

Dal Pd rimarcano, però, «di aver usufruito, nel pieno rispetto della normativa, di sole due proroghe della Cigs» e che «queste sono state motivate dalla necessita di aver maggior tempo per dare attuazione al programma di risanamento, evitando così l'avvio di procedure di licenziamento collettivo».

E che cosa prevede questo piano? «Azioni finalizzate all'incremento della raccolta fondi mediante il 2x1000» e delle «erogazioni liberali, a partire da quelle degli eletti»; «riorganizzazione interna di uffici e strutture»; «attivazione di percorsi di ricollocamento». 

La capa del personale Trivisonno, contattata dalla Verità, sottolinea: «Confermiamo che il partito non ha alcuna intenzione di licenziare i propri lavoratori, indipendentemente dalla campagna elettorale».

Dagli uffici di via Sant'Andrea delle Fratte aggiungono: «Il finanziamento l'ha tolto non Letta, ma il Parlamento che approvò quasi all'unanimità il decreto del governo». Al Pd è rimasto un ricco 2x1000 che nelle dichiarazioni del 2021 valeva 6,9 milioni di euro (davanti Fratelli d'Italia -2,7 milioni - e Lega -1,8-), una voce, però, in discesa rispetto agli anni precedenti: nel rendiconto del 2020 il 2x1000 valeva 7,4 milioni, nel 2019 addirittura 8,4. Una diminuzione prevista dal tesoriere Verini, il quale nella relazione al rendiconto del 31 dicembre 2020 aveva annotato: «Per quanto riguarda i proventi, e in particolare il 2x1000, è ragionevole e prudente prevedere una riduzione dello stesso legata alla riduzione del reddito medio pro capite dei contribuenti, conseguente alla difficile situazione economica derivante dalla pandemia».

Il Pd, come detto, si troverà senza Cigs alla vigilia delle elezioni. Ma Verini getta acqua sul fuoco: «Per noi la prima cosa è tutelare il lavoro. Cercheremo di risolvere il problema con il contributo dei militanti. Siamo un partito che può contare su mezzo milione di cittadini che spontaneamente inseriscono il codice M20 nella loro dichiarazione dei redditi. Siamo la formazione politica che ha più sottoscrittori e lavoreremo per incassare ancora di più dal 2x1000». 

Ma come si è visto, negli ultimi anni, queste entrate sono diminuite anziché aumentare. Gli altri proventi, circa 2,3 milioni di euro l'anno, provengono dai versamenti dei parlamentari che portavano gli introiti del 2020 derivanti dalla militanza a circa 9,8 milioni, contro gli 11,2 dell'anno prima. Gli oneri per la «gestione caratteristica» del partito ammontano complessivamente a 7.731.000, di cui 4,43 milioni destinati al personale, tra stipendi (2,3), contributi (0,9), trattamenti di fine rapporto (0,34) e altri costi (0,88). 

E se il conto non va in passivo è proprio grazie alla Cigs che smaltisce il 40 per cento del lordo complessivo di salari e oneri sociali (5,3 milioni), ovvero, a spanne, circa 2,1 milioni l'anno, per un totale di oltre 10 in un lustro.

Alla fine, nell'ultimo esercizio reso pubblico, risulta un avanzo di quasi 2 milioni di euro. Sul futuro, però, sembrano addensarsi nuvoloni neri. Ma dal Pd predicano tranquillità: «Abbiamo, con accordi sindacali, intavolato protocolli di incentivi all'uscita. Noi una sola parola non prendiamo in considerazione: licenziamenti. Altra cosa è accompagnare alla pensione con qualche incentivo, in pieno accordo con l'Rsu interna e con i lavoratori. In questo senso abbiamo alleggerito il carico dei costi. È vero che oggi questi sono ancora superiori alle entrate e che siamo riusciti a tenere la baracca in equilibrio anche grazie agli ammortizzatori sociali. Ma quando questi termineranno, nel prossimo autunno, cercheremo di aumentare le entrate, sempre in maniera iper trasparente». 

Il messaggio è chiaro: se gli elettori del Pd vogliono evitare il licenziamento dei lavoratori del loro partito del cuore devono aprire il portafogli, anche attraverso il 2x1000. Prima che sia troppo tardi. 

Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 27 aprile 2022.

Era il 24 gennaio 2008 quando i senatori Domenico Gramazio e Nino Strano festeggiavano nell'Aula di Palazzo Madama la caduta del governo Prodi mangiando mortadella e stappando una bottiglia di spumante. L'allora presidente del Senato Franco Marini si limitò a un richiamo verbale. 

Oggi avrebbero rischiato il linciaggio pubblico. Merito del nuovo codice deontologico, approvato dal Consiglio di presidenza di Palazzo Madama. La stretta voluta dal presidente Casellati impone ai senatori di «rispettare nell'espletamento del proprio mandato comportamenti che non siano contrari al buon costume e lesivi del prestigio del Senato».

Stop, dunque, a risse e comportamenti esuberanti in Aula. Ma non è l'unica novità. L'altra, forse la più significativa, riguarda i regali ricevuti: i senatori hanno l'obbligo di verificare che il valore dei doni accettati sia conforme alle «consuetudini di cortesia». Ma subito si scatena l'ironia dei senatori. «Come si valuta la conformità alle consuetudini di cortesia»? 

Si chiedono in molti. La risposta è semplice: si applica la legge voluta da Monti che impone un tetto massimo per i regali pari a 250 euro per gli amministratori. Anche se qualcuno prova a già a fare il furbetto: «La legge Monti vale per gli amministratori locali», confida al Giornale un senatore centrista.

Ma gli uffici di Palazzo Madama confermano: «Si applica il valore massimo dei 250 euro anche per i senatori». In pratica, quanto costerebbe una cena per due persone in uno dei migliori ristoranti della Capitale. Cosa rischiano i senatori che infrangono le regole del codice deontologico? La gogna pubblica. 

Nel capitolo riservato alle sanzioni il codice impone che le violazioni da parte dei senatori siano punite con la comunicazione all'assemblea in apertura dei lavori. Ma soprattutto è prevista la pubblicazione sul sito istituzionale del Senato. Insomma, marchiati a vita.

Terza novità, contenuta del codice già adottato dalla Camera dei deputati, è la stretta sulle mail. Basta mail private e corrispondenze familiari. «L'utilizzo della posta elettronica durante la funzione di senatore deve essere circoscritto al mandato degli eletti e deve essere soggetto al rispetto della disciplina già deliberata nel 2008», si legge nel regolamento. 

Ed infine sbarca anche a Palazzo Madama il registro per i lobbisti che intendono rappresentare al Senato interessi di categoria. Il M5s ha provato a rendere ancor più rigoroso il codice. Ma nulla da fare.

La rabbia grillina esplode subito dopo il via del Consiglio di presidenza del Senato: «La strada che porta alla cosiddetta casa di vetro delle istituzioni è ancora lunga e purtroppo oggi ne abbiamo avuto una riprova. Il Codice di condotta dei senatori adottato oggi dal Consiglio di presidenza di Palazzo Madama ha certamente rappresentato una battuta d'arresto in termini di trasparenza e credibilità» attacca Mariolina Castellone, capogruppo grillino al Senato, ammonendo che «una disciplina che introducesse un modello di comportamento basato su maggior rigore e chiarezza sarebbe stata non solo opportuna, ma necessaria in rapporto ai tempi che viviamo».

«Il Movimento 5 stelle - rincara Castellone - ha segnalato a più riprese l'opportunità che avevamo e l'importanza del segnale che poteva essere dato ai cittadini, abbiamo presentato degli emendamenti che avrebbero reso il testo molto più rigoroso e stringente. Le nostre proposte sono state respinte, è mancata la volontà di introdurre regole che "aggredissero" in modo deciso il rischio di conflitti d'interesse e di zone opache nello svolgimento dell'attività parlamentare. Il testo adottato dunque non può soddisfarci pienamente. Concretamente, il nuovo Codice di comportamento dei senatori non introduce sostanziali elementi aggiuntivi».

L’emendamento per strappare il finanziamento. Soldi pubblici, grillini a caccia del malloppo di stato. Salvatore Curreri su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

Come tutti gli automobilisti sanno, in autostrada sono vietate le inversioni a U. Se vuoi tornare indietro, devi aspettare la prossima uscita. Invece, i pentastellati, per accedere al finanziamento pubblico (indiretto), non vogliono aspettare il 2023. Lo vogliono subito. E se le regole oggi vietano questa inversione a U, nessun problema: basta cambiarle. Per comprendere meglio quel che potrebbe accadere occorre fare un passo indietro. Oggi i partiti che vogliono accedere al cosiddetto 2×1000 e alle donazioni fiscalmente agevolate devono iscriversi in un apposito Registro. A sua volta, per iscriversi a tale Registro i partiti devono avere rappresentanza parlamentare e uno Statuto che contenga taluni elementi essenziali di democrazia interna e di trasparenza nei confronti degli elettori, stabiliti per legge. In tal modo il legislatore ha collegato l’accesso dei partiti al finanziamento pubblico alla loro democrazia interna.

Insieme al vincolo di mandato dei parlamentari-portavoce dei cittadini e al limite dei due mandati, il no al finanziamento pubblico era uno dei tre pilastri identitari del M5s. “Era” perché lo scorso 30 novembre l’assemblea degli iscritti (peraltro senza numero legale: rispetto ai 131.760 aventi diritto hanno votato appena 33.967 iscritti e di questi a favore 24.360: il 18,5% del totale) ha approvato la proposta del presidente Conte di accedere a tale finanziamento. Si dà il caso però che il 30 novembre sia il termine ultimo entro cui i partiti registrati devono presentare richiesta per accedere al finanziamento pubblico per l’anno successivo (art. 10.3 d.l. 149/2013). Era scontato quindi che, non essendo ancora registrato, la richiesta del M5s di accesso al finanziamento per il 2022 venisse respinta dalla competente Commissione di garanzia (delibera del 23 dicembre 2021). Poiché per registrarsi occorre, come detto, avere uno Statuto democratico, ecco spiegata l’esigenza del MoVimento di vararne uno nuovo e per di più rispondente ai requisiti richiesti dalla suddetta Commissione.

E già, perché nel frattempo tale Commissione, rilevate non poche difformità dello Statuto rispetto ai requisiti prescritti per legge, ha imposto al M5s talune specifiche modifiche per potersi registrare. Prescrizioni peraltro la cui lettura è caldamente consigliata a chi, lamentando l’ingerenza dei giudici, vuole capire meglio quali siano le garanzie minime per la democrazia nei partiti. Tali modifiche sono state giustappunto recepite nel nuovo Statuto che sarà sottoposto all’approvazione degli iscritti giovedì e venerdì prossimi. Iscritti convocati anche per ripetere la deliberazione assembleare del 2-3 agosto 2021, sospesa dal Tribunale di Napoli (ce ne siamo occupati su queste colonne lo scorso 10 febbraio), con cui era stato approvato il nuovo Statuto sulla cui base Conte era stato eletto Presidente del M5s. Mentre, infatti, gli altri partiti cambiano dirigenti, anziché Statuto, nel M5s cambiano gli Statuti per modellarli ai nuovi dirigenti: così abbiamo avuto lo Statuto di Grillo (2012), quello di Di Maio (2017), quello del Comitato direttivo, mai eletto (febbraio 2021) e ora quello di Conte (agosto 2021).

Vi chiederete: tali modifiche statutarie cosa c’entrano con il finanziamento pubblico? In ogni caso, si potrebbe obiettare, il nuovo Statuto, se approvato e giudicato conforme dalla Commissione di garanzia, permetterà al M5s d’iscriversi nel Registro e quindi di accedere al finanziamento pubblico ormai per il 2023, essendo scaduto il termine del 30 novembre 2021. Inoltre: perché tutta questa fretta di approvare il nuovo Statuto se il Tribunale di Napoli non si è ancora pronunciato sulla legittimità dell’approvazione del precedente a causa dell’esclusione degli iscritti con meno di sei mesi, peraltro ora nuovamente esclusi il prossimo 10-11 marzo, esponendosi al rischio di una nuova impugnazione? Rischio di nuova impugnazione peraltro alimentato dall’avvcato Borré secondo cui le regole previste nel nuovo Statuto per l’elezione del Comitato di garanzia e (in via transitoria) del primo presidente del M5s introdurrebbero meccanismi di cooptazione vietati dalle Linee guida per la redazione degli Statuti prescritte nel 2018 dalla Commissione di garanzia.

La risposta del perché di tanta fretta si trova in un emendamento presentato dal senatore Fantetti (n. 9.0.8, segnalato e quindi da votare) al decreto legge n. 4/2022 (c.d. sostegni-ter). Esso, infatti, prevede la riapertura dei termini per accedere al finanziamento pubblico indiretto per il 2022, postergandoli dal 30 novembre 2021 al 31 marzo 2022, per gli “operatori” (ohibò) politici che fossero registrati entro la data di conversione del decreto legge (e cioè massimo entro il prossimo 28 marzo). L’obiettivo dunque è chiaro: approvare subito il nuovo Statuto secondo le indicazioni della Commissione di garanzia, così da avere il tempo per presentare o richiesta di registrazione e, una volta ottenuta, accedere subito al finanziamento pubblico per il 2022 profittando dell’approvazione nel frattempo dell’emendamento Fantetti. Approvazione peraltro probabile visto che permetterebbe l’accesso al finanziamento di forze politiche al momento escluse: anche Coraggio Italia, registratasi lo scorso 27 gennaio, Idea-Cambiamo!-Europeisti-Noi di Centro (Noi Campani), cui il sen. Fantetti appartiene; Rifondazione Comunista che ha ottenuto la necessaria rappresentanza parlamentare grazie alla componente politica del misto Manifesta-Potere al Popolo-Partito della Rifondazione comunista costituitasi lo scorso 8 febbraio.

Ovviamente è sempre possibile cambiare idea. Anzi è certamente apprezzabile che il M5s abbia superato l’idea demoniaca del denaro in politica (salvo comunque aver sempre utilizzato i contributi erogati ai rispettivi gruppi parlamentari e consiliari per finanziare anche le correlate attività del partito, non facilmente separabili). Meno apprezzabile che per raggiungere tale scopo si debbano cambiare le regole del gioco, introducendovi deroghe a proprio vantaggio. Una forzatura che la dice lunga su chi invocava legalità-tà-tà. Salvatore Curreri

Finanziamenti ai partiti, Rifondazione comunista fa il botto: quanti soldi prende, in gran silenzio. Fabio Rubini su Libero Quotidiano il 22 gennaio 2022.

Il ruolo di mazziere assunto da Matteo Salvini nella partita del Quirinale sembra piacere agli elettori. Secondo l'ultimo sondaggio commissionato dal Carroccio a Enzo Risso, la Lega non solo cresce nelle intenzioni di voto, ma torna anche ad essere il primo partito in Italia. Se si andasse alle urne oggi il partito di Salvini porterebbe a casa il 20,6% dei consensi - +0,2% rispetto all'ultima rilevazione del 17 dicembre- scavalcando così il Partito democratico che perde lo 0,9% e si attesta al 20,05%. Sul gradino più basso del podio si accomoda Fratelli d'Italia con il 18,9%, in calo dello 0,5%. La notizia più confortante, però, arriva dalla somma dei partiti di centrodestra che, con Forza Italia al 9,1%- in salita dello 0,2%- e i cespugli al 1,5%, arriva 50,1% del totale delle intenzioni di voto. Il centrosinistra - con M5S al 15,9%, invece, risulta ben staccata al 46,8%.

Numeri, capite bene, che danno coraggio alla coalizione guidata da Salvini anche in chiave quirinalizia. Un'eventuale rottura con piddini e Cinquestelle che porterebbe dritta alla caduta del governo Draghi e alle elezioni anticipate fa decisamente meno paura. Se Fratelli d'Italia deve leccarsi le ferite per il controsorpasso nei sondaggi, può però festeggiare guardando alle casse del partito che si riempiono grazie ai fondi ricevuti dal due per mille. Nella classifica stilata ogni anno con i dati del Ministero dell'economia e finanza, nelle prime tre posizioni restano Partito Democratico, Fratelli d'Italia e Lega Salvini Premier. Rispetto al 2020, però, si è registrato il sorpasso del movimento di Giorgia Meloni sul Carroccio. Prima di scendere nel dettaglio, riassumiamo la vicenda del due per mille. Andiamo con ordine. Dopo l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, nel 2014 è stata introdotta la possibilità, su base volontaria, di destinare il due per mille dell'Irpef ai partiti. Nel 2021 - i dati sono riferiti ovviamente alle dichiarazioni del reddito del 2020 - gli italiani che hanno deciso di dare una mano al loro partito di riferimento sono stati appena 1.360.520, pari al 3,28% del totale.

Una percentuale in calo dello 0,2% rispetto al 2019, che in soldoni, però, fa qualcosa come mezzo milione di euro in meno rispetto all'anno precedente. Nelle tasche dei partiti sono così finiti circa 18,5 milioni di euro, non certo una cifra da capogiro. ma chi li ha incassati? Al primo posto della classifica anche quest' anno è rimasto il Partito democratico che si conferma una macchina raccogli soldi e che riceverà dai suoi sostenitori 6.907.837 di euro- mezzo milione secco in meno rispetto al 2020 - che corrisponde al 36,23% del totale. Dietro al Pd quest' anno c'è Fratelli d'Italia che, come detto, ha sorpassato in questa speciale graduatoria la Lega. Giorgia Meloni potrà così contare su 2.697.915 di euro, pari al 15,37%. Retrocede al terzo posto, invece, in Carroccio di Matteo Salvini che si ferma a 1.822.937 di euro. A questo dato, però, va fatta una postilla.

Nella graduatoria, infatti, compare anche la "vecchia" Lega Nord per l'Indipendenza della Padania che porta a casa un onorevole risultato con 485.090 euro (il 3,27%). Sommando i due dati - anche se i due movimenti fiscalmente vivono di vita propria - la galassia che fa capo a Matteo Salvini arriva a incassare 2.308.027 di euro, poco più di 300mila euro in meno rispetto a Fratelli d'Italia. E gli altri partiti? Boccheggiano. L'unico, a parte quelli citati, che riesce a superare la soglia psicologia del 4% - per l'esattezza il 4,03% - è un po' a sorpresa il Partito della Rifondazione Comunista-Sinistra Europea che, evidentemente, può contare su uno zoccolo duro di fedelissimi. A seguire ci sono altri 30 partiti. Tra questi Articolo 1 (3,87%), Federazione dei Verdi (3,77%), Italia Viva (3,46%) e Sinistra Italiana (3,17%). Sotto al 3% ci sono Azione di Carlo Calenda (2,65%), Forza Italia di Silvio Berlusconi (2,36%) e Più Europa (2,16%). In classifica non compare il Movimento Cinquestelle che fin dalla sua fondazione ha scelto di non ricevere contributi pubblici. Nemmeno quelli che gli darebbero volontariamente i sostenitori. 

·        Ignoranti.

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 7 ottobre 2022.

La sinistra è meglio della destra. Su questo ci sono pochi dubbi. Ha una classe dirigente più preparata, più presentabile, mirabilmente formata. Mai inadeguata al ruolo. In questi anni (undici per la precisione) il Partito democratico è stato un serbatoio di eccellenze. Ma anche nel secolo scorso (la fine), con i governi Prodi, Amato, D'Alema, la gauche tricolore si è fatta carico di rifornire le istituzioni di personalità che hanno scolpito il proprio nome nella storia.

Il catalogo è questo. Partiamo dalla fine. Il 12 febbraio 2021. Il governo Draghi ha appena giurato nelle mani di Sergio Mattarella. Un ometto sorridente si aggira per i saloni del Quirinale: «Sono Patrizio Bianchi». Il nuovo ministro dell'Istruzione. «Quando ha saputo che avrebbe fatto parte dell'esecutivo?», gli domandano. «L'ho imparato ieri», risponde. Brivido... 

Ma è un professore universitario. Con la tessera del Pd in tasca. Questo lo autorizza anche a rivedere le regole della consecutio: «Speriamo che faremo bene». E poi altre perline tipo «Abbruzzo» con due b, con cui ha ingioiellato la sua permanenza ministeriale. Inarrivabile. Così come non sono replicabili altre esperienze che hanno cambiato radicalmente il volto del Paese.

Un giorno i nostri figli studieranno le riforme portate a termine dai ministri Andrea Orlando, Maria Elena Boschi, Francesco Boccia (che voleva lanciare le ronde anti-Covid), Federica Mogherini. Le cui gesta hanno varcato i confini nazionali e riecheggiano ancora a Bruxelles dove è stata Alto commissario per la Politica Estera dell'Ue («Moghechi?»). 

È difficile che oggi Fratelli d'Italia possa trovare personale politico o tecnico che non faccia rimpiangere i protagonisti della stagione giallorossa: Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede, Lucia Azzolina. Tutte riserve della Repubblica. Come Fabiana Dadone (e le sue Converse sulla scrivania).

O come Danilo Toninelli. Visionario che vedeva cose inesistenti (tipo il tunnel del Brennero) e che promuoveva l'elettrico con le chiavi in mano della sua nuova Compass a gasolio. 

Che dire di Barbara Lezzi, ministro del Sud. Quella che diceva in tv che i bagnanti in Puglia avrebbero steso l'asciugamano sopra al gasdotto (che in realtà passa a dieci metri di profondità); quella che aveva dimenticato di versare i contributi al M5s e che al Senato aveva assunto come collaboratrice la figlia del compagno: genio. 

Oggi c’è un problema di classe dirigente. Per esempio: chi fa il ministro della Salute? Bel guaio. Difficile replicare i curriculum di Roberto Speranza, luminare della medicina con la laurea in scienze politiche, o di Beatrice Lorenzin, potenziale Nobel con la licenza liceale.

La sinistra non avrebbe problemi. È una fucina di talenti. A un certo punto sembrava aver trovato una nuova fuori- classe nella Madia. Certezza messa un attimo in forse quando Marianna andò da Zanonato pensando di parlare con il ministro del Lavoro: aveva sbagliato palazzo. O quando venne fuori la storia della tesi di laurea copiaincollata. Oppure quando, nel curriculum, aveva scritto: «Laurea con lode tra un mese».

Va detto: quello dei titoli è un po’ un limite della sinistra. Forse l’unico. Valeria Fedeli si era inventata una laurea in scienze sociali. Mai conseguita. Poi, andando a scavare, era venuto fuori che l’allora ministro dell’Istruzione (!) non aveva fatto manco la maturità, ma un titolo triennale per fare la maestra. 

Meglio il suo predecessore: Stefania Giannini. Quando la glottologa assunse la guida del ministero, ai tempi di Matteo Renzi, c’erano grandi aspettative. Finalmente un tecnico preparato che prende di petto il carrozzone di viale Trastevere. Peccato che di lei non si ricordino le riforme, ma una foto in topless mentre era in spiaggia a Marina di Massa. «A un ministro danese non sarebbe mai successa una polemica del genere», si stizzì Giannini. 

Altro campione: Giuliano Poletti, ministro del Lavoro con Paolo Gentiloni. Riecheggiano ancora le sue dichiarazioni programmatiche. Esempi? Quando, parlando della fuga dei cervelli, disse: «È meglio se si levano dai piedi». O quando sostenne che era più facile trovare lavoro «giocando a calcetto che mandando curricula». Oppure quando spronava i giovani a non inseguire la laurea con 110, ma a concludere in fretta gli studi. E poi venne fuori che suo figlio, a 42 anni, aveva ancora degli esami da dare. Ma pochi.

Ma come dimenticare un grande momento di inclusione: Cecile Kyenge ministro dell’Integrazione nell’esecutivo Letta. Dieci mesi al governo abbastanza incolori (ops...), se si escludono alcune polemiche con la Lega. I contabili di Palazzo Chigi però no. Loro, Cecile se la ricordano: in trecento giorni Kyenge chiese rimborsi per 53mila euro, di cui 42mila in mezzi di trasporto e 11mila in pernottamenti e pasti. La cifra più alta spesa dai ministri dell’allora governo Letta, di molto superiore anche alla diaria dallo stesso presidente del Consiglio. Matteo Renzi decise di non confermarla. Poi l’ultimo dispiacere: il marito candidato con la Lega. Infine l’oblio.

Idem Josefa. Nel senso di Josefa Idem, ex campionessa di canoa voluta da Letta come ministra delle Pari opportunità. Tutto bellissimo. Finché non venne fuori la storia dei quattro anni di Ici non pagati sulla casa e delle ristrutturazioni abusive. «Sono una pasticciona, non una disonesta. Colpa del commercialista (c’è sempre un contabile a cui dare addosso, ndr) e della Merkel».

Josefa disse che le avevano fatto pagare le sue origini tedesche. Sempre a proposito della gente di qualità proposta dalla sinistra al governo del Paese. Ecco un attestato di “stima” postumo rilasciato da Massimo D’Alema ai suoi compagni di esperienza: «Governavo con una compagine composta da squilibrati degni di attenzione psichiatrica che mi chiedevano di uscire dalla Nato e di dichiarare guerra agli Stati Uniti».

In effetti Baffino aveva una ministra degli Affari Regionali esperta di kick boxing (Katia Bellillo), un ministro della Giustizia che accoglieva il leader del Pkk Ocalan a Ciampino garantendogli la latitanza in un villone all’Infernetto (Oliviero Diliberto) e una ministra delle Pari Opportunità (Laura Balbo) alla quale Massimo non rivolse mai la parola: «Ma che gli ho fatto a st’ignorante che manco mi saluta?».

E chi si ricorda che Angelo Giorgianni, il giudice no vax che ha chiesto una «Norimberga» per Speranza e compagnia, era uno di loro? Proprio così: al ministero dell’Interno all’epoca dell’Ulivo. Guai poi a dimenticare Tonino Di Pietro. Voleva fare il ministro della Giustizia nel governo Prodi. Poi quelli dell’allora Ds gli spiegarono che non era cosa: «Meglio di no, poi va a finire che funziona...».

Un altro genio, l’ultimo, è Claudio Burlando. L’ex ministro dei Trasporti (nel primo governo del Professore) fu beccato qualche anno dopo mentre guidava contromano. Sulla superstrada. Gli agenti della stradale lo salvarono dagli automobilisti che volevano linciarlo. Poi, tirando fuori il tesserino della Camera (oltretutto scaduto), riuscì anche a evitare la multa...

DELIBERARE SENZA CONOSCERE. La Consulta perdona i parlamentari che non sanno quello che votano. DANIELE MARTINI su Il Domani il 20 giugno 2022

Costretti a deliberare su un atto che non potevano conoscere perché secretato, alcuni parlamentari hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale. Con un’ordinanza la Consulta ha stabilito a sorpresa che non è necessario che i parlamentari siano consapevoli di ciò che votano

Alla fine dell’estate di un anno fa Camera e Senato hanno approvato una norma che riguardava il passaggio da Alitalia a Ita Airways nella quale si faceva riferimento a decisioni della Commissione europea che erano state secretate dal governo.

Il senatore Gregorio De Falco, il deputato Stefano Fassina e altri hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale sostenendo che quel modo di procedere ha menomato il diritto di ogni singolo parlamentare di conoscere prima di deliberare.

La Corte costituzionale ha emesso un’ordinanza (redattore il giudice Filippo Patroni Griffi) in cui a sorpresa viene stabilito il principio che se il diritto di conoscere è leso, non è il singolo parlamentare che può ricorrere, ma solo l’assemblea.

DANIELE MARTINI. Ha lavorato 15 anni all’Unità e 23 a Panorama. Ha collaborato con Il Fatto Quotidiano. Ha scritto 5 libri: le biografie di Gianfranco Fini e Massimo D’Alema e tre inchieste sulla casta, le raccomandazioni e il nepotismo

 Maturità 2022, sapete quanto ha preso il premier Draghi? I voti dei politici da Bianchi a Meloni. Redazione Scuola su Il Corriere della Sera il 18 Giugno 2022.

I voti che non ti aspetti e i ricordi della maturità dei politici, da Draghi a Meloni, da Di Maio a Salvini. E la sorpresa Calenda.

Mario Draghi

Sul curriculum scolastico del premier Mario Draghi si sono scritti dei romanzi: il liceo classico dai gesuiti - il Massimiliano Massimo di Roma - dove in quegli anni studiavano anche Luigi Abete, Luca Cordero di Montezemolo, Giancarlo Magalli (qui la sua intervista pubblicata sul Corriere), la laurea alla Sapienza con Federico Caffè, il dottorato al Mit con il Nobel Modigliani. Il suo voto di maturità non l’ha ancora mai detto, ma si sa dalle testimonianze dei suoi compagni di classe che, pur non essendo il primo della classe, era molto bravo in latino e matematica e che dava il giusto peso allo studio. Non secchione ma bravo, pare. A vedere il suo curriculum successivo non c’è da dubitare del voto.

Patrizio Bianchi: 56/60

56/60: è con questo punteggio di fascia alta, anche se non con il massimo dei voti, che il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi fu congedato dal suo liceo scientifico alla Maturità. Lo ha raccontato lui stesso a Skuola.net: «In ginnastica sono andato sempre molto male, ma ero un grande appassionato di storia. Poi ho fatto scienze politiche e in seguito economia». Bianchi è stato a lungo docente universitario di Economia e poi anche rettore dell’Università di Ferrara dal 2004 al 2010 e successivamente per dieci anni assessore all’Istruzione della Regione Emilia Romagna. Prima di essere scelto da Draghi come ministro dell’Istruzione era stato a capo della task force per la ripartenza delle scuole voluta dal governo Conte. «Durante l’estate della maturità con i miei amici abbiamo fatto moltissime cose, tra cui attività di volontariato», ha raccontato Bianchi, che ha poi suggerito ai giovani di fare la stessa cosa perché «la bellezza della vita è donarsi agli altri». Il ministro ha anche suggerito ai ragazzi di «prendersi un momento per abbracciarsi e festeggiare con i propri compagni», finita la maturità.

Giuseppe Conte: 60/60

L’ex premier Giuseppe Conte ha studiato al liceo classico Pietro Giannone a San Marco in Lamis agli inizi degli anni Ottanta. Voto da secchione: 60/60. Professore ordinario di diritto privato, il 19 aprile scorso è tornato a fare lezione all’Università di Firenze dopo il lungo intervallo da presidente del Consiglio.

Giorgia Meloni, media del 9 ma 7 in condotta

La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni è insieme a Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana quel che resta dell’opposizione al governo Draghi. Che tipo di studentessa eri?, le hanno chiesto in un'intervista. «Da ultimo banco: 7 in condotta e media del 9», risponde sulla piattaforma Skuola.net. Meloni si è raccontata così: «Ero sicuramente una che andava bene a scuola ed ero già impegnata politicamente. Organizzavo parecchie proteste studentesche, tra l’altro a destra e quindi non ero proprio amatissima dai professori. Sapevo che non potevo permettermi di andare male». E infatti si è diplomata in lingue con 60/sessantesimi presso l’ex istituto tecnico professionale Amerigo Vespucci di Roma.

Matteo Salvini: 48/60

«Se potessi tornerei agli anni del Manzoni a Milano, con i miei italiano e latino allo scritto, greco e storia all’orale, e un 48 finale»: così l’ex ministro dell’Interno ed ex vicepremier Matteo Salvini . Anche Salvini, però, nei beati anni del liceo ha avuto qualche problema con la condotta: così ha raccontato, almeno, qualche tempo fa una sua ex compagna di scuola, Maria Luisa Godino, avvocato: «Aveva 7 in condotta – ha detto a Il Giornale -. Il voto in condotta, un piccolo neo, era dovuto al fatto che non le mandava a dire e spesso aveva qualcosa da ribattere anche agli insegnanti. Che se lo legavano al dito». Dopo il diploma di maturità, Salvini si iscrive al corso di laurea in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Milano, per poi passare a Scienze Storiche e fermandosi infine a cinque esami dalla laurea.

Roberto Fico, presidente della Camera: 40/60

«Ho preso 40 alla maturità. Ma al di la del voto, di cui poi fui contento, la cosa importante di quell’esame è che è la struttura di quello che vuoi fare nella vita.». Lo confessa il presidente della Camera Roberto Fico in un’intervista a Skuola.net, in cui ricorda la sua notte prima degli esami di maturità. «Ero a casa, in camera mia con il mio migliore amico, e parlavamo dell’esame. Quella notte facemmo la `cartucciera´, con tutta una serie di temi. Ma non la usammo. Fu un gesto per sentirci più sicuri». E qui un consiglio ai maturandi: «Non bisogna copiare niente ma scrivere quello che si ha dentro».

Luigi Di Maio: 100/100

Ecco il racconto che il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha fatto della sua maturità: «Ho sostenuto l’esame nel 2004, con un anno di anticipo rispetto ai canonici 18 anni, e portai una tesina sulla Scelta nella Storia, ovvero le grandi “sliding doors” che hanno spostato il normale corso degli eventi. L’elaborato scritto era, invece, un tema sull’Europa, sui suoi valori, mi pare di ricordare. La notte prima degli esami l’ho passata studiando. Ci tenevo troppo per andare a divertirmi. E la mattina dopo lo dimostrai: mi presentai all’esame, unico del Liceo Vittorio Imbriani di Pomigliano, con la giacca. Sotto portavo una semplice t-shirt, ma volevo riconoscere il massimo dell’importanza a quell’appuntamento. Ai professori che mi chiesero spiegazione per quel look risposi così: è per dare autorevolezza a questa occasione. I professori mostrarono di apprezzare: In realtà il commissario interno mi prese in giro. Mi disse che non mi avevano voluto dare 100/100 perché si erano sentiti oltraggiati dal mio comportamento. Io mi inalberai, ma il professore scoppiò a ridere e mi disse che era solo uno scherzo”. E 100/100 fu.

Carlo Calenda bocciato al Mamiani

I trascorsi scolastici dei politici sono spesso oggetto di polemiche infuocate nelle cronache. Tempo fa su Twitter si è scatenato un acceso dibattito in seguito a un post dello scrittore Christian Raimo che se la prendeva con il candidato sindaco di Roma Carlo Calenda per il suo passato scolastico assai poco brillante, accusandolo di essersi «comprato la promozione in un esamificio». L’ex ministro dello Sviluppo economico, che non ha mai fatto mistero dei suoi travagliati anni di scuola, si è risentito solo perché Raimo ha tirato in mezzo pure i suoi figli in quanto iscritti a una scuola privata. Durante la trasmissione radiofonica Un giorno da pecora, Calenda aveva raccontato: «Al Liceo Mamiani ho avuto prima due materie, poi quattro e poi sono stato bocciato in prima liceo. Contemporaneamente, in prima liceo, ho anche avuto una figlia e sono stato sbattuto fuori casa». Calenda si è poi laureato in Giurisprudenza alla Sapienza.

Gaetano Manfredi: 60/60

L’ex ministro dell’Università Gaetano Manfredi, già rettore dell’Ateneo napoletano Federico II, ha frequentato il liceo classico Carducci di Nola dove si è diplomato con 60/60 prima di iscriversi a ingegneria. Attualmente è candidato sindaco di Napoli (sostenuto da PD-Leu -M5).

Lucia Azzolina: 100/100 e menzione (e due lauree)

L’ex ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, 38 anni, ha frequentato il liceo scientifico Leonardo Da Vinci di Floridia (Siracusa) sua città natale dove si è diplomata con 100/100 e menzione d’onore. Ha due lauree, in Filosofia e Giurisprudenza. Ha insegnato storia e filosofia nei licei di Sarzana e La Spezia e successivamente a Biella, nel 2019 ha superato il concorso per dirigente scolastico ma non è mai stata preside perché nel frattempo era già stata eletta alla Camera con il M5S.

Virginia Raggi: 55/60

La sindaca di Roma Virginia Raggi ha superato l’esame di maturità nel 1997. Aveva frequentato il liceo scientifico Newton a Roma e il suo voto è stato 55/60.

·        I voltagabbana.

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 30 luglio 2022.

Più centrista - tendenza democristiana - di Clemente Mastella, in natura, è difficile trovarlo. Torna di moda il simulacro del bel Centro che fu; e l'affollamento odierno, da quei territori storici della politica, richiede oggi apposita disamina. 

Caro Mastella che differenze c'è fra questa tensione centripeta della politica e quella di voi democristiani invincibili, quelli dell'Ulivo, di Prodi premier?

«Be', non è come ai nostri tempi, quando facemmo la Margherita convogliando le varie anime rappresentative del centro: Marini i sindacati, Dini la tecnocrazia, Prodi il governo, io che ero io. Il dato aritmetico, allora, superò la realtà: in alcune regioni surclassammo addirittura i Ds. Ma non c'è onestamente paragone tra i leader di allora e quelli d'oggi, dai». 

Che, poi, se vogliamo farci una squadra di calcio, questo ipotetico "partito di Draghi" non ha troppe primedonne, Di Maio, Renzi, Carfagna, Tabacci, Calenda (e potrei continuare)?

«Ma ci sta. Discorso a parte vale per Calenda che fa il figo, che è l'unico a permettersi, ora, di respingere le avance di Di Maio, odi selezionare, schifiltoso, eventuali alleati al centro. E invece, sai, mi ricorda il ciclista Tano Belloni di Pizzighettone l'eterno secondo (anzi, a Roma terzo). Tra l'altro, Calenda accusa gli altri di voltagabbanismo. Con che faccia. 

Grazie a Monti, da quale poi si affrancherà, si ritrova vice-ministro dello Sviluppo Economico prima con Letta e poi con Renzi, si avvicina al Pd senza aderirvi; e incassa un incarico in Europa solitamente riservato ai diplomatici senza averne titolo; e poi torna al Mise stavolta da ministro con Renzi e poi con Gentiloni. Per non dire delle sulle numerose vertenze irrisolte nel corso del suo dicastero (Alitalia, Fincantieri, Almaviva, Ilva). Ora si permette pure di dettare l'agenda, e di fare il selettivo con tutti ma in Puglia e in Campania, per dire, ha preso meno di me e di De Luca; e i suoi candidati passano sempre più spesso con altri avversari da Catanzaro, mi pare, Carrara...». 

Ok. Per lei i simpatici sono diversi da Calenda. Però non è che Di Maio, con la sua espressione intonata alla grisaglia sprizzi empatia...

«L'operazione Di Maio va bene, per carità. Di Maio che, da 5Stelle ha conosciuto, direbbero i poeti romantici, tutti gli "infiniti abissi" del Movimento, oggi può davvero traghettare la parte "sana" del M5S verso un governo responsabile. D'altronde, se rimaneva lì, parliamoci chiaro, era allo sbando. Non ho capito se Grillo è andato a votare a Genova (mi pare di no) ma comunque nella sua città ha preso il 5%. Se io prendo il 5% a Benevento, vado in piazza Roma e mi do fuoco». 

Cioè mi sta dicendo che la ricerca del Centro vero è irraggiungibile?

«Non esageriamo. Sto dicendo che la realtà è che, se sei centro, hai solo due scelte.

O sfidi tutti e vai da solo; e questo non si può fare alla Camera, ma può essere una bella idea spiazzante al Senato. O diventi l'ago della bilancia, e entri nelle grandi manovre che contano. Io l'ho fatto nel 2006: senza di me non si faceva un cazzo. Ma per avere un'offerta diversa, qua urge una nuova Margherita, sennò non vinci». 

La Margherita non mi pare un'idea originalissima...

«Non sarà un'idea originalissima ma il Pd, pur avendo vinto le amministrative è in stallo. E il Pd non vince davvero un'elezione dal 2006. Quindi io metterei pure Enrico Letta nel mucchio. Da annetterlo, assolutamente; col tutto il suo campo largo deve allargare ancora di più si deve prendere tutti. Pure Mastella anche se gli sta suoi coglioni».

E Draghi, in tutto questo, che cosa fa? Si presta a benedire il progetto? Presidia la sua solitudine tecnica? Pensa a fare il suo dovere per andarsene a casa il prima possibile?

«Draghi ha la mia età, può scegliere serenamente. Può legittimamente riposarsi, per esempio. Oppure, come me, può rimanere in politica a mo' di servizio pubblico, come garanzia di uno Stato che funziona e diga contro il sovranismo...».

DAGONOTA il 29 giugno 2022.  

L’altra sera Massimo Cacciari è tornato ospite da “Otto e mezzo”. Dopo i numerosi attacchi al governo Draghi (accusato di essere il governo servo degli americani, del pensiero unico, feroce oppressore delle nostre libertà con il Green pass), il filosofo ha detto all’improvviso “noi staremmo peggio molto peggio se non ci fosse Draghi”. Lo ha detto la débâcle dei grillini alle amministrative e dopo la scissione dei Cinquestelle, con l’uscita di Luigi Di Maio. 

Negli ultimi cinque anni, senza mai dichiarare esplicitamente le sue preferenze politiche, il profeta d’Italia Cacciari ha tirato la volata ai governi gialloverde (Conte1), giallorosso (Conte-bis) e ancor prima con gli attacchi al governo Renzi ha contribuito all’affermazione dei pentastellati. Il giorno dopo la loro scissione, l’ex sindaco di Venezia non ha perso tempo: ha cambiato casacca ed è diventato filogovernativo. Gli intellettuali italiani non si smentiscono mai: tra la destra e la sinistra, scelgono sempre il centro-tavola.

Massimo Balsamo per ilgiornale.it il 29 giugno 2022.  

Fase rovente per la politica italiana, reduce dai ballottaggi delle comunali e pronta a vivere il lungo cammino verso le politiche del 2023. Gli schieramenti sembrano ormai delineati, ma Massimo Cacciari non è di questa opinione. Per il filosofo, intervenuto a Otto e mezzo, presto prenderà forma il partito di Mario Draghi.

“Dopo le ultime suggestive capriole politiche, Di Maio ha detto che chi destabilizza il governo Draghi perde le elezioni. È così?”, la domanda di Lilli Gruber all’ex sindaco di Venezia. Come sempre, la replica è tranchant: “Sono domande superflue. È del tutto evidente che nessuno metterà in crisi il governo Draghi. Si posizioneranno, ma nessuno metterà in crisi l’esecutivo. La cosa interessante è che con la rottura dei 5 Stelle si va delineando un’area possibile”. 

Il riferimento è al cosiddetto “partito di Draghi”: “Non parlo più di sinistra, di centro o di destra perché me ne vergogno, ma vedo un’area possibile con Di Maio, Partito Democratico, Renzi e Calenda”. Cacciari ha sottolineato che l’attuale primo ministro non si presenterà alle prossime elezioni, ma i partiti sopra citati si presenteranno in campagna elettorale promettendo di continuare la linea Draghi.

“Secondo me c’è anche qualche possibilità di successo, potrebbe essere molto attrattiva nei confronti dei componenti di centrodestra”, ha proseguito Cacciari, poi protagonista di un interessante botta e risposta con Marco Travaglio. Dopo le solite critiche del direttore del Fatto Quotidiano, il saggista ha speso parole di elogio per l’ex presidente della Bce: “Senza Draghi, noi staremmo dieci miliardi di volte peggio. Perché senza di lui, non saremmo riusciti a farci dare i soldini dall’Europa. Con Draghi lo spread è sotto controllo e forse ce la possiamo fare, con un altro governo saremmo quasi al default. Lui è l’unica persona in Italia di cui le potenze reali di questo mondo si fidano. Questa è la storia, il resto sono chiacchiere”.

Giada Oricchio per iltempo.it il 29 giugno 2022.  

Senza Mario Draghi, l’Italia sarebbe vicina al default. Ne è convinto Massimo Cacciari che replica a Marco Travaglio che aveva definito l’ex numero uno della Bce “il peggior presidente del Consiglio della storia”. Durante l'ultima puntata di "Otto e Mezzo", il talk show di LA7, martedì 28 giugno, il celebre filosofo ha detto di essere d’accordo con il direttore de Il Fatto Quotidiano sulla nascita di un centro conservatore che si ispira a Draghi per impedire a Giorgia Meloni, leader di FdI, di entrare a palazzo Chigi in caso di vittoria nelle urne, ma di non condividere il giudizio sull’incapacità del premier: “Senza Draghi noi non staremmo meglio, staremmo 10 miliardi di volte peggio. Senza di lui, l’Europa non ci avrebbe dato i soldini e bene o male ci sta parando dalle varie emergenze, prima la pandemia e poi la guerra. Con Draghi lo spread è ancora sotto controllo”.

Ma Travaglio con un sorriso di scettico compiacimento: “Ammazza lo spread è a 240, i puzzoni che c’erano prima glielo hanno lasciato a 90. E’ un governo che non ha fatto niente, nemmeno il tetto al prezzo del gas. Sulla guerra, poi, questo governo ha una posizione folle” e Cacciari: “Ma va, senza Draghi saremmo quasi al default, va bene? Questa è la vera forza di Draghi, è l’unica persona nel ceto politico italiano di cui le potenze reali si fidano. Il resto sono chiacchiere”.

Da ilfattoquotidiano.it il 29 giugno 2022.  

“Scissione di Di Maio dal M5s? È l’ultima cosa che deve preoccuparci. Sono fuochi di paglia, come lo è stato Renzi. Sono personaggi che nascono senza nessun fondamento culturale e senza nessuna storia che ne sostenga l’azione”. Così, ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, su Radio Cusano Campus, il filosofo Massimo Cacciari commenta la spaccatura nel M5s, aggiungendo: “Che i 5 Stelle fossero in caduta libera lo si era capito da tempo, era scritto nel loro genoma. Come poteva durare e funzionare un organismo che nasce senza nessuna strategia o idea, ma solo sull’onda di una protesta, seppure legittima e comprensibile?”.

E sottolinea: “In realtà, quello che drammaticamente dovrebbe preoccuparci è la crisi nera che si sta profilando e nella quale già ci siamo con caratteristiche completamente nuove. A questo dovrebbero interessarsi le residue intelligenze e le forze politiche di questo Paese. Siamo in una situazione di quasi recessione e se le forniture di gas russo andranno sotto il trend del 25%, noi saremo in totale recessione. 

Dovremmo cominciare ad affrontare questa crisi, che è particolarmente dura per noi, a differenza di altri Paesi come la Francia e la Germania – spiega – Abbiamo il debito pubblico più alto di tutti i Paesi avanzati, fatta eccezione per il Giappone. E questo debito sta diventando ingestibile. Qui bisogna fare politiche fiscali nuove, politiche aggressive contro l’impoverimento. Siamo un Paese in netta decadenza ed è ridicolo parlare di altro. Qui c’è un Paese che si sta avvitando in un processo di decadenza economica, politica, culturale, sociale“.

Critico il giudizio di Cacciari sul presidente del Consiglio: “Abbiamo ‘sto Draghi, ma per me è stato una grossa delusione. Ha gestito il covid continuando sulla linea massimalista e terroristica che ha certamente ha reso più difficile la ripresa. Adesso, per la guerra in Ucraina, è sdraiato sulle posizioni americane, tra l’altro in una situazione in cui ci stanno pesantemente sanzionando. La strategia di Draghi manca di equilibrio. Certamente il grande vantaggio di Draghi è dato dalla sua credibilità e dalla sua autorevolezza sul piano internazionale in un Paese con un grande debito pubblico. Ma sul piano squisitamente politico Draghi ogni giorno di più mostra di non avere alcuna autonomia. Non è Macron, ecco”.

Dura riflessione di Cacciari sulle prossime elezioni politiche: “Avremo un governo politico? Ne dubito tantissimo. Intanto, non cambiano la legge elettorale. Il centrosinistra che cosa aggrega? Tolto il Pd, chi c’è? Il nuovo partitino di Di Maio? Calenda? Renzi? E questo sarebbe il campo largo? Il centrodestra dovrebbe avere sicuramente numeri più consistenti, ma poi cosa succede? Non abbiamo ancora capito che non è realisticamente ipotizzabile un governo guidato da Salvini o da Meloni? 

Se vuoi governare un grande Paese dell’Occidente – puntualizza – devi avere forze politiche e personaggi che vanno bene alle grandi potenze internazionali, agli Usa. C’è poco da fare, è pure realismo. Se si mette come presidente del Consiglio Salvini o Meloni, vuol dire fare una crisi nel giro di sei mesi. O questo centrodestra si resetta tutto come si deve e Salvini e Meloni diventano leader europei a 360 gradi, smettendola di giocare ai nazionalisti e agli anti-immigrati, oppure non potranno mai governare”.

Finale staffilata del filosofo al Pd: “Ormai da 15-20 anni a questa parte, ha finito ogni spinta propulsiva sul piano delle riforme. Non ne parla neanche più, c’è una totale afasia sulle grandi riforme costituzionali o della pubblica amministrazione o della scuola. Quando va bene, il Pd fa battaglie sui diritti da Partito Radicale, cioè da partito che nella sua vita non ha mai preso più del 3%. 

E qual è il merito del Pd? – conclude – È quello di presentarsi al Paese dicendo: ‘Io, comunque, garantisco un governo. Io il governo lo faccio con chiunque, anche con Salvini o col M5s. Basta che sia un governo. Io sono quello che fa il governo’. Il Pd, cioè, è diventato un partito assolutamente conservatore. Quelli che lo votano sono coloro che hanno qualcosa da perdere se si va in un casino peggiore di quello in cui siamo. Sono cioè la borghesia, come si sarebbe detto una volta: quelli che hanno da perdere se il Paese va definitivamente a puttane”.

Il Bestiario, il Coerentino. Giovanni Zola il 26 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il Coerentino è un mitico animale con il corpo da comico, il cuore da segretario del PD e la testa da primo della classe che non ti passa i compiti. 

Il Coerentino è un mitico animale con il corpo da comico, il cuore da segretario del Pd e la testa da primo della classe che non ti passa i compiti. Praticamente non è né carne né pesce, tanto che gli scienziati, non sapendo come definirlo tra le specie animali, l’hanno collocato tra i “Rampantes Insapiens”, una sorta di arrampicatore sociale, ma senza le ventose.

Il verso del Coerentino è unico e molto riconoscibile. È un suono tra il ruggire e il belare, tanto che gli scienziati l’hanno chiamato “onestare”. Solo quando si trova in branco, gli animali di questa specie infatti cominciano a ripetere in coro: “Onestà, onestà”. In tal senso c’è grande diatriba tra gli studiosi che non hanno ancora compreso se tale richiamo sia rivolto alle altre specie o a sé stesso.

Il Coerentino è considerato uno scherzo della natura, non solo perché non azzecca un congiuntivo, ma perché non possedendo nessuna capacità, si è trovato ad occupare un importante ruolo nella piramide gerarchica del mondo animale, tanto che gli scienziati ritengono che abbia vinto senza merito il superenalotto darwiniano dell’evoluzione.

La leggenda narra che alle origini, il Coerentino era solito offrire beni di consumo in grandi raduni animali. Tale comportamento sembra sia stato fondamentale nella sua evoluzione e per il ruolo che ricopre in natura attualmente. Oggi infatti il Coerentino ha una sorta di funzione di “assaggiatore a sbafo” (o spazzino) del cibo quando si ritrova con i grandi animali Alpha di tutto mondo.

Ritroviamo il Nostro anche nel mondo classico. Cicerone cita il Coerentino, in una sua famosa orazione al Senato romano nella celebre frase: “Aperimus tibi sicut tuna cut”, “Vi apriremo come una scatoletta di tonno”, sottolineando però che il Coerentino, non possedendo il pollice opponibile, non fosse in grado di farlo.

Il Coerentino cambia pelle grazie ad una sorta di continua muta senza soluzione di continuità. Infatti sostituisce le sue squame così velocemente da passare da essere una preda ad essere un predatore in tempi eccezionalmente rapidi. Inoltre – come una sorta di Zelig animale - si identifica immediatamente nella nuova specie in cui si trasforma acquisendone i modi e i comportamenti. Per questo gli etologi sostengono che in natura il Coerentino abbia abolito la coerenza.

Un po’ come il Panda, il Coerentino è destinato ad auto estinguersi, ma nel suo caso nessun essere umano sembra avere intenzione di curarsene, anzi, molti lo sostengono nel suo intento.

Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 2 luglio 2022.

«Previste dichiarazioni di Di Maio in piazza del Parlamento». Ormai è diventato quasi un appuntamento fisso, all'ora dell'aperitivo. Ai giornalisti arriva un messaggio Whatsapp del portavoce del ministro degli Esteri per comunicare luogo e orario. Sempre in tempo per i tg della sera. Sempre in mezzo alla strada, al volo, di solito in zona Montecitorio, ieri fuori programma ad un angolo vicino alla Farnesina. 

Il ministro arriva, dichiara, se è ben disposto risponde a un paio di domande e se ne va. Toccata e fuga. Certo è che, da quando il ministro degli Esteri ha lasciato il Movimento 5 stelle e ha formato i suoi gruppi parlamentari, è diventato piuttosto loquace.

Serve dare visibilità alla sua creatura, Insieme per il futuro, ritagliarsi uno spazio nel dibattito e, soprattutto, tornare a mostrarsi come leader politico autonomo. Alterna lunghe analisi di geopolitica a professioni di fede in Mario Draghi. Ma, in fondo, il repertorio è sempre lo stesso: «Serve responsabilità e serietà», «è assurdo picconare il governo», «non inseguiamo i sondaggi, pensiamo agli italiani». I giornalisti, pazienti, registrano, con il sottofondo di macchine e motorini. Fino al prossimo incrocio.

Carlo Tarallo per “La Verità” il 2 luglio 2022.  

Grillini ed ex grillini sulle montagne russe (si può dire montagne russe?): in poche ore Giuseppe Conte sente al telefono Mario Draghi e i due fissano un incontro per lunedì pomeriggio, tra i grillini si allarga la frattura tra chi vuole passare all'opposizione e chi no, Luigi Di Maio dopo essersi schierato al fianco dei gilet gialli si accasa nel gruppo all'Europarlamento di Emmanuel Macron, e come se non bastasse Beppe Grillo pubblica un post in cui attacca i traditori e il caos cresce a dismisura: «Ce l'ha con Conte o con Di Maio?».

Probabilmente con tutti e due, o forse con sé stesso, perché in fondo il primo ad aver «tradito» la missione originaria del M5s è proprio Beppe, che ha indossato i panni di difensore a spada tratta di Draghi e della stabilità del governo. 

La giornata di ieri è l'ennesima serie di saliscendi da montagne russe. Il Foglio pubblica la notizia che Di Maio ha incontrato Macron e che l'accordo sarebbe cosa fatta: le due europarlamentari scissioniste di Insieme per il futuro, Daniela Rondinelli e Chiara Maria Gemma, entreranno a far parte del gruppo centrista, iper europeista Renew Europe, fondato da Macron, del quale fanno parte i renziani, i calendiani e Sandro Gozi, ex deputato del Pd, poi passato a Italia viva, eletto in Francia per La Rèpublique En Marche, il partito del presidente francese. 

Di Maio nel partito di Macron: sembra incredibile eppure è vero, alla Verità arriva la conferma che la discussione è in corso, pur ancora allo stato embrionale. 

Tre anni fa, non tre secoli fa, lo stesso Di Maio si entusiasmava per i gilet gialli, movimento francese di protesta radicale, che diede vita, tra il 2018 e il 2019, a disordini di piazza gravissimi, ça va sans dire contro Macron, con tanto di scontri con la polizia, arresti, morti e feriti. 

Nel febbraio 2019, in piena tempesta, Di Maio insieme ad Alessandro Di Battista incontrò a Montargis, cittadina a Sud di Parigi, il leader dei rivoltosi francesi, Christophe Chalençon: la foto, a rivederla oggi, non può non fare effetto, anche se lo stesso Di Maio, pochi mesi fa, riflettendo su quella posizione politica ha fatto pubblica ammenda: «Non ho nessun problema a mettere nero su bianco i miei errori del passato».

Dagli errori agli orrori, è diventata una commedia più nauseante che divertente quella che ruota intorno all'ipotesi di un'uscita del M5s dal governo. «Dopo i recenti fatti, primo tra tutti il comportamento ambiguo del premier Draghi sulle proprie dichiarazioni in merito a Conte», scrive su Facebook il senatore grillino Alberto Airola, «la frustrazione e l'insofferenza dei nostri elettori per un governo che smantella sistematicamente i nostri obiettivi politici, nel mio ruolo di portavoce, non posso che rappresentare con forza l'istanza di uscita da questo governo, voluta fortemente dal nostro popolo. Le fragole sono marce».

Airola fa il verso a Grillo, che il 6 febbraio 2021, annunciando il sostegno del M5s al governo Draghi, scrisse un post con la frase: «Le fragole sono mature.

Le fragole sono mature». 

Bel clima, quello che si respira tra i «non grillini», come li chiamerebbe oggi Beppe, che sempre ieri pubblica un post contro «i traditori che si sentono eroi», post letto da molti come riferito a Di Maio, ma che con gli scontri che ci sono stati negli ultimi giorni tra lui e Conte si presta a mille interpretazioni. Giuseppi, intanto, sente al telefono Mario Draghi, i due si vedranno lunedì a Palazzo Chigi: la telefonata viene descritta alla Verità da fonti vicine al leader del M5s come «molto rapida, ogni tipo di discorso è stato rinviato all'incontro».

«Ne parliamo lunedì», commenta lo stesso Conte ai cronisti che gli chiedono come sia ora il suo rapporto con il premier, dopo l'incidente della presunta richiesta da parte di Draghi a Grillo di rimuovere l'ex premier dalla guida dei pentastellati. Richiesta smentita, per quel che può contare una smentita in politica, dal presidente del Consiglio, ma confermata dallo stesso Giuseppi. 

Si sente talmente accerchiato, l'ex premier ciuffato, da sperare in una legge proporzionale, come dichiara lui stesso partecipando a un evento della Cgil, mentre il M5s incassa un altro schiaffone sul reddito di cittadinanza, con l'approvazione dell'emendamento che prevede che anche il rifiuto di un'offerta di lavoro congrua a chiamata diretta da parte di un privato rientrerà nel calcolo dei rifiuti che possono costare la perdita del sussidio.

La saga del M5s che non è di lotta e di governo, in quanto non riesce né a lottare né a governare, raggiunge vette di straordinaria e involontaria comicità con le dichiarazioni di Fabiana Dadone, ministro M5s alle Politiche giovanili, che a Sky Tg24 dice: «Credo che la permanenza nel governo sia la scelta giusta». Ovviamente la scelta giusta per lei, che dovrebbe scollarsi dalla poltrona.

Tutte le volte in cui Luigi Di Maio se l’è presa con i voltagabbana e ha chiesto il vincolo di mandato in Costituzione. Erano due campagne e battaglie storiche del Movimento 5 Stelle, su cui il ministro degli Esteri ha messo spesso la faccia. E invece alla fine ha cambiato partito. Mauro Munafò su L'Espresso il 22 Giugno 2022.

«Basta voltagabbana in Parlamento», «Questa è la legislatura con il maggior numero di cambi di casacca: introduciamo un sistema di vincolo di mandato per i parlamentari», «Il vincolo di mandato è sacrosanto per chi vuole fare politica onestamente. I partiti sono terrorizzati».

Parola di Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri eletto con il Movimento 5 Stelle che ieri ha annunciato il suo addio ai pentastellati e la creazione di un nuovo gruppo parlamentare. Entrambe operazioni che, se nella nostra Costituzione ci fosse davvero finito il vincolo di mandato, lo avrebbero costretto alle dimissioni.

E invece, per fortuna di Di Maio, le sue battaglie storiche sono finite in una nulla di fatto. Così oggi, anno 2022, può tranquillamente lasciare i 5 Stelle per creare “Insieme per il futuro” e puntare ad avere ancora peso nel governo e alle prossime elezioni. Certo, ne è passato di tempo da quando i grillini nei primi anni combattevano contro i cambi di casacca o gli addii al gruppo Parlamentare. Si erano inventati qualunque trucco, ovviamente senza alcun successo: pressioni sui social, improbabili multe da centinaia di migliaia di euro, regolamenti di dubbio valore legale. Ma niente, il “vincolo” per punire gli infedeli non ha mai funzionato e negli anni la diaspora stellata ha alimentato tanti altri partiti e partitelli con i suoi mille rivoli.

Eppure basta mettere in fila tutte le volte in cui Di Maio ha urlato contro i cambi in Parlamento per fare un tuffo nel passato prossimo della politica. Prima di lanciarsi, insieme, per il futuro.

«Attaccato alla poltrona, al mega stipendio e al potere». Cosa avrebbe detto il Luigi Di Maio del 2017 a quello di oggi. L'Espresso il 22 Giugno 2022.

In un video del gennaio 2017 contro i voltagabbana e a favore dell’inserimento del vincolo di mandato in Costituzione, Di Maio attaccava con parole durissime chi cambia partito e non si dimette.

Riproponiamo qui il testo dell’intervento di Luigi Di Maio, senza modifiche redazionali, in seguito all’uscita dell’oggi ministro degli Esteri dal Movimento 5 Stelle, nonostante anni di battaglie contro i cambi di casacca.

In Italia, oltre ai furbetti del cartellino abbiamo i voltagabbana del Parlamento dal 2013 ad oggi ci sono stati 388 cambi di partito alcuni parlamentari, hanno cambiato partito anche 6 volte negli ultimi quattro anni. La terza forza politica del Senato e della Camera pensate è il gruppo misto. Solo alla Camera, siamo partiti all'inizio della legislatura con meno di 10 gruppi ed oggi siamo a oltre 18 e la maggior parte di questi non era neanche sulla scheda elettorale nel 2013. Un vero e proprio mercato delle vacche che va fermato.

Per il MoVimento 5 Stelle, se uno vuole andare in un partito diverso da quello votato dagli elettori si dimette e lascia il posto a un altro come accade ad esempio in Portogallo, ma anche per consuetudine nella civilissima Gran Bretagna. In Italia invece se ne fregano: una volta che sono in Parlamento gli elettori non contano più nulla, quello che conta è la poltrona, il mega stipendio e il desiderio di potere. Molti governi si sono tenuti in piedi e hanno fatto approvare le peggiori leggi proprio grazie ai voltagabbana. Da Monti a Letta a Renzi fino a Gentiloni, le leggi più vergognose della storia della Repubblica si sono votate grazie ai traditori del mandato elettorale: pensate a Fornero, al Jobs Act, alla buona scuola.

Il MoVimento 5 Stelle per evitare tutto questo vuole che si rispetti il voto dei cittadini. Noi abbiamo applicato su di noi una regola chiara, senza aspettare un obbligo di legge. Chi non vuole più stare nel Movimento va a casa. Se non lo fa tradisce gli elettori causa un danno e quindi deve essere risarcito il movimento. È semplice, chiamatelo come volete: vincolo di mandato, serietà istituzionale, rispetto della volontà popolare.

A nessuno è negato il diritto di cambiare idea, ma se lo fai torni a casa e ti fai rileggere. Come al solito il Movimento 5 Stelle non ha aspettato una legge per cambiare il modo di fare politica. Anche i partiti facciano come noi. Ciao a tutti.

Quando Di Maio attaccava i voltagabbana del parlamento: «Mercato delle vacche». VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 22 giugno 2022

Era il 2017, e per il ministro degli Esteri cambiare casacca era un «mercato delle vacche» e una scelta per cui bisognava «risarcire il Movimento». E aggiungeva: «A nessuno è negato il diritto di cambiare idea, ma se lo fai torni a casa»

I social non dimenticano, una verità che vale sempre per tutti: «Chi non vuole stare nel Movimento va a casa» e «deve essere risarcito il Movimento» diceva Luigi Di Maio nel 2017, e adesso che se ne è andato lui gira sui social il video di Di Maio che se la prendeva con forza contro i voltagabbana del parlamento: «Così come abbiamo i furbetti del cartellino abbiamo i voltagabbana del parlamento». E aggiungeva «a nessuno è negato il diritto di cambiare idea, ma se lo fai torni a casa».

LA MOSSA DEL MINISTRO

Il ministro degli Esteri ieri ha annunciato che lascerà il Movimento 5 stelle per creare la nuova compagine parlamentare “Insieme per il futuro” portando via con sé una cinquantina di parlamentari, in queste ore si discute sulla formazione dei nuovi gruppi. Cinque anni fa per Di Maio non solo era inaccettabile, era proprio «un mercato delle vacche». E «se uno vuole lasciare il Movimento si dimette e lascia il posto a un altro». E dettagliava. Oltre ai cambi di casacca, non sopportava nello specifico nemmeno le nuove formazioni: «Non erano nemmeno sulla scheda elettorale».

Il video è stato postato dall’account “Confindustria parody” ricevendo oltre un migliaio di like e centinaia di commenti. «Un autodescrizione lucidissima», scrive un utente.

E ancora: «Condividiamo questo post tutti i santi giorni, fa troppo schifo quello che ha fatto»

SALVINI E GIARRUSSO

La posizione di Di Maio non sembrava essere cambiata fino a poco tempo fa. Da capo politico nel 2019 se la prendeva ancora una volta contro il «mercato delle vacche» avviato da Matteo Salvini, al cui confronto, dice, Silvio Berlusconi pare quasi «un pivello». Nei confronti degli «Scilipoti» della nuova stagione politica mostrava indignazione e rabbia.

Fino a poche settimane fa non lasciava presagire di essere pronto alla rottura, anche se le sue parole erano più sfumate. Quando Dino Giarrusso, esponente del Movimento 5 stelle siciliano, ha deciso di abbandonare il Movimento criticando la nuova organizzazione Conte, il ministro Di Maio non se la prendeva con le sue critiche ma commentava: «Io penso che se c'è qualcosa su cui non siamo d’accordo sul movimento,  in generale lo dico, se qualcuno non è d’accordo può restare nel movimento e portare avanti le sue idee». Chi se ne va «sostanzialmente non cambia niente nel Movimento 5 stelle» commentava. Alla fine, ha lasciato anche lui.  

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Federico Capurso per “la Stampa” il 21 giugno 2022. 

Quando Luigi Di Maio ha sentito che persino Roberto Fico, il compagno di battaglie di una vita, lo stava attaccando frontalmente descrivendolo come un «mistificatore», gli è stato chiaro che la sua storia con il Movimento 5 stelle era davvero finita.

Pochi minuti dopo l'uscita di Fico, i parlamentari rimasti fedeli a Di Maio lo martellano di messaggi: «Non si può più restare dentro a questo Movimento». Di Maio li invita alla calma. Si deve procedere un passo alla volta: «Prima votiamo la risoluzione che metta al sicuro il governo». E poi? «Poi arriverà il momento della riflessione». 

La risposta suona come un addio. Sanno tutti che non ha bisogno di altro tempo per pensarci su. Deve solo prendere coraggio e fare il passo decisivo. Forse, già stasera.

Sulle pagine social del ministro degli Esteri non c'è più alcuna traccia della sua appartenenza ai Cinque stelle.

Anche per questo Giuseppe Conte è convinto che il suo acerrimo nemico «abbandonerà entro la fine della settimana». Tra chi lo seguirà potrebbero esserci nomi pesanti, come quella della vice ministra dell'Economia Laura Castelli, del presidente della commissione Ue Sergio Battelli o della sottosegretaria per il Sud Dalila Nesci. 

E se un pezzo della squadra di governo M5S verrà spolpata, Conte chiederà un rimpasto? I parlamentari vicini al ministro degli Esteri si mostrano sereni: «Non succederà nulla», assicurano. La leadership di Conte, ai loro occhi, è già troppo debole. Sono convinti che dovrà preoccuparsi di tenere unito quel che resta del partito e di tenere a bada Beppe Grillo, che giovedì sarà a Roma e - come anticipato da La Stampa - è furioso con Conte e con i suoi vicepresidenti: «Se andiamo avanti così ci biodegradiamo in tempo record», ha detto ad alcuni parlamentari. Per il Garante, infatti, Di Maio andava ignorato e non attaccato: «È stato un errore tattico e comunicativo gigantesco». 

L'ultimo segnale della debolezza interna di Conte arriva proprio dal Consiglio nazionale, che doveva essere il suo fortino e il simbolo di un Movimento che si muove compatto contro il titolare della Farnesina. Ieri mattina, invece, il Consiglio pubblica dopo una riunione fiume una nota per stigmatizzare le parole di Di Maio: «Esternazioni inveritiere e irrispettose, suscettibili di gettare grave discredito», si legge. 

I parlamentari dimaiani la prendono con ironia: «Conte vuole tornare alla vecchia radicalità grillina, ma con questo linguaggio torna all'Ottocento». Sorridono, si aspettavano qualcosa di più violento. Soprattutto alla luce dei toni aggressivi usati dai vice di Conte negli ultimi giorni. Nel corso del Consiglio, anche il collega di governo Stefano Patuanelli aveva sferzato Di Maio con rabbia: «Non ci rappresenta più».

E ancora: «Ho l'impressione di essere stato catapultato nel nostro passato, tra i gilet gialli, posizioni filo Putin e la vendita dei nostri porti ai cinesi. Ma ad accusarci c'è il ministro degli Esteri di oggi, non il nostro capo politico di ieri, che sosteneva quelle posizioni». 

Tutta la cerchia di pretoriani di Conte picchia duro, ma il comunicato finale del Consiglio è senza spine. «Perché c'è stata una mediazione», racconta un partecipante al Consiglio. Chiara Appendino, Lucia Azzolina, Tiziana Beghin, Davide Crippa, Alfonso Bonafede: hanno tutti chiesto di abbassare i toni. Crippa, da capogruppo alla Camera, è sbottato contro i vertici del partito: «Diteci se volete uscire dal governo».

Anche Bonafede non sembra più così convinto che la direzione presa da Conte sia quella giusta. Non gli è piaciuto - raccontano - come ha gestito la nomina dei coordinatori regionali. Neanche un uomo in quota Di Maio. Si dice che proprio in quel momento il ministro degli Esteri abbia capito che non avrebbe avuto alcuno spazio in lista per i suoi alle prossime elezioni e che sarebbe stato meglio abbandonare la nave. Se poi sul limite dei due mandati arriveranno delle deroghe ad hoc per salvare i big, come vorrebbe Conte, molti altri parlamentari che finora non si sono schierati fanno già sapere che lasceranno il Movimento.

Daniele Dell’Orco per ilgiornale.it il 21 giugno 2022.

Le giravolte di Luigi Di Maio sono diventate così tante che se n'è accorto anche Marco Travaglio. Il direttore del Fatto Quotidiano, da mesi critico nei confronti del Ministro degli Esteri specie dopo la caduta del secondo governo Conte, si chiede cosa ci faccia ancora Di Maio nel Movimento 5 Stelle. 

"Io non ho nessun titolo per rimproverare niente a nessuno, ma mi domando per quale motivo Luigi Di Maio si ostini a stare in un Movimento 5 stelle che non gli assomiglia più e al quale non assomiglia assolutamente più", ha detto a Otto e Mezzo su La7.

L'invito di Travaglio, insomma, è quello di non aspettare che i vertici del Movimento lo mandino via, ma a fare direttamente le valigie. Dopo che il Consiglio Nazionale straordinario di due giorni fa ha di fatto congelato la posizione del Ministro senza espellerlo definitivamente ( il che provocherebbe una scissione), l’ex capo politico è ormai in un limbo, contrapposto al presidente Giuseppe Conte formalmente sulla scelta di approvare l'invio di armi all'Ucraina, ma di fatto sull'idea stessa della direzione che il Movimento dovrebbe intraprendere. Finché esisterà, visto che come dimostrano i risultati elettorali è ridotto ai minimi termini.

Di Maio sembra aver fiutato la brutta aria che tira intorno al progetto grillino, ed è sempre più proiettato verso la vicinanza a quel Palazzo che una volta diceva di voler combattere. Per questo, Travaglio lo sprona ad inseguire la sua "nuova" natura: "Di Maio da mesi ha preso un’altra strada che è quella di Draghi che lo rende molto vicino ai draghiani, a Giorgetti a Forza Italia e a Italia Viva se non fosse per l’incompatibilità personale con Renzi", e ancora "Di Maio è completamente diverso dal Di Maio leader del Movimento 5 stelle o ministro dei governi Conte, ha preso un’altra strada e mi domando per quale motivo si ostini a stare in un posto dove si trova a disagio e mette a disagio i suoi compagni di ventura", come successo con le consultazioni per il Quirinale.

Immancabile, poi, il riferimento alle piroette dell'ex politico anti-sistema contro la Nato, contro l'Ue e contro l'Occidente a trazione americana. Piroette di cui Travaglio si è reso conto forse con colpevole ritardo: "Ha preso un documento apocrifo per dipingere il suo movimento il suo leader, che lui stesso ha contribuito a far diventare leader, per accusarli di essere contro la Nato e contro l’Ue.

Purtroppo è Di Maio che nel suo passato ha delle dichiarazioni in cui diceva che bisognava superare la Nato e fare un referendum per uscire dall’Euro, non mi risulta che Conte abbia mai detto queste cose". 

La domanda finale di Travaglio, allora, ha un sapore pressoché retorico: "Di Maio che cosa avrebbe fatto di Di Maio se fosse ancora il capo politico del Movimento? L’avrebbe cacciato a pedate come ha cacciato a pedate un sacco di altra gente per molto meno".

Da Fini a Bersani, le scissioni infauste finite nel nulla. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 22 Giugno 2022.  

Il nuovo gruppo di Di Maio, "Insieme per il futuro", non brilla per originalità evocativa. Per quanto insieme? E quale futuro attende gli scissionisti a cinquestelle?

Il gran generatore automatico di nomi e simboli che incessantemente rifornisce la decomposizione del sistema post-partitico all'italiana ha fatto dunque germogliare "Insieme per il futuro". Ma per quanto insieme? E quale futuro attende gli scissionisti guidati da Di Maio?

Di sicuro l'ultimissimo scisma a cinque stelle non brilla per originalità evocativa. Così, poche ore dopo l'annuncio Gabriele Maestri, costituzionalista e studioso di diritto dei partiti, ma soprattutto pontefice massimo e super erudito dell'odierna micropolitica, poteva già comunicare sul suo blog, "I simboli della discordia", che quella denominazione era già stata usata la bellezza di 50 volte negli ultimi quattro anni, per lo più in elezioni amministrative.

La maledizione del vincitore. Di Maio conferma la regola: da 15 anni il primo partito nelle urne poi va in pezzi in aula. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 23 Giugno 2022.

Dalla scissione finiana del 2010 a quella bersaniana del 2017, nelle ultime tre legislature non è mai accaduto che la forza più votata arrivasse tutta intera alle elezioni successive.

Generalmente in politica, come in ogni altra vicenda della vita, sono le vittorie a unire e le sconfitte a dividere. Eppure nella politica italiana, dal 2008 a oggi, capita sistematicamente il contrario: è il partito più votato a non arrivare intero alla fine della legislatura. Sono infatti quasi quindici anni che la formazione più votata nelle urne, arrivata a metà del percorso, entra in crisi e si spacca clamorosamente in aula, subendo una scissione organizzata o dal leader della precedente stagione (Luigi Di Maio contro Giuseppe Conte oggi, Pier Luigi Bersani contro Matteo Renzi nel 2017) o dal leader di uno dei due partiti fondatori del nuovo soggetto (Gianfranco Fini contro Silvio Berlusconi nel 2010), portandosi dietro decine di parlamentari, ministri e dirigenti storici. È la maledizione del vincitore.

Come si vede, non si tratta di scosse di assestamento, cambiamenti al margine, minime scalfitture, ma di vere e proprie crisi esistenziali, che chiamano in causa l’identità e la sopravvivenza stessa del partito: la scissione finiana del 2010 portò alla caduta dell’ultimo governo Berlusconi e fece passare il Partito delle libertà dal 37 per cento del 2008 al 21 per cento del 2013 (il partito di Fini, in compenso, totalizzò lo 0,4 e non entrò nemmeno in Parlamento); la scissione bersaniana del 2017 lasciò il Partito democratico di Renzi al minimo storico, dal 25 per cento del 2013 al 18 per cento del 2018 (la formazione di Bersani, in compenso, in parlamento riuscì a entrare, ma solo perché alleata di Sinistra italiana, già accreditata del 2 per cento, con cui superò di un soffio la soglia al 3); la scissione dimaiana dal movimento contiano vedremo quali effetti avrà – al voto non manca molto comunque – ma certo le prospettive elettorali non appaiono particolarmente rosee per nessuna delle due formazioni.

Vista all’interno di questa notevole serie storica, la scissione del Movimento 5 stelle assume quindi un valore diverso, come indicatore di un fenomeno più generale. Al di là delle cause e delle peculiarità della vicenda grillina, quello che emerge è un problema strutturale.

Mi domando se esista un altro paese al mondo in cui per quasi quindici anni di fila è il partito vincitore delle elezioni, non lo sconfitto, ad andare letteralmente in pezzi nel corso della legislatura. Mi domando, soprattutto, se esista una certificazione più lampante della crisi terminale di un sistema politico, e cosa debba ancora succedere perché i suoi protagonisti prendano atto che si tratta di un gioco in cui non può vincere nessuno.

Non ripeterò qui per l’ennesima volta la mia diagnosi (mi limito, per chi non fosse mai passato da queste parti, a ricordare la medicina: ritorno a un vero sistema proporzionale, senza coalizioni pre-elettorali, senza premi di maggioranza, senza nessuna costrizione bipolare). Quello che mi sembra maggiormente degno di nota, infatti, non è tanto la diversità di opinioni circa le ragioni della crisi o le eventuali terapie da adottare, quanto la rimozione del problema.

Ogni volta come se fosse la prima volta, i leader di partito dati per vincitori dai sondaggi, o anche soltanto per migliori sconfitti (tentati quindi dall’idea di poter lucrare una rendita di posizione dal voto utile e dal vincolo di coalizione, sia pure all’opposizione), si immolano in difesa dello «spirito del maggioritario» e del «bipolarismo». Mettono cioè essi stessi la testa sul ceppo, allegri come un bambino a Natale, nella convinzione che il signore incappucciato dietro di loro si appresti a metterci sopra una bella corona.

La domanda è: quante altre leadership dovranno rotolare nella polvere prima che l’ultimo arrivato mangi la foglia? Il bipolarismo all’italiana, con le sue parvenze plebiscitarie e la sua reale ingovernabilità, non è infatti, come credono loro, un palcoscenico per i sogni di gloria e le vanità dei leader. È un patibolo.

Tommaso Labate per il "Corriere della Sera" il 21 Febbraio 2022.  

«Si galleggia, si naviga a vista», sussurra Paolo Barelli di Forza Italia. La sua parigrado nel Pd, Debora Serracchiani, aggiunge che «no, non avevo idea di quanto fosse complicato fare questo lavoro in un momento del genere. Non ci crederete ma a volte, ai nostri deputati, siamo chiamati a dare anche un supporto psicologico...». 

Al tramonto della diciottesima legislatura - tre maggioranze, tre governi, due presidenti del Consiglio, il taglio dei parlamentari approvato, i rapporti di forza certificati dai sondaggi completamente sballati rispetto a quelli che c'erano dopo le elezioni del 2018 - succede l'imponderabile. 

Uno degli incarichi più ambiti in politica, il capogruppo alla Camera o al Senato, si trasforma all'improvviso in una specie di calvario umano, una tragedia vivente. Come vittime di un sortilegio simile alla «legge di Murphy» - se c'è qualcosa che può andar male, state tranquilli che lo farà - i vertici dei gruppi parlamentari della maggioranza si trovano in balia di una diabolica concatenazione di eventi: le pattuglie sono fuori controllo, i leader sono alle prese con dualismi interni, la cerniera col governo salta, il presidente del Consiglio si arrabbia, il nervosismo cresce.

«Non prevedo scissioni», commentava qualche giorno fa il presidente dei deputati Cinque Stelle Davide Crippa, che fatica tutti i giorni a tenere insieme un gruppo spaccato a tre tra contiani, dimaiani e «né l'uno né l'altro». La stessa identica atmosfera che si respira in casa Lega, dove Massimiliano Romeo (Senato) e Riccardo Molinari (Camera) lavorano per sopire la guerra fredda tra i custodi dell'ortodossia salviniana e gli eterodossi vicini alle posizioni di Giancarlo Giorgetti. Fatica tanta, soddisfazioni poche. «Io sono molto orgogliosa del lavoro che faccio», mette a verbale Serracchiani, presidente dei deputati del Pd.

«Anche se non mi aspettavo certo le difficoltà e la fatica di questo periodo. Sa perché in altri tempi questo lavoro era più facile? Per una questione di numeri. Quando hai maggioranza e opposizione che se la giocano volta per volta e voto per voto, richiamare tutti al lavoro di Aula e ai voti è semplice. Adesso, con tutti questi parlamentari di vantaggio, i rischi e i problemi si moltiplicano perché qualcuno magari pensa "tanto abbiamo centinaia di voti di vantaggio"». E lì si finisce nei guai, com' è capitato l'altro giorno alle quattro votazioni in cui il governo è finito sotto. 

Le chat di WhastApp, che fino a qualche tempo fa venivano considerare una specie di benedizione divina, perché raggiungere tutti e contemporaneamente era diventato finalmente possibile, hanno mostrato il loro lato oscuro. Barelli, capogruppo alla Camera di Forza Italia, partito in cui il dissenso si palesa quasi sempre nel ribollio dei servizi di messaggistica e nel rumore di fondo delle notifiche degli smartphone, ammette che «certo, adesso ci sono anche queste benedette chat da gestire, che sono croce e delizia. Facilitano il lavoro da un lato, lo complicano però dall'altro. Proviamo a usare questo scorcio di legislatura per aiutare il Paese in difficoltà, almeno non siamo distratti da quelli che un tempo si sarebbero accalcati alla ricerca di una ricandidatura».

Un tempo il cambio di casacca a fine mandato era l'anticamera di una ricandidatura, quantomeno agognata, sognata, sperata. Adesso, complice il taglio dei parlamentari, nessuno ha più di questi problemi. Tolto, ovviamente, l'unico partito sottodimensionato rispetto al 2018: Fratelli d'Italia.

Se paragonata con quella dei colleghi, la vita quotidiana del capogruppo Francesco Lollobrigida è quella di un pascià. «Il nostro è un gruppo unito, compatto, che lavora sodo. Non abbiamo fatto campagna acquisti selvaggia ma portato con noi pochissime persone, e solo dopo averne monitorato per mesi l'aderenza ai nostri valori». L'unico suo problema, si capisce, è il telefono che squilla. «Quanti sono entrati nei nostri gruppi rispetto alla richiesta? Diciamo il 20 per cento», scandisce. Poi torna a godersi il weekend, senza pensieri.

Claudio Bozza per il "Corriere della Sera" il 21 Febbraio 2022.  

Un freno al «trasformismo», che in questa legislatura ha raggiunto livelli molto alti: tra Camera e Senato è stato appena sfondato il muro dei 300 cambi di casacca (302 per la precisione). E a breve, dopo le limitazioni imposte a Palazzo Madama, anche a Montecitorio saranno approvate modifiche al regolamento (quello attuale risale addirittura al 1971) per contrastare il fenomeno. 

Dal marzo 2018, ben 143 deputati e 70 senatori hanno indossato un abito politico diverso da quello grazie al quale erano stati eletti: il recordman è il senatore sardo Gianni Marilotti, eletto con il M5S, che dopo un lungo peregrinare tra gruppo Misto, Autonomie, Europeisti è poi atterrato nel Pd totalizzando ben 5 cambi di casacca. Ci sono poi la deputata Maria Teresa Baldini (a quota 4), che partendo da Fratelli d'Italia è arrivata ad Italia viva (previ passaggi in Forza Italia e Coraggio Italia).

La performance di Baldini è eguagliata dal senatore Saverio De Bonis: eletto nel M5S, ora è con Berlusconi. Tre i partiti diversi, invece, per la deputata Michela Rostan, così come la senatrice ex fedelissima del Cavaliere Mariarosaria Rossi e il senatore «anti Schettino» Gregorio De Falco, fu colpaccio elettorale del Movimento. 

Tra dicembre e febbraio, con l'avvicinarsi del voto per il Colle, secondo un accurato report di Openpolis, il fenomeno trasformismo ha registrato una brusca accelerata, con 31 cambi di casacca. L'analisi, nel lungo periodo, evidenzia come M5S, Forza Italia e Pd siano le forze politiche più danneggiate dal fenomeno. Sebbene infatti tutti i gruppi parlamentari abbiano registrato movimenti sia in entrata che in uscita, questi tre partiti ad oggi sono gli unici che hanno visto una riduzione dei propri ranghi rispetto al 2018. Da notare che nelle ultime settimane queste 3 forze politiche hanno vissuto passaggi differenti. 

Rispetto all'ultimo aggiornamento del database di Openpolis, «il M5S si è ulteriormente ridotto di numero: sono infatti diventati 99 i deputati e i senatori che hanno lasciato i pentastellati (o sono stati espulsi) dall'inizio della legislatura mentre il Pd invece è rimasto stabile (35 parlamentari in meno rispetto a marzo 2018) e Forza Italia, pur rimanendo il secondo partito più colpito dagli abbandoni, ha recuperato 3 parlamentari». 

Un fenomeno che , dopo il record della precedente legislatura in cui si arrivò a 569 cambi di casacca, si conferma quindi allarmante in Parlamento. E ora sembra proprio giunto il momento di un giro di vite, con una proposta bipartisan firmata da Emanuele Fiano (Pd) e Simone Baldelli (FI). I deterrenti in sintesi: chi cambia la casacca perde gli incarichi. Cambierà, inoltre, la ripartizione dei finanziamenti dei gruppi parlamentari.

Claudio Bozza per il "Corriere della Sera" il 22 febbraio 2022. 

Eletto con il M5S, passato al gruppo Misto, poi alle Autonomie, agli Europeisti, di nuovo al Misto e infine al Pd. Senatore Gianni Marilotti, a 68 anni è finito nel guinness con cinque cambi di partito da inizio legislatura: non è che ha un po' esagerato?

«Indubbiamente sì. Sono stato anche un po' ingenuo. Mi hanno eletto all'uninominale nel collegio Sardegna Sud. Io sono da sempre un uomo di centrosinistra. Sono uscito in amicizia dai Cinque Stelle, però diciamo che ho solo anticipato le scelte che poi hanno fatto».

Lei è uno scrittore affermato (ha vinto pure il Premio Calvino, ndr), poi si è tuffato in politica. Non si è mai domandato…

«Chi me l'ha fatto fare? Sì: il Movimento mi aveva chiamato come esponente della società civile. Loro sapevano bene come la pensavo. Dopodiché ho dovuto ingoiare parecchi rospi. In cima alla lista ci sono i decreti Sicurezza e quello sulla legittima difesa, che dovetti votare pena l'espulsione. 

Poi per le elezioni regionali e amministrative obiettai che dovevamo allearci con i dem per non far vincere il centrodestra ovunque. Mi risposero che "ero un infiltrato del Pd". Così capii che era meglio cambiare aria». 

E da lì iniziò un lungo peregrinare. È pentito?

«Io ho sempre fatto politica nei movimenti, nella società civile: tutte battaglie per i diritti. Questa è la mia prima esperienza politica nelle istituzioni. Ebbene, spero (e penso) anche che sarà l'ultima. L'ho fatta perché tanti amici e persone che stimo mi avevano spinto a impegnarmi». 

Che partiti ha votato nell'arco della sua vita?

«Non sono iscritto al Pd, ma ho votato Partito di Unità Proletaria, Democrazia proletaria, Pds, Ds e Pd». 

Dove pensa di aver sbagliato?

 «Sarei dovuto passare subito al gruppo del Pd, come indipendente. Io non sono un voltagabbana. Io sono di centrosinistra: stiamo parlando di una legislatura in cui si è passato da gialloverdi a giallorossi. 

E ora c'è Draghi. Io li ho appoggiati tutti. Il primo sono stato costretto a sostenerlo, l'alleanza per il secondo governo è stata giusta, mentre la terza è stata per il bene dell'Italia». 

Uno di questi cinque cambi di casacca fu architettato per farle indossare i panni di «responsabile» e sostenere un ipotetico terzo governo Conte con un gruppo ad hoc

«Me lo chiesero insistentemente: io nemmeno ci credevo, specie vista la compagnia rabberciata. Figuriamoci se potevamo fare la quarta gamba del Conte ter».

Il segretario del Pd Enrico Letta, appena eletto si è scagliato contro quei continui «cambi di casacca» che «sono il segno di una democrazia malata». Cosa ne pensa?

«Che sì, la democrazia è malata, perché i partiti politici non esistono più. Il Pd è l'unico che resiste sul territorio, anche se tra tanti problemi». 

Lei ha cambiato molti gruppi, però risulta quasi sempre presente in Aula. È un dato particolare, vista la volatilità delle sue casacche, non crede?

«Ho fatto solo l'1,6% di assenze, lavoro molto». 

Qual è la battaglia chiave del suo mandato?

«Le desecretazioni. Io sostengo il diritto alla conoscenza, in Italia e nel mondo. Mi sto impegnando molto sul caso Assange e sul Moscow Memorial». 

·        La chimera della semplificazione nel paese statalista.

La parola chiave: Cos'è l'Anci. Il Quotidiano del Sud l'8 luglio 2022.

L’Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci) è un’associazione senza scopo di lucro, nata nel 1901. All’Anci aderiscono circa 7.300 comuni italiani che, nella loro globalità, rappresentano circa il 90% della popolazione.

All’Anci rispondono le Anci Regionali. Dal 12 ottobre 2016 presidente è Antonio Decaro. L’Anci svolge le seguenti funzioni: rappresenta gli interessi degli associati dinanzi agli organi centrali dello Stato (Parlamento, governo, regioni); promuove lo studio e l’approfondimento di problemi che interessano i suoi associati e di ogni materia riguardante la pubblica amministrazione; interviene con propri rappresentanti in ogni sede istituzionale in cui si discutano o si amministrino interessi delle autonomie locali; presta attività di consulenza ed assistenza agli associati direttamente o mediante partecipazione o convenzionamenti con società, relativamente alle competenze che la legge attribuisce al Parlamento e allo Stato nazionale; esamina i problemi che riguardano i dipendenti degli enti locali ed è presente nell’Agenzia Aran per la definizione del contratto nazionale di lavoro del comparto promuove iniziative per l’educazione civica dei cittadini e per diffondere la conoscenza delle istituzioni locali, nonché la partecipazione dei cittadini alla vita delle autonomie locali; Promuove e coordina le relazioni internazionali dei suoi associati e le loro attività nel campo della cooperazione internazionale decentrata.

Sinistra, destra, centro le illusioni fanno solo danni. Luciano Fontana il 6 Febbraio 2022 su Il Corriere della Sera.  

Caro direttore, non riesco a capire il significato di centrodestra e centrosinistra, se non nel tentativo di ingannare-illudere la gente. O si è destra o sinistra. E, poi, centro che vuol dire? O è carne o è pesce. Può essere carne-pesce o né carne né pesce? Vincenzo Barlotti

Caro signor Barlotti, In effetti è difficile capire quale sia esattamente il significato attuale di queste sigle. Ultimamente dal Movimento Cinque Stelle è arrivata l’idea di definire la loro possibile alleanza con il Pd «polo progressista», evidentemente perché la parola «sinistra» non va bene da quelle parti dove le ideologie del passato, e le loro interpretazioni politiche, erano il nemico da abbattere. Dopo il crollo dei partiti della Prima Repubblica i cartelli, le alleanze elettorali sono stati lo stratagemma per tenere insieme forze sempre più frammentate, spesso legate a esperienze personali. Le etichette destra-sinistra-centro erano un paravento per realizzare obiettivi dettati dalla legge elettorale maggioritaria. Tanti partiti e partitini sono transitati da una coalizione all’altra senza alcun problema. Penso che esista in politica una linea di divisione tra chi si definisce moderato-conservatore e chi riformatore progressista: due campi che hanno valori diversi, politiche sociali distinte e un’attitudine differente soprattutto sulle questioni economiche e sull’intervento pubblico. Mai però queste due correnti di pensiero sono state interpretate da una forza politica che abbia un’ambizione maggioritaria. La ventata populista ha poi spazzato via definitivamente le divisioni e gli orientamenti di un tempo. Se essere di centro vuol dire attenzione ai valori del realismo, della moderazione, del compromesso positivo allora questa identità dovrebbe essere fondamentale per qualsiasi schieramento politico. Illusioni e parole d’ordine estremiste portano solo danni. Il capo dello Stato, nel suo discorso d’insediamento dopo la rielezione, ha fornito un’agenda per il Paese e per il cambiamento dei partiti e delle coalizioni. Come dice Salvini queste ultime si «sono sciolte come neve al sole». Ricostruirle su basi fragili e su interessi legati solo al consenso non serve più a niente. Forse è il momento buono per cambiare davvero.

One In, One Out. La chimera della semplificazione in un Paese dominato dall’interventismo pubblico. Istituto Bruno Leoni su L'Inkiesta il 18 Gennaio 2022.

L’entropia normativa è tra le cause del declino italiano, ma nonostante le promesse ogni volta si fa poco e male. Eppure i dispositivi ci sono e anche le regole. Quello che manca, più che la collaborazione dei tecnici è la volontà dei politici. L’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni su Linkiesta.

Quando la crisi del Covid-19 si è abbattuta sul nostro paese, nel 2020, ci siamo trovati improvvisamente a corto di beni essenziali come le mascherine. Il governo ha fatto una cosa giusta: ha introdotto deroghe e semplificazioni temporanee in modo per accelerare la realizzazione di nuova capacità produttiva. Le semplificazioni rientrano da anni nel catalogo delle promesse elettorali. Non senza ragione: tutte le indagini internazionali mostrano che la scarsa qualità della pubblica amministrazione e l’entropia normativa sono tra le grandi cause del declino italiano. E della stessa opinione sono gli italiani stessi, non appena si trovano a dover fare i conti con permessi e burocrazia. Se le cose stanno così, perché alle parole e agli impegni non corrispondono i fatti?

Non c’è maggioranza che non abbia emanato i suoi provvedimenti con l’intenzione di semplificare ma, poi, tra atti attuativi che non arrivano e correzioni che complicano, i risultati si vedono raramente.

Uno degli ambiti nei quali la pratica della complicazione è più odiosa e visibile è la fase di recepimento delle direttive europee: sebbene esse abbiano l’obiettivo di ridurre le divergenze tra gli Stati membri, spesso ognuno ci mette del suo, talvolta anche ponendosi in contrasto col diritto dell’Unione, sovente con l’intenzione di usare gli arzigogoli burocratici per proteggere qualche rendita di posizione. In altri casi la complicazione ha radici ideologiche: pensiamo ai limiti italiani sui campi elettromagnetici, che oltre ad aumentare i costi delle imprese finiscono anche per rendere il mercato meno concorrenziale, come più volte denunciato dall’Antitrust.

La tendenza a inasprire i vincoli condivisi a livello europeo, aumentando così le divergenze tra i diversi mercati, è nota come gold plating. In teoria, nel nostro paese esiste dal 2005 un divieto che richiede di motivare questa pratica e la ammette solo se i maggiori oneri sono motivati da obiettivi specifici. Ma, in pratica, essa ha dato pochi risultati. D’altronde il gold plating è un fenomeno di rilevanza europea. Un rapporto del Lithuanian Free Market Institute – a cui ha partecipato anche l’Istituto Bruno Leoni – descrive quanto esso sia diffuso e quanti danni possa fare alle economie europee.

Come uscirne? Si possono individuare una serie di accorgimenti pratici, quali per esempio la previsione di eseguire sistematicamente analisi di impatto della regolazione ex ante ed ex post (già esistente nel nostro ordinamento, ma sistematicamente disattesa). Analogamente, andrebbe rispettato il principio “one in, one out”, in forza del quale prima di introdurre una nuova regola bisognerebbe abolirne almeno un’altra.

Ma in ultima analisi la sfida della semplificazione è politica prima e più che tecnica: sono i decisori politici a dover volere regole più semplici. Finché la politica inseguirà la chimera dell’interventismo pubblico come criterio per leggere il mondo, la semplificazione sarà semplicemente impossibile.

·        Il Voto.

IN VISTA DEL 25 SETTEMBRE. Perché si vota con la matita? Il Domani il 23 settembre 2022

Le matite copiative garantiscono la segretezza e la correttezza del voto. Ma di cosa sono composte? Come funzionano? E a quanto ammontano le multe per chi non riconsegna la matita ai membri del seggio?

Perché si vota con una matita? È una domanda molto comune che ricorre a ogni tornata elettorale, anche in quella del 25 settembre. In Italia la matita copiativa è l’unico strumento che viene consegnato insieme alle schede elettorali a ogni cittadino che si reca alle urne, indipendentemente dal tipo di elezione (amministrativa, europea, nazionale) o referendum.

CARATTERISTICHE

La matita copiativa a differenza di quella normale che è composta da sola grafite, ha dei coloranti e dei pigmenti che rendono il tratto indelebile e non cancellabile se non con l’abrasione. Si usano fin dal referendum fra monarchia e repubblica del 2 giugno 1946 e sono riconoscibili in quanto sul fusto presentano la scritta Ministero dell’Interno – Servizio Elettorale.

Il tratto della matita copiativa è visibile in controluce anche se è stato tracciato in maniera leggera. A differenza delle matite normali, il tratto svela ogni tentativo di cancellazione tramite solvente, lasciando macchie facilmente riconoscibili sulla scheda elettorale. Se si cancella il tratto di una matita copiativa utilizzando una gomma per cancellare, viene rimossa solo la componente in grafite del segno, lasciando visibili i pigmenti. Si tratta quindi di uno strumento molto sicuro e anti brogli elettorali. 

PERCHÉ NON SI USA LA PENNA?

In molti si chiedono come mai non si usa una normale penna biro dato che anche il tratto di questa non è cancellabile. Molto semplicemente per questioni di privacy: il segno marcato potrebbe essere individuato facilmente sul lato opposto al segno tracciato sulla scheda, minando la segretezza del voto.

FAKE NEWS

C’è chi è convinto che con una gomma si possa cancellare il voto e quindi manometterlo in un secondo momento. Niente di più falso. Le schede elettorali sono dotate di una superficie abrasiva che aiuta a rilevare subito ogni segno tracciato, anche senza grafite oppure inchiostro. 

CURIOSITÀ

Al termine del voto l’elettore deve restituire la matita copiativa ai membri del seggio in cui votano. Chi non riconsegna le matite rischia una sanzione pecuniaria che va da 103 a 309 euro.

In Italia il numero totale di matite copiative necessarie alle elezioni nazionali è di 380mila. Oguna delle 62mila sezioni elettorali deve avere almeno sei matite a disposizione dei votanti. Quest’anno il Viminale ha acquistato 130mila matite in vista delle elezioni del 25 settembre, le altre sono rimanenze delle altre elezioni.

Le campagne elettorali che hanno segnato la storia dell'Italia. Storia delle elezioni in Italia, dai voti controllati in parrocchia e osteria ai miracoli della Madonna: oggi regna l’indifferenza. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 2 Settembre 2022 

Giusto un secolo fa, il 16 novembre del 1922, si presentò a Montecitorio con la lista dei ministri, da poco eletto e appena incaricato da Vittorio Emanuele di fare il suo primo governo di larga coalizione. Voleva mostrare tutto il suo disprezzo per gli onorevoli colleghi che chiamò signori, per l’aula di Montecitorio che definì sorda e grigia, accennò ai suoi manipoli di sfegatati pronti a tutto, guardò in cagnesco chi lo applaudiva e subito partì una furiosa scazzottata tra fascisti e socialisti, sedata dai questori.

Tornata la calma, il futuro dittatore salutò con deferenza il re, e tutti gridarono “Viva il Re”. Quanto a lui, in redingote, calzoni neri, ghette bianche e il distintivo dei mutilati emetteva onde di disprezzo come un pentastellato d’antan. Quattro anni dopo, vista l’insistenza con cui le opposizioni disertavano l’aula per l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, pronunciò uno sprezzante discorso con cui inaugurava la dittatura. Vent’anni dopo, con le prime bombe su Roma fu cacciato dallo stesso re che lo aveva assunto e che fu a sua volta licenziato dagli italiani con le prime elezioni e con il referendum. Quelle elezioni, quel referendum e quel clima furono un momento di passaggio di cui non tutti gli italiani si rendevano conto. Andavano di moda canzoni politiche e da cantina specialmente nel Nord dove si cantava. “Te se ricordi Giuàn, de quarantott?”. Data allora memorabile quel 18 aprile del 1948 quando il Fronte popolare socialcomunista (si diceva così: “socialcomunista”) fu battuto con diciotto punti di differenza dalla coalizione democristiana.

Un trauma, un trionfo, un risveglio, una depressione e si sentiva cantare “Avé votà democristiani, senza pensare all’indomani, senza pensare alla gioventù”. Se si vanno a scartabellare tavole e grafici per capire come si sia sgretolata la compattezza degli elettori italiani dal 1946 alla metà degli anni 80, si scopre che tutti andavano a votare ritenendosi in guerra con l’altra metà del Paese e con un sistema di controllo capillare specialmente nei paesi oggi disabitati, dove comandava un comitato formato dal maresciallo, il medico condotto, il farmacista, il parroco e e i capi sezione. Tutti i voti erano controllati in parrocchia e all’osteria. Fino agli anni Ottanta la percentuale dei votanti era sopra il novanta e quando scese fino a ottanta suonò un grido d’allarme oggi ben noto: gli italiani non vanno a votare. Si sono stancati. Sono delusi. L’Italia era sempre spaccata in tre tronconi: quelli che volevano i russi (“Ha da venì Baffone”), quelli che volevano gli americani e quelli che volevano il Papa almeno fino a papa Giovanni XIII.

La democrazia cristiana era uno strumento papale a direzione vescovile con diramazioni parrocchiali come esemplarmente raccontano film e romanzi popolari. Tutto ciò è scomparso. Il papa argentino, non meno di quello polacco o di quello tedesco, si tengono alla larga dai fatti italiani, che lasciano nelle mani della Curia. Poi c’era il quarto troncone che era come un ramo secco: i missini eredi del partito nazionale fascista cui però era vietato usare quel nome. Vivevano nel campo chiuso dall’arco costituzionale e ogni loro emersione anche due generazioni più tardi rimette in gioco parole che con il passar del tempo suonano sempre più vuote. Esisteva anche una larga area monarchica con due leader in concorrenza che si chiamavano Covelli e Lauro, e per la prima volta avevano votato le donne. Già la grande trasformazione era avvenuta nel 1913 quando furono ammessi al voto tutti i cittadini di sesso maschile indipendentemente dal loro censo.

Quella prima Italia repubblicana può essere rintracciata soltanto nella memoria di chi c’era o tra i cultori di buoni film d’epoca, il bianco e nero appunto. Esisteva una classe sociale che oggi è scomparsa come possono scomparire i nativi dei continenti colonizzati. Oggi di contadini non ne esistono più, sostituiti dai farmers all’americana, conduttori di eccellenti aziende agricole e produttori e commercianti colti e moderni. Ma nell’Italia che cominciò a votare dal 1946 esistevano esseri umani che oggi non ci sono più: quel che era rimasto del contado, dei servi della gleba, delle jacquerie contadine di tutti i secoli, con i loro figli rapati a zero e le orecchie a sventola, i quali difendevano insieme al loro pezzo di terra una tradizione e un’origine millenaria.

Come cronista dell’Avanti! mi capitò di assistere a un evento oggi incredibile: una vera carica di carabinieri a cavallo con la tromba e la sciabola sguainata contro i contadini che occupavano le terre e che fuggivano nel fango. La falce e il martello erano del resto i simboli comunisti ereditati dalla rivoluzione sovietica e accolti persino dal partito socialista che declassò il libro della conoscenza e il sol dell’avvenire. Si può dire che furono tutte elezioni di guerra perché il mondo era in guerra anche se fredda ma con molte vampate roventi. La guerra in Corea costo milioni di morti e fu il primo scontro a fuoco fra occidentali e cinesi sostenuti dai russi, prima di quello del Vietnam dagli anni 60 e 70.

Come e quanto tutto ciò ha a che fare con le elezioni di quei tempi? Posso solo appellarmi alla mia memoria: tutti sapevamo che la guerra era imminente, tutti sapevamo che ci saremmo ripresi a giustiziare per strada e sulle montagne. Senza contare l’incubo di quel bagliore e di quel fungo che veniva replicato abbondantemente con gli esperimenti atomici americani, sovietici inglesi e francesi. Quando oggi ci si chiede come mai gli italiani non vadano a votare io che quegli anni li ricordo come un incubo vorrei rispondere sorridendo che per fortuna abbiamo raggiunto quell’alto livello di democrazia e di stabilità che ci permette di infischiarcene di chi viene eletto non eletto perché esiste comunque un quadro di stabilità che permetterà a noi e ai nostri figli di seguitare a vivere. Lo so, quello che ho appena scritto, è oggi precario.

Una vera grande guerra, smisurata e incalcolabile, è diventata di colpo reale e minacciosa insieme alle maledizioni che ottimisticamente avevamo dimenticato: la peste dei virus, la carestia che può uccidere milioni di persone per fame, la guerra stessa con roghi e temperature di una vastità mai conosciuta, la mancanza di energia con cui mantenere vivi tutti coloro che oggi sono vivi semplicemente nutrendoli quanto basta per mantenerli vivi. Tutto è in discussione ma guardiamo alle elezioni del prossimo 25 settembre come se esse riguardassero soltanto un paio di buoni aggiustamenti da dare alle tasse, al lavoro squilibrato tra chi offre ma non trova e chi lo cerca senza trovarlo, se ci sforziamo di mettere in relazione queste prossime elezioni col nostro passato più recente.

Quando il direttore del Riformista mi ha chiesto un pezzo sulle elezioni in Italia sono corso a scartabellare percentuali, date, nomi di partiti estinti, comportamenti elettorali estinti anche loro con chi li aveva adottati. C’era rimasta poca Emilia rossa, con residui più resistenti in Toscana e Umbria, La Lega abita dove abitavano i democristiani del nord e il resto è tutto una corsa apparente mente convulsa per trovare l’ultima battuta da sfornare su Twitter o per dare sia con malizia che senza malizia del fascista, del nostalgico delle Brigate Rosse, delle Brigate nere, dai mercanti di carne umana che trafficano nel Mediterraneo, fingendoci ora buonisti e accoglienti, ora odiosi nemici dei poveri del mondo sicché per la mia esperienza ed età vedo uno smisurato crescere e morire di retoriche a vita breve che di tanto in tanto creano fenomeni di massa destinati a sgonfiarsi.

Ci furono elezioni che somigliavano a manifestazioni di massa antichissime, con apparizioni sia di madonne piangenti lacrime anche di sangue che di agit prop, una razza del tutto scomparsa, gli specialisti della politica popolare in piazza quando non c’erano i social e che gridavano, discutevano, rispondevano, accusavano dimostravano, negavano, urlavano, sussurravano in modo tale da formare capannelli agitati usi quali prima o poi piombavano le forze dell’ordine in uniforme grigia con degli elmetti ancora più grigi e dei bastoni corti come i manganelli della celere, la polizia del ministro Mario Scelba che si era data il compito di sedare con le brutte tutti i tumulti, di destra e di sinistra, anzi se possibile più di destra perché Scelba era l’autore della legge che metteva al bando i fascisti e la strade e le piazze durante i periodi elettorali si trasformavano spesso in corride fra poliziotti in jeep e manifestanti.

Mi capitò di essere inseguito da una jeep della celere che salì sul marciapiede per assestarmi un bel po’ di legnate perché mi trovai in mezzo a una manifestazione per Trieste italiana. E rimasi sbalordito oltre che spaventato dalla determinazione con cui gli agenti motorizzati avevano preso di mira i manifestanti senza alcuna ragione plausibile. La grande domanda su perché gli italiani prima votassero e poi abbiano cominciato a disertare il voto trova una sola risposta ed è quella della fine dei grandi monoliti come la Dc il Pci definitivamente stanchi di combattere una guerra che non era più realistica e meno che mai reale. Ma questo portò a una frantumazione delle posizioni. Da una parte quella di Giulio Andreotti, il più longevo e raffinato politico italiano, che trascorse la sua vita politica su una posizione totalmente filoamericana e atlantica, e dall’altra quella di una totale ammirazione per la Russia sovietica appunto. Ma erano gli ultimi sprazzi di qualcosa che avveniva lontano dai nostri confini e che poco appassionava l’elettorato italiano.

Stava mettendo le radici l’abitudine di dare per scontata (perché sempre meno convincente) l’ideologia sostituita da alcuni ceppi di retorica sempre più nutrita dalle vaghe scienze ed esperienze legate al sociale. Specialmente la retorica degli eroi: spuntano preti eroi, giornalisti eroi, poliziotti eroi, insegnanti eroi… Si potrebbe continuare a lungo. Ma il punto è che tutto questo eroismo testimoniava soltanto la mancanza di una stabilità media nella qualità dei servizi che un paese moderno si attende. La questione delle tasse che oggi è così rovente ma non soltanto da oggi, divide in maniera veramente ideologica. C’è l’ultimo residuo dell’ideologia di sinistra, nella sinistra che gira e rigira chiede di togliere dalle tasche di chi ha delle legittime ricchezze su cui ha pagato ogni tassa ed imposta per alimentare chi ha di meno. Quando si parla di Giorgia Meloni come di un fenomeno terribile visto da sinistra, Tutta la sinistra guarda il dito e non la luna perché evita di chiedersi e rispondersi perché e come mai una donna di destra abbia o possa avere un successo strepitoso.

Il problema maggiore della nostra democrazia in fase elettorale sappiamo qual è: nessuno può sognare coltivare un elettorato, quello che gli inglesi chiamano constituency, padrone e signore del deputato o senatore. Da noi sta per passare una legge già annunciata e di stile grillino secondo cui i rappresentanti devono essere considerati degli impiegati di cui si deve misurare la frequenza ed essere castigati per le loro scelte, compresa la scelta di non partecipare al voto, che non è la stessa cosa che astenersi. Il Parlamento italiano, lo posso testimoniare personalmente, è un luogo in cui non si parla. Non c’è gusto. Siete mai andati sulla BBC quando trasmette dalla Camera dei Comuni? Sembra una festa ben riuscita perché piena di gente libera che parla liberamente.

Inoltre, l’Italia non sa esprimere una leadership degli elettori stessi e cerca l’equivalente dell’uomo forte, e anche il Quirinale si è approvvigionato da Bankitalia con Carlo Azeglio Ciampi già primo ministro e ora scopre che un’Italia non governata dalla credibilità di un leader che appaia come un leader, sul piano internazionale non vale una cicca.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Viaggio nei mille volti dei voti. Si prendono e si danno ovunque, dalle scuole ai condomini, dai Comuni, al Parlamento. Nella memoria galleggiano esempi celebri come gli spaghetti prima dell’elezioni, conditi dai pomodori a vittoria ottenuta. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Maggio 2022.

«Votare» è parola ubiqua nelle vicende della vita e della convivenza sociale. Ricordo nelle pagine de I promessi sposi la digressione drammatica e patetica che Manzoni scrive nel suo romanzo storico: la vicenda di Marianna de Leyva, divenuta Suor Virginia Maria, ma meglio nota come la protagonista di un famoso scandalo che sconvolse Monza agli inizi del XVII secolo. La giovine, nota come «la Monaca di Monza» fu costretta drammaticamente a «prendere i voti» senza averne alcuna voglia, ma per imperiosi regolamenti nobiliari e, soprattutto, finanziari.

Come sia andata a finire lo leggiamo nelle pagine di questa digressione magnifica del più bel libro non solo italiano dell’ottocento. Voto, dunque, aveva e, nel lessico, ha più significati o, meglio, varianti di significato interessanti.

Oggi si vota dovunque, dai condomini ai consigli di amministrazione, dalle scuole alle assemblee municipali, ai circoli bocciofili, alla Camera e al Senato eccetera. Oggi, nel senso di dedicare la vita al Signore, prende i voti sempre meno gente, ma molti voti, invece, li prendono i dediti alla politica dedicandosi alla «Signoria vostra» la quale non sempre risiede tra le dinastie angeliche, ma in politica terrena.

«Vota e fai votare» era ed è ingiunzione di molti, talora anche dei preti e, nel suo significato umanamente politico, non serafica conventuale era ed è ancora, una formula propagandistica elettorale molto comune. L’istigazione era rivolta non solo all’interlocutore, ma, anche, ai suoi corrispondenti. Il votante diventa un propagandista in proprio. Il sistema si manifesta incapace di raggiungere le pieghe più riposte del tessuto sociale e si affida agli individui che, non solo devono votare per convinzione, per avere il posto alla Regione, il parcheggio davanti a casa, la licenza per il cognato, per amore, per tenerci contenti o, perfino per motivi politici, ma devono anche far votare. Devono, cioè convincere altri, parenti, amici, affini, casigliani, dipendenti che siano, a fare lo stesso.

Una specie di catena di Sant’Antonio che, per così dire, allarga la democrazia diretta al rango di pettegolezzo sociale, dilata il vicolo alla strada della conquista del consenso, innalza clienti al titolo di promotori. Nella memoria galleggiano esempi celebri: dalla dotazione di spaghetti prima del voto conditi dai pomodori elargiti a vittoria ottenuta, alla banconota tagliata e ricomposta dopo l’unzione elettorale, alle scarpe spaiate, al posto di lavoro lasciato intravedere dopo il comizio e concesso solo a cose fatte. Nella piazza del paese si vedeva spesso passeggiare il deputato con il codazzo dei postulanti: una minuscola cratofanìa rustica a dimostrazione che il modesto prezzo che si pagava per la democrazia era pur sempre meglio della tirannide. Posto che cratofanico è tutto ciò che manifesta il potere, anche uno struscio diventava atto politico.

Nessuno si è scandalizzato per questo clientelismo pervicace, ma accettabile, se rimaneva nell’ambito d’una sorta di familismo allargato e, soprattutto, ineluttabile in una società complessa e ancora erede di stili di vita e comportamenti ancestrali in cui le relazioni personali dettavano scelte politiche e ragioni del cuore, si, ma anche pressanti ragioni della pancia e urgenze di sopravvivenza.

E quando il voto diventa «di fiducia», in Parlamento, è sacrosanto, ma rinviarlo non può essere un ricatto per conservare il privilegio si star lì a occupare il «posto». Chi, con la scusa di applicare puntigliosamente le regole parlamentari, traccheggia con lo stato di diritto, sbuffa contro i principi della democrazia, considera la legge, non il nomos, la regola ineludibile che armonizza la società, ma una pastoia alla individuale iniziativa esasperata, la condanna all’asfissia.

Questi che ambiscono i terreni voti elettorali, se non li prendono, non accettano serenamente le regole della democrazia: temono di essere cacciati. Anche Virginia de Leyva sarebbe stata cacciata dalla paterna dimora se i voti non li avesse presi. Volere o volare. E sarebbe finita in farsa. Ma finì in tragedia. Volere o votare: finisce in farsa tragicomica per chi i voti non li prende più: costretto a tornare a casa col rischio anche di essiccamenti della pensione e delusioni ammonticchiate nei paraggi del suo passato politico. O, addirittura, a lavorare.

Questi fanno la politica rissosa e cavillosa, temo, solo per rimandare il giorno in cui saranno disperatamente non eletti (altro termine polisenso) e dovranno trovare un lavoro. E pensare che nel Paese nostro, già si sente un eletto chi il lavoro ce l’ha. Beh, potranno «prendere i voti» e cercare un posticino: dalle stelle, almeno in Purgatorio.

·        Mafiosi: il voto di scambio.

Concorsi Pubblici (truccati) e Pubblico Impiego. Sì…non per tutti. La Stabilizzazione del precariato amico.

Chi trova un amico (politico) trova un lavoro. Con la stabilizzazione del precariato si supera il principio costituzionale del concorso pubblico (quantunque truccato) per accedere al pubblico impiego.

Articolo 97 della Costituzione: I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.

Fatta la truffa stabilita per legge e trovato l'inganno. Si fanno entrare a chiamata diretta (tra elenchi predisposti e riservati per dare parvenza di legalità ed imparzialità) gli amici nel pubblico impiego (sanità, scuola, Enti Locali, ecc, settori spesso ritenuti fortini della sinistra), et voilà con la stabilizzazione gli si trova un'occupazione che altrimenti sarebbe riservata ai soli vincitori concorsuali.

Voto di scambio? Ma va là, per i sinistri non conta.

Da iltirreno.it il 29 settembre 2022.  

Nell’urna Dio ti vede, Bolkestein no. La battuta è fin troppo facile e Cristiano Pezzini, presidente dei balneari della Darsena, non se la lascia sfuggire. «Ma adesso è arrivato il momento di vedere se alle promesse in campagna elettorale corrisponderanno i fatti», spiega Pezzini. Mantenendo giustamente il segreto sulla propria preferenza.

Non è un mistero per chi ha votato la stragrande maggioranza dei balneari di Viareggio e Versilia. «Dovessi fare una stima, direi che l’80 per cento ha scelto il centrodestra. Anche chi si considera dell’altra parte politica, spaventato dall’ultima chiamata, ha messo la crocetta nel campo contrario», assicura Pierfrancesco Pardini, balneare lidese e presidente del sindacato Sib Confcommercio per l’area Versilia-Massa.

Fratelli d’Italia impera tra i consensi, come ex partito di opposizione che ha votato contro tutti i provvedimenti sui balneari. Ma anche la Lega ha avuto i suoi voti. E pure Forza Italia. «Massimo Mallegni non ha perso la presa sulla categoria», assicura Francesco Verona, presidente dei balneari di Marina di Pietrasanta. Nonostante i mugugni di qualche collega per il voto di Mallegni a favore della legge Concorrenza. Che, ricordiamolo, ad oggi mette a gara tra il 2023 e il 2024 le concessioni delle spiagge.

Il problema, per il centrodestra pigliatutto, arriva adesso. Il meloniano Riccardo Zucconi, di cui si parla come possibile sottosegretario al turismo, la leghista Elisa Montemagni e la forzista Deborah Bergamini, appena eletti in Parlamento, hanno ribadito la promessa elettorale di risolvere la questione Bolkestein. E i balneari sembrano prenderli molto sul serio. «Questo è ciò che hanno garantito e questo è ciò che ci aspettiamo – dice Pardini – tra l’altro nel giro di poco tempo: c’è da andare a trattare con l’Unione Europea per far uscire la nostra categoria dall’applicazione della direttiva Bolkestein, molto prima che scadano le concessioni (31 dicembre 2023, ndr)».

Secondo Luca Lippi, presidente dei balneari di Viareggio, è ancora possibile evitare le “aste” o gare delle spiagge che dir si voglia. «Sì, è possibile – afferma Lippi – serve la volontà politica e serve un Governo che difenda un po’ di più le piccole e medie imprese. Non credo che si debbano agitare spettri che non ci sono: dal nuovo Esecutivo ci aspettiamo che faccia una trattativa seria e che porti la questione a una soluzione definitiva».

Secondo Pezzini, «qualsiasi sia la strategia, l’obiettivo deve essere tutelare le imprese balneari ed evitare che vengano spazzate via senza un soldo». Una strategia che dovrà diventare operativa, come detto, da subito: dopo l’approvazione della legge sulla Concorrenza sotto il governo Draghi, è arrivato il momento dei cosiddetti decreti attuativi che dovrebbero disciplinare le future gare pubbliche delle spiagge. E stabilire quanto spetta di indennizzo al balneare che perde la gara.

Nel caso in cui il nuovo Governo decida di cancellare le norme appena approvate, deve comunque trovare una soluzione che non venga cassata dall’Unione Europea e dai tribunali. Ingenerando un caos senza precedenti. Ma cosa potrebbero rispondere i balneari ai nuovi rappresentanti politici, nel caso in cui questi alzassero le mani e dicessero: non c’è niente da fare? «Ci sarebbe poco da dire – replica Verona – Hanno la maggioranza piena e la facoltà di intervenire per realizzare quanto hanno promesso: tocca a loro. Sarebbe molto difficile accettare parole evasive».

Estratto dell'articolo di Franco Bechis per "Panorama" pubblicato da “la Verità” il 22 settembre 2022.

Tra finanziamenti garantiti dallo Stato e sostegni, sull'Italia sono piovuti poco meno di 500 miliardi di euro fra 2020 e 2022. Una somma enorme di aiuti a vario titolo, che però si è dispersa in mille rivoli anche piccoli e piccolissimi. Lo scopo era quello di dare una mano a imprese e partite Iva in difficoltà per il lockdown [...]. Ma dopo le molte polemiche sui primi ristori che arrivavano striminziti e in ritardo a chi rischiava davvero di non farcela, gli aiuti alla fine del governo di Giuseppe Conte e all'inizio di quello di Mario Draghi sono scattati con automatismo e con accredito diretto in conto corrente. [...]

Non c'era però modo di valutare la reale necessità di quelle somme da parte di chi le richiedeva. E infatti quei contributi sono spesso finiti a gonfiare bilanci di società che con i sostegni realizzavano l'intero utile, o a sovvenzionare chi in realtà ne aveva poco bisogno, come Vip milionari che con le loro società facevano già profitti a cinque o sei zeri. [...] baffino Massimo D'Alema lasciata la politica (si fa per dire) prima ha aperto un'azienda agricola, la Madeleine, che produce vini a Narni in Umbria, poi ne ha lasciato la proprietà a moglie e figli e ha aperto altre società. Una di consulenza e l'altra - insieme all'amico enologo Riccardo Cottarella - per esportare quei vini lungo la Via della seta.

La società si chiama proprio per questo Silk road wines [...]. Alla voce «ricavi delle vendite e delle prestazioni» nel bilancio 2021 è affiancata una cifra che fa impallidire: zero. Si scorre qualche riga e si arriva al fatturato complessivo. Totale valore della produzione: 72.984 euro, contro gli 83.384 euro dell'anno precedente. Un miracolo, che viene tutto da una sola voce, quella dei «contributi in conto esercizio», che nel 2021 sono stati 72.604 euro rispetto ai 2.000 euro dell'anno precedente. Siccome i costi si sono ridotti all'osso, non incassando nulla dal fatturato tipico, alla fine il vero dato straordinario è quello dell'utile netto della società di D'Alema: 68.683 euro, contro i 31.293 euro dell'anno precedente.

Chi è riuscito mai a far raddoppiare l'utile in un anno di crisi? La risposta è contenuta nella nota integrativa: Mario Draghi. Non un regalo personale, certo: da premier però ha firmato i due decreti Sostegni del 22 marzo e del 25 maggio 2021 (quest' ultimo Sostegni bis). [...] A D'Alema non manca esperienza sulle leggi, dopo una vita in Parlamento, e ha saputo sfruttare le norme in ogni piega. Con due decreti Sostegni è riuscito a incassare tre contributi per la sua Silk road wines. Il primo di 24.168 euro. Il secondo identico: 24.168 euro. A quel punto sembravano finite le possibilità di ristoro.

Si legge però nella nota integrativa, «nel corso dell'esercizio in commento la società ha presentato apposita istanza per l'accesso al contributo a fondo perduto previsto dall'articolo 1, commi da 16 a 27» dello stesso decreto Sostegni bis [...]. Tre sostegni per un totale appunto di 72.604 euro incassati, che hanno consentito a D'Alema di raddoppiare l'utile dell'anno precedente a 66.683 euro. [...]

La famiglia dell'ideatore di questi decreti Covid, Giuseppe Conte, non si è fatta scappare le occasioni di un ristoro. Nella Agricola Monastero Santo Stefano vecchio, holding posseduta dalla fidanzata del leader M5s, Olivia Paladino, insieme alla sorella Cristiana, è arrivato uno sconto Irap per la pandemia dall'Agenzia delle entrate per 36.209 euro. Aiuto analogo (32.012 euro) ottenuto da Cesare Paladino, «suocero» dell'ex premier, per la sua Unione esercizi alberghi di lusso che gestisce l'hotel a cinque stelle Plaza a Roma [...].

Gli utili del cantante Fedez sono stati straordinari nelle due società amministrate dalla madre, Annamaria Berrinzaghi: la Zdf che ha portato a casa 3,3 milioni di euro per i soci quadruplicando il fatturato rispetto all'anno precedente, e la Zedef che ha chiuso l'anno con poco meno di 2,3 milioni di utili [...].

Nonostante gli ottimi risultati, entrambe le società in cima alla galassia Fedez hanno scelto di fare domanda all'Agenzia delle entrate nel 2021 per incassare il contributo perequativo previsto dal decreto Sostegni bis firmato da Draghi, a compensazione del calo del giro di affari (non nel 2021) causato dal Covid. Così con la Zdf sono arrivati in cassa, e hanno contribuito a quel super utile, 270.456 euro con accredito diretto. Stessa cosa è avvenuta sui conti correnti della Zedef, che di fatto è solo una holding di partecipazioni: ha ricevuto un «mini sostegno» di 10.335 euro.

Il ristoro causa Covid è arrivato anche alla moglie del cantante, la ricchissima influencer Chiara Ferragni. La sua Sisterhood srl ha avuto il 1° dicembre 2021 dall'Agenzia delle entrate uno sconto Irap sulla base del decreto Sostegni piuttosto sostanzioso: 140.047 euro. Un'altra società, la Fenice srl, ha ottenuto [...] due garanzie totali della Banca del Mezzogiorno-Mediocredito centrale: la prima su un piccolo finanziamento da 24.946,46 euro, e la seconda su un finanziamento da 1,4 milioni di euro. Il 10 dicembre 2021 si è concretizzata la stessa identica garanzia pubblica Covid su due finanziamenti di un'altra società della galassia Ferragni - la Foorban srl - per complessivi 303.336,42 euro. [...]

Aiutino di Stato - non ritocchino - anche per Belén Rodríguez [...]. La società di cui è socia al 50%, la Icona production, nel marzo 2021 ha fatto un tentativo con il Mediocredito centrale per la garanzia totale su un finanziamento, ma è andato a vuoto. Il 30 novembre è arrivata però una piccola buona notizia dall'Agenzia delle entrate che scontava a Belén 2.365 euro di Irap, di cui certamente aveva bisogno come il pane: la Icona production nel 2021 ha infatti fatturato 2,8 milioni di euro (contro 1,6 nel 2020). [...]

È un politico che salta all'occhio in due occasioni, Gianfranco Librandi: quando appare in tv con piglio normalmente aggressivo, e quando lui o la sua società, la Tci comunicazioni srl, appare nell'elenco dei finanziatori dei partiti. Politicamente Librandi è nato in Forza Italia, passato nel Pdl, trasferitosi a Scelta civica con Mario Monti, poi nel Pd dove ha seguito Matteo Renzi nell'avventura di Italia viva. Però, a queste elezioni, si è fatto candidare da Emma Bonino. [...] Per il Covid ha ottenuto su richiesta due volte [...] la garanzia totale della Banca del Mezzogiorno-Mediocredito Centrale, prima su un finanziamento da 166.906,39 euro e poi su un finanziamento da 10 milioni di euro. [...]

A Visibilia, concessionaria della parlamentare Daniela Santanchè, il 4 dicembre 2021 è stata riconosciuta una esenzione Irap dall'Agenzia delle entrate per 12.784 euro. Alla fine dell'anno prima erano arrivate invece le garanzie totali Mediocredito su due finanziamenti per complessivi 753.337,61 euro. [...]

Poteva mancare nell'elenco dei fortunati percettori di ristori Covid un virologo

di grido? [...] Il personaggio c'è e si chiama Roberto Burioni. La Medical facts srl, controllata al 75% dalla sua Rbs srl, ha ottenuto l'8 dicembre 2021 uno sconto Irap per Covid dalla Agenzia delle entrate classificato come «aiuto di Stato». Importo: 1.191 euro. [...]

Centinaia di milioni truffati con il Reddito di cittadinanza che tanto piace a certi elettori. In pochi anni e senza troppa fatica scoperti truffatori del famoso reddito per un totale di oltre 300 milioni di euro sottratti alle casse dello Stato e che non torneranno più indietro.

Linda Di Benedetto il 23/09/22 su Panorama. Il Reddito di cittadinanza, bandiera del Movimento 5 Stelle presentato come una misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, si è rivelato uno strumento per truffare lo Stato senza grosse difficoltà. Infatti centinaia di milioni di euro sono stati percepiti da chi non ne aveva diritto (con molta probabilità non verranno mai restituiti) e fanno parte dei 20 miliardi spesi fino ad oggi per sostenere la misura. Proprio così il Reddito di cittadinanza ha prodotto truffe ai danni dello Stato per quasi 300 milioni di euro. Dati resi noti nel rapporto annuale presentato a giugno dalla Guardia di Finanza e svolti in collaborazione con l’INPS che riguardano gli ultimi di 17 mesi (da gennaio 2021 a maggio 2022).

Nel dettaglio sono stati scoperti illeciti per 288 milioni, di cui 171 milioni indebitamente percepiti e 117 milioni fraudolentemente richiesti e non ancora riscossi e sono state denunciate oltre 29.000 persone. Denaro che avrebbe potuto essere di aiuto a chi ne aveva veramente bisogno invece è finito nelle mani di detenuti, trafficanti di schiavi, persone legate alla malavita organizzata e soggetti benestanti. Una frode colossale senza precedenti e che vede impegnati ogni giorno i militari della Guardia di Finanza e non solo, in controlli a tappeto in tutto il Paese. Negli ultimi tre mesi da nord a sud sono state scoperte altre truffe. A Torino addirittura è stato messo in piedi un sistema per far percepire indebitamente il reddito di cittadinanza a cittadini stranieri, che dichiaravano di risiedere nel capoluogo piemontese e invece continuano a vivere all'estero. Una truffa da oltre 1.400.000 euro quella scoperta dalle fiamme gialle ad agosto e che ha portato a cinque misure cautelari. Le indagini coordinate dalla Procura di Torino hanno consentito di individuare la dipendente dell'Istituto di Patronato ente nazionale assistenza sociale ai cittadini/Caf Unione nazionale sindacale imprenditori e coltivatori, che avrebbe inoltrato numerose richieste al portale Inps, finalizzate a consentire l'indebita erogazione del reddito. ù Nella capitale i carabinieri della Compagnia Roma Piazza Dante, al termine di una campagna di controlli svolti tra giugno e agosto 2022, hanno denunciato per truffa ai danni dello Stato e indebita percezione di erogazioni pubbliche 111 soggetti appartenenti a 57 nuclei familiari diversi, privi dei requisiti per la corretta corresponsione del reddito di cittadinanza, causando un danno all’Erario stimato in circa 250mila euro. In provincia di Roma invece i Carabinieri della Compagnia di Castel Gandolfo, al termine di una campagna di controlli condotti tra Gennaio ed Agosto 2022, hanno denunciato per truffa ai danni dello Stato ed indebita percezione di erogazioni pubbliche, 26 cittadini di cui 17 di nazionalità straniera e 9 con precedenti, privi dei requisiti per la corretta corresponsione del reddito di cittadinanza, cagionando un danno all’Erario stimato in circa 250.000 euro. A Napoli nel mese di luglio due soggetti con la tessera del reddito di cittadinanza, fingevano di comprare carne, invece ottenevano denaro contante in cambio di una trattenuta oscillante tra il 10 e il 20 per cento da parte dei titolari, padre e due figli. Sequestrata la macelleria e 92.000 euro in contanti, cambiali e assegni. Sempre nel napoletano la Guardia di Finanza ha scoperto una maxi truffa da 500mila euro. I militari delle Fiamme Gialle del Comando Provinciale partenopeo, nei Comuni di Boscoreale, Torre del Greco, Vico Equense e Poggiomarino, hanno eseguito un provvedimento di sequestro preventivo di beni per oltre mezzo milione di euro nei confronti di 43 persone, indiziati del reato di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, relativo all'indebita percezione del Reddito di Cittadinanza.

Volano stracci tra il leader di Italia Viva e l’avvocato del popolo. Pizza, mandolino e reddito, la campagna elettorale di Conte a Napoli: “E’ voto di scambio”. Francesca Sabella su Il Riformista il 22 Settembre 2022. 

Ultime battute di questa campagna elettorale piena di odio e di attacchi più che di idee e programmi elettorali seri e credibili. Ma vabbè. Tutti i leader delle maggiori forze politiche in campo hanno scelto Napoli come ultima tappa del loro tour di comizi. A infiammare gli animi uno dei temi presenti nell’agenda di tutti i partiti: il Reddito di Cittadinanza, ideato dal Movimento 5 Stelle, potrebbe spostare molti voti, soprattutto al Sud dove le condizioni socioeconomiche sono molto più gravi che altrove. Lo sanno bene Giuseppe Conte e Luigi Di Maio che ne parlano come se fosse la panacea a tutti i mali, e lo sa bene anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi che accusa i grillini (giustamente) di voto di scambio.

«Al sud le manifestazioni di giubilo di chi percepisce il reddito, al passaggio di Conte, costituiscono la più scandalosa operazione politica di voto di scambio degli ultimi anni», dice il leader di Italia Viva. L’ex premier si rivolge «ai ragazzi del Sud: non fatevi portar via il futuro. Non è con un assegno da cinquecento euro al mese, dato da un politico, che uscirete dalla povertà». La posizione di Giuseppe Conte è diametralmente opposta. Il leader del Movimento Cinque Stelle da Napoli non solo replica a Renzi, ma tira in ballo anche Giorgia Meloni, che nei giorni scorsi ha detto prima di voler cancellare il reddito di cittadinanza, poi di volerlo riformare. Per Conte, Renzi «ha votato in parlamento l’aumento degli stipendi ai dirigenti di Stato che già guadagnano 10mila euro al mese, a Napoli si dice “nun tenene scuorno” (non hanno vergogna). Ora fa la guerra a chi guadagna 500 euro al mese. Lui vive di politica da quando aveva i calzoni corti e guadagna 500 euro al giorno. E’ davvero un mondo capovolto», dice Conte.

Quanto a Meloni, secondo la quale il reddito di cittadinanza “non è la soluzione alla povertà”, Conte si dice d’accordo. Immediata la risposta di Renzi: «È vero che un parlamentare prende tanti soldi. Ma se vuoi fare uscire dalla povertà le persone, non devi lasciargli 400 euro al mese perché quella persona resterà per sempre nella situazione di povertà. Conte – ha detto ancora Renzi – sta mentendo in modo sciagurato di fronte ai cittadini perché aveva detto che avrebbe creato dei posti di lavoro, invece conosce un navigator che ha trovato un posto di lavoro? Continuare a fare campagna elettorale andando nei Comuni a promettere ancora reddito, minacciando la guerra civile, questo mi dà l’idea dello scandalo squallido a cui è arrivata la politica oggi», ha concluso il leader di Iv. Tra accuse e liti questa campagna elettorale sta volgendo al termine, ma ci sarebbe da chiedersi: valeva il voto di scambio? Vale per i grillini e per la lega di Matteo Salvini che promette la flat tax. A quanto pare la vera sorpresa di queste elezioni è proprio questa: consentito il voto di scambio…

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Voto di scambio in salsa grillina. È difficile, anche in un Paese strano come il nostro, inventarsi una ragione per votare 5stelle. Augusto Minzolini il 4 Settembre 2022 su Il Giornale.

È difficile, anche in un Paese strano come il nostro, inventarsi una ragione per votare 5stelle. Dopo la fallimentare esperienza - per usare un eufemismo - dei due governi Conte o devi essere affetto da puro masochismo, o devi essere del tutto fuori di testa, o deve piacerti il travaglismo più «hard» se desideri davvero rivedere i grillini alla prova. Eppure a guardare i sondaggi Conte e soci sono ancora là. Attorno al 10%. E dalla analisi accurata delle indagini che ha riportato ieri su questo giornale Paolo Bracalini le zone dove lo zoccolo duro grillino appare più radicato sono al Sud, in particolar modo dove c'è una maggiore presenza di percettori del reddito di cittadinanza. Una situazione che rende difficile per i candidati degli altri partiti in loco proporre almeno una riforma della legge viste le tante distorsioni che presenta. Alla fine c'è chi preferisce perdere i freni inibitori come Dario Franceschini che, candidato in Campania dove il reddito di cittadinanza ha assunto il valore del dogma, ha rimosso del tutto dalla sua mente le cronache delle truffe che hanno costellato l'applicazione della norma e lo ha trasformato in un tabù ideologico che precede pure l'agenda Draghi. «Giù le mani dal reddito» è il suo slogan elettorale: punto e basta.

Ma nel Paese che si è inventato il reato del «voto di scambio», nel quale c'è una larga applicazione di quelli sulla «corruzione elettorale» o «sul traffico di influenze», dove per una raccomandazione per un lavoro finisci dietro le sbarre, stride o almeno suscita un minimo di ironia che il meccanismo del «do ut des» sia stato addirittura istituzionalizzato: tu mi garantisci quella cifra (che a seconda dei nuclei famigliari va da 500 a 1200 euro) per starmene a casa e io ti voto. Perché alla fine di tutti i discorsi e di tutti i ragionamenti la sostanza è questa.

E lo «scambio» non si chiude in un'elezione come le scarpe che Achille Lauro prometteva agli elettori, cioè una prima del voto e una dopo, ma si prolunga nel tempo perché l'unico argomento che hanno i 5stelle in questa campagna elettorale è la promessa che il reddito non sarà cancellato o, magari, riformato. Per cui anche chi lo prende di straforo, anche chi truffa guarda ai grillini. Così il «do ut des» rischia di essere perpetuo: il reddito in cambio del voto per una vita.

Eppure il provvedimento è pieno di lacune, era stato immaginato innanzitutto per trovare un lavoro ai disoccupati. Addirittura era stata introdotta la figura dei «navigator» per raggiungere questo obiettivo ma da questo punto di vista la legge si è rivelata un fallimento. Ha creato, però, un meccanismo paradossale: i candidati grillini promettono di garantire il reddito ai loro elettori che lo percepiscono in poltrona a casa e in cambio si assicurano una poltrona in Parlamento e uno stipendio da parlamentari. Reddito per reddito. Una furbizia ben congegnata. In linea con la filosofia grillina, ma che a quanto pare sta facendo adepti in un Pd sbandato che non trova argomenti. Vedi, appunto, Franceschini. E se questo è il ricatto è difficile che questa norma piena di limiti sarà mai riformata. Continuerà a non trovare lavoro chi non ne ha, ma nel contempo proseguirà questa sorta di «voto di scambio» tra nullafacenti della società civile e nullafacenti del Palazzo. 

Movimento 5 nullafacenti: Conte al 10% grazie al reddito minimo. I dati sui percettori del reddito rispecchiano i voti che prenderanno i grillini. Salvatore Di Bartolo su Nicola Porro.it il 4 Settembre 2022.

È il reddito di cittadinanza a mantenere in vita i Cinque Stelle. A certificarlo il sondaggio sulle intenzioni di voto curato da Nando Pagnoncelli per il Corriere della Sera, secondo cui è proprio il sussidio che riesce ad assicurare al Movimento un bacino di voti superiore al 10 per cento. La tesi di Pagnoncelli è peraltro suffragata da numeri che appaiono inequivocabili. Su un totale di 30 milioni circa di elettori che domenica 25 settembre si recheranno alle urne (il dato tiene già in considerazione gli astenuti) il M5s si attesterebbe attorno al 12 per cento, ovvero 3,4 milioni di voti circa. Un numero che, dati alla mano, appare perfettamente sovrapponibile all’attuale platea dei beneficiari del sussidio.

Secondo i dati Inps, infatti, i nuclei familiari beneficiari di reddito di cittadinanza sono attualmente 1,61 milioni, per un totale di 3,52 milioni di soggetti coinvolti. Più o meno il numero degli elettori che – secondo il sondaggio – il prossimo 25 settembre dovrebbero barrare il simbolo del Movimento 5 Stelle sulla scheda elettorale. Potrebbe trattarsi di una semplice coincidenza? La risposta è no. Perché ad avvalorare ulteriormente la tesi di Nando Pagnoncelli ci pensa la geografia. Secondo i già citati dati Inps, al Nord i percettori del sussidio grillino ammontano a 443 mila, al Centro a 340 mila, mentre oltre 1,7 milioni si trovano nelle regioni del Sud.

Osservando nel dettaglio la distribuzione dei percettori si può osservare come il 22 per cento di essi si trovi in Campania, regione che da sola conta più beneficiari dell’intero nord Italia. Dando un’occhiata ai sondaggi politici realizzati da Pagnoncelli si scopre poi come i Cinque stelle siano accreditati al 20 per cento in Campania, guarda caso una percentuale quasi corrispondente a quella dei beneficiari dell’assegno pentastellato. Al contrario, il consenso di cui godono i grillini al Nord è alquanto limitato, esattamente come il numero dei percettori.

Lo studio di Pagnoncelli conferma dunque, laddove ve ne fosse ancora la necessità, cosa realmente sia il reddito di cittadinanza: una gigantesca operazione di voto di scambio. Probabilmente la più imponente che sia mai stata realizzata nella storia repubblicana. Salvatore Di Bartolo, 4 settembre 2022

Elezioni, con i nomi imposti dall’alto costituzione violata. Comunali, si va alle urne dalle 7 alle 23. Ancora una volta, partiti divisi su tutto e incapaci di confronti sereni, hanno confermato il «patto di ferro» dell’intesa per continuare l’esproprio del diritto costituzionale dei cittadini. Rosario Antonio Polizzi su la Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Settembre 2022.

Lettera ai leader dei partiti. L’Associazione Europa Nazione, che ha lasciato libertà di voto ai propri soci in occasione delle elezioni legislative del 25 settembre 2022, esprime il suo disappunto e sconcerto per l’indegno spettacolo offerto in merito alle modalità e ai criteri attuati per la formazione delle liste dei candidati. Ancora una volta, partiti divisi su tutto e incapaci di confronti sereni, hanno confermato il «patto di ferro» dell’intesa per continuare l’esproprio del diritto costituzionale dei cittadini italiani di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento.

È dal 2005, con il varo della legge elettorale definita «Porcellum», fino all’attuale normativa «Rosatellum», che la politica si fa beffe dei diritti degli elettori e della rappresentanza dei territori e riduce la scelta dei candidati al Parlamento a decisioni discrezionali e arbitrarie di parenti, coniugi e amici spesso inadeguati al ruolo, che vengono paracadutati in territori a loro del tutto estranei.

Una sagra di nomine che non hanno nulla di politico e di rappresentativo, senza alcun legame con il popolo elettore. Un meccanismo prepotente e offensivo della sovranità popolare che, per quanto attiene il Senato, potrebbe assurgere a vera e propria violazione della Costituzione, atteso che per la Camera Alta il principio di rappresentanza è fondato su base regionale.

I candidati dovrebbero quindi essere residenti nella Regione e non sconosciuti esterni che poi si dileguano all’indomani delle elezioni. Ma come si può ancora consentire ai partiti di esercitare poteri che violano la Costituzione? Come si possono ancora ritenere libere elezioni, attività di finta espressione del voto, limitato unicamente ad una scelta di simboli di partito e non di persone, senza alcun legame con gli interessi territoriali? Ma cosa di diverso si può pretendere dagli attuali partiti, ridotti a comitati elettorali, che non hanno mai adottato regole interne che garantissero gestioni e decisioni democratiche?

Aveva ragione Piero Calamandrei quando alla Assemblea Costituente dichiarò: «una democrazia non può essere tale se non sono democratici anche i partiti». Anche per questo la politica ha perso ogni credibilità e competenza e si affida a Premier «tecnici». Per queste ragioni Europa Nazione si rivolge a tutti i leader dei partiti impegnati nelle elezioni anticipate e chiede una dichiarazione pubblica di impegno, subito dopo le elezioni, ad approvare una legge elettorale che restituisca i diritti negati ai territori. Solo così i cittadini potranno valutare quali leader saranno disponibili ad uscire dalla congrega degli usurpatori dei diritti costituzionali del popolo sovrano, così come potranno giudicare i leader che continueranno ad ignorare la richiesta di ripristino delle garanzie democratiche. È il momento del ritorno all’etica e al rispetto della Carta Costituzionale

Viva la democrazia e viva l’Italia.

I firmatari: Nicola Bono, Alfonso Amaturo, Alessandro Arancio, Nadia Barattucci, Corrado Cammisuli, Enrico Facco, Renato Giovannelli, Giorgio Holzmann, Salvo La Porta, Gennaro Malgieri, Dino Melluso, Silvio Meloni, Silvano Moffa, Enzo Molettieri, Pippo Monaco, Mimmo Nania, Adriano Napoli, Oronzo Orlando, Walter Pepe, Maria Rosaria Perdicaro, Rosario Polizzi, Francesco Rubera, Manuela Ruggieri, Noemi Sanna, Rosario Trotta, Roberto Visentin, Vittorio Delogu.

Da 15 a 30 mila euro da pagare al partito: quanto costa essere eletti, record per Forza Italia. Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 31 agosto 2022.

C’è listino e «listino». In questa forsennata campagna elettorale estiva c’è il primo, che indica la posizione blindata in lista, con elezione certa. E il secondo, che, tra virgolette, indica quanto costa la candidatura per ciascun partito. Ognuno ha le proprie regole, accettate su base volontaria o con tanto di firma ufficiale davanti al proprio tesoriere. La corsa più costosa, tra i principali partiti, è quella per Forza Italia: ogni deputato o senatore, una volta eletto, si impegna a versare 30 mila euro nelle casse del partito del Cavaliere, per di più in un lasso di tempo ristretto. C’è pure un documento sottoscritto davanti ad Alfredo Messina, ex manager Fininvest e guardiano delle casse forziste, ma con sua grande amarezza. 

L’abolizione del finanziamento pubblico, mentre i grandi partiti ne chiedono il ripristino, costringe tutti i tesorieri a fare i salti mortali per finanziare campagne elettorali sempre più ravvicinate e non finire strozzati dai debiti. Perciò ogni candidato, in primis quelli con elezione sicura, è costretto a mettere mano al portafogli. In Fratelli d’Italia, previo patto tra gentiluomini, i parlamentari uscenti ricandidati verseranno 30 mila euro nelle casse del partito. La medesima cifra, a scaglioni, sarà pagata anche dai nuovi eletti, che partiranno da una prima tranche da 10 mila euro. Ogni mese ci sono poi da versare mille euro per il funzionamento della macchina guidata da Giorgia Meloni, che «raramente — fanno sapere da via della Scrofa — accetta dai privati più di 5 mila euro». Ma i soldi, stavolta, non dovrebbero mancare: oggi gli eletti sono 58 e, secondo le previsioni interne, dovrebbero diventare almeno 150.

La Lega, stavolta, dovrebbe tornare un po’ a respirare. La campagna del 2018, con i conti del Carroccio posti sotto sequestro dai pm, fu drammatica dal punto di vista economico. Chi potrà contare su un seggio certo verserà circa 20 mila euro. Poi ci saranno i contributi mensili da 3 mila euro, perché il partito di Matteo Salvini accentra internamente tutte le funzioni operative.

Il Pd, sotto la supervisione del tesoriere Walter Verini, ha varato un documento in cui tutti i «blindati» dovranno pagare preventivamente 15 mila euro; la stessa cifra che dovranno versare nel caso arrivi uno sbarco inatteso a Montecitorio o Palazzo Madama.

Nel M5S, anche se è improbabile che ciò avvenga su larga scala, ogni parlamentare uscente, come previsto dallo statuto, dovrà versare un’una tantum da 15 mila euro. I rieletti dovranno poi continuare a contribuire al finanziamento della macchina contiana con mille euro mensili.

C’è infine il caso del terzo polo. I renziani di Italia viva posizionati in maniera favorevole dovranno dare una mano elettorale con 15 mila euro, oltre ai 1.500 mensili. Orientativamente le stesse condizioni di Azione.

Tutti promettono soldi cash. Voto di scambio, così i partiti offrono soldi in cambio di preferenze: dal reddito di cittadinanza alla flat tax. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Agosto 2022 

Tante volte ho letto titoli molto grandi sulle prime pagine dei giornali, ispirati – come succede spesso ai titoli dei giornali – da qualche Procura, con queste tre parole scritte a caratteri giganteschi: “Voto di scambio”. Cos’è il voto di scambio? Non è chiarissimo in cosa consista, le Procure usano questa formulazione, considerandolo un reato molto grave, quando hanno il sospetto che qualcuno abbia promesso qualcosa a un’altra persona in cambio del suo voto.

In genere la promessa consiste in un posto di lavoro, o nell’aiuto ad aggirare una pratica burocratica, o in una promozione, o in qualcosa di simile. Molto raramente in soldi. Recentemente, giusto tre anni fa, il Parlamento guidato dai 5 Stelle, in un empito di moralizzazione ha portato a 22 anni la pena massima per questo reato. 22 anni solo nel caso che il “promettitore” sia eletto, dice la legge. Non è necessario invece che la promessa sia mantenuta (attenzione: questo è un particolare importante). 22 anni sono tanti, eh. Più che per un omicidio volontario con qualche attenuante. Molto più che per uno stupro. Tu stai brigando per passare 5 anni in Parlamento e magari ti tocca invece di finire in gattabuia e restarci finché non sei vecchio vecchio. Vabbè.

Ho dato un’occhiata ai programmi politici dei principali partiti. Ve li riassumo nei punti essenziali. I 5 Stelle promettono di difendere il reddito di cittadinanza anima e corpo dall’attacco di tutti gli altri partiti. Ne ha scritto ieri, su queste pagine, Angela Azzaro. In cosa consiste questa promessa e a chi è rivolta? Consiste nel garantire all’elettore un versamento mensile di circa 500 euro. È rivolta a un po’ meno di due milioni di percettori di reddito e alle loro famiglie. Dovrebbe garantire circa 3 milioni di voti, che in percentuale vuol dire, a occhio, il 10 per cento. Il costo della promessa è piuttosto alto. 35 miliardi circa (che saranno pagati dallo Stato e non dai 5 Stelle) per il quinquennio ’23-’28. Passiamo al centrosinistra. Le promesse qui sono tantissime e molto molto onerose.

La principale promessa del Pd, e la più facile da capire e da valutare, è quella di dare uno stipendio in più ad ogni lavoratore. Mediamente, credo, circa 1300 euro all’anno. Non è male. Qui non si sa bene chi pagherà, se gli imprenditori o, più probabilmente, ancora lo Stato attraverso finanziamenti e sgravi fiscali. Il costo dell’operazione è notevole. Almeno 25 miliardi all’anno visto che la platea è assai più larga di quella dei percettori del reddito di cittadinanza. È anche vero che la promessa è molto più aleatoria e le probabilità che sia mantenuta sono bassissime. Quasi nulle. Mentre per il reddito sono molto alte.

Poi c’è il centrodestra. Anche qui le offerte in denaro agli elettori sono parecchie. La principale è la riduzione drastica delle tasse con la Flat tax, sebbene non sia ancora per niente chiaro in che forma dovrebbe poi realizzarsi questa tassa piatta. Gli esperti dicono che, a seconda della sua gradazione, potrebbe venire a costare tra i 10 e i 50 miliardi all’anno. Con l’avvertenza, anche qui, che non ci sono molte possibilità che la promessa sia mantenuta. Il “codicillo” che vi abbiamo segnalato qualche riga fa, come vedete, è molto importante. Il voto di scambio viene considerato dalla legge realizzato al momento dell’elezione di chi promette o non della realizzazione della promessa.

E allora? Voi mi direte: sì, ma in fondo era così anche negli anni Cinquanta, e nessuno diceva niente. È vero. Pare che il comandante Lauro, a Napoli, consegnasse agli elettori una scarpa di buon cuoio chiedendo il voto e garantendo la consegna della seconda scarpa solo a risultato acquisito. Magari è anche vero. E Lauro vinse tante elezioni. Però vedete bene che le differenze sono molte. Innanzitutto perché Lauro usava un mezzo intelligente di controllo sia sul voto sia sul mantenimento della promessa. In secondo luogo perché, in fondo, pagava di tasca sua e non mandava il conto allo Stato. In terzo luogo perché in fondo il commercio era modesto: quanto potevano valere quelle due scarpe? 5 mila lire? Rivalutate e tutto diciamo 60 euro? Beh, c’è una bella differenza tra 60 euro una tantum e 500 euro al mese, no?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

·        Il Voto dei Giovani.

Sono stati eletti solo quattro deputati con meno di 30 anni. La politica tradisce ancora i giovani. Finita la campagna elettorale, questo è il numero che mostra il reale interesse dei partiti per il tema. Ma non è una novità, come dimostrano i dati della legislatura che si sta chiudendo. Chiara Sgreccia su L'Espresso l'11 ottobre 2022.

Scarpa, Ricciardi, Raffa, Di Maggio. E basta. Sono solo quattro gli under 30 eletti in Parlamento alle elezioni del 25 settembre. Tutte donne, due al sud. Una con il Partito Democratico (Scarpa), due con il Movimento cinque stelle, Di Maggio con Fratelli d’Italia. Nessuna nei collegi uninominali. Ancora una volta quindi, come nella legislatura che si sta per chiudere, i giovani si possono contare sulle dita di una mano. E la politica che rincorre i ragazzi fino a TikTok e a parole dice di volerli ascoltare e rappresentare, alla fine li tradisce.

«Me lo aspettavo. Avevo letto i report sui candidati già prima delle elezioni», commenta Ferdinando Pezzopane, 20 anni, attivista per i Fridays for future che aveva inviato a L’Espresso, in occasione dello speciale Agenza Z, le sue richieste al governo post-elezioni, ponendo particolare attenzione al mondo del lavoro. Secondo un’analisi di Openpolis, infatti, su 5 mila candidati alle elezioni nazionali solo il 15 percento aveva meno di 40 anni. Il 3 per cento meno di 30. M5s e Unione popolare quelli con più candidati giovani.

Secondo le analisi di Pagella politica, alla Camera l’età media degli eletti di centrosinistra è di 50,2 anni. Il partito più anziano è Impegno Civico dove è stato eletto, però, solo un settantaseienne. Tra i partiti con più deputati, invece, il più vecchio in classifica è Forza Italia con un'età media di 53,2 anni. Al Senato, dove per potersi candidare bisogna avere almeno 40 anni, l’età media dei nuovi 200 è di 55 anni. Partito più anziano ancora Forza Italia, segue l’Alleanza Verdi e di Sinistra.

«Una così scarsa presenza di giovani in Parlamento farà sì che argomenti a cui noi siamo sensibili passeranno in secondo piano. O continueranno a essere affrontati da chi non ci ha a che fare. Ad esempio, parlano di borse di studio e di università esponenti politici che hanno finito di studiare da decenni. Conoscono davvero le realtà con cui noi ci interfacciamo tutti i giorni?». Per Pezzopane la quasi totale mancanza di under 30 è anche testimonianza di come i partiti si siano rivolti ai giovani durante la campagna elettorale, per cercare voti, «ma nel momento in cui si deve costruire la rappresentanza la voglia di coinvolgerli scompare. Visto che per i prossimi cinque anni - continua- avremo questo Parlamento, c’è bisogno di uscire dalla dimensione dei partiti e far capire che anche dal basso possiamo trasformare le cose».

Non aspettare che siano gli altri a cambiare il mondo ma impegnarsi per farlo, è anche il pensiero di Andrea Felloni, 27 anni, ingegnere. Tra i fondatori di Fantapolitica, la piattaforma di formazione che punta a raccordare i movimenti che riempiono le piazze con le istituzioni. «Essere rappresentati in Parlamento avrebbe permesso a temi come il lavoro precario, i salari fermi mentre il costo della vita aumenta, il problema degli alloggi e la transizione ecologica, di entrare nel dibattito pubblico. Cosa che invece non succederà come non è successo fino a ora. Anche dopo l’estate che abbiamo trascorso o l’alluvione nelle Marche non sono arrivate risposte concrete al cambiamento climatico».

Per Felloni il tema della rappresentanza è complesso. Il punto non è né parlare di giovani con tono paternalistico, né eleggerli solo per l’età anagrafica. «I giovani non sono tutti uguali ma ci sono tematiche che interessano la maggioranza. In Parlamento mancano sia la sinistra, sia gli under 30: sono due problemi interconnessi che si legano all’incapacità dei partiti di rinnovare la classe dirigente». La pensa così anche Anche Mattia Maurizi, 17 anni, del collettivo dell’istituto di istruzione superiore Darwin di Roma che aveva partecipato attivamente alle proteste studentesche dello scorso inverno: «Non è solo che mancano i giovani in Parlamento ma anche la rappresentanza degli strati più popolari».

(ANSA il 26 settembre 2022) - Il voto dei giovani, cioè quello degli elettori nella fascia di età 18-34 anni, predilige le formazioni minori. Secondo l'elaborazione Swg per ANSA, infatti, rispetto ai dati a livello nazionale a ottenere percentuali più alte è il partito di Calenda, scelto dal 10% di elettori in questa fascia di età mentre nel gruppo "gli altri", che appunto contiene tutti gli altri partiti più piccoli, vede un aumento dei consensi del 6% rispetto al dato medio complessivo (21% contro il 15%).Fratelli d'Italia registra un calo del 4% invece in questo segmento, Forza Italia del 3%, la Lega soffre di meno (-1%), Pd e M5s risultano stabili. L'astensione è leggermente più alta del dato nazionale e si attesta al 37%.

Il nuovo non avanza. L’Italia non è un Paese per giovani: la politica ne parla ma non li candida. Viviana Lanza su Il Riformista il 23 Settembre 2022 

È davvero un Paese per giovani il nostro? È un Paese pronto a investire sul futuro? È più conservatore o più pronto al rinnovamento? A sentire certi proclami politici verrebbe quasi da credere che sì, siamo pronti a cambiare il passo, che abbiamo fatto strada al nuovo che avanza, che dagli errori del passato abbiamo imparato la lezione. Poi si viene a sapere che alle elezioni del Csm, tanto per fare un esempio legato alla più stretta attualità (lo spoglio è in corso in questi giorni ma già ci sono i primi risultati), stanno vincendo le correnti “tradizionali”, quelle che esistevano prima del caso Hotel Champagne e che continuano ad esistere dopo, come se nulla fosse accaduto, come se tutti i discorsi, le riflessioni, le analisi e le critiche (anche delle stesse toghe) contro lo strapotere della magistratura e delle correnti in particolare non fossero mai esistititi.

Domenica ci saranno altre elezioni importanti per il Paese, le politiche. Si decideranno le prossime sorti della nostra politica, quindi dell’amministrazione della cosa politica, delle strategie di sviluppo e di gestione dell’Italia. Considerato il momento storico che stiamo vivendo, non è roba da poco. Sicurezza, sanità, scuola, lavoro sono i soliti nodi attorno ai quali si cimentano i politici di ogni schieramento. Quante parole si tradurranno in fatti? Staremo a vedere. Intanto assistiamo a una prima incongruenza. Riguarda i giovani. Tutti ne parlano ma in pochi li candidano. Uno studio di Openpolis ha analizzato il fenomeno e sono venuti fuori dati sui quali sarebbe necessario riflettere. Sui quasi cinquemila tra candidati e candidate alle prossime elezioni politiche, solo il 15% ha meno di quarant’anni. Addirittura meno del 3% è under 30. Lo studio di Openpolis sottolinea come uno dei motivi della scarsa presenza dei giovani in politica in Italia è legato a un problema innanzitutto strutturale, «visto che è la Costituzione stessa a imporre dei limiti di accesso in questo senso».

Puntando la lente sulla situazione dei candidati alle prossime elezioni politiche del 25 settembre, si nota che delle 4.746 persone in corsa, 695 hanno un’età inferiore ai quarant’anni, cioè il 14,6% del totale. Vuol dire che un candidato su sette ha meno di quarant’anni di età, una proporzione che si riduce notevolmente se si prendono in considerazione i soli giovanissimi, quelli di età compresa tra i venti e i trent’anni. Ora, è vero che la Costituzione stabilisce che si può accedere alla Camera e al Senato se si hanno rispettivamente 25 anni e 40 anni di età, ma è anche vero che l’età degli esponenti politici è un indicatore del tasso di cambiamento della politica: più l’età è bassa più, in linea di massima, ci sono possibilità che la politica sia proiettata verso cambiamenti e innovazioni. Alla Camera sono candidati 134 giovani di età inferiore ai trent’anni, mentre 561 hanno tra i trenta e i quarant’anni. Il 61,2% dei candidati ha un’età compresa tra i 40 e i 60 anni: 1.359 candidati non superano i cinquant’anni, 1.548 hanno età compresa tra cinquanta e sessant’anni. Facendo un calcolo matematico, l’età media dei candidati alle prossime politiche è di 51,4 anni. Una cifra più elevata rispetto alla media della popolazione italiana che, secondo i più recenti dati Istat, nel 2022 è di 46,2 anni.

«In generale – evidenzia il report – come prevedibile l’età dei candidati al senato è mediamente più elevata rispetto a quella dei candidati alla camera. Ma questo non è l’unico livello di differenziazione». Per quanto l’età media all’interno delle liste principali si attesti piuttosto omogeneamente su valori compresi tra i 49 e i 52 anni, le singole liste e coalizioni hanno avuto approcci diversi nella scelta di candidare persone giovani. Tra le due coalizioni, è il centrosinistra a presentare più candidati giovani (169 persone pari al 17% del totale). Il centrodestra conta 136 giovani candidati (il 12,3% del totale), mentre Azione – Italia viva conta 57 giovani e una percentuale pari al 13,9% del totale. Ultima in questa classifica è Italexit che ha 41 candidati di meno di 40 anni, pari all’11,7% del totale. Movimento Cinque Stelle e Unione popolare invertono la tendenza, proponendo rispettivamente il 19,9 e il 21,1% dei candidati non ancora quarantenni. «Un aspetto centrale della questione dell’accesso giovanile alle istituzioni – spiega lo studio di Openpolis – è anche la posizione in cui la candidatura è posta nel listino plurinominale, al di là del dato quantitativo sulle candidature giovani».

Questo aspetto punta l’attenzione sui candidati capilista: quanti sono giovani? Considerando soltanto i seggi plurinominali, che secondo la legge elettorale Rosatellum costituiscono i 5/8 del totale, si scopre che solo il 12% dei capilista candidati alle imminenti elezioni politiche ha meno di quarant’anni, vale a dire 90 persone su 750. Mentre 228 hanno tra i 40 e 9 50 anni, 255 tra i 50 e i 60, e 139 tra i 60 e i 70. Nella fascia 70-80 anni rientrano 36 candidati capilista e 2 hanno più di 80 anni. Quanto ai candidati ai seggi uninominali, non emergono differenze significative rispetto alla situazione dei capilista al plurinominale. Ma bisogna evidenziare che la posizione del candidato all’uninominale è più complessa, e strategicamente molto vincolata alle singole liste e coalizioni.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Generazione al tappeto. I giovani votano a casaccio per una politica che non li rappresenta (e lo sanno). Benedetta Barone su L'Inkiesta il 19 Settembre 2022.

Gli under-35 dicono intervistati da Linkiesta hanno spiegato per chi voteranno, perché e quali sono i loro principali stati d‘animo rispetto al loro futuro. Da nord a sud, dal centro alle periferie dilaga la rassegnazione anche per quanto riguarda le più elementari battaglie

Mancano ormai pochi giorni alle elezioni e secondo il report di ricerca Swg per Italian Tech, il 52% dei giovani sostiene di provare, nei confronti della politica, un totale disinteresse. Il 43% ritiene peraltro che il voto sia certamente un dovere civico, ma che serva a poco e a niente: i politici raramente rispettano il loro mandato, una volta eletti. Da mesi si discute dello spettro dell’astensionismo, soprattutto dal momento che recenti previsioni attestano che circa il 48% non si recherà alle urne – meno di 1 giovane su 2.

I giovani rappresentano la categoria che ha perso maggiore motivazione nei confronti della politica, accanto a quella dei ceti sociali più vulnerabili. È colpa della classe dirigente? Delle proposte e dei programmi partitici, che raramente attribuiscono priorità alle questioni che stanno più a cuore alle nuove generazioni? Ma anche qui: siamo sicuri che i giovani siano concordi su ciò che è essenziale e urgente per il loro futuro?

Siamo abituati a pensare che tra i desideri più comuni e più forti in seno agli under-35 non possano mancare forti virate verso la transizione ecologica, fondi diretti alla scuola e all’istruzione, e una maggiore inclusione – che copra certamente l’ingresso nel mondo del lavoro, ma in generale possibilità formative trasversali, comprese le esperienze all’estero, gli erasmus e gli exchange, i quali presuppongono un’Europa unita e sintonica.

Insomma, i giovani sono considerati uno stuolo pressoché unitario dagli ideali progressisti. Invece, non è proprio così. Parlando direttamente con loro si scopre che, dopo la crisi economica del 2008, decine di governi che si sono succeduti senza successo e ricorsi quasi sempre a soluzioni “tecniche” come cura palliativa per un Parlamento altrimenti in preda allo scompiglio, la pandemia da covid19, e aliti di emergenze che provengono da tutte le latitudini del pianeta, le prospettive si sono estremamente ridotte e inaridite. Vogliono pragmaticità, soluzioni a stretto giro. Aspirano a una concretezza di pensiero e di parola che cozza con le fiumane di studenti che abbiamo visto riversarsi nelle piazze appena prima del 2020 durante le manifestazioni dei Fridays for future.

La giustizia climatica e sociale sono battaglie ideologiche, giuste sì, ne riconoscono l’ovvia importanza, ma non hanno la precedenza.

Federica, 22 anni, milanese e laureanda in Lettere, dichiara: «Voterò il gruppo di Azione e Italia Viva. È assolutamente necessario portare avanti l’agenda Draghi. A mio avviso è l’unico ad avere le competenze adatte ad affrontare la complessità dei problemi in cui ci troviamo oggi. Il principale è il tema energetico. Bisogna decisamente diventare indipendenti dalla Russia. Poi, il tema dell’inflazione e quello del PNRR. Non bisogna neanche dimenticarsi dell’Ucraina. Parliamo di problemi pratici». E aggiunge: «Mi ritengo liberale, sicuramente non di destra. I programmi politici italiani servono solo per fare campagna elettorale, il partito Azione-Italiaviva si avvicina di più alle necessità del Paese».

Lorenzo, un altro milanese che frequenta il terzo anno di Economia all’Università Cattolica di Milano, ribadisce: «Voterò Azione perché è l’unico partito che ha incentrato la sua campagna elettorale su istruzione e sanità, e non sulle pensioni e su riduzioni di tasse infattibili. Calenda è l’unico leader politico che ha esperienze e competenza, gli altri non saprebbero neanche gestire un bar. Penso che in Italia bisognerebbe mettere da parte lo scontro ideologico tra destra e sinistra».

Quando domando se secondo loro l’appartenenza a un centro cittadino economicamente così florido influenza in qualche modo la ricostruzione narrativa intorno alle reali impellenze della nazione, Federica mi risponde, esitante: «È probabile che il giovane di periferia abbia più rabbia, mentre quello dell‘area ZTL risulta maggiormente arrogante e spocchioso».

Tuttavia, Lucian, 21 anni, di Corsico, un comune dell‘hinterland milanese, non pare avere alcuna divergenza rispetto ai suoi coetanei dell‘interno dei bastioni: «Il 25 settembre voterò Azione-Italia Viva. Mi sono trovato a fare una scelta obbligata dato che non voterei mai nessuno degli altri grandi partiti candidati. Mi trovo in completo accordo con il programma elettorale presentato e ritengo Calenda un buon politico. Ho dei dubbi sull’alleanza con Italia Viva, ma spero di sbagliarmi. Al momento penso che l’obiettivo principale debba essere il raggiungimento dell’indipendenza energetica». Anche se poi dice: «In quanto giovane, non ritengo di essere sufficientemente rappresentato dai programmi elettorali. Nei punti in cui si parla delle nuove generazioni non trovo mai nulla di concreto o di effettivamente utile. Penso che questo sia un problema generale della politica, si parla più ai nostri genitori che a noi».

Lo stesso tipo di disallineamento – se così si può chiamare – tra dai problemi che sollevano, peraltro sacrosanti, e la percezione rassegnata di chi si considera automaticamente già perdente, scartato, invisibile rispetto al corpo sociale, è evidente anche in provincia. Alessandro, 24 anni, Torricella, in provincia di Taranto: «Voterò Azione perché mi sembra una proposta abbastanza soddisfacente rispetto a quelle delle altre forze politiche, nonostante su alcuni temi storca un po’ il naso. L’Indipendenza energetica, il conflitto tra Ucraina e Russia e il cambiamento climatico sono le bandiere di oggi. I giovani sono assolutamente poco rappresentati. Basti pensare che i fuorisede riescono a malapena a votare». Una ragazza che preferisce restare anonima, 19 anni, di Potenza: «Voterò Più Europa o Azione. Guardo sia la credibilità della persona che l’attenzione ai giovani e alle tematiche sociali. Mi piacerebbe che ci fosse un partito che aggiungesse questo alla mia visione su economia e politica estera, ma tant’è…». Tommaso, 26 anni, della periferia di Cesena: «Voterò il cosiddetto Terzo polo perché è l’unica formazione con proposte e persone competenti e preparate. L’urgenza principale è il caro bollette. È necessario dunque lavorare su interventi tempestivi a tampone e riforme strutturali su energia, infrastrutture, istituzioni e formazione. La politica si rivolge alle masse per acchiappare voti, quindi ha inevitabilmente altre mire rispetto a gente come me, che crede nella scienza e nella veridicità delle fonti». Luca, 19 anni, Cernusco sul Naviglio: «Io voterò il Terzo Polo poiché ritengo che l’approccio pragmatico e non ideologico sia la strada migliore da seguire se si vuole davvero migliorare qualcosa. Inoltre, da puro liberale non posso che sostenere l’unica formazione politica che ha, tra gli obiettivi, il contenimento della spesa pubblica. Gli studenti come me, al termine del proprio percorso liceale o già all’università, non solo sono sottorappresentati. Non vengono proprio ascoltati».

La forbice si assottiglia tra il nord e il sud Italia, tra le grandi città e i piccoli centri. Il coro di voci è unanime, coeso, inquietantemente d’accordo. Nessuno si sente rappresentato, eppure nessuno mette se stesso tra le priorità dell’agenda politica nazionale, nemmeno tra quelle del partito che nello specifico ci si accinge a votare.

L’atmosfera che si respira tra le frange della destra più convintamente autocompiaciuta, non è tanto diversa. Luca, 20 anni, Bollate (MI): «Voterò Fratelli d’Italia, anche se non è il primo partito che ho votato, né il primo che avrei scelto. Penso rappresenti al meglio la mia volontà, anche se i punti di scarto sono tanti e non tutto mi convince. L’urgenza principale oggi è il ritorno a una vita politica ordinaria. Sembra che ci sia sempre bisogno di un governo di larghe intese perché ogni anno spunta una nuova emergenza da affrontare. Mi risulta difficile collocarmi e accostarmi a una categoria di persone piuttosto che a un’altra. Non mi considero neppure di destra. Non mi ritengo proprio parte di un procedimento che divide la società tradizionale tra destra e sinistra». Giuseppe, 26 anni, Cosenza: «Voterò per la coalizione presentata da Giorgia Meloni. Le emergenze nazionali principali sono rappresentate dal caro bollette e dall’inquinamento. Putin va senz’altro punito, ma noi italiani e gli europei in generale non possono farne le spese». Quando gli faccio notare che le destre hanno un programma di soluzioni al cambiamento climatico tra i più carenti, mi risponde che lo sa. Anzi, rincara: «La destra non fa proprio nulla per l’ambiente. Ma i punti che mi avvicinano a loro sono di più rispetto a quelli che mi avvicinano alla sinistra. Perciò…».

Non potendo rivendicare un proprio orizzonte semantico, linguistico e progettuale, i giovani hanno adottato quello delle generazioni precedenti. Parlano dei costi dell’energia, del rincaro delle bollette, del tetto al prezzo del gas e non di sostenibilità, perché mettere in discussione la realtà è ormai considerato un atteggiamento controproducente, disfattista e vuoto. Invece di combattere la marginalità che pure dichiarano di sentire, preferiscono accompagnarla e saltare sul carro della maggioranza, cioè su quello degli adulti, che continuano indisturbati a perpetrare un’idea di mondo in linea con i loro pruriti, le loro preoccupazioni, i loro privilegi.

Anche a sinistra, storicamente più incline a favorire contenuti di matrice egualitaria, rimbomba un’eco sorda. Leonardo, 26 anni, Rimini: «Sono un giovane lavoratore del mondo dello spettacolo. Nessuno ha messo in primo piano la mia categoria nei punti del loro programma. Voterò Più Europa perché, oltre a portare avanti i diritti sociali che in Italia faticano a prendere piede, mantengono un occhio attento sul contesto europeo senza cavalcare gli umori dell’elettorato. E poi, ho la sensazione che ci siano meno chanche che venga eletto un disonesto tra le loro fila rispetto ad altri partiti. I problemi sono ormai cronicizzati – scuole arretrate, mondo del lavoro malato, sistema elettorale zoppo». Maria, 28 anni, Tradate (VA): « Voterò Sinistra italiana e Verdi. Anche se forse l’ordine delle priorità è leggermente diverso dal mio… Le problematiche maggiori in questo momento sono rappresentate dall’evasione fiscale, dalla disoccupazione e dalle pensioni. Se guardo tra i miei coetanei, vedo sconforto e disillusione, una sfiducia piuttosto radicata nei confronti delle istituzioni e del futuro».

Non si tratta neanche del voto “alla meno peggio”, che sembra aleggiare tra le fila di ragazzi e ragazze a prescindere dalla classe sociale di appartenenza, dal reddito delle famiglie di origine, o dell’area geografica di riferimento. È più che altro l’apparente, presunta assenza di fiducia e quindi di lucidità rispetto a quelle che sono le storture più evidenti dello stato attuale: pretendere un cambio di passo rispetto alla gestione della catastrofe climatica – il rispetto degli accordi di Parigi e del Green New Deal europeo, la sensibilizzazione nei confronti di campagne che promuovano un sistema di trasporti meno inquinante e un‘alimentazione che non ricorra allo sfruttamento intensivo degli animali e dei territori – e naturalmente uno Stato che ponga fine alle ricorrenti ingiustizie subite da chi si appresta a trovare una casa e un primo lavoro retribuito, significa semplicemente fare gli interessi della propria categoria per garantirsi un futuro quantomeno vivibile.

A questo proposito, Carmelo Traina, ex presidente di Visionary e attivista sul suolo nazionale per i diritti delle nuove generazioni, dice: «All’interno dei programmi politici attuali, in realtà le proposte ci sono. Solo che poi bisogna vedere se si metteranno in pratica. La proposta di Enrico Letta di investire sul futuro dei giovani dando loro 10mila euro al compimento dei diciott’anni, dov’è finita? Questa era un’occasione per dibattere e sollevare le urgenze e i problemi che ci toccano da vicino, perché poi dal 26 settembre governerà chi verrà eletto, e basta. L’astensionismo normalmente non sarebbe una reazione corretta, perché significa per l’appunto astenersi dal gioco. Ma di quale gioco parliamo? Grazie ai sondaggi i partiti sanno già quali saranno i seggi vincitori, costruiscono un Parlamento a scacchiera. Il gioco è inesistente. Non si può più valutare l’astensionismo come una volta, cioè come una forma di rinuncia a una forza di azione. Qual è l’azione e qual è la forza?».

E infine: «La reazione più giusta tra i giovani sarebbe quella di mettersi a fare politica. Provare ad avere un ruolo all’interno di questi partiti, cambiandone le logiche dall’interno. Vista com’è andata la campagna elettorale sembra impossibile, anche per i partiti apparentemente più aperti. I giovani che oggi si impegnano, decidono di fare attivismo, non politica. Non credono più che quella cosa, cioè la politica, abbia ancora potere. Ma così ne resteremo sempre fuori».

Luca Cifoni per “il Messaggero” l'1 settembre 2022.

Secondo i sondaggisti, sono più tentati dall'astensione rispetto ad altre fasce di popolazione; anche perché quelli che studiano o lavorano fuori sede devono per forza mettersi in viaggio verso i Comuni di residenza per poter esercitare il diritto di voto. Ma il principale fattore che rende i giovani meno rilevanti in questa competizione elettorale è probabilmente ancora più semplice: sono pochi, rappresentano una quota di italiani molto più bassa rispetto a quella di trenta o quaranta anni fa.

[...] Partiamo proprio dai numeri: considerando la popolazione di cittadinanza italiana di 18 anni e più (stimata dall'Istat a gennaio di quest' anno), che corrisponde con qualche minima approssimazione ai circa 46 milioni di italiani iscritti nelle liste elettorali esclusi i residenti all'estero, quelli con un'età che non supera i trent' anni sono poco meno di sette milioni. In percentuale valgono il 15% del totale dei votanti. 

Aggiungendo coloro che hanno tra i 31 e i 35 anni si arriva intorno ai 9 milioni e mezzo, ovvero ad una percentuale che sfiora il 21. In altre parole, quasi quattro quinti degli elettori hanno più di 35 anni. Una fotografia confermata anche dall'età media, sempre calcolata sulla quota di residenti italiani che ha compiuto la maggiore età: si aggira sui 54 anni.

[...] Certamente non aiuta l'assenza di una normativa specifica per i fuori sede: esistono sì agevolazioni per i viaggi in treno e in aereo, ma a parte eccezioni limitate come quelle di militari e forze dell'ordine resta impossibile votare dove si ha effettivamente il domicilio, opzione che è invece riservata agli italiani all'estero. 

E allora per molti la spinta a muoversi, per di più in una fase di ripresa dell'attività lavorativa o universitaria, può risultare insufficiente. Anche il dibattito politico non appare particolarmente attraente per le generazioni più giovani, al di là dei riferimenti quasi doverosi ai temi del lavoro. La questione ecologica, per quanto evocata, resta sostanzialmente sullo sfondo.

Molto si discute di pensioni, tema sensibilissimo per i votanti dai 50 in su e per i sindacati: la Lega, che ha formalizzato la proposta di Quota 41 per evitare il ritorno pieno alle regole della legge Fornero, fa balenare allo stesso tempo l'ipotesi di un ripristino della leva obbligatoria: che probabilmente non entusiasma i potenziali interessati. Sulla carta è il Partito democratico a cercare il voto giovanile, con l'idea di poter risultare il primo partito almeno in questo segmento di età. 

Il voto dei giovani (dai 18 ai 34 anni) nella storia d’Italia: la Dc, poi il balzo del Pci, i casi di Berlusconi & Prodi. Benedetta Mura su Il Corriere della Sera il 27 agosto 2022.

Dal dopoguerra è stata la generazione dei baby boomer, nati dal 1953 fino al 1965, quella più incisiva per il destino politico del Paese. Adesso, cinque anni dopo il successo dei 5 stelle, un altro record: in base alle intenzioni di voto il 42,7% è indeciso o pensa di astenersi. Negli anni 70 i ragazzi erano il triplo, avverte il demografo. 

«Non fidarti di nessuno con più di 30 anni». La frase simbolo dei moti rivoluzionari degli Anni 60 e 70 oggi è più attuale che mai. I giovani nel 2022 hanno perso la forza e il peso politico delle generazioni precedenti ma hanno aumentato la loro sfiducia nei confronti della classe parlamentare. Il 42,7% dei ragazzi, tra i 18 e i 34 anni ha dichiarato di essere indeciso o di astenersi dal voto alle elezioni del 25 settembre. Un dato allarmante che supera l’astensionismo dell’elettorato generale, pari a 38,7%. C’è un’aria di sfiducia e disinteresse opposta a quella che si respirava nel secondo dopoguerra. «Tutti andavano a votare. C’era un’affluenza superiore al 90%», spiega Dario Tuorto, professore associato di sociologia generale dell’Università di Bologna ed esperto di partecipazione politica. «Il tema dell’elettorato giovanile di quegli anni è poco studiato, perché l’astensionismo non costituiva un problema. Per quel che sappiamo la famiglia giocava un ruolo importante nella formazione dell’identità politica». Nel libro L’Attimo fuggente: giovani e voto in Italia, tra continuità e cambiamento, Tuorto racconta che, nel primo ventennio dopo la guerra, il voto dei giovani è conforme a quello del resto della popolazione. La Democrazia Cristiana raccoglie il 40% dei consensi tra i ragazzi, attratti da nuovi processi di consumo e lavoro. I giovani credono che il miglioramento della loro condizione sia concepibile solo in una dimensione collettiva.

Il sorpasso

Alle elezioni politiche del 1968 il 31% dei giovani vota Dc. Una diminuzione di consensi che peggiora negli Anni 70 quando il Partito comunista italiano diventa il più votato dagli under 30. «In questi anni i giovani cominciano a comparire come forza politica e si spostano verso sinistra», dice Tuorto. Nel 1972 arriva il sorpasso. La Dc rimane al governo ma il Pci è il primo partito tra i ragazzi, con il 37% delle preferenze. Numeri superiori rispetto al totale degli elettori che nel ‘72 vota Dc per il 38,6% e Pci per il 27%. «La consistenza demografica dei giovani è rilevante. L’opposto della situazione attuale», spiega Alessandro Rosina, professore di demografia nella facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano. «I primi tre decenni del dopoguerra vengono chiamati i “Trenta gloriosi” perché sono anni di crescita e protagonismo dei giovani. Sicuri di sé, con un ruolo politico e condizioni migliori rispetto a quelle dei genitori». Alle elezioni del 1983 il Partito comunista tocca il picco raccogliendo il 38% dei voti tra gli under 30, +8% rispetto al resto degli elettori che votano Pci per il 20% e Dc per il 33%. È il voto dei baby boomers, nati tra il 1953 e il 1965. La generazione più attiva di sempre per partecipazione elettorale e la più propensa a votare verso sinistra. I ragazzi cresciuti tra gli Anni 70 e 80 si sono formati politicamente in modo autonomo e sempre meno in famiglia. La politica per loro è una dimensione espressiva e identitaria fondamentale. Nel frattempo, nascono nuove formazioni come Radicali e Verdi che i giovani premiano, anticipando la novità politica di questi partiti. Un processo di allargamento iniziato nel 1979 e che permette alla nuova sinistra di conquistare il 10% delle preferenze.

I sondaggi: che cosa voteranno i giovani il 25 settembre 2022 (a cura di Paola Parra)

L’inizio dell’instabilità elettorale

«Nella seconda metà degli Anni 80 «il contesto politico si scompagina», sottolinea Tuorto. «I riferimenti tradizionali cadono e i partiti non si inquadrano più nello schema classico destra-sinistra». Nelle elezioni del 1987 il consenso del Pci scende al 30,9%, dando inizio a un periodo di instabilità elettorale che andrà avanti anche negli Anni 90 e 2000. Rosina parla di un «cambiamento antropologico». Le generazioni che si affacciano al voto «dopo la caduta del muro di Berlino sono post ideologiche, con un pensiero politico più fluido. La polarizzazione tra democristiani e comunisti salta completamente. La propensione al voto si basa sull’offerta politica del momento».

Il fattore B

L’ingresso di Silvio Berlusconi in politica segna uno spartiacque, riuscendo a strappare l’elettorato giovanile che per oltre 20 anni ha votato a sinistra. Nel 1996 l’86,3% dei giovani va alle urne e il 57,6% sceglie la coalizione di centrodestra. «La presenza di figure nuove mantiene alta l’attenzione», spiega Tuorto. Nel 2001 l’alleanza tra Forza Italia, Alleanza Nazionale, Lega e centristi rimane la prima scelta tra gli under 30 con il 49,4%, mentre l’affluenza scende all’81,3%. Cinque anni più tardi il centrosinistra torna al comando con Prodi e raggiunge il record di consensi tra i giovani con il 49% . «Il voto giovanile comincia a essere simile a quello di altre fasce d’età», dice Tuorto. Perde peso e rilevanza fino al 2013: l’anno del Movimento 5 Stelle. «Il fenomeno dei grillini è evidente e suscita l’interesse dei giovani perché toccano dei temi a loro vicini come precariato e questioni ambientali». Il 74,5% dei ragazzi nel 2013 va alle urne e il 40,7% vota 5 Stelle. Lo stesso fenomeno si ripete nel 2018 quando il partito di Giuseppe Grillo conquista il 39% dei voti su un elettorato giovanile sceso al 73%.

Il confronto, affluenza alle urne dei giovani tra i 18 e i 30 anni (grafico Paola Parra)

Il 25 settembre

Adesso, invece, a distanza di quattro anni dall’ultima elezione, a guerra in corso, pandemia e crisi di governo, i giovani chi sceglieranno? Secondo i sondaggi Ipsos di luglio, i ragazzi tra i 18 e i 34 anni voteranno Pd come primo partito (19%), seguito da Movimento 5 Stelle (15,7%) e Fratelli d’Italia (14,5%) mentre il 42,7% dichiara di essere indeciso o di astenersi dal voto. «Per conquistare i giovani bisogna essere credibili, coerenti. Serve un cambio di passo. O si sta da una parte o dall’altra», dice Chiara Gribaudo, 41 anni, deputata del Pd con delega “missione giovani”, uno dei punti di riferimento dei Giovani Democratici. «Vogliamo ripartire con una partecipazione più strutturata e riattivare quella parte di elettorato che è venuta a mancare a causa di un totale disinvestimento nei giovani. L’obiettivo del Pd è aumentare il bacino di 75mila iscritti e ricreare un rapporto con i movimenti studenteschi».

«Alla politica chiediamo che parlino non solo di noi ma con noi», dice Fabio Roscani, 31 anni, presidente di Gioventù Nazionale, il movimento giovanile di Fratelli d’Italia. Organizzazione che dal 2017 è passata da 10mila a 50mila iscritti. «I giovani italiani vengono definiti come bamboccioni e untori, ma nessuno si ricorda che siamo state una delle categorie più colpite, rimasti senza scuola e senza sport», afferma Roscani. «Chiediamo di poter costruire il nostro futuro in questa nazione. Di comprare casa, mettere su famiglia, trovare lavoro, senza essere costretti a cercare fortuna altrove. Vogliamo essere ascoltati».

·        Il Voto Ignorante.

"Sono ignoranti". Makkox torna a insultare gli elettori di centrodestra. Il vignettista di sinistra senza mezzi termini: "Ci sono molte statistiche che mettono il nostro Paese in fondo alle classifiche per alfabetizzazione, scolarizzazione..." Massimo Balsamo il 30 Agosto 2022 su Il Giornale. 

Sicumera, saccenteria e superiorità. Gli intellettuali di sinistra sono contraddistinti quasi sempre da queste “virtù”. Uno degli slogan ricorrenti è il seguente: gli elettori di destra sono ignoranti. E Makkox non ha dubbi sul punto. “L'ignoranza è concime per la destra”, aveva fieramente affermato poco meno di due settimane fa. Un classico, insomma, sfoggiato nuovamente nell’intervista rilasciata a La Stampa.

"Destra? Popolo ignorante", "Serve il Maalox". Scontro tra Makkox e Salvini

Il vignettista, volto di spicco di “Propaganda Live”, ha acceso i riflettori sul livello bassissimo della campagna elettorale: “Viene da pensare che a preparare i messaggi sia una scimmia: ‘ti piace di più la banana o un sasso in faccia?’. In realtà, questi messaggi sono confezionati per raggiungere un certo tipo di pubblico, diciamo, terra terra”. E, dimenticando la gigantesca tradizione culturale della destra, ha rilanciato la storiella degli elettori ignoranti che votano per la coalizione formata da FdI, Lega e Forza Italia.

“Non lo sostengo io, ci sono molte statistiche che mettono il nostro Paese in fondo alle classifiche per alfabetizzazione, scolarizzazione, lettura dei libri, comprensione di un testo scritto da parte dei giovani...”, l’analisi di Makkox. Ovviamente senza entrare nel dettaglio. A suo avviso, infatti, la maggioranza degli elettori di destra ragiona di pancia e non ha l’abitudine alla complessità. Tradotto, chi ha cervello vota dalla parte giusta. Insomma, per conquistare quell’elettorato bastano messaggi semplici e intuitivi: “Mentre la sinistra si basa su valori controintuitivi. Esempio: è giusto accogliere il migrante, anche se può rubarti il lavoro. La destra ti dice: meglio accogliere il turista, che ti porta i soldi”.

Autoironia (fuori luogo) su pancetta e guanciale I social travolgono il leader dem: "Ridicolo"

Il Partito Democratico ha puntato su una strategia di comunicazione abbastanza singolare, trasformatasi in un boomerang: dicotomia a pioggia, tanto da scatenare l’ironia del web. Secondo il vignettista, i dem si sono dovuti adeguare, puntando su una tattica simile a quella della destra. Ovviamente ci sono delle distinzioni: “Basta vedere le card sui social, stessa grafica, ma senza svaccare come fanno Salvini e Meloni ed è lì l’errore: o vai fino in fondo e fai il cafone o non funziona”.

Il giudizio sui leader di Lega e FdI è “naturalmente” negativo, e non manca all’appello la stroncatura nei confronti di Silvio Berlusconi: “Immortale, una specie di icona. L’immagine che promuove di sé è la stessa del 1994. Meraviglioso, lo guardi e ti ritrovi in una macchina del tempo. Anche i video che fa per i social sono girati esattamente come 30 anni fa, è l’unico che su Instagram li mette in orizzontale. Ora è pronto per Tik Tok. Vederlo in quel contesto è un po’ come vedere Cavour, con vicino la lampada a petrolio”. Nulla di nuovo, in altre parole: la delegittimazione dell'avversario prosegue senza sosta. 

Makkox: "Non lo sostengo io, ma...". Il modus-operandi di un ignorante? Andrea Tempestini su Libero Quotidiano il 30 agosto 2022.

Andrea Tempestini, Milanese convinto, classe 1986, a "Libero" dal 2010, vicedirettore e digital editor. Il mio. sogno frustrato è l'Nba. Adoro Vespe, gatti, negroni e mr. Panofsky.

Era lecito attendersi qualcosa in più da Makkox, genio assoluto quando si muove nel perimetro delle vignette, ma carente in veste di maître à penser. Metti caso l'intervista a La Stampa, un'intera paginata di quelle che si riservano a chi in campagna elettorale - politici esclusi - hanno davvero qualcosa da dire. Ecco, nell'intervista al quotidiano di un Massimo Giannini più barricadero che mai, il vignettista torna a ripetere che chi vota destra o centrodestra è un ignorante. Antico vizio della sinistra. Lecito attendersi qualcosa in più, appunto.

Riflettendo sulla campagna elettorale, Makkox parla di un livello "bassissimo, viene da pensare che a preparare i messaggi sia una scimmia: ti piace di più la banana o il sasso in faccia? In realtà, questi messaggi sono confezionati per raggiungere un certo tipo di pubblico, diciamo, terra terra". Giro di parole assai paraculo per dire, arieccoci, che gli elettori del centrodestra sono degli zoticoni. Tanto che gli si fa notare: "Di nuovo con la storia degli elettori ignoranti che votano a destra?" (a luglio filosofeggiò sostenendo che "l'ignoranza è concime per la destra", parlava della Meloni).

Già, ancora con la storiella del noi meglio di voi che siete degli ignoranti. Ed ecco che però Makkox, replicando all'obiezione, sembra quasi prendere le distanze da se stesso: "Non lo sostengo io, ci sono molte statistiche che mettono il nostro Paese in fondo alle classifiche per alfabetizzazione, scolarizzazione, lettura del libri, comprensione di un test scritto da parte dei giovani...", puntualizza.

E quel "non lo sostengo io" rievoca il modus operandi di quelli che "Mussolini ha fatto anche cose buone", di quelli che "il vaccino ti rende sterile", di quelli che "la Terra è piatta", di quelli che "Putin è stato aggredito". Non sono mai loro a sostenerlo, bensì studi (o "statistiche") non meglio precisiate. In definitiva, le possibilità sono due: quel "non lo sostengo io" ricorda il modus operandi di chi dice una fesseria e sa di farlo o - curioso contrappasso - di un ignorante.

L’ignoranza ucciderà la democrazia o la democrazia favorirà l’ignoranza? Gianluca Pomo, Esperto di politiche energetiche e sviluppo commerciale, su Il Riformista il 30 Agosto 2022

La bravissima Gaia Raisoni ci segnala quanto la qualità della formazione debba essere condizione necessaria per poter partecipare alla vita pubblica e permettere quindi all’elettore di scegliere con cognizione di causa ponendosi una domanda – più che legittima – e fondamentale. L’ignoranza ucciderà la democrazia o la democrazia favorirà l’ignoranza? di Gaia Raisoni

Qualche tempo fa, il sondaggio di Ecfr/YouGov/Datapraxis evidenziava che per quasi un italiano su tre la colpa della guerra è dell’Ucraina e dell’Occidente. Questo dato è uno dei più alti in Europa. L’Italia è anche penultima in Europa per percentuale di laureati, secondo i dati Eurostat 2020. Secondo il report “Adult education and training in Europe: Building inclusive pathways to skills and qualifications” (2021) di Eurydice, il 37.8% degli adulti in Italia non ha concluso le scuole superiori.

Sappiamo che il diploma, il “certificato” non è indice dell’intelligenza di una persona, ma è indubbiamente uno dei KPI quantitativi e qualitativi per verificarla. Durante i miei studi in Malawi, emerse chiaramente come l’attestato di diploma elementare certificasse sì la capacità del singolo di saper leggere e scrivere, ma a distanza di tempo, le persone venivano identificate come analfabete. Il fenomeno è noto come analfabetismo di ritorno. Questo avviene poichè non si ha accesso a libri, giornali, formazione in senso lato. Se non si esercita una skill, questa viene meno.

Nessuno ci valuta dopo essere usciti e uscite dai percorsi scolastici sulle 8 competenze chiave europee. La maggior parte dei dipendenti si ritrova a seguire lungo tutto il corso della propria carriera solo formazione relativa alla sicurezza, qualche corso per l’apprendimento di una lingua straniera, formazione specifica su un nuovo prodotto, strumento o software di riferimento. Ma la valutazione di competenze fondamentali per il vivere in società, quali la  competenza personale, sociale, la capacità di imparare ad imparare e la competenza sociale e civica in materia di cittadinanza non sono contemplate.

Ma come si possono valutare queste competenze? La risposta sembra essere effimera, non matematicamente identificabile. La partecipazione attiva alla vita sociale e politica del proprio paese è competenza concreta e valutabile. Si esprime attraverso il voto. Il voto che è un diritto, ma anche un dovere. Ed esprimere il proprio voto, senza coercizioni, spontaneamente, è universalmente riconoscibile come il massimo esempio di democrazia. Recarsi a votare e votare bastano a testimoniare di essere in possesso di quelle competenze che fanno di noi cittadini consapevoli e intelligenti?

Siamo perfettamente in grado di leggere, valutare la veridicità di un’informazione, ricostruirne le fonti e sostenere un confronto, portando avanti scientificamente la nostra idea o proposta? A questa domanda, ognuno di noi ha una risposta. Ma negli ultimi anni, è indubbiamente venuta meno la capacità di confrontarsi a voce, in uno spazio circoscritto e con un tempo definito. Il confronto si è trasformato nello spazio – da fisico a digitale – nei tempi – i commenti sono immediati e non ponderati – nel numero delle persone coinvolte. E così per l’apprendimento. Potenzialmente, milioni di persone possono avere accesso a contenuti di formazione illimitati, ma per lo più senza guida. La formazione risulta talmente libera che chiunque, anche senza competenze comprovate, è in grado di promuovere contenuto. Ma siamo in grado di valutarne la qualità? La quantità risulta essere l’unico criterio, perdendo di vista i KPI qualitativi.

Avere tutti la possibilità di dare un parere ci ha reso più liberi o semplicemente la libertà di poter condividere qualsiasi notizia, anche falsa, ha minato la capacità di giudizio delle persone? L’accumulo di informazioni ci ha reso più intelligenti o – non avendo di pari passo acquisito strumenti e competenze necessarie per interpretare le informazioni – siamo semplicemente più ricchi, ma non sappiamo come farle nostre?

Tra poche settimane, il nostro Paese si troverà a dare una risposta a queste domande. Eserciteremo il diritto di voto. Capiremo poi se con intelligenza.

·        Il Tecnicismo.

Il ruolo dei tecnici in politica e le tante anomalie d’Italia. Paolo Mieli su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022. 

In 30 anni quattro superprofessionisti hanno guidato governi di «larghe intese». Il centrodestra ha comunque presentato un candidato premier, il centrosinistra no

La storia della Seconda Repubblica è iniziata ventinove anni fa con un evento assai particolare: la convocazione al Quirinale dell’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, «spostato» a Palazzo Chigi per dar vita ad un governo d’emergenza. Curiosamente questa fase di storia dell’Italia repubblicana si chiude (non sappiamo se in via definitiva) con l’uscita dallo stesso edificio, Palazzo Chigi, di Mario Draghi, un personaggio dalle caratteristiche assai rassomiglianti a quelle dell’illustre predecessore. Reduce, Draghi, da un’impresa anch’essa simile a quella che toccò al presidente del Consiglio del 1993. Ciampi e Draghi — com’è noto — non sono stati gli unici premier emergenziali dell’ultimo trentennio. Nel 1995, pochi mesi dopo la temporanea uscita di scena di Ciampi, fu chiamato alla guida di un esecutivo altrettanto straordinario l’ex direttore generale della Banca d’Italia, Lamberto Dini (già ministro di Berlusconi, successivamente leader di un effimero partito di centrosinistra). Sedici anni dopo, fu la volta dell’ex rettore della Bocconi ed ex Commissario europeo, Mario Monti, anche lui scelto per la guida di un governo di salute pubblica e fondatore, in tempi successivi, di un partito dalla vita relativamente breve. Quattro «supertecnici» accomunati dall’aver guidato governi di «larghe intese» a cui i presidenti della Repubblica avevano affidato la missione di far fronte a situazioni che vennero presentate come uniche.

Le prime tre di queste personalità non provenienti dalla politica (e qualche loro ministro ugualmente tecnico) si sono poi affezionate al mondo conosciuto in quell’occasione e sono rimaste in politica. Draghi, a differenza degli altri tre, non sembra desideroso di trattenersi e mettere una qualche radice nel Palazzo popolato da deputati e senatori.

I risultati dell’azione dei quattro «grandi tecnici» sono stati giudicati in termini positivi. Da tutti (o quasi), anche fuori dai nostri confini. A dispetto di tali successi, però, non risulta che qualche altro Paese del mondo contemporaneo si sia sentito incoraggiato all’adozione di questo genere di soluzione per le proprie crisi. Già, come mai nessun altro è ricorso, in emergenza, ai supertecnici? Strano, no? Come mai gli altri Paesi, tutti, si ostinano a procedere per la via tradizionale del ricorso ad elezioni e della scelta di primo ministro e governo sulla base del responso elettorale? Nessun politologo — che ci risulti — ha mai provato a dare una risposta a queste domande.

Così come nessun politologo si è fermato a riflettere sull’effetto che queste esperienze (ripetiamo: ben quattro nell’arco di un trentennio) possono avere avuto sul sistema politico. Le prime due (Ciampi e Dini) non paiono aver intaccato lo spirito dei primi Anni Novanta. Centrodestra e centrosinistra insistettero allora nel dar vita a schieramenti pur disomogenei che esprimevano coalizioni con annessa leadership da portare al governo legittimate da un voto. E furono, tra infiniti tormenti, gli anni dell’alternanza Berlusconi-Prodi. All’inizio del decennio passato, però, le cose sono cambiate radicalmente. Dopo l’esperienza Monti, il centrodestra — ancorché travolto dai marosi provocati dai guai giudiziari di Berlusconi — non ha rinunciato all’idea di presentarsi al proprio elettorato nella sua versione ormai trentennale. E al cospetto delle urne ha regolarmente indicato il capo del governo nel leader (stavolta presumibilmente la leader) del partito che avrebbe preso più voti. Il centrosinistra, no. Intimidito forse dalla qualità dei tecnici che evidentemente considerava superiore alla propria, da più di dieci anni ha scelto di non offrire al Paese né una coalizione né un leader per il governo. Neanche questa volta. Il fronte progressista aveva avuto la stessa esitazione nel 1994 quando si concluse l’esperienza Ciampi. Alle elezioni di quell’anno si presentò senza candidato e fu battuto — di misura — da Berlusconi. Poi la sindrome fu superata, fu trovato un leader nella figura di Prodi (che però aveva l’handicap di non essere capo del partito di maggioranza relativa) e per un decennio la questione fu risolta anche a sinistra. Ma, uscito di scena Prodi, la strana sindrome del ’94 si è ripresentata.

Nell’epoca intercorsa tra l’esperienza di Monti e quella di Draghi (2011-2022) il Pd non ha neanche più provato a conquistare la maggioranza dei voti e dei seggi parlamentari con una propria coalizione di governo. Mai più ha presentato agli elettori un candidato premier. Pierluigi Bersani che avrebbe potuto esserlo se si fosse andati al voto nel 2011, due anni dopo fu costretto a constatare che l’occasione giusta era andata persa. Da allora il Partito democratico si è specializzato nell’arte di giostrarsi nel caos parlamentare, contribuire alla nascita di coalizioni emergenziali e far poi durare la legislatura fino alla fine naturale facendo leva sull’attaccamento degli eletti al posto precedentemente conquistato.

Questo metodo porta con sé indubbi vantaggi: presenza assicurata nel governo e nel sottogoverno, totale deresponsabilizzazione a fronte delle scelte più impegnative, irrilevanza di eventuali insuccessi elettorali. Ma, ora che è finita la campagna elettorale, sorge il dubbio che questo modo di prospettare il proprio futuro — facciamoci eleggere, poi sistemeremo le cose in Parlamento, contando sull’immediato tracollo degli avversari e, nel caso, chiamando a Palazzo Chigi un nuovo supertecnico — possa garantire una qualche affidabilità. Né ci sembra che una prospettiva del genere possa costituire per Mario Draghi un richiamo irresistibile.

·        L’Astensionismo: e la chiamano democrazia…

ASSIOMA CON INTERCALARE: Un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.

Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.

Estratto da “la Zanzara - Radio 24” il 27 settembre 2022.

“Penso che ci siano tanti coglioni in Italia, c’è gente che ha pure votato Salvini, vi rendete conto? C’è gente che non capisce…”. Oliviero Toscani, a La Zanzara su Radio 24, si iscrive al club di quelli che non ci stanno e spara a zero sugli elettori di Giorgia Meloni e del centrodestra: “Voi dite che una maggiore anzi ha scelto. Ma cosa vuol dire, hanno votato anche Mussolini, dai che cazzo vuol dire. Quando la maggioranza è cogliona c’è una democrazia cogliona”.

Siamo passati da Draghi a Meloni, dicono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: “Gli italiani che hanno votato sono dei deficienti, hanno scelto anche Mussolini ai tempi, hanno scelto Orban, delle cagate. Che torni Berlusconi non è normale, non è un Paese normale. Io sto qui e mi divertirò. Ho votato la Bonino, anche questa volta a 80 anni non ho mai avuto al governo qualcuno che ho votato”. Attacca la Meloni anche sull’estetica: “Sembra Wanna Marchi, ha lo stesso stile, urla, strabuzza gli occhi, le unghie rosse, pitturata di blu, volgare, pseudo figa, trash ma senza stile”.

Adesso che succede?: “Adesso ci divertiremo, speriamo non facciano molti danni, quando Berlusconi andava in giro ci si divertiva. Quando era premier eravamo sputtanati, adesso ancora peggio”. Magari abbassano le tasse: “Non è la cosa più importante…e poi questi non sono capaci, non sono preparati”. E Letta?: “Mi sta proprio sulle palle, un pesce morto senza carisma, un vecchio democristiano”. Qualcuno ha paura del fascismo: “Non tornerà il fascismo, tornano Meloni e Berlusconi. Voglio farmi delle grandi risate, saremo i Ridolini della politica mondiale”

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 13 ottobre 2022.

L'ultimo ragionamento che Giuliano Amato fece da presidente della Corte costituzionale ruotava attorno al «caos» istituzionale in cui rischia di precipitare l'Italia, qualora i poteri anziché cooperare si faranno la guerra. 

Ora che si è spogliato delle vesti istituzionali ed è tornato un battitore libero, il presidente emerito ci richiama tutti a un altro dramma nazionale: il «vuoto». Intende il vuoto pneumatico di partecipazione, il nulla che è subentrato ai partiti tradizionali. 

Qualcosa che la politica dovrebbe temere come la peste e che invece quasi accarezza o comunque considera inevitabile. Il ragionamento di Giuliano Amato, ospite ieri della convention di sindaci che fanno riferimento all'associazione «Ali», la Lega delle Autonomie locali guidata dal sindaco di Pesaro Matteo Ricci, in un dialogo con il sindaco di Bologna Matteo Lepore, parte dal terribile incremento dell'astensionismo alle elezioni. «Un astensionismo che è figlio della sfiducia nel sistema».

Non ne è troppo stupito.

«Un tempo, quando io ero giovane ed ero iscritto al mio partito, il Psi, alla domenica il parlamentare veniva in sezione. Succedeva lo stesso per i comunisti o per i democristiani. La politica era partecipazione, come previsto dalla Costituzione. Adesso sotto i leader la piramide non c'è più. Ci sono i comunicatori». 

I partiti che dovevano aggregare i cittadini e costruire identità politico-culturali sono finiti malamente. 

«È la storia. Tutte le organizzazioni, se non hanno antidoti forti, finiscono per sclerotizzarsi». Ma quel che ne è rimasto, gli fa abbastanza schifo. 

«Se ancora si riuniscono in sezione, è solo per spartirsi le cariche. Non lo dico per qualunquismo». Il guaio, però, spariti i grandi partiti, cadute le ideologie, e che al loro posto «c'è il vuoto. Ma senza, chi pensa al bene comune? Chi ci farà re-imparare ad ascoltare anche le ragioni dell'altro? Chi ci insegnerà la mutua tolleranza?».

Amato ricorda ai sindaci riuniti nella convention annuale due giganti del pensiero, il filosofo Habermas e il papa Benedetto XVI. «A un certo punto si pensò che fosse subentrata la società liquida, dove contano solo gli interessi individuali». Ed era un grave rischio. 

Trent' anni dopo, però, siamo in una fase diversa. «Per metà siamo ancora nella società liquida. Ma ora al posto dei partiti che pensavano al bene comune, sono sorti degli aggregatori contro. Contro gli immigrati, contro i cattolici, contro i neri, contro tutti. E se la società liquida ci frammentava, ora gli aggregatori ci spaccano». 

Intanto la politica è sempre più distante, i cittadini sempre più delusi. «Prendete i giovani, cui stanno a cuore i temi ambientali. E li capisco, io sarò su una nuvola, loro bisogna vedere se ci arrivano al 2050. Ebbene, l'ecologia è scomparsa dalla campagna elettorale. Se fossi stato giovane, non mi sarei particolarmente interessato neanche io». Qualcosa va inventato per ricominciare con la partecipazione dei cittadini, è dunque l'appello di Amato. «Perché io mi pongo il problema della sopravvivenza della democrazia».

Tutti quei comizi senza «cittadini». Poi i «cittadini» andavano a dormire. I «lavoratori» s’alzavano presto. I «compagni» dovevano meditare sulla speranza di un futuro più giusto. Meditavano, giustamente, anche di notte. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Ottobre 2022.

Seguo in televisione le cronache del cerimoniale del giuramento del nuovo governo di fedeltà alla Repubblica e alla sua Costituzione: sobrio, essenziale. Anche un po’ noioso. Non vola una mosca nel salone ornamentato: i due corazzieri in alta uniforme vigilano su un silenzio rotto solo dalla parlantina mormorata della formula sacrosanta e impegnativa del giuramento, recitata, a volte, emozionata sempre, dei giuranti cui il premuroso Segretario generale del Quirinale non manca di segnare con un dito lo spazio ove il giurante deve porre la firma impegnativa della ritualità democratica.

La notarile pignoleria concede uno spazio umano, quasi infantile al dito e al rito. Ne sono passate di cerimonie della politica democratica dal tempo dei tempi degli anni cinquanta, quando consideravo, ero un adolescente curioso, il comizio una forma di spettacolo assai seducente.

Il comizio in genere e non il comizio di questo o di quel partito. La televisione non c’era e se c’era, dormiva e se non dormiva, faceva dormire quando si occupava di politica, quando, con le tribune politiche, se ne occupava fuori dall’arengo garantito dell’unico telegiornale. Faceva dormire noi ragazzi ai quali sfuggiva il fascino di quel tono colloquiale, irrigidito dal rituale delle norme, ci annoiava quel parlare quieto e, anche allora, «politichese» di cui ci sfuggiva il senso. Cominciavano dicendo con impeto: Gentili elettrici ed elettori. Di rado dicevano «Cittadini». A me piaceva la parola «cittadini». E i comizi mi piacevano anche per questo. Oltre che per l’enfasi, il torrido appellarsi agli entusiasmi, gli scampoli di eloquenza, l’oratoria focosa. Io ascoltavo tutti: comunisti, missini, monarchici, socialisti e socialdemocratici, democristiani. Questi ultimi, erano, spesso, noiosi. Il mio giudizio è apolitico, s’intende, ricorda solo la mia adolescenziale valutazione tecnica. «Compagni, lavoratori, elettori. E, poi, cittadini e cittadine». I candidati itineranti, le madonne pellegrine della democrazia bambina, dovevano mandare a mente il nome del paese dove venivano scaricati dalla Fiat «millequattro» per guadagnare il palco illuminato dove gracchiava l’altoparlante, perché se lo avessero sbagliato, quel nome, il successo se lo potevano scordare. Se a Gravina ti fosse sfuggito un «mi stanno a cuore i problemi dei lavoratori di Grumo», eri finito. Ma altre insidie dovevano scansare, i tribuni. Una volta, nella mia Bitonto, nell’enfasi oratoria dell’appello, un tizio che si candidava non ricordo più per quale microscopica lista di dissenzienti dei dissenzienti, leggendo, si lasciò andare ad un «Elettori ed elèttrici». Proprio così «elèttrici».

Quando finiva un comizio, si spegnevano le luci e gli spettatori, camminando istintivamente al passo della marcia finale, raggiungevano l’altra postazione per ascoltare il prossimo comiziante e, alla fine di tre o quattro esibizioni, s’accendevano interminabili discussioni, che, quasi sempre, come tema avevano la perizia oratoria.

Poi i «cittadini» andavano a dormire. I «lavoratori» s’alzavano presto. I «compagni» dovevano meditare sulla speranza di un futuro più giusto. Meditavano, giustamente, anche di notte.

Nei romanzi e nei film affrescati sullo scenario della Rivoluzione francese si incontrava la parola Cittadino come appellativo livellante del cognome. Era la sanzione definitiva a carico dei titoli onorifici e nobiliari tanto in odio dal secolo dei lumi e delle emancipazioni. Erano tollerati i titoli frutto di corvée accademiche o professionali: Cittadino dottore, detto del cerusico, cittadino avvocato per il leguleio e cittadino generale per rivolgersi al militare di rango. Mancò poco che, con l’appannarsi degli ideali giacobini, si desse del «cittadino imperatore» a Napoleone.

Ricordo che, ai tempi, non poi così lontani della mia infanzia, io abbia amato il termine cittadino che sentivo usare solo quando si dava di piglio al linguaggio della politica. E sui manifesti del sindaco, ancora compare quel vocativo in neretto come ai tempi del dopoguerra, un lungo dopoguerra che si mescolò con la guerra fredda e che fece familiarizzare con i partiti politici le cui sorti sono state compromesse dal tramonto della «prima» Repubblica.

A proposito: va detto che non si sa chi abbia deciso, e quando, che sia finita e che ne sia sorta una seconda. Questa storia di numerare le Repubbliche non produce niente di buono. Comunque dei e ai cittadini mi piace parlare, oggi. Nella speranza che si recuperi il valore, non montagnardo, né illusoriamente egalitario della parola, ma la condizione di emancipazione dalla sudditanza, la liberazione dalla moltitudine della «ggente» eterodiretta e dei consumatori, clienti, spettatori, telespettatori e cittadini digitali. Oggi il nuovo governo è in carica e i cittadini che lo vogliono, i cittadini che sperano che ci restituisca il primato della politica alta, i cittadini che credono nei valori che animano le istanze e le volontà non stiano a guardare lo spettacolo.

Possono esercitare il diritto più utile: possono controllare. Scegliere. Mi accorgo che, forse, ho fatto un comizio. Ebbene si. O cittadini.

Astensionismo e disaffezione nell'era della democrazia della sfiducia. All'interno delle stesse democrazie costituzionali si vanno facendo strada pericolosissimi nemici, pronti a minare persino i princìpi fondativi dello Stato di diritto e a spianare la strada a ogni sorta di leader anti-sistema. RAFFAELLA GHERARDI su Il Quotidiano del Sud il 20 ottobre 2022 

CHE il maggior partito italiano sia quello dell’astensione e che questo dato cresca costantemente, come ampiamente confermato dalle ultime elezioni, è già di per sé indicativo della disaffezione crescente e sfiducia dei cittadini nei confronti della politica e dell’intero sistema rappresentativo democratico. Su questo problema tutti i partiti di casa nostra, i loro leader e leaderini sono pronti a stracciarsi le vesti dopo ogni tornata elettorale e a promettere che, senza dubbio alcuno, essi sono pronti a pensare misure idonee a colmare lo iato fra governanti e governati. Naturalmente tale “spettacolo” è stato messo in atto anche a seguito delle elezioni del 25 settembre, fino poi a dar rapidamente corso a tutta una serie di comportamenti post-elettorali, da parte di vincitori e vinti, che non contribuiscono certo a imprimere nuova fiducia fra rappresentati e rappresentanti.

Si tratta comunque di un fenomeno che va ben oltre i nostri confini e che caratterizza a largo spettro la crisi delle democrazie contemporanee. Su questo tema la letteratura politologica in senso ampio ha da tempo puntato l’attenzione e particolarmente da quando è apparso evidente, (soprattutto a partire dall’inizio del nuovo millennio e progressivamente in misura geometrica fino al presente), che siamo lontani dal trionfo planetario della democrazia e dei suoi valori, come qualcuno aveva immaginato dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Non solo: ma anche all’interno delle stesse democrazie costituzionali si vanno facendo strada pericolosissimi nemici, pronti a minare persino i princìpi fondativi dello Stato di diritto.

Il tema delle nuove forme di populismo che si stanno affermando da noi come altrove è balzato potentemente alla ribalta, divenendo punto di riferimento obbligato del dibattito politico a ogni livello a proposito della/delle crisi della democrazia attuale. Così si è parlato di una vera e propria “ondata” di populismo, fino a definire l’epoca presente come “l’età del populismo”; si tratta di un termine, quest’ultimo, che negli ultimi vent’anni ha conosciuto una inaudita fortuna, trasformandosi in una specie di etichetta attraverso la quale classificare di volta in volta formazioni politiche radicali, leader dalle posizioni eterodosse o semplicemente uno stile di argomentazione aggressivo e semplificatorio.

Si veda per una sintetica ed attenta analisi del concetto di populismo, sia dal punto di vista storico che relativamente al rapporto fra populismo e democrazia, il bel saggio di Damiano Palano, “Populismo, populismi e democrazia”, 2022. A conclusione del lavoro appena indicato l’autore sottolinea come il populismo, nella sua stessa struttura, presenti una specie di implicita e pericolosa, anche se talvolta soltanto latente, tensione “totalitaria”. Infatti, nel suo orientamento a concepire il popolo come un “tutto” omogeneo e moralmente “puro”, il populismo ha in sé una congenita tendenza a negare i diritti delle minoranze, le quali ultime costituiscono invece un elemento fondamentale e costitutivo delle democrazie liberali.

Si tratta dunque dei lineamenti di una “vocazione anti-pluralista” che contrassegna il populismo nelle sue varie versioni, nella misura in cui è sotteso dall’ambizione di risolvere ogni conflitto fra parti diverse entro una supposta “armonia del tutto”. Non si tratta qui di addentrarci nell’analisi delle variegate cause che segnano ora il successo dei movimenti e dei leader populisti che, dalla feroce critica alle istituzioni rappresentative liberal-democratiche, dichiarano invece di voler tener fede alla “vox populi” senza mediazioni, voce del popolo di cui i singoli leader in questione si proclamano in prima persona quali incontaminati garanti. Ciò che mi preme mettere in rilevo è una importante matrice di fondo che fa da presupposto ai populismi, soprattutto nella loro versione attuale.

Occorre prendere atto infatti dell’esistenza di una “crisi” che prevede due elementi alla fin fine fortemente interrelati: la crisi dei meccanismi e dello “spirito della rappresentanza democratica” e la diffusione “di una crisi di fiducia nel funzionamento del sistema istituzionale delle democrazie mature”. I complicati itinerari di questa duplice polarità all’interno della quale si inscrive la politica del presente, sono oggetto delle approfondite considerazioni che Franco Di Sciullo svolge nel suo volume su “La democrazia della sfiducia” (Editoriale Scientifica, 2022). Significativamente egli titola il capitolo conclusivo “Dalla sfiducia nella rappresentanza alla rappresentanza della sfiducia”, dopo aver specificamente dato conto dei percorsi attraverso i quali nuove forze politiche hanno lavorato e lavorano per confermare e radicare il senso di insoddisfazione dei cittadini, contribuendo quindi a loro volta a indebolire ulteriormente la fiducia di questi ultimi nelle istituzioni.

All’orizzonte si profilano i rischi di una crisi che rischia di diventare ingovernabile per quanto attiene i fondamenti della democrazia stessa e che spiana la strada a ogni sorta di leaderismo anti-sistema. Le considerazioni riportate a chiusura del volume in oggetto, arricchite da una citazione finale tratta dai Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio di Machiavelli, dovrebbero essere attentamente meditate non solo da tanti politici di casa nostra ma anche da chiunque abbia a cuore le sorti della nostra Repubblica e la sua difesa da ogni possibile deriva autoritaria: «Una democrazia della sfiducia, una politica fondata sulla sfiducia e alimentata dal sospetto, svilisce le istituzioni democratiche e genera disprezzo per l’ordinamento: sulle denunce circostanziate, formulate nelle sedi opportune, prendono il sopravvento “umori” che agitano la società e scuotono lo Stato. L’esito – già noto cinquecento anni fa – è il ricorso “a’ modi straordinari, che fanno rovinare tutta una repubblica”» (p. 191).

Affluenza in calo dal 1948: ora vota meno della metà degli italiani. Il Corriere della Sera il 6 Ottobre 2022. Il Corriere della Sera e il sito Corriere.it oggi e domani escono senza le firme dei giornalisti per un’agitazione sindacale.

La coalizione di centrodestra nel suo complesso rappresenta solo il 26% degli aventi diritto. Aumenta l’astensionismo ma crescono anche i voti nulli. Il Corriere della Sera e il sito Corriere.it oggi e domani escono senza le firme dei giornalisti per un’agitazione sindacale.

Per la prima volta in Italia dal 1948, meno della metà della popolazione nazionale è rappresentata in Parlamento. Un primato, quello della più bassa base elettorale, dipeso in gran parte dall’alto tasso di astensionismo alle ultime Politiche: 36,6%. Come segnala Marco Valbruzzi, docente di Scienza della politica all’Università Federico II di Napoli e autore di una ricerca sul tema, se nel conteggio rientrano tutti i cittadini e non soltanto i votanti, l’insieme dei partiti arriva infatti a rappresentare il 49,3% degli italiani. Il resto sono persone che si sono astenute (28,4%, cifra più bassa perché calcolata su base diversa), poi un 19,8% formato da residenti all’estero che non hanno votato, minorenni e non aventi diritto di voto come i condannati in sede penale in via definitiva, soggetti incapaci, ritenuti indegni per la giustizia. Infine, chi ha espresso un voto nullo o bianco (2,5%).

In passato la soglia del 50% di popolazione andata alle urne per eleggere Camera e Senato era stata superata con punte del 68,2% nel 1987, del 69,1% nel 1992 e del 68,1% nel 1994. Ma da tempo calava e già alle Politiche del 2018 il numero si era limato al 54,9%. «Solitamente si commentano i risultati ragionando sulle percentuali di voti validi e raramente si prende in considerazione la quota dei non votanti — spiega Valbruzzi —, ma è un dato significativo, di cui per esempio il prossimo esecutivo deve o dovrebbe tenere conto». Quando si parla di voti validi si parla alle Politiche di 5,3 milioni per il Pd (19%), 4,4 per il M5S (15,4%), 2,5 per la Lega (8,8%), 2,3 (7,8%) per Azione-Italia viva, 7,3 per Fratelli d’Italia (26%). Tutto cambia però ampliando il calcolo fino a includere appunto l’intera popolazione. In questo modo, il centrodestra (Forza Italia e Fratelli d’Italia) raggiunge il 16,9% e la Lega il 4,6%. Così come il M5S tocca quota 7,5%, il centro di Azione-Italia viva il 3,9% e il Pd il 11,5%.

Il governo di centrodestra che verrà, considera Valbruzzi, sarà dunque espressione di un Parlamento che è stato eletto da una minoranza della popolazione italiana (49,3%), a sua volta espressione di una coalizione di maggioranza relativa tra i votanti (1/4) e non della popolazione (1/5). Prendendo a riferimento infatti il solo elettorato (non vi rientrano i minorenni ma gli astensionisti sì), la coalizione vincente di centrodestra rappresenta oggi poco più di un quarto del voto italiano (26,6%). Il centrodestra inteso come Forza Italia e FdI arriva al 21,3%, la Lega al 5,3%. Quanto al centrosinistra, il Pd ottiene il 14% e il M5S il 9,4%, mentre Azione-Italia viva ha il 4,8%. Qui, nel complesso, l’asticella della maggioranza di cittadini rappresentati sul totale degli elettori arriva al 60%. Commenta Valbruzzi: «Questo è causato non solo dal trend in crescita dell’astensione, ma anche dall’ Per la prima volta in Italia dal 1948, meno della metà della popolazione nazionale è rappresentata in Parlamento. Un primato, quello della più bassa base elettorale, dipeso in gran parte dall’alto tasso di astensionismo alle ultime Politiche: 36,6%. Come segnala Marco Valbruzzi, docente di Scienza della politica all’Università Federico II di Napoli e autore di una ricerca sul tema, se nel conteggio rientrano tutti i cittadini e non soltanto i votanti, l’insieme dei partiti arriva infatti a rappresentare il 49,3% degli italiani. Il resto sono persone che si sono astenute (28,4%, cifra più bassa perché calcolata su base diversa), poi un 19,8% formato da residenti all’estero che non hanno votato, minorenni e non aventi diritto di voto come i condannati in sede penale in via definitiva, soggetti incapaci, ritenuti indegni per la giustizia. Infine, chi ha espresso un voto nullo o bianco (2,5%). In passato la soglia del 50% di popolazione andata alle urne per eleggere Camera e Senato era stata superata con punte del 68,2% nel 1987, del 69,1% nel 1992 e del 68,1% nel 1994. Ma da tempo calava e già alle Politiche del 2018 il numero si era limato al 54,9%. «Solitamente si commentano i risultati ragionando sulle percentuali di voti validi e raramente si prende in considerazione la quota dei non votanti — spiega Valbruzzi —, ma è un dato significativo, di cui per esempio il prossimo esecutivo deve o dovrebbe tenere conto». Quando si parla di voti validi si parla alle Politiche di 5,3 milioni per il Pd (19%), 4,4 per il M5S (15,4%), 2,5 per la Lega (8,8%), 2,3 (7,8%) per Azione-Italia viva, 7,3 per Fratelli d’Italia (26%). Tutto cambia però ampliando il calcolo fino a includere appunto l’intera popolazione. In questo modo, il centrodestra (Forza Italia e Fratelli d’Italia) raggiunge il 16,9% e la Lega il 4,6%. Così come il M5S tocca quota 7,5%, il centro di Azione-Italia viva il 3,9% e il Pd il 11,5%. Il governo di centrodestra che verrà, considera Valbruzzi, sarà dunque espressione di un Parlamento che è stato eletto da una minoranza della popolazione italiana (49,3%), a sua volta espressione di una coalizione di maggioranza relativa tra i votanti (1/4) e non della popolazione (1/5). Prendendo a riferimento infatti il solo elettorato (non vi rientrano i minorenni ma gli astensionisti sì), la coalizione vincente di centrodestra rappresenta oggi poco più di un quarto del voto italiano (26,6%). Il centrodestra inteso come Forza Italia e FdI arriva al 21,3%, la Lega al 5,3%. Quanto al centrosinistra, il Pd ottiene il 14% e il M5S il 9,4%, mentre Azione-Italia viva ha il 4,8%. Qui, nel complesso, l’asticella della maggioranza di cittadini rappresentati sul totale degli elettori arriva al 60%. Commenta Valbruzzi: «Questo è causato non solo dal trend in crescita dell’astensione, ma anche dall’aumento dei voti nulli».».

Bianche e nulle da includere nell’astensionismo attivo. I dati definitivi del Viminale sugli astenuti: superano gli elettori che hanno voto la coalizione vincitrice. Rec News - Articolo del 29 Settembre 2022 di Redazione

Pubblicato anche il numero di schede bianche.

Il ministero dell’Interno ha pubblicato nel pomeriggio di ieri i nuovi dati relativi alle Elezioni Politiche del 25 settembre. Mentre scriviamo, non sono ancora pervenite 24 sezioni per il Senato e 21 alla Camera ma, come spiegato ieri, la loro inclusione non influisce sui risultati ed è – a questo punto – dato meramente statistico. Avevamo anticipato che il computo delle schede bianche sarebbe arrivato tra ieri e oggi, e infatti sono arrivati a stretto giro rispetto a quanto ci era stato riferito dagli uffici del Viminale, cioè alle 15.30 (Senato) e alle 15.42 (Camera) di ieri.

Stando ai dati che si possono consultare sul portale Eligendo, le schede bianche che sono state registrate sono state 989.439 (492.650 alla Camera e 496.789 al Senato). Il dato potrebbe cambiare di poco nei giorni, quando nel calcolo rientreranno le schede ancora oggetto di contestazione. Le schede nulle sono invece state 806.661 al Senato e 817.251 alla Camera, per un totale di 1.623.912. Al Senato le schede tuttora contestate sono 3.148, alla Camera 2.817.

Ma quello che salta all’occhio è il dato relativo all’Astensione che, non solo è il più alto di sempre, ma è il vero “partito” vincitore delle ultime Politiche. Non è retorica ma un dato di fatto: Al Senato su 45.210.950 potenziali elettori, i votanti sono stati appena 28.795.727. Calcoli alla mano, non si sono recati alle urne 16.415.223 italiani, 4 milioni in più rispetto al numero di elettori che ha votato per la coalizione del centrodestra. In pratica sono state espresse le seguenti preferenze di voto e non voto:

Astensionisti: 16.415.223

Elettori della coalizione di centrodestra: 12.129.547

Elettori della coalizione di centrosinistra: 7.161.688

Elettori Movimento Cinquestelle 2050: 4.285.894

Terzo Polo: 2.131.310

Italexit: 515.294

Unione Popolare: 274.051

ISP: 309.403

De Luca sindaco d’Italia: 271.549

Vita: 196.656

PCI: 70.961

Noi di centro 42.860

APL: 40.371

Partito Animalista: 16.957

Partito Comunista del Lavoratori: 4.484

Destre Unite: 2.412

FDP: 873

Non dissimile il discorso alla Camera:

Astenuti: 16.665.364

Elettori coalizione di centrodestra: 12.300.244

Elettori coalizione di centrosinistra: 7.337.975

Movimento 5 Stelle 2050: 4.333.972

Terzo Polo: 2.186.669

Italexit: 534.579

Unione Popolare: 402.964

Isp: 348.097

De Luca sindaco d’Italia: 212.685

Vita: 201.528

SVP: 117.010

Noi di centro 46.109

PCI: 24.555

Partito animalista: 21.442

APT: 16.882

Partito della follia 1.418

Free: 828

Forza del Popolo: 815

Meloni, già prematuramente battezzata dai media come il nuovo premier, ha poco da festeggiare se si pensa che il numero di italiani che non si è recato alle urne supera il numero di elettori della coalizione vincitrice, con cui deve spartirsi ulteriormente le preferenze. Non serve nominare gli altri partiti, sotterrati dalle scelte impopolari degli ultimi anni che hanno influito sulla libertà di scelta dei cittadini, sulla loro occupazione, sui costi vivi e su quegli energetici. In una parola: sulle loro vite devastate (non migliorate) dall’azione di una politica letteralmente e trasversalmente punita alle urne.

Il nuovo governo che si formerebbe da queste elezioni, dunque, dovrebbe misurarsi con tensioni esterne e con numeri interni davvero risicati. Si tratterebbe in ogni caso di un esecutivo lampo, forse in vita per sei mesi, e a corrente – letteralmente – alternata: sfilati salviniani e berlusconiani, si ridurrebbe subito a un cumulo di macerie, né Meloni potrebbe avere da sola la pretesa di essere sostenuta da chi già sta tentando di salire sul car vincitore (eclatante l’endorsement della Morani – Pd – a ridosso dei primi exit poll).

Una delle strade tuttora considerate è infatti l’intesa innaturale con Enrico Letta, defenestrato dai dem proprio per consentire, nel lungo termine, un avvicinamento alla nemica-amica europeista e atlantista. Forse, di nuovo, nel nome di Mario Draghi o di una figura considerata super partes. Non lo si chiamerebbe, certamente, inciucio, ma unità nazionale”, benedetto dal placet dai colonnelli della Lega che non a caso hanno tentato di giocarsi la carta dell’epurazione di Salvini.

Bari, la parola agli elettori: «Noi delusi da tutti i partiti». Il voto dei baresi tra indifferenza, disincanto, astensione. L’apatia dei giovani. Studenti, commercianti, anziani: «Non ci ascoltano, le nostre preferenze non servono. Decide sempre chi è al vertice». Rita Schena su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Settembre 2022.

Confessano la loro «distrazione», l'aver votato senza molta attenzione o di non essere proprio andati a votare. Bari il giorno dopo il voto si sveglia come sempre (poteva essere altrimenti?) mescolando curiosità per la vittoria della Destra e indifferenza. Specie tra i più giovani. Camminando tra i corridoi di Università e Politecnico gli studenti sono molto più preoccupati per gli esami che del prossimo Governo e delle strategie di Giorgia Meloni.

«In genere si ricordano di noi ragazzi quando si tratta di venire a raccogliere voti - spiega Mirko dalle lunghe gambe da cicogna, che per stargli dietro viene l'affanno – ma questa volta non si è visto praticamente nessuno. Niente volantini, candidati che sembravano passare di qui per caso. Come se non esistessimo. Quindi perché dovevamo inseguirli noi? No, non sono andato a votare, la prossima settimana ho un esame importante».

Sara è una giovane aspirante ingegnere. Tracolla pesante, giacca ripiegata sulla borsa, è ferma al bar del Politecnico a parlare con una amica. «Mi hanno deluso tutti, posso dirlo? - sottolinea mentre la collega annuisce -. Al liceo ero una attivista di Sinistra. Seguivo i commenti, gli schieramenti. Mi piaceva. Mi sentivo parte di scelte che credevo poter prendere anche io. Ma mi sono resa conto che in realtà il mio voto non serve a nulla, che a decidere sono sempre loro, chi è ai vertici. No, meglio impegnarmi negli studi, ho 24 anni e mi mancano due esami per completare la triennale di Ingegneria civile e ambientale. Poi spero di riuscire ad andare via. E a proposito, qualcuno ha parlato di ambiente in questa campagna elettorale? Qualcuno ha dato ascolto ai ragazzi che sono scesi in piazza per i Fridays For Future?».

Ma non avete timore che la Destra al comando possa limitare i diritti civili, la legge sull'aborto sempre più messa nell'angolo, il diritto ad una morte in dignità, la solidarietà verso chi è più debole...?

«Basta con questo spauracchio sul ritorno del fascismo - interrompe l'altra ragazza, che fino a quel momento si era limitata ad annuire -. Stiamo parlando di un qualcosa accaduto un secolo fa. Oggi è diverso. Si, abbiamo sentito la Meloni o Salvini gridare i loro slogan, a me sembra più folklore che altro. Non sono le mie idee, ma mi sembra esagerato questo millantato “pericolo nero”. Come la minaccia di uscire dall'Europa, ma veramente si ha questo timore?».

In Inghilterra lo hanno fatto. «Gli inglesi sono un caso a sé. Ora ci sono in ballo troppi soldi per pensare di uscire. La Meloni ha una figlia, no? Credete che le negherà il diritto di poter viaggiare liberamente da cittadina europea?».

Il giro per la città continua, tra commercianti, donne che si tirano dietro carrelli pesanti con la spesa appena fatta, uomini che si concedono un caffè al bar. La pioggia ingrigisce, non ci sono molti presupposti per fermarsi a chiacchierare. Lea ha il passo svelto, tiene in mano un ombrello rosso: «Credo di aver coperto tutto l'arco costituzionale con i voti che ho espresso fino ad ora». Sorride. «Ho appoggiato Renzi quando si è presentato, era giovane come me, aveva fatto tanto per la sua Firenze e gli ho dato fiducia. Ho sbagliato. Poi mi sono spostata un po' più al Centro, poi a Destra... Una delusione generale. Credo mi manchi solo l'estrema Sinistra, ci penserò per le prossime Politiche».

Quelli che più si appassionano sono gli anziani. Sarà che hanno tanto tempo a disposizione, sarà che di esperienza ne hanno accumulata, in una mattinata umida e piovigginosa sono tra i pochi disposti a perdere un po' di tempo. E poi si sa, se gioca la Nazionale di calcio siamo tutti ct, se scoppia una pandemia tutti virologi, il giorno dopo delle votazioni tutti si riscoprono politologi, pronti a dar consigli sulla lista dei ministri.

«Hai visto? - commentano due vecchietti seduti nel giardinetto della chiesa russa che sembrano i due pupazzi anziani dei Muppet Show – Conte e il M5S ha sfondato. Te lo avevo detto!». «Ci credo – ribatte l'altro – con il reddito di cittadinanza, ci mancava pure che non li rivotassero. Comunque la verità è che al peggio non c'è mai limite. Se ci piace la Meloni? Non tanto, ma non sarà diversa dai suoi predecessori. Proverà a far qualcosa e se non ci riuscirà incolperà gli altri». «Povero chi resta con il cerino in mano».

Estratto dell’articolo di Fra. Bec. per “il Messaggero” il 25 settembre 2022.

Chi resta a casa per protesta, chi perché, in fondo, non ha scelta. L'astensione si fa e si subisce anche, spiega Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos. 

Saranno urne piene?

«La sensazione è che il partito dell'astensione sia cresciuto. Ma bisogna attendere i dati ufficiali». 

Perché le file del non-voto si ingrossano?

«Per diverse ragioni. In questo caso, c'è una quota di elettori che non ha capito fino in fondo il motivo della caduta del governo Draghi».

A cui è seguita una campagna lampo, in piena estate, e una rincorsa su TikTok. Serve a qualcosa?

«La campagna online serve solo ad accendere la passione dei propri elettori. I leader parlano alla loro bolla e provano a mobilitarla. Difficile spingersi oltre». 

Cosa spinge gli elettori a stare a casa?

«Ci sono diversi tipi di astensione. Una è fisiologica, anzi fisica. Ci sono circa 2 milioni di italiani anziani o con difficoltà motorie che non riescono a recarsi all'urna». 

A cui si aggiungono i fuori-sede.

«Tra i 4 e i 5 milioni. Elettori che vivono a più di 150-200 chilometri di distanza dal comune di residenza e faticano a tornare».

[…] alle prime elezioni politiche nel 1948 gli astenuti erano il 7,8%. L'ondata antipolitica seguita a Tangentopoli ha dato il la. Dal 2013, un'ascesa inesorabile. Fino all'ultimo picco, nel 2018, con il 27,1% di astenuti». […]

Elezioni. Allarme-astensione: sale al 36%, punte del 50 al Sud (dato definitivo). M.Ias. domenica 25 settembre 2022 su Avvenire

L'affluenza si ferma al 64%, dieci punti meno del 2018. Tutte le Regioni in calo. In Campania Calabria resta a casa un elettore su due.

L'illusione è durata lo spazio di un mattino. Con i dati del Viminale delle 12, era sorta l'illusione che l'astensionismo potesse non dominare le elezioni 2022. E invece, a urne chiuse, la sentenza: ha votato solo il 64% degli italiani, a fronte del 74% delle elezioni per il Parlamento del 2018. In una legislatura, in quattro anni e mezzo, volano via 10 punti di partecipazione. Nessuna Regione regge all'urto, nemmeno quelle del Centro-Nord che in mattinata avevano registrato buone affluenze e code davanti alle sezioni. Il Lazio si ferma al 63%, a 10 punti dal risultato del 2018. La Lombardia arriva al 70, ma cinque anni fa arrivò al 77. Ma a trascinare giù il dato della partecipazione è soprattutto il Sud: la Campania si ferma sotto il 54%, la Calabria e la Sardegna poco sopra il 50, solo Puglia e Sicilia mostrano una qualche tenuta.

L'AFFLUENZA DELLE 19

Con i dati del Viminale riferiti all'affluenza alle 19 già assumeva una forma più sostanziosa il "partito dell'astensione": alle 7 di sera, a sole 4 ore dalla chiusura dei seggi, erano andati a votare il 51% degli aventi diritto, a fronte del 58,40 registrato alle ore 19 del 4 marzo 2018, data delle ultime elezioni per il Parlamento. Una doccia fredda, dato che la rilevazione delle ore 12 aveva aperto a un altro scenario, con una partecipazione stabile a livello nazionale, con picchi di presenze alle urne al Centro-Nord e cali di affluenza concentrati al Sud. Il dato delle 19 fornisce invece un'altra fotografia: tutte le Regioni in calo. Anche Lazio (53-54%, flessione minima rispetto al 2018), Lombardia (58-59%, 4 punti in meno), Emilia Romagna (vicina al 60% ma lontana dalle soglie di cinque anni). Idem Toscana, Veneto, Piemonte, Liguria, che in mattinata avevano fatto registrare una tendenza in aumento rispetto al 2018. Affluenza giù senza eccezioni, dunque. E che assume la forma di una vera e propria diserzione al Sud: in Campania alle 19 ha votato meno del 39% degli aventi diritto rispetto al 54,3 del 2018, in Calabria poco più del 36%, in Sardegna, Sicilia e Puglia il 41-42%. Tengono meglio di altre Regioni le Marche, pur flagellate la settimana scorsa da una tragica alluvione: il dato regionale è quasi al 56% rispetto al 62,2 di cinque anni fa, nella città di Senigallia hanno votato il 54,6% degli aventi diritto, con un calo di quattro punti rispetto alle ultime elezioni parlamentari. Alla luce di questa situazione, in queste ultime ore con le urne aperte fioccano appelli al voto, più o meno ortodossi, di leader e candidati.

L'AFFLUENZA ALLE 12

Alle 12 l'affluenza alle urne è stata del 19,21%, in flessione molto lieve rispetto ad analoga rilevazione svolta per le elezioni del 2018 (19,43% il dato parziale di cinque anni fa). A mezzogiorno la partecipazione era in aumento dall'Emilia Romagna (23,46%) al Lazio (20,81), dalla Toscana (22,33) alla Lombardia (22,40), con il Centro-Nord che in generale aveva dati stabili o in crescita rispetto alle ultime votazioni per il Parlamento. In un quadro generale che sembrava sostanzialmente stabile, ad avere il segno "meno" erano già Regioni del Sud come Campania, Calabria, Molise, Basilicata, con affluenze sul 12-13%. Anche in Sicilia e Sardegna affluenza bassa alle 12, intorno al 15%. In Campania, l'affluenza potrebbe essere stata condizionata da una forte bomba d'acqua che ha reso inaccessibili non pochi seggi per diverse ore della mattinata, con problemi di viabilità che solo in queste ore sono in via di soluzione. La mattinata comunque sembrava promettere bene sul versante della partecipazione alla luce delle code presso le sezioni di Milano, Roma e delle grandi città del Centro e del Nord, con qualche protesta per i tempi delle operazioni allungati dal "tagliando antifrode".

IL VIDEO ALLUSIVO DI MELONI E IL CASO SALVINI-BERLUSCONI: SILENZIO ELUSO

La prassi del silenzio elettorale è stata elusa a più riprese dai leader di centrodestra. Salvini, all'esterno del suo saggio, si è intrattenuto a parlare con i cronisti anche del governo che "ho in testa". Mentre Berlusconi è stato ripreso pare a sua insaputa mentre parlava di Salvini: "Penso che finiremo sopra la Lega. Con Matteo ho nutrito un'amicizia fruttuosa. Ha bisogno di essere un po'

inquadrato, anche lui non ha lavorato mai, per cui cercherò di fare il regista del governo". Ma la trovata-choc è di Giorgia Meloni, che su Tik Tok si lascia andare ad un video allusivo che gioca sul suo cognome e che ha lasciato in tanti sbigottiti, visto i toni che la leader Fdi ha provato a tenere in campagna elettorale.

IL VOTO DI MATTARELLA E DEI BIG

In mattinata quasi tutti i "big" e i vertici istituzionali si sono recati ai seggi. Il primo è stato Sergio Mattarella, che poco dopo le otto e mezzo è andato a votare nel suo seggio di Palermo. Il presidente della Repubblica, dopo avere espresso il proprio voto, ha stretto la mano al presidente di seggio e ha lasciato la scuola media Piazzi, senza rilasciare dichiarazioni. La gente in coda per votare ha rivolto garbatamente un saluto al capo dello Stato. Voto rinviato in serata invece per Giorgia Meloni: la ressa di fotografi e cronisti che la attendevano al seggio romano di via Beata Vergine del Carmelo a Roma ha spinto la leader di Fratelli d'Italia a rimandare il suo voto dopo le 22, rispetto alle 11 previste, per consentire agli elettori del suo seggio un voto sereno.

Ok con il pollice alzato all'uscita dal seggio e foto con alcuni elettori per Enrico Letta. Il segretario Pd è andato a votare stamattina nel suo quartiere a Testaccio a Roma ma non ha rotto il silenzio elettorale. Fuori dalla porta del seggio alcuni elettori lo hanno aspettato e gli hanno chiesto di fare un selfie. "Ciao, buona domenica" ha detto il segretario Pd ai fotografi che lo attendevano. Poi ha postato una foto con la scritta "Buon voto!" sui suoi profili social. Poco dopo le nove, ma a Milano, ha votato Matteo Salvini. Il leader del Carroccio ha risposto a lungo ai giornalisti che lo aspettavano, rompendo di nuovo il silenzio elettorale: "Conto che la Lega sia una forza parlamentare sul podio: prima, seconda o terza al massimo". E a chi gli chiedeva se il quarto posto sarebbe una sconfitta, Salvini ha replicato: "Gioco per vincere, non per partecipare".

Carlo Calenda ha votato al suo seggio di via del Lavatore 38 a Roma. "Votate, votate liberamente, senza condizionamenti e senza paure. L'Italia è sempre più forte di chi la vuole debole" ha poi scritto il leader di Azione e del Terzo polo. "Come vuoi che la passi? Angosciato! No, la passerò con mia moglie Violante e i figli" ha poi risposto ai giornalisti che lo aspettavano davanti al seggio. Voto a Firenze con la moglie Agnese per Matteo Renzi. "Noi abbiamo votato. Fatelo anche voi, qualunque sia la vostra opinione politica. La democrazia si alimenta con l'impegno di tutti", ha poi scritto su Twitter il leader di Italia viva. "Mi sembrava che ci fosse parecchia affluenza. Quindi vuol dire che la democrazia funziona", ha detto Romano Prodi dopo aver votato, in centro a Bologna, al liceo Galvani di via Castiglione. 

L'affluenza alle urne non è mai stata così bassa, alle Politiche. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2022.  

Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, meno del 70 per cento degli aventi diritto è andato a votare. 

Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, meno del 70 per cento degli aventi diritto è andato a votare per le elezioni Politiche. L'affluenza, alla fine, si è fermata al 63,91%: circa 4 milioni e mezzo di cittadini hanno deciso di disertare le urne.

I risultati delle elezioni 2022 in diretta

Il dato vede un calo del 9 per cento rispetto al 2018, quando a recarsi alle urne fu il 72,9 per cento degli aventi diritto. Anche allora si trattò di un record negativo. 

Cinque anni prima, al voto andarono il 75,2 per cento; prima di quella data, l'affluenza era sempre stata sopra l'80 per cento. 

L'ultima volta in cui l'affluenza aveva superato il 90 per cento era stato il 1979.

Quando mancavano poche decine di seggi per avere i dati definitivi, le regioni dove i dati sull'affluenza risultavano superiori alla media nazionale erano Emilia Romagna, Lombardia e Veneto (sopra il 70%). Le regioni in cui l'affluenza risultava, al contrario, più bassa erano Calabria, Campania e Sardegna.

Elezioni 2022: il partito più forte è quello dell'astensione. Affluenza crollata al 63,9%. Beatrice Offidani su huffingtonpost.it il 26 Settembre 2022.

È avvenuto quello che si temeva, la partecipazione alle urne è andata molto peggio di quella delle scorse elezioni politiche, quasi nove punti in meno.

Il vero vincitore di queste elezioni, sembrerà banale dirlo, è il partito dell'astensione. I numeri alla chiusura dei seggi danno l'affluenza alle urne poco sotto il 64%, nove punti in meno rispetto alla scorsa volta, il minimo storico.  Alle scorse elezioni politiche, quelle del 4 marzo 2018, l'affluenza infatti era stata del 72,9%.

La scarsa partecipazione per queste elezioni politiche ha conosciuto un drammatico crollo, certo, ma rispecchia un trend iniziato già da diversi anni.

Elogio dell'astensione. So già chi vince: io. Mauro Suttora su huffingtonpost.it il 24 Settembre 2022.  

Storia di un radicale che nella vita ha votato di tutto e stavolta non vuole votare niente, senza sensi di colpa e finalmente in maggioranza. E che propone di tagliare seggi in proporzione al numero di astensionisti

Per la prima volta dopo quasi mezzo secolo vincerò le elezioni. Il mio partito risulterà primo, supererà Meloni e Letta, si installerà ben oltre il 25%. Poi noi astenuti faremo approvare una legge per completare l'opera: il numero degli eletti si ridurrà in proporzione ai votanti. Astensione di un quarto degli elettori? Trecento deputati invece di quattrocento, 150 senatori al posto di 200.

 Perché l’astensione da record deve preoccuparci più della destra al governo. Il crollo della partecipazione al voto di dieci punti percentuali è un dato epocale, molto più della vittoria della destra guidata da Giorgia Meloni. Perché racconta di una rabbia e di una disillusione profondissime nei confronti della politica, con cui tutti i partiti politici dovranno fare i conti. A cura di Francesco Cancellato su Fanpage.it il 26 settembre 2022.

Sì ok, ha vinto la destra più destra che si sia mai vista in Italia. E sì ok, con ogni probabilità avrà una maggioranza importante sia alla Camera sia al Senato, seppur non abbastanza per cambiare da sola la Costituzione. E sì ok, con ogni probabilità per la prima volta in Italia avremo un (anzi una) presidente del Consiglio espressione di un partito post-fascista. Sì ok, dobbiamo preoccuparci. Ma rischia di esserci molto peggio, all'orizzonte.

Perché di epocale, nella vittoria della destra, a ben vedere, c'è soprattutto la simbologia. La coalizione, al netto dell’ennesimo travaso di voti tra i partiti che la compongono – dalla Lega e Fratelli d’Italia, dopo essere passati quattro anni fa da Forza Italia alla Lega – è sempre la stessa che ha governato l’Italia tra il 2001 e il 2006 e tra il 2008 e il 2011. Può non piacervi, ma è una minestra che avete già mangiato. E che buona parte degli italiani già mangia nelle quattordici regioni in cui governa il centrodestra. 

Peraltro, è una coalizione con una legittimazione elettorale molto inferiore che in passato – meno di 10 milioni di voti, contro i 12,4 milioni del 2018 e i 17 milioni del 2008. Allo stesso modo, l’exploit campano dei Cinque Stelle nei collegi uninominali al Senato e le fibrillazioni interne alla coalizione, rendono molto più fragile di quanto sembri la maggioranza della destra a Palazzo Madama, dove una sparuta decina di parlamentari, complice il taglio dei parlamentari, può cambiare i destini della legislatura e rendere impervio il cammino di un governo Meloni prossimo venturo, non bastasse la situazione politica ed economica che attraversa il nostro Paese.

Il vero dato epocale di queste elezioni è un altro, semmai. Ed è l’astensione al voto di un terzo dell’elettorato, un’astensione che cresce di 10 punti in soli quattro anni. È una diserzione dalle urne che apre un vuoto enorme nella politica italiana, come mai si è visto nel nostro Paese, anche nelle fasi drammatiche degli anni di piombo o nel cupio dissolvi della Prima Repubblica, tra il 1992 e il 1994. È un vuoto che racconta la rabbia la disillusione e la disaffezione profondissima nei confronti della politica che nessun partito è stato in grado di attrarre e rappresentare, a differenza di quanto accadde tra il 2013 e il 2018 con l’exploit del Movimento Cinque Stelle e della Lega, o nel 1994 con la nascita di Forza Italia. 

Quel vuoto ci deve spaventare perché racconta lo stato della nostra democrazia più e meglio di qualunque vittoria di qualunque schieramento. Perché racconta quanto capitale politico sia stato dissipato in dieci anni a vellicare la pancia del Paese con promesse impossibili, a chiamare salvatori della patria a prendere decisioni impopolari, a formare grandi coalizioni affinché nessuno se ne prendesse la responsabilità, e a fare la gara a dissociarsene appena s’intravedeva l’inizio di una campagna elettorale.

Con tutto questo, tutti i partiti sono chiamarti a fare i conti, quelli che hanno vinto e quelli che hanno perso. E non c’è sfida più difficile di questa. Perché i vuoti in politica si riempiono in fretta. Ed è da quei vuoti che prendono forma gli incubi peggiori.

Il Generale Astensione e quel voto senza Sud nell’Italia eterna bambina. Quel che qui rileva è il sovrappiù, il carico da novanta, e cioè l’espulsione della questione meridionale dal rachitico dibattito elettorale che ha attraversato il Paese in queste settimane così poco agostane e settembrine. Leonardo Petrocelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Settembre 2022.

C’è qualcuno, oltre gli Urali, che confida nel Generale Inverno per risolvere una guerra infinita. Alle nostre latitudini, invece, c’è un altro ufficiale che qualche cannonata l’ha messa a segno. Il Generale Astensione ha colpito portando l’affluenza dieci punti sotto le consultazioni del 2018 e facendo registrare i picchi al ribasso nel Mezzogiorno (in Puglia -12,5%). Con dedica a chi immaginava, al contrario, una corsa al voto nel Sud straccione bramoso di conservare bonus, premi e redditi di cittadinanza.

Non è una sorpresa né un motivo di scandalo. A cercare i motivi della disaffezione si rischia di far notte nella selva oscura delle banalità. Ve le risparmieremo. Quel che qui rileva è il sovrappiù, il carico da novanta, e cioè l’espulsione della questione meridionale dal rachitico dibattito elettorale che ha attraversato il Paese in queste settimane così poco agostane e settembrine. Di fatto, solo in due occasioni il Sud è stato tirato in ballo: per le accuse, già citate, di votare seguendo il profumo di denari facili e per ricordare alle genti meridionali che è in arrivo l’autonomia differenziata, ormai non più bestemmia politica ma acqua reflua che ha infettato mezzo arco parlamentare dalla Lega al Partito democratico. E ancora. Tutte le precedenti tornate sono state contraddistinte da un’idea forte in campo economico se non sociale: dal bonus renziano al reddito pentastellato, passando per la flat tax e tutti i residui della mai nata rivoluzione liberale. Questa volta non c’è stata traccia di nulla se non una riproposizione di vecchie minestre che però è stato impossibile riscaldare a dovere, causa bolletta del gas. Il Pd ha provato a sussurrare qualcosa - dal salario minimo al bonus per 18enni - ma senza troppa convinzione. E in ogni caso non sono iniziative memorabili, tali da spaccare il Paese e smuovere le gambe, prima delle coscienze. Per di più, anche il Pnrr s’è perso per strada - tra velleità di cambiamento e scambi di accuse ungheresi - prima di sparire nel Mar Nero dell’irrilevanza mediatica.

Dunque, si è andati avanti così, confermando in linea di massima quello che era nell’aria da settimane. Giorgia Meloni scappa in testa, come raccontano i primi exit-poll, e d’altronde nessuno avrebbe mai scommesso sul contrario. Non sono più - da tempo - gli anni dei Prodi e dei Berlusconi, delle rimonte e dei sorpassi, dei vantaggi bruciati e dei conigli tirati fuori dall’urna. Il voto è ormai questione di vento in poppa: nel recente passato lo hanno avuto Renzi, i 5 Stelle, Salvini. Vincitori annunciati e benedetti dalla Storia (o, più modestamente, dalla cronaca) per una tornata, massimo due. Un destino inesorabile che taglia le gambe a destra e a manca, anche a quelli che avrebbero più titoli per intestarsi la rabbia popolare, soprattutto a fronte della «normalizzazione» che ha, nonostante le scintille con l’Ue, investito tutti i partiti populisti, ormai pro-euro e anti-Putin. Sono però tutti trionfi personali, individuali, spesso accompagnati dall’assenza di una classe dirigente autorevole: più voti che uomini, insomma. È un modo di andare avanti, quello delle passioni brucianti e degli amori «estivi», che non certifica nessuna maturità democratica - siamo, al fondo, un Paese infantile - e, soprattutto, che ciclo dopo ciclo, sfioritura dopo sfioritura, regala qualcosa al Generale Astensione ben felice, lui sì vecchio stile, di rosicchiare un tanto alla volta, fino ad «asciugare» il malato in scheletro.

A questo punto, per chi sulla politica ci ricama è forse più interessante il contorno del nocciolo. Intorno al successo di Fratelli d’Italia si raggrumano le ansie del centrodestra appiedato, quello che non corre ma arranca dietro la pasionaria romana. C’è innanzitutto Matteo Salvini, chiamato alla disperata prova del 10% (le proiezioni lo inchiodano sopra l’8%) per tenersi il partito e non farsi defenestrare dalla Lega vintage di Luca Zaia sul quale aleggiano sospetti di cessioni di voti alla Meloni. E poi c’è Silvio Berlusconi disturbato al centro dagli «eredi» Matteo Renzi e Carlo Calenda, lontani dal 10% ma comunque capaci di intercettare parte dell’elettorato moderato nonché del pubblico giovanile, probabilmente colpito da certe suggestioni manageriali da Silicon Valley che i due sono in grado di produrre.

Ma, prima di ogni altra cosa, è ai nastri di partenza il lungo processo sul futuro dei progressisti, una volta uniti nel campo largo - si attende il «ve l’avevo detto» di Michele Emiliano - e oggi perdenti nel campo stretto, anzi singolo. Il morettiano dibattito («sì, il dibattito sì») è dietro l’angolo. Il Pd la vocazione maggioritaria di veltroniana memoria non ce l’ha. E ammesso che l’abbia mai avuta, l’ha persa. Il M5S, con picchi notevolissimi al Sud, in particolare nel Foggiano, se l’è cavata mettendo in naftalina Beppe Grillo e affidando al solo Giuseppe Conte il compito gravoso di una remuntada riuscita in buona parte. L’avvocato di Volturara Appula ha incassato tutti i crediti accumulati durante la gestione pandemica e s’è qualificato, con un gioco di prestigio, quale primo avversario di Mario Draghi (nonostante di quel Governo abbia votato praticamente ogni cosa, dalle sanzioni alle armi). Il tutto mentre gli altri, in vena di autoflagellazioni, annunciavano di voler stralciare il reddito di cittadinanza e, in seconda battuta, di volerlo modificare in modi incomprensibili. I pentastellati, insomma, ripartiranno da qui. Il Partito democratico, dove già volano i coltelli, potrebbe darsi invece una svolta più radicale, magari affidandosi ai suoi amministratori più blasonati e post-ideologici. A cominciare dal governatore emiliano Stefano Bonaccini e dal sindaco di Bari, Antonio Decaro. Si vedrà. Intanto oggi i numeri si affastellano e gli incastri si rincorrono, in attesa di dati certi. Vincitori e vinti. Risate e lacrime. Domani inizia un’altra battaglia.

Nando Pagnoncelli per corriere.it il 26 settembre 2022.

Le elezioni hanno fatto registrare il nuovo clamoroso record di astensione che ha raggiunto circa il 37%, corrispondente a oltre 16,5 milioni di elettori assenti, in crescita di 9 punti rispetto al 2018 (oltre 4 milioni di astensionisti in più): è la cronaca di un’astensione annunciata, verrebbe da dire parafrasando Garcia Marquez. Da tempo l’astensionismo viene definito dai media «il primo partito del paese», e ciò è innegabile da un punto di vista numerico, ma attribuire la diserzione delle urne prevalentemente alla protesta nei confronti della politica appare riduttivo perché le ragioni sono assai variegate.

Nell’interessantissimo libro bianco sull’astensionismo presentato nell’aprile scorso a conclusione del lavoro della Commissione indetta per ridurre questo fenomeno e agevolare il voto dal ministro D’Incà e coordinata dal professor Bassanini si analizzano le molteplici cause della rinuncia al voto e si avanzano proposte per contenerla. 

Il libro bianco fa luce soprattutto sul fenomeno dell’astensionismo involontario, rappresentato dalle persone che hanno difficoltà di mobilità (4,2 milioni al di sopra dei 65 anni, di cui 2,8 milioni con gravi difficoltà di movimento) e da coloro che per ragioni di lavoro o di studio nel giorno del voto si trovano lontani dal Comune di residenza (4,9 milioni di elettori). È un problema destinato ad aumentare, tenuto conto delle tendenze demografiche (aumento della componente anziana sul totale degli elettori) nonché delle dinamiche sociali che da tempo evidenziano una crescente mobilità dei cittadini.

Le ricerche sociali e i sondaggi, invece, mettono l’accento soprattutto sull’astensionismo volontario che varia da elezione a elezione e può dipendere da almeno tre fattori: innanzitutto le precarie condizioni economiche e la marginalità sociale delle persone che versano in queste condizioni (disoccupati, lavoratori esecutivi, ceti produttivi in forte difficoltà come pure i cittadini meno abbienti che vivono in povertà assoluta o al di sotto della soglia di povertà relativa) e non si sentono rappresentate da nessuno, sono sfiduciate e si autoescludono.

In secondo luogo, il pronostico del risultato elettorale: spesso, infatti, una parte degli elettori rassegnati alla sconfitta del proprio partito o coalizione si mostra poco motivata ad andare a votare, convinta dell’inutilità del proprio voto, determinando in tal modo una sorta di astensionismo asimmetrico che penalizza ulteriormente le forze politiche destinate alla sconfitta. 

Da ultimo, la crescente distanza di molti cittadini dalla politica: quest’ultima da un lato rappresenta sempre più un mero frammento dell’identità individuale (a differenza dal passato quando per la maggior parte dei cittadini era il tratto identitario prevalente); dall’altro ha alimentato sentimenti di disillusione e sfiducia che sono la risultante della serie ininterrotta di aspettative disattese.

Basti pensare che in Italia dal 1994 in poi abbiamo sperimentato qualsiasi formula di governo, di centrodestra, di centrosinistra, di soli “tecnici”, di larghe intese, e quelli guidati da leader o forze politiche che si sono affermati all’insegna del cambiamento. Ebbene, nessuna maggioranza di governo è uscita vincitrice alle elezioni successive e la maggior parte dei leader politici ha beneficiato di una iniziale fase di fascinazione seguita, invariabilmente, da un crollo della popolarità. La delusione ha quindi contribuito ad ingrossare le fila dell’astensione ma anche, tra coloro che votano, a ricercare costantemente il nuovo.

Dove sono finiti 11 milioni di voti? Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2022.  

Caro Aldo, i soliti dibattiti del dopo voto su chi ha vinto e chi ha perso tralasciano il dato più grave di queste ultime elezioni, l’astensionismo di un terzo dei cittadini italiani aventi diritto al voto. Milioni e milioni di persone hanno detto no alla politica e ai partiti, manifestando, con il loro dissenso, sfiducia e pessimismo, calpestando un importante diritto costituzionale qual è il diritto di voto. La politica faccia un serio esame di coscienza. Antonio Taraborrelli Milioni di italiani non sono andati a votare: hanno abbandonato il campo lasciando decidere ad altri oppure la rinuncia è un voto di protesta? Marco Ferrari

Cari lettori, Nei giorni scorsi ci siamo detti che l’astensione in certe condizioni è una scelta legittima. Rappresenta ovviamente un segnale di allarme. Ma gli astensionisti non sono tutti uguali. Ci sono quelli che a votare non sono mai andati. Ci sono quelli che non credono nello Stato e nella democrazia rappresentativa. Ci sono quelli, soprattutto giovani ma non solo, che trovano più gratificante partecipare alla vita pubblica con lo strumento narcisista dei social anziché con una croce anonima su una scheda. E ci sono quelli che rifiutano di prendere parte a un rito in cui gli eletti non sono scelti dagli elettori, ma dai capi partito. Il crollo della partecipazione è inquietante. Ancora nel 2006 votò l’84,2%: oltre 20 punti in più rispetto a domenica. Nel 2008 il Pd prese oltre 12 milioni di voti: da allora ne ha persi quasi sette milioni. Il Pdl ne prese 13 milioni e 600 mila, più i tre milioni della Lega: anche a destra mancano all’appello quattro milioni di voti. Sono numeri enormi. Cerchiamo di non essere ipocriti. Se Calenda prende il 21% nel centro di Milano e il 4 in Calabria; se il Pd conquista il collegio di Roma centro, mentre Viterbo elegge con oltre il 50% Durigon che voleva intitolare il parco Falcone e Borsellino di Latina ad Arnaldo Mussolini il fratello del Duce; se i 5 Stelle si fermano al 5% (come la Bonino) a Bergamo e salgono al 40 in alcune aree del Sud, all’evidenza c’è una questione di rappresentanza non solo delle classi popolari, ma dell’Italia che si sente ai margini dell’economia e della storia; e quindi non va a votare, o esprime un voto di protesta contro i partiti che percepisce come «il sistema». Anche se — o forse a maggior ragione se — hanno appoggiato il governo Draghi.

 L'astensionismo? Perché è un diritto: non rompete le scatole a chi non vota. Corrado Ocone su Libero Quotidiano il 27 settembre 2022

Alla fine l'astensionismo c'è stato, ma non è tracimato. È una buona notizia? Dipende. Per il senso comune italiano per cui, come cantava Gaber, "libertà è partecipazione" (ma si può partecipare alla vita democratica anche in altri modi), astenersi è quasi un reato. Formalmente, il nostro codice ha previsto l'obbligatorietà di esercitare il voto. Anche se la sanzione era andata in disuso con gli anni, questa norma, che si spiegava con le origini democratiche e socialiste piuttosto che liberali del nostro patto sociale, fu cancellata solo nel 1993. Essa però da allora si è trasformata nell'opinione comune che non votare è proprio di esseri spregevoli e immorali. O quasi. Quante volte abbiamo sentito, anche e soprattutto in questa campagna elettorale, il refrain: "Votate come vi pare, ma andate a votare!". E giù fiumi di parole su chi ha combattuto ed è morto per poterlo un giorno fare, e su di noi ingrati. Pura retorica della sinistra imperante nei media e nella cultura!

In verità, per chi crede nella libertà liberale, cioè nella "libertà negativa", la libertà di starsene a casa se l'offerta politica non piace è pari a quella di chi si reca alle urne. È sacrosanta e va accettata perché pertinente all'individuo, che in quanto tale viene prima dello Stato e ne giustifica la stessa esistenza. Certo, si presume che il cittadino che decide di astenersi conosca le regole del gioco e che sa che non votando non potrà decidere il nome di chi siederà in Parlamento (per i referndum con soglia il discorso è ovviamente diverso). Ma se rinuncia coscientemente a questa possibilità, nessuno gliene può contestare il diritto. Ciò non significa però che un valore politico il suo comportamento comunque non lo abbia. E qui veniamo al punto.

L'astensione elettorale, soprattutto quando è elevata, è un dato politico non irrilevante, e come tale va analizzata e giudicata. E deve avere il proprio peso nell'elaborazione dei partiti e nella loro azione. Ma appunto il discorso deve rimanere sul terreno politico, cioè del valore pubblico dei nostri comportamenti in società. La morale lasciamola ben salda nelle nostre coscienze. Fuori di essa, come etica pubblica, ha causato fin troppi danni nel secolo passato . E lo Stato di diritto, di cui tutti si riempiono la bocca ad ogni istante, è ben altra cosa da ogni forma, più o meno velata, di "Stato etico".

Il "non voto" dei friulani all'estero: l'annosa questione del Voto come "dovere civico" all'esame della Corte costituzionale (NOTA ALLA SENTENZA 173 DEL 2005) di Giuseppe Passaniti

1. Il non partecipare alla votazione è un modo di esprimere una volontà politica o la violazione di un dovere costituzionale? Intorno a questo quesito ruota principalmente la sentenza n. 173 del 2005. Con questa la Corte Costituzionale ha inaspettatamente affrontato la questione, mai finora venuta in rilievo nella giurisprudenza, a quanto ci consta, del significato e portata dell'espressione "dovere civico" contenuta nell'articolo 48 della Costituzione; ancor più sorprendente che lo spunto per tale riflessione sia sorto nel corso di un giudizio di legittimità costituzionale di una legge regionale a prima vista non particolarmente significativa (nella specie, veniva in rilievo l'articolo 1, comma 2, della legge della Regione Friuli - Venezia Giulia 21 del 2003). La legge regionale n. 14 del 1995 ("Norme per le elezioni comunali nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia) dispone che nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti, nel caso in cui venga ammessa e votata una sola lista o un gruppo di liste collegate, l'elezione resta valida se il candidato alla carica di Sindaco ha riportato un numero di voti validi non inferiore al 50% dei votanti ed il numero dei votanti non è stato inferiore al 50% degli elettori iscritti nelle liste elettorali del Comune. La norma impugnata in via principale dal governo ha previsto che per determinare il quorum dei votanti non sono computati fra gli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune quelli iscritti nell'anagrafe degli elettori residenti all'estero. L'Avvocatura dello Stato, in primo luogo, ha lamentato che, in base allo Statuto regionale, la modifica legislativa inciderebbe su una materia non attribuita alla competenza esclusiva della Regione. In secondo luogo, l'articolo 1, comma 2, violerebbe sotto diversi profili l'articolo 48 Cost, in quanto lederebbe il principio di uguaglianza e di effettività del diritto di voto. Il principio di uguaglianza del voto, secondo l'Avvocatura, sarebbe leso perché, estromettendo una parte di elettori, sia pure ai soli fini del computo del quorum, non verrebbe "salvaguardato il corpo elettorale" . Inoltre, sarebbe limitata l'effettività del diritto di voto da parte dei cittadini residenti all'estero, in quanto non si terrebbe in considerazione la loro eventuale scelta di astenersi. La Regione Friuli-Venezia Giulia, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale venisse dichiarata inammissibile ed infondata, non solo ha rivendicato la propria competenza in materia di "ordinamento degli enti locali" per quanto riguarda la disciplina ed il sistema elettorale delle elezioni comunali sulla base dell'interpretazione dell'articolo 4-bis dello Statuto e relative norme di attuazione, ma ha anche sostenuto l'infondatezza di qualsiasi violazione dell'articolo 48 della Costituzione. Secondo la difesa della Regione, il principio di uguaglianza non sarebbe leso dal momento che il voto degli elettori residenti all'estero sarebbe identico agli altri voti espressi dai residenti nel comune, ed inoltre non verrebbe limitata l'effettività del voto poiché essendo il voto dovere civico, l'astensionismo andrebbe considerato non come una manifestazione della volontà politica, ma solo come violazione di un dovere costituzionale, "tanto più grave quando si tratta di eleggere gli organi fondamentali di un comune". Le posizioni espresse dalle due parti sembrano antitetiche fra loro per quanto concerne l'interpretazione dell'espressione "dovere civico" contenuta nell'articolo 48 della Costituzione: l'Avvocatura dello Stato riconosce un rilievo giuridico all'astensionismo, che ritiene meritevole di tutela come modalità di espressione della volontà politica; la difesa della Regione reputa l'astensione dal voto una violazione costituzionale in virtù dell'articolo 48, pur se sprovvista di tutela da parte del legislatore.

2. In Assemblea costituente ci fu un lungo dibattito in merito all'opportunità di considerare l'esercizio del voto un obbligo giuridico o semplicemente un obbligo morale. Si raggiunse un compromesso decidendo di scegliere l'espressione "dovere civico" che sembrò più smorzata, meno perentoria di "obbligo giuridico". Parte della dottrina sostenne che, nonostante la lettera della disposizione, l'espressione "civico" non mutava la natura giuridica dell'obbligo. I sostenitori di tale tesi facevano riferimento agli articoli 4 e 115 del T.U. 30 marzo 1957 n. 361. Il primo di tali articoli stabiliva che l'esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un preciso dovere verso il Paese, l'articolo 115 attribuiva una sanzione modesta al mancato esercizio del voto senza giustificato motivo. Altra parte della dottrina ha invece sostenuto che il Costituente non ha previsto a livello di norme costituzionali un obbligo giuridico ma ha lasciato libero il legislatore ordinario di decidere la questione attraverso l'emanazione di apposite leggi elettorali. Altri ancora hanno sostenuto che il legislatore ha previsto un obbligo giuridico solo con riferimento alle elezioni politiche e non anche alle altre elezioni e al referendum. Tuttavia, si ritiene convincente la tesi secondo la quale l'esercizio del voto non è mai stato inteso dal legislatore come obbligo giuridico sia per l'irrisorietà delle sanzioni a carico dei trasgressori sia perché queste sanzioni non sono state quasi mai applicate in pratica. Questa posizione è supportata dal fatto che oggi l'articolo 4 del T.U. delle leggi elettorali non prevede più che l'esercizio del voto sia un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi, ma si limita a proclamare che il voto è un diritto di tutti i cittadini il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla Repubblica. L'articolo 115 che prevedeva sanzioni a carico di coloro che non avevano esercitato il diritto di voto senza giustificato motivo è stato abrogato.

3. La Corte Costituzionale nella sentenza 173 del 2005, considerate le posizioni antitetiche assunte dalle parti sul significato da attribuire all'espressione "dovere civico", ha abbracciato una posizione "mediana". I giudici della Corte, affermando che l'astensione nel voto è diversa dalla mancata partecipazione al voto, hanno sostenuto che in rapporto all'articolo 48 Cost., il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del diritto di voto significante, ma solo sul piano socio-politico. In altre parole, la Corte non ha considerato l'astensione né una violazione di un preciso dovere costituzionale come aveva sostenuto la difesa della Regione Friuli-Venezia Giulia, né tanto meno una manifestazione della volontà politica in quanto le ha attribuito rilevanza solo sul piano socio-politico. Quest' ultima affermazione della Corte è degna di riflessione non solo con riferimento al sistema elettorale per le elezioni comunali ma anche con riferimento all'istituto referendario dell'art. 75 Cost.. Capita nelle campagne referendarie, infatti, che una parte dello schieramento politico o della società civile organizzata non sostenga il "si" o il "no", ma inviti all'astensione, come accaduto in occasione del referendum sulla procreazione medicalmente assistita svoltosi il 12 giugno 2005. Pur tenendo presente la distinzione fra referendum ed elezioni, tuttavia è indubbio che l'astensionismo in occasione del referendum abrogativo (dal 1995 i referendum non riescono a raggiungere il quorum a causa dell'alto tasso di astensionismo) non produce effetti solo sul piano socio-politico ma determina l'esito della votazione stessa, impedendo l'abrogazione della legge. Un'autorevole dottrina ha ravvisato nella scelta e ancor più per l'incitamento all'astensione una ferita alla "legalità costituzionale" e, con riferimento all'articolo 75 della Costituzione, ha sostenuto che il "dovere civico" previsto all'articolo 48 Cost. è valido anche per l'istituto referendario in quanto la disposizione dell'articolo 75 fa riferimento ai "voti" ed alle "votazioni", per cui, secondo tale tesi, il dovere di votare si estende pure a tale fattispecie.

4. La Corte ha affrontato anche le altre due censure prospettate dall'Avvocatura dello Stato in riferimento all'articolo 48 della Costituzione. Secondo i giudici, la determinazione del quorum partecipativo non ha minimamente intaccato il principio di eguaglianza del voto poiché attiene ad una fase precedente il momento in cui il voto viene espresso, esulando quindi dalla previsione dell'articolo 48. I giudici avevano manifestato questo orientamento nella sentenza 260 del 2002 e ancor prima nell'ordinanza 160 del 1996 nella quale avevano dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 7 comma 6, ultimo periodo della legge 81 del 1993. In ambedue le decisioni, è stata ribadita la discrezionalità del legislatore nella scelta del sistema elettorale (nel rispetto del principio di ragionevolezza) e nell'eventuale determinazione di quorum. Nella recente sentenza 372 del 2004, fra i tanti dubbi di legittimità costituzionali prospettati nei confronti di alcune disposizioni dello Statuto della Toscana, è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 75, comma 4, dello Statuto della Regione Toscana nella parte in cui prevedeva la necessità della partecipazione alla votazione della maggioranza dei votanti alle ultime elezioni regionali ai fini dell'abrogazione referendaria di una legge o di un regolamento regionale. I giudici hanno rilevato in quell'occasione, che non appare irragionevole, in un quadro di rilevante astensionismo elettorale, stabilire un quorum strutturale. La Corte Costituzionale, non ha ravvisato alcun vizio di legittimità neppure per l'ultima censura prospettata dall'Avvocatura dello Stato. Ha sostenuto a riguardo, che l'estromissione degli elettori residenti all'estero ed il successivo computo degli stessi nel quorum dei votanti rispecchia un criterio di logicità in quanto è evidente che i cittadini residenti all'estero, qualora esprimano il loro voto, vengano computati fra i votanti.

5. La sentenza 173 del 2005 risulta quindi interessante sotto diversi profili. Innanzitutto, la Corte ha riproposto l'antico dibattito sul significato dell'espressione "dovere civico" contenuta nell'articolo 48 Cost. assumendo di fatto una posizione "mediana" fra le due opposte concezioni, che però pare svuotare la norma costituzionale del suo significato più pregnante. In secondo luogo, laddove ha rigettato il dubbio di legittimità costituzionale relativo all'introduzione di un regime speciale per gli elettori residenti all'estero ai fini del calcolo del quorum di partecipazione nei comuni sino a 15.000 abitanti, la Corte si è mostrata sensibile alla necessità di valorizzare la loro partecipazione al voto, sensibilità che potrebbe essere messa in relazione anche con la riforma costituzionale degli articoli 48, 56 e 57 che ha introdotto il diritto di voto degli italiani all'estero. La legge 27 dicembre 2001 n. 459 (Norme per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all'estero), attuativa delle riforme costituzionali citate, come rilevato dalla dottrina, mira a garantire l'effettività del diritto di voto solo per alcuni tipi di consultazioni elettorali: le elezioni politiche ed i referendum previsti agli articoli 75 e 138 Cost. La legge non fa alcun riferimento ad elezioni amministrative e regionali. Tuttavia, sotto questo profilo, è da escludere che vi siano impedimenti per la regione Friuli-Venezia Giulia, la quale dispone di una potestà legislativa esclusiva in materia di enti locali, a includere nelle liste elettorali dei comuni gli italiani residenti all'estero. Rilevante è anche il fatto che la Corte abbia giustificato il regime speciale relativo ai friulani all'estero con il riferimento all'alto tasso di emigrazione registrato all'interno della Regione che potrebbe determinare, attraverso l'astensionismo, il mancato raggiungimento del quorum e il conseguente ritardo nel rinnovo degli organi degli enti locali: accanto al valore della partecipazione al voto dei singoli, pertanto, sussiste quindi anche un interesse pubblico in tal senso, qualora siano previsti, come nel caso delle elezioni comunali in Friuli-Venezia Giulia, quorum strutturali. In definitiva, l'avallo della Corte nei confronti delle scelte operate dal legislatore friulano, potrebbe far riflettere sulla possibilità di adottare in futuro misure simili volte a combattere l'astensionismo e gli effetti distorsivi da esso derivanti (si pensi al recente referendum sulla procreazione assistita il cui quorum è stato "gonfiato" portandolo di fatto al 52% a causa dell'impossibilità da parte del Ministero degli Italiani all'estero di un controllo delle liste degli elettori residenti all'estero prima della consultazione) anche nel caso di appuntamenti elettorali che toccano da vicino gli interessi della comunità. * Dottorando di ricerca in diritto pubblico comparato Università di Siena Il raggiungimento di un determinato quorum è previsto anche per l'elezione del Sindaco nei comuni fino a 3000 abitanti nella provincia di Trento nel caso in cui venga ammessa e votata una sola lista o un gruppo di liste collegate (art. 37 L.R. del Trentino Alto Adige 3 del 1994).

T. MARTINES, sub art. 48, in AA.VV., Commentario della Costituzione, G. Branca (a cura di), Bologna-Roma, 1984, 84. In particolare, P. BARILE, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1975, 130.

T. MARTINES, Diritto Costituzionale, Milano 1978, 261.

E. CAMASSA AUREA, Astensione dal voto: un'ipotesi di obiezione di coscienza?, in AA.VV., L'obiezione di coscienza tra tutela della libertà e disgregazione dello Stato democratico, Raffaele Botta (a cura di), Milano 1991, 246. M. AINIS, La legalità ferita, relazione introduttiva all'«Assemblea dei 1000», Roma 2005, in associazionedeicostituzionalisti.it/

F. CAPORILLI, Il voto degli italiani all'estero, in AA.VV., L'attuazione della Costituzione - recenti riforme ed ipotesi di revisione, Saulle Panizza, Roberto Romboli (a cura di), Pisa 2002, 36. Tale dato è contenuto in M. AINIS, op.cit.,

SETTANT’ANNI DI NON VOTO. Da fattore fisiologico, l’astensionismo in Italia è diventato una patologia. ENZO RISSO su Il Domani il 24 settembre 2022

Nel 1948, alle prime elezioni per la Camera dei deputati, gli astenuti erano appena il 7,8 per cento. Nel 1953, spinti dallo scontro sulla “legge truffa”, gli italiani si recano in massa alle urne e il non voto scende al 6,2 per cento

Nel 1983 gli astenuti arrivano al 12 per cento. Dopo una piccola discesa del 1987 (11,1), il numero degli astenuti inizia a salire: dal 12,7  nel 1992 al 13,7 per cento nel 1994. Due anni dopo, nell’anno della vittoria dell’Ulivo, i non votanti salgono al 17,1 per cento.

Nel 2008 è al 19,5 per cento. Cinque anni dopo, nel 2013, sale al 24,8 per cento, per arrivare nel 2018 al 27,1 per cento.

Noi non siamo poveri. Ci vogliono poveri. Non siamo in democrazia. Siamo in oligarchia politica ed economica.

Perchè i regimi cosiddetti democratici ci vogliono poveri? Per incentivare lo schiavismo psicologico che crea il potere di assoggettamento. Nessun regime capitalistico o socialista agevola il progresso economico delle classi più abbienti e numerose, che nelle cosiddette democrazie rappresentative sono indispensabili alla creazione ed al mantenimento del Potere.

Il Regime capitalista è in mano a caste e lobby che pongono limiti e divieti al libero accesso ed esercizio di professioni ed imprese.

Il regime socialista è in mano all'élite politica che pone limiti alla ricchezza personale.

Tutti i regimi, per la loro sopravvivenza, aborrano la democrazia diretta e l'economia diretta. Infondono il culto della rappresentanza politica e della mediazione economica. Agevolano familismo, nepotismo e raccomandazioni.

Muhammad Yunus, l’economista bengalese settantottenne, Nobel per la pace nel 2006, che con l’invenzione del microcredito in 41 anni ha cambiato l’esistenza di milioni di poveri portandoli a una vita dignitosa, non ha avuto esitazioni, giovedì 17 maggio 2018 all’Auditorium del grattacielo di Intesa San Paolo a Torino, nell’indicare la via possibile verso l’impossibile: eliminare la povertà. E contestualmente la disoccupazione e l’inquinamento. Come riferisce Mauro Fresco su Vocetempo.it il 24 maggio 2018, tutto il sistema economico capitalistico, nell’analisi di Yunus, deve essere riformato. A partire dall’educazione e dall’istruzione, immaginate per plasmare persone che ambiscono a un buon lavoro, a essere appetibili sul mercato; ma l’uomo non deve essere educato per lavorare, per vendere se stesso e i propri servizi, deve essere formato alla vita; l’uomo non deve cercare lavoro, ma creare lavoro, senza danneggiare altri uomini e l’ambiente. Perché ci sono i poveri, si domanda Yunus, perché la gente rimane povera? Non sono gli individui che vogliono essere poveri, è il sistema che genera poveri. Ci stiamo avviando al disastro, sociale e ambientale: oggi, otto persone possiedono la ricchezza di un miliardo di individui, questi scenari porteranno, prima o poi, a uno scenario violento: dobbiamo evitarlo. La civiltà è basata sull’ingordigia. Dobbiamo invece mettere in atto la transizione verso la società dell’empatia.

Yunus ha dimostrato, con il microcredito prima e con la Grameen Bank poi, che quella che a economisti e banchieri sembrava un’utopia irrealizzabile è invece un’alternativa concreta, che dal Bangladesh si è via via allargata a più di 100 Paesi, Stati Uniti ed Europa compresi. Con ironia, considerando la sede che lo ospitava, Yunus ha ricordato che, quando qualcuno gli ribadiva che un progetto non era fattibile, «studiavo come si sarebbe comportata una banca e facevo esattamente il contrario». Fantasia, capacità di rischiare e, soprattutto, conoscenza e fiducia nell’umanità, in particolare nelle donne, sono i segreti che hanno permesso di dar vita a migliaia di attività imprenditoriali, ospedali, centrali fotovoltaiche, sempre partendo dal basso e da progettualità diffuse. L’impresa sociale, che ha come obiettivo coprire i costi e reinvestire tutti profitti senza distribuire dividendi, sostiene Yunus, è l’alternativa possibile e molto concreta per vincere «la sfida dei tre zeri: un futuro senza povertà, disoccupazione e inquinamento», titolo anche del suo ultimo lavoro pubblicato da Feltrinelli. L’impresa sociale può permettersi di produrre a prezzi molto più bassi, non ha bisogno di marketing pervasivo, campagne pubblicitarie continue, packaging attraente per invogliare il consumatore. Così anche le "verdure brutte", quel 30 per cento di produzione agricola che l’Europa butta perché di forma ritenuta non consona per essere proposta al consumatore – «la carota storta, la patata gibbosa, la zucchina biforcuta una volta tagliate non sono più brutte» ha ricordato sorridendo Yunus – possono essere utilizzate da un’impresa sociale e messe in vendita per essere cucinate e mangiate.

«Il reddito di cittadinanza per tutti? È questo che intendiamo per dignità della persona? Ai poveri dobbiamo permettere un lavoro dignitoso, la carità non basta».

Il premio Nobel Yunus: "Il reddito di cittadinanza rende più poveri e nega la dignità umana". Scrive il HuffPost il 13 maggio 2018. L'economista ideatore del microcredito intervistato dalla Stampa: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo e senza creatività". "Il reddito di cittadinanza rende più poveri, non è utile a chi è povero e a nessun altro, è una tipica idea di assistenzialismo occidentale e nega la dignità umana". Parola di Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese che ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2006 per aver ideato e creato la "banca dei poveri". In un'intervista a La Stampa, l'inventore del microcredito boccia tout court il caposaldo del programma M5S: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo, ne cancellano la vitalità e il potere creativo".

Secondo Yunus l'Europa ha un grande limite. "L'Asia avrebbe bisogno di molte cose che in Europa ci sono e ci sono da tanto tempo, ma trovo che da voi ci sia un pensiero unico che limita gli slanci. Mi spiego meglio: le società europee sono ossessionate dal lavoro, tutti devono trovare un lavoro, nessuno deve rimanere senza lavoro, le istituzioni si devono preoccupare che i cittadini lavorino... Invece in Asia la famiglia è il luogo più importante e non c'è questo pensiero fisso del lavoro: esiste una sorta di mercato informale, in cui gli uomini esercitano loro stessi come persone. Penso che la lezione positiva che viene dall'Asia sia quella di ridisegnare il sistema finanziario attuale, privilegiando la dignità delle persone e il valore del loro tempo".

Durissimo il giudizio sul reddito di cittadinanza. "è la negazione dell'essere umano, della sua funzionalità, della vitalità, del potere creativo. L'uomo è chiamato a esplorare, a cercare opportunità, sono queste che vanno create, non i salari sganciati dalla produzione, che per definizione fanno dell'uomo un essere improduttivo, un povero vero".

Noi abbiamo una Costituzione comunista immodificabile con democrazia rappresentativa ad economia capitalista-comunista e non liberale.

I veri liberali adottano l'economia diretta con la libera impresa e professione. Lasciano fare al mercato con la libera creazione del lavoro e la preminenza dei migliori.

I veri democratici adottano la democrazia diretta per il loro rappresentanti esecutivi, legislativi e giudiziari, e non quella mediata, come la democrazia rappresentativa ad elevato astensionismo elettorale, in mano ad un élite politica e mediatica.

Ci vogliono poveri e pure fiscalmente incu…neati.

Quanto pesa il cuneo fiscale sui salari in Italia? E in Europa? Nell'ultimo anno la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà, scrive l'Agi.

Che cos’è il cuneo fiscale e quanto pesa in Italia. Il cuneo fiscale – in inglese Tax wedge – è definito dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) come «il rapporto tra l’ammontare delle tasse pagate da un singolo lavoratore medio (una persona single con guadagni nella media e senza figli) e il corrispondente costo totale del lavoro per il datore».

Nella definizione dell’Ocse sono comprese oltre alle tasse in senso stretto anche i contributi previdenziali. Quindi se per un datore il costo del lavoratore è pari a 100, il cuneo fiscale rappresenta la porzione di quel costo che non va nelle tasche del dipendente ma nelle casse dello Stato. Nel caso dei contributi, i soldi raccolti dallo Stato vengono poi restituiti al lavoratore sotto forma di pensione (ma, come spiega l’Inps, nel nostro sistema “a ripartizione” sono i lavoratori attualmente in attività a pagare le pensioni che vengono oggi erogate: non è che il pensionato incassi quanto lui stesso ha versato nel corso della propria vita, come se avesse un conto personale e separato presso l’Inps).

Secondo il più recente rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 – pubblicato l’11 aprile 2019 – nel 2018 in Italia la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà. Ma come siamo messi in Europa da questo punto di vista?

La situazione in Europa. Il rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 contiene anche una classifica dei suoi Stati membri, in base al peso del cuneo fiscale. Andiamo a vedere come si posizionano l’Italia e il resto degli Stati Ue presenti in classifica. Roma arriva terza, con il 47,9 per cento. Davanti ha il Belgio, primo in classifica con un cuneo fiscale (e contributivo) pari al 52,7 per cento, e la Germania con il 49,5 per cento. Subito sotto al podio si trova la Francia, con il 47,6 per cento, appaiata con l’Austria. Seguono poi Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia, Lettonia e Finlandia. Gli altri Stati comunitari grandi e medio-grandi sono nettamente più in basso in classifica: la Spagna è sedicesima nella Ue con il 39,6 per cento, la Polonia ventesima con il 35,8 per cento, e il Regno Unito ventitreesimo con il 30,9 per cento. Londra è poi, dei Paesi Ue che sono anche membri dell’Ocse, quello con il cuneo fiscale minore.

Altri Paesi Ocse. In fondo alla classifica dell’Ocse non troviamo nessuno Stato dell’Unione europea. La percentuale più bassa è infatti attribuita al Cile, appena il 7 per cento di cuneo fiscale. Davanti, staccati, arrivano poi Nuova Zelanda (18,4) e Messico (19,7). Degli Stati europei, ma non Ue, quello con la percentuale più bassa è la Svizzera, con un cuneo fiscale del 22,2 per cento. Gli Stati Uniti, infine, hanno un cuneo pari al 29,6 per cento. La media Ocse è del 36,1 per cento.

Conclusione. In Italia il cuneo fiscale è pari al 47,9 per cento. Questa è la terza percentuale più alta tra i Paesi dell’Ocse. Davanti a Roma si trovano solamente Berlino e Bruxelles.

Antonio Giangrande: Se questa è democrazia…

Riportiamo l’opinione del sociologo storico Antonio Giangrande, autore del saggio “Governopoli” e di tanti saggi dedicati per ogni fazione politica presente in Parlamento.

Se questa è democrazia…

I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.

I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.

I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.

I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.

Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.

La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori. Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria. Se questa è democrazia…

Da liberoquotidiano.it il 21 settembre 2022.

Ultima puntata prima delle elezioni di CartaBianca in onda su Rai 3 nella serata di martedì 20 settembre. Al timone della trasmissione, va da sé, la padrona di casa, Bianca Berlinguer. Ad offrire lezioni in studio, invece, uno scatenato ed impeccabile Massimo Cacciari. Uno che, è cosa nota, da sinistra dice sempre le cose come le pensa. Senza nascondersi dietro ad alcun tipo di bandiera politica. 

E a CartaBianca si parla del presunto "pericolo fascista", tesi che Cacciari non condivide. E lo ripete da tempo. Ma non solo: il filosofo ed ex sindaco di Venezia punta il dito contro il Pd, contro la sinistra, contro quei progressisti che non sono neppure stati in grado di raccogliersi, di allearsi, pur sventolando la bandiera di una inesistente emergenza democratica.

"Quando c’erano i fascisti veri si erano messi insieme monarchici e comunisti. Oggi si grida al pericolo fascista e non si riesce a mettere in piedi nemmeno uno straccio di coalizione. Meglio tacere e stare zitti!", tuona Massimo Cacciari. Niente da eccepire. 

Dunque, il fulminante botta e risposta con Paolo Mieli. Quest'ultimo, infatti, attacca in modo un poco scomposto e afferma che "la questione centrale è che il centrodestra non ha le competenze per poter governare". E Cacciari scatta: "Perché dall’altra parte che competenze vediamo? Le riforme finora non le ha fatte nessuno... e al governo non c'era la Meloni", tuona. 

Infine, una risposta implicita a chi sostiene che poteri forti, Stati Uniti e cancellerie europee faranno crollare in tempi stretti l'eventuale governo Meloni. No, per il filosofo le cose non stanno così. "Se ci sarà una vittoria netta della coalizione di destra non si potrà sovvertire. Gli Stati Uniti cominceranno a trattare come si deve con la Meloni e si andrà avanti. Se la vittoria fosse striminzita, per il governo si aprirebbe una stagione molto confusa", conclude Cacciari.

Il Bestiario, il Novotino. Il Novotino è un leggendario animale con il corpo da iena che invece di ridere piange e ha la testa da libero professionista. Giovanni Zola il 23 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il Novotino è un leggendario animale con il corpo da iena che invece di ridere piange e ha la testa da libero professionista.

Il Novotino è citato dal filosofo greco Diogene di Sinope, fondatore della scuola cinica, che professava un atteggiamento di ostentata indifferenza nei valori morali e sociali e che induceva i suoi adepti a sollevare la veste per mostrare il deretano al monarca che si recava a palazzo per governare la polis.

Il Novotino dunque è un essere arrabbiato con tutti, e spesso anche con sé stesso, in quanto, avendo riposto fiducia in passato in qualche parte politica, si è sentito tradito da essa e ha solennemente giurato di non votare mai più per nessuno perché “In fondo sono tutti uguali”, “Tanto se le cose cambiano, cambiano in peggio” o infine “Il giorno delle elezioni devo assistere ad una vivisezione che così mi diverto di più”.

Classico esempio che ha profondamente deluso il Novotino con partita iva è l’aver perso il bonus di 200 euro con il meccanismo perverso del Click Day dopo aver vegliato tutta la notte con una flebo di caffè davanti alla luce azzurra del computer per arrivare per primo al fatidico appuntamento trovando però il sito impallato, o quando il giorno prima di andare in pensione la Fornero pianse in tv posticipando il meritato riposo dal lavoro rimandando i tanto agognati pomeriggi a dare consigli con gli amici davanti al cantiere.

Il Novotino è in definitiva un anarchico arrabbiato e disilluso fomentato da cattivi maestri “fabio-faziosi” che giustificano la sua ribellione per propri calcoli di convenienza politica e di sopravvivenza professionale televisiva. Ma tornando al nostro lo si comprende, ma non lo si giustifica. Proprio come il tifoso torinista che perde l’ennesima partita al 93° e per sfogare la rabbia repressa colpisce con la bottiglia di birra le rotule della suocera inerme. Non si fa, a meno che la suocera non si sia parcheggiata a casa da più di una settimana.

L’errore del Novotino infine è che non si rende conto che se tutti i mitici animali della sua specie decidessero di votare, potrebbero davvero cambiare le sorti della politica affermandosi tra l’altro come prima forza assoluta. Il Novotino così non esercita “il potere dei senza potere” di partecipare alla cosa pubblica non implicandosi col diritto-dovere di votare. Insomma il rischio del Novotino è come quello del marito che esasperato dai “mal di testa” della moglie smette di insistere di chiedere il bene supremo, ma nella vita non si sa mai cosa può accadere con il coniuge, figuriamoci in politica.

La grande contraddizione. Qualche giorno fa in un'intervista a questo Giornale il segretario del Pd, Enrico Letta, era stato chiaro: chi vincerà le prossime elezioni avrà il diritto-dovere di governare, anche se sarà Giorgia Meloni nel rispetto della "democrazia dell'alternanza". Augusto Minzolini il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

Qualche giorno fa in un'intervista a questo Giornale il segretario del Pd, Enrico Letta, era stato, almeno a parole, chiaro: chi vincerà le prossime elezioni avrà il diritto-dovere di governare, anche se sarà Giorgia Meloni nel rispetto della «democrazia dell'alternanza». Un concetto giusto, per alcuni versi ovvio, perché è alla base di tutti i sistemi democratici del mondo.

In Italia purtroppo, però, non c'è nulla di scontato, neppure l'ovvio, perché basta guardare gli ultimi trent'anni di storia patria e ti accorgi che ogni volta che si è insediato un governo di centrodestra, la sinistra ha cominciato a delegittimarlo sin dal primo giorno. Anche perché se passi una campagna elettorale a dire peste e corna del tuo avversario, trasformandolo in un nemico, come fai poi a spiegare ai tuoi elettori che ha il diritto di governare? Se lo presenti come il depositario di un programma diverso dal tuo, magari anche agli antipodi, possono capirlo. Ma se lo hai descritto come Belzebù, come un erede di Mussolini, o come un figlio di Putin, è chiaro che non accetteranno neppure il responso elettorale, ma lo considereranno alla stregua di un usurpatore da abbattere.

È tutta qui la «grande contraddizione» di Enrico Letta, che fa un torto non al centrodestra, ma alla democrazia. Come si fa ad usare l'argomento degli amici del Cremlino negli ultimi giorni di questa campagna elettorale dimenticando che in Parlamento tutti, a parte i dubbi dei grillini e il «no» di alcuni esponenti della sinistra che paradossalmente ora sono candidati dal Pd, hanno votato in favore delle sanzioni alla Russia e della fornitura di armi all'Ucraina? Si specula sulle parole dedicate alla pace che auspicano tutti, a cominciare dal presidente francese Macron, dimenticando i fatti e consegnando al mondo un'immagine distorta che non giova sicuramente al nostro Paese. Se poi descrivi il tuo avversario come un mezzo fascista non ti devi meravigliare quando un periodico tedesco, Stern, dedica la copertina alla Meloni definendola una donna pericolosa. Puoi dire ciò che vuoi, ma di fatto ne sei il mandante.

È un comportamento che fa male innanzitutto alla democrazia. E che mette in dubbio un dato fondamentale per una Nazione che è alle prese con un conflitto: di essere e apparire unita. Solo chi non ha una sensibilità istituzionale fa della guerra, e delle sue implicazioni, un argomento di campagna elettorale. Non per nulla ieri la Casa Bianca ha fatto sapere di «non credere a questa narrativa da fine del mondo sulle elezioni italiane». Dicendosi sicura che il prossimo governo, qualunque sarà, rispetterà gli impegni presi con gli alleati. A Washington, a quanto pare, hanno più rispetto per il nostro Paese che non in Italia.

Il Paese addomesticato. Wanna Marchi, le canzoni che costano e il pensiero magico che possiamo permetterci. Guia Soncini su L'Inkiesta il 23 Settembre 2022.

La storia dell’imbonitrice più famosa d’Italia, ora protagonista di un documentario Netflix, è ovvia e possente metafora delle elezioni. Anche perché ripropone l’annosa dubbio se sono più criminali loro che truffano la gente o più sceme le persone che si fanno infinocchiare. 

La prima scena di Turné – chi aveva l’età giusta quando uscì lo sa, e ci dispiace per gli altri – è Fabrizio Bentivoglio che fa un provino per recitare Trofimov. E il monologo che pensa bene di portare a un produttore che deve decidere se vada bene per Il giardino dei ciliegi è una cosa che dice «Là c’è una porta rossa, la vorrei tinta in nero», e il produttore chiede se sia García Lorca, e lui risponde «Mick Jagger» – il che aveva lo scopo (riuscitissimo) di far capire a noi men che ventenni che quel personaggio era disadattato, esaurito, anticonformista, innamorabile.

Solo che poi a quel punto succede una cosa che non mi dà pace da trentadue anni e mezzo, dalla primavera dei miei diciassette anni in cui neanche sapevo che costo macroscopico fossero le canzoni nella produzione d’un film, da quello stesso anno in cui Scorsese aveva a mia insaputa speso fantastiliardi per avere Gimme Shelter in Quei bravi ragazzi.

La scena finisce con quello sprezzante «Mick Jagger», e partono i titoli di testa, e i titoli di testa hanno una canzone che il budget d’un Salvatores a inizio carriera poteva permettersi, e quella canzone non è Paint It, Black.

La mia vita adulta è stata funestata dal chiedermi «sì, ma questa quanto gli è costata?» d’ogni canzone giusta (poche, per fortuna) in ogni scena d’ogni film. Non mi ricordo quale francese, forse Jacques Perrin, dicesse di non riuscire più a guardare i film senza pensare al segno per terra al quale si fermano gli attori, al tizio subito fuori scena che bada al riflettore, alla truccatrice che aspetta lo stop per entrare a tamponare. Io non riuscivo a guardare Siccità senza pensare: ma quanto gli sarà costata Mina?

Guardando Wanna, il documentario sulla Marchi e sulla figlia, sugli anni ruggenti dello scioglipancia e dei numeri del Lotto, sul dibattito etico su chi meriti più d’essere punito (chi truffa o chi si fa truffare?), sul mago do Nascimiento che proprio non capisco perché non sia almeno concorrente di Grande Fratello o altro ruolo televisivo, sul marchese Capra de Carré che non sapevo esistesse ma chissà che invidia Fruttero&Lucentini per quel nome stupendissimo, guardando le quattro puntate su Netflix in cui la venditrice d’illusorie cuccagne viene accusata del massimo crimine contemporaneo, la mancanza di empatia, pensavo: chissà se a mettere Panama non ci hanno pensato o costava troppo o Fossati non gliel’ha concessa. Sembra scritta per la loro stanchezza, per la loro guittezza, per il loro non poterne più di andare ai cocktail con la pistola.

Wanna è, come ormai tutto, poderosa allegoria della campagna elettorale. Racconta Stefania Nobile – figlia della Marchi, e appartenente alla stessa scuola di Ivanka Trump: quelle che difenderanno i genitori oltre ogni evidenza e decenza, e per la Nobile oltretutto difendere la madre significa rinnegare il padre – che, quando vendevano prodotti dimagranti, si facevano richiamare dalle acquirenti ogni tre giorni per farsi dire quanto peso avessero perso. «Io ti tengo legato a me, e domani ti vendo altro».

Che differenza c’è tra la famiglia Marchi e chi cita il Piccolo principe e l’«addomesticami» che significa «creare dei legami»? M’è tornato in mente Rotondi che una volta twittò una storia della Dc di governo in un paio di righe: Abbiamo portato questo Paese a divenire la settima potenza del mondo consentendovi evasione a nord di Firenze e pensioni false a sud.

Addomesticami, implorò l’elettorato disposto a tutto tranne che a fare la propria parte.

Che speranza può mai avere di farcela il candidato che pretenda dagli italiani adempienza alle regole? L’elettorato, come Ozzano, non è pronto. Ozzano dell’Emilia era il paesino in cui Wanna Marchi, in profumeria, aggrediva le clienti dando loro delle schifose cellulitiche che dovevano emendare la loro orrendità se non volevano che i mariti le lasciassero. «Ozzano non era pronta», dice una testimone. Le televendite sì (le tv locali stavano agli anni Ottanta come TikTok sta a questo decennio).

«Buscetta si pente: io non mi pento», dice perentoria la Nobile messa davanti a uno dei palesi casi di truffa, in un montaggio alternato con la madre che, d’una povera vecchia cui avevano venduto rituali per toglierle il malocchio, dice «Oggi è, credo, all’inferno, perché quando una fa una roba del genere», e la roba del genere è: chiamare Striscia la notizia, e far finire sputtanata l’azienda di famiglia di Wanna e Stefania.

È difficile dare torto a madre e figlia quando chiedono retoricamente se sono delinquenti loro o coglione chi compra per milioni una bustina di sale che dovrebbe sciogliere il malocchio; è difficilissimo non pensare «sì, però tu credi all’inferno, non è che brilli per razionalità rispetto a quella che credeva al malocchio»; è impossibile non capire che Wanna e Stefania non hanno capito la cultura in cui vivevano, che da centoquarant’anni ritiene che vadano arrestati il Gatto e la Volpe, mica interdetto Pinocchio. (La volpe del Paese dei balocchi sarà parente di quella del Piccolo principe? Chissà se qualche politologo ha la risposta).

Finirono a processo, la gatta Wanna e quella volpe di sua figlia, e nel documentario ci sono immagini di Un giorno in pretura, con una testimone che riferisce turbata che Wanna le disse «Tu devi morire», e la pm turbatissima glielo fa ripetere. Sarò pure ossessionata, ma mentre guardavo pensavo alla Rogati che, secondo Repubblica di ieri, scriveva da una sim intestata a un’altra tizia «sei morto» assortiti a taluni vicini rumorosi (quanto la capisco). Dice Repubblica che la signora è rinviata a giudizio per minacce; ma «sei morto» e «devi morire» non sono minacce: è pensiero magico. Se crediamo che desiderare la morte di qualcuno gli arrechi danno, poi per forza finiamo a comprare promesse di snellezza e di ricchezza da teleimbonitrici che ci urlano in faccia. Chissà le facce, sapessimo di agitarci su una polveriera.

Verso le elezioni politiche. Perché il 40% degli italiani si vuole astenere: non votare è sfiducia nella burocrazia. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 21 Settembre 2022 

Come ha detto domenica la Bonino all’approfondimento del Tg2, in Italia il più grande partito è l’astensione, stimata al 40%. Gente che non va a votare – ha aggiunto – e decide così le sorti del paese perché è una grande maggioranza che non accetta di avere una responsabilità nel decidere se questo paese deve andare a destra sul modello Ungheria oppure proseguire un cammino di democrazia e civiltà. Caspita, mi sono detto, che forte argomentazione! Poi ho ripensato a qualche esperienza (alcune personali, altre raccontate) e le argomentazioni della Bonino mi sono sembrate da vedere sotto un’altra luce. Forse chi non vota ha esperienze negative con lo “Stato”?

Bisognerebbe parlare con quanti si astengono, sentire le loro opinioni, considerare le loro storie. Ne ho raccolte alcune. La prima, ad esempio, è mia (privilegio del cronista!). Due anni fa ho ricevuto una comunicazione dal Comune di Roma per una multa del 2009, opposizione (all’epoca) al giudice di pace che dà torto però solo 12 anni dopo il Comune si ricorda di chiedere il pagamento senza che la sentenza sia mai stata notificata. Per il Comune è titolo esecutivo, per la giurisprudenza non lo è. Lo è solo la cartella di pagamento, mai arrivata. Nonostante uno scambio di spiegazioni via pec, non c’è niente da fare: dialogo tra sordi; devi pagare anche se in realtà non devi proprio farlo. Morale: si vedrà in futuro al prossimo round davanti a un altro giudice. Un’altra storia, questa volta più seria, di qualcuno che ha un contenzioso con un Municipio. Può accadere che il Municipio sia solerte nell’imporre un ripristino edilizio in una zona tutta abusiva. Però se qualcuno presenta poi un successivo esposto su situazioni di irregolarità nella stessa area, magari scopri – come mi ha detto un amico – che tutto tace: i solerti che sono venuti ad ispezionare per riscontrare presunte irregolarità, quando si tratta di un cittadino che le segnala loro, allora spariscono.

E siamo a due. Poi un cittadino potrebbe avere a che fare con la giustizia. Quando non si archivia, si va in tribunale. Ma un momento: perché si archivia? Prendiamo un’assemblea di condominio che in maniera illegittima decide di installare delle telecamere, le quali peraltro puntano su strada e non sullo spazio condominiale. Siccome è impossibile discutere (perché si arriva alle mani), la strada è un esposto alle autorità spiegando perché e per come. Archiviazione, dice il magistrato: la cosa non ha rilevanza penale, semmai civile. Già, perché i due rami della giustizia non dialogano tra loro. Parliamo sempre di condominio: un collega ha chiesto al suo amministratore se ha le “carte in regola” per esercitare. E siccome il collega è antipatico all’amministratore, questi non risponde. Allora si deve tentare la strada della mediazione, ma anche l’amministratore non mostra le carte e il “conciliatore” si arrende. Allora si potrebbe fare un esposto alla Guardia di Finanza, perché in fondo un amministratore di condominio firma bilanci, maneggia soldi. Non è di loro competenza, dice il maresciallo preposto. Bisogna andare alla Agenzia delle Entrate, come se tutti noi avessimo tanto ma tanto tempo da perdere. Meglio abbandonare la partita e darla vinta a tavolino!

Il gioco dell’oca prosegue se per sfortuna varchi la soglia del tribunale, come è accaduto a un altro malcapitato. A parte lo squallore delle stanze, il cemento armato, i tavoloni, il freddo se sei in inverno e il caldo torrido estivo, a parte poi i labirinti da attraversare “per andare dove dobbiamo andare”, ti trovi di fronte una grande catena di montaggio. L’udienza è fissata, insieme ad altri cento casi (cifra esatta, non per dire!) per sapere quando verrà fissata l’udienza in cui si entra nel merito. Un po’ come in un ospedale. Al pronto soccorso accompagno un amico la sera tardi perché si è fatto male a quell’ora (dovevi fratturarti di mattina!). I medici di turno ti soccorrono e lo fanno molto bene. Però quando alla fine serve fissare la visita di controllo, scopri che devi tornare il giorno dopo, nell’orario di apertura degli sportelli. Ma sei ingessato. Che diamine! Non c’è verso: devi tornare per sapere quando avrai la visita, perché dal Pronto Soccorso, di sera, siccome gli sportelli di prenotazione sono chiusi, non possono rilasciare appuntamenti. E siamo nell’era digitale (nel senso che si scrive con le cinque dita, digitale appunto!).

La questione non è l’astensione. La Bonino, politica di grande esperienza, fa finta di non saperlo. La vera questione è il gigantesco gioco dell’oca, lo scaricabarile che viene esercitato sul cittadino, il quale non ha armi nei confronti della burocrazia, a tutti i livelli. Dal condominio – se trovi un’amministratore che non ascolta (e ce ne sono tanti!) – su e su fino alla giustizia, alla sanità, alla politica. La questione vera riguarda i problemi che impattano sulla vita quotidiana. Se una persona ha una qualsiasi bega con la giustizia, servono anni per dirimerla e allora meglio dichiararsi colpevoli – ancorché incensurati e con i benefici di legge – e chiuderla lì. Si risparmia in spese legali e tempo perduto, senza contare la salute perché non si prendono arrabbiature. E la politica? Non ascolta, a livello locale e a livello nazionale. Grandi urbanisti del traffico ridisegnano i sensi unici e complicano la vita agli abitanti del quartiere?

Non c’è modo di farsi ascoltare; nessuno pensa ad una verifica con gli utenti di quel quadrante per conoscere il loro punto di vista. Così il “mondo di mezzo” dei normali cittadini è schiacciato, compresso e vessato in tutti i modi. Una politica esperta come la Bonino dovrebbe saperlo e magari potrebbe impegnarsi per individuare metodi (politiche sembra troppo!!!) di dialogo e di ascolto. Il vero problema è semplice: chi ascolta chi? E si può capire che in tanti abbiano la certezza di avere a che fare con istituzioni sorde e cieche, e dunque in tanti pensino che l’unica alternativa sia non andare a votare. Diranno, i non votanti (come tanti mi hanno detto in questi giorni), di avere la soddisfazione, per una volta, di essere i vincitori delle elezioni. Perché come dice la Bonino, sono maggioranza, sebbene silenziosa. Scusate se è poco, direbbero, tanto finire come l’Ungheria o restare nell’Italia del 2022, a queste condizioni, forse fa differenza? Oppure votare turandosi il naso?

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

La cera si consuma nelle solite polemiche. L’espressione, che si usava per le processioni, interpreta metaforicamente lo spettacolo triste delle chiacchiere rissose. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Settembre 2022.

La cère se strusce e la breggessiòne non gamine. Detto oggi lascia indifferenti, oggi che le processioni sono tronfie e meccaniche con lo speaker e le hostess e la devozione qualche volta diventa promozione del santo come merce. Bisogna andare nei paesi della provincia profonda per ritrovare i modi d’un tempo con mozzette, bande, ex voto, pennacchi carabiniereschi e sindaco fasciato in tricolore. In città tutto si frulla col traffico e le compere e tutto collide col fastidio dei passanti. E di candele accese se ne vedono poche. Il detto però si presta per metafore tempestive. La traduzione non serve, certo, al rilievo etnico-folkloristico, bensì a cogliere quello che la saggezza popolare rileva. Metaforicamente. «La cera si consuma e la processione non cammina».

La cera interpreta simbolicamente la procedura che tenta di dislocare la medesima fatica di impetrare la fede religiosa asseverante la salvezza, nel duro approvvigionamento nelle cose terrene, nel sudore del tirare a campare dignitosamente impetrando al domani la salvezza dai languori dell’oggi e un domani meno aspro per i figli che abbiamo o che verranno.

Ma, spesso, la cera si liquefa tristemente nella pigrizia delle processioni quando stazionano perché, si blocca la loro testa gentilizia e la cera finisce di finire. Si dice di situazioni in cui gli sforzi e la fatica e le risorse si sprecano senza che s’ottengano risultati e che si marci con regolare disciplina e concordia di fatiche. Il lamento è appropriato quando si perda tempo in discussioni, polemiche, attese furbe, litigi senza che l’intento comune si compia e che lo sforzo comune sembri ottenere frutti. Lo stagionato buon senso lascia capire che si tratti di uomini e donne dabbene che si perdono in chiacchiere animatamente, lasciando che la preziosa cera si sprechi raffreddandosi ai piedi dei devoti senza spingere il corteo d’un centimetro.

E quando la processione non cammina si consuma non solo la cera, ma anche la devozione a scapito del prezioso carburante delle litanie. Che se queste pronunciassero, i fedeli, la marcia sarebbe gagliarda. Ma non sono orazioni quelle che si sentono, sono chiacchiere litigiose, insulti, accuse reciproche, sfide, oltraggi, dichiarazioni d’inimicizia irrisarcibile. Il santo barcolla sulla predella, i portatori vacillano, gli astanti s’annoiano e traballano Fede e Speranza. Solo la Carità si prodiga e sconsiglia al Padreterno di far piovere. A parte il fabbricante di cera, sono in due a gongolare: il venditore di lupini e il maligno. Lui, il maligno, gongola non tanto per lo spreco del tempo e della cera, ma quanto per la sconfitta del suo avversario: l’anima onesta di onesti donne e uomini, tenuti lontani dal traguardo della vittoria per insipienza, ignoranza ed egoismo. Tra altri demoni, brilla nel suo mestiere, il maligno qualunquista, che è quello di tentarci e farci perdere tempo. Astenendosi dal pensare.

Se qualcuno non ha ancora colto la popolaresca metafora politica è segno che siamo già oltre l’estremo limite del pudore e che questa processione è, ormai allo sbando. E sto parlando di cose di casa mia, la metafora riguarda il parlamento da fare, vertice sacrosanto della religione civile che ha il suo laico vangelo nella Costituzione della Repubblica Italiana. A noi fedeli impazienti s’offre lo spettacolo triste di quintali di cera sprecata in torrenti di chiacchiere rissose che sono insopportabili per le orecchie, per il cuore e per la ragione. Senza dire che anche la cera costa.

Vediamo con la prosa d’un tempo. «…Eppure il momento è solennemente grave: tutto il paese tira a campare sotto la minaccia di un prossimo governo arrangiato di faccendieri, il dispotismo degli affaristi ha reso grigio l’orizzonte, i raccolti si annunciano stenti, ma la campana suona invano perché i cittadini stanno lì a discutere e la processione s’è fermata e trasformata in un bivacco. Sì, saremmo in tanti, tantissimi, l’avversario ha commesso tutti gli errori che poteva commettere, la Provvidenza ha fatto quel che ha potuto per confonderlo, ma noi, niente, non vogliamo accorgercene, preferiamo far lo sgambetto ai nostri antipatici alleati, piuttosto che lottare contro il nemico comune. Se le congreghe dei liberi si ostacolano a vicenda, i malintenzionati l’avranno vinta ancora una volta. Saremo contenti allora? Potremo tornare a litigare tra di noi, cosa assai più facile che non governare la Patria, lo so, ma esiziale per i cittadini».

Tutto questo non è desunto da una cronaca popolare del passato, è la devota considerazione di oggi di un cittadino stufo dell’autolesionista cialtroneria di chi si mette in processione con poche idee e tutte polemiche e troppe candele da sprecare. Che la smettano, tirino fuori il meglio che sanno pensare, lo propongano, si mettano d’accordo, lavorino! E che la banda, finalmente, suoni per scortare la processione laica. Quella religiosa torni ad esser tale. Risparmieremmo molta «cera» in entrambi i casi.

La disillusione verso le elezioni e l’inaridimento della democrazia in Italia. ENZO RISSO su Il Domani l'11 settembre 2022

Il significato assegnato alle votazioni da parte degli italiani: ai primi due posti troviamo il senso e lo spirito con cui si recano alle urne gli elettori. Le elezioni per gli italiani sono, innanzitutto, un modo per dare un futuro al paese (33 per cento) e un mezzo per cambiare le cose (32 per cento)

In terza posizione si colloca il tema di poter scegliere tra i diversi partiti in campo e le loro proposte (24 per cento)

Una visione completamente disillusa del momento elettorale coinvolge il 18 per cento delle persone, per le quali le elezioni “sono un modo per ingannare il popolo”

Che cosa significano le elezioni per lei?

sono un modo per dare un futuro al paese

33%

Sono un modo per cambiare le cose

32%

Sono un modo per scegliere tra i partiti e le loro proposte

24%

Sono un modo per ingannare il popolo

18%

Sono un modo per punire i partiti che non hanno mantenuto le promesse e sono incoerenti

17%

Sono un modo per difendere gli interessi per me e la mia famiglia

12%

Sono un modo per promuovere gli interessi di una classe sociale

12%

Sono un modo per scegliere tra le personalità dei leader

11%

Sono un modo per avere i governi responsabili delle loro azioni passate

11%

Sono un modo per far vincere la mia parte politica

8%

Sono un modo per mantenere l'onestà dei politici

5%

Non saprei

11%

Fonte: Osservatorio politico sociale dell'autore, su un campione di 800 italiani maggiorenni. Indagine cawi realizzata tra il 2 e il 5 settembre. Fino a tre risposte al sondaggio si potevano dare

Come stanno arrivando gli italiani al rush finale elettorale? Ormai siamo entrati in pieno silenzio elettorale per i sondaggi pre-elettorali e come tale non parleremo né di partiti né di intenzioni di voto, ma di come le persone vivono e giudicano le elezioni e il processo democratico nel nostro paese. Partiamo dal tema di base. Quanto sono appagate le persone del funzionamento della democrazia in Italia? Il dato generale mostra che solo il 30 per cento degli italiani è soddisfatto, contro il 70 per cento di insoddisfatti. Più deluse risultano le donne (73 per cento), i trenta-cinquantenni (78 per cento), i residenti al Sud (72 per cento) e gli appartenenti al cento popolare (79 per cento). Ad alimentare questa dimensione di sconforto contribuisce, in parte, il modo in cui funzionano le elezioni. L’amarezza verso il processo elettorale coinvolge il 76 per cento del paese, con punte che veleggiano sull’ottanta per cento tra le donne (81), il ceto popolare (83), i baby boomers tra i 51 e i 64 anni (80). Per riuscire a chiarire in che modo e in quali aspetti si radica questa delusione è utile scandagliare le aspettative e le pulsioni emozionali che le persone riversano sul processo elettorale. Osservando il significato assegnato alle votazioni da parte degli italiani si intraprende anche una perlustrazione delle origini dell’avvilimento per la democrazia.

Ai primi due posti troviamo il senso e lo spirito con cui si recano alle urne gli elettori. Le elezioni per gli italiani sono, innanzitutto, un modo per dare un futuro al paese (33 per cento) e un mezzo per cambiare le cose (32 per cento). A ritenere il momento elettorale fondamentale per guardare avanti, costruire il domani e instillare il cambiamento sono, soprattutto, gli anziani e il ceto medio. In terza posizione si colloca il tema di poter scegliere tra i diversi partiti in campo e le loro proposte (24 per cento). Un aspetto, quest’ultimo, particolarmente significativo a Nordovest (31 per cento) e nelle Isole (28 per cento). Una visione completamente disillusa del momento elettorale coinvolge il 18 per cento delle persone, per le quali le elezioni “sono un modo per ingannare il popolo”. Il tarlo che rischia di degradare le parti interne del nostro sistema democratico coinvolge in primo luogo i ceti popolari e i residenti al Sud (21 per cento), i trenta-cinquantenni (24 per cento) e i residenti a Nordest (25 per cento). Non manca una quota di elettori che vive le elezioni come l’occasione per punire i partiti “che non hanno mantenuto le promesse e sono incoerenti” (17 per cento). Una dimensione particolarmente praticata dall’universo maschile (20 per cento) e dagli over 65 anni (25 per cento). In fondo alla classifica dei temi che caratterizzano il processo elettorale è collocata la volontà di far vincere la propria parte politica (solo 8 per cento). Una percentuale che mostra l’alto livello di liquidità delle appartenenze politiche raggiunto in Italia e la quasi archiviazione del voto ideologico. La possibilità di scegliere tra le personalità dei leader, o la possibilità di avere governi responsabili delle loro azioni, convincono, in entrambi i casi, appena l’11 per cento degli elettori; così come l’opportunità di difendere, attraverso le elezioni, gli interessi della propria famiglia o quelli della propria classe sociale ormai sono marginali e coinvolgono, per ambedue i fattori, appena il 12 per cento del corpo elettorale. L’Italia è attraversata da un pernicioso sentimento di disagio verso la democrazia. In esso possiamo riconoscere l’accresciuto distacco dei ceti bassi e popolari, traditi nella loro speranza di ascesa e benessere, ma incontriamo anche il fastidio rancoroso di parte del ceto medio il quale, seppur maggiormente legato al modello della democrazia parlamentare e al voto, appare sempre più distaccato e disilluso, tradito nelle sue attese di ruolo e partecipazione al potere.  La nostra società è attraversata da un torrente non più sotterraneo caratterizzato dalla disillusione e dalla sensazione di vivere in una democrazia delle élite. Si è accresciuto negli anni il peso per la mancanza di visioni di lungo periodo, per l’insipienza e la carenza di politiche di coesione sociale, per la difficoltà, di tutta la classe dirigente (e non solo dei partiti), a individuare il perimetro di un nuovo senso di comunanza civica entro cui collocare i tratti complessivi e condivisi dell’evolversi sociale ed economico della nazione. 

ENZO RISSO. Analista delle dinamiche valoriali, politiche, sociali e comunicative nel nostro Paese; spin doctor per campagne elettorali e esperto in costruzione di storytelling e sviluppo delle politiche di governance e partecipazione.

Astensionismo, l’Italia è diventato il paese degli elettori intermittenti. FEDERICO FORNARO, politologo, su Il Domani il 10 settembre 2022

Nel primo trentennio della Repubblica (1946-1976) la decisione di non votare rifletteva fondamentalmente estraneità e lontananza dalla politica, generata anche della mancanza delle risorse intellettuali e degli stimoli necessari a partecipare.

La differenziazione più evidente tra il trentennio di alta partecipazione (1946-1976) e il ventennio successivo caratterizzato da un declino dei votanti (1979-1999) è, infatti, rappresentata proprio dal differente grado di partecipazione e dalla declinante capacità mobilitazione dei partiti.

La partecipazione elettorale è stata sempre meno stimolata da partiti in netto arretramento in termini di radicamento territoriale e sociale e penalizzata sia da un generale invecchiamento della popolazione sia da una crescita della mobilità lavorativa e di studio generatrice a sua volta di un significativo «astensionismo involontario».

Quando negli anni Ottanta il fenomeno della crescita degli astenuti iniziò ad essere maggiormente considerato nelle analisi elettorali e politologiche, l’astensionista in Italia era facilmente identificabile perché apparteneva alle fasce di popolazione più periferiche, aveva una scolarità medio-bassa e si sentiva orfano dei grandi partiti di massa.

Nel primo trentennio della Repubblica (1946-1976) la decisione di non votare rifletteva fondamentalmente estraneità e lontananza dalla politica, generata anche della mancanza delle risorse intellettuali e degli stimoli necessari a partecipare.

La differenziazione più evidente tra il trentennio di alta partecipazione (1946-1976) e il ventennio successivo caratterizzato da un declino dei votanti (1979-1999) è, infatti, rappresentata proprio dal differente grado di partecipazione e dalla declinante capacità mobilitazione dei partiti.

I NUOVI ASTENUTI

All’inizio degli anni Duemila agli astensionisti «apatici» si aggiunsero elettori più consapevoli, scontenti delle decisioni e dell’operato della loro tradizionale parte politica, non marginali, ma al contrario convinti di esprimere la loro critica e il loro disagio con una scelta di «astensionismo punitivo».

Decidere di non votare per molti elettori non rappresentava più una scelta irreversibile di abbandono dell’area politica e neppure un tradimento definitivo, ma una scelta meditata, funzionale a mandare un segnale di dissenso sulle scelte della propria parte politica.

È in questo contesto che prende l’avvio e si consolida un comportamento elettorale intermittente impensabile nella precedente stagione delle «gabbie ideologiche» e dei «partiti chiesa». Ed è, quindi, nella complessa e contraddittoria fase di transizione tra prima e seconda Repubblica che in Italia il confine tra il voto e la variegata area del non voto diventa più sfumato e aumenta un comportamento di entrata e uscita dall’arena politica impensabile nella cosiddetta Prima repubblica, anche in ragione del venir meno lentamente ma inesorabilmente del sentimento civico del «dovere» del voto. 

ELETTORI INTERMITTENTI

La partecipazione elettorale è stata sempre meno stimolata da partiti in netto arretramento in termini di radicamento territoriale e sociale e penalizzata sia da un generale invecchiamento della popolazione sia da una crescita della mobilità lavorativa e di studio generatrice a sua volta di un significativo «astensionismo involontario».

Astensionismo e partecipazione non sono stati quindi più vissuti come mondi separati, con la conseguenza di veder accrescere proprio la quota di «elettori intermittenti», definizione da preferire a quella di «astensionisti intermittenti» perché definisce meglio una categoria di elettori che decide di volta in volta se recarsi ai seggi e non quella di cittadini che hanno varcato definitivamente la frontiera del territorio del non voto.

Fatto 100 il numero degli elettori aventi diritto al voto, infatti, il corpo elettorale appare attualmente caratterizzato da tre fondamentali comportamenti elettorali :

gli «elettori assidui» (40 per cento del totale)

gli «astensionisti cronici» (20 per cento)

gli «elettori intermittenti» (40 per cento) 

GLI ULTIMI DIECI GIORNI

La riprova della bontà del modello è sinteticamente riassumibile nell’osservazione empirica che in nessuna elezione (politica, regionale, comunale), si scende oramai sotto il 40 per cento dei votanti (salvo rarissimi casi), ma non si supera più l’80 per cento di affluenza ai seggi.

Nelle ultimi tornate amministrative (2020-2021) invece gli elettori intermittenti hanno scelto in massa il non voto, determinando il record negativo di votanti in tutte le grandi città chiamate al voto che hanno in molti casi sfondato il muro del 50 per cento di astensionismo.

Il risultato finale delle elezioni è, quindi, sempre più determinato dalla scelta di voto (o di astensione) degli elettori intermittenti che per di più decidono se votare e per chi votare negli ultimi dieci giorni, facendo impazzire i modelli matematici dei sondaggisti.

PROPORRE IL CAMBIAMENTO

L’ingresso degli intermittenti nell’arena del voto è inoltre avvenuto nelle più recenti elezioni con un comportamento a “sciame”, attaccandosi alla proposta di cambiamento più attraente per chi vive un rapporto difficile e rancoroso con la politica.

È stato così nel 2013 alle politiche con il Movimento 5 stelle, nel 2014 alle europee con il Pd di Renzi, nel 2018 alle politiche al sud nuovamente con il M5s (e parzialmente con la Lega di Salvini) e nel 2019 alle europee con la Lega di Salvini.

Come si può notare, partiti, movimenti e leader distanti tra loro, ma tutti interpreti in quella fase di una proposta forte di cambiamento dello status quo. Elettori intermittenti e infedeli per natura, pronti a togliere la fiducia senza farsi troppi problemi. 

SLIDING DOORS

Ad oggi si può prevedere una scomposizione dell’universo del 40 per cento di elettori intermittenti in un 15 per cento che non andrà a votare e un 25 per ceno che invece alla fine si recherà ai seggi. Premieranno la novità rappresentata da Giorgia Meloni, o, invece, determineranno un astensionismo record con un percentuale di votanti sotto il 65 per cento?

Oppure la paura di un ritorno indietro sul tema dei diritti e dell’ambiente spingerà i giovani e le donne intermittenti a votare in massa il centrosinistra a guida Pd Italia Democratica e Progressista? Pochi giorni e sapremo se e come gli intermittenti saranno stati nuovamente l’ago della bilancia delle elezioni.

Federico Fornaro è autore di Fuga dalle urne. Astensionismo e partecipazione elettorale in Italia dal 1861 a oggi” (Edizioni Epoké, 2016) 

FEDERICO FORNARO, politologo. È stato presidente dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi” (Isral). Ha pubblicato Giuseppe Romita. L’autonomia socialista e la battaglia per la Repubblica (FrancoAngeli, 1996), Giuseppe Saragat (Marsilio, 2003), L’anomalia riformista. Le occasioni perdute della sinistra italiana (Marsilio, 2008), Aria di Libertà. Storia di un partigiano bambino (Le Mani-Isral, 2008) e Pierina la staffetta dei ribelli (Le Mani-Isral, 2013).

È stato tra i collaboratori del volume I deputati piemontesi all’Assemblea Costituente (a cura di Caterina Simiand, FrancoAngeli, 1999) e autore di alcune voci del Dizionario del Fascismo (vol.II, a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto, Einaudi, 2003). Ha collaborato con le riviste «Il Mulino», «Mondoperaio», «Italianieuropei», «Le nuove ragioni del Socialismo» e «Quaderno di Storia Contemporanea». Dal 2013 è senatore e dal 2018 deputato.

Generazione Z e astensionismo: chi sono e perché possono cambiare i sondaggi elettorali. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 12 Settembre 2022.

Le urne del 25 settembre attendono 4,7 milioni di nuovi giovani elettori, e i leader politici si sono finalmente resi conto che conquistarli è una delle poche chance che hanno per tentare di modificare risultati elettorali già scritti. E ci stanno provando in tutti i modi, anche i più goffi. Ma per capire i sentimenti di delusione, e perfino di rabbia, di una generazione che non si sente rappresentata da una politica troppo lontana dai loro bisogni occorre guardare l’andamento dell’astensione tra i 18-34enni a partire dalle ultime elezioni della Prima Repubblica fino alle Politiche del 2018. 

Quanto vale l’astensione

Il contesto generale in cui si inserisce l’astensione giovanile è trascinato anche dal graduale allontanamento dalla politica dei loro padri, madri e nonni. Il 5 aprile 1992 votano 41 milioni di italiani su 47 milioni di aventi diritto: vuol dire che non vota il 13%, pari a 6 milioni di cittadini. Alle ultime Politiche del 4 marzo 2018 gli astenuti raddoppiano: 12,5 milioni di italiani non si presentano ai seggi, ovvero il 27% dei 46,5 milioni di aventi diritto. 

Vediamo però come si comportano le varie fasce d’età con i dati delle indagini campionarie dell’Italian National Election Studies (Itanes) elaborati per Dataroom dai ricercatori Luca Carrieri (UnitelmaSapienza) e Davide Angelucci (Luiss Guido Carli). Nel 1992 l’astensione dei 18-34enni è al 9% contro il 10% dei 35-54enni e il 20% degli over 55: sono i tempi in cui i giovanissimi sono i più consapevoli dell’importanza di votare. Una predisposizione che negli anni successivi si ribalta: nel 2018 non va alle urne il 38% dei 18-34enni, contro il 31% dei 35-54enni e il 25% degli over 55. 

Il confronto fra giovani e over 55

Nelle 8 elezioni politiche prese in considerazione, in 5 elezioni sono gli over 55 che non votano in percentuale maggiore: nel 1992 (20%), 1994 (20%), 2001 (25%), 2006 (23%), 2013 (32%). In 3 elezioni invece la percentuale più alta è proprio la fascia di età 18-34: 1996 (18%), 2008 (27%), 2018 (38%). L’analisi di questi dati ci porta a due considerazioni. La prima: in 26 anni la fascia di età più giovane passa da quella che vota di più, a quella che vota di meno. La seconda: la disaffezione alle urne non esplode all’improvviso, ma cresce in modo sistematico e inesorabile. Infatti, dal 9% del 1992 l’astensione sale al 14% il 27 marzo 1994, passa al 18% il 21 aprile 1996, al 19% il 13 maggio 200, al 21% il 9 aprile 2006, cresce al 27% il 13 aprile 2008, al 28% il 24 febbraio 2013, ed esplode al 38% nel 2018. Come ha reagito la politica a questo progressivo allontanamento? Mettendoli nel generico calderone dei disaffezionati, senza mai interrogarsi sulla necessità di parlare a coloro che rappresentano il futuro del Paese, dandogli delle prospettive. Forse anche il loro peso demografico è la loro condanna: i 18-34enni sono 10,3 milioni, mentre i 35-54 enni sono 16,6 milioni, e gli over 55 22,7 milioni. 

Il caso dei Millennials

Proviamo ad andare ancora più a fondo per vedere cosa succede se, invece di considerare solo le fasce d’età, esaminiamo i dati per generazioni, cioè in base agli anni di nascita. I Silent sono i nati tra il 1928-1945; i Boomers tra il 1946-1964; gli Xers tra il 1965-1979; e infine i Millennials. Il termine, coniato da Strauss e Howe nel loro libro «Generations», definisce Millennials i nati dal 1982 al 1996 poiché ritengono che i giovani che diventano maggiorenni nel 2000 appartengono a una generazione in netto contrasto con quella precedente e quella successiva per l’utilizzo dei media, e per come sono stati influenzati dallo sviluppo tecnologico e digitale. Per comodità e chiarezza sui termini il Pew Research Center ha poi riclassificato la data di nascita dei Millennials a partire dal 1980. Ebbene, i Millennials esordiscono al voto in Italia nel 2001 con un’astensione al 23% contro il 14% degli Xers nel 1994 e da allora, in 4 elezioni su 5, sono quelli che votano meno, fino al 40% del 2018. L’astensionismo appare, allora, anche una questione generazionale che caratterizza soprattutto i Millennials. Ma all’interno di questa generazione chi sono quelli che non votano? 

Identikit di chi non vota

Attingiamo all’analisi fatta Dario Tuorto in «L’Attimo fuggente: giovani e voto in Italia, tra continuità e cambiamento» edizioni il Mulino (2018). Su 100 che lavorano con un contratto «vero» non votano in 17; su 100 che hanno un contratto atipico non votano in 38. Su 100 che vivono con i genitori e studiano o lavorano, 20 non votano; se non lavorano e non studiano non votano in 27. Dalla elaborazione dati di Itanes, che prende in considerazione il titolo di studio, emerge che alle elezioni del 2018 l’astensionismo tra i più giovani è del 50% tra i non laureati, contro il 37% dei laureati. 

I motivi del non voto

Una larghissima fetta di giovani è dunque così distante dalla politica perché è apatica o non ha nessun interesse al di fuori del suo piccolo mondo? Ecco cosa rivela lo studio europeo «No Participation without Representation», che prende in esame un set di dati di 19 Paesi dell’Europa Occidentale e 58 elezioni negli ultimi due decenni (1999-2018). Le ragioni che li tengono lontani dalle urne sono principalmente due. La prima è la penuria di candidati giovani da cui possono sentirsi rappresentati. La seconda è l’assenza nell’agenda politica proposta dei temi che gli stanno più a cuore, come l’ambiente e i diritti civili. Se guardiamo i numeri, nei Parlamenti in cui c’è l’1% di candidati sotto i 30 anni la partecipazione al voto degli under 30 è del 74%, una percentuale che cresce all’81% se la presenza di candidati under 30 è dell’8%, e arriva all’85% con una presenza di candidati giovani del 13%. È evidente che il candidato giovane deve anche essere capace, e inserito in un programma attrattivo. Nel 2018 sono stati eletti nel Parlamento italiano 27 candidati under 30 (il 2,9%), ma la partecipazione al voto del 18-34enni è stata solo del 62%, a dimostrazione del fatto che l’età in sé non è garanzia di risultato. 

Generazione Z

Adesso tocca a loro, i nati tra il 1997 e il 2012. Si chiamano Gen Z, e quelli che hanno compiuto i 18 anni e ricevuto la loro prima scheda elettorale sono circa 4,7 milioni. È la generazione che si mobilita contro il riscaldamento climatico con i «Fridays for Future», la difesa dei diritti Lgbtq+ e delle diversità, la condanna del body shaming e contro il bullismo. Ed è anche la generazione che più ha sofferto il lockdown. Improvvisamente i partiti sembrano aver scoperto che esistono. Non è un caso se il leader del Pd Enrico Letta ripete spesso di aver indicato come capolista 4 under 35 (Rachele Scarpa, Cristina Cerroni, Raffaele La Regina, Marco Sarracino). Come non è un caso il recentissimo sbarco di massa dei leader su TikTok. Presentarsi a pochi giorni dalle elezioni sul social dove gli Gen Z si informano, dimostra anche quanto sia maldestra questa attenzione. O meglio, un po’ «cringe», per usare uno dei termini con cui i nostri figli indicano ciò che ritengono imbarazzante. Difficile pensare che questo ammiccamento basti per convincerli ad andare a votare, quando tutta la scena politica si polarizza attorno alle tasse, immigrati e pensioni (per chi già le incassa però, non quelle future). Alle urne ci andranno se si convincono che, in una democrazia, a decidere il loro futuro non è la maggioranza della popolazione, ma la maggioranza di coloro che votano. E che vale la pena di spulciare nei programmi per vedere chi e come tratta i temi che ritengono cruciali. Infine, ci andranno se si persuadono che il voto è un diritto da esercitare, anche con una scheda bianca se non ci si sente rappresentati, poiché è il solo modo pacifico per esprimere e contare il dissenso, senza essere confusi con la categoria dei menefreghisti. E questo vale per tutti gli elettori di tutte le fasce d’età.

Tutti alla scuola di Cetto La Qualunque: poi ci chiediamo perchè la gente non vota. RAFFAELLA GHERARDI su Il Quotidiano del Sud il 15 settembre 2022. 

QUANDO anni fa Antonio Albanese ha inventato il fortunatissimo personaggio politico immaginario di Cetto La Qualunque, soggetto a seguire di una serie di film comici di successo, non poteva certo immaginare che tanti protagonisti dell’attuale campagna elettorale potessero rivestire così bene le caratteristiche di quest’ultimo, tanto da diventarne addirittura paradigmatici e sotto angolature diverse. Così il ben noto messaggio del Cetto originario «più p*… per tutti» potrebbe essere molto facilmente rideclinato dagli Italiani in relazione ai loro politici in: «più promesse per tutti» o ancora meglio «più panzane per tutti».

Sicuramente se lo stesso Albanese dovesse ripensare il suo personaggio, sarebbe nell’imbarazzo della scelta fra messaggi elettorali che purtroppo si danno nella effettiva realtà di casa nostra e che pensano agli elettori come utili idioti semplicemente in grado di rispondere a chi le spara più grosse. E così c’è un Conte che ha deciso ora di indossare la veste della sinistra estrema e che fa della coerenza il suo cavallo di battaglia, dopo aver esordito come Presidente del Consiglio avendo come fido alleato Salvini (suo Vice, nonché Ministro degli Interni), aver poi presieduto il Governo giallo-rosso, ed essere stato autore nello stesso Governo Draghi, di cui pure il suo partito faceva parte, di così tante e innumerevoli giravolte da fare invidia ai più esperti funamboli, prestigiatori e illusionisti che dir si voglia.

Ecco quindi lo slogan inventato da Conte (o suggeritogli da qualche suo guru mediatico) per convincere gli elettori a dare il voto al suo partito: «Il voto utile non esiste, esiste il voto giusto!» Date le premesse di cui sopra, maturate nel corso di questa legislatura dall’illustre leader dei 5 Stelle, vorrebbe forse l’anonimo elettore capire cosa significhi l’aggettivo “giusto” per Conte, dati i suoi recenti trascorsi? Non sia mai! Basta che l’elettore colga la suggestione dello slogan, se ne convinca e voti.

Ma anche volendo immaginare, da parte dei cittadini che idioti non si sentono, una semplice graduatoria dei politici più bravi a promettere panzane e a inventare frottole, davvero il compito sarebbe molto arduo. Facile, per esempio, indicare il solito e collaudato nome, in tema di promesse, di Berlusconi che ai suoi esordi indicava un programma (sottoscritto davanti agli Italiani dagli schermi televisivi) di un milione di posti di lavoro, innalzamento delle pensioni, dei salari ecc. ecc.. e che ancora ora è pronto a ritradurre il suo messaggio originario in euro (1000 euro di pensione minima, integrato anche da 1000 euro per i salari minimi dei giovani!!), insieme con la lotta contro le vituperate tasse. Ahi, le tasse e chi giustamente le evade: grande e decisivo cavallo di battaglia del politico Cetto La Qualunque! Su questo terreno Berlusconi subisce però ora la spietata concorrenza del suo alleato Salvini che, non solo si riempie costantemente la bocca di flat tax annessi e connessi, e di percentuali in tal senso, ma spesso e volentieri strizza l’occhiolino agli evasori tirando in ballo il grido di battaglia di una “pace fiscale” che altro non è che una serie di condoni per chi le tasse non le ha pagate né ha molta intenzione di pagarle.

Salvini poi corre velocemente verso il gradino più alto del podio laddove è davvero bravo a dare i numeri di ciò che occorre fare ora e domani sui vari terreni/campi di battaglia elettorali: dalla celebre quota 41 allo scostamento di bilancio di trenta miliardi da varare subito per far fronte agli aumenti delle bollette di luce e gas. Su chi ricadranno tutte queste belle trovate? Quali soggetti sarebbero in grado di garantirle? Chi mai, nel caso, ne potrebbe sopportare il peso? A quale prezzo sul presente e, soprattutto, sul futuro del nostro Paese? Che bisogno c’è da parte degli elettori di porsi tutti questi problemi; alle promesse di tutti i numerosi Cetto La Qualunque in carne e ossa nostrani non c’è confine.

D’altra parte, per quanto riguarda specificamente Salvini non è senza significato che egli abbia scelto come slogan della sua campagna un bel “Credo”; e di fronte alla /alle fedi di qualsivoglia natura proprio non c’è alcun bisogno di razionale spiegazione da parte del leader che se ne investe. L’atto di fede da parte dell’elettore non può che essere: “Credo in Salvini!”, basta e avanza. Un bel colpo di spugna su tutti coloro che da secoli nel moderno Occidente hanno pensato alla politica nei termini di razionalità e perlomeno di ragionevolezza: ma cosa importa? Basta che il popolo dei votanti abbia fede indiscussa e indiscutibile nei propri leader (uomo o donna che siano) di riferimento, nei vuoti slogan che essi propongono e che sono centrati sul proprio appeal mediatico e assai frequentemente sulla capacità di vender fumo: e gli esempi potrebbero essere moltiplicati in questa squallida campagna elettorale e mediatica a partire da diversi partiti e schieramenti.

Quanto all’Italia che tanti di loro invocano e/o richiamano fin dal proprio simbolo: meglio stendere un pietoso velo di silenzio. Niente di più lontano da parte dei Cetto La Qualunque nostrani (e il populismo a volte si nasconde anche sotto le insospettabili spoglie di chi a parole se ne dichiara nemico) che l’interesse del nostro Paese. E se ce ne fosse ancora bisogno la caduta del Governo Draghi, un Governo che in tempi rapidi era riuscito a dare nuova credibilità e autorevolezza sul piano interno e internazionale e per di più in momenti di gravissima crisi globale, è ancora qui a mostrare lo scempio che è stato attuato da parte dalla classe politica che se ne è resa responsabile: tanto più alla luce dello spettacolo dato ora da parte dei partiti, largamente ripiegati su sé stessi anche quando sono in gioco gli interessi dell’Italia come Paese. E non bastano improvvisate “conversioni” di questo o quel leader (uomo o donna che siano) a rassicurare in proposito, né tanto meno sono rassicuranti certi silenzi, al di là delle recite di rito, anche per quanto riguarda il ruolo dell’Italia in ambito europeo e internazionale.

Ma forse ancora una volta dovremmo tutti ciecamente fidarci a spada tratta di Salvini quando ha recentemente affermato che c’è bisogno di un “cambio di passo della politica”, avendo cura di sottolineare: «È passata l’epoca dei tecnici. Noi chiediamo la fiducia degli Italiani per la buona Politica, con la “p” maiuscola.» Si tratta forse di parole di un comico travestito da Salvini? No, no, si tratta proprio del Salvini originale che non è riuscito nemmeno a capire (o invece finge di non capire) che per la grande maggioranza degli Italiani l’esempio della grande Politica, quella che nulla ha a che fare con i tanti Cetto La Qualunque in giro, c’era e c’è, eccome: si chiama Mario Draghi.

Allora nel disperante scenario che si offre ai cittadini che vorrebbero invece avere a che fare con programmi elettorali e leader di partiti degni di questo nome, non resta che la magra consolazione di andare a votare scegliendo fra quelli che meno le sparano grosse e cercando perlomeno di scansare coloro che li ritengono semplici idioti, nemmeno in grado di ricordare le loro recentissime “gesta”, né tanto meno di accorgersi del vuoto di certi proclami e farneticanti promesse. E se proprio non ce la si fa più, già a meno di due settimane dal voto, a reggere lo “spettacolo” di certi politici e politicanti, allora dobbiamo tutti pensare, noi cittadini davvero interessati al Paese che amiamo, al grandissimo spettacolo offerto domenica 11 aprile, dalla squadra nazionale di pallavolo che ha vinto in Polonia il campionato del mondo e allo slogan che essa aveva scelto per sé stessa per infondersi, tutti insieme i giocatori, coraggio nell’affrontare ogni difficile sfida: «Noi, l’Italia!» E a tale slogan i commentatori e gli spettatori hanno poi risposto definendo la squadra e il suo gioco: «La bella Italia.» Con la consapevolezza condivisa di voler fare a tutti costi squadra, nel segno dell’orgoglio del proprio Paese, l’Italia è ora campione del mondo di pallavolo, rifiutando tutti (anche i giocatori che hanno avuto premi individuali nel loro ruolo e in primis il capitano) di essere definiti, nelle varie interviste, leader della squadra, dato che si tratta di una vittoria raggiunta tutti insieme dai giocatori, come gruppo.

Chi sa se qualche leader di partito fosse ieri sera davanti al televisore e abbia potuto godere di questa vittoria, alla stregua dei “normali” cittadini italiani e chi sa se, sentendo tali dichiarazioni si sia almeno un po’ vergognato di mettere sempre al primo posto il proprio ego, magari mascherandolo nel segno dell’Italia, ma tutt’altra cosa rispetto all’amore per l’Italia vera.

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Detenuti votate, la libertà è partecipazione: i giustizialisti se ne faranno una ragione. Francesca Sabella su Il Riformista il 16 Settembre 2022 

Le sbarre di ferro del carcere possono imprigionare il corpo, non devono fare lo stesso con la mente, con le idee, con i diritti di chi ha sbagliato e sta scontando la sua pena. L’Italia, infatti, fa parte di quei Paesi che non negano in modo assoluto la possibilità di votare ai detenuti (come invece succede in Bulgaria e nel Regno Unito), ma nella maggior parte dei casi tale diritto si considera soltanto sospeso e questo avviene solo per alcune categorie di reclusi: per chi è condannato all’ergastolo e per chi deve scontare una pena superiore a cinque anni. Tutti gli altri, quindi, possono votare? La risposta è sì. E quindi… detenuti votate! Votate! E votate! Sappiamo già che giustizialisti e forcaioli a questo punto dell’articolo saranno già caduti dalla sedia, ma lo dice la legge, non noi, che i detenuti possono e devono votare. È un diritto e un dovere civico. Il carcere serve (o almeno dovrebbe servire, ma questa è un’altra storia) a rieducare, a reinserire chi ha sbagliato nella società, ecco perché è importante che anche loro contribuiscano a cambiare la società nella quale ritorneranno a vivere.

«Andate a votare, esprimete la vostra preferenza di voto, divenendo così cittadini attivi – afferma il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello – Sarebbe un errore madornale non recarsi alle urne, il voto è un diritto e un dovere sacrosanto per tutti i cittadini; è l’espressione massima della democrazia. Anche i detenuti, chiaramente coloro su cui non pende un’interdizione dal diritto di voto, possono e devono esercitare questo diritto/dovere». Ma per un recluso qual è l’iter da seguire per poter votare? Il detenuto che desidera esprimere il suo voto deve fare una istanza, considerata valida fino a tre giorni dalle elezioni, al sindaco del suo Comune che, una volta appurato che il richiedente ha diritto al voto, spedisce al carcere il certificato elettorale. A quel punto viene instituito un “seggio speciale” all’interno del carcere. «Mi dispiace solo che le procedure per accedere al voto negli Istituti di pena sono farraginose, lunghe, complesse e che i detenuti siano poco informati sui loro diritti e non sanno nulla rispetto alle modalità di come esercitarli – afferma Ciambriello – I politici, pur avendo la possibilità di entrare in carcere per ispezione e controlli, non lo fanno. Il vento che spira è assai preoccupante: il “populismo penale” si coniuga con il “populismo politico” e così si evita di parlare di carcere».

Ma le carceri esistono, esiste l’inferno in terra ed è per questo che è importante che i detenuti chiedano di poter votare. «L’invito ai detenuti è di esprimere la propria idea politica – ribadisce Ciambriello – ai direttori degli istituti di pena di avviare una giusta informazione sulle modalità di voto, così da preparare per tempo tutta la documentazione necessaria per poter barrare un simbolo. Anche se privati della libertà, i detenuti possono contribuire alla formazione del Parlamento. Devono essere consapevoli del fatto che anche loro possono essere attori dei processi di cambiamento e non semplici spettatori. Solo esercitando il diritto al voto, però, possono essere protagonisti – conclude il garante –chi non lo fa, non potrà proferire parole di lamentela sulle condizioni delle carceri e più in generale del nostro Stato, perché decidere di non votare equivale ad ammettere di non voler partecipare». E se guardiamo alle precedenti elezioni, i numeri non sono per niente confortanti. Ecco perché è importante che si parli di politica in carcere e ancor di più che la politica parli di carcere. Alle elezioni Europee del 2019 l’affluenza è stata quasi pari allo zero. Hanno chiesto di poter votare due detenuti del carcere di Aversa, uno del carcere di Salerno, sette in quello di Secondigliano. Nel 2016, invece, in Campania parteciparono alle elezioni Amministrative solo nove detenuti. Votate, perché libertà è partecipazione. Anche se si vive ancora in pochi metri quadri circondati da sbarre di ferro.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

La grande carica dei paracadutati, al Sud il 20 per cento degli eleggibili arriva da altre regioni. Sui circa 190 tra senatori e deputati che saranno eletti nel Mezzogiorno oltre 40 sono nomi che nulla hanno a che fare con i collegi nei quali sono candidati. Ecco tutti i paracadutati e come stanno svolgendo la loro paradossale campagna elettorale. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 19 settembre 2022.

«Non conosco bene il territorio, ma conosco l'Abruzzo perché mio nonno era di Amatrice», disse Claudio Lotito, candidato del centrodestra in Molise, mentre la neo forzista Rita Dalla Chiesa in Puglia postava la foto di Giovinazzo scambiandola per quella di Molfetta e l’azzurra Michela Vittoria Brambilla da Lecco metteva per la prima volta piede a Gela stringendo la mano al sindaco e assicurando che «si occuperà adesso del territorio gelese». Basterebbero queste scenette, chiamiamole così, per descrivere come i partiti abbiamo trattato il Mezzogiorno in questo voto per il rinnovo del Parlamento. Un grande bacino di consensi e nulla più. 

Non a caso nella campagna elettorale da Roma in giù si è discusso più di queste figure fatte da candidati che evidentemente non conoscono nemmeno i territori dove sono stati imposti dalle segreterie, che di programmi veri per ridurre il divario Nord-Sud. Ad eccezione dei soliti temi che saltano fuori a ogni elezione da almeno trent’anni: il Ponte sullo Stretto, gli aiuti a chi non lavora, l’autonomia differenziata che piace a Piemonte, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna con annessi governatori di Forza Italia, Lega e Pd. Per il resto, come sottolineano economisti e imprenditori che lavorano in queste regioni economicamente e socialmente depresse, il Sud «è scomparso da ogni vera agenda politica» ed «è considerato soltanto come corpo elettorale utile ad eleggere classi dirigenti che vivono altrove». 

Una cosa è fuor di dubbio: il fenomeno dei paracadutati riguarda quasi tutti i principali partiti e vede soprattutto le regioni meridionali “subire” queste scelte. L’Espresso ha fatto i conti: sui circa 190 tra senatori e deputati che verranno eletti nelle regioni del Mezzogiorno, 32 candidati in posizione blindata ed eleggibile provengono da altre parti del Paese e non hanno nulla a che fare con i collegi in questione. E se a questa cifra si aggiungono come è normale anche i leader nazionali candidati come capilista a macchia di leopardo nei vari collegi meridionali, e che quindi per il complesso meccanismo di ripartizione dei seggi potrebbero essere poi eletti al Sud, significa che il venti per cento dei volti eleggibili nel Meridione è stato paracadutato da altre regioni. 

Non a caso in queste settimane in diverse città del Mezzogiorno si sta assistendo a scene surreali di candidati che stanno “scoprendo” come in una vacanza territori a loro sconosciuti o quasi: così capita di vedere Michela Vittoria Brambilla da Lecco arrivare nel profondo Sud a Gela e stringere la mano a un sindaco che non ha mai visto in vita sua, oppure Bobo Craxi aggirarsi per Palermo dove il centrosinistra lo candida all’uninominale perché «questo collegio spettava ai socialisti», facendosi fare foto per le stradine del centro quasi come un turista a passeggio che scopre la città. Un po’ come il fiorentino leghista Alberto Bagnai in giro a Chieti come candidato nell’uninominale al Senato in Abruzzo o l’ex presidente di Palazzo Madama Maria Elisabetta Casellati, che accompagnata a Potenza dal forzista Nitto Palma ai giornali locali ha rilasciato la sua prima dichiarazione da candidata in Basilicata: «Sono felice». E ci mancherebbe, verrebbe da aggiungere. 

In Campania il Pd ha fatto cadere dall’alto i ministri Dario Franceschini da Ferrara e Roberto Speranza da Potenza, il partito di Di Maio ha lanciato Davide Crippa da Novara, Forza Italia la compagna di Berlusconi, Marta Fascina, che è stata candidata anche a Marsala per sicurezza (di essere eletta). E sempre sotto il Vesuvio sono candidati la bolognese Anna Maria Bernini per Forza Italia, il toscano Marcello Pera per Fratelli d’Italia, l’ex segretaria della Cgil Susanna Camusso (lombarda) per i dem e il triestino Stefano Patuanelli per il Movimento 5 stelle. 

In Puglia Forza Italia punta forte su Rita Dalla Chiesa e sulla milanesissima Licia Ronzulli, ma il segretario dei dem Enrico Letta nella terra di Michele Emiliano piazza in posizione blindata anche il suo braccio destro Antonio Misiani da Bergamo. In Sicilia va in scena la sfida a distanza tra i fratelli Craxi, con Bobo a Palermo per il centrosinistra e Stefania a Caltanissetta per il centrodestra, mentre la ligure Annamaria Furlan, ex segretaria della Cisl, è capolista dei dem nella circoscrizione Sicilia Occidentale al Senato. Il Terzo Polo candida Maria Elena Boschi in Calabria, Matteo Renzi ed Ettore Rosato da Trieste in Campania e la mantovana Elena Bonetti in Sardegna. Un Sud accogliente e morbido per chi atterra da altre parti del Paese in collegi e posizioni blindate.

Ma a fronte di questo record di paracadutati, il tema Mezzogiorno è scomparso dalla campagna elettorale e gli imprenditori assistono perplessi al tour di candidati semisconosciuti.

«Siamo circondati da politici che si dicono moderati per non decidere nulla». La campagna elettorale ignora le questioni cruciali, come trovare i fondi per le riforme necessarie o proteggere i più deboli da inflazione e recessione. Perché in fondo tutti sperano nel soccorso dei tecnici o dei governi di tutti. Massimo Cacciari su L'Espresso il 19 Settembre 2022. 

Molti si chiederanno nel corso di questa incredibile competizione elettorale come mai, se corriamo pericoli così esiziali, coloro che ce ne avvertono ininterrottamente non abbiano dato vita, come sarebbe stato dovere, a forti coalizioni. Le risposte, temo, non possono essere che le seguenti: o si tratta di gente irresponsabile, oppure l’allarme per l’abisso in cui precipiteremmo se il “nemico” vincesse è pura propaganda, oppure ancora non si disponeva di alcun programma, di alcuna idea su cui fondare l’indispensabile unità delle forze anti-populiste, anti-sovraniste, ecc.ecc.

Il ruolo dei tecnici in politica e le tante anomalie d’Italia. Paolo Mieli su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022. 

In 30 anni quattro superprofessionisti hanno guidato governi di «larghe intese». Il centrodestra ha comunque presentato un candidato premier, il centrosinistra no

La storia della Seconda Repubblica è iniziata ventinove anni fa con un evento assai particolare: la convocazione al Quirinale dell’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, «spostato» a Palazzo Chigi per dar vita ad un governo d’emergenza. Curiosamente questa fase di storia dell’Italia repubblicana si chiude (non sappiamo se in via definitiva) con l’uscita dallo stesso edificio, Palazzo Chigi, di Mario Draghi, un personaggio dalle caratteristiche assai rassomiglianti a quelle dell’illustre predecessore. Reduce, Draghi, da un’impresa anch’essa simile a quella che toccò al presidente del Consiglio del 1993. Ciampi e Draghi — com’è noto — non sono stati gli unici premier emergenziali dell’ultimo trentennio. Nel 1995, pochi mesi dopo la temporanea uscita di scena di Ciampi, fu chiamato alla guida di un esecutivo altrettanto straordinario l’ex direttore generale della Banca d’Italia, Lamberto Dini (già ministro di Berlusconi, successivamente leader di un effimero partito di centrosinistra). Sedici anni dopo, fu la volta dell’ex rettore della Bocconi ed ex Commissario europeo, Mario Monti, anche lui scelto per la guida di un governo di salute pubblica e fondatore, in tempi successivi, di un partito dalla vita relativamente breve. Quattro «supertecnici» accomunati dall’aver guidato governi di «larghe intese» a cui i presidenti della Repubblica avevano affidato la missione di far fronte a situazioni che vennero presentate come uniche.

Le prime tre di queste personalità non provenienti dalla politica (e qualche loro ministro ugualmente tecnico) si sono poi affezionate al mondo conosciuto in quell’occasione e sono rimaste in politica. Draghi, a differenza degli altri tre, non sembra desideroso di trattenersi e mettere una qualche radice nel Palazzo popolato da deputati e senatori.

I risultati dell’azione dei quattro «grandi tecnici» sono stati giudicati in termini positivi. Da tutti (o quasi), anche fuori dai nostri confini. A dispetto di tali successi, però, non risulta che qualche altro Paese del mondo contemporaneo si sia sentito incoraggiato all’adozione di questo genere di soluzione per le proprie crisi. Già, come mai nessun altro è ricorso, in emergenza, ai supertecnici? Strano, no? Come mai gli altri Paesi, tutti, si ostinano a procedere per la via tradizionale del ricorso ad elezioni e della scelta di primo ministro e governo sulla base del responso elettorale? Nessun politologo — che ci risulti — ha mai provato a dare una risposta a queste domande.

Così come nessun politologo si è fermato a riflettere sull’effetto che queste esperienze (ripetiamo: ben quattro nell’arco di un trentennio) possono avere avuto sul sistema politico. Le prime due (Ciampi e Dini) non paiono aver intaccato lo spirito dei primi Anni Novanta. Centrodestra e centrosinistra insistettero allora nel dar vita a schieramenti pur disomogenei che esprimevano coalizioni con annessa leadership da portare al governo legittimate da un voto. E furono, tra infiniti tormenti, gli anni dell’alternanza Berlusconi-Prodi. All’inizio del decennio passato, però, le cose sono cambiate radicalmente. Dopo l’esperienza Monti, il centrodestra — ancorché travolto dai marosi provocati dai guai giudiziari di Berlusconi — non ha rinunciato all’idea di presentarsi al proprio elettorato nella sua versione ormai trentennale. E al cospetto delle urne ha regolarmente indicato il capo del governo nel leader (stavolta presumibilmente la leader) del partito che avrebbe preso più voti. Il centrosinistra, no. Intimidito forse dalla qualità dei tecnici che evidentemente considerava superiore alla propria, da più di dieci anni ha scelto di non offrire al Paese né una coalizione né un leader per il governo. Neanche questa volta. Il fronte progressista aveva avuto la stessa esitazione nel 1994 quando si concluse l’esperienza Ciampi. Alle elezioni di quell’anno si presentò senza candidato e fu battuto — di misura — da Berlusconi. Poi la sindrome fu superata, fu trovato un leader nella figura di Prodi (che però aveva l’handicap di non essere capo del partito di maggioranza relativa) e per un decennio la questione fu risolta anche a sinistra. Ma, uscito di scena Prodi, la strana sindrome del ’94 si è ripresentata.

Nell’epoca intercorsa tra l’esperienza di Monti e quella di Draghi (2011-2022) il Pd non ha neanche più provato a conquistare la maggioranza dei voti e dei seggi parlamentari con una propria coalizione di governo. Mai più ha presentato agli elettori un candidato premier. Pierluigi Bersani che avrebbe potuto esserlo se si fosse andati al voto nel 2011, due anni dopo fu costretto a constatare che l’occasione giusta era andata persa. Da allora il Partito democratico si è specializzato nell’arte di giostrarsi nel caos parlamentare, contribuire alla nascita di coalizioni emergenziali e far poi durare la legislatura fino alla fine naturale facendo leva sull’attaccamento degli eletti al posto precedentemente conquistato.

Questo metodo porta con sé indubbi vantaggi: presenza assicurata nel governo e nel sottogoverno, totale deresponsabilizzazione a fronte delle scelte più impegnative, irrilevanza di eventuali insuccessi elettorali. Ma, ora che è finita la campagna elettorale, sorge il dubbio che questo modo di prospettare il proprio futuro — facciamoci eleggere, poi sistemeremo le cose in Parlamento, contando sull’immediato tracollo degli avversari e, nel caso, chiamando a Palazzo Chigi un nuovo supertecnico — possa garantire una qualche affidabilità. Né ci sembra che una prospettiva del genere possa costituire per Mario Draghi un richiamo irresistibile.

Da corriere.it il 28 settembre 2022.  

«Non ho votato, faccio parte di quella parte della società che non ha votato. È la prima volta in vita mia, e per uno come me che ha il voto stampato come un tatuaggio sulla pelle è stata una sofferenza indicibile, come una sofferenza indicibile è stato vedere questi ragazzi che non possono tornare a votare nei loro paesi perché costa troppo il viaggio, questo è insopportabile». 

Lo ha detto Michele Santoro, ospite di «Facciamo finta che», il programma di Maurizio Costanzo e Carlotta Quadri in onda su R101 dove ha presentato il suo ultimo libro «Non nel mio nome». «È stato insopportabile anche per me non votare, però era il mio modo di manifestare una distanza da questa scissione che c'è tra l'elite e il popolo che alla fine porta la Meloni a vincere perché la Meloni assomiglia di più a quelli che non votano rispetto alla leadership di sinistra fatta da persone che si lavano le mani tutte le mattine per bene, se le lavano più volte al giorno, ma non se le sporcano mai mettendole nella realtà». «Adesso siamo frastornati dal fatto che questo voto - ha detto ancora - ci presenta una sinistra sconfitta, quasi umiliata, però smaltiti questi primi giorni al tappeto ci rialzeremo e cominceremo piano piano a tirare con i nostri guantoni di nuovo sul sacco e torneremo a essere competitivi. Io credo che la bandiera dell'uguaglianza tornerà a sventolare». 

La chiamata al voto dei partigiani.

La sinistra ha abbandonato I Diritti Sociali dei tanti (Il popolo dei ceti medio e bassi) poco rappresentati in Parlamento in favore de I Diritti Civili dei pochi (Immigrati, mussulmani, LGBTQIA+, ecc.) sovra-rappresentati in Parlamento rispetto al numero reale nella società italiana. Se i galoppini dei partiti accusano chi non ha votato del disastro italiano. Rec News - Articolo del 30 Settembre 2022 di Zaira Bartucca

 Italia è quel Paese in cui i diritti si possono esercitare solo se sono i programmi della classe dirigente. Puoi esprimere la tua opinione, rimanere in quella griglia di pensiero buonista e progressista, se no gli squadroni punitivi ti schedano come “fascista” tentando di negarti la libertà di espressione. Puoi esercitare la tua libertà di scelta, però devi essere consapevole che questa non può essere tale se esiste un trattamento sanitario imposto dal governo. Puoi muoverti, ma devi sempre tenere a mente che il diritto alla mobilità in alcuni periodi può essere sotteso al possesso di un certificato sanitario.

Puoi lavorare e puoi scaldarti in inverno, ma devi comprendere che non sei altro che un parassita che impatta sull’ambiente, che pretende di mantenere se stesso e la sua famiglia in un momento in cui impazzano i disastri climatici. Puoi tenere aperto il negozio, sempre che riesca a essere più forte delle bollette. Puoi votare il partito di cui ti fidi con la carta e la matita (poi parlano di digitalizzazione), ma devi essere consapevole che le manipolazioni sono dietro l’angolo e che ci sarà sempre un vincitore ombra che si farà un suo governo su misura, oppure che i vecchi partiti si alleeranno tutti insieme, vanificando ogni singola preferenza.

Puoi – e qui arriviamo al punto – non votare se non ti senti rappresentato, ma devi essere conscio del fatto che faranno di tutto per trascinarti alle urne, perché il tuo non-voto può avere effetto su un sistema elettorale-farsa che deve permettere il riciclo delle solite facce e il buon vecchio motto del “cambiamo tutto per non cambiare niente”. Puoi fare, insomma, tutto quello che ti viene concesso per grazia ricevuta, perché sennò ti devi sobbarcare le colpe di tutto. E’ colpa del fatto che non ti sei voluto prestare alla somministrazione di un sperimentale se il covid “tornerà”.  E’ colpa del calorifero acceso se c’è la guerra in Ucraina e, ovviamente, è colpa del fatto che non sei andato a votare se l’Italia è un regime coloniale.

Questo dicono i galoppini dei partiti nelle loro sfuriate che questa volta sono contro 16 milioni di italiani che non si sono voluti recare alle urne. E’ singolare, ma in questa crociata contro l’italiano medio vessato da misure draconiane a da ogni sorta di ristrettezza, giornalisti ed opinionisti prezzolati sono affiancati dai cosiddetti “anti-sistema”, cioè da coloro che pretendevano di essere votati solo perché per 24 mesi hanno cavalcato il covid con il fine ultimo di accaparrarsi un posto in Parlamento. Nascondendo, per giunta, la loro appartenenza ai vecchi partiti o la loro vicinanza a contesti massonici e think thank sovranazionali. Ora si ritrovano con un pugno di mosche in mano, certo, ma più che accusare chi non si è voluto (liberamente) fidare, dovrebbero fare un po’ di autocritica e comprendere che la mancanza di trasparenza non paga mai.

Il fallimento dei partiti vecchi e nuovi non risiede né nelle caratteristiche dei soggetti di rappresentanza, né nelle mancanze dei leader, né nell’incompletezza dei programmi, ma - semplicemente – nella realtà oggettiva. Una realtà in cui il cittadino è abbandonato a problemi che, addirittura, sono causati dalla classe politica stessa. L’Italia era e sarà - con l’ennesimo governo accomodato su posizioni europeiste – il Paese della disoccupazione, dell’inflazione, delle speculazioni, delle persecuzioni ideologiche e sanitarie, della Giustizia impantanata. Nessun tra i partiti vecchi e nuovi ha dimostrato di voler porre rimedio in maniera concreta a questi problemi, e gli italiani – semplice ne sono accorti. Notando incoerenza, doppiogiochismo, menefreghismo, egocentrismo ed un insano istinto di auto-conservazione da parte di partiti autori o corresponsabili del disastro.

E’ per questo che, pur di non essere complici di un sistema distorto, in 16 milioni non sono andati a votare. Se ne facciano una ragione un po’ tutti, da destra a sinistra ricordandosi che una democrazia può dirsi tale solo se si rispetta la maggioranza, e la maggioranza degli italiani oggi non si sente rappresentata da nessuno.  

Dagospia il 25 settembre 2022. LA NUOVA PARROCCHIA POLITICA E' IL "PARTITO DEGLI ARTISTI" (MA QUANTI VOTI SPOSTA?) – CANTANTI, INFLUENCER, ATTORI, DIRETTORI DI ORCHESTRA, DA CHIARA FERRAGNI A PAOLA TURCI FINO A FRANCESCA MICHIELIN E NICOLA PIOVANI, SI SONO MOBILITATI SUI SOCIAL APPELLANDOSI AL SENSO CIVICO DEI CITTADINI PER CONVINCERLI AD ANDARE A VOTARE – PERÒ ATTENZIONE: NON E' UN INVITO A FARE IL PROPRIO DOVERE CIVICO MA UNO SPRONE A VOTARE "BENE" (CIOE' PER CHI DICONO LORO)

Federico Capurso per “la Stampa” il 25 settembre 2022.

Il mondo dello spettacolo si muove per invitare gli italiani al voto. Dai toni seri e accorati, come quello di Chiara Ferragni, a quelli più scherzosi di Alessandro Gassman e Francesca Michielin, fioccano sui social gli inviti di artisti e artiste a recarsi alle urne.

Mette al centro i diritti, Ferragni: «Il voto è uno dei pochi strumenti di cui disponiamo per proteggerli, per crearne di nuovi, per estenderli a chi oggi se li vede negati - scrive l'influencer in una storia pubblicata su Instagram -. E per decidere in che direzione debba andare il nostro Paese: se in avanti o indietro di decenni».  

Sono stati più rari del solito, in questa tornata elettorale, gli inviti a sostenere un partito, ma anche nei semplici appelli al voto, l'orientamento più o meno velato emerge. Come quando dal mondo della musica, la cantante Paola Turci fa eco a Ferragni augurando su Twitter un «buon voto al nostro Paese, democratico, dei diritti, antifascista».

Si limita a porre l'accento sui diritti il collega Marco Mengoni: «Votare è il più grande atto di libertà, è nostro diritto, è un nostro dovere. Io vado a votare. E tu?», chiede ai suoi follower. Si rivolge a loro anche la cantante Francesca Michielin, ma in modo scherzoso: pubblica una sua foto in primo piano e li avverte, «io che guardo se votate domenica».  

Come lei, sceglie l'ironia Alessandro Gassman. Il suo è un meme, ovviamente affidato ai social: «Non votare è come nascondere la testa nella sabbia, ma attenzione... il culo resta fuori». Più mesto, invece, il compositore e direttore d'orchestra Nicola Piovani, che condividendo una vignetta di Altan, si dice «indeciso se dare un voto utile o dilettevole». E aggiunge: «In certi momenti, chissà perché, l'ipotesi del "meno peggio" mi appare come un miraggio di ottimismo e di speranza». 

Capisce l'indecisione degli astensionisti, l'attore Giorgio Pasotti, «ma è importante esprimere un voto e mi rivolgo soprattutto ai giovani, perché si sta parlando del loro futuro. Votare è indispensabile». 

La presunzione di chi non voterà. Dacia Maraini su Il Corriere della Sera il 19 settembre 2022.

Come fare capire che chi non vota non esprime un giudizio valido politicamente ma solo una assenza, un «me ne frego» di triste memoria?

Si parla tanto di elezioni in questi giorni. Chiedo, quindi, ai ragazzi quali sono le loro preferenze, come voteranno. E molti mi rispondono che non lo sanno. Tanti aggiungono svogliatamente: «non ci vado per niente a votare». E, se io, con la mia ingenua curiosità insisto nel chiedere per quale motivo non lo faranno, mi rispondono «non c’è nessuno che mi rappresenti».  Fra tante proposte e candidati, nemmeno uno? La risposta è: no. Come ci dicono le previsioni, un trenta 30 per cento degli italiani non è disposto a votare. Ovvero ha dichiarato di rinunciare con spirito leggero a un suo importante diritto conquistato con fatiche immense e lotte a volte sanguinose. Come fare capire che chi non vota non esprime un giudizio valido politicamente ma solo una assenza, un «me ne frego» di triste memoria?

Non si tratterà di protesta riconoscibile ma solo di una resa qualunquistica a chi vincerà.  Coloro che in nome di una superiore purezza rinunciano a un diritto essenziale coltivano un pensiero presuntuoso: io non mi mescolo con quella roba, io ho una visione più alta, più pura della politica e perciò mi defilo. Ma non spiegano quale sarebbe questa visione ideale della politica, non propongono progetti per governare il Paese, semplicemente se ne lavano le mani. Ma possiamo scommettere che se qualcuno offrisse a uno di loro l’occasione e i soldi per mettere su un partitino tutto nuovo e agguerrito, lo scettico del voto salterà in aria, gonfierà il petto e dirà: ora si che la politica riprende fiato, arrivo io e vi farò vedere come si governa, come si ottengono dei risultati, rivolterò il Paese come un calzino. Il voto, insisto è un diritto faticosamente conquistato, sopratutto per le donne che da secoli lo chiedevano e nessuno era risposto a darlo. Segno che il voto faceva e fa paura a chi non ama la Democrazia, vedi i Paesi totalitari che lo eliminano appena possono.

Chi si astiene il 25 settembre fa quello di cui accusa i politici: non si occupa del bene comune. Lilli Gruber su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022.

Difendere e tutelare il diritto di voto non è un “favore” alla classe politica, è salvaguardare il principale strumento in mano ai cittadini per influire concretamente nell’azione politica 

Sette e Mezzo è la rubrica di Lilli Gruber sul magazine 7. Ogni sette giorni sette mezze verità. Risposte alle vostre domande sull’attualità, il mondo, la politica. Questa puntata è uscita sul numero di 7 in edicola il 16 settembre. La proponiamo online per i lettori di Corriere.it

Cara Lilli,

in vista delle elezioni del prossimo 25 settembre, chi scrive è orientato ad ingrossare le file degli astensionisti, «pigri e vigliacchi», come ci hai definito ultimamente nella tua rubrica Sette e mezzo qui su 7. Mi chiedo e ti chiedo: se non mi sento rappresentato da alcuno dei partiti in lizza, se nessun programma (spesso solo generici proclami e slogan) è capace di persuadermi, se nessun candidato ha sufficiente autorevolezza e appeal, perché dovrei recarmi alle urne?

Va bene il senso civico, va bene la preziosa e insostituibile democrazia per la quale tanti hanno dato anche la vita, ma per chi dovrei votare? Per il meno peggio? «Non si presenta», come detto in una vignetta di Vauro. Piuttosto che lasciare la scheda bianca o annullarla, preferisco contribuire alla formazione del maggior “partito” del Paese, quello che non avrà eletto imbonitori incapaci e irresponsabili, anche in momenti drammatici come quelli che stiamo attraversando, dietro ai quali non si vede purtroppo alcun progetto per il futuro della nazione.

Riccardo Chiarino

Caro Riccardo,

è davvero molto probabile che quello degli astenuti sarà il primo partito alle prossime elezioni politiche del 25 settembre. E non è una buona notizia. Come scrive Vitalba Azzollini su Domani, il nostro sistema politico non prevede sulla scheda elettorale l’indicazione «nessun partito mi rappresenta». Prevede solo il rifiuto di un diritto-dovere che è fondante e qualificante per le nostre democrazie, già fragili e sfilacciate. E l’astensione risulta così un magma indistinto composto da scettici, distratti, delusi, arrabbiati, pigri, disinformati e complottisti, che alla fine scelgono solo di non contare nulla. Difendere e tutelare il diritto di voto non è un “favore” alla classe politica, è salvaguardare il principale strumento in mano ai cittadini per influire concretamente nell’azione politica. Il «meno peggio non si presenta»? Mi dispiace, ma non ci sto.

I nostri politici sono screditati, ma non sono tutti uguali. Come non sono uguali le culture di riferimento e i programmi dei partiti, anche al netto delle promesse roboanti e quasi sempre irrealizzabili. Come non sono uguali nemmeno le risposte che i vari leader propongono per far fronte alle sfide cruciali che ci attendono dopo il 25 settembre, e che riguardano la nostra collocazione internazionale, il nostro sistema istituzionale, le politiche energetiche e fiscali dei prossimi anni, la difesa di diritti civili che illusoriamente molti pensano acquisiti per sempre. Non votare significa tirarsi fuori da questo pezzo di responsabilità personale, non occuparsi del bene comune. Proprio quello che gli astensionisti di solito imputano ai politici.

L’astensionismo ai partiti piace: meno persone votano più il risultato è controllabile. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 9 Settembre 2022. 

La foto che ho scelto ritrae il murale di Paolo Borsellino dell’artista TvBoy. Sta a Palermo: lo hanno sfregiato, cancellati gli occhi. A Palermo vengono attaccati i simboli della resistenza alla mafia senza che ciò determini una presa di coscienza su quali siano ancora le priorità nel nostro Paese.

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 2 settembre. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»

Dal 26 settembre vi diranno che non avete senso civico, che vi manca il senso delle istituzioni, che siete cittadini a metà, egoisti, che se le cose in Italia vanno male è colpa vostra. Vi diranno all’esercizio del voto, avrete preferito il mare, la montagna, la campagna, oppure niente. Diranno che se ha vinto una coalizione è perché il muscolo democratico, a causa vostra, ha smesso di pulsare. Vi daranno la colpa di un astensionismo che i partiti politici rincorrono, desiderano e favoriscono ormai da troppo tempo perché si possa ancora fargli il favore di non parlarne, anzi, di non parlarne esattamente in questi termini. Perché si possa ancora tollerare che loro ne parlino come una piaga e non come una opportunità... per sé stessi. Se vi state chiedendo perché i partiti politici vedano l’astensionismo come una opportunità, anche se dicono l’esatto opposto, ve lo spiego in breve: meno persone votano, più l’esito del voto è controllabile. E se vi state chiedendo come sia giunto a questa conclusione, anche qui bastano poche parole, basta davvero considerare come hanno liquidato l’ultima, importante possibilità di partecipazione dal basso al destino del nostro Paese.

IL 26 SETTEMBRE VI DIRANNO CHE SIETE CITTADINI A METÀ CHE SE LE COSE VANNO MALE È COLPA VOSTRA. NON È COSÌ

Nei mesi scorsi la Consulta, un organo profondamente politico, in maniera del tutto pretestuosa ha boicottato e bloccato i referendum su cannabis ed eutanasia, di fatto bloccando una stagione referendaria che avrebbe avuto il merito di far sentire tutti noi coinvolti, utili, necessari. Che avrebbe avuto il merito indiscusso di curare il disinteresse e la disaffezione verso la politica che, vi assicuro, non dipende solo da noi, dalla nostra ignoranza, dalla nostra inadeguatezza. Gli unici quesiti rimasti, quelli sulla giustizia, sono stati presentati come astrusi, di difficile comprensione; i cittadini sono stati implicitamente invitati a disertare le urne sul presupposto che non sono quelli i temi su cui possono essere interpellati. La giustizia apparterrebbe a pochi... non a tutti: che abominio! Ci fanno sentire alieni in un mondo che invece appartiene a noi e ci invitano, senza dirlo troppo esplicitamente ché sta male, a restare a casa.

Ma, vedete, i referendum non vengono proposti perché l’unica opzione possibile sia votare SÌ, ma perché ci sia dibattito attorno a temi importantissimi quali le droghe, il fine vita, la giustizia; perché tutti i cittadini si sentano direttamente chiamati a esprimersi su questioni che li riguardano. La droga è una piaga sociale che coinvolge tutti, o pensiamo ancora che siano solo le famiglie a doversi far carico dei «figli sciagurati che hanno perso la retta via»? Lo stesso vale per chi decide di voler accedere all’eutanasia: vi pare normale o sano aver bloccato ogni possibilità di dibattito? Dirò di più: vi pare legittimo aver bloccato la lista presentata da Marco Cappato con la raccolta di firme digitali? Pensateci, ormai usiamo lo Spid per tutto, accediamo ai servizi online della Pubblica amministrazione perché ci identifica senza possibilità di errore o furto d’identità, lo usiamo per una infinità di documenti perché di fatto sostituisce in toto la nostra presenza fisica... insomma lo Spid serve a tutto ma non a partecipare alla vita politica del Paese, non a sostenere una lista elettorale, non a esercitare un diritto acquisito a fatica, e per il quale ci invitano costantemente a non lottare.

Del resto, se voi sapeste che con il vostro voto non potrete mandare in Parlamento Cappato, mentre molto probabilmente andando a votare eleggerete Di Maio, lo stesso Di Maio dei «taxi del mare», che fareste? La foto che ho scelto di mostrarvi questa settimana ritrae il murale di Paolo Borsellino dell’artista TvBoy, sta a Palermo: lo hanno sfregiato, cancellati gli occhi. L’ho scelta perché mentre gli abomini della campagna elettorale monopolizzano l’attenzione e i partiti fanno a gara ad allontanarci dalla politica, a Palermo vengono attaccati i simboli della resistenza alla mafia senza che ciò determini una presa di coscienza su quali siano ancora le priorità nel nostro Paese. Si cancellano gli occhi di chi ha visto, perché non veda più... Non si parla di criminalità organizzata, perché così si spera di convincere gli italiani che non esiste, che sia solo un’invenzione buona per qualche libro o serie tv. Si va dove ti portano i sondaggi, si tirano in ballo Dio, patria e famiglia come bigattini all’amo... noi siamo i pesci. Che dire: buon voto a tutti!

Mattia Feltri per “La Stampa” il 13 settembre 2022.

Domenica, Giuseppe Conte (no alle armi usate per l'offensiva ucraina, 27 aprile; no all'invio in Ucraina di armi letali, 2 aprile; dopo il terzo decreto basta armi all'Ucraina, 12 maggio; serve una nuova strategia, non mandare nuove armi, 13 maggio; basta, sull'invio delle armi l'Italia ha già dato, 17 maggio; 

basta inviare armi, adesso è il momento del dialogo, 21 maggio; non servono nuove armi, è il momento della pace, 26 maggio; inviando altre armi non avremo la pace, 1 agosto; noi pensiamo alla pace, gli altri alle armi, 21 agosto) ha detto di essere molto contento della vincente controffensiva ucraina, infatti «noi abbiamo sempre appoggiato gli aiuti militari». 

Ieri, Matteo Salvini (mandare più armi non avvicina la pace, 31 marzo; continuando a fornire armi non ne usciamo, 28 aprile; darmi più armi è una risposta debole, 3 maggio; più armi, più morti, 4 maggio; ulteriori invii di armi non sono la soluzione, 16 maggio;

dopo tre mesi di guerra conto sullo stop all'invio delle armi, 18 maggio; non ci sto a inviare altre armi, 19 maggio; l'invio delle armi è un errore madornale, 24 maggio; la priorità adesso è fermare l'invio delle armi, 26 maggio; noi parliamo di pace, la sinistra parla di armi, 31 maggio; più armi mandiamo più è difficile il dialogo, 7 giugno; 

in Parlamento si parli di pace, non di armi, 10 giugno; le armi ad oltranza non sono la soluzione, 23 giugno) ha detto che a destra «abbiamo sempre sostenuto militarmente l'Ucraina e continueremo a farlo».

In politica, dire una cosa e pensarne un'altra può essere una necessità. Ma il talento contemporaneo è dire una cosa che vale l'altra e non pensarne nessuna.

L’astensione è legittima. Risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l'11 Settembre 2022.

Caro Aldo, ho letto che in Italia l’astensione al voto è spesso una forma di pigrizia se non proprio di vigliaccheria. Quella «disimpegnata» addirittura di ignavia. L’astensione ha però tanti legittimi motivi. Le chiedo: questi ultimi (classe politica deludente, cattiva legge elettorale, partiti staccati dal resto del Paese) sarebbero stati sufficienti a Dante per far evitare agli astensionisti ignavi l’Antinferno? Alessandro Prandi

Caro Alessandro, «Fama di loro il mondo esser non lassa;/ misericordia e giustizia li sdegna;/ non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Gli stupendi versi che Dante dedica agli ignavi — tutti a vedere il film di Pupi Avati, l’unico artista italiano che abbia onorato il settecentesimo anniversario del più grande poeta che l’umanità abbia avuto — non si addicono agli astensionisti. L’astensione non è necessariamente sinonimo di ignavia, e neppure di disinteresse. In certe circostanze, chiamarsi fuori è legittimo. Quelli che parlano di «partito degli astensionisti» non capiscono molto di politica; e non solo perché, ovviamente, il partito degli astensionisti non esiste. Gli italiani che in numero crescente disertano le urne non sono tutti uguali. Ci sono quelli che disprezzano la politica. Quelli che ne sono indignati. Quelli che pensano «mi si nota di più se insulto o blandisco un politico sui social piuttosto che se traccio una crocetta anonima su una scheda». Quelli che non credono alla democrazia rappresentativa, perché rimpiangono il Duce o vagheggiano l’anarchia. Quelli che si faranno un ultimo weekend di mare. E quelli che vorrebbero scegliere i loro rappresentanti, con le preferenze o meglio con collegi piccoli, in cui sia ben chiaro chi è il candidato, il quale potrà essere seguito, valutato e infine riconfermato o mandato a casa. L’astensione, in date circostanze, non va biasimata. È un fatto normale, soprattutto in un tempo in cui si ha l’impressione che la politica non incida sulle nostre vite, non risolva i problemi, non cambi le cose, non riesca neppure a far pagare le tasse ai veri ricchi; ed Elon Musk conta più di Joe Biden.

Gli astenuti saranno 16 milioni, il partito del non-voto vale il 35%. Giovanna Casadio su La Repubblica il 28 agosto 2022.  

I sondaggisti stimano un’affluenza tra il 65 e il 70%, la peggiore di sempre, su 46,6 mln di aventi diritto 

L'elettore fantasma non si nasconde più. Nonostante le difficoltà dei sondaggisti a fotografare in pieno agosto cosa pensano gli italiani delle elezioni e dei partiti, i cittadini ammettono il disinteresse per il voto. Si prevede che gli astensionisti saranno tanti: almeno il 35% secondo una stima di YouTrend per Sky tg24 di 10 giorni fa.

Estratto dell’articolo di Giovanna Casadio per “la Repubblica” il 28 agosto 2022.

L'elettore fantasma non si nasconde più. Nonostante le difficoltà dei sondaggisti a fotografare in pieno agosto cosa pensano gli italiani delle elezioni e dei partiti, i cittadini ammettono il disinteresse per il voto. Si prevede che gli astensionisti saranno tanti: almeno il 35% secondo una stima di YouTrend per Sky tg24 di 10 giorni fa. Ma i diversi istituti di rilevazioni concordano sul fatto che, più va avanti la campagna elettorale, più si recupera qualcosina in fatto di partecipazione.

Tuttavia i delusi, distratti, arrabbiati, in una parola gli elettori fantasma, in questa tornata potrebbero arrivare a 16 milioni. Ed è l'ipotesi più ottimista. Calcola Lorenzo Pregliasco, fondatore di YouTrend, che su 46 milioni e 600 mila aventi diritto al voto, la stima di affluenza si aggirerà intorno al 65/70%: dati in decrescita rispetto al 2018. Gli astenuti potrebbero essere tra i i 15 e i 16 milioni. 

Antonio Noto di NotoSondaggi ricorda che nella passata tornata ci fu una novità elettorale, l'affermazione del Movimento 5Stelle, che catalizzò proprio gli italiani anti-casta, anti-sistema. Ora novità elettorali in quel senso non ce ne sono, però - dice Noto - è un po' presto per fotografare la situazione: «I numeri sono ballerini. Va comunque detto che le elezioni politiche attraggono più delle amministrative e delle europee, quindi non ci sarà un crollo della partecipazione». 

Sempre secondo YouTrend, è interessante in questa fase notare cosa spingerebbe gli elettori a non disertare le urne: il 48% chiede che il partito per cui vota mantenga almeno una delle promesse fatte in campagna elettorale; il 34% vuole un partito che rappresenti le proprie idee; il 22% punta a non ritrovarsi in Parlamento politici eletti che poi cambino casacca; il 20% vorrebbe eleggere il capo del governo. Comunque una partecipazione tanto bassa è legata alla mancanza di fiducia nei politici: sono deludenti.

De Rita: "I politici sono prigionieri dei social, non mobilitano più. L'astensionismo crescerà". Stefano Cappellini su La Repubblica il 28 agosto 2022.  

L'ex presidente del Censis: L’elettore italiano si muove per ondate emotive, ideologiche o politiche che coincidono coi picchi di partecipazione Stavolta non ci sono". E aggiunge: La campagna elettorale è una lite quotidiana su chi offre più tutele ai cittadini. Manca la capacità di andare oltre".

Professor Giuseppe De Rita, lei andrà a votare?

«Certo, mai saltato un voto. Lo considero un dovere morale, disapprovo la logica del me ne frego o del tanto sono tutti uguali».

Ha deciso anche per chi voterà?

«Sì, non sono solito decidere negli ultimi giorni, ma non ho mai dichiarato il voto e non comincerò ora».

“C’è astensione perché i partiti sono diventati oligarchie: ai cittadini viene imposto tutto”, intervista a Sabino Cassese. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 23 Agosto 2022 

È una intervista a tutto campo quella concessa a Il Riformista dal professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale e professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, nonché professore di “Global governance” al “Master of Public Affairs” dell’ Institut d’Etudes Politiques di Parigi.

Dal presidenzialismo senza aggettivi a ricette economiche miracolistiche che fanno storcere il naso dalle parti di Bruxelles (Commissione europea) e Francoforte (Bce). È questo il modo giusto per “parlare di programmi”?

I programmi dei partiti sembrano la fusione di due componenti. Da un lato, la sommatoria di progetti di legge che non sono andati in porto. Dall’altro, elenchi di “desiderata” che non hanno trovato realizzazione. Certamente non sono il frutto del lavoro interno delle forze politiche, delle istanze della base, delle discussioni a livello provinciale e regionale, delle decisioni dei congressi. Questo perché la vita interna dei partiti è ormai asfittica. Sarebbe molto interessante fare un bilancio dei costi e dei benefici di ciascuno dei programmi, mettendoli a raffronto, ma ho anche timore che possa essere tempo perso perché sembrano adempimenti burocratici, per non dare l’impressione che la politica sia solamente lotta di potere per poltrone.

Hanno rotto il “patto” che li ha legati per qualche giorno, ma continuano a intestarsi, Calenda e Letta: l’”Agenda Draghi”. Siamo all’ennesimo paradosso della politica italiana?

La politica è fatta anche di retorica. Non stupisce che ci si voglia impadronire dei risultati dell’azione di un governo che ha complessivamente fatto bene, anche se l’agenda è stata dettata in parte dalle necessità, in parte dalla ricerca di equilibri tra istanze diverse delle varie componenti.

Su Il Foglio, lei ha tratteggiato con grande efficacia “dialogica” il bilancio della transizione. Ma “transizione” verso cosa?

Vi sono più transizioni. C’è quella verso un regime parlamentare diverso, al quale è stato sottratto un terzo dei membri delle camere. C’è la transizione verso un sistema politico a trazione di destra, quale non c’era mai stato in Italia, negli ultimi 74 anni. C’è la transizione verso uno dei tanti sistemi presidenziali sperimentati nel mondo (visto che si parla tanto di presidenzialismo ma molto poco di quale tipo di presidenzialismo).

La formazione delle liste elettorali lascia sempre dietro di sé strascichi velenosi. Stavolta, però, sembra che si sia ecceduto. Si è detto e scritto, guardando in particolare a ciò che è avvenuto nel Partito democratico e sul fronte opposto in Forza Italia, di vendette postume, di notte dei lunghi coltelli, di rivolta degli esclusi e via drammatizzando. È un eccesso giornalistico o c’è di più?

Il modo in cui si sono formate le liste è un’ulteriore dimostrazione del carattere oligarchico del nostro sistema politico. Scarsa democraticità dei partiti, debolissimo radicamento sociale, verticalizzazione del potere, concentrato nelle mani dei segretari, imposizione ai votanti non solo di liste nelle quali non si può scegliere, ma anche di candidati con deboli relazioni con i collegi, possibilità di presentare la propria candidatura in più collegi, dando così la possibilità di scelte individuali dei vincitori, perché la sorte dei numeri due dipenderà dalle scelte fatte dai numeri uno.

Si dice che per misurare lo stato di salute di un Paese, bisognerebbe visitare un ospedale o un carcere, e, c’è chi aggiunge, anche una scuola. Salute, giustizia, istruzione: non le sembrano temi marginali nel dibattito politico?

Sarebbe interessante ricostruire l’immagine del paese quale si evince dai programmi dei partiti. Da questi sembra che la prima e più importante aspirazione di tutti gli italiani sia quella di pagare meno tasse possibile, mentre, invece, penso che la maggiore aspirazione sia quella di avere buoni servizi pubblici, dalla scuola alla sanità alle carceri, pagati al prezzo giusto.

Sulla giustizia. La riforma Cartabia non è andata a meta. Lei cosa si augura per la prossima legislatura?

Sulla giustizia la ministra Cartabia ha fatto i passi giusti nella direzione giusta. Ora verranno i decreti delegati e si spera che, imboccata la strada giusta, si continui a percorrerla.

Tra i politologi va ancora forte l’idea che si vince se si occupa il “centro”. Ma le elezioni presidenziali americane e quelle francesi non dimostrano il contrario?

Centro, destra, sinistra sono convenzioni. Centrosinistra e centrodestra sono convenzioni di secondo grado. Quello che conta sono l’azione di governo e l’enfasi posta su alcuni temi. Nonostante il revival di nazionalismo e di cosiddetto sovranismo, uno dei temi sui quali si misurano le differenze è proprio quella della politica internazionale ed europea.

Queste elezioni si svolgono mentre in Europa si continua a combattere. Ma la politica estera non dovrebbe essere uno dei pilastri di un Paese che ha rispetto di sé e vuole giocare un ruolo importante in Europa e nella comunità internazionale?

Il tema della guerra è di particolare importanza per due motivi. Il primo: perché questa guerra è la prima che interviene nel teatro europeo dopo la seconda guerra mondiale. Il secondo motivo è più complesso e richiede la lettura di molti documenti di politica internazionale e di almeno tre libri, che sono i seguenti: Giuliano da Empoli, Il mago del Cremlino (Mondadori 2022), Orietta Moscatelli, Putin e putinismo in guerra (Salerno editrice, 2022), Marco Natalizi, Caterina di Russia. Il destino grandioso e tragico della zarina che guardò al mondo (Salerno editrice 2021). La lettura dei documenti, tra cui principale il discorso di Putin all’Onu del 2015, consente di capire quali sono le ragioni dell’invasione russa in Ucraina. Il libro di Natalizi permette di capire quale è il modello intellettuale – culturale da cui muove Putin; quello di Moscatelli consente di capire quali sono le sue mosse presenti; quello di Giuliano da Empoli, straordinario romanzo-saggio, permette di comprendere meglio i contesti dell’attuale situazione russa. In una parola, bisogna capire che si tratta di un atteggiamento maturato per vent’anni, di opposizione di una autocrazia al dilagare delle democrazie. L’attacco all’Ucraina è un attacco a quello che chiamiamo, fin dal grande libro di Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Se i mezzi di comunicazione cercassero di spiegare antefatto, contesto e obiettivi di questa guerra, oltre a darcene una cronaca, forse l’analisi potrebbe essere più completa.

“La politica ha trovato un Dio; la governabilità. Ecco perché è morta”. Così questo giornale ha titolato un articolo dell’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti. “Prese dalle smania di competere per il potere – sostiene Bertinotti – le forze politiche si sono trasformate in gruppi di ceti dirigenti lontani dalla volontà popolare e asserviti agli interessi del sistema; così il cambiamento è divenuto utopia”. Lei come la vede?

“Distingue frequenter” è un motto importante. Proviamo a distinguere. Che i partiti siano diventati oligarchie non c’è dubbio. Che, da tramite tra società e Stato, siano diventati appendici dello Stato, è altrettanto chiaro. Che in questo modo si chiuda il principale circuito di democratizzazione dello Stato è altrettanto chiaro. Che questo sia dovuto alla governabilità, cioè all’esigenza di governo delle comunità nazionali, mi pare, invece, erroneo, perché di governo e di governabilità c’è bisogno: dove, altrimenti, trovano risposta le domande sociali riguardanti i servizi, la scuola, la sanità, la protezione sociale? So che da Marx e dalla sua erronea interpretazione dell’esperienza del “self government” è nata l’idea che una società possa autogestirsi e autoamministrarsi, rendendo quindi superfluo il governo. Ma – come Lenin dovette subito avvedersi – l’idea dell’autogestione è applicabile a dimensioni ristrette, non alle dimensioni nazionali.

Almeno il 40% degli italiani non ha ancora deciso se andrà ai seggi il 25 settembre. Una parte afferma di essere disgustata dalla politica. Professor Cassese, è un dato “fisiologico” delle democrazie occidentali di questi tempi o dietro a quel “disgusto”, soprattutto dei giovani, c’è qualcosa di più?

C’è molto di più, sia sul lato dell’offerta, sia sul lato della domanda. Sul lato dell’offerta, perché i programmi dei partiti sono documenti commissionati, non sono nati da una consultazione della base dei partiti, da un dialogo tra base e vertice, dalla maturazione di orientamenti, ideologie, obiettivi. Sul lato della domanda, perché l’elezione comporta scelta. Quale è l’ambito delle scelte che viene lasciato agli elettori? Possono solo scegliere partiti e coalizioni. Le liste sono bloccate. L’opzione per l’uninominale anch’essa bloccata. Non è possibile il voto disgiunto. I candidati possono presentarsi in più collegi e quindi possono optare, per cui gli elettori saranno sorpresi dagli eletti: la scelta la fa il candidato che stabilisce in quale collegio accettare l’elezione, in sostanza mettendosi al di sopra dell’elettorato e operando la scelta ultima. Se l’offerta è artificiosa e la scelta che si chiede all’elettorato è così limitata, ben si comprende che ci possa essere una quota di elettori convinta che il sistema ha una componente oligarchica troppo forte e che quindi non vale neppure la pena di andare a votare. Per fare un esempio comparativo, si pensi al sistema francese, in cui gli elettori possono fare numerose scelte. Innanzitutto, sono chiamati a eleggere sia l’assemblea nazionale sia il presidente. In secondo luogo, per il presidente votano due volte, prima per il candidato preferito, poi, al ballottaggio, per quello meno distante dalle proprie posizioni. Insomma, l’elettorato francese ha tre scelte, mentre quello italiano ne ho una soltanto, lungo un canale obbligato. Sistemi elettorali e formule elettorali andrebbero valutati secondo i due criteri indicati dalla Corte costituzionale, della rappresentatività e della governabilità.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Astensionismo: il partito dei nuovi scettici. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 22 Agosto 2022.

Secondo un sondaggio Swg il 28% del campione, quasi un italiano su tre, si dice persuaso che «votare non serva a nulla». Una resa. Solo il 58% è davvero convinto di andare alle urne e addirittura un 13% si dichiara «disgustato dalla politica».

Ventotto. C’è un numerino che dovrebbe essere soppesato meglio d’ogni altro da leader e partiti in corsa verso il 25 settembre. Più dei collegi da distribuirsi, più dei seggi contendibili secondo proiezione, più delle poltrone ministeriali da prenotare. Lo ha evidenziato questo giornale il 10 agosto, dando conto di un sondaggio Swg sul cosiddetto «allarme astensione»: il 28% del campione, quasi un italiano su tre, si dice persuaso che «votare non serva a nulla». Una resa. Al dato se ne accompagnano altri, del tutto coerenti.

Solo il 58% è davvero convinto di andare alle urne e addirittura un 13% si dichiara «disgustato dalla politica». Non sorprende che la maggioranza di questo popolo deluso e attonito abbia meno di 54 anni. La demografia ha il suo peso, spiegava sul Sole 24Ore Roberto D’Alimonte: i più anziani, memori di tempi in cui «partecipare era una abitudine radicata o addirittura un dovere» escono di scena e i giovani «sono meno interessati alla politica e tendono ad astenersi». Un atteggiamento quasi garbato, il loro, vista la consuetudine della politica a caricare sulle spalle delle nuove generazioni il fardello venturo del debito pubblico con i guai connessi, a penalizzare la formazione e la scuola, a dimenticare l’ambiente e, insomma, a infischiarsene del futuro appena prossimo.

Non siamo soli, naturalmente, in una disaffezione che, vista con gli occhi di Albert Hirschman, parrebbe quasi una exit del cittadino dalla partecipazione alla cosa pubblica, un’opzione di uscita esercitata dagli aderenti a quell’organizzazione complessa che chiamiamo Stato. È noto, del resto, che una malattia insidiosa s’annida da tempo nelle democrazie occidentali e nei loro meccanismi di rappresentanza (ricordando pur sempre che le autocrazie non hanno simili problemi a causa di afflizioni e di guasti ben peggiori). Alle legislative francesi di giugno ha votato meno del 48% degli aventi diritto, alle nostre del 2018 più del 72%. Alla tornata del 25 settembre superare la canonica soglia di astensionismo del 30% appare molto probabile, pur considerando un fisiologico recupero rispetto alle amministrative (che storicamente «scaldano meno» e infatti portano ormai alle urne poco più di un elettore su due).

Molte cause di successo per il partito del non-voto affondano nelle sempre crescenti diseguaglianze della nostra società. La povertà, che colpisce in misura quasi doppia i giovani rispetto agli anziani, si incrocia con l’abbandono scolastico e la disoccupazione, facendo segnare al Sud i valori maggiori: e il grafico dell’astensionismo elettorale ricalca esattamente quello della distribuzione della povertà per regioni d’Italia, come ha evidenziato Riccardo Cesari su lavoce.info.

Il disagio socioeconomico non disegna tuttavia per intero l’identikit di questo trasversale partito di scettici e disillusi, poiché l’affluenza nel 1948 era del 92% (quando di certo le condizioni materiali degli italiani erano molto peggiori) per poi scendere all’86% nel 1994 e al già ricordato 72% del 2018 (come si vede, con un significativo calo del 14% nell’ultimo quarto di secolo). Il quadro si completa, dunque, solo con il grande discredito che ha colpito i partiti politici, dalla crisi degli anni Ottanta-Novanta culminata in Tangentopoli sino ad oggi. Da molti anni, nelle graduatorie dell’istituto Demos, i partiti sono il fanalino di coda nei livelli di fiducia degli italiani: persino nel 2021, anno in cui, col governo Draghi in carica e una buona gestione della pandemia, tutte le principali istituzioni hanno fatto segnare un passo in avanti nella credibilità.

Le motivazioni sono manifeste anche nella cronaca politica dei tempi più recenti. Una visione sinottica dello spettacolo offerto agli italiani dopo le elezioni del 2018 da partiti malati di leaderismo e propensi a una estremizzazione iperbolica delle posizioni è tale da rendere comprensibili forme non certo auspicabili di exit quali appunto l’astensionismo: la scomposizione delle coalizioni un minuto dopo la chiusura delle urne; la stesura di un «contratto» tra due populismi di segno opposto, un pezzo della destra sovranista più radicale e il movimento nato per scoperchiare la democrazia parlamentare (in guisa di una scatoletta di tonno); un anno di governo accidentato tra annunci palingenetici e azzardi economici, fino a una rottura della maggioranza decretata con lo sfondo a dir poco informale di uno stabilimento balneare; poi, un nuovo governo creato da forze ostili tra loro sino al giorno prima (col caso Bibbiano come vessillo), stavolta tutto virato a sinistra ma guidato dal medesimo presidente del Consiglio; infine, a un passo dal baratro, un esecutivo tecnico di semi-unità nazionale, voluto dal Quirinale, per fronteggiare la pandemia e portare a casa il Pnrr, e abbattuto anzitempo da angusti calcoli di bottega nonostante il suo indiscusso prestigio internazionale.

Ammettiamolo, ce ne sarebbe da sconcertare i più focosi sostenitori della contesa all’ultima scheda elettorale: se almeno non ci si mettessero adesso anche le promesse vacue e già sentite di doti e di bonus, di patrimoniali e dentiere, di pensioni facili e condoni imbellettati, e di tasse, si sa, sempre da abbuonare a tutti ma in un Paese nel quale, attenzione, metà degli italiani «vive a carico degli altri» ben lungi dall’essere oppressa dal fisco (Alberto Brambilla, Corriere Economia, 7 agosto). Ci vuole insomma tanta fede nella democrazia per attraversare ciò che resta dell’estate 2022 fino al voto. Aiutandosi con un monito che viene da oltreoceano. Fino a pochi anni fa ci raccontavano che negli Stati Uniti va alle urne sì e no un elettore su due, il consenso è spaccato a metà e il presidente è quindi appoggiato al massimo da un americano su quattro: e tuttavia, ci dicevano, quella è pur sempre la più forte democrazia del mondo, in barba all’astensionismo. Oggi, con i fantasmi dell’insurrezione contro Capitol Hill a volteggiare sull’America, il popolo diviso in due fazioni già pronte a darsi addosso non solo con le armi della dialettica e il rischio di nuove e più clamorose fratture da qui alle presidenziali del 2024, tutto l’Occidente liberale deve imparare la lezione: il voto è un bene prezioso che si tutela usandolo. Il 25 settembre possiamo essere noi i primi a dimostrarlo.

In quattro puntate i programmi dei partiti (e anche solo un motivo per andare a votare). Barbara Stefanelli su La Repubblica il 19 Agosto 2022.  

Siamo già a metà strada lungo il rettilineo che, tagliando le vacanze, ci porterà alle urne: su 7 in settembre proveremo a proporvi una sintesi dei contenuti che fanno capo a chi ci chiede il voto. Nella speranza di combattere le tentazioni dell’astensionismo.

È trascorso poco meno di un mese da quando, con le dimissioni di Mario Draghi, è partita la breve corsa estiva verso il 25 settembre, la nostra prossima domenica elettorale affacciata sulla soglia dell’autunno. Superato il lungo weekend di Ferragosto, in questo venerdì 19 abbiamo la sensazione di aver varcato un confine, di essere passati dall’altra parte. Siamo infatti (già) a metà strada lungo il rettilineo che, tagliando le vacanze, ci porterà alle urne. L’agenda Draghi, a riprenderla in mano ora, comincia a farci l’effetto del diario dell’anno scolastico finito. I voti erano da record. Crescita prevista al 3,4 per cento, più alta di quella dei vicini di banco, tra cui alcuni noti secchioni europei. Occupazione oltre il 60 per cento, che era la materia tradizionalmente più a rischio. Un’ultima eredità di 434 decreti attuativi (su 1200 che erano da smaltire, come ha scritto Il Sole24Ore, compresi quelli dell’esecutivo Conte I e II), necessari a rendere operativi i provvedimenti legislativi varati: un sacco di compiti per le non-vacanze che si sommano al lavoro previsto per centrare entro dicembre i 55 obiettivi del Pnrr e sbloccare la terza rata dei fondi europei (19 miliardi).

«IN QUESTO MOMENTO SOLO IL 58 PER CENTO DEGLI AVENTI DIRITTO SI DICE DETERMINATO A RECUPERARE LA SCHEDA PER RECARSI AL SEGGIO, PERCENTUALE CHE SCENDE AL 48 SE CONSIDERIAMO GLI UNDER 34»

Quale confine abbiamo dunque varcato? Quello che segna la fine dei giochi per la composizione di coalizioni, liste, collegi. E chiama i partiti alla presentazione dei rispettivi programmi a un corpo elettorale che ai sondaggisti appare definitivamente spiaggiato dagli infiniti, irregolari, insopportabili moti ondosi della politica tricolore. In questo momento solo il 58 per cento degli aventi diritto si dice determinato a recuperare la propria scheda per recarsi al seggio, percentuale che scende al 48 se consideriamo gli under 34, che più avrebbero da reclamare davanti alle classi dirigenti in nome del proprio futuro. Come scrive Lilli Gruber nella sua rubrica, a pagina 11 del numero di 7 in edicola il 19 agosto, l’astensione non è una risposta sensata in democrazia, rappresenta una fuga davanti a quel segmento di responsabilità che ci unisce e insieme ci rende uno Stato.

PENSANDO ANCHE ALL’IRONICA LEZIONE DI GIORGIO GABER

In nome di tutto questo, noi di 7 — nei quattro numeri in edicola a settembre, fino a venerdì 23 — proveremo a proporvi una sintesi dei contenuti che fanno capo a chi ci chiede il voto. Non un piano completo, per il quale immaginiamo che sarà comunque possibile navigare i siti di partiti e candidati: il nostro desiderio è quello di offrirvi un’informazione essenziale da cui possa scaturire anche una sola buona ragione per imbracciare la matita che in altri tempi, gli Anni 70, emozionava Giorgio Gaber. Tasse e costo del lavoro. Pnrr, Europa, relazioni internazionali. Generazioni più giovani tra scuola e occupazione. Diritti civili, temi etici e culturali. «È proprio vero che fa bene/ un po’ di partecipazione/ con cura piego le due schede/ e guardo ancora la matita/ così perfetta e temperata/ io quasi quasi me la porto via/ Democrazia...» Con tutte le sue imperfezioni, che sono anche le nostre, non esiste sistema migliore.

Verso il 25 settembre. Candidature di facciata e di vetrina: virologi, pm e attrici 95enne, che delusione questa politica. Maria Luisa Iavarone su Il Riformista il 19 Agosto 2022 

Sono stanca, siamo tutti stanchi di questa frettolosa fase pre-elettorale. Stiamo assistendo all’imbarazzante corsa alle candidature in cui non si capisce chi corre e chi rincorre, uno scapicollarsi a riempire liste sotto la scure del rapido conto alla rovescia del 21 agosto, giorno in cui scadranno la presentazione delle liste e intanto piovono candidature di facciata o “di servizio” (come si diceva un tempo) con nomi messi lì in posizioni inutili e ineleggibili. E di questa ineleggibilità ne saranno particolarmente vittime le donne visto che le candidature multiple sono degli uomini mentre alle donne sono riservate chissà perché collegi singoli.

Tutto in realtà si sta giocando a Roma, tra riunioni movimentate e accordi presi a notte fonda, dopo estenuanti trattative nella consapevolezza che, neanche i partiti maggiori possono garantire una candidatura anche solo per la metà degli uscenti, come dire un’abbondanza di deretani e una carenza di poltrone. Nel frattempo la gente comune è più che mai indifferente al dibattito politico, si parla poco di programmi e prospettive, tutti in fuga dalla politica con l’alibi della stanchezza, delle ferie agostane nel disinteresse generale per la macchina democratica. Eppure, in questi giorni, stiamo assistendo all’ostentazione dei cavalli vincenti, dei “pezzi migliori” da esibire mediaticamente, definiti da Letta i “front-runners” degli schieramenti e, come prevedibile, spunta il virologo (diventato popolare con la pandemia), il procuratore nazionale (perché di un magistrato c’è sempre bisogno) e persino l’attrice 95enne.

Mi chiedo, allora, se la politica fa “queste scelte” è perché ritiene di aver bisogno di “questo tipo di competenze”? Personalmente io vorrei votare qualcuno non perché è un buon medico o un buon magistrato (mi augurerei di trovarne negli ospedali e nei tribunali) ma semplicemente perché è un “buon politico” che sa fare appunto quel mestiere in maniera competente. Mi rendo conto che sto sollevando una vecchia guerra di religione, se per il buon governo di un paese servano più tecnici o più politici io vorrei semplicemente più “tecnici della politica” esperti nell’arte del mediare, del decidere, del legiferare e del proporre soluzioni. Ma per decidere se un politico ha competenze per esserlo c’è bisogno di evidenze oggettive, di risultati conseguiti in base ai quali valutare anche una sua eventuale ricandidatura. Volendo fare un esempio se un medico aspira a diventare primario bisogna che abbia una comprovata esperienza, un certo numero di pubblicazioni scientifiche e certamente una casistica clinica a lui favorevole.

Così è per i professori universitari e persino per i magistrati. Nelle maggior parte delle professioni di “servizio pubblico” si procede in carriera sulla base di una produttività professionale misurata in base ad obiettivi raggiunti. In politica non sembra essere così, i listini bloccati sono riservati non certo a chi ha dimostrato doti politiche ma ad un ristretto gota di fedelissimi del leader che indica questi nomi in autonomia. Intanto i giorni corrono e la scadenza delle candidature si avvicina. Si è costretti a riempire le liste all’ultimo momento tra ostentati rifiuti e sdegnate defezioni da parte di quelli disposti a correre ma solo se “garantiti”. E’ emergenza democratica? Non è una semplicemente una terribile brutta figura per la politica e per la sinistra in particolare. Per anni abbiamo assistito a candidature ricorrenti di politici nostalgici, sconfitti ma sempre disposti a misurarsi.

Oggi il PD ci consegna una pantomima davvero degna di “Ecce bombo”: mi si nota di più se non vengo o se mi metto in un angolo?, In un momento di crisi internazionale dove è necessario avere personalità politiche all’altezza, prevale il particolare sul generale, la convenienza sulla convinzione, l’opportunismo sull’opportunità. L’unica consolazione è che fra poco più di un mese tutto questo sarà finito, avremo un nuovo parlamento e che importa se con un astensionismo al 70% ed una emorragia di democrazia incausticabile. Maria Luisa Iavarone

Sono le elezioni del 2022 ma le facce sono quelle del 1994: da Bossi a Berlusconi, da Tremonti a La Russa. Stessi volti e qualche ritorno, nessun rinnovamento e molto vintage. E anche la campagna elettorale sembra quella di trent’anni fa. A partire dai protagonisti e dai contenuti. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 19 Agosto 2022.

Nella campagna elettorale del nostro scontento stanno ritornando tutti i volti del passato berlusconiano che sembravano ormai andati via. Molti in verità non erano mai usciti di scena veramente, soprattutto dal Parlamento e dalla politica, ma come un deja vù che dura da trent’anni in questa tornata elettorale ambiscono a ruoli di primo piano e non più solo da macchiette e urlatori in fondo innocui perché fuori dai governi. 

La schiatta lombarda. I primi, veri, colpevoli dello svacco istituzionale di oggi sono Berlusconi e Bossi. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 19 Agosto 2022.

Hanno portato in Parlamento sfaccendati e disadattati, liberalesse della mèche, bifolchi e belle figliole da cene eleganti. Hanno elevato a sistema quella che, nella Prima Repubblica, era una quota fisiologica di impresentabili, preparando il terreno per l’analfabetismo al potere (anche nella parte avversa)

Il degrado plebeo delle assemblee legislative e, in generale, dell’ambito pubblico si deve all’opera di due principali, se non esclusivi, responsabili: Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Gli altri, pressoché tutti e con esperimenti di legittimazione non meno desolanti, hanno preso a seguirli senza perplessità, ma furono quelli, il Cavaliere e il finto medico di Cassano Magnago, a portare in Parlamento stormi di liberalesse della mèche, plotoni di addetti alle televendite e manipoli di sfaccendati vaccamadonna e puttanaeva distolti dall’interlocuzione col bianchino nei meglio bar della Padania irredenta a Roma ladrona.

Quel che è venuto dopo in campo avverso, dal mezzo coglione da centro sociale al coglione intero da sagra sindacal-pacifista, l’uno e l’altro sottratti al tremendo precariato da quarantaquattrenni presso papà e mammà, e sino al vento del vaffanculo impetuoso nelle vele del vascello dei venditori di lupini, dei fuori corso sempiterni, dei cancellieri di tribunale in carriera statica perché inetti anche a far fotocopie, dei giureconsulti con curriculum disco dance, dei disadattati, degli sgherri, dei teppistelli, degli ignoranti abbestia messi a presidente di commissione, a sottosegretario, dio santo, a ministro, tutto questo era preconizzato nelle liste elettorali di Forza Italia e della Lega di Bossi, ripiene secondo la specialità di ciascuna di bei giovanotti e care figliole uniformati in dress code da cena elegante e allegri bifolchi in impavida crociata da Pontida a Montecitorio: tutti, ovviamente, splendidamente refrattari alla pericolosissima esperienza di leggere qualcosa, studiare qualcosa, imparare qualcosa.

Non che la fedina culturale dei predecessori democristiani, comunisti, socialisti e insomma primo-repubblichini fosse sempre illustre, anzi, perché una quota di rappresentanza era pur concessa anche allora, perlopiù in funzione di interfaccia corruttiva o per irresistibile esigenza familista e clientelare, a qualche campione che non sfigurerebbe nell’odierna sentina dell’uno vale uno che ha perfezionato e diffuso la pratica berlusconian-bossiana. Ma si trattava, appunto, tra i ranghi di quei partiti tradizionali, di presenze testimoniali ed episodiche, non della regola, e in ogni caso non si assisteva all’elevazione a modello del villano rifatto, delle “signore”, come le chiama Berlusconi, che “sono bravissime e parlano anche l’inglese”, dei venditori di spazi pubblicitari istruiti a cantare meno male che Silvio c’è e del comunista padano che si preparava a manovrare le ruspe organizzando i cori contro i napoletani puzzolenti.

Il terreno del primo analfabetismo al potere l’han preparato loro, Bossi e Berlusconi. Le prime schiatte della canaglia parlamentare sono generate dai lombi di quella leadership lombarda. E viene da quella primogenitura il successivo e ormai irrimediabile svacco politico e istituzionale del Paese.

Non è vera democrazia se i capi partito decidono chi siederà in Parlamento. Il voto dei cittadini deciderà la vittoria di questo o quel partito, ma chi saranno i futuri senatori e i futuri deputati lo decideranno i capi. Claudio Martelli su la Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Agosto 2022

Litigano su tutto, su fascismo e antifascismo, su ridurre le tasse ai ricchi o ai lavoratori, sull’elezione diretta del capo dello Stato, su chi sono gli amici e i nemici del’Italia in Europa e nel mondo. Su una sola cosa centrodestra e centrosinistra vanno perfettamente d’accordo: il potere, il loro potere, il potere dei capi partito di scegliere i candidati e di conseguenza gli eletti in Parlamento. Il voto dei cittadini deciderà la vittoria di questo o quel partito, di questa o quella alleanza ma chi saranno i futuri senatori e i futuri deputati lo decideranno i capi.

Segretari, presidenti, leaders dei partiti – grandi o piccoli, di destra o di sinistra o di centro non fa differenza – saranno loro a staccare i biglietti di ingresso in Parlamento. Non sono previste procedure democratiche o, se erano previste, sono state disattese così che alla fine, ovunque regna l’arbitrio. Il caso più noto è quello di Forza Italia, ma qui il nepotismo è consustanziale con la natura monarchica del partito. Casi di nepotismo si registrano anche nei luoghi della Lega – per esempio la Toscana – in cui Salvini detta legge. Non è da meno la sinistra di Fratoianni che candida la moglie e alla legge bronzea del nepotismo non sfugge nemmeno Meloni che riporta in Parlamento il cognato Lollobrigida.

Il caso estremo di disordine e di arbitrio resta quello dei 5 Stelle: dopo liti furibonde mentre il movimento perdeva pezzi da tutte le parti lo statuto scritto da Conte gli ha consentito di piazzare i suoi fedeli nei pochi collegi sicuri e di escludere Virginia Raggi, l’unica che avesse ottenuto un buon risultato alle amministrative. Persino il Partito Democratico che per scegliere i candidati aveva importato in Italia il modello americano delle «primarie» se ne è stancato ed è regredito ai riti del tempo che fu. La regola che impone il 40 per cento di candidate donne viene disattesa se così vogliono i governatori delle regioni del Sud. La regola del limite di non più di tre mandati completi - ovvero il numero di volte in cui si può essere candidati - è diventata un optional: vale per alcuni ma ne sono esentati altri come l’eterno ministro Franceschini che, giunto alla sesta legislatura, anziché uno stop ha ottenuto che anche la moglie sia candidata.

Nessuno eguaglia l’intramontabile Ferdinando Casini che doppierà l’undicesima legislatura per garantire la difesa della Costituzione dalle riforme di Giorgia Meloni. Curioso: una riforma presidenzialista Casini l’aveva già votata nel 2005 quand’era alleato di Berlusconi. Si potrebbe continuare a lungo con l’elenco dei penosi misfatti e delle pietose bugie con cui i maggiorenti di oggi cercano di coprire le loro piccole o grandi vergogne, ma il punto cruciale è un altro e in questo consiste, che di elezione in elezione è stato eroso e poi sovvertito il fondamento della democrazia. In ogni vera democrazia è la base a eleggere liberamente i suoi vertici, sono i cittadini, a scegliere deputati e senatori. Viceversa in Italia, da gran tempo, una ristretta cerchia di capi politici ha sequestrato questo potere e potendo scegliere chi candidare e chi no di fatto decide chi saranno i rappresentanti del popolo. Così ancora una volta il prossimo 25 settembre avremo un Parlamento non di eletti ma di cooptati, cioè di nominati dai rispettivi capi partito. La differenza è abissale: un conto è un senatore o un deputato che attraverso una procedura democratica ha ottenuto la candidatura della sua parte e poi il voto degli elettori naturali, cioè dei suoi concittadini che lo conoscono e ai quali deve rispondere dei suoi atti. Tutt’altro accade quando si viene cooptati da un capo politico all’interno di una lista bloccata e i cittadini sono privi della possibilità di scegliere chi li rappresenterà. Questo corrompimento della democrazia è causa primaria della disaffezione e dell’astensione di milioni di elettori e spiega anche il successo nel recente passato dei partiti populisti. Se oggi, come dicono i sondaggi, un’ampia maggioranza di elettori si dichiara favorevole all’elezione diretta del presidente della Repubblica è perché crede in tal modo di riappropriarsi del potere di scegliere da chi farsi rappresentare e guidare. Ma neppure un capo eletto dal popolo può curare l’assenza di democrazia, rischia anzi di darle il colpo di grazia.

Noi che non lo siamo mai stati. Diciamo basta, per favore, ai catto-fascio-comunisti che straparlano di democrazia. Iuri Maria Prado su l'Inkiesta il 17 Agosto 2022.

Quanto dobbiamo aspettare per riconoscere che quanto di difettoso, di mal funzionante, di illiberale presente nel nostro Paese viene da questa triade, che ha sempre sbagliato su tutto e ha sempre lavorato per limitare, anziché far progredire, le nostre libertà?

Io vorrei capire per quale motivo mai i pochi che non sono mai stati comunisti, che sono sempre stati anticomunisti, i pochi che non sono mai stati fascisti, che sono sempre stati antifascisti, i pochi che non sono mai stati baciapile, che sono sempre stati anticlericali, vorrei capire per quale motivo mai devono trovarsi un comunista fino a ieri, un fascista fino a ieri o un prete ieri oggi e domani che si mette in panca e spiega che cos’è davvero democratico, che cos’è davvero liberale, che cos’è davvero laico.

Vorrei capire per quale motivo mai i quattro gatti cui è capitata la felice disavventura di non essere educati alla somma di mastodontiche stronzate distribuite agli italiani dal pulpito catto-fascio-comunista, l’apostolato infallibilmente antidemocratico che ha sempre sbagliato tutto, che ha sempre avuto torto su tutto, che ha sempre lavorato per revocare o limitare, non per promuovere, per mettere in precario anziché in zona di sicurezza, per far regredire piuttosto che sviluppare il modesto numero di libertà e il minimo bouquet di diritti individuali che fanno dell’Occidente ciò che esso tenta faticosamente di essere e rimanere, vorrei capire perché mai quei pochi debbano sopportare la dottrina del fascista rifatto, del comunista rifatto o del sempiterno prete che sulla scorta di quel suo passato stronzo fa lo scrutinio delle altrui presentabilità liberali.

Fascisti, comunisti e preti politici, perlopiù in consortile grazia concomitante, dacché Repubblica è Repubblica si sono esercitati ciascuno secondo i propri bisogni a far fuori la regola di concorrenza e di mercato in economia, a far fuori la regola del primato del corpo individuale a petto del corpaccione del potere pubblico, a far fuori la libertà in nome della giustizia, dell’onestà, delle mani pulite, della sanità, della pace, a far fuori lo Stato di diritto in nome dello stato di necessità evocato a salvazione non solo della cara tenuta democratica del Paese, ma ancora della pummarola pubblica, dell’aviazione pubblica, del tiggì pubblico, del meteo pubblico, della musica melodica pubblica, insomma dell’immenso porcaio italiano che da ogni punto di vista – produzione, istruzione, servizi pubblici, efficienza amministrativa – ci tiene ai margini delle società avanzate.

Conosco l’obiezione. La democrazia italiana è accidentata, non compiutamente formulata, abbozzata, d’accordo; è il risultato della collaborazione e dello scontro tra culture e tradizioni politiche diverse, in una parola è una cosa complessa, d’accordo: ma c’è, e c’è grazie a quelle diverse culture e tradizioni. Ma bene. Molto bene. E aspettiamo altri settant’anni a riconoscere che è accidentata, non compiutamente formulata, abbozzata esattamente perché realizzata in attuazione di quelle culture e tradizioni? Aspettiamo altri settant’anni per riconoscere che quanto di difettoso, di mal funzionante, di illiberale contrassegna la nostra democrazia viene da ciò, che essa è stata fatta da fascisti rifatti, comunisti non sempre rifatti e preti forever? Gli stessi che, ai quattro gatti che non sono nulla di tutto quello, spiegano oggi quali sono i punti di riferimento fortissimo di tutti i progressisti, di tutti i moderati, di tutti i conservatori, di tutti i lavoratori, di tutti i diritti acquisiti, di tutti i taxisti, di tutti i forestali, di tutti i balneari, di tutti gli insegnanti da proteggere dalla deportazione, di tutte le famiglie tradizionali, di tutte le famiglie arcobaleno, di tutte le Giornate della Memoria a destra e a sinistra, di tutti i Rosari e di tutti i Gay Pride e dell’anima de tutti li mortacci loro.

Poi dice che uno non vota.

Ci sono sei milioni di italiani esclusi dal voto che la politica continua a ignorare. Studenti e lavoratori fuori sede non possono esprimere il loro diritto perché il nostro è rimasto uno dei pochi Paesi a non prevedere modalità per votare quando si è lontano da casa, mentre gli sconti sui viaggi non risolvono il problema. E poi ci sono i figli dei migranti ai quali è negata la cittadinanza. Gabriele Bartoloni su L'Espresso il 2 Settembre 2022. 

Come accade ad ogni tornata elettorale, alcune categorie di cittadini si ritroveranno tagliate fuori dalle urne. Non per volontà, ma a causa di una legislazione considerata dagli stessi esclusi come «anacronistica e discriminatoria». Si tratta degli italiani senza cittadinanza, degli studenti e dei lavoratori fuori sede: potenziali elettori che per ragioni diverse, di volta in volta, si ritrovano impossibilitati ad esercitare il diritto di voto.

Giuditta Pini (Pd): «Facciamo votare i giovani fuorisede». Chiara Sgreccia su L'Espresso il 12 Agosto 2022.  

La deputata dem si batte da anni per dare la possibilità di esercitare il diritto di voto agli studenti e ai lavoratori che vivono in una città diversa da quella di residenza. «Si modificherebbero gli assetti dei collegi e si contrasterebbe l’astensionismo»

«Sarebbe un viaggio della speranza che dovrei fare in un weekend. Proprio pochi giorni dopo il rientro dalla pausa estiva. A ridosso della sessione d’esame», si lamenta uno studente universitario che da un paio d’anni vive a Roma ma non ha spostato la residenza dal Comune in provincia di Brindisi in cui è nato. Perché non sa se dopo la laurea triennale cambierà città e perché spera di trovare presto una nuova stanza visto che l’appartamento in cui alloggia non è comodo.

Si riferisce al prossimo 25 settembre. Il giorno in cui, come conseguenza della crisi di governo, gli italiani torneranno a votare per le elezioni politiche. Marco non è l’unico in questa situazione: anche se per ragioni diverse, sono tanti i fuorisede, che vivono in una città che non è quella in cui hanno la residenza, dove dovrebbero tornare per votare. Circa 5 milioni.

Sono soprattutto giovani, tra i 18 e i 35 anni, provengono in gran parte dal sud Italia e dalle isole. Non sono solo studenti ma anche lavoratori. Per molti di loro il tempo e i soldi necessari per tornare «a casa» rendono un lusso, un diritto che invece dovrebbe essere di tutti i cittadini.

La riduzione dei costi per il trasporto è parziale e non adatta ai tempi correnti. Ad esempio, tra le agevolazioni di viaggio per chi si è recato alle urne a ottobre 2021, c'era una riduzione del 60 o del 70 per cento del costo del biglietto del treno (Trenitalia o Italo), per l’aereo uno sconto di 40 euro solo per chi ha scelto Alitalia. Il pedaggio autostradale era gratuito per gli italiani residenti all’estero ma non per chi si è spostato nel Paese.

«Non stiamo facendo il possibile per consentire alle persone di esercitare il loro diritto-dovere di voto», spiega Giuditta Pini, deputata del Partito democratico che da anni porta avanti una battaglia per aprire ai fuorisede la possibilità di votare nella città in cui vivono. «Ci abbiamo provato la scorsa legislatura, ottenendo il voto per gli studenti Erasmus. Anche in questa, tra le prime cose, ho presentato una legge per il voto ai fuorisede. Poi ho sottoscritto la proposta presentata da Marianna Madia insieme al comitato nazionale Voto dove vivo».

Per Pini negare ai fuorisede la possibilità di votare nella città in cui vivono è una scelta politica. Perché mezzi e strumenti per permetterlo ci sarebbero. Anche in un sistema interamente basato sulla carta come quello che garantisce il voto in Italia. Visto che chi è residente all’estero e iscritto all’Aire (l’anagrafe degli italiani all’estero) può esercitare il proprio diritto. Ma anche i cittadini fuori dal Paese temporaneamente, per almeno tre mesi per motivi di lavoro, studio o cure mediche, possono chiedere al proprio Comune di votare per corrispondenza.

«I mezzi per consentire alle persone di votare a distanza ci sono già. In più la pandemia ha dato un forte input alla vita digitale che dovremmo approfondire anche in questa direzione. Il problema è politico perché i voti dei fuorisede modificherebbero gli assetti di collegi e città. Se centinaia di migliaia di persone giovani iniziassero a votare in collegi in cui l’astensionismo di solito è alto cambierebbe il risultato».

Inoltre, come sottolinea Pini per concludere, sarebbe interessante anche allargare il focus alle elezioni amministrative. «Abbiamo città piene di fuorisede che, pur partecipando alla vita della comunità ogni giorno, non hanno diritto alla rappresentanza in Comune. Questo si riflette nella gestione delle città. Si tratta di un altro problema ma contiguo». Che contribuirebbe ad aprire un dibattito necessario all’Italia, rimasta tra gli unici paesi in Europa a non permettere ai fuorisede di votare nella città in cui vivono.

Astensionismo involontario. Perché non si risolve il problema di chi è fuorisede e non riesce a votare. Micol Maccario su L'Inkiesta il 12 Agosto 2022.

Secondo una ricerca del governo, sarebbero cinque milioni le persone che, per studio o per lavoro, vivono lontane dal comune di residenza e faticano a rientrare in occasione delle elezioni. Le alternative esistono e sono praticate anche in altri Paesi europei, ma in Italia c’è resistenza 

Il 24 luglio era prevista alla Camera la discussione delle proposte di legge per garantire il diritto di voto ai fuorisede, ma la caduta del governo ha impedito che questa si realizzasse. E ora quasi cinque milioni di italiani avranno difficoltà a votare. Questa è la stima che emerge dallo studio voluto dal ministero dei Rapporti con il Parlamento e confluito nel Libro Bianco “Per la partecipazione dei cittadini. Come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto”.

In quest’analisi il non-voto dei fuorisede, cioè coloro che studiano o lavorano lontano dal proprio comune di residenza, è annoverato tra le principali cause di astensionismo involontario. Secondo la stima riportata nel Libro Bianco il 38% dei fuorisede impiega più di quattro ore tra andata e ritorno per tornare alla propria residenza, il 15% tra le 4 e le 8 ore, il 9% tra le 8 e le 12 ore e il 14% circa più di 12 ore di viaggio.

La maggior parte di queste persone «è costretta a non votare, in tanti non hanno la possibilità di tornare in giornata a casa. Si tratta per lo più di giovani fino ai 35 anni», afferma a Linkiesta Stefano La Barbera, presidente del comitato Io Voto Fuorisede. L’astensionismo rappresenta un problema reale e attuale: l’istituto di sondaggi Swg afferma che attualmente solo il 58% degli italiani pare essere intenzionato a recarsi alle urne. Questa tendenza si trova in linea con i dati degli ultimi anni in cui la partecipazione elettorale è diminuita in maniera sostanziale.

Ma la mancanza di una legge che permetta il voto a distanza non è una novità. Il comitato civico Io Voto Fuorisede è nato nel 2008 e da 14 anni si fa portavoce di questa situazione.

L’Italia rappresenta, con Malta e Cipro, l’unico stato in Europa a non garantire alcuna alternativa a chi vive lontano dal comune in cui risiede, fatta eccezione per alcune categorie come militari e forze dell’ordine e per gli italiani che vivono all’estero. Oltre al voto tradizionale come tutti lo intendiamo, in Europa esistono varie alternative. Dal voto per delega (che in Italia è ritenuto incompatibile con il principio costituzionale della personalità del voto) a quello elettronico, passando per i l voto per corrispondenza fino a quello anticipato presidiato, senza dimenticare la possibilità di votare in un seggio diverso da quello di residenza il giorno delle elezioni. In Italia la scelta per i fuorisede è tra prendere l’aereo, il treno, l’auto e tornare a casa, oppure non esercitare il diritto di voto.

A queste possibilità il ministero dell’Interno ha sempre opposto resistenza, anche facendo riferimento a problemi logistici insormontabili ed esprimendo «il timore di compromettere la sicurezza delle procedure di voto» sostiene La Barbera. «Questo anche perché le proposte di legge non erano accompagnate da un’adeguata analisi né dei numeri né dei dati, non erano organiche e comprensive della portata del fenomeno».

In questa legislatura c’era stato un importante passo in avanti, che aveva portato all’analisi emersa nel Libro Bianco, ma con la caduta del governo Draghi tutto è nuovamente in stallo. Alla fine del report erano state avanzate due proposte per garantire il voto a distanza: l’election pass e l’election day. Il primo proponeva l’introduzione di un certificato elettorale digitale, sul modello del green pass. L’election pass sarebbe stato verificato e/o annullato, una volta utilizzato, presso il seggio. In tal modo il cittadino non avrebbe potuto utilizzarlo per votare nuovamente in un altro seggio elettorale. Con l’election day invece si proponeva di concentrare negli stessi giorni le date del voto dei diversi tipi di consultazione elettorale per favorire gli spostamenti.

Queste due proposte «avrebbero permesso di superare le resistenze del ministero dell’Interno in merito alla gestione delle elezioni, creando le precondizioni per poter effettuare il voto a distanza tramite gli uffici postali con il voto anticipato sul modello danese» sostiene il presidente di Io Voto Fuorisede.

Di recente la senatrice Emma Bonino e il deputato Riccardo Magi hanno presentato un’interrogazione alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese proprio sul tema dei fuorisede e delle modalità previste per garantirne il voto nelle elezioni del 25 settembre. Ma ci sono poche speranze: per applicare cambiamenti sostanziali, spiega La Barbera, serve più tempo. Allo stato attuale «l’unica richiesta da parte della politica dovrebbe essere quella di coprire i costi totali degli spostamenti per votare. Questo potrebbero deciderlo per decreto, anziché dare il solito rimborso inefficace. Ma non abbiamo sentito nulla di tutto ciò da parte delle forze politiche». Attualmente gli sconti non sono ancora stati specificati, ma di norma è prevista la diminuzione del biglietto di treni, navi e aerei, che però spesso aumentano in partenza perché è previsto un rialzo della domanda.

Quali sono quindi attualmente le possibilità per i fuorisede? Cambiare residenza è escluso, anche perché comporta una serie di problemi, soprattutto di ordine fiscale. Prendendo come esempio gli studenti, la maggior parte di loro ha gli studi pagati dai genitori, che a loro volta detraggono le spese fiscali degli affitti. «Cambiando residenza si esce dallo stato di famiglia e quindi, pur pagando, non si ha diritto a ricevere i contributi fiscali». A volte, poi, gli spostamenti sono troppo brevi (pochi mesi, o pochi anni).

Io voto fuorisede, in collaborazione con Io voto sano da lontano e The good lobby, sta portando avanti una petizione per il rinnovamento di una legge ferma agli anni ’50. Insieme a questa c’è anche un’iniziativa giudiziaria che mira a decretare l’incostituzionalità della legge elettorale. Una scelta obbligata perché, spiega La Barbera, il tema non viene mai affrontato in maniera seria. A novembre ci sarà la prima udienza, «con la speranza che il giudice invii gli atti alla Corte Costituzionale per decretare l’incostituzionalità di questa legge elettorale e costringere il Parlamento finalmente a intervenire».

Per ora, per non fare più parte di quel grande gruppo di astensionisti involontari, l’unica possibilità è comprare un biglietto del treno e tornare a casa.

La perduta solennità delle elezioni. Astensionismo, stanno facendo di tutto per far passare la voglia di votare. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 9 Agosto 2022 

Non può essere! E tuttavia è difficile scacciare dalla testa l’idea che con queste elezioni si sia voluta togliere agli italiani, che ancora l’avevano, la voglia di andare a votare. Dopo che è stata più volte sottolineata la eccezionalità del momento elettorale e dopo una legislatura che ha visto tre governi, nessuno dei quali scelto dagli elettori (come del resto era già accaduto nella precedente legislatura), giunte finalmente le elezioni ci si aspettava che esse si sarebbero svolte con una adeguata solennità. E, invece, tutto il contrario: termini strettissimi per la presentazione delle liste e nessuno abbia la tentazione di raccogliere le firme per un nuovo partito e rifiuti di accodarsi a quelli esistenti; mancanza del tempo necessario ad adeguare i programmi all’attuale realtà e nessuno si sogni di avere addirittura la possibilità di discutere e negoziare effettivamente i programmi di coalizione; campagna elettorale sotto l’ombrellone, e nessuno si sogni, se vuole aspirare ad essere ascoltato, di cercare di ragionare con gli elettori per proporre un programma per il futuro; un solo giorno destinato alla votazione, inutile preoccuparsi del fatto che il partito del non voto possa allargarsi. Insomma, tutto sembra convergere per rafforzare la distanza tra palazzi del potere e paese, divisi da un solco che appare sempre più difficile colmare e che il numero crescente di aderenti al partito del non voto sta lì a segnalare in modo incontrovertibile.

Tra i tanti aspetti critici di queste elezioni ve n’è uno, tuttavia, che appare particolarmente negativo e capace di inquinare fortemente la dimensione democratica dello svolgimento delle elezioni. In una elezione super veloce come questa, nella quale i tempi sono ancora più accorciati dalla presenza del “generale agosto”, che tradizionalmente in Italia impone il blocco di qualsiasi attività, ci sarà spazio solo per gli slogan. E quali sono più efficaci di quelli che fanno leva sulla paura?

Ed eccoli, infatti, i vari leader sbracciarsi per incutere paura agli elettori. Impresa nient’affatto difficile in un paese sempre più piegato da una molteplicità di crisi: quella pandemica, quella economica, quella sociale, quella demografica, quella climatica, quella idrica, quella energetica… Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. Franceschini scrive su Twitter “Carlo Calenda e Nicola Fratoianni fermatevi! Ci aspetta una sfida molto più grande dell’interesse dei nostri partiti: evitare che l’Italia finisca in mano ad una destra sovranista e incapace.” Crosetto dichiara a Repubblica “In autunno avremo la necessità di affrontare una grande emergenza economica e sociale” e quindi, è il sottinteso, sarete irresponsabili se vi opporrete a noi che governeremo. Salvini, dal canto suo, ha ricominciato con la mesta contabilità dei migranti, denunciando gli spaventosi pericoli di una immigrazione selvaggia ed incontrollata. Lo spauracchio delle tasse, a sua volta, ha ricominciato ad essere sventolato, come strumento di lotta contro la sinistra, dalla destra moderata. Si tratta solo di alcuni esempi di quanto sta avvenendo in questa campagna elettorale. Cui occorre, poi, aggiungere le tradizionali denunce del pericolo fascista e del pericolo comunista e le grida di allarme circa “l’emergenza democratica”. Emblematico di quanto sta accadendo è il tentativo di Letta di mettere insieme tutto ed il contrario di tutto per impedire che “questa” destra possa vincere. Come se vi fosse mai stata, per la parte politica cui appartiene Letta, una “destra” vincente meritevole di rispetto.

Insomma, un appuntamento elettorale, che avrebbe dovuto segnare un momento decisivo per il futuro dell’Italia, in considerazione sia dell’urgenza delle crisi che l’attanagliano e sia dell’urgenza di una legislazione costituente sempre più necessaria per ridare efficienza alle istituzioni, è destinato a svolgersi sulla sola base di slogan con un unico comune denominatore: quello della paura. Ciascuna parte politica è, difatti, soprattutto impegnata, ancora più che in passato, a spaventare gli elettori sulle conseguenze nefaste, che seguirebbero alla vittoria dell’altra parte. Ed il risultato è che di tutto si parla salvo che, come ha osservato Sabino Cassese, del merito di quelle che sono le urgenze del paese: la scuola, la sanità, la giustizia, la povertà, etc. Si deve aggiungere che i vincoli derivanti, da un lato, dai rapporti internazionali e, dall’altro, dall’enorme indebitamento dell’Italia, fanno sì che le divergenze di politica economica e sociale molto spesso si riducano, nella realtà, a mere sfumature, con la conseguenza che sono del tutto inidonee a mobilitare l’elettorato.

È chiaro che quanto accade sta riducendo le elezioni ad una battaglia solo per il potere (o come ormai si è usi dire per le poltrone), senza alcun reale collegamento con quelle tavole dei valori, che sono le sole capaci di dare qualità al dato elettorale, che altrimenti si risolve in numeri senza alcun significato programmatico. Non a caso Bertinotti parla, a proposito del patto Pd- Sinistra e Verdi, di accordo tra professionisti della politica. Proprio per questo Calenda, nel tentativo di avere un ancoraggio programmatico coerente per la sua strategia elettorale, è stato costretto a sciogliere l’alleanza elettorale appena conclusa con il Pd. Ed ha ragione quando denuncia che lo scontro tra meri cartelli elettorali è inevitabilmente destinato a produrre risultati ambigui, la cui coerenza si frantumerà di fronte alla prima seria difficoltà. Già si profila, all’orizzonte, un esito: ancora una volta vincitori saranno i palazzi, i quali, approfittando dell’incoerenza del risultato elettorale, potranno continuare a fare il bello ed il cattivo tempo, relegando la volontà popolare a mero orpello formale. Del resto, è tale la consapevolezza che questo sarà il risultato che molti attori politici già preannunciano che l’esito dovrà essere un nuovo commissariamento della politica, con la nomina del non eletto Mario Draghi a Presidente del governo che verrà.

È un errore, per di più, non considerare gli effetti politici e sociali di una campagna elettorale giocata, come si è detto, quasi esclusivamente sulla paura. Essa determinerà inevitabilmente una perdita di legittimazione di chiunque risulterà vincitore, così continuando ad erodere quel collegamento tra istituzioni e volontà popolare, che è l’essenza della democrazia. Si deve aggiungere, e non si tratta di un argomento di poco conto, che una campagna elettorale, che fa leva quasi esclusivamente sulla paura, ha l’effetto di una forte disgregazione del tessuto sociale. Il tema è stato affrontato, con la lucidità che l’ha sempre contraddistinta, dalla filosofa americana Martha Nussbaum nel volume “The Monarchy of fear” 2018, pubblicato in Italia da Il Mulino con il titolo “La monarchia della paura”. Osserva la filosofa che la paura è intensamente narcisistica. Scaccia ogni pensiero degli altri, anche quello più radicato. Essa allontana dalla preoccupazione degli altri, restituendoci al solipsismo infantile. Nello stato di paura, la presenza degli altri genera solo ansia e l’unico modo per evitarla è garantirsi il controllo, appunto, degli altri.

Mentre sul piano politico, dunque, la contesa tra meri cartelli elettorali non promette niente di buono, ancora peggiori sono le conseguenze sul piano sociale. La sollecitazione ad aver paura crescerà di intensità in questa brevissima estate elettorale, ed il risultato sarà una popolazione ancora più spaventata di oggi e, dunque, una chiusura maggiore nei propri recinti individuali, con conseguente arretramento dello spazio di influenza di categorie morali come quelle della responsabilità sociale o della solidarietà sociale.

I valori democratici, di cui sono espressione le elezioni nei regimi liberaldemocratici, avrebbero dovuto essere considerati, in questa occasione, con maggiore rispetto e con maggiore sensibilità. Non potrà destare sorpresa la crescita del partito del non voto. Astolfo Di Amato

Da liberoquotidiano.it il 31 luglio 2022.

Semplicemente scatenato, il Giampiero Mughini ospite a Controcorrente su Rete 4 nella serata di sabato 30 luglio. Si parla della campagna elettorale e delle imminenti elezioni, l'appuntamento con le urne è per il 25 settembre, e Mughini si spende proprio sugli elettori. 

"Gli astensionisti non credo che siano tutti uguali, ci sono quelli ai quali la politica dei partiti non li tocca minimamente, perché aprono una bottega al mattino, pagano il meno possibile di tasse - premette lo scrittore -. Che la politica dei partiti sia la più grande passione nazionale noi lo abbiamo potuto credere al tempo della ricostruzione democratica, quando da una parte c’erano i comunisti e dall’altra i cattolici. Gli astensionisti non li conosco bene, ma capisco che uno se ne strafreghi altamente di stare a sentire l’uno o l’altro babbeo, perché la qualità della classe politica è questa, perdonami", si sfoga Mughini.

Ma non è finita, perché Mughini marca poi le distanze tra la sua e le successive generazioni. "Io vengo da una generazione diversa. Chi faceva politica quando io ero all’università era colui il quale aveva tutti 30 e lode, capisci? Qui quelli che vedo hanno un rapporto zoppicante con l’italiano. Non sono mai stato un entusiasta della Seconda Repubblica, ma aveva una cosa forte, l’idea di creare una sorta di bipartitismo. Da una parte uno schieramento, da una parte l’altro. Da una parte Massimo D’Alema, dall’altra Silvio Berlusconi. Adesso c’è un partito che nasce un giorno sì e un giorno no", conclude un Mughini seccato e piuttosto nostalgico della politica che fu.  

Non gioco più. L’insopportabile risentimento di chi vota nei confronti di chi si astiene. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 28 Luglio 2022.

La rinuncia al diritto di voto viene percepita a destra e a sinistra come un tradimento: snobbare i partiti, denunciando coi fatti l’inutilità e l’inefficacia della politica è considerato il peccato supremo. Ma ognuno è libero di fare ciò che vuole, perciò state sereni. 

Chissà perché a destra e a manca, pressoché in egual misura, suscita tanto disappunto la dichiarazione di non-voto. È un fatto che così l’elettore di destra come quello di sinistra si indispettisce meno per l’altrui voto agli avversari che per la scelta altrui di non votare né per gli uni né per gli altri. 

Perché? Forse perché chi assiste alla dichiarazione di astensione vede in quella scelta un pericolo di diluizione del sistema partecipativo? Perché, insomma, quell’elettore vede nel voto in sé, a prescindere dalla direzione in cui esso è esercitato, un patrimonio da mantenere e proteggere anche al prezzo che vincano quelli contro cui egli vota? Ma figuriamoci. O forse c’è una mozione altruistica dietro quel rincrescimento, insomma il dispiacere perché chi non vota si spoglia in tal modo di un diritto così importante? Ma non diciamo fesserie.

Il risentimento del votante verso l’astensionista dipende da altro, e cioè dal fatto che la dichiarazione di astensione è percepita a denuncia dell’inutilità, dell’inefficacia, della fungibilità del voto. Non è che tu, non votando, non apprezzi il valore del tuo voto: è, invece, che tu, non votando, destituisci di valore il mio. Ne svilisci simbolicamente la portata. Non curandotene nemmeno per avversarlo, ne maltratti le ragioni. 

Al mio proclama identitario, tu non opponi quello di chi mi è nemico, e che dopotutto giustifica il mio, ma un’indifferenza che mi accomuna a quelli che votano diversamente da me. Ð questo che indispettisce. È questo che eccita quell’acrimonia. È questo che non è tollerato. È questo che urta il concetto che di sé e del proprio voto ha il fedele elettorale, ben più che il confronto con chi esprime il voto opposto.

Che questi non siano psicologismi a buon mercato a me appare abbastanza evidente considerando il fatto inoppugnabile di quella reazione, che appunto non si giustifica né con esigenze di manutenzione del sistema rappresentativo né tanto meno coll’improbabile fervore solidarista teso a recuperar l’anima del renitente al voto. 

Tutto questo per dire che io non voto? No: per dire a chi vota di star sereno e di non rompere i coglioni.

Rispetto e obbedienza. La dinamica sociale e civile del consenso. Manon Garcia su L'Inkiesta il 19 Luglio 2022.

L’individuo nato libero accetta sempre di limitare il proprio ambito d’azione: ciascuno di noi detiene i propri diritti, e responsabilità, individualmente. “Di cosa parliamo quando parliamo di consenso” di Manon Garcia è un saggio che fa riflettere sul significato profondo dietro certe dinamiche di potere e volontà.

La prima questione, quando si cerca di comprendere e valutare i dibattiti contemporanei sul consenso nelle relazioni intime, è sapere che cosa sia il consenso in generale allo scopo di identificarne e districarne le ambiguità e la polisemia. Prima di analizzarne la funzione e il potere normativo bisogna capire di che cosa stiamo parlando. Il consenso è un problema giuridico? È un problema morale? Si parla della stessa cosa quando si parla di consenso sessuale o di consenso tout court? Le tre sfere del consenso Quando si parla di consenso, si fa riferimento all’azione di acconsentire oppure al risultato di tale azione. Acconsentire è un’azione che consiste nel dare il proprio accordo.

Per esempio, acconsento ad acquistare qualcosa da qualcuno quando stipulo un contratto di vendita con quella persona. Ed è anche l’accordo che risulta da tale azione, per esempio quando gli sposi, durante la cerimonia, dichiarano il reciproco assenso a contrarre matrimonio. Questi esempi evidenziano il carattere sociale del consenso: acconsentire significa dare a qualcuno il proprio accordo su qualcosa. Non si acconsente da soli, l’azione di acconsentire implica sempre un altro.

Più in particolare, è generalmente ammesso che acconsentire consiste nel concedere a qualcuno un diritto che questi altrimenti non avrebbe: quando acconsento a prestare l’auto a un’amica le concedo il diritto di prendere la mia auto mentre se lei la prendesse senza il mio consenso contravverrebbe al mio diritto di proprietà.

Acconsentire è quindi dare il proprio assenso a qualcuno su qualcosa in modo tale da concedere, con ciò, un diritto su di sé o sui propri beni. Le origini giuridiche Come mostra questa definizione, il consenso appartiene innanzitutto al lessico giuridico. Nel diritto si parla di consenso in riferimento all’accordo con il quale qualcuno stipula un contratto. Il contratto è definito dall’articolo 1101 del Codice civile francese come «un accordo di volontà fra due o più parti per costituire, modificare, trasmettere o estinguere obbligazioni».

Quindi è il risultato di un accordo di più volontà che dà luogo a obbligazioni reciproche (il che lo differenzia dall’atto giuridico unilaterale, di cui il testamento è un esempio). L’obbligazione va qui intesa in senso giuridico, ovvero «il vincolo giuridico per il quale uno o più soggetti, il o i debitori, sono tenuti a una prestazione (fare o non fare) verso uno o più altri – il o i creditori – in virtù o di un contratto (obbligazione contrattuale) o di un quasi-contratto (obbligazione quasicontrattuale) o di un delitto o quasi-delitto (obbligazione delittuale o quasi delittuale), o della legge (obbligazione reale)». Il consenso è una delle nozioni fondamentali del diritto privato poiché è una condizione necessaria della validità di un contratto: un contratto non può essere legalmente valido se le parti non danno il proprio assenso.

 L’articolo 1128 del Codice civile francese (ex articolo 1108) dispone quindi che: «Sono necessari alla validità di un contratto: 1° il consenso delle parti; 2° la loro capacità contrattuale; 3° un contenuto lecito e certo.» Il consenso delle parti è a tal punto centrale per il perfezionamento di un contratto che il diritto francese contempla contratti che esistono soltanto in virtù dello scambio dell’assenso e non richiedono di essere formalizzati legalmente. È quello che la legge chiama un contratto consensuale e che è definito nell’articolo 1109 del Codice civile francese in questi termini: «Il contratto è consensuale quando si perfeziona con il mero consenso delle parti qualunque sia il modo di espressione».

La nozione di consenso sta quindi alla base del diritto privato e della capacità degli individui di stipulare contratti gli uni con gli altri. I tre ambiti del consenso. Storicamente, quella di consenso è innanzitutto una nozione giuridica, ma oggi appare cruciale per tre diversi ambiti: giuridico, politico, e dei rapporti interpersonali intimi, con particolare riferimento al matrimonio e alla sessualità.

Come abbiamo appena visto, in ambito giuridico questa nozione è usata principalmente nel diritto contrattuale. Ed è di particolare importanza osservare che non è usata nel diritto penale: il diritto penale francese non riconosce la locuzione latina Volenti non fit iniuria, cioè «A chi acconsente non si fa offesa».

Mentre nel diritto civile questa massima è cruciale per valutare la responsabilità, in quello penale prevale piuttosto la massima contraria, Voluntas non excusat iniuriam, «La volontà non giustifica l’offesa». Altrimenti detto, il consenso della vittima non annulla il reato, tranne se tale reato richiede, per definizione, inganno o violenza (per esempio, non può esserci rapimento con il consenso della vittima). In ambito politico il lessico del consenso è utilizzato nel quadro di quello che si suole chiamare il problema dell’obbligo politico. Uno dei problemi cruciali di qualunque filosofia politica è infatti sapere come e perché i soggetti obbediscano alle leggi e ai governanti.

A partire dal momento in cui il potere statale non è più concepito come di origine divina e si ritiene che i soggetti siano per natura liberi e uguali, solo l’obbligo permette di comprendere il funzionamento della vita politica, se con questo termine si intende «ciò a cui una volontà si riconosce liberamente impegnata verso sé stessa o verso altri». Ma se gli esseri umani sono liberi e uguali, l’obbedienza alla legge consiste, almeno in modo schematico, nel fatto che un individuo nato libero accetta di limitare il proprio ambito d’azione a ciò che è autorizzato dalla legge.

Come mostra la politologa americana Hannah Pitkin, quello dell’obbligo politico contiene in realtà più di un problema. Pitkin ne distingue quattro:

1. I limiti dell’obbligo («Quando si è obbligati a obbedire, e quando no?»)

2. Il luogo della sovranità («A chi si è obbligati a obbedire?»)

3. La differenza fra autorità legittima e mera coercizione («C’è veramente una differenza? Si è mai veramente obbligati?»)

4. La giustificazione dell’obbligo («Perché si è obbligati a obbedire, anche quando l’autorità è legittima?»)

“Di cosa parliamo quando parliamo di consenso”, di Manon Garcia, Einaudi, 264 pagine, 17 euro

Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” l'1 luglio 2022.

«Dal voto ideologico ormai siamo passati a quello economico, anche perché le ideologie non esistono praticamente più: gli elettori a basso reddito, dalla politica, vogliono aiuti concreti, e se la politica non è in grado di darglieli tranne a spot e a una platea molto ristretta come nel caso del reddito di cittadinanza, le fasce meno abbienti non vanno più a votare, ne abbiamo avuto la certificazione». È tranciante l'analisi di Carlo Buttaroni, fondatore e presidente dell'Istituto demoscopico Tecnè, pochi giorni dopo i ballottaggi delle elezioni amministrative. 

Al primo turno, il 12 giugno, stando alle rilevazioni di Tecnè era andato a votare soltanto il 28% degli elettori a basso reddito, contro il 63% di quelli a reddito medio e il 79% di quelli a reddito alto. «Al ballottaggio», spiega a Libero Buttaroni, «l'astensionismo è cresciuto ulteriormente e la fascia meno abbiente ha disertato le urne ancora di più».

Di questi tempi un anno fa Enrico Letta prometteva agli italiani che il Pd non sarebbe stato più il partito della Ztl. Lunedì scorso, l'indomani delle amministrative, il suo vice, l'ex ministro Giuseppe Provenzano, ha rilanciato affermando che sulla scia dei successi di alcune città tra cui Verona i Dem non sono più solo il partito dei residenti del centro storico, ma anche in questo caso le analisi di Tecnè dicono altro.

«Certo, c'è stato un recupero nelle altre zone della città, ma non parliamo di grandi numeri, anche perché la grande maggioranza degli elettori meno abbienti vota centrodestra. Sì: il vecchio paradigma della sinistra che rappresenta i deboli si è completamente rovesciato». 

L'inizio della grande disaffezione verso la politica tra le persone più in difficoltà, sottolinea Buttaroni, è iniziato con forza nel 2008: «La crisi finanziaria ha spinto il ceto medio in basso e l'ha fatto diventare una fascia fragile, è stato un passaggio epocale, queste persone in varie conferenze le abbiamo chiamate i "penultimi", è un termine brutto ma rende bene l'idea di cos' è accaduto, e va comunque sottolineato che in Italia non abbiamo mai avuto un ceto medio particolarmente forte perché abbiamo una pressione fiscale folle che comprime tantissimo i redditi. 

Finché resistevano ancora le ideologie, come dicevamo, una fetta importante della popolazione aveva una ragione per andare a votare: poi ha iniziato a disinteressarsi alla politica, in parte anche all'elezione dei propri sindaci, e questo è un altro dato da non sottovalutare. Un ruolo fondamentale in quest' ultima tornata lo hanno svolto i candidati a supporto dei sindaci, quindi il voto di preferenza dei singoli consiglieri». 

Il fondatore di Tecnè ci tiene a una precisazione: «Vanno analizzati sia il primo turno che il secondo, lo dico perché alcuni giornali e trasmissioni hanno scritto e detto che le elezioni le ha vinte il Pd, ma francamente mi sembra un po' esagerato, perché il primo turno ha avuto tutt' altro segno, e vanno guardati i dati nella loro interezza, non in modo parziale. Io direi che il centrodestra, seppur in qualche caso diviso, si è confermato la coalizione che raccoglie la maggioranza dei consensi degli italiani: le ultime elezioni dicono questo, almeno come appartenenza ai grandi gruppi. L'altro elemento chiaro è che è tornato il bipolarismo: la tendenza s' era notata già lo scorso ottobre, ma adesso si è notevolmente rafforzata».

Il centrosinistra non fa più presa sugli "ultimi", o i "penultimi", ma questo stando ai numeri gli fa gioco, perché più cresce l'astensionismo e più le percentuali del Pd e dell'intero "campo largo" sono destinate a crescere: «Confermo», conclude Buttaroni, «perché se è vero che alle politiche l'astensionismo diminuisce sensibilmente rispetto alle amministrative, è altrettanto vero che la forbice tra il voto del ceto medio-alto e quello basso si allarga sempre di più, favorendo, sulla carta, il centrosinistra». Insomma - lo diciamo noi - l'obiettivo di Letta e del campo progressista è che sempre più persone perdano fiducia nella politica.

Il sondaggio sul conflitto in Ucraina. Guerra in Ucraina, gli italiani sono stufi ma è rimasta fuori dal voto: le scelte in cabina guidate da condizione economica e sociale. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino su Il Riformista il 16 Giugno 2022. Ecco il tweet postato qualche giorno fa da Vittorio Feltri: “Mi hanno chiesto se faccio il tifo per la Russia e l’Ucraina. Ma non sono né russo né ucraino. Quindi sono neutrale. Vinca il più forte ma faccia in fretta perché siamo stanchi”. Queste parole, come si può facilmente immaginare, hanno suscitato una tempesta di commenti e di polemiche. Esse sono apparse inaccettabili – e lo sono anche per noi – in questo momento della guerra e di fronte all’invasione scatenata lo scorso febbraio da Putin.Ma bisogna dire che la provocazione di Feltri rappresenta in realtà in buona misura il “sentiment” di una parte considerevole della popolazione italiana.Tanto che, secondo un recente sondaggio Ipsos, il 44%, quasi la metà degli italiani -con un significativo aumento del 6% rispetto a marzo – si dichiara “né con la Russia né con l’Ucraina”. La guerra a loro non interessa. E, come dice Feltri, ne sono stanchi. (A titolo di curiosità precisiamo che, tra i restanti, il 49% parteggia per l’Ucraina e il 7% per la Russia). I nostri pacifisti non sono putiniani. Sono per quieta non movere. E, come il conte-zio manzoniano, tendono a dire “troncare, sopire”. Anche altri sondaggi effettuati sul tema mostrano come una quota considerevole – e crescente – degli italiani si senta sempre più “provata” dalla guerra in corso. Una parte di questi ultimi si colloca su posizioni di “comprensione” delle ragioni di Putin e una parte è su posizioni opposte. Ma tutti percepiscono sempre più il conflitto come “lontano” e in parte “estraneo” ai nostri interessi. Di qui anche l’ostilità crescente (che ormai coinvolge più di metà della popolazione) all’invio ulteriore di armi all’Ucraina e il disagio percepito a causa dei rincari in atto, attribuiti per lo più al conflitto (e in parte alle sanzioni verso la Russia). Anche se in realtà l’inflazione ha molte altre con-cause. Insomma, il clima di opinione pare in questo momento assai pesante. Ognuno ha in mente prioritariamente i propri interessi e le proprie preoccupazioni e le tematiche internazionali vengono viste come sempre più distanti e dannose per la propria situazione. L’ansia per il futuro è di conseguenza molto diffusa. Ma è significativo rilevare come – lo ha mostrato di recente un sondaggio “Radar” di Swg – essi riguardi più il futuro dell’insieme del paese che quello personale di chi esprime la propria opinione. Si teme cioè per il destino della nostra nazione e la si vorrebbe vedere sempre meno coinvolta. Ridicola illusione, in un mondo in cui se scende la borsa di Wall Street o quella di Shanghai scende anche piazza Affari – con tutto quanto ne segue per l’economia italiana.

Qualche leader politico – in particolare nella Lega e nel M5s – ha pensato che questo stato di cose possa costituire un interessante mercato elettorale, in vista anche delle consultazioni politiche che si terranno al massimo tra un anno. Ed ha perciò insistito su posizioni che evocano questo stato dell’opinione pubblica. Ma, alla luce dei fatti, si tratta di una valutazione errata. Se è vero infatti che la “stanchezza” verso il conflitto in corso è sempre più diffusa, è vero anche che essa costituisce una motivazione “debole” nel processo di scelta del partito cui dare il proprio sostegno. In realtà, le motivazioni più rilevanti per la decisione di voto sono altre e molto più legate alla propria condizione economica e sociale.

In altre parole, si opta per un partito non tanto per le posizioni assunte riguardo alla guerra, quanto per quelle relative alla economia e alla società circostante l’individuo e più strettamente relativa alla propria persona. Anche da questo punto di vista – quello della scelta elettorale – la guerra in Ucraina è percepita come “lontana”. Il guaio è che è inutile sognare lo stato commerciale chiuso che immaginava il filosofo conservatore e nazionalista tedesco Fichte, sognare di poter coltivare tranquillamente in proprio giardinetto, è una illusione. Anche la Cina è ormai vicina. Figuriamoci l’Ucraina, che è alle porte dell’Europa. Che deve prendere sul serio il fatto che nous vivons sous l’œil des Russes.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

Alessandra Ghisleri per “la Stampa” il 16 giugno 2022.

Perdere, si sa, fa male. E in questa tornata elettorale amministrativa, pur avendo interessato poco meno di 1 cittadino su 5 (8.831.743 cittadini maggiorenni erano chiamati a rinnovare le proprie amministrazioni comunali, fonte Ministero dell'Interno) solo 1 cittadino su 10 a livello nazionale si è recato ai seggi per esprimere le proprie preferenze (in totale i votanti alle amministrative sono stati circa 4,8 milioni).

Vedendo questi numeri ci si rende subito conto che chi ha perso realmente è la presenza, o meglio la volontà di voler partecipare alla vita pubblica e di dichiarare la propria scelta. E se si confrontano i dati dell'affluenza alle amministrative con quella ai referendum il rapporto è ancora più impietoso.

In tutti i principali centri in cui si è votato per l'elezione del sindaco, l'affluenza al concomitante referendum è stata inferiore rispetto all'afflusso per le amministrative, fino anche a meno 8 punti percentuali come a Cuneo e Catanzaro. Sicuramente in questi centri la partecipazione al referendum è stata più alta che nel resto d'Italia, tuttavia sempre in minore misura rispetto alle schede richieste per l'elezione del sindaco e del consiglio comunale.

Se ne deduce che, laddove si è votato per il rinnovo del sindaco, in molti hanno rifiutato le schede referendarie. La media stimata per coloro che nei grandi Comuni avevano diritto ad entrambe le votazioni ci dice che il 4,91% ha rifiutato di votare al referendum.

Sicuramente le tematiche dei quesiti referendari erano complesse (18,0%) e poco intriganti (13, 2%); e forse qualcuno non ne ha apprezzato politicamente i promotori (13,6%). Tuttavia, analizzando le risposte di chi ha scelto di non esprimere il suo voto al referendum, al di là di coloro che, convinti che il quorum non si sarebbe raggiunto non si sono preoccupati di andare a votare (9,9%), il 16,8% non si è manifestato perché persuaso che non sarebbe cambiato nulla con il proprio voto.

Il 3,9% ritiene il referendum un metodo "passato", mentre il 6,3% è scontento di non aver potuto partecipare ad un voto per l'eutanasia e la cannabis, sicuramente temi più facili, toccanti e coinvolgenti.

Il 37,0% dell'opinione pubblica dichiara che se i quesiti risultano complicati lo strumento del referendum può diventare un inutile spreco di denaro. Un cittadino su 5 (20,5%) lo ritiene ancora un utile strumento di democrazia, mentre per il 21,7% potrebbe diventare utile eliminare il quorum per favorire una maggiore partecipazione popolare.

Il problema non è di natura informativa, non si può equivocare, ma comportamentale. Non è che avendo fornito maggiori indicazioni si sarebbe avuto un migliore risultato. Per modificare i convincimenti e le nostre "cattive" abitudini occorre che la spinta sia quella giusta. Ma veramente possiamo illuderci che la maggior parte dei cittadini avrebbe potuto votare per questi referendum convinta che il raggiungimento del quorum avrebbe potuto migliorare la loro vita?

Siamo esseri umani rilegati nel nostro piccolo mondo, con le emozioni e i sentimenti relativi a tutto ciò che entra in rapporto con noi. Ebbene se la politica non riesce a penetrare questi universi non ottiene buoni risultati. Oggi i cittadini vivono nell'incertezza - non solo economica - individuandosi come dei topolini in un labirinto senza indicazioni di uscita; e per alleggerire la loro pena desiderano credere nella "speranza" di una nuova pianificazione che li coinvolga e permetta loro di organizzarsi nella ricerca di un benessere, non solo economico.

Dal punto di osservazione dell'opinione pubblica il voto di domenica non ha messo in difficoltà il governo (65,2%). Tuttavia ha imposto delle riflessioni importanti per i partiti e la loro classe dirigente. La riconferma di molti sindaci o quanto meno di amministratori di giunte "uscenti", la vittoria al primo turno di molti candidati civici "prestati alla politica" e la forza in termini elettorali delle liste civiche legate al candidato hanno già proposto delle importanti indicazioni.

Un candidato sindaco nel momento della sua campagna elettorale è obbligato a raccontare il suo percorso passato, se è in rinnovo, e il suo cammino futuro per i prossimi anni. Non si possono fare promesse vacue e prive di fondamento perché i cittadini riescono a toccare con mano le sue dichiarazioni e possono giudicare il suo operato vivendo nel pieno di quell'universo.

Non l'espressione di semplici desideri, ma un cammino definito e scadenzato per i prossimi anni. Non c'è nulla di più politico che occuparsi della gente e dei suoi bisogni. Questa breve campagna elettorale ci ha fatto sentire il "profumo" di quello che sarà il futuro dibattito politico che ci accompagnerà da qui al prossimo anno.

L'effetto di questa tornata elettorale lo si è già registrato in queste prime intenzioni di "post-voto" dove ancora una volta si vedono confermate le tendenze in crescita di Fratelli d'Italia e Pd con le contemporanee difficoltà vissute dai loro principali alleati e, ancora stabile e solido quel "terzo polo" imperniato su Calenda e Renzi in cerca di una via o forse di una sponda. Il futuro politico non può che partire da qui: dal fatto che i cittadini sono alla ricerca del loro sindaco d'Italia. 

La biblioteca dei politici. Cara sinistra, quali libri leggi? Manca una visione che vada oltre le emergenze. Filippo La Porta su Il Riformista il 16 Giugno 2022. 

Riuscite a immaginare una biblioteca dietro i partiti di oggi? Non intendo concedere troppo all’antipolitica ma è impresa difficile. Prendiamo il Pd (cui continuo a sentirmi più vicino): cosa legge e studia la sua classe dirigente, quali autori, quali correnti di pensiero, etc.? Probabilmente in una politica ridotta esclusivamente a risposte su emergenze (Cacciari) non serve neanche più leggere. L’impressione non è tanto quella di un fervido laboratorio quanto di un confuso eclettismo, dove convivono, superficialmente e senza alcun attrito, filoni teorici opposti: La Pira e gli U2 possono convivere benissimo, però manca una seria elaborazione del passato culturale della sinistra.

Suggerisco di rimeditare l’esperienza di una rivista come “Politics”, che si faceva a New York nei primi anni del dopoguerra, a cui collaboravano Hannah Arendt, Orwell, Camus, Paul Goodman (uno dei maggiori rappresentanti della controcultura americana) e il nostro Nicola Chiaromonte (si veda Politics e il nuovo socialismo, a cura di Alberto Castelli, Marietti 2012). Esperienza maturata entro la componente più libertaria della cosiddetta Terza Forza, da noi abitualmente screditata. Sulla rivista la critica delle magnifiche sorti progressive della tecnologia (più distruttive che apportatrici di benessere), della involuzione dell’Urss (che già aveva esaurito la spinta propulsiva), della omologante società dei consumi (assai prima degli anatemi pasoliniani) si accompagna alla proposta di una “azione diretta” – di individui e gruppi – che qui ed ora realizza una “vita meno degradata” (dagli accordi fraterni entro piccole comunità a non collaborazione e disobbedienza personali). Vi sembra una proposta astratta e moralistica?

In “Politics” fondamentali per la lettura della situazione postbellica restano Tocqueville, Weber e Simone Weil. Ovvero: una società civile vitale (associazioni, club, forme di contropotere), avversa a ogni burocratizzazione, come precondizione della democrazia. E, dietro di loro, una costellazione socialista ottocentesca che comprende i classici dell’anarchismo Proudhon, Godwin ed Herzen, per il quale ogni fine troppo lontano nel tempo era ingannevole. Nel 1946 uscì un lungo intervento a puntate – “La radice è l’uomo” – firmato dal suo fondatore, quel Dwight Macdonald da noi conosciuto per un saggio letterario fondamentale sul cosiddetto midcult (ovvero la letteratura che simula “grandezza” banalizzando questioni e temi profondi). Macdonald contrappone ai “progressisti” i “radicali”, scettici sul progresso e su quella scienza che aveva pianificato Auschwitz e Hiroshima e propone un socialismo etico, “fondato sulla volontà di lottare per la libertà e la giustizia a partire da e nella situazione presente” (Castelli).

Presupposto è che la giustizia sia un concetto universale, presente a priori nella coscienza umana, dunque un valore assoluto, al di là delle sue mutevoli forme storiche: “Il riconoscimento in altri di una personalità uguale alla nostra” (Proudhon). Anche se il concetto di natura umana, aggiunge Macdonald, non è scientifico ma solo esprime il desiderio di ciò che un uomo dovrebbe essere. Non occorre peraltro essere “scientifici” a tutti i costi: anche il concetto di libero arbitrio è inverificabile però “è necessario comportarsi come se esistesse”. Inoltre: il comportamento più radicale – contrariamente a quanto si è sempre pensato – consiste nella misura, nel sapersi fermare. Il migliore approccio al socialismo è ricordare sempre “che l’uomo è mortale e imperfetto” e “quindi non dovremmo esagerare”. Il concetto di limite proviene dagli antichi greci, dalla loro visione tragica dei conflitti umani.

Riaffermando la sua fede pacifista Macdonald ricorda la doppiezza del nostro codice morale: tutti condannano il massacro di persone indifese, ma sono pronti a accompagnare il loro governo nella Terza Guerra Mondiale. La moralità è relegata agli spazi pubblici mentre i nostri costumi privati sono una “nauseabonda mistura di condotta cavalleresca e cinismo”. Anche qui: con largo anticipo sulla rivoluzione femminista degli anni ‘70 e sulla riscoperta del privato. Ma arriviamo al cuore del suo ragionamento: per Macdonald dal punto di vista marxista la coscienza è meno reale dell’ambiente materiale, l’individuo è meno reale della Storia, e dunque l’unica azione politica reale è quella di massa, dei partiti. Insomma è in gioco un “criterio di realtà”. Macdonald l’azione politica va invece ridotta a un livello modesto, senza pretese, personale, cominciando da piccoli gruppi, che discutono sia della bomba atomica che dell’educazione dei bambini. Occorre coltivare i valori nel presente, diffidando di “ogni ideologia che richiede il sacrificio del presente in favore del futuro”.

Già immagino qualcuno rimproverare a “Politics” l’assenza di Machiavelli e della tradizione del realismo politico, il tono moraleggiante, il persistere di una visione veteroumanistica obsoleta, il primato velleitario della “rivoluzione delle coscienze”, il culto ingenuo dello spontaneismo, l’utopia impotente del civismo sovversivo degli individui, cui sempre mancherà il momento più alto della sintesi (prerogativa dei partiti), e ancora il rifiuto aprioristico di qualsiasi uso della violenza organizzata (Tolstoj), anche quella “rivoluzionaria”, l’idea che ogni guerra una volta avviata tende ad autoalimentarsi (questo resta per me un punto controverso: “Politics” criticà perfino l’intervento degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale). Né – verosimilmente – potremo trovare sulla rivista risposte alle questioni urgenti di oggi, legate a globalizzazione, crisi demografica, catastrofe ambientale, etc. Eppure l’accento posto su una politica fatta da piccoli gruppi, che “dovranno comportarsi qui ed ora, anche nel proprio piccolo, in conformità con le proprie idee”, non vi sembra il necessario antidoto a una politica fondata sul continuo rinvio al futuro (la “Gerusalemme rimandata” stigmatizzata da Vittorio Foa)? Già, “la radice è l’uomo, qui e non altrove, adesso e non più tardi”. Filippo La Porta

Il nuovo saggio di Andrea Morrone. Storia del referendum, una nobile forza di rottura. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 3 Giugno 2022. 

Quasi vent’anni dopo un analogo lavoro insieme ad Augusto Barbera, questo volume di Andrea Morrone ci introduce in modo aggiornato e completo allo studio dei referendum nel nostro ordinamento, tra testo costituzionale e contesto sociale e politico. La nostra nasce come “Repubblica dei partiti”, come richiama Morrone sulla base dell’insegnamento di Pietro Scoppola, e questo spiega anzitutto la cautela nell’ammettere il referendum, specie quello abrogativo, nonostante che essa fosse nata proprio su un referendum istituzionale, che ebbe il pregio di tener fuori la Costituente da una scelta divisiva.

Questo spiega anche la cautela nell’attuazione costituzionale, con un blocco che viene superato solo nel 1970 come elemento di scambio dentro una maggioranza di governo divisa: la Dc accetta che i suoi alleati votino con il Pci la legge sul divorzio, ma in cambio ottiene la legge attuativa del referendum perché una parte dei suoi dirigenti immagina ancora una società molto tradizionale a cui fare appello. Società che in realtà essa stessa, con i suoi alleati, aveva modificato in modo rilevante con l’operato dei Governi, specie con quelli della ricostruzione (p. 30). Non è stato facile, poi, lo sviluppo costituzionale dell’istituto referendario tra una giurisprudenza della Corte piuttosto restrittiva (sin dal 1978, p. 73) ma con alcuni guizzi innovativi, come il riconoscimento dei Comitati promotori come poteri dello Stato (p. 76).

I partiti, abituati alle logiche consensuali-compromissorie della prima fase della Repubblica, sempre meno efficienti, faticano a misurarsi con uno strumento che, a differenza del sistema proporzionale puro usato a vari livelli di Governo, può produrre risultati secchi, chiare vittorie e sconfitte. Così la leadership di Fanfani nella Dc viene travolta dall’errore di lettura della società sul divorzio, ma così anche il Pci paga nel 1985, con la sconfitta nel referendum Craxi-Carniti (che il Pci aveva promosso a difesa del logoro meccanismo della scala mobile contro l’innovativa politica dei redditi concertata coi sindacati) un prezzo pesante non previsto e, quindi, perde il potere di veto su una policy decisiva (p. 101).

Sono i due referendum che sconvolgono di più i pilastri del sistema, le due anomalie italiane, l’egemonia comunista sulla sinistra e l’unità politico-elettorale dei cattolici, già in fase di crisi avanzata e che poi si sarebbero dissolte. In questo senso i referendum sono stati un antipasto di democrazia maggioritaria, hanno anticipato il superamento della logica proporzionalistica (p. 537) che è stata poi oggetto della seconda ondata referendaria, quella che a partire dal 1991 è stata centrata sui diritti politici, dopo quella relativa ai diritti civili e sociali. Morrone è puntuale nel ricordare il livello di profonda crisi del sistema, della logica di logora autodifesa dei partiti tradizionali di Governo che all’inizio del 1990 porta il Governo Andreotti e il ministro dell’Interno Gava a porre quattro volte la questione di fiducia contro l’elezione diretta del sindaco per neutralizzare una maggioranza trasversale esistente in Parlamento contro un sistema in cui a livello locale era saltata ogni regola coalizionale e più in generale di raccordo tra consenso, potere e responsabilità (p. 124).

È quell’atto di conservatorismo arrogante che determina con una sorta di slavina la nascita del movimento referendario per la riforma elettorale, a cavallo tra società e istituzioni, compresi alcuni futuri costituzionalisti, che a sorpresa emerge vincitore il 9 giugno 1991, prima che inizino le inchieste di Tangentopoli (p. 136). Non ci fu quindi un sistema sano travolto da un complotto; c’era un sistema gravemente malato, già da anni il fantasma della originaria Repubblica dei partiti, e privo ormai di forza propulsiva su cui poi si innestarono le iniziative giudiziarie, anche con alcune indubbie forzature (p.1 38). Il referendum, però, non aveva solo destrutturato, aveva anche e soprattutto offerto una via di ristrutturazione, colta sino in fondo per i Comuni nel 1993 grazie anche a un ottimo intervento parlamentare sia sul sistema elettorale sia sulla forma di governo che riscattò la forzatura conservatrice del 1990 (p. 149).

Un modello estesosi poi alle Regioni in un doppio passaggio parlamentare (1995- riforma elettorale; 1999-forma di governo) e purtroppo, invece, non completato coerentemente sul piano nazionale dove cu si è limitati solo a riforme elettorali spesso contraddittorie. Per inciso: se vi piace la politica nelle sue dimensioni di trama anche sorprendente, stile Javier Cercas in Anatomia di un istante, consiglio in particolare la lettura delle pagine da 145 a 149 che spiegano come dalla Camera venne reso possibile il referendum 1993: non dico altro per non sciupare le sorprese. Morrone ci descrive anche, tra una tappa e l’altra dell’uso dello strumento, alcune innovazioni incrementali, legislative e giurisprudenziali, che hanno accompagnato l’evoluzione dell’istituto: la previsione della numerazione e della titolazione dei referendum coinvolgendo i Comitati promotori (pp. 193/194), l’intervento della Corte nello stabilire un certo grado di vincolo per il Parlamento rispetto alla non riproponibilità formale e sostanziale della normativa abrogata (pp. 360-361).

Indubbiamente, però, l’opportunità costituzionale rispetto alle conseguenze possibili dei referendum sul sistema politico ha comunque continuato a giocare un ruolo altrettanto importante delle innovazioni formali: difficile spiegare altrimenti la bocciatura del quesito che avrebbe potuto consentire la cosiddetta reviviscenza della legge Mattarella mettendo però in pericolo la coesione della maggioranza del neonato Governo Monti nel 2012 (p. 372). Anche la lettura dei risultati del referendum si è modificata nel tempo col crescere dell’astensionismo e il suo uso tattico per difendere le leggi esistenti che porta a ritenere quasi impossibile il raggiungimento del quorum. In questo nuovo contesto anche molti milioni di Sì, pur non raggiungendo il quorum e non avendo conseguenze giuridiche dirette, possono avere un peso politico importante. Alcuni quesiti, come quello sulle trivelle possono essere definiti come degli “sconfitti di successo” (p. 426).

Morrone giunge fino ai giorni nostri spiegando ad esempio come, pur con gli elementi di flessibilità e di opportunità che incidono su molte decisioni di inammissibilità, non ci fossero in realtà serie possibilità giuridiche a favore dei quesiti sulla depenalizzazione dell’omicidio del consenziente o sulla responsabilità diretta dei giudici (pp. 520-521). Venendo infine alle proposte di riforma l’Autore, tra le varie riflessioni, segnala in particolare l’opportunità di deflazionare il quorum rispetto all’astensionismo strutturale, ponendolo alla metà più uno dei partecipanti alle precedenti elezioni politiche (p. 528 e p. 541). Una riforma che, sull’onda del metodo chirurgico sperimentato in questa legislatura sulle riforme costituzionali, potrebbe forse essere adottata nella prossima.

Morrone “La Repubblica dei referendum. Una storia costituzionale e politica”, Il Mulino, Bologna, 2022

Stefano Ceccanti

Astenuti, 10 motivi per cui sono il primo “partito”. Negli ultimi anni si è registrato un costante declino della partecipazione elettorale. Le ragioni sono molteplici… Antonio Mastrapasqua su Nicolaporro.it il 20 Aprile 2022.

Pochi giorni prima di Pasqua abbiamo avuto modo di leggere la relazione conclusiva delle attività della Commissione di studio sull’astensionismo elettorale, istituita dal governo, per iniziativa del ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà. Presieduta da Franco Bassanini, composta da personaggi di spicco, dal presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, a Leonardo Morlino, professore di Scienza della politica, a Paolo Feltrin, politologo ed esperto in materia elettorale. Solo per citarne alcuni.

Iniziativa più che lodevole, visto che nel corso degli ultimi anni si è registrato un costante declino della partecipazione elettorale: alle prime elezioni repubblicane per la Camera dei deputati partecipò al voto oltre il 92% della popolazione, alle elezioni del 2018 meno del 73%. Alle elezioni europee del 2019 ha partecipato al voto meno del 55% degli elettori. Al ballottaggio delle ultime amministrative il 40%. La Commissione ha suggerito una serie di possibili iniziative – non votare solo nelle scuole, ma a esempio negli uffici postali; promuovere il voto elettronico con digitalizzazione della tessera e delle liste elettorali – tutte di buon senso.

Il dubbio è che si sia abusato del tempo e della competenza dei commissari, impegnandoli forse su un quesito distorto. Siamo certi che la domanda corretta fosse: perché aumenta l’astensionismo elettorale? O forse non sarebbe più interessante capire come mai ancora tanti italiani vanno a votare nonostante l’offerta politica e istituzionale sempre più scadente? Ci sono almeno dieci buone ragioni per “giustificare” la decrescita (felice o infelice?) della partecipazione elettorale.

1. Come si può chiedere di andare alle urne agli elettori che vedono i partiti impegnati a definire accordi politici con coloro che in campagna elettorale eran stati nemici più che avversari? La domanda attende risposte puntuali anche dal partito di cui fa parte il ministro D’Incà: in quattro anni ha cambiato tre alleanze diverse pur di occupare ruoli esecutivi. La coerenza sarà la virtù degli stupidi, ma l’incoerenza potrebbe essere una ragione di demotivazione sufficiente per non tornare a votare?

2. La composizione delle liste elettorali è ormai diventato un mistero doloroso. Le segreterie di partito, le correnti, per chi le ha ancora, i leader più o meno carismatici, i capipopolo, sono gli unici che mettono in fila i nomi, senza poi che l’elettore possa più esercitare – da anni – l’uso della preferenza. Siamo sicuri che non si tratti di una forma di deterrenza contro il voto?

3. Da più di dieci anni la democrazia italiana è sotto tutela: i governi del Paese cadono e nascono attraverso crisi extraparlamentari, nonostante la ripetuta centralità della democrazia parlamentare. Anche il secondo governo Conte – di cui non abbiamo nostalgia, beninteso – non ha mai avuto un voto di sfiducia in Parlamento. Giorgio Napolitano teorizzò il ruolo delle élite – “non esiste politica senza professionalità come non esiste mondo senza élite” – guidando la nascita del governo Monti, precostituendogli uno scranno da senatore a vita; Sergio Mattarella invocando il Covid ha evitato le elezioni, nonostante che le urne siano state normalmente aperte in tutti i Paesi democratici, dagli Stati Uniti alla Germania.

4. Abbiamo la Costituzione più bella del mondo – secondo la vulgata tanto cara al Pd e ai suoi amici – che viene regolarmente smentita nella prassi elettorale del Capo dello Stato. Secondo autorevoli costituzionalisti, come Michele Ainis, la rielezione del Presidente della Repubblica dopo il primo settennato è incostituzionale. Eppure, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella sono stati rieletti.

5. Abbiamo un ministro degli Esteri che non conosce le lingue e nemmeno la geografia (italiana e non solo) e che ha avuto la responsabilità del ministero del Lavoro senza aver mai lavorato: l’incompetenza al posto della meritocrazia può dissuadere gli italiani dal voto?

6. Abbiamo un partito, il Pd, che da quindici anni non vince una tornata elettorale e che partecipa regolarmente a tutti i governi di “salvezza nazionale”, esprimendo spesso il presidente del Consiglio, nel nome del suo segretario di partito, salvo poi cacciarlo (nel 2014, Enrico Letta) e salvo poi richiamarlo dall’esilio dorato di Parigi.

7. Abbiamo sistemi elettorali tutti difformi: in ciascun livello di rappresentanza istituzionale ci sono regole diverse, che rendono difficile se non impossibile fare dei confronti nel tempo, se non a specialisti della materia, chiamati a spiegare il voto a quelli che lo hanno esercitato. Una bella dose di straniamento democratico per chi pensa di partecipare.

8. All’elettore è inibita la scelta diretta dei ruoli istituzionali più importanti: non si vota né per il Presidente della Repubblica, né per il premier. Ogni atto elettorale viene rigorosamente vagliato e digerito dalle segreterie di partito, o dai circoli magici che sono nati attorno ai personalismi che hanno sostituito il cursus honorum di chi fa politica.

9. Il personalismo è diventato paradossale: non solo impedisce la selezione della classe dirigente, ma rende impossibile condizionare i processi di confronto democratico dentro i partiti e dentro le Istituzioni. Attenzione: il personalismo non è più collegato al carisma personale; ma è diventato un vero mostro ingestibile: ogni soggetto che acquisisce potere è sottratto al confronto reale. I congressi dei partiti sono un ricordo della preistoria.

10. La confusione dei ruoli istituzionali rende lo spettacolo della politica sempre più incomprensibile. Ci sono ministri che si sorprendono dell’aumento della benzina, pur avendo competenze energetiche; ci sono ministri che assumono iniziative senza averne delega e mandato: il ministro per i Rapporti con il Parlamento perché deve occuparsi dell’astensionismo?

L’elenco potrebbe allungarsi oltre il decalogo. Ma basta per ritenere che il problema non sia perché tanti italiani non vanno più a votare; ma perché continuano a farlo, nonostante la distanza siderale tra democrazia proclamata e democrazia praticata. Forse personaggi come Bassanini e Blangiardo avrebbero potuto non essere disturbati, o piuttosto avrebbero dovuto essere applicati a trovare risposta a questa domanda: perché gli italiani continuano ad andare a votare? Antonio Mastrapasqua, 20 aprile 2022

Per ricordarci che il «merito» è conveniente. Paolo Fallai su Il Corriere della Sera il 22 Maggio 2022.

L’Italia è stabilmente all’ultimo posto del «meritometro» europeo con un punteggio di 24,56. Sul podio ci sono Finlandia (67,87), Svezia (62,91) e Danimarca (62,29). Un festival di due giorni per discuterne al collegio Ghisleri a Pavia.

Viviamo nell’epoca delle classifiche e questa da qualche anno meriterebbe più attenzione: il «meritometro» è il primo indicatore quantitativo, elaborato in Italia (Forum Meritocrazia in collaborazione con l’università Cattolica di Milano), di sintesi e misurazione dello «stato del merito», con un raffronto a livello europeo. La prima edizione venne presentata nel 2015 e il confronto sulla base di sette indicatori (libertà, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività per i talenti, regole, trasparenza e mobilità sociale). L’Italia è stabilmente all’ultimo posto con un punteggio di 24,56. Sul podio ci sono Finlandia (67,87), Svezia (62,91) e Danimarca (62,29). Dalla Spagna, penultima in classifica, ci separano oltre 11 punti. Gli indicatori peggiori nel nostro Paese? Qualità del sistema educativo, pari opportunità per i giovani (il 23,3% non studia e non lavora), scarsa capacità di attrarre i talenti.

Per creare uno spazio di confronto sul tema (e reagire alla depressione) si è appena concluso a Pavia il primo Festival dedicato al Merito, promosso dal Collegio Ghislieri, fondato nel 1567 e che vanta il primato del rettore più giovane d’Italia, il 36enne Alessandro Maranesi.

Sul palco si sono alternate eccellenze della scienza, dalla senatrice a vita Elena Cattaneo («Il nostro è anche un Paese sempre in bilico tra competenze e superstizione»), a Michèle Roberta Lavagna, professoressa presso il Dipartimento di scienze e tecnologie aerospaziali del Politecnico di Milano e membro dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. Tra gli interventi Luciano Violante, Arrigo Sacchi e Romano Prodi, che insieme al capo della redazione politica del Corriere, Marco Ascione ha presentato il memoir Strana vita, la mia (Solferino).

Due giorni per ricordare anche che merito, figlia del verbo latino merere (meritare, essere degno), è una parola che esalta il significato del guadagno. Premiare il talento non è solo giusto: conviene. Magari così si capisce meglio.

Il nuovo mondo. La guerra alla meritocrazia. Adrian Wooldridge su Linkiesta Magazine il 19 Aprile 2022.

La società moderna e globalizzata si basa sulla proliferazione e l’incontro dei talenti individuali. Ora l’odio populista per la competenza rischia di distruggere il sistema che ha prodotto un’economia più produttiva e uno Stato più efficiente. Che cosa potrebbe esserci di meglio? Eppure questa idea è sotto attacco ovunque.

La meritocrazia è un tale presupposto delle società moderne che la diamo per scontata. Quando facciamo un colloquio di lavoro ci aspettiamo che la nostra candidatura sia esaminata secondo un principio di equità. E proviamo indignazione al primo sentore di nepotismo, favoritismo o discriminazione. «Tutti gli americani hanno il diritto di essere giudicati sulla base del merito individuale e di arrivare fin là dove i loro sogni e il loro duro lavoro li porteranno», affermò Ronald Reagan nel 1984. «Noi crediamo che le persone debbano poter crescere in base al loro talento e non in base alla loro nascita o ad altri privilegi», disse Tony Blair quindici anni dopo e dall’altro lato dell’Oceano.

Tuttavia, è pura follia dare per scontato questo elemento che è così fondamentale sia per la salute della nostra economia sia per quella della nostra politica. Basta guardare la storia dell’Occidente: non è necessario tornare molto indietro nel tempo per trovare un mondo in cui i lavori passavano di padre in figlio o erano ceduti al miglior offerente. Basta guardare il resto del mondo per trovare governi pieni di corruzione e di favoritismi.

L’idea meritocratica è intrinsecamente fragile: gli esseri umani sono biologicamente programmati per favorire i propri amici e i propri parenti rispetto agli estranei. E se abbiamo ragione di pensare che il mondo moderno, con la sua vivace economia e il suo settore pubblico privo di favoritismi, sarebbe impossibile senza l’idea meritocratica, sbaglieremmo invece se pensassimo che la meritocrazia continuerà a esistere per sempre anche se continueremo a innaffiarne le radici con il veleno.

Il mondo premoderno si fondava su presupposti che sono agli antipodi rispetto alla meritocrazia: sul lignaggio più che sui risultati raggiunti, sulla subordinazione volontaria più che sull’ambizione.

La società era governata da proprietari terrieri che erano tali per via ereditaria (e a capo dei quali c’era un monarca), che avevano raggiunto la loro posizione combattendo e depredando e che poi giustificavano il loro ruolo attraverso una combinazione di volontà di Dio e di antica tradizione.

La civiltà era concepita come una gerarchia in cui le persone occupavano le posizioni che erano state loro assegnate da Dio. L’ambizione e l’autopromozione erano temute. «Togli solo la gerarchia, stona questa corda» dice Ulisse nel “Troilo e Cressida” di Shakespeare, «e vedrai la discordia che ne segue».

Il criterio principale con cui le persone venivano giudicate non era legato alle loro capacità individuali, ma al loro rapporto con la famiglia e con la terra. Gli aristocratici britannici hanno ancora il nome dei luoghi attaccato al loro: e più alto è il rango, più grande è il posto.

I lavori non erano assegnati sulla base del merito di ciascuno ma attraverso tre grandi meccanismi: i legami familiari, il clientelismo e l’acquisto. E anche i re ereditavano la loro posizione indipendentemente dalla loro capacità di governare il Paese. Carlo II di Spagna era frutto di un tale disastro genetico che la sua testa era troppo grande per il suo corpo, la sua lingua era troppo grande per la sua bocca e quindi sbavava di continuo.

Gli aristocratici concedevano i lavori ai loro favoriti oppure li vendevano al miglior offerente, per finanziare il loro dispendioso stile di vita a corte. E non c’era una stretta relazione tra reddito e lavoro: nel 1783, una certa signora Margaret Scott riceveva un considerevole stipendio di 200 sterline all’anno come balia del Principe di Galles, che a quell’epoca aveva ventun anni. Uno dei due avvocati dello staff del Tesoro britannico non si presentò al lavoro per quarant’anni, dal 1744 al 1784, finché un ficcanaso ebbe l’ardire di lamentarsi per la sua scarsa frequentazione dell’ufficio.

L’idea meritocratica ha assaltato, in modo rivoluzionario, tutti questi presupposti, è stata la dinamite che ha fatto esplodere il vecchio mondo e ha messo a disposizione il materiale per costruirne uno nuovo. Ha cambiato il concetto di élite riformando il modo in cui la società assegna i migliori posti di lavoro. Ha trasformato l’istruzione enfatizzando il valore delle pure competenze accademiche. E ha fatto tutto questo ridefinendo la forza elementare che determina le strutture sociali. «Quando non ci sono più ricchezze ereditarie, privilegi di classe o prerogative di nascita», ha scritto Alexis de Tocqueville, «diventa chiaro che la principale fonte di disparità tra le fortune degli uomini risiede nella mente».

Ma l’idea meritocratica è stata addirittura qualcosa di più, è stata un tentativo di mitigare uno degli istinti primari del genere umano – è cioè l’istinto di favorire i propri figli rispetto a quelli degli altri – in nome del bene collettivo. «In tutto il regno animale», ha osservato la biologa Mary Maxwell, «il nepotismo è la norma per tutte le specie sociali e anzi potrei spingermi ancora più in là dicendo che il nepotismo definisce le specie sociali».

Questo aiuta a comprendere la giravolta intellettuale di Platone ne “La Repubblica”. Platone, che è stato il primo occidentale a redigere un progetto meritocratico, ha preso posizione a favore della mobilità sociale perché la gente privilegiata poteva produrre «bambini di bronzo» e la gente non privilegiata poteva produrre «bambini d’oro». Ma come si sarebbe potuto impedire che le famiglie potenti si accaparrassero le posizioni migliori e che le famiglie più modeste fossero ignorate? Platone riteneva che l’unico modo per impedirlo fosse una rivolta estrema contro la natura: sottrarre i bambini ai loro genitori naturali per allevarli in comune e proibire ai “guardiani” di possedere proprietà alcuna in modo che anteponessero il bene collettivo a quello individuale.

L’idea meritocratica è stata un presupposto delle quattro grandi rivoluzioni che hanno creato il mondo moderno. La più determinante tra queste è stata la Rivoluzione industriale che ha trasformato le basi materiali della civiltà e ha scatenato le energie dei self-made men. È tutto ciò è stato rafforzato da una successione di rivoluzioni politiche.

La Rivoluzione francese era dedita al principio della “carriera aperta a tutti i cittadini di talento”: i privilegi feudali furono aboliti; l’acquisto dei posti di lavori fu proibito; le scuole di eccellenza furono rafforzate. I soldati di fanteria che marciarono attraverso l’Europa furono tutti incoraggiati a pensare di avere nel loro zaino un bastone da maresciallo di campo. La Rivoluzione americana fu guidata da una visione di uguaglianza delle opportunità e di competizione corretta. Thomas Jefferson parlò di rimpiazzare l’«aristocrazia artificiale» data dal possesso di terra con l’«aristocrazia naturale» determinata «dalla virtù e dal talento». David Ramsey, storico e politico della South Carolina, celebrò il secondo anniversario dell’indipendenza americana sostenendo che l’America fosse una nazione unica nella storia dell’uomo perché «tutte le cariche sono aperte a ogni uomo che se le meriti, quali che siano il suo rango è la sua condizione sociale».

La Gran Bretagna è stata il palcoscenico della più sottile di queste rivoluzioni, la Rivoluzione liberale, che vide un trasferimento del potere dall’aristocrazia terriera all’aristocrazia intellettuale senza che fosse esploso un solo colpo. I rivoluzionari prima sottoposero le istituzioni esistenti, come le cariche pubbliche e le università, alla magia della competizione aperta e degli esami scritti e poi costruirono gradualmente una scala delle opportunità che poteva portare dalla scuola di paese fino alle guglie delle più ambite università. La “Old Corruption”, come un tempo era chiamato il governo, fu sostituita da quella che era forse la più onesta ed efficiente amministrazione pubblica del mondo. E Oxford e Cambridge furono trasformate da nidi di sinecure in serre in cui coltivare l’intelletto.

Una rivoluzione meritocratica conduceva poi a un’altra rivoluzione meritocratica. La “scala delle opportunità” rivelò che tra le persone comuni c’era molto più talento di quanto i rivoluzionari liberali non avessero immaginato. E l’applicazione di un’“aperta competizione” fra gli uomini fece inevitabilmente sorgere una domanda: «E le donne?». Inoltre, la contraddizione alla base del documento fondativo dell’America non avrebbe potuto rimanere tale per sempre: se gli uomini erano nati naturalmente uguali fra loro, come si sarebbero potuti tenere i neri in catene? Così, gruppi fino a quel momento emarginati approfittarono dell’idea meritocratica per chiedere una più equa possibilità di avere successo nella vita.

L’esplosione di energia che ne risultò ha portato a una società più giusta e più produttiva. Donne e minoranze hanno potuto riversarsi nell’istruzione superiore. Le donne ora costituiscono più della metà degli studenti universitari britannici e le minoranze etniche ottengono risultati migliori a scuola rispetto ai bianchi. I Paesi meritocratici hanno una crescita più veloce dei Paesi non meritocratici. Le aziende pubbliche che assumono persone in base al merito sono più produttive delle aziende familiari che lasciano spazio ai favoritismi. E le migrazioni di massa scorrono soltanto in una direzione: dai Paesi che non hanno compiuto la transizione meritocratica a quelli che invece l’hanno compiuta.

La meritocrazia è un’idea rivoluzionaria che ha prodotto un’economia più produttiva e uno Stato più efficiente: che cosa potrebbe esserci di meglio? Eppure questa idea è sotto attacco ovunque. Alcuni pensatori “antirazzisti” alla moda sostengono che la meritocrazia sia spesso un travestimento per il privilegio dei bianchi o che sia addirittura un’arma per spingere le minoranze nella miseria. I populisti di destra sostengono che sia invece l’ideologia di quell’élite globale autocompiaciuta che di recente ha fatto così grandi pasticci nella gestione del mondo. E persino le persone che gestiscono la grande macchina meritocratica hanno seri dubbi: Daniel Markovits di Yale ha recentemente scritto un libro intitolato “The Meritocracy Trap” (“La trappola meritocratica”) mentre Michael Sandel di Harvard ne ha scritto un altro intitolato “La tirannia del merito” (pubblicato in italiano da Feltrinelli, ndr).

Chi avanza delle critiche ha alcuni punti a suo favore: l’idea meritocratica corre il rischio di diventare decadente. Stiamo assistendo a un pericoloso matrimonio tra denaro e merito poiché i ricchi acquistano opportunità educative mentre i poveri devono accontentarsi di scuole qualunque: ne è testimone la trasformazione delle scuole private britanniche da istituzioni abbastanza apatiche in quelle fabbriche dell’eccellenza che sono oggi. Abbiamo chiaramente bisogno di un’altra grande spinta per reinventare l’idea meritocratica e rilanciarla per una nuova epoca. Ma quello a cui invece assistiamo è un tentativo di smantellarla.

Questa distruzione è in uno stadio particolarmente avanzato negli Stati Uniti. La sinistra produce numerosi esempi di “guerra al merito”. Il Board of Education di San Francisco ha vietato alla Lowell High School – una delle scuole del Paese che ha maggiori successi accademici – di utilizzare i test di ammissione e ha invece introdotto un sistema a sorteggio. Il commissario scolastico, Alison Collins, ha dichiarato che la meritocrazia è «razzista» ed è «l’antitesi di una competizione equa». I programmi per i più dotati e i più talentuosi vengono smantellati in tutto il Paese. Le università stanno riducendo l’importanza dei Sat, i test di ammissione standardizzati e alcune di esse si spingono al punto di rendere i test facoltativi, per enfatizzare invece la “valutazione olistica”.

È probabile che l’attuale guerra al merito sia controproducente quanto lo è stato l’attacco alle scuole selettive nella Gran Bretagna degli anni Sessanta e Settanta: i bambini della classe media troveranno molto più facile ingannare un sistema basato su temi e dichiarazioni personali rispetto a ingannarne uno basato sui risultati ottenuti attraverso esami.

Questo assalto al merito si estende oltre il cortile della scuola e penetra nelle sale riunioni. Le aziende stanno introducendo quote formali o informali in nome dell’“equità” (che sta prendendo sempre più il posto delle “pari opportunità” come misuratore della giustizia). L’allentamento degli standard meritocratici ridurrà l’efficienza economica dal momento che vediamo sempre più pioli quadrati inseriti in fori rotondi. E questo sarà anche un fenomeno che amplifica se stesso: una delle regole su cui si può fare più affidamento nella vita è il fatto che le persone di second’ordine nomineranno sempre delle persone di terz’ordine per proteggere se stesse dal rischio che qualcuno si accorga che sono di second’ordine.

È preoccupante vedere come questo spaventoso attacco ai principi meritocratici provenga tanto da destra quanto da sinistra. Donald Trump non ha solo dato posizioni di potere ai membri della sua famiglia – cosa che è forse una tradizione americana consacrata, ancorché vergognosa – ma ha anche lasciato vacanti un numero senza precedenti di posizioni dirigenziali, dal momento che ha spinto migliaia di esperti a chiedere il pensionamento anticipato.

La guerra alla meritocrazia sarebbe autodistruttiva anche se l’Occidente dominasse incontrastato. Ma questa guerra avviene invece nel momento in cui l’Occidente sta affrontando la sua più grande sfida fino a oggi: l’ascesa della Cina e del capitalismo di Stato autoritario. La Cina è stata per molti versi la pioniera della meritocrazia: per più di un millennio è stata governata da un’élite di mandarini selezionata in tutto il Paese attraverso gli esami più sofisticati del mondo.

Il sistema è morto perché non è riuscito ad adattarsi all’esplosione della conoscenza scientifica: nel 1900 le domande erano più o meno le stesse del 1600. Ma ora la Cina sta facendo rivivere il suo antico sistema meritocratico: questa volta, però, è alla ricerca di scienziati e di ingegneri più che di studiosi confuciani. Stiamo così per apprendere che l’idea meritocratica può essere altrettanto potente al servizio dell’autoritarismo statale di quanto lo è stata finora al servizio della democrazia liberale.

La guerra al merito che è attualmente in corso è quindi una doppia minaccia per il mondo moderno. Priverà l’Occidente del suo dinamismo economico e allo stesso tempo incoraggerà i gruppi di interesse a competere per le risorse sulla base di diritti collettivi e risentimenti di gruppo. E sposterà inesorabilmente l’equilibrio del potere verso un regime post-comunista in Oriente che non ha tempo per i diritti individuali e i valori liberali.

Abbiamo ancora la possibilità di impedire questo processo – è vero – ma soltanto se siamo disposti a coltivare e a riparare quell’idea meritocratica che in precedenza ha reso l’Occidente vincente.

Adrian Wooldridge è il political editor dell’Economist ed è l’autore della column Bagehot. L’articolo che pubblichiamo in queste pagine è un estratto dal suo ultimo libro: “The Aristocracy of Talent: How Meritocracy Made the Modern World” (Allen Lane- Penguin Books).

La meritocrazia incoraggia le discriminazioni e legittima i privilegi, ma tanto non esiste. Eugenia Nicolosi su La Repubblica il 26/09/22

La meritocrazia è un costrutto sociale tossico e impossibile da trasformare in sistema reale: credere che si possa è pura fantasia. Anzi, già credere che il sistema sia meritocratico incoraggia l'egoismo, la discriminazione e l'indifferenza per le fasce di popolazione nate senza privilegi

Figure nascoste

Nell'immagine di copertina di questo articolo c'è una giovane Christine Darden, ingegnera aeronautica al Langley Research Center della NASA, dove ha iniziato a lavorare nel 1967, quando è stata assunta come "computer umano". Secondo la NASA, "Dopo aver tenuto la testa china su calcoli matematici ogni giorno per otto anni, Darden si è avvicinata al suo supervisore per chiedergli perché uomini con il suo stesso identico background rispetto a laurea, master ed esperienze sul campo, venivano invece assunti come ingegneri”. 

A quel punto lui l'ha trasferita alla sezione di ingegneria, dove è stata una delle poche donne a entrare per diventare, dopo tempo, la prima donna afro-americana a essere promossa al Senior Executive Service del Langley Research Center, il riconoscimento più alto nel servizio civile federale degli Stati Uniti. Durante i 40 anni di carriera è diventata vice responsabile del programma del TU-144 Experiments Program, un programma di ricerca legata all'alta velocità della NASA e, nel 1999, è stata nominata direttrice del Program Management Office dell'Aerospace Performing Center, dove era responsabile della gestione del traffico aereo e di altri programmi aeronautici attivi negli altri centri NASA. 

Ma sopratutto Christine Darden è una delle scienziate che ha tracciato le traiettorie per il Programma Mercury e la missione Apollo 11. "Spero che sappiate tutti che non ero nel film", ha detto lei stessa quando, qualche anno fa, è uscito il film “Il coraggio di contare", che parla proprio della storia di tutte le donne che hanno lavorato in silenzio per decenni nei settori della scienza e dell'informatica (ma accade in tutti i settori del mondo) per consentire a degli uomini di prendersi la fama e i meriti di scoperte, traguardi e successi. 

Lei infatti è una delle tante donne, per di più, afroamericane, il cui lavoro non è mai stato celebrato fino al libro da cui è tratto il film, “Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race”.

Le donne, inclusa Darden, che hanno lavorato ai progetti più noti della NASA risolvendo equazioni o scrivendo programmi per gli ingegneri non erano delle rarità in un ambiente molto maschile (e molto bianco) ma di fatto sparivano. 

"Alcune volte gli ingegneri mettevano i nomi dei computer ("computer" umani, proprio come Darden) sui rapporti che scrivevano, ma in genere era una loro decisione se farlo o meno", ha detto Darden aggiungendo che “la maggior parte delle volte il mio nome non veniva citato da nessuna parte". Gli ingegneri invece firmavano tutte le carte e ottenevano promozioni perché erano in vista, lasciando che le persone che facevano da computer restassero nell'ombra. 

Soltanto che per essere assunti come ingegneri occorreva essere appunto maschi e chiaramente anche bianchi. Insomma le persone che non erano uomini bianchi erano in un vicolo cieco. Darden, come molte altre, ha dovuto sfidare i suoi superiori e il sistema blindato che questi difendevano per fare carriera e ottenere il riconoscimento del suo lavoro, partendo da uno spazio di discriminazione in cui non aveva le stesse opportunità degli altri. Tra l'altro, una volta raggiunta la posizione di “ingegnera” ha scoperto che le donne e in particolare le donne delle minoranze etniche, non ricevano la stessa paga degli uomini seppure a parità di compiti. 

Chrstine Darden aveva lo stesso titolo di studi, lo stesso master e la stessa anzianità di colleghi che invece erano stati assunti per coprire ruoli più importanti. Stesso impegno, meriti diversi anzi nessun merito. Almeno finché lei - e il suo illuminato, per l'epoca, supervisore - non hanno cambiato le regole non scritte della segregazione. Quindi, in un sistema che, oggi come allora, prevede che le persone non abbiano le stesse opportunità di partenza a causa di etnia, sesso e classe di provenienza cosa è la meritocrazia?

Nessuno è neutro davanti alle persone

Dal giorno in cui arriviamo sul pianeta e apriamo gli occhi per la prima volta, ci viene insegnata questa pazza idea che se “lavori di più” e “fai meglio”, di certo avremo successo. Studiare sodo, non farsi bocciare, scegliere un corso di laurea con gli sbocchi lavorativi giusti e laurearsi presto e con un voto alto sono allora sufficienti per fare da base a una carriera di tutto rispetto (ma già andare all'Università è un privilegio, già non dover lavorare mentre si frequenta il liceo è un privilegio). 

Secondo il pensiero comune, più si lavora, migliore sarà la vita. E, naturalmente questo è vero o almeno lo è parzialmente: non si può negare che un buon lavoro, fatto con cura e impegno, abbia un ruolo nella costruzione di una qualche sicurezza economica. Ma è difficile, se si guarda bene, non vedere che la meritocrazia non esiste davvero, o che tanto meno è mai esistita. Anche volendo cancellare nepotismo e clientelismo resterebbero i pregiudizi cognitivi che ciascuno ha sulle persone e il bell'aspetto, come è già stato detto, già basterebbe a sporcare i processi di selezione basati esclusivamente sul merito ma non mancano sessismo, razzismo, classismo, omolesbotransfobia. 

Ci sono dall'altro lato invece affinità di background, elettive, legate alle cerchie che si frequentano o la inconscia volontà di aiutare qualcuno che appare più bisognoso: in ogni caso quindi le persone non possono essere imparziali o “giuste” nei processi di selezione e assunzione. Ed è naturale che sia così, non siamo macchine. Ma per quanto naturale è anche il motivo per cui alcune persone hanno una vita più facile e per cui parlare di meritocrazia non ha alcun senso, o quasi. 

Il concetto di privilegio è difficile da afferrare a pieno perché significa ammettere una volta per tutte che il successo di qualcuno non dipende esclusivamente dalla quantità o dalla qualità del suo impegno. 

Significa dire che forse il duro lavoro non è l'unica ragione grazie alla quale si ottiene quello che si ha e ammettendo questo significa dover anche inventarsi delle politiche che quel privilegio lo abbattono, fosse anche per un senso di giustizia o per senso del dovere, affinché chiunque possa arrivare dove vuole. Basta che si impegni. Rispetto al privilegio di genere per esempio, uno strumento sono le quote rosa: imporre a istituzioni e ad aziende di integrare o assumere un numero preciso di donne sulla base del totale degli uomini, significa garantire che una fascia di popolazione acceda a uno spazio a cui non avrebbe accesso. 

E il solo fatto che esistano le quote rosa ci dice che non viviamo affatto in un Paese meritocratico. Ma è un esempio ed è un esempio legato solo alle diseguaglianze di genere: a stabilire il dislivello del punto di partenza di ciascuno ci sono decine di fattori. Una persona povera, nera o donna non ha le stesse possibilità di un maschietto bianco che nasce nella parte giusta del mondo e in una famiglia ricca. 

Lui avrà accesso a scuole migliori, a Università migliori, i suoi genitori saranno amici di uomini potenti che un giorno gli daranno lavoro e grazie alle amicizie farà carriera. Il tutto senza doversi preoccupare di avere fretta di guadagnare dei soldi suoi, perché papà e mamma lo sosterranno economicamente durante tutti gli stage non pagati che farà e che sono necessari alla costruzione di un curriculum eccezionale, alla costruzione di network e competenze. E i suoi figli lo stesso.

Meritocrazia: un falso (e crudele) mito

La meritocrazia allora è solo un ideale nel quale ormai credono solo i politici di tutti i fronti, o almeno fingono di crederci, quando ogni tanto tornano sul tema per dire ai cittadini e alle cittadine che si impegneranno perchè denaro, potere, lavoro o università siano alla portata di tutti. Concettualmente e moralmente, la meritocrazia è presentata come l'opposto di sistemi come l'aristocrazia ereditaria, in cui la propria posizione sociale è determinata dalla nascita e da null'altro. 

In un sistema meritocratico infatti ricchezze e privilegi sono solo il giusto compenso di un merito e non il risultato di un evento fortunato, come per esempio la nascita in una famiglia ricca e privilegiata. E basta guardarsi intorno per capire che non è il sistema nel quale viviamo. Tuttavia la maggior parte delle persone non si guarda intorno e pensa che lo sia, ritenendo che i fattori esterni, come la fortuna e la provenienza da una famiglia benestante, siano molto meno importanti del duro lavoro. 

Sebbene ampiamente diffusa, la convinzione che il merito piuttosto che la fortuna determini il successo o il fallimento nel mondo è palesemente falsa. Anche perché il merito stesso è, in gran parte, il risultato della fortuna: il talento e determinate capacità infatti dipendono più dalla genetica che dall'esperienza e dagli studi, quindi di fatto si tratta di fortuna. E questo per non parlare delle circostanze fortuite che sono presenti in ogni storia di successo. 

Nel suo libro “Success and Luck” (“Successo e fortuna”) l'economista Robert Frank racconta le ambizioni e le coincidenze che hanno portato all'ascesa del fondatore di Microsoft Bill Gates nonché al successo dello stesso Frank. La fortuna infatti interviene e interviene sempre. Concede meriti e capacità e apparecchia circostanze favorevoli attraverso cui quelle capacità si trasformano in opportuniutà di successo. Questo non vuol dire negare il valore dell'impegno ma dimostra che il legame tra merito e risultato è, diciamo, vago e che anche nel migliore dei casi non è un legame diretto. La strada, insomma, non è dritta e non è piana. 

Secondo Frank è particolarmente vero quando il successo in questione è grande e il contesto in cui si ottiene è molto competitivo. Ci sono certamente programmatori abili quanto Bill Gates che tuttavia non sono mai riusciti a diventare la persona più ricca della Terra né sono riusciti a lavorarci insieme. In contesti competitivi molte persone hanno merito, ma poche riescono ad avere successo. Se ciò che separa i due gruppi non è la fortuna allora cosa? Oltre a essere un falso mito, un crescente corpus di ricerche in psicologia e neuroscienze suggerisce che credere nella meritocrazia rende le persone più egoiste, meno autocritiche e ancora più inclini ad agire in modi discriminatori. 

La meritocrazia non è solo un sistema fasullo, è un sistema crudele. Frank cita uno studio in cui è stato scoperto che basta chiedere ai soggetti partecipanti di ricordare i fattori esterni (fortuna, aiuto degli altri) che avevano contribuito al loro successo nella vita per renderli propensi a donare in beneficenza. Al contrario, meno propensi a donare erano quelli a cui veniva chiesto di ricordare i fattori interni (sforzi, abilità, stanchezza). 

E, ed è inquietante, emerge che il semplice fatto di considerare la meritocrazia un valore promuove comportamenti discriminatori.

Due studiosi, uno di management al Massachusetts Institute of Technology, un sociologo dell'Università dell'Indiana, hanno studiato i tentativi di avviare pratiche meritocratiche, come per esempio stabilire l'entità dello stipendio sulle reali prestazioni. 

Hanno scoperto che, nelle aziende che ritenevano esplicitamente la meritocrazia un valore fondamentale, i manager assegnavano maggiori ricompense ai dipendenti di sesso maschile rispetto alle dipendenti di sesso femminile con valutazioni identiche delle prestazioni. La preferenza – quindi la differenza di paga – è subito scomparsa laddove la meritocrazia non è stata esplicitamente adottata come valore. Questo è sorprendente perché l'imparzialità dovrebbe essere il fulcro, almeno morale, della meritocrazia. Eppure i due studiosi hanno scoperto che, ironia della sorte, i tentativi di implementare la meritocrazia portano proprio al tipo di disuguaglianze che la meritocrazia stessa mira a eliminare. 

Suggeriscono che questo "paradosso della meritocrazia" si verifica perché l'adozione esplicita della meritocrazia come valore convince i soggetti del proprio senso etico e, soddisfatti di essere così “giusti”, diventano meno inclini a esaminare il proprio comportamento alla ricerca di segni di pregiudizio sessista, razzista e così via. 

La meritocrazia è quindi una credenza falsa e decisamente poco salutare per tutte le persone. Discriminate e discriminanti. Come con qualsiasi ideologia, parte della sua attrattività è che giustifica lo status quo spiegando perché le persone sono dove sono nell'ordine sociale. È un principio psicologico ben consolidato che ci racconta che le persone preferiscono credere che il mondo sia in qualche modo giusto. Tuttavia, oltre alla legittimazione, la meritocrazia offre anche l'adulazione: dove il successo è determinato dal merito, ogni vittoria può essere vista come un riflesso della propria virtù e del proprio valore. 

La meritocrazia è quindi il più autocelebrativo dei principi di distribuzione, è una magia che trasforma la disuguaglianza materiale in superiorità personale e concede ai ricchi e ai potenti di vedersi come legittimati a esserlo, in quanto produttivi. Sebbene gli effetti folli del falso mito della meritocrazia siano più spettacolari se raccontati parlando delle élite, quasi tutte le persone possono dire di avere un qualche privilegio e quindi i risultati di chiunque possono essere letti attraverso la lente della falsa meritocrazia. 

Questo è il motivo per cui i dibattiti sulla misura in cui particolari individui si sono "fatti da soli" e sugli effetti di varie forme di "privilegio" possono diventare anche abbastanza inutili. Partendo dal presupposto di vivere in una meritocrazia, l'idea stessa che il successo personale di qualcuno sia il risultato della "fortuna" può essere offensivo, indipendentemente da quanto quel qualcuno sia ricco o di successo. 

Nonostante la sicurezza economica (e l'adulazione) che la meritocrazia offre a chi ha successo, dovrebbe essere abbandonata sia come convinzione su come funziona il mondo sia come ideale sociale generale a cui aspirare. È un costrutto sociale tossico e impossibile da trasformare in sistema reale e credere che invece si possa è pura fantasia. Anzi, già la credenza che il sistema sia meritocratico incoraggia l'egoismo, la discriminazione e l'indifferenza per le fasce di popolazione nate senza privilegi.

Eugenia Nicolosi. È giornalista, scrittrice e attivista femminista e del movimento Lgbtqia+. Fa parte di e lavora con diverse associazioni e organizzazioni che promuovono la parità di genere e la parità di …

Vincitori e perdenti. Perché il concetto di meritocrazia è profondamente diseguale e ingiusto. Benedetta Barone su L'Inkiesta il 7 Maggio 2022.

Il professore di filosofia ad Harvard Michael Sandel si è interrogato a lungo sul tema della giustizia sociale. A Linkiesta spiega le ragioni del clima perpetuamente competitivo e performativo nel quale siamo immersi. Ma soprattutto che «sono la fortuna e la buona sorte a decidere il successo degli individui, nella maggior parte dei casi».  

Abbiamo sempre inteso la meritocrazia come un valore intrinsecamente positivo. Il fatto che i successi dipendano dagli sforzi, dall’impegno e dalla determinazione e non da fattori casuali e arbitrari implica che chi arriva al vertice, chi ottiene cariche di potere, chi insomma «ce la fa» è qualificato, competente e forte. All’interno di un Paese come il nostro, per giunta piagato a lungo da sistemi di corruzione e nepotismo, l’assegnazione in base al merito dovrebbe rappresentare un tassello di emancipazione evolutiva essenziale.

E se invece non fosse così?

Michael Sandel, filosofo statunitense, docente all’Università di Harvard e autore di La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, edito da Feltrinelli nell’aprile del 2021, non ha alcun dubbio: «La meritocrazia è ingiusta. Induce a dimenticarsi che sono la fortuna e la buona sorte a decidere il successo degli individui, nella maggior parte dei casi», spiega  a Linkiesta.

E la fortuna e la buona sorte, ancora oggi, sono sinonimi di disponibilità economica. Le università americane della Ivy League contengono una percentuale più ampia di studenti ricchi. Avere alle spalle una famiglia danarosa, potente conduce verso scelte precise a proposito dell’educazione e dei luoghi in cui riceverla, significa avere viaggiato di più, avere accesso a un giro di contatti che facilita la carriera.

In una parola: agevola.

Il cosiddetto ascensore sociale funziona, è ben oliato se si affronta da una posizione già alta. Nonostante il dinamismo dell’epoca storica globalizzata in cui viviamo, che avrebbe dovuto livellare e redistribuire le condizioni di partenza, il merito rimane una questione di privilegio. Al dunque, consolida una aristocrazia già esistente e scava differenze sempre più incolmabili tra gli individui.

«La fede cieca nella meritocrazia ci ha abituato a ritenere erroneamente che chi raggiunge dei benefici se li è guadagnati e perciò li merita. Al contrario, coloro che non ci sono riusciti meritano il loro destino, meritano di essere rimasti indietro e non hanno che da compiangere se stessi», spiega Sandel.

«La globalizzazione ha favorito i lavoratori di settori specifici, come ad esempio coloro che si muovono nell’ambito dell’industria finanziaria. Ne è esclusa la maggioranza dei lavoratori ordinari. La meritocrazia nasce come nobile progetto volto ad abbattere il privilegio ereditario, si proponeva come soluzione alla disuguaglianza ma ha promosso un atteggiamento nei confronti del successo che ha rinforzato e rafforzato la disuguaglianza stessa».

Questa sorta di lotteria tra i vincitori e i vinti è senz’altro un’estensione del clima perpetuamente competitivo e performativo nel quale siamo immersi. Ma ha anche radici più lontane e viscerali.

Le ha elencate, Micheal Sandel, nel discorso che ha tenuto alla Cattolica di Milano in occasione del ciclo di conferenze «Un secolo di futuro: l’Università tra le generazioni» per celebrare il centenario dell’ateneo.

Secondo il filosofo, è stata la cultura biblica occidentale a impartire la logica per cui azioni buone o cattive sono oggetto di ricompense o punizioni. L’idea che la condotta individuale, se virtuosa o deplorevole, ha il potere di decidere di un intero destino e addirittura conduce allo scarto tra condanna e salvazione appartiene alla storia delle nostre origini cristiane ed è oggi alla base dell’atteggiamento nei confronti del successo.

Chi produce e accumula ricchezze e per questo amministra la società sembra ritenere la prosperità sintomo e sinonimo di merito mentre la povertà è automaticamente espressione di pigrizia.

L’implicita tirannia di una concezione del genere trova un suo esempio primordiale nel libro di Giobbe. Giobbe è un uomo giusto, buono e meritevole, eppure l’ira e l’odio di Dio si scagliano lo stesso sul suo cammino. La vita diventa un calvario insopportabile senza apparente motivo e, soprattutto, anche a fronte delle più promettenti premesse.

È proprio questa mancanza di senso e di risposte che Sandel chiama a sostegno della sua tesi. La casualità a prima vista spiazzante della condizione umana, il fatto che la pioggia non giunge solo per nutrire e rendere fertili i terreni, ma anche per razziare e distruggere, libera dal peso gravoso della responsabilità e restituisce agli uomini la possibilità della creazione.

Oggi, il dibattito non riguarda più il concetto di salvezza. È stato spogliato di ogni sua dottrina religiosa ed è diventato laico, ma in fondo è sempre lo stesso. Crediamo ancora nell’ordine provvidenzialistico della meritocrazia. Il successo e le conquiste sono una cartina di tornasole delle capacità del singolo, dipendono da lui, e il buon esito delle sue manovre gli consente di considerarsi beatificato.

Come sosteneva il sociologo Max Weber, una persona fortunata raramente accetta di essere tale. Vuole convincere se stessa e gli altri di rappresentare qualcosa di più della semplice depositaria di un bene precario e privo di logica.  Allo stesso modo in cui oggi i potenti e i ricchi devono dimostrare a tutti i costi di essersi meritati e guadagnati la fortuna, senza capire che così reiterano la distanza con il resto della popolazione.

Riconsiderare l’assegnazione meritocratica non significa puntare al ribasso. Siamo tutti consapevoli della debàcle in cui è piombata la politica italiana quando si è consegnata all’appiattimento delle competenze per una retorica propagandistica e populista. Ma nell’ottica di Sandel, l’America di Donald Trump, l’Italia di Matteo Salvini, la Francia di Marine Le Pen, il Brasile di Jair Bolsonaro altro non sono che la reazione di un popolo sempre più scollato dalle cosiddette èlite, dalle quali si è sentito burlato e mal governato.

Bisogna che a prendere le decisioni siano i migliori sì, ma chi sono i migliori? Non certo coloro che hanno provocato la deregolamentazione dei mercati finanziari, la crisi del 2008, la delocalizzazione delle attività produttive nei paesi a basso reddito, e che si sono resi complici dell’attuale, spaventosa crisi climatica e ambientale.

Andrebbero valorizzati e rafforzati quei mestieri bistrattati dall’ingiusta retorica del merito, e che invece reggono l’intera società, come ci ha appena insegnato la pandemia: infermieri, corrieri, insegnanti, assistenti per l’infanzia, cassiere del supermercato, farmacisti, psicologi.

Insomma, anche e soprattutto chi si colloca apparentemente “in basso”.

«Alcuni critici ritengono che superare l’idea odierna di meritocrazia condurrebbe a un mondo in cui tutti hanno lo stesso reddito, la stessa quantità di ricchezza, e sono dunque tutti uguali nel senso più deprezzato del termine. Ma io penso che ci sia un’alternativa: una vasta uguaglianza democratica di condizioni. La democrazia non richiede un’uguaglianza perfetta tra tutti gli individui, ma che le persone appartenenti a background sociali diversi abbiano la possibilità di incontrarsi e di mischiarsi nel corso della vita quotidiana. Oggi questo non avviene, perché a seconda dell’accesso a determinate risorse economiche mandiamo i figli in scuole diverse, frequentiamo zone diverse della città, scegliamo mete diverse per le vacanze. Ma è attraverso la negoziazione di queste differenze che si costruisce il “common good”, il bene comune».

E no, la rivoluzione digitale non ha affatto contribuito a creare il progresso libertario di cui molti, quasi tutti, sono illusoriamente convinti. Secondo Sandel, i social network consolidano le opinioni di partenza, ci avvicinano a utenti e a gruppi e a communities che la pensano già come noi, con i quali condividiamo una struttura di base orientata nello stesso senso. Non creano, non moltiplicano, non ampliano. Anzi, spesso sono stati il veicolo maggioritario per posizioni ideologiche rancorose.

Per risultare davvero efficaci, devono diventare lo strumento di una nuova politica del bene comune che incoraggi la dignità del lavoro e il senso di solidarietà.

Fermo restando che il successo dipende da circostanze accidentali e fortuite della vita, non può coincidere con il potere. È necessario guardare all’altro secondo un processo di immedesimazione: io potrei essere lui, lui potrebbe essere me.

È da qui che nascono il riconoscimento, la stima sociale, e il concetto stesso di democrazia.

La guerra dei talenti. Roger Abravanel su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2022.

Nello scenario attuale l’Europa, dove cresce il populismo anti-merito di destra, risulta perdente.

Molte delle ideologie delle società occidentali sembrano oggi in crisi: la democrazia, il liberalismo, il capitalismo. Eppure, nella seconda metà del secolo scorso, una idea, nata a Harvard e battezzata meritocracy dal britannico Michael Young, era diventata una ideologia universale accettata da politici di destra e sinistra, oltre che dal mondo delle imprese e delle università. L’idea che il successo individuale dipendesse dalle capacità e dall’impegno di una persona e non dalla famiglia, conquistava il mondo facendolo evolvere da un sistema dinastico/feudale a una economia e società moderna. In parallelo a questa rivoluzione sociale non sanguinosa, l’evoluzione della economia da agricola a industriale a post industriale e oggi alla economia della conoscenza, ha trovato nella meritocrazia un motore formidabile e creato opportunità eccezionali per i migliori giovani americani inglesi ed europei. È stato un concetto che piaceva a destra perché metteva in risalto il successo individuale e a sinistra perché le pari opportunità erano una versione più moderna della giustizia sociale. Eppure, nel nuovo secolo, la meritocrazia è finita sotto attacco proprio dove è nata: Michael Sandel, professore a Harvard, autore di «La tirannia del merito», propone di utilizzare una lotteria per selezionare chi è ammesso. Con lui decine di docenti e politici liberal uniti in un movimento anti-meritocrazia accelerato dai movimenti anti-razzisti, dalle cancel culture e dai woks. Le critiche provenivano soprattutto da sinistra perché la meritocrazia non ha realizzato l’«ascensore sociale» grazie all’istruzione superiore: è nata una vera «aristocrazia 2.0», nella quale i talenti diventati ricchi grazie alla laurea in università prestigiose favoriscono i figli in tutti i modi nella selezione per l’ accesso a Harvard e Oxford. In «Aristocrazia 2.0 le nuove élite per salvare l’Italia» avevo spiegato perché, se sicuramente queste critiche hanno un senso perché le pari opportunità non si sono realizzate, i pregi della meritocrazia la rendono insostituibile. Non contano le «pari opportunità» (che sono una utopia) ma le «buone opportunità» che élite eccellenti e sensibili al bene della società creano per tutti.

Poi è arrivato il Covid e le critiche populiste sono andate in quarantena per poi risvegliarsi grazie al conflitto in Ucraina. Questa volta però le critiche vengono soprattutto dalla politica, con un taglio più di destra, anche se non dissimile da quello filo-socialista, perché diffida della competizione globale e delle élite economiche create dalle grandi università. Le mid-term americane indicano un possibile ritorno dei repubblicani sempre più trumpiani (gli elettori del nepotista Trump sono bianchi non laureati), in Francia crescono le destre anti-Europa e da noi esplodono i rigurgiti anti-globalizzazione (un ex ministro del tesoro italiano del centrodestra l’ha appena definita una utopia). La competizione globale (e con essa la meritocrazia) è così in ritirata di fronte ai tank russi, mentre si manifesta per le strade contro il caro-benzina e meno per i Fridays for the future di Greta Thunberg.

È ormai chiaro però che il vero problema a medio termine dell’Occidente non è il caro-benzina, ma la Cina che ha già avuto «la sua Ucraina», che si chiama Hong Kong e rischia di invadere Taiwan, dove si produce la maggioranza dei semiconduttori del mondo.

La ricetta dei nuovi protettori dell’Occidente contro il rischio Cina? Isolazionismo economico del blocco occidentale democratico, con gli Usa che si impegnano a rallentare la crescita cinese, anche a rischio di bloccare quella globale, con sanzioni, protezionismo ecc. E il «merito» delle loro élite sarà più la capacità di lobby e il populismo che l’eccellenza nell’istruzione e nella competizione. Purtroppo è una strategia suicida che attacca i fondamentali di 200 anni di sviluppo dell’Occidente. L’alternativa? Una strategia «Obama-like» di collaborare per competere, proponendo alla Cina uno «scambio» tra difesa della globalizzazione, condivisione dei costi della emergenza climatica (che interessano alla Cina) e un atteggiamento non minaccioso militarmente verso gli alleati democratici in Asia: Taiwan, Corea, Giappone (che interessa agli Usa).

Quest’alternativa renderà necessarie élite ultra-meritocratiche per affrontare le già difficili sfide pre-Ucraina, oggi ancora più complesse. La meritocrazia dei talenti diventerebbe ancora più cruciale. I suoi nemici populisti negli Usa non avranno granché successo perché i suoi valori sono ancora ben presenti nella società americana.

Quanto alla Cina, mentre gli Usa criticavano la meritocrazia, la Cina ne abbracciava appieno l’ideologia: nel suo discorso al congresso nazionale del partito comunista del 2017, Xi ha sottolineato come fosse essenziale ritornare ai valori meritocratici dei mandarini e di Confucio. E così che nel nuovo secolo la Cina, ispirandosi a Singapore, ha realizzato una macchina dello Stato e della politica ultra-meritocratica selezionando i migliori laureati per farne leader dell’amministrazione pubblica e di colossi globali high tech e producendo università che scalano le classifiche dei migliori atenei del mondo. E la aristocrazia 2.0 cinese non è molto diversa da quella americana: la figlia di Xi si è laureata a Harvard.

Questo scenario rischia di vedere un solo perdente, l’Europa, vero sick man dell’Occidente e già in ritardo nella competizione per l’economia della conoscenza, dove il crescente populismo anti-merito di destra si allea con gli oppositori tradizionali della meritocrazia 1.0, quelli che la considerano nemica della giustizia sociale da quando è nata nel secolo scorso. Ne è la prova la pressione per chiudere il tempio della meritocrazia francese, l’Ena (dove si è laureato Macron), mentre il Mit reinserisce il test d’ingresso Sat.

All’interno dell’Europa, il nostro Paese è di gran lunga il maggior perdente di questa guerra per i talenti dell’economia della conoscenza perché da noi la meritocrazia non è mai nata, eppure viene osteggiata più violentemente che negli Usa. I suoi nemici sono coloro che non vogliono perdere i propri privilegi: imprenditori campioni di un capitalismo familista, docenti universitari nemici della competizione e magistrati che proteggono la loro totale autoreferenzialità con la scusa della «indipendenza dalla politica», rendendo così impossibile la nascita di uno Stato amico della crescita economica.

Tra mediocri e disonesti tocca agli elettori salvare la democrazia. Nicola Daniele Coniglio su la Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Aprile 2022.

«La verità è che la città governata da coloro che sono meno desiderosi di farlo sarà quella governata meglio». Lo scriveva circa 2400 anni fa il filosofo Greco Platone nel «Mito della Caverna» (La Repubblica VII) ma il dibattito a queste latitudini sulla qualità di chi governa non è cambiato molto nel tempo.

Gli ennesimi cambi di casacca nella Giunta regionale pugliese confermano l’abbondante (per fortuna non totale) presenza di politici per professione e non per vocazione. Si cambia squadra come calciatori professionisti ma invece di fare gol bisogna portare voti per assicurarsi una poltrona in prima squadra (e i compensi economici ad essa associati). Questi cambiamenti spavaldi - e contrari alla volontà degli elettori - certificano l’assenza da parte di chi li fa e di chi li accetta di un’idea precisa e distinta dell’essere «servitori della collettività» e di quello che serve per migliorare il benessere collettivo. Una casacca vale l’altra. Triste. Molto triste ma, piuttosto che soffermarci sulla cronaca quotidiana, è importante ed utile - soprattutto per quando andremo nuovamente a votare - cercare di capire il perché molto spesso il risultato delle urne è una grande percentuale di rappresentanti politici di scarsa competenza. Perché talvolta vengono eletti in prevalenza «cattivi politici» che disegnano politiche inadeguate che non solo portano ad uno spreco di risorse pubbliche ma anche a vere e proprie trappole di sottosviluppo.

I rappresentanti politici - ad ogni livello, dai parlamentari ai rappresentanti delle circoscrizioni comunali - sono il risultato dell’incontro in una competizione elettorale tra offerta (i candidati che si propongono alle elezioni) e domanda (elettori che scelgono attraverso il voto).

Una prima ipotesi è che il cortocircuito che porta ad una scarsa qualità degli eletti sia legata a fattori che caratterizzano l’offerta, ovvero alla bassa «qualità» in termini di competenza di chi si propone alle competizioni elettorali. È questa la tesi di un brillante lavoro scientifico di due economisti italiani, Massimo Morelli e Francesco Caselli, dal titolo emblematico Bad Politicians (cattivi politici), pubblicato sul «Journal of Public Economics». Il punto di partenza della teoria di Caselli e Morelli è che le persone di minore qualità hanno un vantaggio nel cercare una carriera «professionale» in politica. Tale vantaggio è dovuto al fatto che, secondo questa teoria, data la loro minore competenza, le opportunità che essi avrebbero nel mercato del lavoro sarebbero poco remunerative. Al contrario, i candidati potenziali di elevata qualità per «scendere in politica» dovrebbero rinunciare (almeno in via temporanea) ad attività lavorative soddisfacenti e remunerative.

Un discorso simile vale per un’altra caratteristica desiderabile per un politico: l’onestà. Un cittadino disonesto potrebbe avere una maggiore propensione a candidarsi ad una posizione di rappresentanza politica perché considera tra i potenziali vantaggi anche i frutti delle attività di tipo predatorio ai danni della società.

Anche se gli elettori preferiscono i candidati di migliore qualità, queste due considerazioni suggeriscono che in una competizione elettorale ci potrebbero essere problemi di «offerta». Gli elettori potrebbero trovarsi di fronte ad un pool di candidati in prevalenza composto da «cattivi politici». Tanto più bassi sono gli incentivi a candidarsi per le persone di maggiore qualità, tanto più grave sarà questo problema di offerta. Gli incentivi non sono solo economici (ovvero quanto guadagna un rappresentante politico) ma anche non economici come lo status sociale, il prestigio o la reputazione associati alla carica politica. Qui entra in gioco un altro meccanismo perverso: quanto più bassa è la qualità della rappresentanza politica tanto più basso sarà il valore dello status sociale. Quando un luogo è governato da cattivi politici la reputazione e il prestigio diventano stigma e quindi sempre minore sarà la volontà degli individui migliori di candidarsi alle competizioni elettorali.

Ovviamente si tratta di una teoria che, per sua natura, è una rappresentazione semplicistica ed estrema della realtà. Le nostre istituzioni sono fortunatamente popolate anche da molti politici competenti e motivati da un genuino interesse a migliorare il benessere collettivo. È innegabile però che queste considerazioni della teoria di Caselli e Morelli hanno un ruolo nell’abbassare il livello qualitativo di chi governa.

Un altro elemento importante è legato alla difficoltà per il singolo elettore di determinare la qualità di coloro che si candidano. Acquisire informazioni precise è costoso, richiede tempo e volontà. Gli elettori disattenti o scoraggiati sono meno disposti a informarsi e fare scelte di voto più oculate. Molti di questi elettori decidono semplicemente di non esercitare il loro diritto. Il trend dell’astensionismo nel nostro Paese è in forte crescita: alle politiche del 1948 votò il 92% degli italiani contro meno del 73% nel 2018. L’inerzia degli elettori rende il problema della selezione dei rappresentanti ancora più acuto e problematico.

L’astensionismo e lo scoraggiamento dei cittadini non è però la risposta che serve. Il benessere di una collettività dipende fortemente dalla capacità di esprimere rappresentanti che siano migliori della «media» per competenze e qualità morali. Le scelte collettive sono complesse e richiedono che siano fatte da persone in grado di comprendere tale complessità (persone competenti e non necessariamente tecnici) e con l’onestà di prendere decisioni in linea con l’interesse degli elettori. Come fare affinché l’élite politica rappresenti il meglio e non il peggio della società? Molto spesso votiamo con disattenzione o, per inerzia, non puniamo nelle urne i «cattivi politici» anche dopo conclamate dimostrazioni di incompetenza o di disonestà. Solo con una forte domanda di buona politica da parte dei cittadini anche l’offerta politica potrà iniziare a cambiare nella direzione giusta. Se cresce l’astensionismo e lo scoraggiamento degli elettori le considerazioni di Platone saranno valide ancora per molto tempo. Elettori attenti ed esigenti rendono l’utopia di una rappresentanza migliore realizzabile.

Francesco Pacifico e Fabio Rossi per ilmessaggero.it il 17 gennaio 2022.

L’hanno scelta in pochissimi romani - soltanto un elettore su dieci è andato a votare, con un’affluenza bassissima all’11,33 per cento - ma Cecilia D’Elia (Pd) è da ieri sera uno dei 1.009 grandi elettori del prossimo presidente della Repubblica. 

L’esponente - vicina al governatore Nicola Zingaretti, oggi responsabile della Consulta femminile del partito e in passato assessore comunale e provinciale - ha stravinto con il 59,4% alle suppletive per la circoscrizione Lazio 1 della Camera, e ha conquistato il seggio lasciato da Roberto Gualtieri, una volta eletto al Campidoglio. 

Proprio il sindaco di Roma è stato il primo a chiamarla per complimentarsi. Dietro gli altri sfidanti: ferma intorno al 22,42% Simonetta Matone, ex magistrato e capogruppo della Lega in Assemblea capitolina; al 12,93% Valerio Casini, di Italia viva, consigliere comunale appoggiato anche da Azione, che non ha bissato in centro storico l’ottimo risultato ottenuto da Carlo Calenda alle scorse comunali. Più indietro Beatrice Gamberini di Potere al popolo (3,24%) e il civico Lorenzo Vanni (1,97%), titolare di un caffè molto noto nel quartiere Prati.

Collegio sicuro

D’Elia partiva favorita nella corsa al seggio lasciato vacante dal nuovo sindaco di Roma. Non fosse altro perché il Lazio 1 - 218 sezioni tra centro storico, Testaccio, Prati, Trionfale e al di là di pezzi della più destrorsa Vigna Clara - è da sempre un collegio blindato della sinistra. 

Nella seconda Repubblica, e con l’introduzione del maggioritario, soltanto una volta il centrodestra aveva vinto: nel 1994 con Silvio Berlusconi contro l’ex ministro Luigi Spaventa, con Forza Italia fondata da meno di un anno e sull’onda della promessa di «un nuovo miracolo italiano». 

Già dal 1996, da qui, sono schizzate verso l’alto le carriere politiche nazionali di esponenti come Walter Veltroni, Giovanna Melandri o Paolo Gentiloni. Mapiù che l’esito della votazione, indicativo è il tasso di astensione: l’11,33 per cento, perché hanno votato soltanto 21.010 persone su oltre 185mila aventi diritto.

Mai si è registrato un numero tanto basso. A nulla sono serviti gli appelli dei grandi leader politici per il voto: ieri pomeriggio, e a seggi ancora aperti, Matteo Salvini ha invitato a votare per la candidata del centrodestra Simonetta Matone via social, non incorrendo nella violazione del silenzio elettorale che vale solo per la stampa tradizionale. Mentre il leader dem, Enrico Letta, non è andato oltre il postare (e sempre ieri) una foto della bacheca del seggio, dove aveva appena votato. 

D’Elia ci tiene a sottolineare: «Nel 2020 Gualtieri, che quando fu votato era ministro e non si era ancora nel pieno della pandemia, fu stato scelto dal 17 per cento degli elettori. Non ci vedrei messaggi politici rilevanti in questo dato». Invece Matone reputa «la bassa affluenza il frutto della congiura del silenzio, insistentemente praticata dalla sinistra». Con l’elezione di D’Elia il centrosinistra, compresi i delegati regionali, ha 430 voti per l’elezione del presidente della Repubblica: «Concordo con il mandato dato a Letta dall’assemblea - dice la neodeputata - si deve trovare un nome condiviso e, contemporaneamente, un patto di legislatura».

Prima le competenze. I sei errori della Pubblica Amministrazione nel reclutamento dei nuovi talenti. Alessandro Verbaro su L'Inkiesta il 5 Luglio 2022.

La PA si rivela come un datore di lavoro poco preparato nell’affrontare la grande sfida del mercato. Sono tanti gli aspetti da cambiare. Per iniziare, bisognerebbe assumere i migliori rispetto alle funzioni, ai compiti e ai cambiamenti delle singole amministrazioni

La necessità di coprire fabbisogni tecnici e specialistici, esigenza per anni trascurata, ha obbligato la Pubblica Amministrazione a misurarsi per la prima volta con il mercato del lavoro per attrarre e reclutare le competenze più qualificate oggi necessarie.

Un mercato nuovo, più competitivo per certi versi, in cui i lavoratori scelgono i datori di lavoro sulla base di elementi di attrattività e di interesse non facilmente riscontrabili nel settore pubblico. I primi risultati pertanto non sono stati positivi. Concorsi con pochi partecipanti, con pochi idonei, con un numero elevato di dimissioni dopo pochi mesi, con partecipanti poco preparati o senza le competenze richieste, come è accaduto con i bandi “Coesione”, del ministero dei Trasporti, professionisti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) o Regione siciliana.

La Pubblica Amministrazione si rivela come un datore di lavoro poco preparato nell’affrontare la grande sfida per tutte le organizzazioni pubbliche e private, nell’era delle grandi transizioni, quale è quella del reclutamento.

Non è facile dare un contributo tecnico sul reclutamento a un settore che non è abituato a raccogliere dati, elaborarli e ricavarne informazioni per migliorare il processo. E che non è abituato a rendere pubblici i pochi dati che ha. La Pubblica Amministrazione, ad esempio, non conosce l’attuale stato occupazionale dei candidati, né da quanto tempo sono in cerca di lavoro, né le precedenti esperienze lavorative. Basterebbe per questo migliorare i format per la partecipazione ai bandi. Né ci si chiede perché siano così numerose le dimissioni nei primi anni di lavoro. Sono dati che le amministrazioni competenti, Dipartimento funzione pubblica e Ministero dell’Economia, non hanno. Così come non si posseggono dati di dettaglio sui pensionamenti e le dimissioni, se non in termini di spesa. Basterebbe per questo realizzare una collaborazione permanente con il Ministero del lavoro sulle comunicazioni obbligatorie e con l’Inps sulle cessazioni e non solo. Lavorare con i big data esistenti sulla Pubblica Amministrazione per migliorare sia la programmazione sia i processi di reclutamento, così da fare scelte (e annunci) data driven e non sull’onda della continua emergenza.

In mancanza di dati puntuali sui partecipanti ai bandi e sugli esiti qualitativi di queste procedure, possiamo fare comunque alcune considerazioni di carattere generale su alcuni errori compiuti finora e da evitare.

Un primo grande errore della Pubblica Amministrazione è quello di reclutare alla cieca, senza dati e informazioni. A parte i posti vacanti da coprire nel rispetto degli organici e dei tetti di spesa, c’è altro. Bisogna assumere i migliori rispetto alle funzioni, ai compiti e ai cambiamenti delle singole amministrazioni. 

Un secondo errore è scambiare le conoscenze con le competenze. Se per le prime bastano i titoli di studio, ovviamente elevati, per le seconde serve richiedere e valutare i titoli esperienziali, da sempre poco valorizzati nella Pubblica Amministrazione. I neolaureati possono abbassare l’età media dei dipendenti pubblici, oggi ben sopra i 50 anni di età, ma a parte un approccio meno condizionato, non sono dotati di competenze tali da realizzare i programmi, progetti, bandi, rendicontazioni, previsti dal Pnrr.

Terzo. Lo scambio tra inamovibilità del posto e retribuzione bassa, nonché insensibile al merito, al rischio e alle responsabilità, che ha governato per decenni le politiche sul lavoro pubblico, non regge più. Basti osservare i cambiamenti in corso nel mercato del lavoro. Per le ultime generazioni la stabilità del posto non è dirimente come lo è stato per anni. Tra l’altro il posto fisso della Pubblica Amministrazione assume le sembianze del posto morto, se si tiene conto delle basse opportunità di crescita professionale ed economica.

Quarto. La scarsa conoscenza del mercato del lavoro porta a non accorgersi che da anni il settore privato non riesce a trovare competenze qualificate e soffre di un importante e crescente mismatch. Non si comprende perché questo non dovrebbe riguardare anche il settore pubblico, che ha meno leve per attrarre i talenti e le competenze tecniche. Da anni le imprese si lamentano della difficoltà di trovare lavoratori con competenze specialistiche e tecniche a causa dei pochi laureati, soprattutto nelle materie Stem. Competenze che richiedono inquadramenti giuridici ed economici superiori a quelli riconosciuti dalla Pubblica Amministrazione. Un errore non aver fatto partire subito la quarta fascia di inquadramento, certamente più interessante dal punto di vista economico.

Quinto. La Pubblica Amministrazione ha ricominciato a reclutare secondo vecchie logiche, non accorgendosi che il mondo attorno era nel frattempo cambiato. La crisi demografica, la crisi della filiera formativa, i problemi di skill mismatch o i fenomeni di dimissioni volontarie, ad esempio, non riguardano solo il settore privato. L’offerta di lavoro è asfittica, non sempre qualificata, ma soprattutto più attenta al benessere lavorativo e al work life balance. Non vi è consapevolezza negli uffici del personale e nell’agenzia del Governo Formez su come stia cambiando il mercato del lavoro e soprattutto dei comportamenti delle ultime generazioni rispetto al mercato del lavoro. 

Sesto. Reclutare attraverso maxi concorsi unici, generalisti, e non definiti per specializzazione professionale ha ben poco di attrattivo e ricorda molto la “pesca a strascico”. Sarebbe stato meglio fare concorsi specifici per profilo, con percorsi formativi ex post di ingresso e un’attività di recruiting marketing.

In generale, la crisi della filiera formativa, dalle scuole medie, con le alte percentuali di drop out e le pessime performance nelle classifiche Pisa Ocse, all’università non dovrebbe preoccupare, come accade da anni, solo il datore di lavoro privato ma anche il datore di lavoro pubblico. 

Non coprire tutti i posti banditi sta portando alla conclusione errata di dover abbassare il livello di difficoltà dei quiz, non preoccupandosi di attivare così un meccanismo di selezione avversa. 

La bassa preparazione evidenziata in molti concorsi rivela non solo un problema di qualità degli studi e di attrattività dei migliori, ma soprattutto un basso impegno derivante da sfiducia e scarso entusiasmo verso il lavoro nella Pubblica Amministrazione. Una migliore reputazione, inquadramenti adeguati e la presenza di scuole di specializzazione sarebbero stati molto utili per migliorare l’employer attractiveness.

Se per la Pubblica Amministrazione il punto di forza sul mercato del lavoro è stato e rimane il “posto fisso”, questo ai giovani della great resignation interessa poco o spaventa. In carriere lavorativa di oltre 40 anni, è difficile che le generazioni di oggi possano e debbano fare sempre lo stesso lavoro e pertanto elementi di attrazione e retention diventano le opportunità di carriera, le esperienze di mobilità presso altri soggetti pubblici e privati e all’estero, i percorsi di aggiornamento, il lavoro “agile”, così come il welfare aziendale. Una cura del capitale umano che manca storicamente nella Pubblica Amministrazione.

I lavoratori oggi vogliono scegliere il datore di lavoro, possono permetterselo e non hanno paura di cambiare lavoro, soprattutto se competenti. Ignorare tutti questi elementi non solo significa reclutare male, ma sprecare tempo e risorse finanziarie e umane.

Il paese sciuè sciuè. L’amore degli italiani per il potere e il disprezzo verso i perdenti. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 5 Luglio 2022.

I nostri concittadini esaltano i politici che reputano infallibili con la stessa facilità con cui poi li abbandonano una volta andati a sbattere. Sognano il salvatore (o la salvatrice) della Patria, ma i miracoli non esistono e continuare a rincorrerli porta alla rovina.

Uno dei sintomi più eloquenti dell’irrazionalità che domina la dialettica democratica in Italia è che nel “chi sale e chi scende” del borsino della politica, cioè nei sondaggi e negli indici di popolarità, non c’è nulla che rimandi a qualcosa di oggettivo, a una diversità di proposte o di risultati, di contenuti o di stile, di etica o di estetica. 

Questo borsino appare invece il regno del soggettivo e del percepito, in cui tutto sembra dipendere da un’aura impalpabile, che circonfonde i personaggi del teatrino della politica, iscrivendoli tra i vincenti o i perdenti, tra i potenti o i patenti e quindi li porta su e giù, senza che queste oscillazioni fotografino un mutamento reale degli orientamenti prevalenti nella società, anche quando le preferenze per partiti e relativi leader sembrano cambiare in modo repentino e capriccioso e terremotare gli equilibri del Palazzo.

Si sarebbe tentati di credere a una sorta di dissociazione psichica dell’elettorato, che si fa prima piacere e poi dispiacere qualcuno per le stesse ragioni, che poi sono le medesime per cui si innamorerà e disamorerà di qualcun altro. Ci sono però ragioni antropologico-politiche molto più adeguate di quelle psichiatriche per spiegare questo fenomeno e per capire come purtroppo l’Italia sia ancora lontanissima dallo svegliarsi dal sonno dogmatico della politica miracolo e spettacolo.

Il Matteo Salvini vincente era quello della ruspa e della felpa, del cattivismo esibizionistico e sguaiato, delle foto immagine con rosari e carabinieri, mitragliette e pregiudicati: «Io, indagato tra gli indagati», commentò olimpicamente a fine 2018 l’allora ministro degli Interni a chi gli faceva notare l’incongruenza del suo abbraccio sorridente con un capo ultrà milanista, condannato per spaccio di droga. 

Sei mesi dopo, incurante di tutto e senza un graffio nella reputazione, Salvini avrebbe portato la Lega “legge e ordine” al 34 per cento alle elezioni europee, osannato anche da quel pezzo di Italia, che gli avrebbe poi voltato le spalle dopo il Papeete, un evento iconograficamente indistinguibile da tutti i precedenti salviniani, tranne che per il suo esito, cioè l’auto-espulsione del Capitano dal perimetro potere, che lo rese  oggettivamente ridicolo e sfigato, come sempre più sarebbe apparso anche in seguito, nel suo affannoso dimenarsi per recuperare le posizioni.

Se non c’è nessuna differenza sostanziale tra il Salvini vincente e quello perdente, ce ne sono pochissime e in larga misura irrilevanti tra il Salvini calante e la Meloni crescente. Stessa agenda, stesso stile, stessi amori, da Donald Trump, a Viktor Orbàn, a Vladimir Putin. Stesso nazionalismo recriminatorio, stesso collateralismo corporativo, stessa impudenza xenofoba, stesso miracolismo economico, stessa ruffianeria religiosa. Sono di fatto uguali e dunque sono incompatibili in un gioco in cui, a comandare, ne può rimanere solo uno, e in cui l’opinione pubblica riconosce al volo chi è destinato a essere preda e chi predatore.

Presentare la crescita di Meloni ai danni di Salvini, il cui inizio risale a ben prima della guerra all’Ucraina, come un apprezzamento delle credenziali atlantiste della leader di Fratelli d’Italia è uno dei più spettacolari auto-inganni della nostra informazione sciuè sciuè.

Sull’altro versante, si giunge alla stessa conclusione anche rispetto alla parabola del Movimento 5 stelle e alla popolarità di Giuseppe Conte, che è lo stesso personaggio che stava alla Presidenza, parla allo stesso modo pretesco e allusivo e usa lo stesso registro un po’ lecchino e un po’ minaccioso, con cui spiegava agli italiani durante la prima ondata del Covid che finalmente poteva consentire loro di uscire di casa – lui «consentiva» – e gli italiani sembravano adorarlo, mentre adesso sembrano non apprezzarne più tanto stile e contenuti, che però non sono affatto cambiati, da quando a Palazzo Chigi deve chiedere appuntamenti, e per farlo deve minacciare pure la crisi di governo, e non può più darne come quando lo Stato era lui e Rocco Casalino era Richelieu.

Tutto questo porta a concludere, assai poco ottimisticamente, che il borsino della politica continua sismicamente a registrare movimenti di posizione, cui non corrispondono però effettivi spostamenti di opinione; che le ambasce di Salvini non segnano la crisi del sovranismo, né le angosce di Conte il tramonto del populismo e che l’aura del potere continua a essere l’attributo erotico fondamentale delle leadership politiche, in un Paese che, nelle sue perduranti convulsioni antipolitiche, sogna di guarire dal male per il tocco magico di un re taumaturgo e aspetta che finalmente arrivi quello vero, rottamando via via gli impostori, ma sprofondando sempre più nell’impostura.

Perfino il consenso per Mario Draghi, che corre parallelo a quello per partiti che, per la gran parte, non hanno nulla a che fare con lui, purtroppo rischia di avere questo segno servilmente poterista, più che consapevolmente riformista.

Anche Draghi, alla fine, forse piace così tanto perché è uno che non ha mai perso, che governa senza nulla concedere agli esecrati inciuci parlamentari, che non ha partito e non ne vuole, che sta al di là o al di qua della politica e con la politica non si vuole mischiare. Non è colpa di Draghi, certo, ma è la ragione per cui della sua esperienza di governo rischia di rimanere un malinteso esempio e non il più profondo insegnamento: che in politica i miracoli non esistono e continuare a rincorrerli porta alla rovina.

“L’Avvocato del popolo” e il “Capitano” degli italiani: quando l’abito non fa il monaco. Massimo Carugno, Avvocato e scrittore, su Il Riformista il 4 Luglio 2022 

“Il giardino dei Finzi-Contini”, lo intitolò Giorgio Bassani. In verità la saga giovanile che si svolge nella villa della ricca famiglia ferrarese non c’entra nulla con il tema del momento ma quel “Contini” è di una bellezza assoluta.

E già perché è la crasi di Conte e Salvini, i due bad boys del momento. Così stranamente diversi, Giuseppe un esordiente e Matteo un evergreen, il primo che non abbandona lo stile british neanche quando è nella toilette e il secondo che non abbandona lo stile da toilette neanche quando è nella vita normale, ormai incarnato, nel tempio del Papeete, nel ruolo di “sacerdote della mutanda”. Pare, dai rumors, che i due, che si erano tanto odiati, stiano tramando, disseminando trappole e mine qua e là, di far cadere il governo Draghi. Ognuno ha da leccarsi le sue ferite. Salvini il crollo dei sondaggi e Conte quello dei parlamentari.

Ma il problema non è perché (tanto al giorno d’oggi i perché della politica non sono mai il bene del paese o gli interessi della gente) ma piuttosto cosa potrà succedere.

Nel palazzo e dintorni si indica già una data: il 22 settembre. E non perché in quel giorno ricorre la nascita della Svizzera. Semplicemente perché in quella data sarà messo al sicuro il tesoretto di poco meno di un migliaio di parlamentari che avranno maturato il diritto alla pensione.

E già perché si parla proprio di elezioni anticipate. E fa niente che si anticiperà il voto naturale di una manciata di mesi, fa niente che, dopo le amministrative e regionali del 2020 e quelle del 2021, si andranno a rompere nuovamente le balle agli italiani per la terza volta durante le ferie di agosto, fa niente che questo governo sta portando a termine alcune mission importanti, fa niente che c’è una guerra in atto, fa niente che in autunno affronteremo probabili crisi energetiche, fa niente che il termometro dei prezzi è in costante aumento e non si sa se, e quando, si fermerà.

Ogni tanto in questo paese spunta qualcuno, negli ultimi tempi sempre d’estate, che pretende di far cadere i governi e spera nelle elezioni anticipate. Tanto in politica ormai non siamo più né nelle mani del Signore, né negli oracoli di Paolo Fox, ma solo nelle previsioni dei sondaggi.

Ma una cosa bisogna dirla. Questa storia delle elezioni anticipate ha rotto gli zebedei. Non è possibile che non si capisca che le regole del funzionamento della cosa pubblica e dell’etica delle istituzioni non sono una creta che si plasma a piacimento ora di questo, ora di quello. In una paese civile, che non sia una “Bananas-Republic”, i parlamenti vanno a scadenza naturale.

Il rimedio dello scioglimento delle camere, e del voto anticipato, è uno strumento straordinario ed eccezionale cui si ricorre solo in gravi crisi di governabilità, quando nel paese si creano vuoti istituzionali. E non per le esigenze egoistiche di questo o quel partito. E invocare ogni volta le elezioni, al minimo colpo di vento, è segno di un senso delle istituzioni irresponsabile e indecoroso. Questa è la prima regola che tutti i politici dovrebbero imparare, oltre a tante altre cose che segnano un profondo senso della cosa pubblica e del suo significato. Perché la  classe politica è al servizio del paese e non il contrario, e tale servizio, come un qualunque lavoro, si svolge all’interno della sua sede naturale che sono le istituzioni per le quali, se non si nutre il dovuto rispetto, non si svolge il dovuto servizio.

E allora la scorribanda dei “Contini” parte male, anzi malissimo, perché agguati al governo, specie se  in piena estate e in periodi di gravi crisi internazionali, dimostrano che quel senso delle istituzioni e quel rispetto per gli interessi della collettività mancano totalmente. E non serve, a colmare tali lacune, farsi chiamare “l’Avvocato del popolo” o il “Capitano” degli italiani perché l’abito (o il nome) non fa il monaco.

Stat rosa in pristina nomine; nomina nuda tenemus, scrisse Umberto Eco: delle cose non capiremo l’essenza ma ricorderemo solo il nome.

D'Elia deputata con solo 12mila voti. Chiara Giannini il 18 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Eletta la candidata dem, affluenza a picco. Renzi esulta: Iv al 13%.

È Cecilia D'Elia, candidata del Pd, a vincere le suppletive per il collegio uninominale Lazio 1: la candidata dem ha ottenuto 12.401 voti complessivi e il 59,43% delle preferenze. Un risultato bulgaro, che ha lasciato indietro l'avversaria Simonetta Matone, sostenuta da Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia con 4.678 voti pari al 22,42%, ma anche Valerio Casini (Iv) con il 12,93%, Beatrice Gamberini (Potere al popolo) con il 3,24%. A votare è stato l'11,33% degli aventi diritto, 21mila persone in tutto.

Il segretario del Partito democratico Enrico Letta ha commentato a caldo: «Il successo di Cecilia D'Elia è un gran bel segnale, ottimo viatico per una settimana importante».

Il leader di Italia Viva Matteo Renzi, appresi i risultati, ha scritto su Facebook: «Ci prendevano in giro sul 2%. Poi mettiamo il simbolo di Italia Viva alle politiche di Roma1 e prendiamo il 13%. Italia Viva vale il 13%, chi vive di sondaggi non vale niente».

Renzi ha tenuto anche a dire: «È stato un grandissimo risultato, quello di Valerio Casini a Roma. A noi fanno sempre la morale, ma andate a vedere quanto hanno preso i Cinque Stelle alle precedenti suppletive, forse il quattro per cento. Noi abbiamo fatto 13 candidando un ragazzo bravissimo di 33 anni, appassionato di musica e cultura.

Anche il leader di Azione Carlo Calenda ha detto la sua: «Cecilia D'Elia ha avuto uno straordinario risultato ma il dato vero è l'affluenza tragica. Valerio Casini ha fatto il suo. Buon lavoro a D'Elia, il parlamento acquisisce una persona di qualità». Per continuare: «Io ho votato per Valerio Casini perché mi aveva sostenuto nella lista Calenda sindaco ma noi non abbiamo presentato un candidato, non c'era alcun logo della lista Calenda sindaco».

Dalla sua la D'Elia si mostra felice per il risultato: «È stata una campagna elettorale molto difficile perché le suppletive sono complicate. Sono emozionata perché entrare in Parlamento per chi fa politica rappresenta una grande responsabilità». Qualche critica dal presidente di Iv Ettore Rosato: «C'è chi da questo collegio è scappato, perché non voleva rischiare una figuraccia. E chi invece ci ha messo la faccia, il simbolo. Noi lo abbiamo fatto, abbiamo deciso di correre da soli contro due coalizioni».

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza dei barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo.

Elezioni suppletive Roma, Cecilia D'Elia va alla Camera. Libero Quotidiano il 17 gennaio 2022.

Cecilia D’Elia del Pd vince con un netto 59,43% le elezioni suppletive per il collegio alla Camera del centro storico di Roma, lasciato libero da Roberto Gualtieri con la sua elezione a sindaco della Capitale. Il centrosinistra, pur diviso, conferma il "feudo" dei rioni monumentali del centro. Ma l’affluenza alle urne è bassissima: appena l’11,3%, pari a 21.010 persone su 185.394 aventi diritto. La partecipazione è stata ancora più bassa dell’analogo turno per lo stesso collegio, a marzo 2020 pochi giorni prima del lockdown, quando aveva votato il 17,6%. I residenti del centro storico si sono tenuti lontani dalle urne, distratti tra la pandemia e la contesa tra le forze politiche giustamente fagocitata dalla corsa per il Quirinale.

D’Elia, responsabile Pari Opportunità dei dem, stacca di quasi 7mila voti Simonetta Matone, capogruppo della Lega in Campidoglio, che ottiene il 22,42% e il consigliere capitolino renziano della lista Calenda Valerio Casini che si attesta attorno al 12,93%. Ottiene il 3,24% invece Beatrice Gamberini di Potere al Popolo, in coda l’imprenditore Lorenzo Vanni con circa il 2%. La vincitrice delle suppletive conquista il seggio numero 1.009 per partecipare all’elezione del nuovo presidente della Repubblica.

Esulta D’Elia: «Grazie a tutte e tutti i romani che mi hanno dato fiducia. Metterò tutta me stessa per onorare la responsabilità di questo nuovo impegno in un momento così delicato per il nostro Paese». Il primo a complimentarsi con lei è il sindaco Gualtieri: «Complimenti per la vittoria elettorale alle suppletive. Una donna competente e determinata che arricchirà il Parlamento con la sua passione politica e saprà rappresentare al meglio Roma e il suo collegio». Segue il governatore del Lazio Nicola Zingaretti: «Felice per la vittoria del centrosinistra nel cuore di Roma. Complimenti, buon lavoro e un grande abbraccio a Cecilia, e un immenso grazie alle volontarie e ai volontari che in queste settimane controcorrente hanno combattuto per questa bella vittoria». Esulta anche Italia Viva, alla prima prova elettorale in città con il suo simbolo. Anche se, in termini assoluti, il partito di Matteo Renzi incassa circa 2.500 preferenze. Il presidente di Iv Ettore Rosato parla di «un risultato straordinario per Italia Viva nelle suppletive di Roma. I sondaggi ci davano al 2%, gli elettori, nel primo test politico con il nostro simbolo, oltre il 12%». Non aveva presentato nessun candidato invece il M5s. 

·        La Rabbia.

Massimiliano Panarari per “La Stampa - Specchio” il 15 novembre 2022.

C'è rabbia on the air. Tanta, tantissima, e non da oggi. La rabbia attraversa senza sosta e alimenta lo spirito dei tempi di questa nostra nuova «Età dell'ansia 2.0» che con quella originale degli anni Venti e Trenta del secolo breve presenta alcune preoccupanti similarità e affinità. Una rabbia individuale, monadica, che si incanala negli sciami digitali, e si esprime nell'incivility di cui ci tocca fare quotidiana esperienza, nostro malgrado, sui social network. 

Ma assistiamo anche all'affacciarsi di fiammate di rabbia politica, che trovano nella vita pubblica e nei suoi protagonisti il loro innesco (dopo l'insediamento del governo Meloni), o sembrano riproporre echi degli anni Settanta (come negli scontri a La Sapienza).

Mentre monta l'inquietudine - segnalata a più riprese e da tempo dagli apparati di sicurezza - per questo possibile autunno caldo (non meteorologicamente, ma dal punto di vista delle tensioni sociali). 

Ed è, a suo modo, qualificabile come una forma di rabbia politica - perché riferita alle decisioni intorno al destino collettivo - quella che anima gli episodi sempre più frequenti di ecovandalismo all'assalto delle opere d'arte nei musei (come palese, al di là della "buona fede" dei suoi militanti, la modalità più sicura per non fare guadagnare consenso a una causa di straordinaria importanza). E, soprattutto, ne riconosciamo distintamente la matrice nelle insorgenze dei movimenti più famosi dell'ultimo decennio, da Black Lives Matter ai gilet gialli.

Non è un pranzo di gala

A dire il vero, però, la rabbia apparterrebbe - al pari della totalità degli stati d'animo e dei sentimenti - alla sfera della prepolitica, da cui scaturiscono, una volta raffinate e indirizzate verso obiettivi collettivi, quelle che la filosofa Martha Nussbaum ha chiamato in un suo libro le Emozioni politiche (Il Mulino). 

Emozioni che possono essere costruttive oppure distruttive, come quelle prevalenti da qualche decennio, da quando siamo sprofondati in un'epoca di spinoziane «passioni grigie», in un presentismo senza grandi speranze di futuro, e - proprio per questo - nella retrotopia che rimpiange nostalgicamente un passato ideale che di ideale, in realtà, nulla possedeva davvero.

Nell'epoca della politica razionale post-illuministica e delle ideologie, come ha scritto Peter Sloterdijk, esistevano le «banche della rabbia», ovvero degli attori politici e istituzionali (dalla Chiesa cattolica ai partiti di integrazione sociale di massa) che la raccoglievano e "stoccavano", dandole una forma e collocandola all'interno di un processo storico. 

Beninteso, la rabbia non è mai stata "un pranzo di gala" (come nel caso della lotta di classe) ma, tramite il processo descritto dal pensatore tedesco, essa diveniva giustappunto politica e pubblica, risultando dilazionata, in qualche modo attenuata, e inserita all'interno di una dinamica temporale finalistica e teleologica, fondata sul progresso, per la quale, nel futuro, la capacità di "controllarsi" e trasformarla in azione collettiva sarebbe stata premiata dalla vittoria e dal cambiamento in meglio della società. 

Vincitori e vinti

Con l'avvento della postmodernità alcune di queste «banche della rabbia» si sono indebolite e altre sono fallite ("per insolvenza", si potrebbe dire...) o hanno dovuto portare i libri contabili in tribunale; e, così, la rabbia è stata sfruttata e cavalcata direttamente da certi nuovi imprenditori che si immettevano sul mercato elettorale. 

Si pensi, per fare un esempio, al rancore popolare generalizzato che ha travolto la Prima Repubblica in Italia a cavallo degli anni di Tangentopoli (dove non tutti gli arrabbiati erano così innocenti come volevano farsi credere...). La rabbia è diventata, così, il propellente e il combustibile utilizzato innanzitutto da leader e partiti populisti per arrivare ai loro trionfi elettorali, innestandola su quella frattura tra vincenti e perdenti della globalizzazione, allargatasi via via, insieme alle disuguaglianze economiche, che la sinistra storica ha perso di vista (o non riesce a interpretare in maniera convincente per chi paga - o ritiene di pagare - il prezzo più alto delle nuove divaricazioni sociali come pure culturali). 

L'anima "glocal"

La rabbia offre una chiave di lettura politologica complessiva - come nell'affresco su L'Età della Rabbia (Mondadori) di Pankaj Mishra, che ravvisa il padre putativo novecentesco del nazionalpopulismo in Gabriele D'Annunzio - e, in particolare, sull'Occidente contemporaneo, sempre più liquido e percorso da ondate ininterrotte di antipolitica (come raccontano anche i saggi del n. 3/2022 della rivista Civiltà delle Macchine diretta da Marco Ferrante). 

Uno stato d'animo autenticamente glocal, che sgorga sovente dall'impotenza dell'io individuale e va alla ricerca di un palcoscenico pubblico per sfogarsi, anche a causa dell'assenza di una rappresentanza politica - così come di un discorso pubblico condiviso - a cui fare riferimento. E per capirla a fondo possiamo riprendere, ancora una volta, le pagine della Trilogia della rabbia, il capolavoro di Luciano Bianciardi (ripubblicato adesso da Feltrinelli).

·        I Brogli.

Striscia la Notizia, "nessuno ha controllato": l'inchiesta-bomba sulle elezioni. Libero Quotidiano il 24 ottobre 2022

A Striscia la Notizia si torna a parlare di presunti brogli alle ultime elezioni. Nell'ultima puntata del tg satirico, prosegue l’inchiesta di Pinuccio sul pasticcio del voto degli italiani all’estero, con tantissime segnalazioni di irregolarità che continuano ad arrivare da tutto il mondo. In diverse puntate Striscia ha segnalato presunte irregolarità sul voto accendendo anche un faro sui risultati elettorali della circoscrizione estero.  

L’inviato del tg satirico ha intervistato due presidenti del seggio di Milano Rho e Napoli, due delle città in cui vengono scrutinate le schede provenienti dall’estero. Quello del capoluogo lombardo ha affermato: "Nessuno ha controllato i documenti né l’accesso al padiglione. Il sistema non poteva garantire l’anonimato né la veridicità delle schede". 

A Napoli invece, come racconta sempre Striscia, è emerso un problema sugli elenchi aggiuntivi, ovvero quelli delle persone che vivono temporaneamente all’estero e lì votano. Elenchi che ai seggi non sono mai arrivati con la conseguenza che moltissime schede sono state invalidate. Insomma a quanto pare le segnalazioni alla redazione di Striscia continuano ad arrivare e Pinuccio indagherà ancora nelle prossime puntate. Ma di certo quanto accaduto può essere materia di interesse per il nuovo governo che dovrà provare a correggere le falle di questo sistema elettorale. 

Anticipazione da “Striscia la Notizia” il 13 ottobre 2022.

Questa sera a Striscia la notizia torna l’inchiesta di Pinuccio sullo scandalo del voto degli italiani all’estero. All’inviato del tg satirico è giunta una segnalazione in cui si parla di schede elettorali falsificate, molto probabilmente provenienti dall’Argentina, che potrebbero essere state conteggiate.

A confermarlo è Andrea Dorini, candidato alla Camera per il Sud America, che dichiara: «A Roma sono state conteggiate circa 35.000 schede false con un errore: “Camera dei diputati” scritto con la lettera i». E alla domanda di Pinuccio su come sia possibile introdurre schede false, il candidato risponde: «Ogni partito politico riceve un elenco degli italiani che vivono all’estero. Con i nominativi è possibile creare le schede in un attimo. In Argentina c’è qualcuno con una tipografia che fa questo, ma in Sud America non è semplice denunciare».

Pinuccio lancia due appelli: conteggiare nuovamente le schede e cambiare, una volta per tutte, il metodo di voto all’estero. Il servizio completo questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35).

Estero, l'ombra brogli sul "pieno" Pd. Felice Manti il 28 Settembre 2022 su Il Giornale.

Su 12 seggi 7 vanno ai dem. E in Sudamerica c'è chi chiede il riconteggio

Fa bene Enrico Letta a tornare in Europa, visto che all'estero il Pd prende più voti che in Italia, il 34% al Senato e il 28% alla Camera. La stranezza del risultato degli italiani eletti all'estero - sette eletti del Pd su dodici seggi in palio, quattro deputati su 8 e tre senatori su 4, con un'affluenza al 26,93%, mai così bassa - sorprende solo chi non conosce come funziona il meccanismo elettorale, voluto dal centrodestra per coinvolgere i nostri connazionali e colpevolmente e reiteratamente manipolato.

A entrare in Parlamento sono i Pd Christian Diego Di Sanzo (Pd, America Settentrionale e Centrale), Fabio Porta (uscente, America Meridionale), Toni Ricciardi (Europa) e Nicola Carè (Africa, Asia, Oceania e Antartide) alla Camera, il virologo Andrea Crisanti (Europa), Francesco Giacobbe (Africa, Asia, Oceania e Antartide) e Francesca La Marca (America Settentrionale e Centrale) al Senato.

Il Giornale per primo ha denunciato come in Nord e Centro America a queste consultazioni gli elenchi degli aventi diritto fosse farcito di over 90 e ultracentenari morti molti anni prima ma né Viminale, né Farnesina né l'Inps (che potrebbe aver erogato pensioni a persone decedute da tempo e mai segnalate) hanno finora risposto a Andrea Di Giuseppe, capolista del centrodestra nella circoscrizione che comprende Stati Uniti, Canada e America centrale, che per primo ha denunciato questo imbroglio, eletto insieme a Simone Billi (Lega, Europa) per il centrodestra e alla grillina Federica Onori (Europa).

Il Maie (Movimento Associativo Italiani all'Estero) porta a casa il deputato Franco Tirelli e il senatore Mario Alejandro Borghese, eletti in Sudamerica. Un collegio elettorale in cui gli stessi eletti «evidenti brogli» ma nessun condizionamento del verdetto, che ha visto restare a bocca asciutta il meloniano Emerson Fittipaldi. Durante una conferenza stampa sono stati denunciati due episodi su cui starebbe indagando la magistratura locale e italiana. Nelle circoscrizioni consolari di La Plata e Rosario, in almeno 25mila schede sarebbe stato addirittura stampato con un colore diverso e con un errore ortografico («Camera dei diputati» anziché «deputato») e il nome di un candidato «prestampato». «Schede palesemente false», dicono il senatore e presidente del Maie Ricardo Merlo, che in Argentina, assieme allo stesso Borghese ha scoperto il tentativo di broglio. Il nome dovrebbe essere quello dell'onorevole Eugenio Sangregorio, presidente dell'Unione sudamericana emigrati italiani, che chiede il riconteggio dei voti: «Qualcuno mi ha voluto danneggiare, imputandomi della responsabilità della dicitura sbagliata su alcune schede con il mio nome. Chiedo un riconteggio delle schede annullate, voglio sapere quante sono esattamente, visto che di ciò si sono sicuramente avvantaggiati gli altri partiti presenti alle elezioni», avverte Sangregorio. Alle scorse Politiche l'elezione del senatore Adriano Cario proprio nel collegio del Sudamerica era stata annullata dal Senato, a favore del Pd Porta. Ma in quattro anni nulla è cambiato, tranne la vittoria del Partito democratico. Coincidenze...

Il rischio di brogli nel voto degli italiani all’estero. Federico Nastasi su La Repubblica il 20 Settembre 2022. 

Negli scorsi anni migliaia di schede in Sudamerica furono compilate dalla stessa mano. E ora si teme che possano ripetersi le truffe

In Brasile ci sono quattrocentotrenta mila votanti per le elezioni politiche italiane. E molti di loro, grazie alla doppia cittadinanza, voteranno anche per le elezioni brasiliane, previste per il 2 ottobre. Dal 2006 infatti, sei milioni di italiani residenti all’estero hanno diritto di voto alle elezioni politiche del Belpaese. In Brasile si trova la quarta comunità italiana all’estero, mentre la prima è in Argentina.

Il rischio di brogli: nelle liste all'estero spuntano elettori morti da quindici anni. Non ci sono urne senza morti. Lo scandalo dei brogli legati agli italiani eletti all'estero denunciato dal Giornale trova conferme, alla vigilia della spedizione delle schede votate all'estero. Felice Manti il 20 Settembre 2022 su Il Giornale.

Non ci sono urne senza morti. Lo scandalo dei brogli legati agli italiani eletti all'estero denunciato dal Giornale trova conferme, alla vigilia della spedizione delle schede votate all'estero prevista per giovedì e attese in Italia il 25 settembre per lo spoglio. Negli elenchi degli aventi diritto al voto ci sono persone morte quindici anni fa, come Antonino Guzzo, che viveva a Westchester, in Illinois. Ma cos'è? Uno scherzo? Mio marito Vito Rosario Buccheri è morto il 20 febbraio 2020, due anni fa. Verificate i vostri dati e non contattatemi più, si è sentito rispondere Andrea Di Giuseppe dalla vedova di un altro nostro connazionale che il capolista Fdi alla Camera per la circoscrizione Nord-Centro America aveva provato a contattare il suo elettore al 1403 Country Road di un paese della periferia di New York.

Pasquale Trapani che abitava a Manhattan, al 1567 di Park Avenue è morto 12 anni fa, dicono i parenti al comitato elettorale. Vittorio Pompeo Giovanni di East Haven in Connecticut, classe 1937, è morto nel 2009. Please, stop this, dicono i figli. Come se la telefonata fosse una macabra speculazione. Anche gli eredi di Giuseppe Ergastolo non la prendono bene, limitandosi a girare l'obituary pubblicato dal Chicago Tribune. Eccola, la conferma ai dubbi lanciati dal Giornale, che la Farnesina aveva ridimensionato nei giorni scorsi con un laconico è tutto a posto. Gli elenchi sono fermi, se va bene, a quindici anni fa. E se è così negli Usa, figurarsi nel resto del mondo. Chi doveva vigilare che cosa ha fatto? I consolati, i ComItes, i patronati Quanti voti dei nostri connazionali sono stati manipolati? E chi hanno favorito? Domande rivolte anche al Viminale, custode della regolarità del voto

E siccome tutto il mondo è paese anche Oltreoceano la violenza gratuita degli squadristi rossi si è fatta sentire sui social, con la foto di Di Giuseppe e Vincenzo Arcobelli (candidato Fdi al Senato), minacce contro i fascisti vicini a Casapound, ritratti a testa in giù o con allusioni a Cosa nostra americana, alla stregua dei Soprano's. La colpa di Di Giuseppe è aver scoperchiato il vaso di Pandora, a dispetto degli altri candidati che in passato non si sono accorti di nulla. Speriamo che i certificati di morte siano arrivati anche all'Inps, che ogni anno solo negli Usa sgancia 508 milioni di euro di pensione. E che ai dubbi sollevati dal candidato Fdi non ha mai risposto. Con calma, tanto non muore nessuno

 

Caos schede e allarme brogli, pioggia di segnalazioni. Plichi spariti, la tentazione del candidato Fdi negli Usa: flash mob davanti ai consolati in tilt. Felice Manti il 17 Settembre 2022 su Il Giornale.

Tutto a posto un cavolo. Nei giorni scorsi il direttore generale per gli Italiani all'estero e le politiche migratorie Luigi Maria Vignali aveva voluto rassicurare dal rischio brogli: «L'esercizio elettorale prosegue in maniera corretta e ordinata. Quest'anno ci siamo concentrati sulla sicurezza. Certo, ci sono stati degli episodi, alcune segnalazioni alla Procura sono già state inviate (la compravendita di voti in Argentina, già denunciata dal Giornale, e il pasticcio del santino elettorale Pd dentro le schede elettorali in Svizzera), ma lo scambio di schede è vietatissimo e ci sono sanzioni importanti», ha detto il responsabile della Farnesina.

Spiace per le rassicurazioni del ministero, ma le segnalazioni arrivate a valanga al Giornale raccontano tutto un altro film. Molto meno rassicurante. Intanto, a cinque giorni dal termine ultimo per la consegna delle schede al Consolato, fissato per il 22 settembre alle ore 16:00 per l'Italia, centinaia di migliaia di elettori sui 4,9 milioni aventi diritto lamentano la mancata consegna del plico elettorale. Non è partito o, peggio, è stato intercettato? Secondo problema: le 202 sedi consolari impegnate sono in chiara difficoltà, «anche per colpa del loro depotenziamento negli anni», dice Salvatore De Meo, responsabile Forza Italia per gli Italiani nel mondo, che ha scritto le sue doglianze al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Invano, a quanto risulta al Giornale.

Poi c'è la questione della segretezza del voto. In ogni plico che arriverà da circa 200 Paesi attraverso 79 voli diretti a Fiumicino e che sarà dirottato presso le corti di Appello di Roma, Napoli, Firenze, Bologna e Milano, dove saranno scrutinate, c'è un codice a barre che ne consente la tracciabilità e dovrebbe esserci un sistema di chiusura delle buste pre affrancate che dovrebbe impedirne la contraffazione. Peccato che alcune buste siano fallate, e che gli elettori - pur di mantenere la segretezza del voto - siano stati costretti a chiuderle con colla e nastro adesivo, rendendo questi voti potenzialmente annullabili. Chi deciderà? Con quale criterio? In alcune schede spagnole, per un errore della tipografia di Barcellona, nel certificato elettorale c'è scritto «referendum abrogativi» anziché elezioni politiche, ma la Farnesina rassicura: «Quel voto è comunque valido».

Ma la situazione più esplosiva è quella della Circoscrizione Nord-Centro America, come ha più volte denunciato al Giornale il capolista del centrodestra di Fratelli d'Italia Andrea Di Giuseppe: «Da tutta la circoscrizione del Nord e Centro America ci stanno arrivando segnalazioni di plichi mai arrivati e di consolati che non rispondono alle telefonate di chi legittimamente reclama le sue schede elettorali. È una vergogna che va denunciata e combattuta - dice il candidato sulla sua pagina Facebook (il suo profilo personale invece sarebbe stato hackerato) - Stanno privando la nostra comunità di un diritto inalienabile. La risposta è andare di persona ai consolati, dove si possono ritirare i plichi elettorali e riconsegnarli dopo aver votato tutti i giorni, anche sabato 17 e domenica 18 settembre». Secondo alcune fonti, Di Giuseppe starebbe pensando anche a un'azione eclatante: imbarcare su dei pullman una parte degli italiani che lo hanno contattato via social e portarli davanti ai consolati di Miami, New York e Los Angeles per un flash mob. D'altronde, stando ai dati anagrafici degli iscritti all'Aire, gli under 80 sarebbero un terzo degli aventi diritto. Un numero decisamente sospetto, tanto che Di Giuseppe teme una maxi frode che avrebbe ripercussioni non solo sul voto, ma anche sui 150mila assegni che l'Inps stacca ogni mese. L'istituto previdenziale guidato dal grillino Pasquale Tridico non ha ancora fornito risposte ai tormenti del candidato Fdi. Massì. È tutto a posto, no?

Elezioni 2022, i brogli sul voto dall'estero passano per il web. Gaetano Mineo su Il Tempo il 16 settembre 2022

Annunci sul web dove il nome del candidato è accostato al partito sbagliato. Inducendo l’elettore all’errore, visto che gli italiani all’estero devono indicare sulla scheda anche il nome del prescelto accanto al simbolo giusto. È l’ultimo sospetto che inquina il voto degli emigranti, in questo caso di quelli che ora vivono in Sudamerica. La denuncia arriva direttamente da Buenos Aires, dal candidato di centrodestra alla Camera, Vito De Palma, secondo cui «certi spiacevoli fatti minacciano d’infangare il buon nome della comunità e, soprattutto, di proiettare ombre minacciose su un diritto che gli italiani residenti all’estero considerano fondamentale».

In pratica, navigando sulla Rete, dopo alcune segnalazioni, il candidato di Fratelli d’Italia s’è imbattuto in una serie di notizie (pubblicate a pagamento) che riportano la sua candidatura alla Camera etichettandolo come candidato del Maie, ovvero, la coalizione opposta. La questione non è lana caprina, tenuto conto che in Argentina fare campagna elettorale non è certo facile, sia per il clima politico che si respira, ma soprattutto per la bassa densità di popolazione, la maggior parte dislocata in posti sperduti del territorio. Se a ciò si aggiunge che la circoscrizione a cui appartiene De Palma, oltre a Argentina e Venezuela, comprende altri otto paesi del Sud America, fare il «porta a porta» appare quasi impossibile. Da qui l’importanza della Rete. «Adesso spuntano fake news o pubblicità ingannevole come si preferisce - ci dice De Palma - che condizionano non poco gli elettori dato che la nostra campagna elettorale punta molto sui social». Tra l’altro, il candidato è commentatore tv della serie A di calcio italiana, trasmessa in Argentina, quindi personaggio popolarissimo, il ché, in questo caso, lo penalizza maggiormente. «Ci siamo rivolti al tribunale elettorale argentino - aggiunge - il quale sostiene che la questione non è di loro competenza. A questo punto, abbiamo inoltrato istanza a Google, ma lei capisce che quando avremo una risposta, sarà già stato fatto lo spoglio delle schede elettorali».

Per l’esponente di centrodestra, questo tipo di notizie in Rete «è una forma di broglio perché informando erroneamente del fatto che io sono del Maie, mentre sono delle schieramento opposto, l’eventuale voto di un elettore di centrodestra a me non arriverà mai». Insomma, rimane sempre viva, l’ombra degli brogli sul voto degli italiani all’estero. E oggi, sempre più di ieri, tenuto conto del numero degli elettori che continua ad aumentare perché ogni anno più di centomila italiani decidono di andare a vivere, studiare e lavorare all’estero. In cifre, negli ultimi venti anni, gli aventi diritto sono raddoppiati: al 31 dicembre scorso, sono 5.806.068. Per i truffatori, tuttavia, rimane il plico postale il boccone più ghiotto, in quanto una volta intercettato si può facilmente trasformare in voto «ufficiale». Al reale destinatario, quindi, la busta con la scheda non arriverà mai. Per non parlare di elenchi degli italiani residenti all’estero «zeppi» di novantenni e centenari. Da qui, il reale rischio sulla segretezza del voto, sancita anche dell’Articolo 48 della Costituzione. L’ultima denuncia, arriva da Andrea Di Giuseppe, capolista per il centrodestra per la Camera nella circoscrizione Nord America-America centrale, che alla Procura di Roma ha dichiarato che «su un totale di 437.802 nominativi presenti nella lista elettorale della ripartizione America settentrionale e centrale 55.490 hanno tra 70 e 79 anni, 45.441 tra 80 e 89 anni e 21.427 fino a 98 anni e 2.218 più di 99 anni». Un dato «irrealistico» se si pensa che i centenari italiani sono 17mila su 58 milioni. Lo stesso direttore generale per gli italiani all’estero del ministero degli Esteri, Luigi Maria Vignali ha affermato che al momento «ci sono state segnalazioni alla Procura per tre episodi di possibili brogli nel mondo, due in Argentina e uno in Svizzera». Il fenomeno, nei fatti, è certamente più grande.

Elezioni, "all'estero votano anche i morti": spuntano documenti-choc. Fabio Rubini su Libero Quotidiano l'11 settembre 2022

Ma all'estero possono votare anche i morti? Il dubbio - vedremo tra poco tutt'altro che campato per aria - è venuto ad Andrea Di Giuseppe, di professione imprenditore, che alle elezioni del 25 settembre è capolista per il centrodestra nella circoscrizione America settentrionale e centrale. Una volta accettata la candidatura, Di Giuseppe ha messo al lavoro il suo staff per capire come funzionava il voto all'estero «e ci ha messo cinque minuti a capire che qualcosa non quadra», spiega a Libero.

LE ACCUSE

Così lo scorso 5 settembre ha presentato una denuncia querela contro ignoti presso la Procura della Repubblica di Roma. La prima contestazione riguarda proprio le liste elettorali della sua circoscrizione. Dopo essersele procurate presso il Ministero dell'Interno le ha analizzate e ha scoperto che «su un totale di 437.802 nominativi presenti nella lista, ne risultano 55.490 con un età compresa trai 70 e i 79 anni; 45.441 tra gli 80 e gli 89; 21.427 trai 90 e i 98 e 2.218 sopra i 99 anni». Insomma oltre 28% della popolazione iscritta all'Aire avrebbe più di 70 anni. Un dato che Di Giuseppe definisce «irrealistico». Di Giuseppe poi nell'esposto fa tutta una serie di calcoli per dimostrare che «l'analisi dei dati rende realisticamente ipotizzabile che vi siano decine di migliaia di persone che risultano presenti nelle liste elettorali della ripartizione America Settentrionale e Centrale benché decedute, e che, quindi, sia altamente probabile che, in loro nome, vi siano dei terzi che esercitano il diritto di voto, fatto che potrebbe anche essere non occasionale, ma l'esecuzione di un consolidato disegno criminoso», scrive nella denuncia l'avvocato Romolo Reboa per conto di Andrea Di Giuseppe.

INPS TRUFFATO?

Nell'esposto, però, il candi dato ipotizza non solo brogli elettorali, ma anche una vera e propria truffa ai danni dell'Inps. Si legge nel documento: «È ragionevole ritenere che esista una pluralità di conti correnti esteri ove vie ne versata mensilmente dall'Inps la pensione ed ivi ritirata in virtù di deleghe o ac cessi informatici consentiti molti anni prima a terzi da parte di soggetti deceduti ed ora abusivi». Raggiunto telefonicamente, Di Giuseppe rincara la dose e mette sul piatto altre due incongruenze del voto all'estero. La prima riguarda il sistema di votazione: «Se io non ricevo a casa il plico, posso richiederlo al Consolato. Il voto però è anonimo e anche la busta con cui viene rispedito lo è. In questo modo, però, è possibile per una persona votare due volte perché questa operazione non è tracciabile in alcun modo. Ma io mi chiedo: non sarebbe più facile utilizzare il voto elettronico?». E se a questo si aggiungono «i morti che votano» non c'è da stare allegri.

La seconda questione riguardalo scrutinio delle schede: «Una volta votate vanno spedite ai Consolati, che a loro volta mettono le buste nei sacchi per spedirle in Italia. Nel caso della mia circoscrizione - spiega Di Giuseppe alla Corte d'Appello di Napoli che li stipa in un capannone dove poi verranno scrutinati. Ma scusate, perché lo scrutinio non si fa nei Consolati? In tutto il Nord America ce ne sono una decina, che salgono a una ventina col Centro America. Oltretutto si risolverebbe anche il problema di trovare presidenti di seggio e scrutatori, come avvenuto nelle precedenti elezioni. In più - prosegue Di Giuseppe - le operazioni di spoglio sarebbero più trasparenti e più sicure da eventuali brogli». Alla fine di tutto, però, c'è una questione alla quale il capolista del centrodestra non riesce a dare risposta: «Il mio staff ci ha messo cinque minuti per trovare tutte queste incongruenze. Come è possibile che la politica in tutti questi anni non si sia accorta di quello che stava succedendo?». Una bella domanda sulla quale, forse, la magistratura potrà fare chiarezza.

Il rischio brogli all'estero. Boom di elettori centenari. Di Giuseppe, candidato Fdi in Usa, denuncia in Procura: voto falsato, possibile truffa all'Inps. Felice Manti l'8 Settembre 2022 su Il Giornale.

Gli elenchi degli italiani residenti all'estero sono pieni di novantenni e centenari. Delle due l'una: o da noi si vive davvero male o dietro l'elisir di lunga vita dei nostri connazionali c'è una colossale truffa elettorale. Che potrebbe avere ripercussioni anche sui conti disastrati dell'Inps.

A scoprire l'arcano - limitatamente agli elenchi degli iscritti all'Aire della circoscrizione in cui è candidato, Nord America-America centrale, ma tant'è - è stato Andrea Di Giuseppe, capolista per il centrodestra per la Camera in quota Fratelli d'Italia. C'è una denuncia indirizzata alla Procura di Roma che verrà presentata nelle prossime ore e che il Giornale è riuscita a intercettare.

Quando Di Giuseppe ha scoperto che il plico con la scheda elettorale è stato spedito a un indirizzo diverso dal suo abituale domicilio - doveva aveva regolarmente ricevuto le altre schede, compresa quella sul referendum sulla giustizia firmato Lega e Radicali - si è recato al Consolato davanti a uno «sconsolato» Console Generale a Miami Cristiano Musillo a indagare sul perché dell'errore. Scoprendo che altri cambio di indirizzo, regolarmente comunicati in qualche caso tramite il Consolato, non sono stati tempestivamente aggiornati.

In passato, come ha denunciato il Giornale, alcuni plichi sono finiti in mano a delinquenti, gang organizzate - tanto che in Brasile il senatore dell'Usei Adriano Cario è stato dichiarato decaduto il 2 dicembre scorso da Palazzo Madama dopo un'indagine della magistratura sudamericana - e financo la criminalità organizzata. Come nel caso del senatore di Forza Italia Nicola di Girolamo, eletto nel 2008 in Germania grazie all'appoggio della potentissima cosca di 'ndrangheta degli Arena di Isola Capo Rizzuto (Crotone) e finito in manette. Qualche settimana fa in Argentina una donna si era proposta di ritirare a casa le schede elettorali degli italiani, evitando così il fastidio di recarsi alla posta per la spedizione. L'allarme brogli è serio, i precedenti non mancano. «Il voto all'estero ha una fragilità intrinseca, atteso che non garantisce chi l'ha esercitato effettivamente», scrivono i legali del candidato Fdi in America Nord e Centrale. Allora perché nessuno finora ci ha mai messo mano?

I residenti all'estero iscritti nelle liste elettorali, possono votare per corrispondenza. Da domani e fino al 22 settembre si potranno spedire le schede, che saranno spogliate in diverse città italiane, da Roma a Napoli, a seconda della circoscrizione Estero. Ce ne sono quattro (Europa-Russia-Turchia; America meridionale; America settentrionale e centrale; Africa, Asia, Oceania e Antartide) ed eleggono otto deputati e quattro senatori. Possono bastare poche migliaia di preferenze per diventare parlamentare della Repubblica. Lo sanno bene i patronati, la stragrande maggioranza dei quali è in mano alla sinistra e fanno il bello e il cattivo tempo durante le elezioni.

Ecco perché Di Giuseppe ha voluto vederci chiaro. E che cosa ha scoperto? Che «su un totale di 437.802 nominativi presenti nella lista elettorale della ripartizione America settentrionale e centrale 55.490 hanno tra 70 e 79 anni, 45.441 tra 80 e 89 anni e 21.427 fino a 98 anni e 2.218 più di 99 anni». «Un dato irrealistico», se paragonato ai centenari italiani che sono 17mila su 58 milioni. «È altamente probabile - insistono i legali di Di Giuseppe - che la maggior parte dei 124.576 italiani iscritti all'Aire goda di pensione Inps o di altra cassa». Il nostro istituto di previdenza eroga all'estero 714mila pensioni per 508 milioni di euro l'anno, di cui il 20,9% nel Nord America. «È realisticamente ipotizzabile che vi siano decine di migliaia di persone che risultano presenti nelle liste degli liste elettorali della ripartizione America settentrionale e centrale benché decedute, e che, quindi, sia altamente probabile che, in loro nome, vi siano dei terzi che esercitano il diritto di voto e si impossessi delle pensioni di persone decedute con deleghe o accessi informatici abusivi». I patronati, l'Inps, la Farnesina e il Viminale non ne sanno nulla? L'inchiesta della Procura rischia di scoperchiare l'ennesimo vaso di Pandora.

"I plichi recapitati con ritardo. Nei consolati poco personale". Dopo aver governato, prima con la Lega poi col Pd, i Cinque stelle scoprono l'allarme brogli per gli italiani all'estero. Felice Manti l'8 Settembre 2022 su Il Giornale.

Dopo aver governato, prima con la Lega poi col Pd, i Cinque stelle scoprono l'allarme brogli per gli italiani all'estero. Le liste degli aventi diritto sono fin troppo farcite di un numero sospetto di over 80, come ha denunciato in anteprima al Giornale Andrea di Giuseppe, candidato Fdi in Centro-Nord America. Tema ripreso ieri da qualche quotidiano, senza citare la fonte, ma tant'è. Qual è la proposta grillina? Il voto via internet, come se i consensi digitali non fossero esenti dal rischio di una qualche manipolazione senza un controllo sull'esistenza in vita o meno degli aventi diritto. Idea sottoscritta anche da +Europa - altro partito che su questi temi si sveglia solo in campagna elettorale - che per bocca di Benedetta Dentamaro lamenta un altissimo «rischio astensionismo». Figurarsi: il dato tradizionalmente è già al 30% o giù di lì, di che blatera la Dentamaro? Il frastuono risveglia dal torpore il calendiano uscente Massimo Ungaro, eletto nel 2018 e capolista di Azione-Italia Viva in Europa, che sogna un voto misto digitale-cartaceo che va «messo in sicurezza».

«Si sono svegliati tutti dopo la nostra denuncia in Procura di Roma, in passato tutti i candidati hanno avuto le liste a disposizione ma non ricordo denunce o controlli sul numero spropositato di ottuagenari, novantenni e centenari. E nessuno parla della potenziale truffa allo Stato e all'Inps», dice Di Giuseppe al Giornale. Interpellato, l'istituto di previdenza non ha ancora risposto. Con calma...

Il problema è che i plichi sono arrivati o quasi nelle case dei circa cinque milioni di aventi diritto su quasi sei milioni di connazionali e devono essere rispediti entro il 22 settembre. È allucinante come proprio i partiti come il Pd che hanno fatto scappare gli italiani dagli ospedali, dalle università e dalle aziende per le baronie, le raccomandazioni e la burocrazia siano i primi a elemosinare i loro consensi, e purtroppo a strappare più eletti, anche con la complicità di Comites e patronati, saldamente in mano sinistre. «Ma stavolta andrà diversamente», commenta con il Giornale Enrico Nan, parlamentare ligure di lungo corso residente e candidato a Dubai al Senato per Fdi nella circoscrizione Australia/Africa/Asia che denuncia l'assenza del personale nei consolati e nelle ambasciate in questi delicatissimi momenti. «Il 17 e il 18 sono sabato e domenica. Se l'elettore riceve tardivamente il plico in molte località africane e asiatiche non riuscirà a fare pervenire in tempo il suo voto. Qui a Dubai gli uffici consolari non sono dotati di una linea telefonica che risponda alle chiamate. È un'evidente lesione dei diritti dell'elettore». Da Viminale e Farnesina finora solo un desolante silenzio.

Elezioni, "l'ombra dei brogli": la denuncia di FdI, gioco sporchissimo. Libero Quotidiano il 06 settembre 2022

Il rischio brogli alle elezioni politiche per i residenti all'estero è altissimo. Come già denunciato da Francesco Storace in un articolo pubblicato su Libero il 27 agosto, sono pronte vere e proprie bande di falsari per modificare i voti. Ora, su il Giornale è uscita una nuova denuncia: "Gli elenchi degli italiani residenti all'estero sono pieni di novantenni e centenari. Delle due l'una: o da noi si vive davvero male o dietro l'elisir di lunga vita dei nostri connazionali c'è una colossale truffa elettorale. Che potrebbe avere ripercussioni anche sui conti disastrati dell'Inps". A scoprire l'inghippo, limitatamente agli elenchi degli iscritti all'Aire della circoscrizione in cui è candidato - Nord America-America centrale - è stato Andrea Di Giuseppe, capolista per il centrodestra per la Camera in quota Fratelli d'Italia. C'è una denuncia indirizzata alla Procura di Roma che verrà presentata nelle prossime ore e che Il Giornale è riuscito a intercettare. 

Quando Di Giuseppe ha scoperto che il plico con la scheda elettorale è stato spedito a un indirizzo diverso dal suo abituale domicilio, si è rivolto al console generale italiano a Miami Cristiano Musillo. Scoprendo che altri cambio di indirizzo, regolarmente comunicati in qualche caso tramite il Consolato, non sono stati tempestivamente aggiornati. "L'allarme brogli è serio, i precedenti non mancano. Ecco perché Di Giuseppe ha voluto vederci chiaro", si legge sul quotidiano che raccoglie le sue parole: "Su un totale di 437.802 nominativi presenti nella lista elettorale della ripartizione America settentrionale e centrale, 55.490 hanno tra 70 e 79 anni, 45.441 tra 80 e 89 anni e 21.427 fino a 98 anni e 2.218 più di 99 anni".

Insomma, conclude il Giornale, "è realisticamente ipotizzabile che vi siano decine di migliaia di persone che risultano presenti nelle liste degli liste elettorali della ripartizione America settentrionale e centrale benché decedute, e che quindi, sia altamente probabile che, in loro nome, vi siano dei terzi che esercitano il diritto di voto e si impossessino delle pensioni di persone decedute con deleghe o accessi informatici abusivi".

"I numeri di chi ha votato non tornano": allarme brogli all'estero. Federico Garau il 6 Settembre 2022 su Il Giornale.

L'esposto del candidato del centrodestra per la Camera in America settentrionale e centrale Andrea Di Giuseppe. Confrontando i dati con le informazioni fornite dall'Inps i numeri non tornano

Il 25 settembre è ormai alle porte e gli italiani sono chiamati alle urne. Ma il 25 settembre per gli italiani all'estero è già arrivato. Sei milioni di connazionali iscritti all'Aire, l'anagrafe degli italiani residenti nelle quattro ripartizioni - Europa, America del Nord, America del Sud, Asia Africa e Oceania - oggi possono votare per i candidati della circoscrizione Estero. Hanno ricevuto il plico elettorale a casa e una volta compilato la scheda dovranno inviarla per posta in una busta preaffrancata al consolato più vicino. Qui deve arrivare entro le 16 del 22 settembre: tre giorni prima della domenica del voto in Italia.

Secondo quanto riferisce AdnKronos, però, il capolista per il centrodestra per la Camera in America settentrionale e centrale Andrea Di Giuseppe ha recentemente depositato tramite il suo legale, l'avvocato Romolo Reboa, una denuncia-querela alla procura della Repubblica di Roma.

Nell'esposto si parla di decine di migliaia di persone che risultano presenti nelle liste elettorali della ripartizione America settentrionale pur essendo decedute. Di Giuseppe teme, a ragione, che"in loro nome, vi siano dei terzi che esercitano il diritto di voto".

Il rischio brogli all'estero. Boom di elettori centenari

Occorre pertanto fare attenzione al sistema di voto per corrispondenza per gli italiani all'estero, un metodo che ha già dimostrato nel tempo le sue fragilità. Il problema risiede nel fatto che tale metodologia non può garantire in toto che il diritto di voto venga esercitato effettivamente dall’elettore e non dalla persona che riceve la busta. Tale busta, infatti, può ad esempio essere ritirata anche da un familiare.

Di Giuseppe, dunque, punta il dito sulla non attendibilità della lista America settentrionale e centrale nella circoscrizione estera e ne analizza la composizione. "Su un totale di 437.802 nominativi presenti nella lista", passa a spiegare nell'esposto, "ben 124.576 elettori avrebbero un'età superiore a 70 anni, dunque oltre il 28% della popolazione italiana residente all'Aire appartiene alla fascia superiore a 70 anni, ma è la logica a far ritenere tale dato irrealistico".

Dati Istat alla mano, prosegue il candidato di centrodestra, "gli italiani centenari viventi al 1 gennaio 2021 erano 17.156, su una popolazione complessiva di 58.983.122 persone. Tale dato significa che il numero dei centenari è pari ad una percentuale dello 0,00029% dell’intera popolazione. Viceversa n° 2.218 centenari su 437.802 nominativi significa una percentuale dello 0,00500%, che è palesemente irrealistica e, quindi, evidenzia un dato non veritiero".

Gli italiani iscritti all’Aire (Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero), insiste Di Giuseppe, sono circa 5.600.000. Secondo la percentuale di oltre il 28% di ultrasettantenni emersa dalle liste elettorali, dovrebbero esserci oltre 1.550.000 ultrasettantenni residenti all'estero. L'Inps, però, dichiara sul proprio sito internet di pagare 714.000 pensioni, di cui il 20,9% nel nord America e il 19,3% negli Stati Uniti. I conti non tornerebbero, perché risulta che nel Nord America vengono erogate pensioni a circa 150.000 individui.

Col suo esposto, dunque, Di Giuseppe chiede alla procura di effettuare i dovuti accertamenti, così da garantire il corretto svolgimento delle elezioni politiche italiane anche all'estero.

Gregorio Fontana, il retroscena sul voto del 2006: "Senza brogli, vittoria nostra". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 28 agosto 2022

Quella fu la Florida del centrodestra. Come nel 2000 alle elezioni negli Usa lo scontro tra Bush e Al Gore si decise per uno scarto di soli 537 voti a vantaggio del primo nello Stato del sud-est, alle elezioni del 2006 in Italia la partita si decise per poco più di 24mila voti (lo 0,06%) a favore della coalizione del centrosinistra L'Unione prodiana - alla Camera. "Con 24mila voti, oggi saprai cos'è la frodeeee", si cantò allora, parafrasando Celentano. Sì, perché quei pochi consensi in più furono oggetto di (legittimi) sospetti di errori di trascrizione nei verbali, involontari nella migliore delle ipotesi, dolosi nella peggiore (per non parlare dei voti molto dubbi che permisero al centrosinistra di spuntarla al Senato sul fil di lana nella circoscrizione estero). Tuttavia al centrodestra fu negato il riconteggio completo delle schede, cosicché non si seppe mai se le elezioni in realtà le avesse vinte il centrodestra guidato da Berlusconi. A caldeggiare il ricalcolo fu, tra gli altri, Gregorio Fontana, allora come oggi deputato azzurro, membro della Giunta per le elezioni.

Fontana, un manuale di Forza Italia invita ora «i rappresentanti di lista a prestare massima attenzione durante lo scrutinio» perché «chi punta sui brogli sfrutta il momento in cui si trascrivono i risultati nei registri per togliere consensi al nostro partito». Perché questo vademecum? Esistono rischi di brogli, come nel 2006?

«I rischi di brogli esistono sempre ed è importante che i rappresentanti di lista siano sempre attenti a garantire che la volontà degli elettori sia difesa. Il problema è soprattutto nel momento della trascrizione nelle tabelle di scrutinio dei verbali. Forza Italia ha un settore ad hoc chiamato "I difensori del voto", guidato dall'onorevole Antonio Martusciello, che ha organizzato già in passato la nomina dei rappresentanti di lista nelle sezioni elettorali. Il controllo è sempre necessario: nelle elezioni del 2018 alcuni collegi, dopo la revisione nelle giunte delle elezioni, sono stati assegnati a chi sembrava aver perso al primo conteggio».

Nel 2006 quali furono le maggiori anomalie del voto?

«La principale fu che ci venne impedito il riconteggio dei voti alla Camera (necessario perché, con uno scarto così basso, era probabile che ci fossero stati errori di trascrizione nelle tabelle): la sinistra si mise di traverso dicendo che sarebbe stata una procedura troppo lunga. Ne venne fatto solo uno molto parziale, e quindi scorretto, su un campione di schede nulle e bianche da parte della Giunta per le elezioni. Senza considerare poi i brogli denunciati nella circoscrizione estero. Che temo si ripeteranno. La regolarità del sistema di voto all'estero poteva e può essere facilmente aggirata: già allora c'erano personaggi che compravano dalle tipografie o dai servizi postali privati le schede, e le rispedivano in Italia votate, senza che il vero elettore italiano all'estero avesse ricevuto nulla. Per scongiurare che ciò ricapiti, Forza Italia ha proposto che gli italiani all'estero possano garantire la personalità del proprio voto tramite lo Spid, ma l'idea non è stata accettata».

Senza i presunti brogli e gli errori nelle trascrizioni, lei è convinto che il centrodestra nel 2006 avrebbe avuto la maggioranza dei seggi sia alla Camera che al Senato?

«Io penso di sì e credo che, facendo il riconteggio, ci saremmo tolti questo dubbio. Con un Berlusconi al governo, l'Italia non sarebbe entrata negli anni bui, fatti di instabilità politica e insicurezze economiche, del governo Prodi».

Allora ci fu anche chi, come Enrico Deaglio, sostenne che i brogli c'erano stati sì, ma da parte del Viminale (guidato dal centrodestra) che avrebbe truccato le schede bianche. C'era qualche prova a riguardo di quella tesi?

«Macché, erano pure sciocchezze, anche perché i dati che contano sono quelli delle corti d'appello. Se qualcuno ha fatto qualcosa nel momento della trascrizione nelle tabelle, semmai erano altri...».

Quelle elezioni svelarono per la prima volta, e in modo netto, anche l'inattendibilità di sondaggi ed exit poll (che davano il centrosinistra sopra del 5%)?

«Sa, i presunti astenuti che poi non si astengono danno sempre sorprese. Così come va presa con grande cautela la "forchetta" degli exit poll, che ha margini di errore dichiarati dagli stessi sondaggisti».

Che responsabilità hanno gli elettori nell'evitare che i voti vengano equivocati più o meno volontariamente?

«Enorme. Quante volte schede bianche o nulle derivano da croci tracciate male? Il consiglio all'elettore è di segnare bene solo una croce sul simbolo del partito, per non rischiare che i voti vengano annullati».

Rispetto al 2006 la politica oggi si è dotata di strumenti migliori per evitare brogli ed errori di trascrizione dei voti?

«Nonostante le proposte di inserire forme di voto e di scrutinio elettronico, poco si è fatto. E questo perché un sistema digitale si presterebbe ad altri rischi, come quello di hackeraggi non solo da parte di singoli, ma addirittura di gruppi arruolati da entità statuali. Rischi che sono decuplicati rispetto a 15 anni fa. Paradossalmente però l'arretratezza del nostro sistema di voto, tutto manuale, è una garanzia che almeno tali fenomeni non si possano verificare».

·        I Referendum.

Referendum sulla giustizia, i quesiti: ecco cosa si vota. Paolo Decrestina su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.

Domenica 12 giugno, si torna alle urne per votare sui cinque referendum abrogativi: dalle misure di custodia cautelare, alle funzioni delle carriere dei magistrati. Ecco cosa si andrà a votare. 

Domenica 12 giugno si vota: oltre che per le Comunali per circa mille Comuni, gli italiani sono chiamati a livello nazionale per cinque referendum, tutti incentrati sul tema della giustizia. Si va dalle misure di custodia cautelare alle funzioni delle carriere dei magistrati fino all’incandidabilità di persone già condannate. Ma andiamo con ordine e scopriamo passo passo le caratteristiche di questa tornata referendaria.

Partiamo dalle basi: innanzitutto si tratta di referendum abrogativi, e quindi di una consultazione popolare per capire se gli italiani vogliono mantenere alcune norme già presenti oppure le vogliono cancellare dal nostro ordinamento. 

Quindi, chi vuole mantenerle voterà No, chi vorrà cambiarle voterà Sì. Sia chiaro, come ogni referendum abrogativo, anche questi per essere validi dovranno raggiungere il cosiddetto quorum , e cioè dovrà andare al voto almeno il 50%+1 degli elettori. In caso contrario il singolo referendum non avrà valore.

Tutto chiaro: adesso passiamo all’analisi dei quesiti, punto per punto, colore per colore.

Quesito numero 1 

Il primo quesito è contenuto nella scheda di colore rosso. Punta a cancellare la legge Severino . Che cos’è? La legge Severino prevede tra le altre cose che chi è stato condannato in via definitiva con pena superiore a due anni non possa candidarsi alle elezioni politiche. E non è tutto, se il condannato poi è già senatore o deputato decade automaticamente dal ruolo di parlamentare. Il caso più celebre è quello di Silvio Berlusconi a cui fu tolto il seggio al Senato dopo la condanna del processo Mediaset. La legge Severino coinvolge anche gli amministratori locali, quindi sindaci, governatori e consiglieri, prevedendo che i loro incarichi vengano sospesi già dopo la condanna di primo grado per alcuni tipi di reato quindi senza aspettare tutti i gradi di giudizio. Se vince il sì, insomma, viene abrogata la norma sulla decadenza tutta intera.

* Chi vota Sì vuole che persone condannate per reati non colposi tornino a ricoprire o mantengano cariche politiche (a meno di decisioni diverse di un giudice) .

* Chi vota No vuole mantenere la situazione attuale: confermando incandidabilità e decadenza per queste persone.

Quesito numero 2 

Il secondo quesito è contenuto nella scheda arancione. In questo caso la domanda posta ai cittadini è: volete cancellare la «reiterazione del reato» dall’insieme delle motivazioni per cui i giudici possono decidere la custodia cautelare in carcere o i domiciliari per una persona prima del processo? Vediamo cosa succede oggi: una persona indagata può finire in carcere o ai domiciliari prima della sentenza se c’è il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove oppure per impedire che la persona possa compiere di nuovo lo stesso reato. Attualmente si può finire gli arresti per questo ultimo motivo se si tratta di un reato per cui è prevista una pena massima di 4 o 5 anni oppure per il finanziamento illecito dei partiti. Ecco se vince il sì non sarà più possibile il carcere preventivo per il rischio di reiterazione del reato con l’eccezione di reati che prevedono l’uso della violenza o delle armi oppure legati alla criminalità organizzata o alle eversione.

* Chi vota Sì vuole eliminare la reiterazione del reato dalle ragioni per cui si può disporre la custodia cautelare.

* Chi vota No vuole mantenere in vigore la legge così com’è: arresto o domiciliari anche per il pericolo della ripetizione del reato.

Quesito numero 3 

Con il terzo quesito, contenuto nella scheda di colore giallo, si entra nel cuore del sistema giudiziario. Si parla di magistrati: come sappiamo si dividono tra la funzione di pubblici ministeri o di giudici, requirente o giudicante, insomma quello dell’accusa e quello chiamato a decidere. Il quesito è lunghissimo e a tratti incomprensibile, è composto da oltre 2mila parole, ma la domanda sostanziale è questa: volete abrogare la norma che oggi consente al togato di passare, nel corso della propria carriera, dal ruolo di giudice a quello di pubblico ministero e viceversa? Vediamo cosa succede oggi: ci sono già delle norme che limitano il passaggio da una funzione all’altra , per esempio bisogna cambiare regione dove si esercita e poi sono ammessi al massimo quattro passaggi nel corso della carriera. Questi passaggi inoltre saranno due quando sarà approvata la riforma Cartabia che al momento ha incassato il sì alla Camera e aspetta il vaglio del Senato. Il quesito referendario però intende comunque abrogare del tutto questa possibilità, cioè all’inizio della carriera un magistrato decide se essere un pm o un giudice e tale resta per tutto il tempo. Stop.

* Chi vota Sì sceglie per l’obbligo di scelta tra essere pm o giudici all’inizio della propria carriera.

* Chi vota No invece vuole consentire che il magistrato possa passare da una funzione all’altra.

Quesito numero 4 

Quarto quesito, scheda di colore grigio. Vale la pena spiegare bene perché il tema è piuttosto tecnico e tra i più discussi dai magistrati perché parliamo di «pagelle». La domanda semplificata è: volete che l’operato del magistrato possa essere giudicato anche dai membri laici dei consigli giudiziari? Chi sono i laici? Professori universitari e avvocati. La partecipazione dei laici nel voto è già previsto dalla Riforma Cartabia, ma solo se il consiglio dell’ordine abbia segnalato comportamenti scorretti da parte del magistrato che si deve valutare.

* Chi vota Sì vuole che i magistrati vengano valutati anche dai membri laici come avvocati e professori universitari.

* Chi vota chi vota No vuole che si continui con la loro esclusione dal giudizio.

Quesito numero 5 

L’ultimo quesito, il quinto, è contenuto nella scheda di colore verde. Il tema è la candidatura per l’elezione dei componenti del C onsiglio superiore della magistratura. Oggi un magistrato che vuole candidarsi al Csm deve raccogliere almeno 25 firme. I promotori del referendum vogliono eliminare questa soglia così del da favorire la candidatura di chiunque senza necessità di appoggi per limitare il peso delle cosiddette correnti.

* Chi vota Sì vuole eliminare l’obbligo per il magistrato di procurarsi delle firme per candidarsi.

* Chi vota No vuole mantenere questo obbligo.

Il testo dei cinque quesiti

Di seguito riportiamo per intero il testo dei cinque quesiti referendari così come li troveremo sulle schede ai seggi.

Referendum n.1 – Abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi. Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n.190)?

Referendum n.2 - Limitazione delle misure cautelari: abrogazione dell’ultimo inciso dell’art. 274, comma 1, lettera c), codice di procedura penale, in materia di misure cautelari e, segnatamente, di esigenze cautelari, nel processo penale. Volete voi che sia abrogato il decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n.447 (Approvazione del codice di procedura penale) risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’art. 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni.”?

Referendum n.3 - Separazione delle funzioni dei magistrati. Abrogazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati. Volete voi che siano abrogati: l’“Ordinamento giudiziario” approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n.12, risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del Consiglio superiore della magistratura”; la legge 4 gennaio 1963, n.1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il decreto legislativo 30 gennaio 2006, n.26, recante «Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’art.1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n.150», nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”; il decreto legislativo 5 aprile 2006, n.160, recante “Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’art.1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n.150” , nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, in particolare dall’art.2, comma 4 della legge 30 luglio 2007, n.111 e dall’art.3-bis, comma 4, lettera b) del decreto-legge 29 dicembre 2009, n.193, convertito, con modificazioni, in legge 22 febbraio 2010, n.24, limitatamente alle seguenti parti: art.11, comma 2, limitatamente alle parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti”; art.13, riguardo alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa”; art.13, comma 1, limitatamente alle parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,”; art.13, comma 3: “3. Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’art.11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell’ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché sostituendo al presidente della corte d’appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima.”; art.13, comma 4: “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all’interno dello stesso distretto, all’interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’art.11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.”; art.13, comma 5: “5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l’anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche.”; art.13, comma 6: “6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all’art.10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso art.10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.”; il decreto-legge 29 dicembre 2009, n.193, convertito, con modificazioni, in legge 22 febbraio 2010, n.24 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.3, comma 1, limitatamente alle parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa, previsto dall’art.13, commi 3 e 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n.160.”?

Referendum n.4 - Partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari. Abrogazione di norme in materia di composizione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte. Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 27 gennaio 2006, n.25, recante «Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei consigli giudiziari, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005, n.150», risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art.8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’art.7, comma 1, lettera a)”; art.16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’art.15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?

Referendum n.5 - Abrogazione di norme in materia di elezioni dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. Volete voi che sia abrogata la legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’art. 23, né possono candidarsi a loro volta”?”

Nando Pagnoncelli per il “Corriere della Sera” il 13 giugno 2022.

Il quorum non è stato raggiunto, dunque il referendum non è valido. Non è una sorpresa, era un destino ampiamente annunciato, riconducibile ad almeno 3 fattori tra loro interconnessi: innanzitutto la limitata risonanza mediatica dell'appuntamento referendario. Per lungo tempo è stato in sordina, non ha acceso il dibattito, ha mobilitato poco i partiti (con l'eccezione dei promotori) e ancor meno gli elettori, i quali nelle ultime due settimane, pur avendo preso consapevolezza della consultazione (82% ne era a conoscenza), in larghissima misura si sono mostrati disinteressati.

In secondo luogo, la complessità di alcuni quesiti referendari che hanno alimentato un sentimento di inadeguatezza rispetto alle questioni oggetto di voto: se in Italia le competenze linguistiche e matematiche sono inferiori alle media dei 36 paesi Ocse, possiamo solo immaginare quali possano essere le competenze in ambito giuridico e istituzionale. Riguardo almeno tre dei cinque quesiti referendari la stragrande maggioranza, stando alle nostre interviste, dichiarava di non essere in grado di valutare le conseguenze derivanti dalla possibile abrogazione delle norme. 

Quasi nessuno sapeva dell'esistenza dei Consigli giudiziari e di ciò che comporti l'esclusione degli avvocati che ne fanno parte dalla valutazione dell'operato dei magistrati e della loro professionalità; per non parlare delle procedure che consentono ai magistrati di presentare la propria candidatura al Csm.

Da ultimo, quella che potremmo definire «l'usura» del referendum abrogativo, a cui nell'Italia repubblicana abbiamo fatto ricorso in 18 occasioni per un totale di 72 quesiti: si tratta di un declino molto evidente, basti pensare che dal 1974 al 1995 in Italia si sono tenute nove consultazioni referendarie, con un'affluenza media di poco superiore al 70%, delle quali una sola risultò non valida (quella del 1990 con due quesiti sulla caccia e uno sull'uso dei fitofarmaci in agricoltura), mentre negli ultimi 15 anni la situazione si è completamente rovesciata, infatti delle nove consultazioni abrogative istituite, otto sono risultate non valide (compresa quella di ieri), e tra queste ce ne furono due, nel 1997 e nel 2000, che comprendevano quesiti riguardanti la giustizia e raggiunsero un'affluenza rispettivamente del 30% e del 32%.

Dunque, solo una ha superato il quorum, nel 2011, quando gli elettori furono chiamati ad esprimersi su temi giudicati di grande importanza (e di facile comprensione) per i cittadini, dall'abrogazione della gestione privata dell'acqua a quella delle norme che consentivano la produzione di energia nucleare. Insomma, questioni che suscitarono un grande dibattito politico e mediatico. 

Tra i motivi di questa «usura» c'è anche la disillusione di una larga parte degli italiani persuasi dell'inutilità dello strumento, dato che talora in passato furono introdotti provvedimenti legislativi che non rispettavano l'esito referendario. Insomma, ce n'è abbastanza per riflettere su un utilizzo più appropriato di questo importante strumento di democrazia diretta. Ma è ciò che inutilmente si dice sempre, come una stanca litania, all'indomani del fallimento di un referendum.

Alessandro Di Matteo per “la Stampa” il 13 giugno 2022.  

La crisi del referendum è irreversibile e se i partiti vogliono salvare questo strumento «prezioso» hanno una sola possibilità: rivedere il meccanismo del quorum.

Mario Segni nei primi anni '90 promosse e vinse i referendum che cambiarono il sistema elettorale da proporzionale in maggioritario. Nel '99, poi, mancò per un soffio il quorum sul quesito che avrebbe abolito la residua quota proporzionale. Oggi non si stupisce del risultato.

Anche stavolta niente quorum, dal '95 a oggi dei referendum hanno superato la soglia solo nel 2009 e nel 2011. Hanno sbagliato i promotori a proporre quesiti così tecnici?

«Certamente i quesiti erano ostici, ma la campagna è stata fiacchissima, oscurata anche da un evento drammatico come la guerra in Ucraina. Detto questo, bisogna avere il coraggio di ammettere che un altro tassello del nostro sistema costituzionale è saltato, credo definitivamente. Se non si riforma il quorum, lo strumento referendario è praticamente morto. Lo dimostra il fatto che l'affluenza per il referendum è stata bassa anche nei comuni dove si votava per il sindaco, mentre il voto per le amministrative ha tenuto. È proprio il referendum che non ha attratto».

Il quorum va abolito?

«Il quorum ormai è impossibile da raggiungere, con un'affluenza che anche alle elezioni è calata del 30-40% rispetto al '48. È un altro tassello di un grande castello costituzionale che è invecchiato. Se la classe politica vuole salvare il referendum deve abbassare il quorum. Il movimento referendario aveva proposto una soluzione studiata dal professor Barbera: fissare il quorum alla metà della partecipazione alle ultime elezioni politiche (anziché al 50% degli aventi diritto come è ora, ndr). Io credo che il referendum sia un istituto importantissimo per la democrazia, ha permesso di decidere temi come il divorzio e la legge elettorale».

Appunto, forse sarebbe il caso di riservare il referendum a grandi scelte di fondo. Non crede?

«Non c'è dubbio. Grandi scelte di fondo e scelte chiare. La giustizia, che è un grande tema, purtroppo non interessa molto ai cittadini». 

Per riformare la giustizia basta la riforma Cartabia?

«No, la riforma Cartabia non ha toccato - e non può toccare - il tema del fallimento del principio costituzionale dell'autogoverno della magistratura, che ha capitolato. La vera riforma sarebbe la modifica del Csm, che si è dimostrato incapace di governare un settore così complicato. E per questo serve una legge costituzionale. Con il Parlamento attuale non era possibile. Il governo non poteva fare di più».

Quindi bisogna riformare la Costituzione anche per risolvere i problemi della giustizia. È così?

«E non solo! Attenzione: c'è un elemento che travalica tutti i discorsi fatti finora. Siamo entrati - e non esito a dirlo - in una nuova epoca storica con l'invasione dell'Ucraina, si ridisegna il sistema internazionale. La sfida di Putin è alle democrazie occidentali. Una grande riforma costituzionale deve partire da questo presupposto: dobbiamo chiarire prima di tutto se stiamo con l'Occidente o con Putin».

La grande sconfitta di Salvini, il garantista con la forca in mano. Non bastavano i guai con la Russia e i sondaggi poco lusinghieri, ora il leader leghista resta pure col cerino in mano dei referendum. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 13 giugno 2022.

Non bastavano i guai con la Russia e i sondaggi poco lusinghieri, ora Matteo Salvini resta pure col cerino in mano dei referendum.

Il fallimento dei quesiti, infatti, porta una sola firma e un solo volto: quello del leader della Lega, l’unico esponente politico di peso, gli va dato atto, ad aver lanciato il cuore oltre l’ostacolo nella battaglia per una “giustizia più giusta”.

Ma il cuore, in certe imprese, non basta, serve informazione e credibilità. Se la prima è mancata totalmente sui media italiani non certo per colpa di Salvini, la seconda invece è una lacuna tutta attribuibile al capo leghista. Non si può infatti sventolare in faccia ai cittadini la bandiera del garantismo con una mano e impugnare una forca nell’altra, pretendendo di apparire credibili. E il Carroccio resta una forza contradditoria, pronta nei giorni pari a chiedere di “buttare via la chiave” per qualsiasi ladro di polli e nei giorni dispari eccola in piazza a raccogliere le firme insieme ai Radicali per chiedere un limite alla custodia cautelare.

Va bene dunque il colpevole silenzio dei mezzi d’informazione, ma sul flop referendario ha pesato anche la scarsa credibilità dei proponenti. Perché quello di Salvini è sembrata solo l’ennesimo tentativo di distinguersi dal governo di cui fa parte puntando su una battaglia a caso pur di fare un po’ di casino. Il risultato è un disastro, l’ennesimo, che ricadrà sul futuro politico dell’aspirante leader del centrodestra.

Stasera Italia, “uno scandalo, casta arrogante”. Federico Rampini sul flop referendum: nessun voto per protesta. Libero Quotidiano il 13 giugno 2022.

Federico Rampini ha le idee chiare sui motivi che hanno portato poco più del 20% degli aventi diritto a votare per i referendum sulla giustizia. Il giornalista del Corriere della Sera, che vive negli Stati Uniti, è ospite della puntata del 13 giugno di Stasera Italia, talk show di Rete4 condotto da Barbara Palombelli, è particolarmente duro per le formule dei quesiti, giudicati troppo complicati: “Come italiano residente all’estero ho diritto di votare per corrispondenza ai referendum e alle amministrative. Mi sono rifiutato di votare per un atto privato ed individuale di protesta, credo comune a diversi cittadini, contro quella casta arrogante che scrive delle leggi in burocratese, che complicano la vita agli italiani. È la stessa casta che ha scritto questi quesiti referendari, sono uno scandalo. Andiamoci a studiare un paese che ha il culto della democrazia referendaria, che è la Svizzera, andiamo a vedere come scrivono i quesiti lì, con linguaggio chiaro, semplice e - conclude Rampini - accessibile a tutti”.

Il boicottaggio Rai, le barricate di sinistra e toghe: così hanno sabotato il referendum. Francesco Curridori il 13 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il quorum sui referendum sulla giustizia non è stato raggiunto. Ora, la casta dei giudici può nuovamente tirare un sospiro di sollievo.

Ancora una volta ha vinto la casta, la conservazione. Quel quorum non raggiunto è un risultato che rappresenta l'ennesima occasione mancata per riformare la magistratura italiana. Meno del 23% degli italiani è andato a votare.

Il silenzio assordante che ha preceduto il referendum ha, di fatto, boicottato questa consultazione elettorale. La Rai ha praticamente censurato i quesiti tant'è vero che, solo dopo l'esposto dei radicali, si è tenuto su Raidue uno speciale di due ore sui cinque quesiti sulla giustizia. In più la comica Luciana Littizzetto, nel suo monologo a 'Che tempo che fa', ha platealmente fatto propaganda per l'astensione. Il Pd di Enrico Letta, fatta eccezione per uno sparuto gruppo di liberal garantisti che hanno votato per il Sì, ha contribuito a offuscare e nascondere l'esistenza stessa della votazione referendaria. Ecco, dunque, che complici il bel tempo, la chiusura delle scuole e, soprattutto, la scelta del governo di tenere le urne aperte per una sola giornata, la casta delle toghe è riuscita ancora una volta a restare indenne da qualsiasi operazione riformatrice. Ma non solo. A Palermo, la mancanza di presidenti di seggio e scrutatori ha impedito ai cittadini di votare per i referendum per svariate ore. Un problema che ha provocato un vespaio di polemiche.

Persa un'occasione per riformare la giustizia: referendum affossato. Al voto meno del 23%

Gli italiani dovranno, perciò, attendere forse a lungo prima che venga approvata la separazione delle funzioni tra giudici e pubblici ministeri. Il Parlamento, però, non potrà ignorare totalmente il segnale che arriva dalle urne, soprattutto per quanto riguarda la Legge Severino. Anche noti sindaci di centrosinistra come Giorgio Gori e Matteo Ricci si sono recati ai seggi per votare a favore della sua abolizione che penalizza molti amministratori locali condannati per il reato d'abuso d'ufficio. Esiste, però, il reale e concreto timore che il 'Sistema' descritto e rivelato da Luca Palamara non verrà scalfito come si auspicavano, invece, i promotori dei quesiti sull'elezione dei membri del Consiglio superiore della magistratura e sulla valutazione dei magistrati. Gli innocenti potranno restare in carcere preventivo in attesa del processo in cui verranno, poi, dopo 5, 6, 8 o 10 anni, assolti perché il fatto non sussiste, ma ormai la loro reputazione sarà già stata totalmente infangata. Poco importa se, nel frattempo, la loro vita professionale e/o privata è stata distrutta per sempre da un processo mediatico che non risparmia nessuno.

Nell'attuale situazione, è persino inutile denunciare gli errori della magistratura visto e considerato che il referendum sulla responsabilità civile non è stato neppure accolto dalla Corte Costituzionale. L'unica, altra arma a disposizione degli italiani era l'approvazione del quesito referendario sulla valutazione dell'operato dei magistrati da parte dei membri laici dei consigli giudiziari. Il mancato raggiungimento del quorum lascia irrisolti tutti e cinque i problemi posti dai quesiti referendari. Su alcuni temi interverrà (parzialmente) la riforma Cartabia, ma il nodo della malagiustizia continuerà a toccare, direttamente o indirettamente, tutti i cittadini italiani.

Il sistema sbagliato e la pigrizia civile. Augusto Minzolini il 12 Giugno 2022 su Il Giornale.

Se si vuole un'immagine chiara del "sistema" che immarcescibile resiste al cambiamento, basta leggere la Repubblica di ieri.

Se si vuole un'immagine chiara del «sistema» che immarcescibile resiste al cambiamento, basta leggere la Repubblica di ieri. Un ritorno al passato condito da una formula talmente reiterata da venire a noia. Cinque «no» ai referendum ma quello che dà il tono è la motivazione del primo, quello contro l'abolizione della riforma Severino: se non ci fosse stata - è l'argomento, si fa per dire, sofisticato, in punta di diritto - Silvio Berlusconi non sarebbe stato cacciato dal Parlamento. Cioè non ci sarebbe stata la porcata commessa da un giudice che ogni qualvolta apre bocca dimostra la sua parzialità. In Italia va avanti così da decenni: riforme abbozzate e inefficaci; magistrati che godono nell'opinione pubblica di un indice di gradimento sotto i piedi; e inchieste che esplodono a orologeria alla vigilia delle lezioni per condizionarle.

Appunto è «il sistema» ormai talmente marcio che chi lo difende non può farlo a viso aperto, non può puntare sul «no», ma deve congiurare per evitare che si raggiunga il «quorum» facendo votare i quesiti un solo giorno e utilizzando la strategia del «silenzio». Nessuno deve andare alle urne - è il passaparola del Palazzo - perché altrimenti finisce male. Magari, invece, finirà male per l'esatto contrario, cioè perché non si è cambiato nulla, o poco, e alla fine le contraddizioni esploderanno. Ma al «sistema» non importa nulla: l'importante per chi ne fa parte è tirare a campare. Né gli interessa constatare che chiunque entri in contatto con l'amministrazione della giustizia in questo Paese, ne esce avvelenato. A qualsiasi livello: dal singolo cittadino che si accorge che dentro le patrie galere ci finiscono gli innocenti, mentre i colpevoli - vedi i femminicidi di Sarzana e di Vicenza - continuano ad uccidere fuori; alla politica, visto che le toghe «politicizzate» hanno fatto strame della nostra democrazia. Per ritrovare un premier votato dai cittadini, bisogna ritornare con la memoria a più di dieci anni fa.

Chi ha usufruito di questa «paralisi» democratica si oppone perché altrimenti non toccherebbe più palla. E ricorre alla retorica e all'ipocrisia per nasconderlo: bisogna cambiare - è la tesi - ma non con i referendum, dimenticando che sono stati gli strumenti che hanno modificato il costume del Paese, dal divorzio all'aborto. E rimuovendo un concetto che ha fatto scuola: il sale della democrazia è la partecipazione. Ecco, votare non è un diritto o un dovere, ma offre un'occasione. Quella di rinsaldare il rapporto tra popolo e istituzioni.

Esattamente quello che non vuole «il sistema» che punta sulla «pigrizia civile» per continuare a gestire la giustizia a suo piacimento, come elemento di garanzia del proprio Potere.

Ecco perché il voto di oggi è soprattutto un grido di allarme per richiamare politica e istituzioni alle loro responsabilità. È una battaglia che va fatta, qualunque sia l'esito. Alla faccia di chi ha provato ad esorcizzare l'appuntamento. E per ricordare a chi per timore si è tirato indietro che le battaglie si fanno, sempre e comunque. In ogni tornante della Storia ne abbiamo lezione: se non fossero stati animati dall'impegno civile gli ucraini già sarebbero diventati russi.

Tutti i referendum della storia della Repubblica: le scelte degli italiani. Paolo Decrestina su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.

Quelli di domenica arrivano dopo i 73 referendum che si sono tenuti dal 1946 ad oggi. Scopriamo quali sono stati, cosa hanno deciso e che conseguenze politiche hanno avuto. 

Domenica si vota per cinque referendum. Dal 1946 ad oggi, in Italia si sono svolti 73 referendum: 67 abrogativi, uno istituzionale, uno consultivo e quattro costituzionali.

Referendum sulla giustizia: la guida ai 5 quesiti

Lo strumento del referendum ha in sé una forza dirompente perché contiene una partecipazione diretta dei cittadini su scelte che possono essere decisive per il Paese. Non per niente i padri costituenti trattarono la materia con una certa delicatezza , escludendo per esempio i referendum propositivi e altri tipi di consultazione diretta (a parte le modificazioni territoriali delle regioni). Decisero così di limitare la tipologia ai referendum abrogativi (l’articolo 75 della Costituzione prevede che la richiesta possa venire da 500 mila cittadini o da 5 consigli regionali, oltre a un quorum del 50% più uno degli elettori) e a quelli confermativi di una riforma costituzionale (articolo 138, che non prevede quorum degli elettori).

1946: Monarchia o Repubblica

Il primo referendum della Repubblica non può che essere quello da cui la Repubblica è nata. Il 2 e 3 giugno del 1946 si vota per scegliere, appunto, tra Monarchia e Repubblica. Per la prima volta, in una consultazione politica nazionale, votano anche le donne (lo faranno più degli uomini): alla fine sono 12.717.923 i cittadini favorevoli alla Repubblica (54,3 per cento) , a fronte di 10.719.824 monarchici (45, 7 per cento). 

1974: il divorzio

Nel 1970, con l’introduzione del divorzio in Italia, il democristiano Amintore Fanfani volle che fosse contestualmente approvata la legge attuativa del referendum grazie alla quale abolire il divorzio. Per il primo scioglimento anticipato di ambedue le Camere, il voto slitta al 12 e 13 maggio 1974. L’affluenza è incredibile: vota l’87,7 per cento degli aventi diritti al voto. La parte del «no», tra cui radicali e cattolici di sinistra, vince con il 59,1 per cento. 

1978: la legge Reale

L’11 giugno 1978 si vota sull’abrogazione della legge Reale sull’ordine pubblico e sull’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Va a votare l’81,4 per cento degli elettori, che dicono no a tutti e due i quesiti: i no furono il oltre il 76 per cento sull’abrogazione della legge Reale e il 56 per cento sull’eliminazione del finanziamento pubblico dei partiti.

1981: l’aborto

Il 16 e 17 maggio 1981 gli italiani sono chiamati a pronunciarsi su vari quesiti, il più importante dei quali trattava l’abolizione della legge che permetteva e regolamentava l’interruzione di gravidanza ed era promosso dal cattolico Movimento per la vita. Vinsero a stragrande maggioranza i no in tutti i quesiti (un altro sull’aborto per l’allargamento, tre per abrogare la legge Cossiga sull’ordine pubblico, l’ergastolo e il porto d’armi). Con questa tornata referendaria si chiude una prima stagione, quella che aveva al centro la battaglia per diritti civili. 

1985: la scala mobile

Il 9 giugno 1985 si tiene così il primo referendum «economico»: si vota sulla proposta di abrogare il taglio dei punti di scala mobile, deciso dall’esecutivo. Le firme sono raccolte dal Pci. Anche in questo caso la vittoria andrà ai No, con il 54,3%, un risultato che rafforza il governo Craxi.

1987: il nucleare

L’8 novembre 1987 registra la prima vittoria del Sì al referendum. E sono ben cinque i sì ai quesiti promossi dai radicali, i più importanti riguardano il nucleare (che aveva tre quesiti, l’incidente di Cernobyl è dell’anno prima), la responsabilità civile dei giudici e la commissione inquirente. Ed è proprio da questa tornata referendaria che ancora oggi l’Italia non ha centrali nucleari sul proprio territorio.

1989: il primo (e unico) consultivo

Il 18 giugno 1989 si tiene il primo, e finora unico, referendum statale di indirizzo nella storia della Repubblica Italiana. L’ scopo è sondare la volontà popolare in merito al conferimento o meno di un ipotetico mandato costituente al Parlamento europeo, i cui rappresentanti italiani venivano eletti contestualmente. Visto che, come detto prima, la Costituzione italiana prevede (oltre ai referendum regionali) solo tre tipi di referendum (abrogativo, costituzionale e territoriale), l’indizione del referendum è possibile grazie a una legge speciale. I Sì vincono con l’88 per cento.

1990: i referendum ambientalisti

I Verdi, sull’onda della vittoria per il nucleare, lanciano assieme ai radicali, presentano tre quesiti sulla disciplina della caccia e l’uso dei fitofarmaci in agricoltura. Per la prima volta nella storia non si raggiunge il quorum. Eppure questo referendum ha influenzato le scelte del Parlamento negli anni successivi, che hanno visto soprattutto per quanto riguarda la caccia emanare una legislazione molto più restrittiva. 

1991: le leggi elettorali

Il 9 giugno 1991 si vota per abrogare le preferenze elettorali. Dopo una lunga battaglia giuridica, infatti, Mariotto Segni riesce a far passare solo uno dei tre quesiti proposti, e cioè quello sulla riduzione dei voti di preferenza da tre a uno (gli altri due respinti dalla Consulta erano sul sistema elettorale di Senato e Comuni). I Sì sono il 95,6%, i votanti il 62,2% e così fallisce quindi l’invito di Craxi ad «andare al mare».

1993: il sistema elettorale

Il 18 aprile 1993 si vota su otto referendum. Gli elettori rispondono con otto Sì. Il voto più importante è quello che modifica in senso maggioritario la legge elettorale del Senato. Aboliti tre ministeri (Agricoltura, Turismo e Partecipazioni statali), il finanziamento pubblico dei partiti, le nomine politiche nelle Casse di Risparmio.

1995: la tv

L’11 giugno 1995 si vota per 12 referendum. Il no vince sui tre quesiti più importanti che riguardano la legge Mammì, e sulla richiesta di modificare il sistema elettorale per i comuni.

1997: nessun quorum

Il 15 giugno 1997 niente quorum per i sette referendum superstiti (dei 30 iniziali). Si vota su Ordine dei giornalisti, golden share, carriera e incarichi extragiudiziari dei magistrati e altri temi minori.

1999: il proporzionale

Il 18 aprile 1999 si vota per l’abolizione della quota proporzionale nel sistema elettorale per la Camera. Il quorum però viene solo sfiorato (49,6%). Tra i votanti il Sì ottiene il 91,5%.

2000: quorum lontano

Il 21 maggio del 2000 si vota per sette referendum abrogativi. Nessuno di loro raggiunge il quorum. La percentuale dei votanti oscilla tra il 31,9 e il 32,5%. Il Sì ha comunque la maggioranza nei referendum per l’elezione del Csm, gli incarichi extragiudiziali dei magistrati, la separazione delle carriere, i rimborsi elettorali, le trattenute sindacali e l’abolizione della quota proporzionale. Sono invece di più i No nel referendum sui licenziamenti.

2001: il primo costituzionale

Il 7 ottobre 2001 si tiene il primo referendum costituzionale nella storia della Repubblica, con il quale si chiede agli italiani la modifica al titolo V della parte seconda della Costituzione. A differenza del referendum abrogativo, quello costituzionale (che già prevede un lungo iter parlamentare) non prevede il quorum. Vince così il Sì (sostenuto dal centrosinistra) con il 64.2%, con un’affluenza al 34,1% dei votanti.

2003: l’articolo 18

Il 15 giugno del 2003 si vota per due distinti quesiti: la reintegrazione dei lavoratori illegittimamente licenziati dalle piccole imprese (l’articolo 18) e la servitù coattiva di elettrodotto. È la prima occasione in cui il voto degli italiani residenti all’estero si può esprimere per corrispondenza, a seguito dell’approvazione della cosiddetta Legge Tremaglia. Il quorum non viene raggiunto. 

2005: la fecondazione assistita

Il 12 e 13 giugno del 2005 si vota per quattro distinti quesiti in materia di procreazione medicalmente assistita (la legge 40/04) . Il quorum non si raggiunge , l’80% di quelli che votano chiedono di cancellare le proibizioni su fecondazione assistita e ricerca sulle cellule staminali embrionali. Negli anni successivi i tribunali ne cancellano tre su quattro. E così oggi in Italia è possibile praticare la fecondazione eterologa, la fecondazione di più di tre gameti e l’accesso alla procreazione medicalmente assistita per le coppie fertili portatrici di patologie genetiche.

2006: il secondo costituzionale

Il 25 e 26 2006 giugno si tiene il secondo referendum costituzionale, che chiede la modifica della seconda parte della Costituzione. Il referendum (sostenuto dal centrodestra) vede la prevalenza dei no con il 61,29%, a fronte di un’affluenza alle urne pari al 52,46%.

2009: i premi di maggioranza

Il 21 e il 22 giugno 2009 si vota (insieme ai ballottaggi per le elezioni amministrative) su tre quesiti promossi da Mario Segni per abrogare specifiche disposizioni della legge elettorale (assegnazione del premio di maggioranza alla lista più votata, anziché alla coalizione, assegnazione del premio di maggioranza alla lista più votata, anziché alla coalizione, impossibilità per una stessa persona di candidarsi in più circoscrizioni). Il quorum non viene raggiunto: l’affluenza si ferma al 23%.

2011: torna il quorum

Il 12 e il 13 giugno del 2011 torna il quorum: si vota su quattro quesiti. Gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, tariffa del servizio idrico integrato, nucleare e abolizione della legge sul legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri. Il quorum si ottiene con il 54% e stravincono i Sì.

2016: le trivelle

Il 17 aprile del 2016 si tiene il referendum abrogativo sull’abrogazione della disposizione con cui la durata delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in zone di mare (chiamato il referendum sulle trivelle). Il quorum è lontano, l’affluenza si ferma al 31%.

2016: la riforma Renzi-Boschi

Nello stesso anno, il 4 dicembre del 2016, si tiene il terzo referendum costituzionale sulla cosiddetta la riforma Renzi-Boschi, che prevede il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione. Vince nettamente il No con il 59 %. Renzi, che nel 2015 aveva annunciato che in caso di sconfitta si sarebbe dimesso, lascia Palazzo Chigi.

2020: il taglio dei parlamentari

Il quarto referendum costituzionale è originariamente previsto per il 29 marzo 2020. Per l’emergenza Covid si tiene il 20 e 21 settembre e chiede la modifica della costituzione per la riduzione del numero dei parlamentari. Vince il Sì, con il 69,96% dei consensi. Il no si ferma al 30%.

·        Il Draghicidio.

(ANSA il 15 luglio 2022) - "Se Conte ritira i ministri dal governo Draghi di fatto si va allo scioglimento delle Camere, non ci sarà nessuna possibilità di mandare avanti il governo. Io lo voglio dire ai cittadini molto chiaramente: questa crisi avrà effetti pesanti". Questa una anticipazione dell'intervista del ministro Di Maio che andrà in onda questa sera al Tg3.

"Il partito di Conte colpisce il governo. Meraviglia che questo venga da un ex premier, forse per vendetta contro qualcuno". Questa una anticipazione dell'intervista del ministro Di Maio che andrà in onda questa sera al Tg3.

(Agenzia Nova) il 18 luglio 2022.

Da qualche mese, secondo nostre fonti riservate, Giuseppe Conte chiedeva al presidente del Consiglio di poter prendere il posto di Luigi Di Maio come ministro degli Esteri. Una richiesta divenuta pressante più o meno alla metà di giugno. 

Sarebbe stato proprio questo il motivo che avrebbe spinto Di Maio ad accelerare il progetto di scissione, che comunque coltivava da tempo, giocando d'anticipo per sgonfiare le ambizioni del leader dell'M5s. 

Di fatto, però, la scissione fa da detonatore della crisi, esasperando Conte e ponendo lo stesso movimento in una situazione difficilissima, in vista delle prossime elezioni politiche e della costituzione dell'alleanza elettorale con il Partito democratico. 

Ai più avveduti tra i parlamentari grillini, tuttavia, non sfugge l'incontro che, sempre giovedì 14 luglio, si svolge al Quirinale tra il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e Domenico Arcuri. L'ormai ex Ad di Invitalia è preoccupato per l'inchiesta portata avanti dalla Procura di Roma sull'acquisto di mascherine cinesi, per decine di milioni, nella prima fase della pandemia.

Secondo nostre fonti riservate, Arcuri avrebbe fatto pressioni tanto sul capo dello Stato, quanto sul leader dell'M5s, per evitare un accanimento nei suoi confronti. Era stato, infatti, proprio Conte a nominare Arcuri commissario straordinario per il Covid e, secondo alcune fonti, una parte dei fondi dovuti all'intermediazione sarebbe finita su conti bancari di Hong Kong.

Conte, parabola di un leader. La metamorfosi dell’ex premier M5S. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 16 luglio 2022.

La parabola dell’ex premier: da statista che liquida il Salvini del Papeete al ritorno di una copia sbiadita dei tempi del «vaffa» 

Che vita difficile, e che parabola incredibile. Mancano 120 ore al giudizio universale, che vale per tutti, ma per Giuseppe Conte in modo particolare. Padella o brace. Da una parte l’andata a Canossa, qualora il pressing italiano e internazionale convincesse Mario Draghi a restare. Dall’altra la rottura e una nuova sfida, stavolta con le pulsioni iper populiste di Alessandro Di Battista, che già affila le armi perché la guida del Movimento in mano all’ex premier non sia che una parentesi.

Mercoledì il premier dimissionario sarà davanti alle Camere e il filo sottile, quasi inesistente, che porta a una riedizione del governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi, passa per una porta strettissima per l’avvocato del popolo. Sì al termovalorizzatore, no allo scostamento di bilancio, si alle riforme fiscali e della concorrenza, si al sostegno all’Ucraina senza cedimenti, no a una quotidianità fatta di strappi piccoli e grandi per cercare di razzolare i voti perduti. Dura da digerire. Ma dura anche da rifiutare, perché dall’altra parte c’è la fiera pasionaria dei barricadieri a Cinque stelle, ugualmente rissosi ma assolutamente privi della fantasia onirica, per quanto velleitaria, del fondatore: il Beppe Grillo della prima ora.

I contorcimenti delle ultime ore con l’ipotesi di ritirare i ministri, con i ministri che fanno sapere che non ci pensano proprio e con Giuseppe Conte costretto a veicolare che non è lui che l’ha detto ma che piuttosto il dimissionario è Draghi, non sono che un assaggio disperato di quello che può succedere nei prossimi giorni. O in questi minuti, con l’ex premier che magari la spunta e riesce a portar via dal governo la sua delegazione.

Ma è qui che si aprirebbe la partita più ardua per Conte, quella per mettersi a capo di un’Armata Brancaleone assai difficile da guidare. Non abbiamo leggi contro il cattivo gusto, perché da noi, e non solo da noi, è stato convertito in un genere di consumo. E quindi è lecito raccontare cosa pensa Alessandro Di Battista, con le parole che lui stesso ha affidato alle agenzie.

Il Che Guevara di casa nostra, con la vespa al posto della motocicletta e il parco alberato di Monte Mario al posto della giungla cubana o boliviana, ancora non si fida. Sarebbe un’ottima notizia, dice, se il governo cadesse, ma non ne è così sicuro: «Perché quelli che si appellano al senso di responsabilità, negli ultimi anni, sono stati responsabili solo del loro culo, tra l’altro flaccido come la loro etica. E in caso di elezioni non potrebbero fare comizi se non mettendosi di spalle, anche se in molti, guardandogli i deretani, riconoscerebbero all’istante i loro volti».

Davvero ha qualcosa a che fare con questo linguaggio l’uomo della pochette? Il premier che parlava con rassicurazioni flautare agli italiani chiusi in casa per il virus, il leader che faceva sapere di trattare alla pari con la cancelliera tedesca Angela Merkel per il Piano di ripresa e resilienza? Lo statista che faceva fuori il Matteo Salvini del Papeete e che una volta sconfitto con il suo secondo governo passava la campanella a Mario Draghi assicurando il suo sostegno leale perché l’Italia viene prima? O quello che pretendeva che si prendesse per buono il suo no a che diventasse presidente della Repubblica perché non si poteva assolutamente fare a meno di Draghi alla guida dell’esecutivo? E che fine ha fatto l’uomo che, ai tempi d’oro, il suo staff accreditava come uno statista che non avrebbe sfigurato al Quirinale?

Sembra suicida il suo tentativo di mettersi alla testa di una copia sbiadita e sgangherata dei tempi del vaffa, senza idee nuove, senza il lavoro certosino di quello sgobbone di Luigi Di Maio, con una ridotta di parlamentari fedeli solo finché qualcuno non gli buttasse un’ancora del si salvi chi può e con il ministro degli Esteri che è già pronto ad accogliere una pattuglia nutrita di nuovi fuggiaschi.

Si apre per altro, per l’ex premier, una partita disperata sul fronte delle alleanze. Nel Pd c’è chi comincia a mettere in discussione anche le primarie comuni per le regionali siciliane e la possibilità di individuare nei collegi uninominali candidati unitari è destinata a naufragare con il giudizio diverso sul governo Draghi, sulla guerra e su tante altre cose. Con l’aggiunta del taglio dei parlamentari quello che fu l’esercito dei cinque stelle si avvia sulla strada dell’irrilevanza.

Conte non può nemmeno contare su un sostegno sicuro di Beppe Grillo, che ha smesso di amarlo già agli esordi della sua contrastata leadership, quando tentò, senza riuscirci, di ottenere per statuto i pieni poteri, esautorando il fondatore. È in fondo la sua vocazione avvocatizia a confonderlo, l’idea che in politica ci si possa impossessare del timone di un partito mettendolo per iscritto, e non conquistandolo giorno dopo giorno.

Ilario Lombardo per “la Stampa” il 15 luglio 2022.

Mara Carfagna è rimasta colpita dal tono. Il tono perentorio con cui Mario Draghi annuncia le proprie dimissioni ai ministri e che lascia davvero poco spazio ai dubbi. «La maggioranza di unità nazionale non c'è più», «è venuto meno il patto di fiducia», «non ci sono più le condizioni per andare avanti». È netto. Risoluto. 

Non se l'aspettava Carfagna, né se l'aspettavano gli altri seduti attorno a quel tavolo. Il premier concede appena uno sguardo ad Andrea Orlando, che gli chiede un ripensamento prima di essere travolto dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, voluto da Beppe Grillo e mai amato dai grillini: «È anche colpa vostra che avete dato sponda al M5S». Sono le lacerazioni finali di un governo a pezzi. Quando Federico D'Incà esce dal retro di Palazzo Chigi ha sul volto tutto lo sconforto di chi ha corso con il secchiello per salvare la casa dallo tsunami: «Io sono un ottimista di natura, ma questa volta sono molto preoccupato per il Paese» 

I politici sono abituati ai politici, alle parole che sfumano, perché ogni possibilità e anche il suo contrario possa essere riacciuffata. «Draghi non è un politico» ripetevano dalla sua cerchia di collaboratori più stretti: «Farà quello che dice». E c'è da credergli a questo punto. Perché la giornata di ieri racconta di una fermezza che per alcuni è ostinazione, per altri coerenza, termine da pronunciare lontano da questi palazzi se non si vuole essere considerati degli sprovveduti e che fino alle sei di ieri pomeriggio strappava una risata a chi nei partiti è abituato a collezionare crisi di governo. 

Certo è che, come si diceva nei giorni scorsi, Sergio Mattarella ci ha provato a placarlo e continuerà a farlo, convinto che non esista una fine finché non è finita. Draghi non ha aggiunto l'aggettivo «irrevocabile» alle sue dimissioni. Ha acconsentito al Capo dello Stato quando gliel'ha respinte con la motivazione che sarebbe stato opportuno onorare il Parlamento con un discorso in Aula. E così mercoledì Draghi sarà alla Camera da premier dimissionario, due giorni dopo la visita in Algeria, come da agenda. Per i partiti è uno spiraglio: cinque giorni sono un'enormità per tentare di capovolgere l'inevitabile, e scongiurare il voto. 

Draghi è salito al Quirinale due volte. Ha rinviato il Cdm e poi è tornato perché da prassi le dimissioni si annunciano ai ministri prima di rassegnarle formalmente al presidente della Repubblica. Il premier sconfina un po' dal suo ruolo e con una certa irritualità, avvertita anche al Colle, anticipa in Consiglio la decisione che mercoledì farà le sue comunicazioni in Parlamento. Mattarella ha ragionato a rigore di Costituzione.

Il governo non ha perso la fiducia dell'Aula. Anzi, il voto di ieri l'ha confermata. Si tratta di una crisi politica extraparlamentare e parlamentarizzarla serve anche a esplorare la strada della ricomposizione attraverso una verifica. Da qui a mercoledì tutto sarà capire se le resistenze di Draghi verranno scalfite e accetterà di passare da un voto che gli riconfermi la fiducia. 

Anche perché lo spread, le borse, le pressioni europee e atlantiche avranno un peso.

Al momento, assicurano a Palazzo Chigi, non sarà così. I suoi collaboratori già lavorano al discorso. Che condenserà tutto quanto è successo, cosa ha portato alla scelta del gran rifiuto e perché non ha voluto ripensarci. Molto di quello che dirà lo ha già comunicato al suo staff e durante il confronto con Mattarella. Il primo motivo: «Non avrei più l'agibilità politica». Draghi si è guardato intorno. 

Non c'è solo Giuseppe Conte e il M5S che non hanno votato la fiducia collegata a un testo contente l'inceneritore di Roma, per i 5 Stelle invotabile. Ma c'è tutto quello che questo strappo comporta. Il fatto che spalanca le porte a un senso di anarchia nella maggioranza. Lo prova l'atteggiamento di Matteo Salvini. Negli ultimi due giorni il presidente del Consiglio ha osservato il leader della Lega e vive come una «provocazione» che abbia chiesto uno scostamento di bilancio di 50 miliardi di euro, quando sa benissimo che l'ex numero uno della Banca centrale europea è contrario all'extradeficit.

Draghi non vuole mettere in gioco, dice, «una credibilità, una affidabilità, una reputazione» che si è costruito in tutti questi anni a livello globale. E fa nulla che gli abbiano riportato che dai vertici del Movimento sono già pronti a sventolare «il Papeete di Draghi» se non rimetterà in discussione le sue dimissioni. «Dovevano pensarci prima», sostiene amareggiato il capo del governo, disgustato da «ripensamenti tardivi» figli di «bizantinismi, ambiguità e alchimie» a cui non ha mai voluto cedere. 

I fatti che vede Draghi sono semplici. Ieri il secondo partito della maggioranza, il primo fino a un mese fa, non ha votato la fiducia. Non ha nemmeno accettato il compromesso di far votare una parte dei senatori, come si lasciò fare alla Lega sul Green Pass lo scorso settembre. Anche un ministro, Stefano Patuanelli, senatore, ha disertato l'Aula.

E questo, per il capo del governo, è stato molto grave. E poi ci sono i discorsi, i comunicati, le affermazioni dei leader.

Draghi si aspettava altre parole da Conte, durante l'assemblea dei parlamentari in streaming di mercoledì sera, parole di moderazione e di buona volontà di ricucire. «Non altri ultimatum» come quelli che il M5S ha ribadito anche in Aula. Draghi le ha messe in fila, le dichiarazioni ufficiali: di Conte, ma anche di Salvini, e persino di Enrico Letta: «Ho notato che tutti chiedono le elezioni...». La conclusione della frase è conseguente: perché non sta al premier deciderlo ma, a questo punto, le forze politiche potrebbero essere accontentati. Per la prima volta anche al Quirinale non lo escludono. Il 10 ottobre, si dice già nella pancia dei partiti, tra la rassegnazione e la speranza di convincere all'ultimo secondo Draghi a restare.

Draghi si è dimesso. Il comunicato: “La maggioranza di governo non c’è più”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 14 Luglio 2022. 

Nel colloquio con il presidente Mattarella la decisione se rimandare il premier davanti alle Camere o se iniziare nuove consultazioni

La decisione del Movimento 5 Stelle di non votare il “Dl Aiuti” al passaggio al voto del Senato, uscendo dall’Aula, ha spinto il governo Draghi alla crisi politico. Sul provvedimento con le misure urgenti su energia, imprese, investimenti, politiche sociali e crisi ucraina l’esecutivo ha infatti posto la questione di fiducia in entrambi i rami del Parlamento. Alla Camera il M5S guidato da Conte – fortemente contrario alla norma che spianerebbe la strada alla costruzione del termovalorizzatore a Roma – aveva confermato la fiducia al governo, astenendosi invece sul provvedimento in sè. Uno schema, che non era replicabile in Senato, dove il voto è unico.

Poi il voto di fiducia a Palazzo Madama con 172 favorevoli, 39 contrari e, come detto, tutti i Pentastellati assenti. Una dimostrazione che questa maggioranza può fare a meno tranquillamente del M5S. Subito dopo la votazione il Consiglio dei ministri è stato sospeso: lo si apprende da fonti di Palazzo Chigi.

Mario Draghi ha annunciato le sue dimissioni da presidente del Consiglio: “Le votazioni di oggi in Parlamento sono un fatto molto significativo dal punto di vista politico“. La sua rinuncia all’incarico di premier che verrà comunicata stasera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è stata anticipata da un comunicato che pubblichiamo di seguito

Il comunicato di Draghi

Buonasera a tutti,

Voglio annunciarvi che questa sera rassegnerò le mie dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica.

Le votazioni di oggi in Parlamento sono un fatto molto significativo dal punto di vista politico.

La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più.

È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo.

In questi giorni da parte mia c’è stato il massimo impegno per proseguire nel cammino comune, anche cercando di venire incontro alle esigenze che mi sono state avanzate dalle forze politiche.

Come è evidente dal dibattito e dal voto di oggi in Parlamento questo sforzo non è stato sufficiente.

Dal mio discorso di insediamento in Parlamento ho sempre detto che questo esecutivo sarebbe andato avanti soltanto se ci fosse stata la chiara prospettiva di poter realizzare il programma di governo su cui le forze politiche avevano votato la fiducia.

Questa compattezza è stata fondamentale per affrontare le sfide di questi mesi.

Queste condizioni oggi non ci sono più.

Vi ringrazio per il vostro lavoro, i tanti risultati conseguiti.

Dobbiamo essere orgogliosi di quello che abbiamo raggiunto, in un momento molto difficile, nell’interesse di tutti gli Italiani.

Grazie.

L’annuncio delle dimissioni del premier italiano Mario Draghi ha fatto il giro del mondo come “breaking news” di tutte le principali agenzie di stampa, dalla francese Afp alla tedesca Dpa, fino all’austriaca Apa. La notizia viene rilanciata anche dalla Bbc, che apre il sito sulla crisi di governo in Italia.

Questi adesso gli scenari possibili.

Il primo, visto come il più fisiologico: il premier Mario Draghi, rimette il mandato nelle mani del presidente della Repubblica, il quale lo rinvia alla Camere (o anche solo al Senato). Draghi tornerebbe quindi a chiedere la fiducia ai parlamentari e a questo punto i 5 Stelle potrebbero votare a favore, facendo rientrare la crisi. Una seconda alternativa è che Draghi ottenga la fiducia anche senza il Sì dei 5 Stelle. In questo caso il governo continuerebbe con una nuova maggioranza (e un conseguente rimpasto): eventualità contemplata da Forza Italia e Italia Viva ma esclusa al momento dallo stesso premier.

Il Secondo scenario ipotizza che Draghi decide di non parlamentarizzare la crisi ma rassegna dimissioni irrevocabili. In questo caso inizierebbero nuove consultazioni. Una delle ipotesi è che Mattarella dia un mandato esplorativo ai presidenti di Camera e Senato per sondare la possibilità di formare un nuovo governo. In caso di esito negativo il capo dello Stato scioglierebbe le Camere e si andrebbe invece al voto anticipato, con urne a settembre o ottobre. 

Mattarella respinge le dimissioni di Draghi

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto questa sera al Palazzo del Quirinale il Presidente del Consiglio dei Ministri, Mario Draghi, non accogliendo di fatto le sue dimissioni: è quanto si legge in una nota diramata dal Colle. Il capo dello Stato ha inoltre invitato il premier a presentarsi in Parlamento per rendere comunicazioni, affinché si effettui, nella sede propria, una valutazione della situazione che si è determinata a seguito degli esiti della seduta svoltasi oggi presso il Senato della Repubblica. Redazione CdG 1947

Ecco tutto quello che si ferma a causa della crisi di governo voluta dal M5S: dal gas al Pnrr. A rischio il sostegno per imprese e famiglie. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Luglio 2022.  

la questione più spinosa è tutta la partita che si sta giocando per ridurre la dipendenza dal gas russo e poter affrontare serenamente il prossimo inverno. La corsa al riempimento degli stoccaggi, gli accordi per le forniture alternative, i piani per accelerare gli investimenti in rinnovabili hanno bisogno di poter contare un Governo nel pieno dei suoi poteri delle sue funzioni

Ogni crisi di governo in Italia, come ben noto “paralizza” il Paese. Questa crisi di governo provocata dagli irresponsabili del M5S rischia di bloccare una serie di provvedimenti fondamentali, in una fase in cui l’inflazione continua ad aggiornare livelli record e la tenuta del sistema sociale e di quello economico è messa a dura prova dalla congiuntura. Dall’attuazione del Pnrr alla corsa per gli stoccaggi del gas, dal promesso taglio del cuneo fiscale alle misure a sostegno di famiglie e imprese, l’intera politica economica subirebbe un brusco arresto nel caso in cui il passaggio parlamentare di mercoledì prossimo non risolvesse la crisi nel senso della continuità.

Il corrente mese di luglio doveva servire ad accelerare su tutti i dossier aperti e preparare la prossima legge di Bilancio. Ora, invece, una serie di punti interrogativi accompagnano tutte le partite aperte. Che ne sarà della tranche da 21 miliardi del Pnrr? Saranno rispettati i target di fine anno del Piano? E, ancora, si riuscirà ad approvare una legge di Bilancio o si arriverà al sempre paventato esercizio provvisorio? 

L’elenco delle domande potrebbe continuare a lungo. Sicuramente, i piani elaborati dal governo Draghi vengono sospesi. Il confronto con le parti sociali avrebbe dovuto portare a un decreto di fine luglio per iniziare ad alzare i salari, anche con una prima elaborazione del salario minimo, e a contenere gli effetti del rialzo dei prezzi sul potere d’acquisto degli italiani. Un decreto che di fatto avrebbe anticipato parte della legge di bilancio, utilizzando le risorse assicurate dall’extragettito dell’Iva e già contabilizzate con l’ultimo assestamento, e che avrebbe incluso anche nuove misure per le imprese energivore e un bonus bollette selettivo, indirizzato ai redditi più bassi. Tutte misure su cui si sarebbe potuto trovare un accordo, mettendo da parte lo scontro politico e la difesa a oltranza delle misure di bandiera. La manovra avrebbe dovuto fare un passo ulteriore, assicurando nuovi interventi anti crisi e anche misure più strutturali, come il taglio al cuneo fiscale.

Altrettanto a rischio il destino di una serie di provvedimenti all’esame del Parlamento: dalla delega fiscale alla legge sulla concorrenza, con la spinosa questione dei taxi ancora da sciogliere, fino alla riforma degli enti locali.

Ma la questione più spinosa è tutta la partita che si sta giocando per ridurre la dipendenza dal gas russo e poter affrontare serenamente il prossimo inverno. La corsa al riempimento degli stoccaggi, gli accordi per le forniture alternative, i piani per accelerare gli investimenti in rinnovabili hanno bisogno di poter contare un Governo nel pieno dei suoi poteri delle sue funzioni. E’ emblematico che l’ultimo atto di Draghi premier potrebbe essere il viaggio in Algeria, fondamentale per costruire un pezzo di questo percorso.

Chi non capisce l’importanza di essere considerati e stimati a livello internazionale grazie a Mario Draghi, in una fase così drammatica, non merita la fiducia degli Italiani. Redazione CdG 1947

Francesca Galici per ilgiornale.it il 15 luglio 2022.

È stato un Consiglio dei ministri breve ma intenso quello che si è tenuto nel tardo pomeriggio. È stata una giornata convulsa per la politica italiana, sotto scacco del gruppo del M5s che ha deciso di aprire una crisi di governo nel momento più delicato per il Paese. Lo strappo dei senatori di Giuseppe Conte, che in blocco si sono astenuti dal voto di fiducia posto dal governo sul dl Aiuti, ha spinto Mario Draghi ad annunciare le sue dimissioni durante il Consiglio dei ministri. 

Dimissioni che, successivamente, sono state respinte da Sergio Mattarella, che ha rimandato il presidente del Consiglio alle Camere. Ma la tensione nel governo è alle stelle e sarà difficile ricucire una maggioranza divelta dall'irresponsabile azione del M5s, come dimostra la discussione tra Andrea Orlando e Roberto Cingolani durante il Consiglio dei ministri.

Tutto è nato quando Mario Draghi ha annunciato al suo gruppo di governo che questa sera stessa sarebbe salito al Colle per rassegnare le sue dimissioni. Dopo che Mario Draghi ha reso nota la sua decisione, tra i presenti si è registrato un "silenzio assordante", come rivela un ministro. In quel momento, solo uno dei presenti è intervenuto per chiedere al presidente di ripensarci: Andrea Orlando. Il ministro del Lavoro, infatti, ha invitato Mario Draghi a concedersi un supplemento di riflessione, vista la situazione complicata. Un atteggiamento che ha creato qualche malumore in Roberto Cingolani, che ha invitato il collega a non intromettersi e a stare al suo posto. Una richiesta che il titolare del Mite ha fatto a quello del Lavoro anche e soprattutto per la situazione complicata che si è venuta a creare, con l'emergenza gas che incombe.

A maggior ragione, avrebbe spiegato Andrea Orlando, è il caso di insistere affinché Draghi ci ripensi, evitando un salto nel buio potenzialmente drammatico per il Paese. La controreplica del ministro del Lavoro ha ulteriormente alzato la tensione nel Consiglio dei ministri e Roberto Cingolani ha sbottato: "Hai fatto il gioco di Conte". 

Il riferimento è all'aumento della tensione tra i ministri. La lite è stata sedata, anche per questioni di ragionevolezza, vista la situazione complicata. Un applauso dei ministri ha accompagnato Mario Draghi all'uscita dalla sala del Consiglio di Palazzo Chigi. Il premier dimissionario a sua volta ha salutato, ringraziando i membri del governo prima di dirigersi al Colle.

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 15 luglio 2022. 

Un caffè in piazza Sant' Eustachio, prima della broda amara che servono alla buvette di Palazzo Madama.

«Come butta la giornata?». 

Barcolla.

«Ma chi?».

Lei. La senatrice grillina Paola Taverna. È venuta in bilico su zatteroni bianchi da spiaggia tipo Kursaal di Ostia. Sguardo spiritato, soffia perfida. «Oggi li sfonnamo de brutto» - traduzione: oggi li metteremo in grande difficoltà. 

Cronaca battente. Con le porte dell'ascensore che si aprono sul corridoio dei Busti.

Avviarsi circospetti verso l'abisso possibile di una tragica crisi di governo. Qui, al Senato: tra ricatti e minacce, sicofanti sistemici, tonfi, miserabili calcoli elettorali, comici pretesti - «Il termovalorizzatore di Roma ci farà morire tutti avvelenati» - e Giuseppe Conte ancora mezzo dentro e mezzo fuori (è terrorizzato: come dice Marco Follini su Twitter, «si era capito non fosse Aldo Moro»; però, insomma, un po' di grammatica. 

Invece: non è riuscito a controllare le sue bande ribelli, ha dovuto promettergli il peggio e ora - pressioni del Quirinale, del Vaticano, dei mercati - cerca una via d'uscita). 

Ma guarda: è già arrivato il ministro a cinque stelle Federico D'Incà. Per forza: su incarico dell'avvocato di Volturara Appula si sta lavorando - aumm aumm - i capigruppo dei partiti.

Vuole convincerli a eliminare il voto di fiducia.

Passa il leghista Roberto Calderoli, sprezzante: «Hanno capito di aver fatto un casino. Sono dei poveracci». Risbuca la Taverna, e ringhia: « Tanto nun c'è trippa pe' gatti, je votamo contro »; traduzione: c'è poco da brigare, voteremo contro il governo. Infatti. Solo che a bocciare il piano di mediazione è Mario Draghi. «La fiducia resta». 

Sulla Moleskine, un appunto: ricordarsi di spiegare il clima di sostanziale allegria/incoscienza con cui i senatori grillini spingono il governo nel pozzo. Guerra, pandemia, crisi energetica, inflazione alle stelle, recessione in arrivo: ignorano tutto. Pensano solo ai loro sondaggi (già in picchiata). Ecco il senatore Gianluca Castaldi (arbitro di beach soccer, prima di salire sul carrozzone del Vaffa e ritrovarsi con un sostanzioso conto corrente): «Usciamo subito da questa melma». Ecco Vito «orsacchiotto» Crimi: «Adesso, o mai più». Alberto Airola: «Le fragole sono ormai marce».

Sghignazzano. Passeggiano tronfi nel salone Garibaldi. Maurizio Gasparri, autorevole esponente di FI, li osserva severo. «Sono preoccupato. Conte ragiona da sughero: è abituato a galleggiare, senza battere ciglio ha fatto il premier gialloverde e poi giallorosso.

Non capisce che Draghi è un uomo diverso. Quello, se si arrabbia, se ne va». Il sito Dagospia batte la notizia che, in caso Draghi si dimettesse, Giuliano Amato potrebbe traghettare il Paese fino alle elezioni (abbastanza surreale che a sondare Conte e Salvini sarebbe stato Massimo D'Alema).

A proposito: Salvini? Non pervenuto; anche perché i governatori leghisti, da Zaia a Fedriga, pensano ai soldi del Pnrr che gli imprenditori dei loro territori aspettano, e che solo Draghi può garantire. Quelli del Pd li riconosci perché camminano chini, muro muro, con addosso lugubri presagi. Avevano individuato in Conte il «riferimento riformista del futuro». Adesso, in caso di voto, il M5S sarebbe un alleato impossibile. Matteo Renzi: «Il Pd avrebbe una sola opzione: allearsi con me, Calenda, Brugnaro, Toti... però pure così, e ve lo dice uno che notoriamente ha un'altissima considerazione di se stesso, il centrodestra vincerebbe in carrozza» (cinico, ma lucido).

Intanto, dentro, nell'emiciclo: dichiarazioni di voto. Adesso è il turno della capogruppo grillina, Mariolina Castellone. Ripete il copione che le hanno scritto. Voce roca, aggressiva. Mentre parla annuisce ingrugnito un tipo che le siede accanto: indossa una giacca rossa di quelle che usa il Mago Forest (un altro grillino, prima, si aggirava con un paio di sandali francescani: boh). Quando la Castellone conclude il discorso, i suoi si scatenano: una standing ovation covata da mesi. 

Inizia la conta e i grillini escono (due cronisti salutano, i loro direttori gli hanno chiesto di andare a Palombara Sabina da Giorgia Meloni, alla Festa dei Patrioti: ciambelline al vino e porchetta, seduta tra la gente; poi non chiedetevi perché vola nei sondaggi). Voto finale: 172 sì, 39 no. Colpisce la botta di puro dadaismo politico del ministro grillino Stefano Patuanelli che non ha votato la fiducia a se stesso (lo sentono andar via che ragiona incerto: «Il governo? Siamo dentro, siamo fuori, non si capisce»). Avvertite i familiari.

Fed. Cap. per la Stampa il 16 luglio 2022.

Questa crisi di governo, a guardarla bene, evolve di pari passo con il vocabolario di Paola Taverna: più le cose peggiorano, più nella pasionaria grillina riemergono le radici della periferia di Roma est. Sembra non ce la faccia davvero più a indossare i panni ingessati della vicepresidente del Senato, costretta a soffocare l'accento romano strascicato, cercare termini forbiti, evitare le scurrilità. 

L'anima della borgata romana infiammata da un «vaffa», nascosta forse con un pizzico di vergogna in questi anni di governo, sta riemergendo impetuosa. Ed è un ritorno che coincide con la voglia dei Cinque stelle di sfasciare tutto, riassaporare l'opposizione, magari le urne. 

È lei a guidare i falchi M5S di palazzo Madama, che da settimane spingono Giuseppe Conte a consumare lo strappo definitivo con Mario Draghi. In fondo la spiegazione di questa crisi, sintetizzata da Taverna, ha il pregio della linearità romana: «Se semo rotti», e non solo i parlamentari M5S, «c'ho pure gli attivisti che me scrivono tutti i giorni». Insomma, dalla scissione di Luigi Di Maio in poi, a «tutto sto caz.. de casino che sta succedendo», evidentemente c'è solo una conseguenza: «Mo' li sfonnamo».

Eppure, oltre le parole che prendono la forma di blocchi di pietra grezza, Taverna cerca di giocare la sua partita politica. Come fosse seduta al tavolo da poker, da un lato spinge per la crisi, dall'altro cerca di fare sue le posizioni dell'ala moderata che chiede, prima di saltare giù dal burrone, di avere ben chiaro il percorso politico dei prossimi mesi. Taverna in queste ore prova a rassicurare chi chiede prudenza e al tempo stesso serra i ranghi del Senato. Sente di avere il controllo delle truppe di palazzo Madama e forse per la prima volta questa sua sensazione si avvicina alla realtà. Le partite giocate finora, dal rinnovo del capogruppo di palazzo Madama alla nomina della presidenza della commissione Esteri, quando assicurava a Conte numeri che non aveva, non sono andate come sperava. Ma adesso è il tempo dell'all-in. Anzi, «de giocasse tutto». Ed è vicina alla vittoria. 

Paola Taverna, "lo sfonnamo de brutto": insulti e minacce a Mario Draghi. Libero Quotidiano il 15 luglio 2022

"Oggi li sfonnamo de brutto": la senatrice Paola Taverna avrebbe pronunciato queste parole prima di entrare in Aula al Senato per non-votare la fiducia al Dl Aiuti e dare inizio alla crisi di governo. Lo si legge in un retroscena del Corriere della Sera firmato da Fabrizio Roncone. Che poi ha incrociato pure il leghista Roberto Calderoli: "Hanno capito di aver fatto un casino. Sono dei poveracci".  

La Taverna, intercettata dal cronista del Corsera, avrebbe detto pure: "Tanto nun c'è trippa pe' gatti, je votamo contro", ossia: "c'è poco da fare, voteremo contro il governo". Pare che prima del voto il piano - affidato al ministro per i rapporti col Parlamento Federico D'Incà - fosse quello di convincere i capigruppo dei partiti a eliminare il voto di fiducia. Il piano però è fallito, la fiducia è rimasta e alla fine Draghi si è pure dimesso. Roncone parla anche del clima che si respirava ieri a Palazzo Madama: "Un clima di sostanziale allegria/incoscienza con cui i senatori grillini spingono il governo nel pozzo. Guerra, pandemia, crisi energetica, inflazione alle stelle, recessione in arrivo: ignorano tutto. Pensano solo ai loro sondaggi (già in picchiata)". 

Tra i senatori grillini che rilasciano un commento prima del non-voto c'è anche l'ex reggente Vito Crimi: "Adesso, o mai più". Angosciato invece Maurizio Gasparri di Forza Italia: "Sono preoccupato. Conte ragiona da sughero: è abituato a galleggiare, senza battere ciglio ha fatto il premier gialloverde e poi giallorosso. Non capisce che Draghi è un uomo diverso. Quello, se si arrabbia, se ne va". Infine il cronista parla del ministro Stefano Patuanelli: "Non ha votato la fiducia a se stesso (lo sentono andar via che ragiona incerto: 'Il governo? Siamo dentro, siamo fuori, non si capisce')".

Estratto dell’articolo di Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera” il 15 luglio 2022. 

[…] Ed è qui che Andrea Orlando prende la parola e azzarda: «Presidente, il quadro di grande incertezza di questa fase, anche sul piano internazionale, rischia di compromettere il grande lavoro che abbiamo fatto. Se c'è spazio per un ripensamento io credo che lei lo dovrebbe considerare...». Draghi tace. Tacciono tutti. 

Finché Roberto Cingolani rompe il silenzio e sfida il ministro dem: «Parli tu, che sei del Pd e hai fatto il gioco di Conte». Tensione alta, ma la scintilla si spegne nel silenzio generale. E dire che a Draghi era scappata persino una battuta su Giorgetti, che ha portato dei francobolli celebrativi: «Un giorno ne stamperanno uno su di te». Poi si torna al Colle, questa volta per le dimissioni. […] 

Francesco Specchia per Libero Quotidiano il 16 luglio 2022.

«Oggi li sfonnamo de brutto!». Li sfonnamo. Li mortacci sua. Ahò. Eccetera.

Così, tutta presa in una raffinata analisi tecnica della crisi e con una prosa rispettosa degli avversari politici e della cornice di Palazzo Madama, Paola Taverna veniva spietatamente dipinta da Fabrizio Roncone sul Corriere della sera. Fabrizio resocontava sugli sghignazzi, i sorrisi, i rutti istituzionali con cui i 5 Stelle plaudivano al killeraggio di Draghi, seppur inconsapevoli del fatto di stare apparecchiando la loro stessa tomba. Uno spettacolo tristissimo.

LA TESTA DI PONTE Ma è proprio lì, nel sarcasmo della Taverna - la quale, smesso l'abitino da vicepresidente del Senato è tornata a parlare come in un film di Bombolo- ; è lì che, nei cronisti, a quel punto, sorgeva l'interrogativo. Perché mai l'avrà fatto? Com' è riuscita la Taverna che era la testa di ponte dell'ala oltranzista, a convincere il mentore Conte (maestro del galleggiamento, «uno che ragiona da sughero» come dice Maurizio Gasparri) a buttare a mare tutto il lavoro e il lavorio d'una vita? La politica è davvero una taverna, con dei tipacci al bancone e un pugno di bari sparsi tra i tavoli.

E la Paola Taverna, diamine, era riuscita a smarcarsi da un destino pasoliniano, da lei sempre astutamente descritto come pietra di paragone del proprio riscatto. L'appartamento di cinquanta metriquadri nella borgata di Torre Maura da dove si respirano gli umori del "popolo"; il padre morto per un aneurisma alla orta, che lei aveva appena diciassette anni; il diploma di perito aziendale e corrispondente in lingue estere e il primo lavoretto da grafica editoriale; e il secondo come segretaria in un poliambulatorio per le analisi cliniche; l'accidentata maternità; l'incontro col grillismo da barricadera spinta; la doppia elezione dalle viscere del popolo tutt' altro che fregnone. Tutto, nella narrazione della Taverna era -per dirla con Rino Formicasangue e merda. Sangue, merda, e polvere da sparo. 

Era talmente immersa, Paola, nell'odio per i parlamentari che, nel 2013, dall'emiciclo di Palazzo Madama gridava ai colleghi, peraltro alleati: «Gnente!

Siete gnente!», dimenticandosi di essere ella stessa parte di quel "gnente" parlamentare.

Ma il suo era un riflesso antisistema pavloviano. Lo stesso silenzio imposto di quando, eletta, vietò, in un servizio delle Iene, di chiamarla "senatrice". 

«Ma, scusi, senatrice, lei è senatrice...», risposero quei carognoni dei ragazzotti in nero, facendole notare il lauto stipendio che il ruolo le concedeva.

Mortacci loro. La senatrice si rinchiuse in uno stizzito silenzio che neanche Zaccagnini.

Il medesimo silenzio opposto alla risposta che un medico donna anestesista diede al furore antivaccinista della pentastellata: «Cara senatrice, per fare il mio lavoro occorrono anni di studio, per il suo basta prendere i voti, Parlare sui social, Avere fortuna. Essere nel momento giusto con le persone giuste, al posto giusto. E questo non è giusto...». E Paoletta, che solo poche primavere aveva in tasca le stesse parole, be', lì, chinò il capo. Certo, il fatto che avesse per tutta la vita apostrofato i politici come ladri e fancazzisti non giovava alla causa.

Ma questa era la Taverna degli esordi, quella che andava in bici con Di Battista; che si vestiva con gli abiti sbagliati; che se ti avvicinavi troppo e parlavi e male della Roma e a le era rimasta la pajata della sera prima sullo stomaco, be' capace che ti assestasse una craniata da staccarti il setto nasale. 

Ecco. Quella era la Taverna naif, a spregiudicato uso di popolo. Negli ultimi anni, ascesa alla vicepresidenza del Senato e -di fatto- a braccio destro armato di Conte, per Paoletta era tutto cambiato. Un outfit più raffinato, per quanto rimanga un uso spregiudicato dei colori; una laurea in Scienze Politiche presa nei ritagli di tempo (almeno lei ce l'ha); incarichi istituzionali accumulati più di Di Maio; l'intervento, da vera "lei-non-sa-chi -sono -io" a favore della madre, una verace signora a rischio di sfratto dalla casa popolare in cui viveva, in quanto, parrebbe, «comproprietaria di immobili».

Ogni sua nuova tranche de vie dava, insomma, l'impressione della sua perfetta integrazione nel sistema che aveva preso a mazzate per un'intera esistenza. Comoda nel suo scranno, Taverna stava dunque raccogliendo i frutti di una luminosa carriera politica. Certo la popolarità borgatara era calata notevolmente, ma valeva lo scotto. 

L'OMICIDIO DEL PREMIER E allora, per tornare a bomba, perché puntare in modo così accanito, sull'assassinio politico di Draghi; e, conseguentemente, sul suicidio dei rimasugli di un Movimento Cinque Stelle che, una volta al voto verrà decimato dai suoi stessi elettori (me compreso)? C'è chi parla di richiamo ancestrale all'anima del popolo. Anche perché Taverna, al secondo mandato, come tutti i revenant "duri e puri" non potrà più rientrare in Parlamento. E allora, prima di andarsene a fare la segretaria con laurea, meglio incendiare il Palazzo. Muoia Bombolo con tutti i filistei... 

Clima da "caccia alle streghe". Da Movimento a partito di Conte, fuga dai 5 Stelle e offese ai governisti: “Qualcuno dovrebbe sputarvi”. Redazione su Il Riformista il 18 Luglio 2022. 

Resa dei conti nel Movimento 5 Stelle. All’orizzonte la scissione della scissione dopo l’addio di Luigi Di Maio e di circa 60 parlamentari. L’ex premier Giuseppe Conte potrebbe ritrovarsi tra pochi giorni con ancora meno deputati e sanatori al seguito. Ore frenetiche nel “partito di Conte”, così come viene definito da molti. Assemblee interminabili, vere e proprie maratone andate avanti anche domenica, tutto in diretta via Zoom. C’è chi stava al mare, chi a casa. Chi favorevole a staccare la spina al governo Draghi e chi invece, almeno una ventina, si dice pronto a votare la fiducia mercoledì.

Grillini in trincea permanente per evitare una nuova, quasi inevitabile, spaccatura che andrebbe a rafforzare il nuovo progetto politico del ministro degli Esteri e di conseguenza l’ipotesi di un Draghi-bis senza quel che resta del Movimento 5 Stelle. E forse questa circostanza potrebbe spingere l’ex presidente della Bce a ritrattare su un “governo senza grillini”.

La riunione via zoom con il leader Conte, iniziata ieri sera, riprende alle 10,30 del mattino per poi interrompersi dopo l’ora di pranzo. Rinviata alle 18, poi slitta alle 20 e infine viene aggiornata a domani pomeriggio, segno di una tensione crescente.

Il clima nel partito resta infuocato tra offese e ironia. La senatrice Giulia Lupo accusa i tiratori scelti con parole, che riporta il Corriere della Sera, che si commentano da sole. “Rispetto le idee di tutti, ognuno fa le sue scelte. Ma se lo specchio non può sputarvi, allora forse potrebbe iniziare a farlo qualcuno di noi…“.

“Clima da caccia alle streghe – dice all’Adnkronos un parlamentare -, è impossibile esprimere un’opinione in dissenso senza essere tacciati di essere dei pupazzi di Di Maio”. I filo-governisti sono guidati dal capogruppo Davide Crippa e, come detto in precedenza, sarebbero almeno una ventina, anche se il numero è destinato a salire. Ai governisti usciti allo scoperto ieri (Invidia, Alemanno, Barbuto, Pignatone, Martinciglio, De Lorenzis, Sut, Tripodi), oggi si aggiungono Cancelleri, Cimino, D’Arrando, Lorenzoni, Dieni, Grillo, oltre ai ministri Fabiana Dadone e Federico D’Incà.

E mentre i grillini discutono, il grande ex Luigi Di Maio dà la sua interpretazione: “Conte vuole le elezioni per azzerare gli eletti del Movimento 5 Stelle“, dice il ministro degli Esteri, secondo il quale “l’ex premier sta cercando la sua vendetta personale” e “non si dà pace per non essere riuscito a rimanere a Palazzo Chigi”, mentre “si sta provocando una crisi che sta regalando il Paese all’estrema destra”.

Chi è Giulia Lupo, la grillina che vuole sputare addosso ai traditori. Alessandro Ferro il 18 Luglio 2022 su Il Giornale.

La senatrice del M5S, Giulia Lupo, ha fatto parlare di sé per le dichiarazioni contro i franchi tiratori all'interno del Movimento

Si è "distinta" appena poche ore fa, durante l'assemblea del Movimento Cinque Stelle, quando ha in sostanza gridato fedeltà a Giuseppe Conte prendendosela con i "tiratori scelti" che stanno facendo di tutto per destabilizzare il movimento grillino. "Rispetto le idee di tutti, ognuno fa le sue scelte. Ma se lo specchio non può sputarvi, allora forse potrebbe iniziare a farlo qualcuno di noi...", avrebbe detto la senatrice Giulia Lupo come abbiamo scritto sul Giornale.it.

Quel soprannome "volante"

Il soprannome della Lupo è "senatrice volante" per il suo passato da hostess di volo nella vecchia Alitalia. Siciliana di Ragusa, 44 anni, per il M5s ha sempre avuto l'incarico delle politiche del trasporto aereo nazionale. Sulla sua scheda online figura ancora come "Assistente di volo" ed è segretario della 8ª Commissione permanente (Lavori pubblici, comunicazioni). Grazie all'avvocato Conte, la grillina è entrata a far parte del Comitato per le Infrastrutture e mobilità sostenibile del partito. Il primo amore non si scorda mai, per questa ragione la senatrice ha cercato in tutti i modi di salvare la sua ex azienda dal fallimento con un piano che nessuno ha mai preso in considerazione. "Sì, la Lupo pensava di salvare la compagnia i bandiera da sola: fortuntamente nessuno l'ha mai presa sul serio", scrive Il Foglio.

L'amiciza con Paola Taverna

"Avanti compatti insieme a Giuseppe Conte, sempre dalla parte dei cittadini", ha scritto ieri Paola Taverna, senatrice e vicepresidente vicario del M5. Lei e la Lupo sono amiche strette, intime, si confidano e i bene informati le hanno viste spesso insieme all'interno di Palazzo Madama. Il percorso di Giulia Lupo, comunque, è sempre stato votato agli aerei e alla sua passione per quest'ambito lavorativo: fu lei ad essere presente con Di Maio e Toninelli sul famoso "Air force Renzi". Il quotidiano La Verità ha raccontato che nel 2020 ebbe un incidente d'auto con il padre: nulla di grave ai due, per fortuna, ma il mezzo non possedeva l'assicurazione.

Ironicamente (ma non troppo), si racconta che mentre la Lupo stava festeggiando in Senato il mancato voto al Dl Aiuti, l'ex senatore Cinque Stelle Lele Dessì l'avrebbe avvicinata dicendole di non preoccuparsi perché "un piatto di pasta per te a casa mia ci sarà sempre". La sua risposta è stata perentoria rimandando la frecciatina al mittente: "Ho sempre lavorato, non ho problemi". In queste 48 ore che decideranno le sorti del governo, però, la senatrice è occupata ad additare i "traditori" all'interno dei Cinque Stelle.

Il "draghicidio" firmato Conte. "Siamo scemi". Domenico Di Sanzo il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.

Al leader M5s sfugge di mano la battaglia per la visibilità e diventa l'accoltellatore dell'unità nazionale. Lo sconcerto dei suoi.

Voleva una crisi di paglia e si è ritrovato nei panni dell'accoltellatore dell'unità nazionale. Giuseppe Conte - come da metafora di Enrico Letta - deve fare i conti con la sua immagine trasformata in quella di un Gavrilo Princip che a Sarajevo spara un colpo di pistola e da lì a poco scoppia la prima guerra mondiale. Intuendo l'antifona, il leader del M5s si fa beccare già in mattinata davanti alla sua casa romana. E da lì detta la sua linea, più fragile del cristallo. «Il M5S ha dato sostegno a questo governo sin dall'inizio con una votazione, con i pilastri della transizione ecologica e della giustizia sociale - tenta di giustificarsi Conte - se poi si crea una forzatura e un ricatto per cui norme contro la transizione ecologica entrano in un dl che non c'entra nulla, noi per nessuna ragione al mondo daremo i voti. Se qualcuno ha operato una forzatura si assuma la responsabilità della pagina scritta ieri». Insomma, l'avvocato di Volturara Appula, spiazzato dagli eventi, scarica la responsabilità sugli altri. Sul premier Mario Draghi in primis. Ma anche sugli altri partiti della maggioranza, che non hanno fermato prima la valanga che si stava per abbattere sul governo.

«Nessuno ci ha ascoltato, siamo stati costretti a non votare il Dl Aiuti», è la voce che arriva dalla truppa pentastellata, fronte contiano. «Oggi siamo stati degli scemi», taglia corto un deputato dei governisti in fibrillazione. Tra i parlamentari stellati, quando in Senato è in corso il dibattito sul voto, circola lo screenshot di un tweet della deputata Federica Dieni, vicepresidente del Copasir, assolutamente contraria allo strappo. «Patuanelli voti la fiducia o si dimetta», hashtag #coerenza. La pensano allo stesso modo almeno venti eletti del Movimento, che potrebbero anche passare a Insieme per il Futuro di Luigi Di Maio, soprattutto se ci fosse la possibilità di salvare la legislatura. Anche perché ora il «draghicida» Conte deve fare i conti con le proteste dei tantissimi parlamentari preoccupati per il mancato raggiungimento della pensione, che scatterà il 24 settembre prossimo.

Uno dei ministri grillini, il governista Federico D'Incà, prima dello showdown tenta l'ultima mediazione. Chiama Draghi per convincerlo a non porre la fiducia sul Dl Aiuti, così da far votare il provvedimento articolo per articolo. La telefonata dura meno di dieci minuti, il premier non ne vuole sapere. Anzi, lo stesso D'Incà, per un altro scherzo beffardo di questa crisi, da titolare dei Rapporti con il Parlamento si trova a leggere il testo in cui il governo annuncia la fiducia a Palazzo Madama. Quando ancora non si sono materializzate le dimissioni di Draghi, la capogruppo al Senato Mariolina Castellone butta la palla in tribuna: «Abbiamo scelto il non voto nel merito di un provvedimento. Invece c'è tutta la nostra disponibilità a dare la fiducia al governo». Riccardo Fraccaro esplicita il suo tormento: «Non sono sicuro che la crisi sia la cosa giusta». Nelle chat nessuno commenta, la truppa sbanda. Nel M5s non si esclude nemmeno un appoggio a un difficile Draghi-bis.

A Conte che tenta di scaricare sugli altri le responsabilità dello sfascio arriva un assist da Matteo Salvini, che invoca le urne e stoppa il Draghi bis. Proprio in quei minuti l'ex premier riunisce per l'ennesima volta il Consiglio Nazionale nella sede del M5s di Via di Campo Marzio. Nonostante le frasi contro lo strappo, pronunciate con i parlamentari durante la sua ultima visita a Roma, anche Beppe Grillo in giornata si accoda alla svolta di Conte. Il Garante sarebbe «in linea totale» con l'ex premier. «L'insofferenza toccata con mano nel blitz a Roma - spiega un volto noto del M5s - ha capito che non ne potevamo più. E anche la base: Grillo ha fiuto oltre ad avere un occhio attento sui commenti sui social. Ha capito che la base è insofferente né più né meno di noi parlamentari». E ancora: «A Roma non ho visto entusiasmo, non c'era più, dobbiamo ritrovarlo, altrimenti il Movimento è fottuto», il ragionamento fatto dal fondatore ad alcuni fedelissimi e riportato dall'Adnkronos.

Coltellate tra i 5s. Accuse ai ministri e fughe in vista. Pasquale Napolitano il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.

I contiani attaccano l'ala governista e aprono la caccia al traditore. Cancelleri pronto a unirsi a Di Maio, verso l'addio pure Bonafede e Buffagni. Un travaglio di veleni, accuse e insulti accompagna il Movimento cinque stelle nel giorno dello strappo con il governo Draghi. Il gruppo al Senato regge: 46 senatori non rispondono alla chiama sul voto di fiducia al dl Aiuti, 15 sono in missione. I 61 senatori si allineano al diktat contiano. Decisione che determina le dimissioni (respinte dal capo dello Stato) del presidente del Consiglio Mario Draghi. Ma al netto della compattezza del gruppo, le polemiche non mancano. Il fronte governista è il più bersagliato: ministri e sottosegretari sono accusati di essere filo-draghiani.

A gettare benzina sul fuoco, ecco che arriva Ergys Haxhiu, sconosciuto compagno del ministro grillino Fabiana Dadone che posta sui social una un fotomontaggio che ritrae il ministro Dadone nei panni della contestatrice che, nel 2015, saltò sul podio della conferenza stampa del direttivo dell'Eurotower lanciando coriandoli e fogli Draghi, allora presidente della Bce, al grido di fine alla dittatura.

Alessandro Di Battista, considerato dai governisti grillini il leader di fatto del Movimento, prova a rubare la scena a Conte: «Se davvero dovesse cadere il governo dell'assembramento (io non sono così sicuro) sarebbe un'ottima notizia». Pronostico sbagliato. Nella notte che precede lo strappo i ministri del M5s tentano la spallata contro l'ala oltranzista. Si cerca di far cambiare rotta al Movimento: missione fallita. All'alba, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico d'Incà gioca la carta finale e mette sul tavolo l'opzione di evitare il voto di fiducia sul dl Aiuti e di votarlo per articoli. Palazzo Chigi rifiuta. Si va alla conta. E il M5s conferma in Aula il no alla fiducia. Decisione che si porta dietro i veleni. «Patuanelli voti la fiducia o si dimetta coerenza» attacca la parlamentare del M5s Federica Dieni. Che poi all'Adnkronos rincara la dose: «Abbiamo votato di tutto, a cominciare dai decreti Salvini sull'immigrazione, e non votiamo un provvedimento con 23 miliardi di aiuti per le famiglie? Io non capisco la ratio, davvero fatico a comprendere. Allora, se si è deciso di fare i duri e puri, chiedo coerenza: si sia conseguenti al non voto di oggi e i nostri ministri lascino il governo. Mi sorprende ci si accorga solo ora che non siamo ascoltati nel governo, lasciare ora è incoerente, non accadrà mai più di poter incidere, di stare dentro un governo con questo consenso, con i numeri che abbiamo in Parlamento. Non è questo il momento di andare all'opposizione, ma poi a fare opposizione su cosa? Sulle misure per fermare il rincaro delle bollette? Sui provvedimenti a sostegno di imprese e lavoratori? Io credo sia irresponsabile nei confronti del Paese. Per me non si deve andare a votare ora, né tantomeno aprire una crisi nel bel mezzo di un conflitto in corso, con la pandemia che ha ripreso a correre, con i rincari delle materie prime, il caro bollette».

Nel Movimento si apre la caccia al «traditore». La Dieni è tra i sospettati. Lei smentisce. Gli occhi si spostano sul viceministro Alessandra Todde. Anche qui arriva la smentita. Però i malumori crescono e nei prossimi giorni potrebbero esserci nuove fughe. A breve dovrebbe essere ufficializzato il passaggio tra i dimaiani del sottosegretario alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri. Stefano Buffagni e Alfonso Bonafede riflettono. Lo strappo sul dl Aiuti potrebbe avere come colpo di coda un'altra mini scissione con l'addio al Movimento di Buffagni, D'Incà, Cancelleri e Bonafede. I contiani non arretrano. E restano in assetto di guerra. «Chi farnetica di Papeete 2 ad opera del M5S si dimostra come sempre un mistificatore della realtà: noi oggi lasciamo agli altri la sedicente teoria di sedere dalla parte giusta della storia, noi invece sediamo convintamente dalla parte dei cittadini, e il nostro documento in 9 punti presentato da Conte a Draghi lo certifica» avverte Roberta Lombardi, assessore regionale M5s nella giunta Zingaretti. I falchi esultano. Il primo round è vinto. Draghi getta la spugna.

I 17 mesi di SuperMario al timone dell'Italia. Dalla svolta sul Covid alla difesa dell'Ucraina. Paolo Guzzanti il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.

Sembrava avere avviato un'epoca d'oro con la conquista dei fondi europei, ma lo scoppio della guerra ha mandato in tilt l'esecutivo di unità nazionale.

Draghi si è dimesso e l'Italia naviga quasi al buio verso un futuro incerto. Vedremo presto se quest'uomo così unico e così fuori dalla tradizione italiana sarà sostituito o se per qualche procedura ancora non immaginabile potrà essere riconfermato. Scriverne come di una esperienza chiusa e conclusa o come una persona-evento che ancora guiderà l'azione di governo? La prospettiva più probabile per ora è la prima visto il modo fermo con cui Draghi ha fatto rispettare i paletti del suo ruolo di governo. Per ora esce di scena dopo 17 mesi l'uomo che è arrivato a Palazzo Chigi portato con forza dal Presidente Mattarella e forse con ancora maggior forza dall'Europa che considera Draghi un suo grande manager occasionalmente italiano, dato in prestito all'Italia per fare presto e bene le riforme, mancando le quali non potrà godere delle notevoli somme che l'Europa ha deciso di spendere per aiutare il nostro Paese a camminare verso la modernità possibile. Ma tutto è cambiato: dopo il suo arrivo sono arrivate prima la peste, poi la guerra ed ora la carestia.

In due anni è cambiato il panorama del mondo ed è cambiata la prospettiva di questo e di qualsiasi governo. Non per caso o forse per un caso davvero straordinario è andato in crisi il governo inglese, è sotto schiaffo quello tedesco del nuovo cancelliere, si indebolito quello francese di un Macron quasi dimezzato, mentre la stessa America si domanda se davvero Biden possa essere ricandidato dai democratici che lo hanno voluto. Sullo sfondo, la guerra improvvisa, violenta e inaspettata in Ucraina che ha diviso moltissimo gli italiani e le stesse forze politiche. La ribellione di Giuseppe Conte è avvenuta sulla questione dell'invio di armi che consentano agli ucraini di resistere all'invasione e su quel punto la rottura si è consumata fino a diventare uno strappo.

Ma se torniamo indietro di poco vediamo l'Italia immersa nella pandemia del Covid della prima fase, così maldestramente affrontata dal primo e dal secondo governo Conte, e poi ricordiamo il giorno in cui Matteo Renzi, come Mercurio venuto dal Nord, si presenta in Parlamento, sfida Conte alla conta, lo disarciona e apre la porta a Draghi che va a ritirare la campanella di primo ministro dalle mani tremanti per l'indignazione dell'avvocato venuto dal nulla.

E così comincia un'era che sembra quella delle cornucopie piene di messi e spighe e pepite d'oro: basta seguire le direttive e le date proposte da Draghi e alla fine del cammino ci aspetta il tesoro dell'Europa, miliardi che fioccano. Come li spenderemo? Sapremo spenderli? L'euro era stabile, di inflazione non si parlava e tutto sembrava roseo e raggiungibile. Certo, un governo di unità nazionale così malcomposto, con la sola Meloni fuori della porta nella magnifica posizione dell'opposizione unica e dunque molto scintillante era troppo fantasioso e irreale per essere vero e infatti non era vero, perché la sua maggioranza ribolliva e cercava tutte le occasioni per differenziarsi e lottare per apparire, negare, sottrarsi. Così in particolare i pentastellati che vedevano e vedono il loro partito morire elezione dopo elezione. Il governo andava, comunque, avanti con qualche compromesso e la prospettiva economica era ancora buona, anzi ottima: molta occupazione.

Poi la guerra. Preannunciata da un episodio di spionaggio in cui un militare italiano viene arrestato per aver venduto segreti ai russi, un fatto inconsueto per il clamore che suscita. L'Italia prende una posizione nettamente diffidente sia nei confronti della Cina che della Russia. Draghi mostra il suo atlantismo e la situazione internazionale è tesa e si arriva al 24 di febbraio quando un Putin totalmente diverso da quello dell'iconografia nota, annuncia una operazione militare e speciale e si bloccano i commerci, schizzano i prezzi, si specula sul gas e le materie prime, il virus non più il principale argomento dei talk show televisivi. È la guerra. Si parla di armi nucleari, si parla di guerra calda e fredda e Kiev respinge l'assalto delle prime ondate ma pone la domanda all'Occidente: volete lasciarci morire sapendo che poi toccherà a voi o volete aiutarci a resistere? Grande dibattito, furioso dibattito, l'Italia è mezza russa e mezza americana o comunque non sa che dire e che fare. Draghi prende il famoso treno per Kiev insieme al nuovo cancelliere Sholtz e al presidente francese Macron e appaiono queste immagini che ricordano i treni nella Seconda guerra mondiale, i treni che avanzano nella notte della guerra, con i loro assurdi salotti interni. Zelensky accoglie e ringrazia, ma l'Italia si spacca, la coalizione di disgrega, il governo è morto, Draghi sale e scende dal Quirinale, ma consegna le dimissioni dopo un voto di fiducia da cui i M5S si sfilano. In pochi anni, indietro di decenni.

Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 16 luglio 2022.

Ci sono giornate, come quella di giovedì, che ti aggrappi al televisore sperando che non crolli anche lui. Nel tardo pomeriggio seguo la diretta di Enrico Mentana su La7 sperando che qualcuno mi spieghi come possa cadere un governo per un termovalorizzatore. Lo so, le cause sono più profonde, ma sono già state analizzate mille volte. 

Gli ospiti di Mentana ripetono inevitabilmente pensieri espressi più e più volte e io vorrei che qualcuno ribadisse quanto siano irreparabili i danni causati da un comico che non sapeva più come far ridere. Avevamo l'unica persona, Mario Draghi, provvista di credibilità mondiale e l'abbiamo fatta scappare per l'insipienza dei suoi interlocutori e degli azzeccagarbugli. 

Dalla diretta di Mentana esco con questo concetto: quanto più incomprensibili risultano le ragioni di una crisi, peggiori sono le conseguenze sulla reputazione dell'Italia. Esco da Mentana ed entro da Maggioni su Rai1: l'ansia muove il telecomando alla ricerca di qualche risposta. Ci sono Marco Damilano, Mario Sechi, Claudio Cerasa, Luigi Contu e altri.

Mi sembra di respirare un clima di compostezza, nella speranza che non spuntino i Travaglio, i De Masi, i Telese, tutti quelli che hanno tenuto bordone agli scappati di casa e ai putiniani nostrani. 

La direttrice Monica Maggioni mostra un frammento del tg russo in cui si spiega che il governo italiano è caduto perché la gente era in rivolta per l'aumento dei prezzi (colpa delle sanzioni).

La situazione è drammatica, non si sa dove andremo a finire, e io mi chiedo se quei conduttori e quelle conduttrici che durante l'anno hanno dato così tanto spazio a quelli che, nel pieno di una pandemia, di una guerra e di un'architettura complessa come il Recovery Plan, hanno fatto cadere il governo, non provino ora un po' di rammarico per tanta leggerezza (o per una qualche virgola di share in più), non si sentano travagliati da una tardiva resipiscenza. 

Michele Santoro per tpi.it il 18 luglio 2022.

A guardare i telegiornali e a leggere quasi tutti i quotidiani sembrerebbe che anche dal borgo più sperduto del nostro Paese si levi un’unica invocazione: “Draghi, capitano, mio capitano, non devi dimetterti!”. Questo assordante grido di dolore, di imprenditori, sindaci e camionisti indicherebbe nei partiti i colpevoli di farci precipitare nel baratro, e nel grande timoniere, ex Presidente della Banca Centrale Europea, per la sua competenza, l’operosità e l’innocenza delle sue azioni, l’ultima speranza di salvezza.

Come avviene per la guerra in Ucraina, l’informazione dimentica volentieri alcune evidenze. La prima è la scissione del Movimento Cinque Stelle che è avvenuta a opera di un Ministro in carica, il Ministro degli esteri Di Maio. Un premier politico, che avesse avuto a cuore la stabilità, avrebbe cercato di dissuadere uno dei suoi principali collaboratori dal compiere un passo dalle conseguenze imprevedibili. Il tecnico Draghi non lo ha fatto; e in una telefonata con Grillo, non smentita, si è addirittura augurato che il tentennante leader eletto dei Cinque Stelle venisse sostituito. Ingenuità di un non politico? 

Riguardo alla instancabile dedizione al Paese del Presidente del Consiglio c’è invece da svelare un segreto di Pulcinella: da quando non sono state mantenute le promesse di eleggerlo Capo della Repubblica, appare ai suoi collaboratori svogliato e irritabile, mortalmente offeso dalla decisione dei partiti di non considerarlo l’unico adatto alla “carica più alta”. Dunque pronto ad andarsene alla prima occasione. Si starà ripetendo “fosse che fosse la volta buona”? 

Terzo, che è ciò che personalmente considero più importante, i suoi risultati non sono così brillanti. Un dato per tutti: il 5 per cento della popolazione ha continuato ad accrescere il suo patrimonio e il 95 per cento a impoverirsi; e il 5 per cento paga in proporzione meno tasse del 95 per cento. Tra settembre e ottobre, a causa della guerra, dieci milioni di persone rischiano di finire o rimanere sotto la soglia della povertà per l’inflazione a due cifre e gli aumenti dei prezzi dei beni alimentari e delle materie energetiche. 

Dunque il Presidente Mattarella non può non sapere che nel caso si manifestasse una maggioranza sufficiente in Parlamento che ribadisse la fiducia a Mario Draghi, il lancio della spugna, con una guerra in corsa e una crisi devastante alle porte, equivarrebbe a una diserzione. 

“Il nonno al Servizio della Repubblica” si giustifica con la rottura del patto di unità nazionale che in verità era stato stipulato prima che l’Europa venisse sconvolta da una guerra. Adesso una grande fetta di italiani senza partito (il sessanta, il cinquanta o il quaranta che siano) manifesta dubbi, riserve e contrarietà sull’operato del governo.

L’Unità Nazionale di cui parla Draghi riguarda solo una metà della popolazione e ignora l’altra metà del cielo abitata da esclusi senza rappresentanza. Se la sua non è arroganza è la forza dell’abitudine contratta con la Pandemia di esercitare il potere al di fuori delle normali regole democratiche cancellando l’opinione pubblica critica. 

La guerra ha reso evidente questa censura e quindi la mancanza in Italia di una vera opposizione, che certo non rappresentano i “Fratelli” mezzo d’Italia e mezzo degli USA. Né la rappresenta il Movimento Cinque Stelle, il cui compito storico si è esaurito da tempo e che è lacerato da una lotta per il potere. Ma resta tuttavia ancora sensibile a esigenze sociali compresse e ai bisogni reali ignorati di una parte della società. Non sarebbe un bene per la democrazia che il bambino venisse buttato via con l’acqua sporca.

Ragioniamo quindi da responsabili. Draghi ha voluto la bicicletta? Se ha i voti pedali e vada avanti per la sua strada che se porterà benessere, pace e riduzione delle diseguaglianze gli porterà l’eterna riconoscenza degli italiani. 

Non usi la crisi come un alibi per attribuire agli altri la responsabilità di far pagare ai più deboli il costo di scelte sbagliate. Contemporaneamente Giuseppe Conte non arretri, lasci al loro destino i governisti, e dia vita a una vera opposizione, diversa da quella parassitaria e inerziale di Giorgia Meloni. Apra una Costituente dell’Alternativa con tutte le forze che si dichiarino disponibili. In questo modo potremo misurare seriamente le capacità di Conte e di Draghi, i due duellanti. Capire se siano entrambi necessari o se si possa farne a meno. Draghi si definisce “un servitore dello Stato” ma da tecnico tende a ignorare che la Costituzione considera necessari per il bene della Repubblica tanto il governo che l’opposizione. A volte il divorzio può tornare più utile che prolungare un matrimonio finito, sempre che si voglia continuare a servire e che, come diceva Totò, “la serva serva”.

Da il Foglio il 16 luglio 2022.

In questo periodo è complicato dare consigli a Giuseppe Conte sulla linea da seguire ed è difficile spiegare la sua linea politica cercando di trovarci un senso. Fare le due cose insieme è invece un lavoro improbo che solo Marco Travaglio può fare. Da tempo il direttore del Fatto quotidiano incita il M5s a vendicarsi del "Conticidio", che sarebbe il "golpe" che ha defenestrato Conte da Palazzo Chigi nel gennaio del 2021. 

E' il tarlo che rode entrambi, tanto da trasformare la linea del partito di maggioranza relativa in un piano di ritorno in stile Conte di Montecristo. Desiderio di rivalsa e sondaggi in calo, però, fanno vedere cospirazioni ovunque. L'attacco al governo, innescato dal Fatto, è partito dall'ipotesi che Draghi avesse tentato di disarcionare Conte dalla guida del M5s parlandone male con Beppe Grillo. Fallito il piano, dice Travaglio, Draghi ha complottato con Luigi Di Maio per pianificare una scissione in modo da rendere il M5s ininfluente e cacciare i grillini fuori dal governo.

Che poi, il supposto complotto Draghi-Di Maio coincida con i suggerimenti di Travaglio a Conte, ovvero uscire dal governo, non turba il direttore che si troverebbe a operare in concorso esterno con il golpe. Ma quando Draghi ha detto chiaramente che non c'è un suo governo senza il M5s, Travaglio ha scoperto l'ennesima trama del premier, opposta a quella precedente: Draghi ricatta Conte per trattenere il M5s nel governo. Alla fine, dopo che il M5s non ha votato la fiducia al governo di cui fa parte e Draghi si è logicamente dimesso, il consigliori di Conte ha sentenziato: "Draghi si è sfiduciato da solo" perché "cercava la fuga" da tempo.

In sostanza, prima Draghi ha complottato per buttare il M5s fuori dal governo, poi ha complottato per tenere il M5s nel governo, infine ha complottato per cacciare se stesso dal governo dando la colpa al M5s. Non si sa se sia più difficile la vita di Conte che deve seguire i consigli di Travaglio, o quella di Travaglio che deve dare un senso alla linea di Conte. Ma questo rapporto pare faccia perdere lucidità a entrambi.

La strategia del dominus pentastellato. Conte è un burattino nelle mani di Travaglio, il direttore del Fatto vero regista della crisi di governo. David Romoli su Il Riformista il 16 Luglio 2022.  

La nemesi di Giuseppe Conte si chiama Marco Travaglio e vuole l’immancabile ironia della sorte che a decretare la rovina dell’avvocato siano puntualmente i consigli, elargiti in perfetta buona fede, dal suo principale sostenitore. Il direttore del Fatto è stato lo stratega che ha guidato la resistenza dell’allora presidente del Consiglio nei mesi dell’assedio di Renzi a palazzo Chigi, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021. Per Travaglio e per l’intero pacchetto di mischia del Fatto cosa si dovesse fare era lampante: andare allo scontro frontale in aula. Da una parte quello che allora D’Alema definiva “l’uomo più popolare d’Italia”, dall’altra quello che sempre D’Alema, esperto in materia, bollava come “il più impopolare”.

Da una parte la stabilità, cioè la conservazione del prezioso posto, dall’altra il salto nel buio, la crisi, lo spettro delle elezioni anticipate. Come potevano esserci dubbi sull’esito finale? I “responsabili” sarebbero spuntati come funghi dopo il diluvio. La battaglia campale si sarebbe conclusa con la rotta di Renzi. Padellaro, il più agguerrito in campo dopo l’inarrivabile direttore, riassunse la linea dura in un editoriale che rubava addirittura il titolo allo storico discorso di Martin Luther King “I have a dream”. Il sogno di Marco & Antonio era un discorso in cui Conte, dopo aver mandato pubblicamente a stendere l’odiato Matteo come aveva già fatto l’anno precedente con l’omonimo leghista, annunciava dimissioni e voto anticipato, non essendoci alternativa a se stesso, l’ Insostituibile. A quel punto avrebbero imparato a loro spese, i traditori, costretti a “trovarsi un lavoro”. Il sottotesto era chiaro e del resto esplicitato in numerosi altri articoli ed editoriali: se “Giuseppi” va allo scontro il panico sommergerà i parlamentari costringendoli alla resa.

Era di avviso diverso il capo dello Stato. Suggeriva al premier assediato di anticipare le mosse dell’assediante evitando lo scontro frontale e dimettendosi, sì, ma non per sfida, piuttosto per aprire la strada a una mediazione che lo stesso uomo del Colle avrebbe spalleggiato assicurando il reincarico a Giuseppi. Conte non si fidò, preferì dare ascolto al tutore giornalista, diede battaglia in campo parlamentare aperto. Poche settimane dopo era fuori da palazzo Chigi e al suo posto subentrava, in sostituzione dell’Insostituibile, Mario Draghi. Travaglio e compari ci hanno rifatto negli ultimi mesi. Nessuno ha spinto più di loro verso la guerra un per la verità recalcitrante Conte. Argomentazione semplice, secca, soprattutto confermata da sondaggi e sonanti voti reali: se il Movimento continua a subìre, a ingoiarsi una dopo l’altra leggi di Draghi che mirano solo a demolirlo finirà presto per scomparire. Ancora una volta il capo per finta dell’M5s ha dato retta al tagliente editorialista, anche se con un retropensiero più consono alla sua natura ben poco incendiaria. Strillare e impuntarsi sì ma solo sino al limite, senza mai oltrepassare il punto di rottura.

Il problema è che quella nitroglicerina distillata dalle colonne del Fatto nutriva anche le sempre più smarrite truppe parlamentari. Le quali, soprattutto al Senato, non avevano alcuna intenzione di fermarsi sul confine dello strappo, umori facilitati del resto dalla effettiva e marcata ostilità del governo nei confronti del Movimento. Non tanto di Draghi, forse, quanto di alcuni suoi consiglieri che, Giavazzi in testa, sembravano averla giurata al Movimento. L’esito è noto, immortalato dalle telecamere che nel giovedì di passione, due giorni fa, diffondevano le immagini di senatori che sembravano usciti da un incubo e di un leader che sembrava invece esserci entrato, con dieci anni di più sul groppone e palesemente perso. Nella galleria di questa surreale legislatura, il quadro dei rapporti tra Conte e Travaglio merita un posto d’onore. Travaglio, che ha sempre cercato di pilotare il Movimento senza sporcarsi, sembra averlo individuato a un certo punto come il veicolo adatto alla bisogna.

Ne è diventato, ancora ai tempi del governo giallorosso, il primo e più entusiasta sponsor. Così facendo, peraltro, ha reso al premier arrivato a guidare due governi in nome di un Movimento al quale non aveva mai aderito davvero un servizio inestimabile: ne è diventato il garante agli occhi di una base che lo sentiva più compagno di strada che elemento interno. La benedizione del Fatto, che per buona parte della base pentastellata è Vangelo, ha contribuito in misura probabilmente essenziale a rendere l’estraneo tanto ben accolto da un Movimento tra i più settari da poterne diventare, dopo lo sfratto da palazzo Chigi, addirittura il capo. Appoggio tanto più prezioso in occasione degli scontri con il fondatore e diarca Beppe, nei quali l’appoggio del giornale è stato per il traballante quasi-leader una mano santa. Ma probabilmente non c’è solo questo.

Conte si è trovato sbalzato da un giorno all’altro al centro di un mondo di cui non conosceva niente e nel quale non ha ancora imparato a muoversi: non solo quello della politica ma di una politica come quella italiana: bizantina, ambigua, abituata a codici con i quali l’avvocato foggiano non aveva e non ha alcuna dimestichezza. L’ex premier non poteva e non può contare neppure su un gruppo di collaboratori o dirigenti meno smarriti di lui: dalla nascita il Movimento lavora solo, con risultati brillanti ma inevitabilmente superficiali, sull’immagine. Quanto a perizia politica forse il solo a dimostrare un grezzo ma effettivo talento naturale è Di Maio, del quale però Conte non si è mai fidato e come i fatti hanno poi dimostrato non a torto. Affidarsi a chi con la politica italiana ha a che fare da sempre, con i professionisti del Fatto, era quasi un destino, per Conte.

Se Travaglio ha bisogno di Conte per telecomandare il Movimento, l’ “avvocato del popolo” è altrettanto dipendente per aver le spalle coperte ma anche molto per disporre di una guida nel labirinto della politica, nel quale puntualmente si smarrisce. Solo che se Conte è un dilettante della politica, Travaglio, quando si tratta di farla e non solo di commentarla, è altrettanto sprovveduto. I risultati della sinergia parlano da soli. David Romoli 

"Sarò solo un giornalista". Ma poi è diventato tutto il resto. Luigi Mascheroni il 18 Luglio 2022 su Il Giornale.

Fedelissimo di Montanelli, ha rinnegato se stesso: fa politica, tv, spettacolo, teatro, karaoke e tanto cabaret...

Il limite di chi arriva da Torino, Precollina e ansia di posterità, è quello di voler vincere, con una volontà di riscatto che è l'eredità dello spirito atavico della Resistenza, il tratto tipico dei piemontesi, gente dal carattere chiuso e riservato, o altezzoso e antipatico, «gente sfumata» diceva Beppe Fenoglio, «spesso destinata ai titoli di coda». Che poi è il motivo per cui Marco Travaglio, torinese doc e giornalista pop, è tutta la vita che ambisce ai titoli di prima pagina. Ci è riuscito.

Prima pagina e Ultima spiaggia, Marco Travaglio precisetto e pittimista, memoria di ferro e faccia di bronzo da sabaudo, devoto cattolico e liberal-enaudiano, è un vero uomo di destra (mai votato Pd, Ds o Pd). Che solo inopinatamente nel corso della sua invidiabile carriera ha scritto a lungo per giornali di sinistra: Repubblica, l'Unità, L'Espresso e il Fatto quotidiano. Del resto, amante dei treni, è noto che Travaglio ha sempre usato i giornali come taxi. Di lui Indro Montanelli, altro uomo usato come un taxi dalla Sinistra, disse: «È il vero giornalista di destra, tant'è che nemmeno a me, quando lasciai il Giornale, venne in mente di chiamare il nuovo quotidiano La Voce. Ricominciamo da Prezzolini!, mi disse. E così fu».

E così - eterogenesi dei fini e molto amico di Massimo Fini - Travaglio è diventato esattamente tutto ciò che non ci si sarebbe aspettato da lui. Capopopolo del più bel populismo, divorato dal protagonismo, divo da avanspettacolo, giacobino - Liberté, Égalité, bonèt - e star mediatica.

Primadonna, due visioni del giornalismo («O ho ragione io, o hai torto tu»), tricoteuse, quattro pezzi al giorno tra corsivi, editoriali, interviste e istruttorie, Cinque stelle, «Sei bravissimo Marco!», La7 e Otto e mezzo, Travaglio ha 57 anni. Ma fatto più cose di Prezzolini che è morto a cento. Chapeau! Che in piemontese si dice «Esageruma nen!».

Direttore presenzialista - l'unico nella storia della repubblica che può disporre di un quotidiano e di una striscia giornaliera in prima serata - demagogo narcisista, penna brillante le famose penne alla crema di tartufo giornalista factotum (fondi, commenti, inchieste, didascalie, sommari, una spiccata attitudine per i titoli, un debole per i catenacci e una passione per le manette) e vero one man show dell'Infotainment, Marco Travaglio infaticabile come un mulo e suscettibile come un istrice è un campione in tutto. Fedele all'insegnamento del suo maestro Indro Montanelli «Sono solo un giornalista» Travaglio scrive e dirige quotidiani, periodici e riviste; è collaboratore e/o ospite fisso in tutti i talk show dall'Annozero a oggi; ha fondato blog; è comparso in film e documentari; ha portato in scena innumerevoli spettacoli teatrali (alcuni persino senza Isabella Ferrari); ha collaborato con un paio di band musicali e ora sarà anche conduttore tv! («Marco Travaglio e Selvaggia Lucarelli presentano #CartaCantaIlQuiz - il primo game-show con domande di attualità in onda sul NOVE!»). Oltre a essere un fenomeno social. A volte #marcotravaglio è addirittura trend topic. E non sempre è un bene. «Travaglio leccac**o!», «Travaglio pupazzetto di Grillo», «Travaglio e il falso quotidiano», «Travaglio e il fango quotidiano»... Cose così. È la stampa, bellezza.

Bello, Travaglio non è bello. Per carità. Ma come diceva Jerry Calà col quale gli capita di passare qualche serata allo Smaila's, locale di lusso&lussuria a Porto Rotondo, che non è la Scuola di giornalismo della Columbia University, ma i torinesi non si formalizzano «Piaccio!». Non a caso le veline più belle del giornalismo, da Isabella Borromeo alla Gentili, da Silvia Truzzi alla Lucarelli, arrivano al Fatto come mosche sul Bicerin. Meglio di Vanity Fair.

Televisivamente vanitoso «Mi metta un po' più di trucco qui sul mento... sa, in medium stat virtus» - presuntuoso («Io sono io, e voi non siete un Fatto»), bilioso (sono sopporta i Fazio, i Sofri e i Saviano), ha solo una fastidiosa inclinazione a storpiare i nomi, oltre i fatti e la logica: «Travaglio», lett. «sofferenza interiore», «angoscia»: «l'attesa fu un travaglio continuo»; ma anche «travaglio di stomaco», «dare travaglio», cioè dolore fisico, come quando si leggono i suoi articoli; «essere travagliato dai rimorsi», ma soprattutto: «la crisi che travaglia la politica»; in senso figurato: «ho travagliato a fargli capire queste cose»; «un articolo che ha avuto una gestazione alquanto travagliata»; per estens.: «Porto Valtravaglia», «tra un vaglia e l'altro» e il celebre «vaglio dell'asino». Il suo.

La verità è che vorremmo vivere in loop la sera del 10 gennaio 2012, epica puntata di Servizio Pubblico, quando - momento consegnato alla storia - Silvio pulì la sedia di Travaglio, lasciandolo, per una volta, senza parole.

Parole che Travaglio adora: «sentenza di condanna», trattativa Stato-mafia, «attrici», Michele Santoro, «Vaffanculo», Juventus (prima di Calciopoli), «Inquisizione», Bagna Cauda, l'espressione «Ci pisciano addosso e ci dicono che piove», Pippo Ciuro. Parole che Travaglio non sopporta: «falso in bilancio», «banane (repubblica delle)», Filippo Facci, Juventus (dopo Calciopoli), Craxi, craxismo, le persone craxe, tutte le parole che iniziano con B. e finiscono con -usconi, l'espressione «Ho sbagliato».

Per il resto, siamo sopravvissuti alle influencer che parlano in corsivo, ce la faremo anche con la voce di Travaglio.

A detta di tutti intelligente ma tendenzialmente cattivo, enfant prodige del giornalismo finito a fare il badante della Gruber, odiatore di Berlusconi ma ospite fisso chez Cairo, vanesio nonostante le giacchette in cotone délavé, Travaglio ne ha indovinata una gigantesca il Fatto quotidiano, a suo modo un modello giornalistico ne ha sbagliate tante (una: prendersela con Berlusconi-Previti-Dell'Utri e ritrovarsi con Grillo-Conte-Casalino), e le ha provate tutte. Montanelliano quando Montanelli schierava il Giornale sulla linea più conservatrice, vociano fino a che La Voce chiude, firma della Padania con lo pseudonimo Caladrino durante la stagione secessionista della Lega (e voto per Bossi), republicones sotto il miglior Scalfari, fan di Antonio Di Pietro ed elettore di IdV, estimatore per una stagione, quella giusta, di Gianfranco Fini, simpatizzante dei Girotondi, agit-prop del Popolo viola e De Magistris, supporter di Ingroia e del Partito della Rivoluzione civile, braccio giornalistico del grillismo e consigliori di Giuseppe Conte, e ora è anche amicissimo di Giorgia Meloni: peccato, perché - è la Storia- tutti i politici che ha sponsorizzato non hanno fatto una bella fine. Poi, oltre la Storia, c'è la Némesi, che a volte sa essere ironica. Torinese in prima edizione, romano in ribattuta, Travaglio alla sera, dopo la chiusura del giornale e le varie&eventuali apparizioni tv, di solito va alla Barchetta, trattoria in Prati, luogo simbolo del craxismo, aperto da Paola Sturchio, a casa della quale Craxi dormì la sua ultima notte italiana, maggio 1994, prima di Hammamet. È qui che lo raggiungono gli amici, i servi sciocchi e tutto un codazzo di ragazze, dedicandosi all'amato karaoke (amico di Renato Zero e Franco Battiato, canta benissimo). È in una di queste serate che tra una canzone e l'altra Piero Chiambretti riceve un sms falso che annuncia la morte di Berlusconi. La musica si ferma, cala il gelo. «Non puoi immaginare la reazione di Travaglio: era disperato riferì l'ostessa - Del resto si sa che Berlusconi ha fatto la fortuna sua e del suo giornale». A riprova che a volte dobbiamo più cose ai nemici che agli amici. E bisogna ricordarselo. Sennò rischi di rimanere solo come un cane; anche se da guardia della democrazia.

Vabbè, s'è fatto tardi. «Fuma ch'anduma, Marco?».

Paolo Bracalini per il Giornale il 17 luglio 2022.  

Il cerchio tragico di Conte. Dalla Taverna a Travaglio chi lo spinge allo strappo.

Dietro l'ennesima trasformazione di Conte (prima sovranista con la Lega, poi europeista col Pd, ora barricadero) c'è un cerchio magico - o tragico - di consiglieri che ne hanno guidato la svolta anti-governativa. 

Una veste che poco si addice alla pochette dell'avvocato, ma che alla fine nella testa di Conte ha finito con il prevalere sull'istinto bizantino al compromesso e alla supercazzola. Il martellamento ha avuto successo, anche grazie all'«aiuto» delle elezioni amministrative, da cui la leadership di Conte è uscita a brandelli convincendolo che un ritorno al Vaffa possa resuscitare un po' dei consensi perduti. Uno dei consiglieri più ascoltati è Marco Travaglio.

Il direttore del Fatto da mesi verga editoriali contro il governo del Migliore (Draghi), spiegando che il M5s ha fatto un grave errore ad entrarci, che si ritrova al governo solo per subire angherìe dall'ex capo della Bce che non apprezza le meravigliose idee del M5s (tipo il Rdc, il superbonus, il no al termovalorizzatore etc) ma che Conte ha una strada spianata per risollevarsi: mollare Draghi. Travaglio lo scrive chiaramente il 28 giugno. 

Il m5s può recuperare una parte dei milioni di voti presi (e poi persi) nel 2018, scrive, «se li porta fuori dal governo, recupera Di Battista e la sua area e convince Grillo ad un compromesso sui due mandati», per salvare i poltronari pentastellati. Per molti non è un caso che la spifferata del sociologo grillino De Masi circa i giudizi impietosi di Draghi su Conte, cosa che ha fatto deflagrare la crisi, siano usciti proprio sul Fatto Quotidiano. Un piano ad hoc, sospettano anche dentro il Movimento, per dare a Conte l'assist per uscire dal governo, con l'appoggio dell'ala dura.

Massima rappresentante di quest'ultima è la statista alla vaccinara Paola Taverna. La senatrice negli ultimi mesi si è riposizionata come contiana di ferro. Non solo, è stata lei la regista del tour elettorale dell'ex premier, verso cui nutre una venerazione personale. Si è schierata anche contro Beppe Grillo, puntando tutto su Conte, che infatti sarebbe disponibile ad una deroga al tetto dei secondo mandato solo per una piccola percentuale di eletti, tra cui appunto la Taverna (senza uno stipendio garantito dal M5s le toccherebbe tornare a lavorare come addetta in un poliambulatorio di analisi cliniche). È lei il più falco dei falchi M5s. 

Secondo il Corriere prima di entrare in aula al Senato nel giorno della non-fiducia al governo la Taverna ha lanciato un grido di battaglia in puro slang da borgata romana: «Oggi li sfonnamo de brutto». È convinta che il salto all'opposizione sia una furbata per fregare quel «traditore» di Di Maio, e guadagnare un'altra legislatura per lei per gli altri pentastellati insieme all'amato Conte. Di sicuro all'opposizione potrebbe esprimere al meglio le naturali doti dialettiche per cui è nota.

L'altro consigliere di guerra, più defilato nonostante l'amore del personaggio per le telecamere e la ribalta mediatica, è Rocco Casalino. L'ex portavoce di Conte a Palazzo Chigi si è riciclato come capo della comunicazione alla Camera. Ma non si limita certo a scrivere comunicati stampa. Uno che è stato capace di pubblicare un libro autobiografico da cui ricavare poi un film, pensa molto più in grande. Ed elabora strategie per il suo capo, confidando in un seggio sicuro nelle liste M5s alle politiche del 2023. Casalino nega di essere uno degli artefici dello strappo: 

«Non ho incarichi politici, il mio ruolo è limitato all'ambito comunicativo, contro di me c'è una macchina del fango». Pochi giorni fa, però, intercettato in monopattino a Roma dal direttore del Foglio Claudio Cerasa, Casalino dava già per certo - quando ancora non lo era affatto - il non voto del M5s alla fiducia. È lui del resto ad aver sempre consigliato Conte di non tornare al suo mestiere, ma di darsi alla politica come leader di partito. Finora, consigli poco fortunati. 

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 23 luglio 2022.  

Hanno smesso di ridere. Hanno improvvisamente capito di non aver organizzato un funerale politico a Mario Draghi (perché quello - appunto - anche lontano da Palazzo Chigi era e resta comunque Mario Draghi): ma a loro stessi. Panico grillino. Terrore puro. Guarda un po': il senatore Danilo Toninelli non sghignazza più. Com' è grigio, com' è mogio. Senatore, cos' è che canticchiava l'altro giorno a Palazzo Madama? "Eh eh Il governo/ viene giù/ viene giùùù!".

Fanno calcoli e ragionamenti miserabili: per la maggior parte di loro sarà impossibile partecipare, o anche sperare di essere rieletti, alle elezioni che hanno provocato. Sono quasi tutti stretti in una morsa micidiale. Adesso che ci pensano, gonfi di amarezza: «Porcaccia miseria: pure la morsa ce la siamo costruita da soli». 

Da un lato, c'è il risultato di una loro grande battaglia: la contrazione del numero dei parlamentari (in totale, con la nuova legge, saranno 600: 400 alla Camera e 200 al Senato); e, quindi, visto che nei sondaggi il Movimento viene dato in una forbice che sta tra il 5 e il 10%, i grillini rieletti saranno da un minimo di 30 a una massimo di 60. E poi c'è la leggendaria questione del doppio mandato. 

Un limite che Gianroberto Casaleggio stabilì tra un Vaffa e l'altro, immaginando quello che poi si è puntualmente verificato: i suoi onorevoli sono rimasti prigionieri del potere che avevano promesso di combattere; hanno trovato soffici le poltrone e irrinunciabile lo stipendio (e ti credo); adorano i sedili in pelle delle auto blu; e poi c'è quel brivido di eccitazione, una lunga vertigine quando vedono i commessi scattare in piedi al loro passaggio, tra i velluti rossi e i lampadari sempre accesi. E adesso? Dovremo mica cercarci un lavoro fuori dal Parlamento?

Santo Cielo, un po' di dignità. Però, forse, sì. Tornate tra noi, onorevoli. Risalite nei vostri condomini. Chi ce l'ha, riprenda il vecchio mestiere. Una buona notizia per Barbara Lezzi: è ancora aperta la fabbrica che produce pezzi di ricambio per orologiai dove era impiegata prima di diventare ministro per il Mezzogiorno (e spiegarci che il Pil dell'Italia aumentava grazie all'uso smodato dei condizionatori d'aria). E la mitica Paola Taverna? Anche lei, due mandati esauriti. Il tempo vola.

Sembra ieri che urlava: «A bbellooooo! Nun so' mica 'na politica de professione, io» (traduzione: amico mio, non penserai mica che io sia una professionista della politica).

Poi la scoperta delle borse Louis Vuitton, la vicepresidenza del Senato, le ospitate in tv, le forchette giuste per il pesce, sempre però curando l'immagine di grillina dura e pura con la quale, in queste ore di possibile ritorno al precariato, cerca di mettere pressione dentro al Movimento. «Aho', famo a capisse: io me ricandido, nun ce piove» (traduzione: cerchiamo di capirci, la mia ricandidatura appare certa).

Tremano, meno spavaldi, molti altri senatori che pure si sono battuti contro il governo: Airola, Castaldi, Crimi, Cioffi («Io però sono l'ultimo che ha visto in vita Casaleggio: non so, fate voi»). Teme di non farcela persino Carlo Sibilia, sottosegretario all'Interno negli ultimi tre governi (nonostante la convinzione che l'uomo non sia mai atterrato sulla Luna, e che Tito Stagno, quella notte, fece la telecronaca di una gigantesca messinscena organizzata dagli Stati Uniti). 

Angosciato Alfonso Bonafede, dimenticabile ministro della Giustizia, noto anche con il soprannome di Dj Fofò (perché lui alla consolle ci ha lavorato sul serio, non come Salvini, solo per un pomeriggio al Papeete Beach): Luigi Di Maio gliel'aveva detto, «Fofò, qui è finita», ma lui niente, convinto di poter contare sull'indulgenza di Conte (fu Bonafede a introdurlo nel mondo dei 5 Stelle). Macerie calcinate, osservano divertiti quelli che sono già saltati sul carrozzone di Giggino (come Carla Ruocco: «Ci siamo evoluti», e sì, certo, vabbé; o Sergio Battelli, uno che non voleva tornare a fare il commesso nel negozio di animali dove aveva lavorato per dieci anni). 

E lei, Buffagni? (Stefano Buffagni, consigliere regionale in Lombardia, poi sottosegretario nel Conte 1 e viceministro allo Sviluppo economico nel Conte 2). «Sono commercialista: tornerò nel mio studio. L'ipotesi di lasciare il Parlamento non mi spaventa». L'altro giorno, mentre veniva giù tutto, lei ha detto: la gente ci impala. «La politica deve dare risposte. Ho sofferto umanamente. E poi non voglio che mio figlio, un giorno, pensi che il padre aveva perso la testa per una poltrona». Telefona una fonte. Soffia: ad oggi, l'unico sicuro di essere ricandidato, con deroga al doppio mandato, è quel furbone di Roberto Fico.

Lettera al “Venerdì di Repubblica” il 22 luglio 2022.

Premetto che non sono un attivista grillino ma uno di quegli elettori da sempre di sinistra che negli ultimi anni hanno apprezzato, nello sfacelo generale, diverse iniziative del Movimento 5 Stelle. 

E comunque li ho sostenuti e continuo a farlo, perché a differenza di tanti parolai hanno concretamente fatto «qualcosa di sinistra» come amava dire Nanni Moretti. Nella sua lettera pubblicata sul numero dell'8 luglio, il signor Consonni è riuscito a scrivere un numero spropositato di castronerie, con l'intento forse di figurare tra i laudatores di Draghi che sono oggi in Italia in notevole e ingiustificato numero.

Si è infatti chiesto «essendo franato il M5S» chi ha finanziato e finanzia Il Fatto quotidiano che lo «esalta ancora». Il quale come è noto è quotato in borsa ed è edito da una società che esclusivamente di editoria si occupa. 

Ne consegue che Il Fatto si può definire un giornale libero a differenza della maggior parte dei media cartacei e televisivi italiani. Il Consonni poi si sbilancia in una biliosa intemerata contro Conte affermando il falso, e cioè che «l'avvocato devoto a Padre Pio», sarebbe stato incapace di governare.

Giovanni Pizzo 

Risposta di Natalia Aspesi:

Caro avvocato, ecco fatto: il 14 luglio 2022 (1789 presa della Bastiglia) il suo collega Conte è riuscito a far dimettere un premier servitore dello Stato e non dei partiti, un uomo considerato in politica il più importante del mondo, una personalità che aveva messo a disposizione degli italiani la sua grande esperienza, il suo prestigio, l'essere fuori dai giochi miserandi dei piccoli poteri.

Se ha voglia mi spieghi perché crede che un pasticcione senza storia sarebbe meglio di uno che ha condotto serenamente la Banca centrale europea. Non è di parole di sinistra che oggi il Paese ha bisogno, ma di competenza, di passione, del rispetto del mondo, di fiducia. 

L'avvocato non ha nulla di tutto ciò, andando alle elezioni non avrebbe neanche più voti: ma certo ci sono i vecchi amici cui accodarsi, la Lega per esempio. Allora, e questa volta lo chiedo io, chi lo finanzia, perché un giornaletto pare edito solo per lui, perché una televisione gli dedica ore ogni giorno? Come mai solo Putin si è detto felice della decisione di Draghi? E le democrazie sono preoccupate?

Roberto Gressi per il “Corriere della Sera” il 17 luglio 2022.

Accidenti, quanto tempo è che aspetta, bisogna pure capirlo. Cinque anni fa a Roma Alessandro Di Battista era come la Coca Cola: lo conoscevano tutti. Eppure, come candidata sindaca, Beppe Grillo scelse Virginia Raggi. Aveva ragione, eccome, nel breve periodo: lei asfaltò tutti gli avversari, a cominciare da quel Roberto Giachetti che Matteo Renzi le schierò contro. 

Sul lungo periodo invece la ragione se l’è presa Roberta Lombardi che aveva vaticinato: useranno il nostro fallimento per cominciare a farci a fettine. Ma Dibba, come lui odia essere chiamato, non se ne curò. Anche perché Casaleggio gli aveva proposto di candidarsi lui, ma aveva risposto no. Perché il dovere del vero rivoluzionario è solo fare la rivoluzione, e lui non puntava a prendere il Palazzo Senatorio, ma il Palazzo d’Inverno.

Ma ancora il commodoro Grillo, alla vigilia delle trionfali elezioni politiche, gli preferì l’amico Luigi, uno capace di fare un Roma-Napoli in macchina senza sapere nulla di nulla e arrivare avendo risucchiato tutto da chi lo accompagnava. Una spugna dell’apprendimento, che non teme sacrificio e fatica, e che impara dalle gaffe che pure non si è fatto mai mancare. 

Mentre le truppe grilline, a Montecitorio e a Palazzo Madama, Di Battista lo appenderebbero per i piedi, un grillo (con la g minuscola) parlante, uno sputasentenze senza voglia di lavorare. Tutti pronti a schiacciarlo con la scarpa sulla parete.

L’ultimo assalto

Ma ora, Alessandro Di Battista, eccolo qui. Tra lui e la prima fila c’è solo un altalenante Giuseppe Conte, che forse rincorre l’intesa o forse punta alla disperata a sanguinose elezioni anticipate, per sventare il piano tutt’altro che segreto che il Che Guevara dei resort coltiva con la sua amica pasionaria Virginia (Raggi): l’Opa sui Cinquestelle. Il tempo è poco, ma se gli danno via libera sulla piattaforma SkyVote e su quel che resta dell’ala dura e pura del Movimento, potrebbe essere senza rivali.

Politica e filosofia

Difficile del resto contrastare il Dibba pensiero. «L’Isis nasce dalle guerre occidentali». «Dovremmo smetterla di considerare il terrorista come un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione». «Se ti bombarda un aereo telecomandato a distanza oltre alla via preferibile non violenta hai una sola strada: caricarti di esplosivo e farti saltare in aria in una metropolitana». «Meno male che c’è Putin. Riconosce il Donbass? Nulla di preoccupante». 

Ma anche riflessioni filosofiche: «Adoro i mercati, mi attraggono come le donne, forse perché sono mondi con dentro altri mondi che racchiudono altri mondi». Fino alla cronaca di questi ultimi giorni, con la preoccupazione che il governo non cada davvero, perché siamo circondati «da culi flaccidi e senza etica e da facce che non si distinguono dai deretani». 

Lo strappo e il voto

Preoccupazione legittima quella di Di Battista, nel caso in cui si dovesse trovare un accordo scaccia crisi. Perché per arrivare fin qui ne ha patite davvero molte. L’esilio in America Latina, anche se passato più sulle spiagge che nelle baracche. Il confino di Ortona, in quel d’Abruzzo, anche se in un bar trattoria, a infornare pizze e poi a servirle a tavola. Il dovere della testimonianza, con i suoi libri, giustamente contrattualizzati prima di essere scritti. 

Va da sé che questa lunga marcia non può essere vanificata, né c’è spazio per trattative e cooptazioni, come quando durante la nascita del Conte Due aveva accettato di fare il ministro delle Politiche europee, prima che il veto di Matteo Renzi lo ricacciasse indietro. 

Niente mediazioni questa volta, perché come insegna Mao Tse-tung, «la rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, la rivoluzione è un atto di violenza». E allora non ce ne sarà per nessuno, a cominciare da Luigi Di Maio, colpevole «dell’ignobile tradimento». 

«Fascista liberale»

Non è dato sapere se in caso di conquista del potere il pensiero di Alessandro coincida con quello di un altro Di Battista, suo padre Vittorio, che dopo aver etichettato le istituzioni come una «ciurma di delinquenti», invocava: «Datemi il potere assoluto per sei mesi e risolvo tutti i problemi dell’Italia». Sappiamo però come rispondeva alla domanda: «Mio padre fascista? Sì, ma è il fascista più liberale che conosca».

Massimiliano Panarari per “La Stampa” il 17 luglio 2022.

Pier Paolo Pasolini lamentava, alla metà degli anni Settanta, la scomparsa delle lucciole. La metteva giù in termini poetici, ma di politica si trattava. E qualcosa di simile, riveduto, lo si può constatare ora, nel pieno del «Papeete 2.0» (o Papeete bis, esattamente come il doppio governo a guida Giuseppe Conte, esecutore del tentato «draghicidio»). 

In queste giornate dobbiamo difatti constatare il silenzio del Grillo. Una condizione in assoluto non nuova: già è capitato di assistere a qualche sparizione dall'arena pubblica del Cofondatore e Garante; adesso, però, il troppo stroppia. 

Dopo avere avuto un innegabile - e improvvido - ruolo nel minuetto di dichiarazioni, maldicenze, rumors (e chi più ne ha più ne metta) che hanno attribuito a Mario Draghi una sedicente regia della genesi di Insieme per il futuro, Grillo è finito direttamente risucchiato nel tritacarne di veleni del ribollente Magma 5 Stelle.

La sua intemerata sulla presunta richiesta da parte del premier di "scaricare" Conte, passata di bocca in bocca (da Domenico De Masi, ideologo di punta dei 5 Stelle, ai parlamentari), ha - formalmente - innescato la slavina che ci ha condotto sin qui. 

E ha regalato al presidente pentastellato, già in un angolo, la possibilità di rimettersi in partita, oltre a scaldare gli animi dei notabili inferociti con Luigi Di Maio e ardentemente desiderosi di sganciarsi dal governo. 

Un'eterogenesi dei fini coi controfiocchi: giunto nella capitale per puntellare il governo, con la sua voce dal sen fuggita Grillo ha fornito munizioni ai detrattori dell'esecutivo di larghe intese e ai nostalgici della linea del Vaffa e della postura antistemica, inventate proprio dal capo comico-capo politico genovese insieme al sodale Gianroberto Casaleggio. 

Al che qualcuno potrebbe pensare che il più tonitruante performer della politica nazionale di questo ultimo decennio e più si sarebbe gettato nella mischia per raddrizzare la barra a favore del tecnico di cui, nel febbraio 2021, aveva detto: «Mi aspettavo il banchiere di Dio, invece mi sono trovato davanti un grillino. Mi chiama l'Elevato e io lo chiamo il Supremo». 

Anche perché, come dicono i beninformati, tra i due si era sviluppato qualcosa che andava al di là dell'entente cordiale e rasentava il feeling. Durante l'ennesima "gita" romana, nel corso di un convegno sul metaverso, Grillo aveva anche canzonato Conte («darti un progetto è come buttarlo dalla finestra»), poi aveva blindato il divieto di terzo mandato e, secondo alcune voci di corridoio interne, negli incontri con i parlamentari avrebbe pure pronunciato la sentenza: «Non esco dal governo per un inceneritore!».

E invece, dopo avere contribuito a fare la frittata con la catena dei si dice e il gioco dei telefoni intorno alla chiacchierata con Draghi («la calunnia è un venticello»...), Grillo si è fatto di nebbia, riapparendo solo per avallare la linea movimentista-antagonista - avendo lui, ineffabile rabdomante dei sentiment della «ggente» e dei suoi (ex) "ragazzi", fiutato l'aria della prevalenza non più arginabile delle pulsioni populiste (e dello spirito di conservazione del gruppo dirigente). Insomma, «parole, parole, parole» e la sempiterna attitudine a cambiare abito di scena (e posizione): una delle caratteristiche strutturali dello stand-up comedian fragorosamente tuffatosi al centro del teatrino politico nostrano. 

E, adesso, eccolo dissolto di nuovo, proprio nell'ora più buia. Navigando sul suo Blog - quello che un tempo dava la linea ortodossa e indiscutibile al Movimento (ma erano anche i tempi, morti e sepolti, della piattaforma Rousseau come scrigno digitale della sovranità) - non si trova neppure un accenno alla devastante situazione in corso.

Tra la dotta analisi di un modo di dire balneare, le immagini del telescopio spaziale James Webb e una perorazione dell'utilità della realtà virtuale contro «lo stress psicosociale e l'ansia», l'ultimo post politico è quello (1 luglio) consacrato alla «fenomenologia del traditore», al solito tanto sfingico da risultare applicabile, al medesimo tempo, a Di Maio o Conte (e pure a De Masi). 

Un altro dei tratti del dna di Grillo, il tono oracolare e sfuggente, cifra distintiva del guru politico che si lascia aperte tutte le strade (e le vie di uscita). E che, a conti fatti, palesa il vero marchio di fabbrica del grillismo: l'irresponsabilità e il rifiuto di assumersi l'onere delle conseguenze delle proprie azioni.

Sempre mutevoli e cangianti, così da (tentare di) non essere inchiodati alle responsabilità; il camaleContismo è, in questo (e praticamente solo in questo), di purissima scuola grillina, infatti. Così, mentre l'Italia perde la prospettiva della stabilità (e le nubi nere del contesto geopolitico ed economico si addensano tremendamente), Grillo ostenta disinteresse e si è messo in modalità silente. 

Si è eclissato, come qualcuno annoiato dal "giocattolo(ne)" da lui stesso fabbricato. Antonio Gramsci aveva descritto il «sovversivismo delle classi dirigenti»: una formula che si attaglia perfettamente a molti leader populisti. 

E che, quando si disamorano dei loro slogan e dei loro movimenti, sfociano nel nichilismo. Un po' come - prendendo a prestito le parole (queste, invece, immortali) di Shakespeare - «un attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco, e poi non se ne sa più niente». Mentre proprio adesso dovrebbe battere un colpo.

ANNALISA CUZZOCREA per la Stampa il 17 luglio 2022.

In un discorso tanto atteso che doveva essere di apertura, Giuseppe Conte ha rimandato la palla nel campo di Mario Draghi. Ma forse non è l'ennesimo ultimatum dei 5 stelle a poter salvare la legislatura. «Se le cose restano come sono oggi - dice il ministro degli Esteri Luigi Di Maio - Mario Draghi mercoledì rassegnerà le sue dimissioni davanti al Parlamento. E tra giovedì e venerdì, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella scioglierà le Camere». 

I 5 stelle sostengono che il governo Draghi ha incassato la fiducia, anche senza di loro. E che questa drammatizzazione della crisi si poteva evitare. Non è così?

«No, perché come ha detto il presidente del Consiglio non c'è più una maggioranza di unità nazionale. In realtà il partito di Conte sta ancora cercando di decidere cosa fare. Il capogruppo della Camera aveva convocato una riunione contro la volontà del leader, secondo i ministri bisogna dirsi pronti a una nuova fiducia a Draghi. Sono divisi e a rischiare tutto ora sono i cittadini». 

Crede ricorreranno al voto online?

«Tutto può essere perché è una forza politica che non ha più il controllo di se stessa. Non è il Movimento che ho contribuito a costruire e conoscevo, ma un partito padronale che pensa solo a rieleggere dieci persone nella prossima legislatura. Faccio un paragone storico, anche se bisogna tener presente che Giuseppe Conte e Fausto Bertinotti non sono paragonabili, perché il secondo - anche se non la pensiamo allo stesso modo - era un vero politico». 

Sta pensando a quando l'allora leader di Rifondazione comunista fece cadere il governo Prodi?

«Esattamente. Dopo la caduta di quel governo, nel 2008, Rifondazione fu costretta ad andare da sola alle elezioni con la Sinistra arcobaleno e fu sostanzialmente annientata dal voto utile degli italiani. È quel che accadrà ancora una volta». 

Con Conte al posto di Bertinotti?

«Quando quest' estate e quest' autunno ci ritroveremo con un Paese impossibilitato a risolvere i problemi degli italiani su bollette, inflazione, gas, ci sarà una decisione da prendere: stare con i sovranismi e gli estremismi o scegliere il riformismo. Non ci sarà spazio per le mezze misure».

Crede che i 5 stelle stiano scegliendo sovranismi ed estremismi?

«Ho visto un'intervista in cui il sociologo Domenico De Masi racconta che hanno preso questa decisione guardando i sondaggi. Devono aver letto quelli sbagliati, perché la stragrande maggioranza degli italiani dice che il governo deve andare avanti. E anche la maggioranza degli elettori del Movimento». 

Ne è certo? I vertici 5 stelle dicono di essere sommersi da attivisti che chiedono di staccare la spina.

«Gli attivisti sono sempre una parte importante in un partito, ma quelli che votano nel Movimento 5 stelle sono 40mila. I 5 stelle nel 2018 hanno preso 11 milioni di voti. Se si fanno i sondaggi solo sui militanti, non si va lontano. Per rispetto delle persone a cui abbiamo chiesto il voto, bisognerebbe avere il coraggio di allargare lo sguardo». 

Le dico cosa risponderebbe Conte, visto che immagino non vi stiate molto parlando: quando lei faceva il capo politico decideva da solo. Ora c'è un Consiglio nazionale, convocato di continuo.

«Quando facevo il capo politico ero accusato di avere organi che mi ero nominato da solo e con cui decidevo. Penso sia l'identikit perfetto del Consiglio nazionale del partito di Conte. Avevamo costruito un Movimento per andare al governo, fare le riforme e cambiare il Paese. Non per far cadere i governi come il Papeete del 2019. La nuova vocazione mi sembra quella di distruggere il governo per provare a salvare pochi intimi». 

Non sente la responsabilità di queste "fibrillazioni", come le ha chiamate Draghi in conferenza stampa prima del voto del Senato?

Tutto è precipitato dopo la scissione che lei ha preparato portando via ai 5 stelle 60 parlamentari. Del resto, venuti meno i più governisti, Conte si è ritrovato con un partito sbilanciato verso il ribellismo.

«Mi risulta che sia nel Consiglio nazionale che nel gruppo parlamentare ci sia ancora una frattura molto forte. In più, se non avessimo deciso di andar via su una questione cruciale come la politica estera, l'allineamento dell'Italia alla Nato e all'Ue, il Movimento non sarebbe tornato indietro sulla risoluzione sull'Ucraina. Sarebbe stato ancor più devastante del non votare il decreto Aiuti. Avremmo comunicato al mondo che il governo cadeva perché la maggioranza si disallineava rispetto alle alleanze storiche». 

Continua a dipingerla come una scelta inevitabile.

«Non solo abbiamo ampliato la base sicura del governo Draghi, ma siamo intervenuti per salvare la politica estera italiana: non dimentico l'ambasciatore russo Razov che faceva un endorsement alla bozza di risoluzione del partito di Conte».

Non mi sfugge l'espediente retorico di continuare a chiamarlo il partito di Conte, ma di quel partito è Draghi a non voler fare a meno. Perché?

«Perché ha una sola parola.

Ha costruito un governo di emergenza nazionale su una maggioranza di unità nazionale.

Se permetti a chi ha preso un impegno con te di tradirlo, lo tradiranno tutti. È un tema di tenuta politica della maggioranza». 

Il premier sbaglia?

«È importante per il leader di un governo e di un Paese mantenere la parola data. Il tema vero però è che i parlamentari del partito di Conte stanno dimostrando che non si tratta più del Movimento 5 stelle, che aveva fatto un accordo su un governo di unità nazionale». 

Lo aveva fatto Grillo, che ora tace.

«Non conosco più le dinamiche interne. Voglio però dire sia agli eletti che a Grillo e Conte che oggi stanno decidendo se iscriversi nell'elenco della Storia di quelli che vogliono consegnare il Paese all'estrema destra togliendo la garanzia sui conti e sulla tenuta economica dell'Italia, perché quella garanzia si chiama Mario Draghi. È come se una famiglia facesse un investimento, avesse una garanzia per proteggersi e poi la distruggesse andando avanti alla cieca». 

Si è votato in Francia, anche se a scadenza naturale, si vota ovunque. Perché proprio in Italia si dice sempre: aspettiamo?

«Le rispondo con l'unico elenco che Conte sta consegnando al Paese: venti punti, non nove, di tutte le cose che stanno per saltare. Il Pnrr, il salario minimo e il taglio al cuneo fiscale, che non si fanno più perché con l'esercizio provvisorio non si possono fare. E poi l'intervento sul caro-bollette e sul caro-benzina, gli accordi sul gas che non si potranno più firmare, i bonus di 200 euro che non si possono rinnovare, il tetto massimo al prezzo del gas che salta perché non riusciremo a incidere ai tavoli internazionali. Il che vale anche per la riforma del patto di stabilità, che sarà discussa a fine anno. E poi la riforma delle pensioni, che non si può affrontare e anzi senza Draghi che tiene a bada lo spread ci sarà bisogno di una legge restrittiva sul modello Fornero». 

Sta dipingendo una catastrofe.

«Aumenteranno i tassi dei mutui per comprare casa. Salterà qualsiasi riforma dell'Irap e per le semplificazioni. Non potremo contrastare l'inflazione riducendo l'Iva sui prodotti di prima necessità, riformare gli enti locali, portare in fondo il ddl concorrenza, che è uno degli impegni Pnrr. Così come la riforma del fisco. E dimentichiamoci il Superbonus perché non lo rifinanziamo e non potremo sbloccare il credito, gettando sul lastrico molte aziende. Anche la siccità sarà un problema delle imprese e degli agricoltori, che saremo costretti a lasciare soli». 

Non le sembra un po' terroristico come elenco?

«È la realtà. Se Draghi restasse in carica per gli affari correnti dovrebbe affrontare le emergenze dell'autunno con una pistola scarica. Anche se si votasse a fine settembre, servirebbero tre settimane per la formazione delle Camere, almeno altre due per il governo. Arriveremmo a novembre e l'autunno passerebbe senza che le Camere possano votare decreti emergenziali e senza la programmazione economica della legge di Bilancio. Mi creda, non esagero. Anche ai tavoli europei sul Pnrr sarebbe una situazione incresciosa e pericolosa». 

Ma pensa davvero che qualcuno nei 5 stelle abbia voluto fare un favore alla Russia?

«Se lo chiedono molti nel mondo e il regalo è indiscutibile. La domanda è se sia voluto o frutto di incoscienza. Una cosa è certa: se leggiamo i comunicati stampa di queste ore, tutto il mondo libero sta chiedendo di fare andare avanti il governo Draghi. A tifare contro, sono i regimi». 

Lo sta dicendo perché vuole restare alla Farnesina?

«Ho quei comunicati qui davanti: Stati Uniti, Germania, Vaticano, Commissione europea. Mi hanno chiamato associazioni di categoria che stanno comprando pagine di giornali per chiedere a Draghi di ripensarci. Tutti sanno qual è la posta in gioco, tranne il partito di Conte. Che fa un ragionamento opportunistico: "Stiamo crollando nei sondaggi, usciamo per risalire". Ma devo ricordargli io l'estate 2019? Prima del Papeete Salvini era al 40 per cento e oggi è nella stessa traiettoria di Conte».

Ma Insieme per il futuro ha deciso da che parte stare? Potrebbe cercare alleanze a destra?

«Siamo tanti e decideremo insieme. Da giovedì, se saranno sciolte le Camere, ci riuniremo e sceglieremo il meglio per il Paese».

Crede che nei 5 stelle tornerà Alessandro Di Battista, dalla Russia dov' è adesso? «Alessandro è una persona che decide in modo oculato. Nonostante io e lui non la pensiamo più allo stesso modo su nulla, gli riconosco di riflettere a lungo prima di fare una mossa. Certo, se l'obiettivo di Conte è costruire un partito anti-sistema, come "descamisado" Dibba è molto più credibile di lui». 

Il messaggio di rottura. Conte scarica su Draghi le colpe della crisi: “Si assuma responsabilità, risposte su 9 punti o siamo fuori”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 16 Luglio 2022. 

Messo nell’angolo, Giuseppe Conte scarica le responsabilità della crisi politica in atto su Mario Draghi. È il premier l’obiettivo del leader dei 5 Stelle che su Facebook annuncia la linea del Movimento, prima di partecipare all’assemblea congiunta dei parlamentari pentastellati al termine dell’ennesima giornata convulsa.

Per Conte infatti il ‘no’ alla fiducia del partito al Decreto Aiuti, che conteneva l’indigeribile norma sul termovalorizzatore a Roma, è stato un gesto di “coerenza e linearità”. Da quella mossa “Draghi  ne ha tratto le conseguenze che ha ritenuto, confidavamo potesse optare per un percorso diverso” rispetto alla scelta di dimettersi, ma il non voto del Movimento al Senato “non era il significato di un voto contrario alla fiducia, ma dal comunicato di Draghi abbiamo visto che la nostra linearità è stata intesa come elemento di rottura, ne prendiamo atto”.

Conte che quindi parla di “ricatto subito” dai 5 Stelle, di un partito che “ha mandato giù di tutto”. “Nessuno può permettersi di parlare di posizioni strumentali o pretestuose” del Movimento, “non siamo disponibili a tradire il patto stretto con le generazioni future, Noi siamo scomodi, lo sappiamo“, le parole di Conte.

E tornando di fatto sul nodo del ‘no’ al Dl Aiuti, Conte ricorda nel suo discorso che l’esecutivo guidato dall’ex Bce “è nato con un voto online della comunità 5 Stelle che ha condizionato il nostro sostegno alla realizzazione della transizione ecologica. Nessuno può chiedere i nostri voti per nuove trivellazioni nell’alto Adriatico, nel caso si voglia tornare a costruire nuove centrali a carbone o nuovi impianti di termovalorizzazione“.

Mentre sul documento in nove punti presentato dallo stesso leader 5 Stelle a Draghi nel faccia a faccia a Palazzo Chigi, per l’ex premier la risposta del suo successore “non è ancora ancora pervenuta, c’è stata qualche generica apertura su alcune delle urgenze segnalate ma nessuna indicazione concreta”.

Il messaggio, evidente, è quello di una porta quasi completamente chiusa per Draghi, dando spazio così all’ala più ‘barricadera’ del Movimento, tra l’altro fortemente presente proprio al Senato dove è avvenuto “l’incidente” del Dl Aiuti. Conte detta quindi le sue condizioni, sottolineando che i 5 Stelle “non voglio tirare Draghi per la giacchetta, ma non potremo condividere alcuna responsabilità di governo se non ci sarà chiarezza sul documento politico consegnato e indicazione concreta sulla risoluzione di quelle questioni”.

Serve, continua il leader grillino, “definire un’agenda di governo chiara e un cronoprogramma specifico, valuterà Draghi se ci sono le condizioni per il M5S di inserire la sua azione politica in un contesto che si sta rivelando poco coeso. Senza risposte chiare, è evidente che il M5S non potrà condividere una responsabilità diretta di governo – è il messaggio forte di Conte – ci sentiremo liberi e sereni di votare e partecipare quel che serve al Paese di volta in volta, quel che serve ai cittadini portando avanti la nostra azione politica del tutto disinteressatamente”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Da corriere.it il 16 luglio 2022.

«Io non sono il triumviro dello strappo con Draghi. Contro me una macchina del fango». Così il portavoce di Giuseppe Conte Rocco Casalino smentisce di essere l’autore della rottura all’interno del governo. «Ho incarichi di comunicazione, non politici. Si colpisce me per colpire Giuseppe». 

L’ex portavoce di Palazzo Chigi segue molto da vicino la vita del Movimento, specie in un momento così drammatico. Tiene però a precisare che non avendo incarichi politici non segue le riunioni del Consiglio nazionale, né partecipa a confronti di natura politica dove definita la linea del M5S. «Vorrei ribadire ancora una volta che il mio ruolo è limitato all’ambito comunicativo».

Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 16 luglio 2022.

"Ma ti rendi conto? L’incidente di Sarajevo! C'è la guerra e Letta parla di pistole, è anche irrispettoso...". Rocco Casalino era furioso mentre esprimeva a un parlamentare 5S tutto il disappunto sull'esempio usato dal segretario del Pd per rappresentare le conseguenze dello strappo di Conte. 

Dipendesse da Casalino, non ci sarebbe da esitare un secondo: via dal governo, via dal campo largo. Dopo mesi di basso profilo, sembra tornato il Casalino dei vecchi tempi, quello che teneva i dem e Draghi sul gozzo più di quelli che storcevano il naso sui suoi esordi al Grande fratello. 

Tutte le cronache interne al Movimento concordano sul fatto che l'ex portavoce di Conte a Palazzo Chigi non perda occasione per consigliare al leader di tenere una linea inflessibile. Casalino insieme a due vice di Conte, la senatrice Paola Taverna e il deputato Riccardo Ricciardi. Il triumvirato dello strappo, la trimurti dell'antidraghismo e del ritorno all'opposizione.

Uno strano trio anche per estrazione politica. Taverna è una che ha sempre detestato la sinistra, era più a suo agio nel governo con la Lega, al contrario Ricciardi è un Fratoianni del Movimento, uno che contesta Draghi per convinzione ideologica ma, a differenza di Di Battista, il Movimento lo vede senz'altro nel campo opposto alla destra. 

Questa vocazione non ha scoraggiato Casalino, maestro di pragmatismo, dal puntare su di lui. Ricciardi, un passato da giovane attore teatrale, è tra i grillini più spigliati e telegenici. "In tv ci deve andare lui", suggerì Rocco che, dopo la caduta del Conte bis, nei mesi della sua personale traversata nel deserto, ha lavorato per aumentare la visibilità del vicepresidente. 

Irritando non poco Luigi Di Maio, bersaglio frequente delle polemiche di Ricciardi, che non a caso è stato il più lesto a chiederne l'espulsione, proprio su Repubblica, pochi giorni prima che il ministro degli Esteri se ne andasse dal M5S.

Nei gruppi parlamentari è di nuovo tutto un "Rocco dice che", "qui c'è la mano di Rocco", "ora Rocco fa uscire lo spin" (lo spin, per i non addetti ai lavori, è il tentativo di orientare il dibattito e l'informazione con una velina dettata alle agenzie di stampa). 

Ieri mattina, per esempio, erano tutti convinti che ci fosse la mano di Casalino dietro l'indiscrezione secondo la quale il M5S era pronto a ritirare i propri ministri ancora prima di mercoledì, quando Mario Draghi parlerà alle Camere. 

Raccontano nel Movimento che i triumviri abbiano cercato di forzare la mano, presentando come già presa una decisione che era stata solo discussa nel corso della riunione notturna del Consiglio nazionale e di una più ristretta seduta mattutina di Conte con i ministri e i sottosegretari (contrari a rompere).

Certo è che l'ex premier ha chiesto di smentire la notizia del ritiro dei ministri un paio d'ore dopo. "Allo stesso Casalino che l'aveva diffusa", giurano quei 5S che a uscire dal governo non ci pensano proprio. Ma per Casalino sono solo malignità, tanto che nel pomeriggio si è attaccato al telefono con parlamentari e giornalisti per capire chi avesse fatto uscire la notizia. 

Un'indagine interna come quelle dei tempi del Sacro Blog e del magistero casaleggiano, quando l'identificazione del colpevole di una soffiata si chiudeva con la condanna all'oscuramento mediatico.

Ora non c'è tempo di pensare a purghe e rese dei conti, dà già abbastanza da fare lo scontro tra barricaderi e governisti, questi ultimi - maggioranza nel gruppo alla Camera - consapevoli di quanto alto sia il rischio di non tornare in autunno sul proprio scranno in caso di voto anticipato. Un problema estraneo a Casalino che, cascasse il mondo, è sicuro della candidatura alle politiche e realisticamente pure dell'elezione. 

Un po' meno sicura della candidatura è Taverna, che deve sempre fare i conti con la rogna del limite dei due mandati, ultimo dogma grillino ancora intonso. Taverna non vuol sentir parlare di fine corsa. 

Quando, qualche settimana fa, Conte annunciò che in estate si sarebbe tenuto il referendum tra gli iscritti per decidere sulla conferma della regola si presentò nell'ufficio di Conte alla sede nazionale del Movimento, a due passi da Montecitorio, e le sue urla in romanesco si sentirono su tutto il piano: "Me dovevi almeno avvertì!".

Taverna, del resto, voleva strigliare pure Beppe Grillo, reo di aver detto che il limite dei due mandati non si tocca, poi il post pubblicato su Internet contro il fondatore ("Non è tuo il Movimento") fu cancellato e attribuito a una inverosimile svista dello staff. 

La vita della vicepresidente del Senato nel M5S è intessuta di una fitta rete di alleanze e inimicizie assolute, come quella con la sua capogruppo in Senato Maria Domenica Castellone, memorabili alcune loro litigate in pubblico, ora è molto vicina a Roberta Lombardi, l'anti-Raggi, che pure molti grillini continuano a considerare - a dispetto dei risultati da sindaca di Roma - la principale aspirante al posto di Conte. 

Ma almeno sul no al termovalorizzatore di Roma sono tutti d'accordo e, in fondo, è grazie al pretesto romano che il triumvirato è riuscito a portare il M5S sulla soglia dell'agognata opposizione.

Lo spin, per intenderci, è preso pari pari dalle indimenticabili campagne mediatiche della Forza Italia d'annata: arrivava la velina e tutti gli azzurri da bravi soldatini dovevano ripetere la parola d'ordine settimanale. Ora basta un sms, ma i 5stelle si confermano una versione estrema della creatura di Berlusconi che, anche lui, assommava personaggi delle provenienze più variegate. 

Il populismo mediatico è questo: ripetere una sciocchezza plausibile fino a farla diventare dogma. Poi ovviamente succede che, nell'assoluta assenza di logica e idee, gli slogan prendano la mano. E a quel punto, per l'allegra banda rossobruna, diventino realtà. 

Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” il 3 agosto 2022.

Un po’ di memoria storica (ogni tanto serve, va). E perciò, per non dimenticare: è stato il sociologo Domenico De Masi ad accendere la miccia dell’ultima tragica crisi di governo. Con un’intervista al Fatto (era l’apertura del giornale, gran titolo, servita insomma su un vassoio d’argento): lì De Masi spifferò il segreto che gli aveva confessato Grillo. 

Più o meno virgolettabile così: «Tutte le volte che sento Draghi, mi chiede di far fuori politicamente Conte». Insomma il premier considerava Conte troppo capriccioso, rancoroso, mai collaborativo.

Lui, De Masi, sostiene che questo gravissimo retroscena (ovviamente poi smentito dai vari protagonisti) fosse già ben noto a tutti i parlamentari grillini: resta però molto forte il sospetto che il sociologo sia invece stato messo in mezzo, nel bel mezzo di una spregiudicata operazione che doveva provocare una scintilla, far infuriare Conte e scatenare l’uscita del Movimento dal governo. Davanti a tale dubbio (sgradevole, in effetti),De Masi replica mettendo su un’aria seccata: «Ma io non sono un pettegolo. E poi, comunque, non faccio politica». Questo, effettivamente

lo urlò anche a me qualche mese fa, in un talk alla tivù. Quando gli dissi che era molto vicino ai 5 Stelle. S’infuriò. «Io? Io sarei un grillino?». Reagì in un miscuglio di stupore e indignazione, come se l’avessi accusato di vendere illegalmente scimmie e coccodrilli. È sempre complicato capire gli amori degli altri. 

Compresi quelli politici. Però, insomma, caro professore: mica è un reato continuare a simpatizzare – nonostante tutto – per i grillini, o essere stato dentro quella drammatica storia così zuppa di bieco populismo.

Anche se poi, forse, il problema nemmeno si pone più. Come si sarà accorto, il Movimento, una scissione dopo l’altra, tra tonfi, minacce e sputi (non è un modo di dire), patetici bizantinismi e volgari calcoli poltronari, ormai non esiste quasi più. Non c’è più niente di quella terrificante e visionaria onda creata da Roberto Casaleggio con la feroce complicità del suo amico comico. 

In Parlamento restano solo macerie fumanti. Per questo, ecco sì, a una cosa dovrebbe fare attenzione un docente del suo rango: a non essere scambiato per un «grillo parlante», in assenza di quello vero. 

Lorenzo De Cicco per la Repubblica il 16 luglio 2022.  

Dietro alla smania di strappo di Giuseppe Conte col governo Draghi c'è anche, forse soprattutto, il precipitare grillino nei sondaggi. A sostenerlo non è un nemico dell'ex premier, ma quello che i più tratteggiano come l'ideologo del corso contiano dei 5 Stelle: Domenico De Masi, sociologo, docente della scuola di politica M5S. L'uomo che a fine giugno ha rivelato al Fatto : «Grillo mi ha detto che Draghi gli dice di cacciare Conte». 

Scatenando un putiferio. «Lo strappo - racconta De Masi - si è consumato per via di una conflittualità latente che c'era fin dalla nascita di questo governo, che è nato contro quello di Conte. Da allora i 5 Stelle, che erano crollati dal 33% delle politiche al 18-19%, ma che avevano mantenuto questa percentuale per la ventina di mesi del Conte II, oscillando un po' forse, ma restando lì, con il governo Draghi hanno invece ripreso a precipitare fino al 12. Credo che questo sia stato uno degli elementi che ha spinto Conte ad addivenire a questa decisione»

Ora la rottura è definitiva?

«Credo di sì. Se ora esce dal governo e fa rientrare Di Battista, Conte recupera anche 2-3 punti. Non sarebbe un'operazione stupida. Vale anche per la Raggi. Ha bisogno di un'anima movimentista, come c'era nel Pci». 

Non vede margini per ricomporre la crisi?

«Dall'inizio di questo governo ho visto una serie di punture di spillo, prolungate, contro i 5 Stelle, dall'annacquamento del reddito di cittadinanza al Superonus... Non hanno fatto di tutto per tenerli dentro. Il Movimento avrebbe dovuto fare quello che fece Berlinguer, con l'appoggio esterno. All'inizio di questo governo avevano ancora un bel gruzzolo di deputati e senatori su cui contare». 

Ma fu il suo amico, o ex amico, Grillo a volere il M5S nel governo Draghi...

«Mah, amico. Il mio rapporto con Grillo è che ogni tanto mi telefona. Così anche l'ultima volta che ci siamo visti. Tutto qui». 

Però il suo racconto delle telefonate Draghi-Grillo ha creato maretta, per usare un eufemismo...

«Ma Grillo l'aveva già detto ad alcuni parlamentari. Non ho rivelato nulla».

Con Grillo vi siete risentiti?

«No. Ma mi pare abbia detto che ora il M5S può uscire». 

E con Conte si è sentito in questi giorni?

«Sì, più volte. Sta traghettando il Movimento verso la forma partito. All'inizio ha pensato di farne proprio uno suo, di partito, ma era un'operazione costosa e una fatica enorme. Ha scelto di prendersi un partito già bello e pronto. Certo non c'era un materiale umano facile. Ma Di Maio gli ha fatto un favore, levandogli 61 nemici».

Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 16 luglio 2022.

Ma Conte, adesso, che fa? (Collegio Nazareno, sede del Pd, brutto guaio: perché in caso di elezioni anticipate, il M5S non sarebbe più un alleato possibile.

Il campo largo, di colpo, è diventato un campo da Subbuteo. 

Tormenti: Conte, mercoledì, la voterebbe una fiducia al governo? Li controlla, sì o no, i suoi ministri? Sul serio si fa dettare la linea dalla Taverna?

Dubbi atroci, cupi sospetti, furiosa amarezza («Peppino sarà il punto di riferimento del riformismo di questo Paese», dissero certi dem, oh yeah).

Fatelo chiamare da Francesco Boccia.

Francesco, provaci tu. 

Francesco: però parla solo con lui, con l'avvocato. Non con quell'altro.

Quell'altro: Rocco Casalino (che, sia detto appunto tra parentesi, quando s' accorge che Conte è al telefono con uno del Pd, letteralmente ulula: «Uuuuhhhh!». Segue botta di stizza: «Questi che poi devono sempre venirci a spiegare come si vive Uff!»). Proprio così, invece. È l'incarico di Boccia: fornirgli qualche nozione di grammatica politica, aiutarli a uscire dall'angolo in cui si sono cacciati, provare a immaginare - se solo volessero - uno stratagemma a basso tasso di umiliazione. 

Lo stato maggiore del Pd considera Boccia una via di mezzo tra un fachiro e un incantatore di cobra: riesce ad ascoltare i grillini senza perdere la pazienza o addormentarsi - secondo alcuni testimoni, una volta riuscì a parlare per un'ora anche con Vito «orsacchiotto» Crimi - in genere comunque li tiene mansueti, li fissa negli occhi, e loro quasi mai lo attaccano.

Esperto, di antico rito lettiano, empatico, viene dall'esperienza pugliese, dove il governatore Michele Emiliano mise su una sorta di laboratorio d'intesa Pd/5 Stelle; ma non solo: essendo poi il responsabile enti locali del Pd, Boccia con i grillini tratta anche per le alleanze alle Amministrative, e quindi conosce bene le loro debolezze, sa che adorano le poltrone, il potere, le auto blu, e che - se sai prenderli - alla fine si fanno piacere tutto: Tav, Tap, Europa, banche. Però è soprattutto con Giuseppe Conte che Boccia dà il meglio. 

L'avvocato di Volturara Appula, con la sua voce vellutata, l'eloquio talvolta involuto tipo «supercazzola» da Conte Mascetti - frase cult: «Le urgenze che abbiamo posto a Draghi non sono urgenti» - il continuo titillarsi la pochette, scuote il sistema nervoso, già provato, di molti esponenti dem (in particolare, i ministri Franceschini e Orlando). Due ore dopo . Boccia, allora? Che dice Conte? Ma purtroppo Conte non dice.

Roberto Gressi per il “Corriere della Sera” il 16 luglio 2022.

Che vita difficile, e che parabola incredibile. Mancano 120 ore al giudizio universale, che vale per tutti, ma per Giuseppe Conte in modo particolare. Padella o brace. Da una parte l’andata a Canossa, qualora il pressing italiano e internazionale convincesse Mario Draghi a restare. 

Dall’altra la rottura e una nuova sfida, stavolta con le pulsioni iper populiste di Alessandro Di Battista, che già affila le armi perché la guida del Movimento in mano all’ex premier non sia che una parentesi. 

Mercoledì il premier dimissionario sarà davanti alle Camere e il filo sottile, quasi inesistente, che porta a una riedizione del governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi, passa per una porta strettissima per l’avvocato del popolo.

Sì al termovalorizzatore, no allo scostamento di bilancio, si alle riforme fiscali e della concorrenza, si al sostegno all’Ucraina senza cedimenti, no a una quotidianità fatta di strappi piccoli e grandi per cercare di razzolare i voti perduti. 

Dura da digerire. Ma dura anche da rifiutare, perché dall’altra parte c’è la fiera pasionaria dei barricadieri a Cinque stelle, ugualmente rissosi ma assolutamente privi della fantasia onirica, per quanto velleitaria, del fondatore: il Beppe Grillo della prima ora. 

I contorcimenti delle ultime ore con l’ipotesi di ritirare i ministri, con i ministri che fanno sapere che non ci pensano proprio e con Giuseppe Conte costretto a veicolare che non è lui che l’ha detto ma che piuttosto il dimissionario è Draghi, non sono che un assaggio disperato di quello che può succedere nei prossimi giorni. O in questi minuti, con l’ex premier che magari la spunta e riesce a portar via dal governo la sua delegazione.

Ma è qui che si aprirebbe la partita più ardua per Conte, quella per mettersi a capo di un’Armata Brancaleone assai difficile da guidare. Non abbiamo leggi contro il cattivo gusto, perché da noi, e non solo da noi, è stato convertito in un genere di consumo. E quindi è lecito raccontare cosa pensa Alessandro Di Battista, con le parole che lui stesso ha affidato alle agenzie. 

Il Che Guevara di casa nostra, con la vespa al posto della motocicletta e il parco alberato di Monte Mario al posto della giungla cubana o boliviana, ancora non si fida. 

Sarebbe un’ottima notizia, dice, se il governo cadesse, ma non ne è così sicuro: «Perché quelli che si appellano al senso di responsabilità, negli ultimi anni, sono stati responsabili solo del loro culo, tra l’altro flaccido come la loro etica. E in caso di elezioni non potrebbero fare comizi se non mettendosi di spalle, anche se in molti, guardandogli i deretani, riconoscerebbero all’istante i loro volti».

Davvero ha qualcosa a che fare con questo linguaggio l’uomo della pochette? Il premier che parlava con rassicurazioni flautare agli italiani chiusi in casa per il virus, il leader che faceva sapere di trattare alla pari con la cancelliera tedesca Angela Merkel per il Piano di ripresa e resilienza? 

Lo statista che faceva fuori il Matteo Salvini del Papeete e che una volta sconfitto con il suo secondo governo passava la campanella a Mario Draghi assicurando il suo sostegno leale perché l’Italia viene prima? 

O quello che pretendeva che si prendesse per buono il suo no a che diventasse presidente della Repubblica perché non si poteva assolutamente fare a meno di Draghi alla guida dell’esecutivo? E che fine ha fatto l’uomo che, ai tempi d’oro, il suo staff accreditava come uno statista che non avrebbe sfigurato al Quirinale?

Sembra suicida il suo tentativo di mettersi alla testa di una copia sbiadita e sgangherata dei tempi del vaffa, senza idee nuove, senza il lavoro certosino di quello sgobbone di Luigi Di Maio, con una ridotta di parlamentari fedeli solo finché qualcuno non gli buttasse un’ancora del si salvi chi può e con il ministro degli Esteri che è già pronto ad accogliere una pattuglia nutrita di nuovi fuggiaschi. 

Si apre per altro, per l’ex premier, una partita disperata sul fronte delle alleanze. Nel Pd c’è chi comincia a mettere in discussione anche le primarie comuni per le regionali siciliane e la possibilità di individuare nei collegi uninominali candidati unitari è destinata a naufragare con il giudizio diverso sul governo Draghi, sulla guerra e su tante altre cose. Con l’aggiunta del taglio dei parlamentari quello che fu l’esercito dei cinque stelle si avvia sulla strada dell’irrilevanza.

Conte non può nemmeno contare su un sostegno sicuro di Beppe Grillo, che ha smesso di amarlo già agli esordi della sua contrastata leadership, quando tentò, senza riuscirci, di ottenere per statuto i pieni poteri, esautorando il fondatore. È in fondo la sua vocazione avvocatizia a confonderlo, l’idea che in politica ci si possa impossessare del timone di un partito mettendolo per iscritto, e non conquistandolo giorno dopo giorno.

Non solo taxi. Dalle spiagge ai bacini idroelettrici, tutto quello che c’è nella legge sulla concorrenza. Alberto Chiumento su L'Inkiesta il 15 Luglio 2022.

l ddl Concorrenza contiene molte misure in diversi settori dei servizi. Il valore delle liberalizzazioni si spiega proprio con la continua caduta nella produttività in questo comparto, che ha a che fare anche con la insufficiente pressione della concorrenza

Tratto da Morning Future

Prima le tensioni politiche sulle concessioni balneari, poi i tassisti in sciopero. Uno degli argomenti più dibattuti nella politica italiana è la legge per il mercato e la concorrenza. Una questione che da anni si cerca di affrontare in Italia, allargando le maglie delle liberalizzazioni in settori economici differenti, senza tuttavia riuscirci.

Si tratta di una legge annuale, introdotta nell’ordinamento nel 2009 ma approvata tuttavia in un solo anno, il 2017.

Tutti i settori interessati appartengono al grande comparto dei servizi, attività economiche poco esposte alla concorrenza internazionale e spesso svolte attraverso un forte ruolo di intermediazione dell’operatore pubblico. Tra questi, quello su cui si è discusso di più è stata la messa a gara delle concessioni balneari, ma il testo si occupa anche delle concessioni dei bacini da cui si ottiene energia idroelettrica, delle aree portuali e anche dei farmaci generici. Ci sono poi la revisione dell’affidamento dei servizi pubblici locali e i criteri per selezionare le società per l’installazione delle colonnine di ricarica elettrica.

L’obiettivo del disegno di legge è quello di «portare avanti misure pro concorrenziali», spiega Mario Sebastiani, professore all’Università Tor Vergata di Roma, dove insegna Economia della regolamentazione e della concorrenza. «La finalità della concorrenza non è in sé, ma perché si ritiene che un mercato concorrenziale sia più efficiente per le imprese e per i consumatori». Si tratta, inoltre, di una norma che il Parlamento dovrebbe approvare annualmente, ma che per diversi anni non è stato in grado di produrre.

Il percorso verso una maggiore concorrenza

Se è stata rinviata per anni, come mai se ne parla molto proprio ora? Tutto ruota intorno all’applicazione della direttiva europea Bolkestein del 2006 che, tra le varie cose, riguarda anche l’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione dei servizi. La direttiva negli anni ha portato nelle piazze italiane tassisti, ambulanti e gestori di strutture balneari. Dopo l’ennesima proroga delle concessioni balneari, l’Europa ha aperto una procedura di infrazione contro l’Italia. E sulla questione è intervenuta anche una sentenza del Consiglio di Stato, sancendo che l’estensione delle stesse concessioni al 2033 è illegittima e che lo Stato avrebbe dovuto riassegnarle entro due anni.

Non solo. «La Commissione europea aveva posto l‘approvazione della legge sulla concorrenza come condizione fondamentale per l’elargizione dei fondi del Next Generation Eu», spiega Sebastiani. «Il Governo italiano aveva accettato questo e dunque non resta che cercare di completare la legge, anche se le posizioni dei vari partiti che compongono la maggioranza del Governo Draghi sono abbastanza distanti e il tempo scarseggia. Bisogna chiudere in fretta perché la prossima primavera ci saranno le elezioni».

Sebastiani racconta che un modo per aumentare la competitività è togliere una serie di paletti che limitano l’apertura dei mercati. Un detto frequente tra gli esperti di concorrenza è che «uno dei maggiori ostacoli alla libertà di entrata nei mercati è la mancanza di libertà di uscita». Ed è proprio questo problema di uscita che blocca l’approvazione del ddl, soprattutto rispetto alle concessioni balneari.

«Qui si tocca un punto sociale, che è il vero problema», dice Sebastiani. Chi è a favore della riforma ritiene che lo Stato non possa più accettare che i gestori degli stabilimenti balneari ottengano senza gare la possibilità di sfruttare un bene pubblico, che oltretutto ricevono pagando un prezzo molto basso rispetto alle tariffe che poi applicano alla clientela. Assegnare queste concessioni tramite gara causerà almeno nel breve periodo una disoccupazione immediata, perché molti vecchi proprietari potrebbero perdere le gare. Per loro la concessione rappresenta spesso l’unica fonte di reddito, che oltretutto può coinvolgere l’intero nucleo familiare. E riassorbire questa disoccupazione attraverso nuove imprese richiederà certamente del tempo perché è un processo lento che non avviene in pochi giorni. La vera complessità è gestire e ridurre al minimo questa rottura. Questo è il classico esempio del problema di uscita», spiega Sebastiani.

L’accordo generale sulle concessioni balneari è di fatto stato trovato, manca soltanto da decidere – anche se non si tratta di un aspetto secondario – come indennizzare chi perderà la gara. Per Sebastiani, «resta da fissare se far pagare a chi subentra non soltanto gli investimenti non totalmente ammortizzati, ma anche il valore di rimpiazzo: anche se un bene è stato ammortizzato ha comunque un valore di mercato, che chi subentra vincendo la gara avrebbe a disposizione senza aver fatto nulla. L’idea è che lo Stato definisca dei criteri per la valorizzazione degli asset, validi per tutta Italia, per definirne il prezzo di uscita che pagherà chi subentra».

Rispetto alle concessioni dei bacini idroelettrici, invece, è stato deciso che le concessioni dovranno essere messe a gara dalle regioni entro il 31 dicembre 2023, un anno più tardi rispetto a quanto era stato definito precedentemente. Per i porti, invece, chi li gestisce avrà la possibilità di definire accordi integrativi con i privati per la loro gestione.

Un ulteriore punto estremamente importante riguarda l’affidamento dei servizi pubblici locali. «Il nostro sistema è caratterizzato da tante imprese con un unico affidamento, spesso molto piccolo», dice Sebastiani. «Queste aziende sono quindi estremamente dipendenti da questo affidamento. Lo difendono con forza perché se lo perdessero avrebbero grosse difficoltà. Un altro problema di uscita. All’estero queste imprese sono attive in più settori in modo da creare economie di scala e da differenziare fortemente l’offerta».

C’è anche il problema legato al tempo. «Restano sei mesi di tempo per realizzare un Testo unico sui servizi pubblici locali, dopo che qualche anno fa un tentativo simile era stato affossato». Resta poco tempo anche per le concessioni balneari. «Il termine ultimo per mettere a bando le concessioni balneari è il 31 dicembre 2023, come stabilito dal Consiglio di Stato, ma il gran numero di gare che la Pubblica Amministrazione dovrà gestire in così poco tempo e la possibilità di rimandare di un anno in caso di ricorsi o difficoltà, fa immaginare che ci vorrà anche del tempo per avere risultati pratici».

Il valore della concorrenza

Quelle che vengono definite posizioni di rendita sono stipendi e redditi di un grande numero di famiglie, spiega Lavoce.info. E chi oggi viene indicato come un pigro rentier sulle spalle dei cittadini ha investito, nella licenza del taxi, rinnovando le cabine dello stabilimento balneare o garantendo l’efficienza del bacino idroelettrico.

Senza dubbio questi argomenti hanno una parte di verità e la transizione a condizioni concorrenziali deve tenere conto degli investimenti compiuti.

Quindi ne vale la pena? Basta guardare l’andamento della produttività totale dei fattori, una misura della efficienza e innovatività del sistema economico, distinta per il settore manifatturiero e per quello dei servizi. Se il problema dell’Italia è la stagnazione degli ultimi vent’anni, questa ha una componente settoriale importante. E la continua caduta nella produttività dei servizi ha a che fare anche con la insufficiente pressione della concorrenza.

Undici sindaci scrivono lettera a Draghi: “Vada avanti”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Luglio 2022.  

I primi cittadini: "Servono stabilità, certezze e coerenza. Per questo chiediamo con forza a tutte le forze politiche presenti in Parlamento che hanno dato vita alla maggioranza di questo ultimo anno e mezzo di pensare al bene comune"

“Con incredulità e preoccupazione assistiamo alla conclamazione della crisi di Governo generata da comportamenti irresponsabili di una parte della maggioranza. Le nostre città, chiamate dopo la pandemia e con la guerra in corso ad uno sforzo inedito per il rilancio economico, la realizzazione delle opere pubbliche indispensabili e la gestione dell’emergenza sociale, non possono permettersi oggi una crisi che significa immobilismo e divisione laddove ora servono azione, credibilità, serieta‘”. È quanto si legge nella lettera che undici sindaci , uno schieramento che comprende primi cittadini eletti sia nel centrosinistra che nel centrodestra hanno inviato al premier Draghi. Un elenco che si è allungato nel corso di giornata fino a comprendere una quarantina di sindaci.

Questi i sindaci che l’ hanno firmata: Luigi Brugnaro (Venezia), Marco Bucci (Genova), Antonio Decaro (Bari e presidente Anci), Michele De Pascale (Ravenna e presidente Upi), Giorgio Gori (Bergamo), Roberto Gualtieri (Roma), Stefano Lo Russo (Torino), Dario Nardella (Firenze e coordinatore citta’ metropolitane), Maurizio Rasero (Asti), Matteo Ricci (Pesaro e presidente Ali) e Beppe Sala (Milano). 

“Il Presidente Mario Draghi ha rappresentato fino ad ora in modo autorevole il nostro Paese nel consesso internazionale e ancora una volta ha dimostrato dignità e statura, politica e istituzionale. Draghi ha scelto con coraggio e rigore di non accontentarsi della fiducia numerica ottenuta in aula ma di esigere la sincera e leale fiducia politica di tutti i partiti che lo hanno sostenuto dall’inizio – continua la lettera – Noi Sindaci, chiamati ogni giorno alla difficile gestione e risoluzione dei problemi che affliggono i nostri cittadini, chiediamo a Mario Draghi di andare avanti e spiegare al Parlamento le buoni ragioni che impongono di proseguire l’azione di governo“.

“Allo stesso modo chiediamo con forza a tutte le forze politiche presenti in Parlamento – prosegue la lettera scritta dai sindaci – che hanno dato vita alla maggioranza di questo ultimo anno e mezzo di pensare al bene comune e di anteporre l’interesse del Paese ai propri problemi interni. Queste forze, nel reciproco rispetto, hanno il dovere di portare in fondo il lavoro iniziato in un momento cruciale per la vita delle famiglie e delle imprese italiane. Se non dovessero farlo si prenderebbero una responsabilita’ storica davanti all’Italia e all’Europa e davanti alle future generazioni. Ora più che mai abbiamo bisogno di stabilita’, certezze e coerenza per continuare la trasformazione delle nostre citta’ perche’ senza la rinascita di queste non rinascera’ neanche l’Italia“.   

 Ai sindaci potrebbero aggiungersi i governatori delle Regioni. A loro si sono uniti immediatamente dopo i medici, i farmacisti, gli infermieri, le associazioni di categoria, organizzazioni locali in un elenco che si allunga con il passare delle ore. Tutti si uniscono nel “coro” trasversale nazionale che chiede a Mario Draghi di non dimettersi. . C’è anche un appello congiunto dei rappresentanti delle “professioni sanitarie” (medici, infermieri, farmacisti): “Non è il tempo di una crisi al buio. A nome delle donne e degli uomini delle professioni sanitarie e sociosanitarie rivolgiamo un accorato appello all’unità ed alla responsabilità al presidente Draghi, al ministro Speranza, a tutte le forze politiche e sociali, ad ogni singolo rappresentante delle istituzioni: non interrompiamo la stagione delle riforme e degli investimenti“.

Confindustria Puglia si è mossa autonomamente con parole che riecheggiano quelle di altre parti sociali ed economiche: “L’Italia non può restare senza una guida autorevole e sicura in un momento storico come quello che stiamo vivendo. Per questo chiediamo al Presidente del Consiglio Mario Draghi di restare in carica e un atto di responsabilità da parte delle forze politiche presenti in Parlamento affinché, senza indugi e trattative, esprimano la loro fiducia all’Esecutivo permettendogli di continuare a lavorare sui tanti dossier aperti». Richiami analoghi sono stati sottoscritti dal presidente di Confindustria Romagna Roberto Bozzi e da quello di Assolombarda Alessandro Spada. In serata al lunghissimo elenco si è unita anche la Federterme: “La situazione attuale con provvedimenti in itinere, crisi economia e una guerra in atto, devono imporre una serissima riflessione tra la scelta di portare avanti meri giochi di potere e invece costruire un serio processo di ripartenza del Paese“. 

Qual’ è il “sentiment” del web associato ai protagonisti della crisi di Governo? Reputation Science ha analizzato le conversazioni Twitter delle ultime 24 ore per sondare le emozioni della Rete in riferimento alla crisi governativa messa in atto dal Movimento 5 Stelle.

Il “sentiment” associato al presidente del Consiglio dimissionario, nonostante le vicissitudini politiche, rimane per la maggior parte positivo: i commenti sulla rete sono positivi o hanno carattere informativo nel 61% dei casi. Solo quattro commenti su dieci sono invece negativi (39%). Una percentuale in calo rispetto all’ultima rilevazione di Reputation Science, che ad aprile aveva evidenziato come il 52% dei tweet sul premier Draghi avessero un sentiment negativo, complici anche gli attacchi della galassia Novax/filo Putin. Elemento che, seppur in misura minore, riemerge anche in questa analisi: tra i critici più feroci nei confronti del premier compare ancora l’account Twitter “Il Sofista”, già incontrato per le sue posizioni filo putiniane, contro il vaccino e contro il governo dell’ex Bce.

Il “sentiment” dall’esperienza governativa di Conte è sempre negativo: molti sono, infatti, gli utenti che ancora lo criticano aspramente per quanto fatto quando era Presidente del Consiglio. Una percentuale di negatività che, in seguito alla crisi di governo messa in atto proprio dal Movimento 5 Stelle, è salita fino a toccare il 74% dei tweet che lo citano. 

Redazione CdG 1947 

«Draghi resti» l’appello del «partito del pil» a difesa del governo. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022. 

Undici primi cittadini hanno firmato un documento «bipartisan», a loro si è unito il governatore della Liguria. Documenti anche da imprenditori e ordini professionali. 

Ci sono i sindaci, a cui potrebbero aggiungersi i governatori delle Regioni. A loro si sono uniti subito dopo i medici, i farmacisti, gli infermieri. poi associazioni di categoria, organizzazioni locali in un elenco che potrebbe allungarsi con il passare delle ore. Tutti si uniscono a un «coro» che chiede a Mario Draghi di non dimettersi . In attesa che la politica ricomponga i pezzi del governo andato in frantumi, è il resto dell’Italia che invoca la soluzione: no a elezioni subito, sì alla prosecuzione del lavoro avviato a Palazzo Chigi dall’ex presidente della Bce. È il «sentiment» che si sta facendo strada in quete ore di stallo della crisi.

Gli indugi sono stati rotti dai sindaci delle principali città italiane. Con uno schieramento che comprende primi cittadini eletti sia nel centrosinistra che nel centrodestra hanno sottoscritto una lettera indirizzata a Draghi: «Con incredulità e preoccupazione assistiamo alla conclamazione della crisi di Governo generata da comportamenti irresponsabili di una parte della maggioranza.- così inizia il messaggio - Le nostre città, chiamate dopo la pandemia e con la guerra in corso ad uno sforzo inedito per il rilancio economico, la realizzazione delle opere pubbliche indispensabili e la gestione dell’emergenza sociale, non possono permettersi oggi una crisi che significa immobilismo e divisione». «Chiediamo a Mario Draghi di andare avanti e spiegare al Parlamento le buoni ragioni che impongono di proseguire l’azione di governo» é la conclusione .

L’appello firmato da Luigi Brugnaro sindaco di Venezia, Marco Bucci sindaco di Genova, Antonio Decaro sindaco di Bari e Presidente Anci, Michele De Pascale sindaco di Ravenna e Presidente Upi, Giorgio Gori sindaco di Bergamo, Roberto Gualtieri sindaco di Roma, Stefano Lo Russo sindaco di Torino, Dario Nardella sindaco di Firenze e Coordinatore delle città metropolitane, Maurizio Rasero sindaco di Asti, Matteo Ricci sindaco di Pesaro e Presidente Ali, Beppe Sala sindaco di Milano. csi allungato nel corso di giornata fino a comprendere una quarantina di primi cittadini. Ai sindaci si è poi unito con lo stesso obiettivo il presidente della regione Liguria Giovanni Toti: ha lanciato un appello ai suoi colleghi governatori perché convincano il premier a restare al suo posto.

Altre «voci» dall’Italia si alzano per cercare di scongiurare una crisi che ritengono incomprensibile e perniciosa. C’è anche un appello congiunto dei rappresentanti delle «professioni sanitarie» (medici, infermieri e titolari di farmacie): «Non è il tempo di una crisi al buio. A nome delle donne e degli uomini delle professioni sanitarie e sociosanitarie rivolgiamo un accorato appello all’unità ed alla responsabilità al presidente Draghi, al ministro Speranza, a tutte le forze politiche e sociali, ad ogni singolo rappresentante delle istituzioni: non interrompiamo la stagione delle riforme e degli investimenti».

Camionisti, trasportatori armatori, addetti alla logistica: tutte le sigle che nel Paese garantiscono il movimento delle merci hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta: «L’Italia non può restare senza una guida autorevole e sicura in un momento storico come quello che stiamo vivendo. Per questo chiediamo al Presidente del Consiglio Mario Draghi di restare in carica e un atto di responsabilità da parte delle forze politiche».

Non solo a livello locale ma anche a livello territoriale c’è mobilitazione pro Draghi. Confindustria Puglia si è mossa autonomamente con parole che riecheggiano quelle di altre parti sociali ed economiche: «L’Italia non può restare senza una guida autorevole e sicura in un momento storico come quello che stiamo vivendo. Per questo chiediamo al Presidente del Consiglio Mario Draghi di restare in carica e un atto di responsabilità da parte delle forze politiche presenti in Parlamento affinché, senza indugi e trattative, esprimano la loro fiducia all’Esecutivo permettendogli di continuare a lavorare sui tanti dossier aperti». Analoghi richiami sono stati sottoscritti dal presidente di Confindustria Romagna Roberto Bozzi e da quello di Assolombarda Alessandro Spada.

È insomma il «partito del pil» a schierarsi a difesa del governo. Nel tardo pomeriggio si unisce al lunghissimo elenco anche Federterme: «La situazione attuale con provvedimenti in itinere, crisi economia e una guerra in atto, devono imporre una serissima riflessione tra la scelta di portare avanti meri giochi di potere e invece costruire un serio processo di ripartenza del Paese».

Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 18 luglio 2022.  

Oltre mille sindaci, e questo era il conteggio a metà della giornata di ieri. Sabato erano stati poco più di cento i primi cittadini che avevano firmato la lettera appello al premier: «Draghi rimani al tuo posto». Quindi sono state novecento le firme in un solo giorno, ieri, domenica. 

«Da quello che abbiamo saputo il presidente Draghi è stato molto colpito dai vari appelli, soprattutto da quello bipartisan dei sindaci», ha detto Matteo Ricci primo cittadino di Pesaro, coordinatore dei sindaci del Pd commentando l'iniziativa, un pressing che non è piaciuto a Giorgia Meloni. Ha detto la leader di Fratelli d'Italia: «Mi chiedo se sia corretto che questi sindaci e governatori che rappresentano tutti i cittadini usino le istituzioni così, senza pudore, come se fossero sezioni di partito». 

Dario Nardella, sindaco del Pd di Firenze tra i coordinatori dell'iniziativa ha risposto a stretto giro: «Mi dispiace che Meloni non noti che tra i firmatari ci sono moltissimi esponenti di centrodestra. Forse Fratelli d'Italia spera di lucrare consensi dal caos istituzionale ed economico del Paese, ma dalla cenere si raccoglie solo cenere».

Non ci sono sindaci di FdI tra i 1.000 firmatari dell'appello. E anche alcuni leghisti, quelli del Veneto per esempio, hanno preso le distanze formali. Ma tra i promotori dell'appello a Draghi c'è il sindaco di centrodestra di Venezia Luigi Brugnaro, presidente di Coraggio Italia e quello di Genova Marco Bucci. Ci sono poi le firme di altri primi cittadini di questo schieramento, come quella di Alessandro Ghinelli, sindaco di centrodestra di Arezzo e del sindaco di Vercelli Andrea Corsaro. O anche del sindaco di Magenta Luca Del Gobbo, esponente di Noi con l'Italia: «È il momento della responsabilità, del senso di appartenenza, della serietà».

Nutrita l'adesione dei primi cittadini di Forza Italia, come rileva Annalisa Baroni, deputata azzurra: «Ci sono tanti amministratori locali di Forza Italia che hanno firmato l'appello: chi è chiamato ogni giorno a risolvere sul territorio i problemi dei cittadini sa bene che perdere una guida come Mario Draghi sarebbe un gravissimo errore». 

Per Giorgia Meloni sarebbe un errore non andare subito al voto: «Mi chiedo se tutti i cittadini rappresentati da Gualtieri, Sala, Nardella o da altri sindaci e presidenti di Regione condividano l'appello perché un governo e un Parlamento distanti ormai anni luce dall'Italia reale vadano avanti imperterriti, condannando questa nazione all'immobilismo solo per garantire lo stipendio dei parlamentari».

Poi l'affondo: «La mancanza di regole e di buonsenso nella classe dirigente in Italia comincia a fare paura». Le sue parole hanno scatenato reazioni, soprattutto quelle del Partito Democratico. Da Piero Fassino, al presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini al senatore Andrea Marcucci, che attacca la leader di Fratelli d'Italia: «Giorgia Meloni insulta i sindaci che hanno firmato l'appello a Draghi confermando di essere un'analfabeta istituzionale».

È stato Edmondo Cirielli, deputato di FdI, a prendere le difese della sua leader: «È incredibile Marcucci non comprenda il semplice ragionamento della Meloni. Anche un analfabeta capirebbe che ha criticato l'uso della carica istituzionale per fini di parte». Il sindaco di Milano Giuseppe Sala, tra i promotori della lettera-appello, ha spiegato l'iniziativa:«È nata perché noi sindaci siamo a contatto con i cittadini, sentiamo i loro umori, tra il deluso e il disorientato, che non capiscono le ragioni della crisi che mette al centro del dibattito l'inceneritore di Roma. C'è qualcuno dei politici che sarebbe in grado di dire che farebbe il lavoro meglio di Mario Draghi in questo momento? Abbiamo il mondo che ci guarda e rischiamo di fare la figura dei cioccolatai».

Mario Draghi, le strane petizioni a favore del premier: la democrazia fatta dai loggioni. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 20 luglio 2022.

 Inutile dire che non c'è nulla di illecito nell'iniziativa con cui un gruppo di sindaci reclama che un presidente del Consiglio dimissionario ci ripensi. Ma è comunque il segno di uno sviluppo abbastanza strano della nostra democrazia, che si affida ormai sistematicamente a soluzioni commissariali puntellate da occasioni di acclamazione. Provvidenza esecutiva e piazza legittimante/questuante.

La scena di Mattarella alla Scala, coi sudditi in delirio a chiedergli il bis, è inquadrata perfettamente in quella medesima e un po' buffa rappresentazione del potere che si avvicenda con sé stesso sulla scorta della petizione di turno. Niente di male nemmeno in quel caso, appunto, ma in modo letteralmente plateale quella scena denunciava l'andazzo di un sistema a equilibrio costituzionale, per così dire, neo-rappresentativo, cioè con i capi accreditati dai loggioni prima, e più, che dalle assemblee legislative.

Non è vietato. Fa un po' specie. E naturalmente nessuno, tra quelli che oggi si esercitano in questo esperimento, avrà nulla da dire se altri, domani, altrettanto legittimamente, impugneranno le insegne municipali per far dimettere un premier sgradito. 

Io ci metterei la firma. Elenco non esaustivo di petizioni che inspiegabilmente non sono ancora state lanciate. Guia Soncini su L'Inkiesta il 18 Luglio 2022.

Tutti appellano, tutti raccolgono adesioni, tutti vogliono coinvolgere tutti in qualche urgente miglioria. E ancora nessuno che si sia attivato per chiedere che gli architetti che negli alberghi mettono le prese lontano dai comodini siano spediti nelle miniere di sale

Scusate. Non avevo capito. Mi ero sbagliata. Pensavo, nella mia novecentesca ingenuità, che la massima forma di pigrizia possibile da parte d’un politico fosse indire un referendum.

Che nostalgia per la me che pensava che dai referendum discendessero tutte le finte orizzontalità del presente. Per la me che sottovalutava il popolo dei fax, il televoto, i microfoni aperti, e tutto ciò che oggi è diventato: facciamo una petizione on line, puntesclamativo.

È tutt’un appellarsi, raccogliere firme, e in genere fare il corrispondente politico di quella mossa che è il presentarsi a un compleanno con un regalo brutto e pure economico, tanto basta-il-pensiero.

Per chiedere a Draghi di restare organizza una petizione Renzi. E dà il via a una raccolta commenti su Facebook, che vale come petizione, Salvini (chissà se i due sono più offesi o lusingati che la stessa idea sia venuta anche a quell’altro).

Acciocché la politica si metta una mano sulla coscienza, hanno pubblicato un appello («questo appelluccio», scrivono vezzose) anche Natalia Aspesi ed Evelina Christillin, prontamente indignando le militanti dell’Instagram; nascostamente, perché Aspesi ora ruba loro pure il territorio degli appelli di buona volontà; apparentemente, perché ha osato ricordare alla politica che forse dovrebbe occuparsi più di diritti del lavoro e meno di gente che non si percepisce mammifera (cioè: dotata di determinati gameti).

Tutti appellano, tutti raccolgono firme, tutti vogliono coinvolgere tutti in qualche urgente miglioria. Vorrei quindi fornire qui un elenco non esaustivo di petizioni che mi sembra di non aver ancora visto in giro, inspiegabilmente, e che sollecito i petizionisti di buona volontà a principiare.

Un appello a Draghi perché dica d’aver scherzato sull’aria condizionata: in cambio del permesso morale a tenerla a 18 gradi, sono certa che non ci sia un deputato un senatore un nessuno che non mollerebbe immediatamente Conte (riportandolo al suo stato naturale di segnaposto, dopo questo breve passaggio dal ruolo di Ercolino Semprinpiedi).

Una petizione perché, oltre a non escludere dalla gestione di Adelphi gli eredi di Calasso (la madre dei suoi figli se n’è lamentata su Repubblica), venga incluso anche chi sta pensando di ricomprare in edizione economica alcuni Adelphi che già possiede solo per poter avere le sportine coi disegni di Tullio Pericoli (sì, mi contraddico: contengo moltitudini di sportine).

Una raccolta firme perché non s’intervisti più nessuno: attori, cantanti, politici. Se un critico culturale ha qualcosa da dire su un concerto lo dica, se un notista politico ha qualcosa da dire su una crisi di governo la dica, ma basta con «sono qui a raccogliere dichiarazioni su quanto sia speciale il suo tour e responsabile la sua posizione nella maggioranza», non frega niente a nessuno, sono articoli degradanti per chi li scrive e invisibili per tutti quelli che dovrebbero leggerli (tranne che per i portavoce, ma quanto possono sopravvivere i giornali vendendo un’unica copia ai Rocco Casalino di tutti i settori?).

Una raccolta firme per mandare nelle miniere di sale tutti quegli architetti che, nel ristrutturare le stanze d’albergo, sanno di dover mettere le prese vicino al letto, ma pensano che siano la nostra seconda priorità: la prima è avere quindici pulsanti per spegnere dal letto tutte le luci, anche quella della hall, e solo dopo, in fondo, al limite fisico di dove arriva il braccio del cliente steso, solo lì metteranno la presa, acciocché il filo della ricarica non sia mai, mai, mai abbastanza lungo da permettere al povero cliente steso di spippolare il telefono che sta ricaricando.

Una petizione perché non solo nessun’Aida possa mai più avere la faccia pittata di nero, ma dalla mostra su Gassman al palazzo Ducale di Genova vengano rimosse le immagine in cui, con faccia indecorosamente tinta, interpretava Otello (ci starebbe anche una raccolta firme per chiudere i giornali che allora lo misero pittato in copertina, ma a chiudere quelli ci ha già pensato l’agonia del settore editoriale).

E infine, ma principalmente (pausa, rullo di tamburi), la petizione che non occorre lanci io qui perché sono sicura che, finché leggerete questo articolo, l’urgente raccolta firme già sarà avviata, già ci saranno più firme di quelle per far dimettere un’assessora veneta, o di quelle per non far andare in onda un programma che comunque non guardiamo.

Lunedì, al più tardi martedì, arriverà la petizione perché Alessandro Orsini, di professione ospite televisivo, non possa andare al festival cinematografico di Giffoni, che essendo rivolto a un pubblico di minorenni immagino l’abbia invitato in quanto esperto di infanzia felice sotto le dittature.

Sì, do un paio di giorni alla nostra razionalità e poi non resisteremo, decideremo che a quali festival vada ospite uno che reputiamo un coglione sia variabile che costituisce emergenza democratica, che le firme vadano raccolte, che ci voglia una legge d’iniziativa popolare per impedirlo. È da quando misero le sportine biodegradabili per frutta e verdura a 2 centesimi, che noi italiani non avevamo un così nitido senso delle priorità nelle indignazioni.

 Per l’Italia, per l’Europa. La manifestazione a Milano per chiedere continuità al governo Draghi. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 16 Luglio 2022.

Lunedì 18 luglio, alle 18:30 in Piazza della Scala, si terrà un evento a sostegno del presidente del Consiglio che ha guidato il Paese nell’ultimo anno e mezzo. «E per non far cadere di nuovo lo Stato nelle mani del bipopulismo», spiega a Linkiesta l’organizzatore dell’evento.

La scelta di Giuseppe Conte di sfilare il Movimento 5 Stelle dall’unità dell’esecutivo con il non voto alla fiducia sul decreto Aiuti è stata una mossa vigliacca e sconsiderata. Mario Draghi ha presentato le dimissioni al presidente della Repubblica e adesso è tutto rimandato a mercoledì, quando riferirà in Parlamento sulla sua decisione.

Diverse forze politiche, non solo per mero calcolo elettorale, ma anche per un’ovvia valutazione di buon senso, sono già al lavoro per un Draghi II, o Draghi-bis, o qualunque nome che possa garantire continuità all’esecutivo almeno fino alle prossime elezioni.

Non è in gioco solo la vita del Parlamento o del governo. Riguarda tutto il Paese, a tutti i livelli. È per questo che è stata organizzata una manifestazione spontanea a sostegno di un governo e di un premier che stanno lavorando con serietà, competenza ed efficacia, in Italia e in Europa. L’appuntamento è per lunedì alle 18:30 in Piazza della Scala a Milano.

«Nessuno vuole mettere una bandierina su quest’iniziativa, non c’è un colore politico: siamo cittadini che fanno vita associativa soprattutto nell’area riformista, e siamo avversi al populismo», dice a Linkiesta Marco Ghetti, presidente di “Per l’Italia con l’Europa”, associazione che ha dato il là alla manifestazione.

L’idea di non portare in alto il nome di un’associazione, tantomeno di uno o più partiti politici, serve proprio a dare una connotazione diversa alla manifestazione: «Tra le persone con cui ho parlato per l’organizzazione – dice Ghetti – ci sono esponenti e simpatizzanti di forze politiche riformiste, ma nessuno ci mette la faccia come partito perché stiamo portando in piazza un fronte ampio che comprende tutti i gruppi che avversano le scelte del bipopulismo italiano, come aderenti, non come promotori ovviamente. Allo stesso modo, abbiamo coinvolto associazioni, realtà del terzo settore, del volontariato, chi opera nel sociale. Si tratta di unire persone che sostengono un esecutivo che ha saputo governare l’Italia».

Nel messaggio che ha iniziato a circolare su WhatsApp e i vari social c’è scritto: «Per respingere l’attacco irresponsabile e insensato dei 5 stelle». E c’è l’invito a portare in piazza una bandiera europea. «Vuol dire che l’Italia che noi vogliamo salvare, conservare e mandare a avanti è un’Italia che ha non solo una collocazione salda nell’Unione europea, ma anche un ruolo da protagonista come avvenuto nell’ultimo anno e mezzo. Il fatto che un uomo come Giuseppe Conte possa rimuovere Draghi dai tavoli della costruzione europea è un crimine politico, a maggior ragione perché tutto questo si trasforma anche in un regalo a Putin», aggiunge Ghetti.

C’è una spinta dal basso sincera, forte e sconcertata contro quel che è successo giovedì e nei giorni precedenti. Il governo nato nei primi mesi del 2021 si è insediato in un momento di emergenza senza precedenti dai tempi della Seconda guerra mondiale e l’ha reso nuovamente rilevante sui tavoli europei e internazionali, come dimostra il protagonismo di Draghi ai recenti appuntamenti del G7 e della Nato.

Poi è stato minato dall’interno dai calcoli politici di Conte e dei Cinquestelle. Calcoli fatti anche male, probabilmente: il centrodestra ora si ricompatta, chiede di andare al voto e corre per vincere le elezioni; il Partito democratico, invece, avrà la possibilità di sfilarsi finalmente dalla fascinazione per il populismo grillino per guardare all’area riformista e moderata.

«La mossa di Conte – dice Ghetti – ha disarcionato un governo che sarebbe andato avanti facilmente almeno fino alle elezioni. Adesso, a prescindere dal possibile Draghi II o altre soluzioni verosimili, quel che conta è che deve andare avanti la cultura politica del governo Draghi, e ovviamente sarebbe ottimo portarla avanti con lo stesso premier anche oltre il 2023 per evitare un ritorno in forze del bipopulismo».

Avanti con Mario. La manifestazione di Roma per Draghi e per l’Italia. L'Inkiesta il 16 Luglio 2022.

Non solo Milano, anche Roma si mobilita a sostegno del presidente del Consiglio. Lunedì alle 18:30 in Piazza San Silvestro senza simboli di partito, solo bandiere italiane ed europee. Stesso orario a Milano, in Piazza della Scala 

Un appuntamento a Milano e adesso uno anche a Roma, stesso giorno e stessa ora, lunedì 18 alle 18:30 in Piazza San Silvestro, senza simboli di partito, ma con bandiere dell’Italia e dell’Europa.

Ecco il testo dell’appello da cui è partita l’idea della manifestazione, promosso da Manfredi Mumolo, 20 anni, studente di Scienze Politiche alla LUISS di Roma, appassionato di politica.

Ex-rappresentante d’Istituto al Liceo Tasso di Roma:

Mario #Draghi è un fuoriclasse italiano in Europa e nel mondo.

La sua autorevolezza ha rappresentato in questi mesi una sicurezza e una garanzia di affidabilità e di forza per il nostro Paese.

Il suo governo ha cambiato passo alla campagna vaccinale e consentito all’Italia di superare la fase più drammatica della pandemia.

Sta realizzando uno dopo l’altro gli obiettivi del PNRR che garantisce all’Italia le risorse necessarie a trasformarsi e uscire dalla crisi.

L’immagine di Draghi, Macron e Scholz sul treno per Kiev che ha fatto il giro del mondo è il simbolo di un’Europa nuova in cui l’Italia torna a essere guida e protagonista.

Nel mezzo di una guerra, con una situazione economica ancora precaria, con un’inflazione crescente, la crisi energetica, le democrazie sotto attacco in tutto il mondo, gli irresponsabili che hanno già fatto tanti danni al nostro Paese vogliono privarci della guida migliore che l’Italia può schierare per fronteggiare questa difficile situazione.

Non possiamo permetterlo.

È nostro dovere chiedere a Mario Draghi di continuare a guidare l’Italia.

Lo facciamo con una manifestazione spontanea, libera, aperta. Senza simboli di partito.

Ma con l’Italia e l’Europa nel cuore.

L'ottusa litania del messia Draghi. Appelli e profezie funeste come già per Monti. Carlantonio Solimene su Il Tempo il 18 luglio 2022

Pare che fino a mercoledì le temperature sull'Italia dovrebbero restare su livelli tutto sommato accettabili. Da giovedì, invece, è attesa un'ondata di calore africano, che renderà pressoché insopportabile l'ultima coda di luglio. A meno che, ovviamente, Mario Draghi non decida di restare a Palazzo Chigi. In quel caso sono previste temperature fresche e clima secco. Insomma, tempo ideale per una giornata al mare o una scampagnata con i bambini. Meglio ancora se nella quiete di Città della Pieve.

Ecco, questo in verità non lo ha ancora detto nessuno. Ma non è così improbabile che, da qui all'attesissimo discorso del premier in Parlamento, qualcuno non dia a Draghi anche il potere di orientare a proprio piacimento le perturbazioni. Esagerazione? Non proprio. Ieri, per dirne una, la vicepremier ucraina Iryna Vereshchuk è stata lapidaria: «Con leader come Mario Draghi al Governo, noi vinceremo questa terribile guerra». Ora, è fuor di dubbio che il capo del governo italiano abbia schierato senza se e senza ma il Paese al fianco di Kiev. Così come non è un mistero che a Mosca un suo passo indietro non dispiacerebbe affatto. Ma che la sola presenza di Draghi possa contribuire a un esito favorevole all'Ucraina nel conflitto, appare invece un po' forzato. Anche perché, durante i primi cinque mesi della guerra, a Palazzo Chigi c'era già Draghi. E non è sembrato che le truppe russe in avanzata nel Donbass se ne crucciassero più di tanto.

Le profezie di sventura in caso di passo indietro di Supermario sono innumerevoli. Una è stata coniata da Federico D'Incà, ministro grillino per i Rapporti col Parlamento. Che ha steso un rapporto con tutti i provvedimenti che salterebbero con una crisi di governo. Esagerando un po', in verità, perché gran parte delle scadenze elencate, a partire da quelle legate al Pnrr, possono rientrare nella ordinaria amministrazione che anche un governo «sfiduciato» (e quello di Draghi non lo è neanche) potrebbe portare avanti.

Un altro ministro che vive questi giorni come fossero gli ultimi di Pompei è Luigi Di Maio. Secondo il quale «senza Draghi non avremo più il tetto al prezzo del gas». Che, è vero, è una battaglia portata avanti con vigore dal premier. Ma, finora, nonostante i suoi sforzi ha prodotto solo sostanziali rinvii. Così come un'altra crociata, quella legata al superamento degli attuali trattati europei. Draghi sostiene la riforma, d'accordo, ma l'attuale debolezza degli altri pezzi grossi dell'Unione- Macron e Scholz - rende difficile immaginare che il premier italianio, da solo, possa convincere i 27 Paesi membri a rinunciare al principio dell'unanimità.

A proposito di Europa, giovedì la Bce deciderà sullo scudo anti-spread e sull'innalzamento dei tassi. A detta dei più «draghisti» il primo obiettivo sarà raggiunto solo se Supermario resterà in carica. E, in quanto al secondo punto, senza crisi di governo i tassi potrebbero essere alzati solo dello 0,25% e non dello 0,5. Sarà curioso verificare quello che accadrà nell'uno e nell'altro scenario. In quanto allo spread, però, vale la pena di osservare come, al momento, i mercati non abbiano reagito così male alle turbolenze politiche italiane. «È che gli operatori non credono alla crisi» è stato obiettato. Come che sia, ieri su Twitter c'era chi sosteneva che «la banca mi ha informato che la crisi di Conte mi potrebbe costare 300 euro al mese in più di mutuo per il solo effetto dello spread». Peccato che lo spread attuale, 223 punti, sia inferiore al picco raggiunto a metà giugno, 250. Forse perché, più che da Draghi, dipende da Christine Lagarde.

Che sicuramente, come sostengono in tanti, chiede consiglio a Supermario persino quando deve scegliere che giacca indossare. Ma, stando a quello che effettivamente decide, poi fa di testa sua.

Il punto è che questo continuo gridare all'apocalisse non è esattamente un fatto inedito nella politica italiana. Gli stessi annunci si sono sentiti quando Mario Monti fu defenestratoda Forza Italia o Paolo Gentiloni dovette cedere la poltrona all'allora carneade Giuseppe Conte. Doveva crollare il mondo, invece accadde poco o nulla. Erano sbagliate le grida d'allarme o è merito del «Sistema» che alla fine riesce a «normalizzare» anche le svolte più drammatiche? Chissà. Il risultato, però, è l'effetto «al lupo al lupo». Qualora il Paese dovesse trovarsi davvero di fronte a un bivio vitale, probabilmente nessuno ci crederà, assuefatto alle profezie che non si avverano mai. Ieri il profluvio di appelli pro-stabilità è continuato senza sosta. Il «Financial Times» ha vergato un editoriale dal titolo «L'Italia ha ancora bisogno di Draghi», scrivendo che quella che comincia oggi è «una settimana cruciale per il destino dell'Italia e non solo».

Poi ci sono state le paginate dei giornali acquistate da professionisti e capitani d'impresa, l'appello dei medici a non essere «lasciati soli» mentre il Covid rialza la testa, la contestatissima lettera dei sindaci. Ognuno è libero ovviamente di auspicare quello che ritiene sia meglio per il Paese. Che simili toni siano usati dai politici, però, stona un po'. Perché toccherà a loro, quando la stagione draghiana terminerà, riprendere il bandolo della matassa. Dichiarare una simile impotenza non rappresenta il miglior viatico per la campagna elettorale. Anche perché quello che non si vuole accada mercoledì, succederà comunque al massimo nel maggio 2023. Quando ci saranno ancora l'inflazione, i contagi da Covid, il gas russo da rimpiazzare, forse - speriamo di no persino la guerra. E Draghi è senza dubbio il migliore (o il meno peggio), ma in qualche modo toccherà industriarsi per andare avanti. O no? Insomma, nell'attesa che il premier prenda una decisione, che scelga se andare avanti con l'unità nazionale o con i fuoriusciti grillini come un Conte qualsiasi, o se al contrario resti fermo nel proposito di sbattere la porta, sarebbe meglio essere chiari. Se davvero senza Draghi è la fine, allora Mattarella lo imbulloni a Palazzo Chigi fino a maggio. Ma non per salvare l'Italia. Solo per darci più tempo per organizzare il viaggio su Marte ed evitare le fiamme dell'inferno.

L'ombra di Mosca sullo strappo M5s: "Il nuovo premier? Meglio che non sia asservito agli Usa". Roberto Fabbri il 16 Luglio 2022 su Il Giornale.

La Russia osserva i fatti italiani: i 5 Stelle ritenuti tra i partiti più vicini. Zakharova, portavoce di Lavrov: "Di Maio? Non capisce niente".

Perfettamente indifferenti ai massacri di civili ucraini perpetrati dalla loro «operazione speciale» (guai a chiamarla guerra: Vladimir Putin non gradisce, dunque è galera immediata per chi si azzarda, ma sotto le bombe si muore lo stesso), ai piani alti di Mosca se la ridono. E ridono di noi italiani, purtroppo. Ridono delle pene in cui si dibatte il nostro premier, spinto a un passo dal gettare definitivamente la spugna dalla inqualificabile iniziativa del suo predecessore, che pur di recuperare (ed è tutt'altro che detto) qualche punticino nei sondaggi elettorali non esita a mettere a repentaglio non solo il prezioso e faticoso lavoro di questo governo d'emergenza assoluta, ma l'immagine e il ruolo stesso del nostro Paese sulla scena internazionale.

A Mosca se la godono un mondo a vedere Mario Draghi, l'uomo che ha restituito all'Italia stabilità, credibilità e una inequivocabile posizione atlantista così sgradite a Putin, alle prese con le beghe di un partito di dilettanti allo sbando, con i ricatti di un leader mediocre e incapace di indicare una linea coerente che non sia appunto quella di distruggere con i più vari pretesti quella stabilità, quella credibilità e quell'atlantismo. E mentre si ascolta la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova augurarsi fin d'ora che il prossimo governo italiano sia finalmente meno asservito agli interessi degli Stati Uniti, non si può fare a meno di farsi qualche preoccupata domanda, rileggendo le pagine di un'autrice informata come Catherine Belton in Gli uomini di Putin, in cui si ricorda citando fonti americane come il Movimento Cinque Stelle fosse incluso nella lista dei partiti europei anti sistema che la Russia sosterrebbe con fondi neri. Senza dimenticare la «passione cinese» della leadership pentastellata culminata nella misteriosa visita di Beppe Grillo nel giugno dell'anno scorso all'ambasciata cinese a Roma a cui un imbarazzato Giuseppe Conte aveva preferito, all'ultimo momento, non partecipare.

Che sia vero (come sostenne apertis verbis Giorgia Meloni) o falso che il M5S sia la quinta colonna della Cina e forse anche della Russia di Putin che con la Cina va a braccetto in Italia, rimane il fatto che a Mosca l'iniziativa di quel partito che ha quasi disarcionato Mario Draghi è piaciuta tantissimo. L'eterno numero due di Putin Dmitry Medvedev, che già gli aveva dato rozzamente del mangiaspaghetti per aver partecipato con gli omologhi francese e tedesco a una visita ufficiale a Kiev per esprimere sostegno all'Ucraina, non aveva perso tempo due giorni fa a chiedersi beffardo sui social chi sarebbe stato il prossimo leader occidentale a seguire la strada del declino già imboccata da Boris Johnson e Mario Draghi. Poi è arrivata, immancabile, la Zakharova. La quale, con il suo innato senso del rispetto per chi non la pensa come Cremlino comanda, ha detto papale papale del nostro ministro degli Esteri che «non capisce niente di ciò di cui si occupa». Luigi Di Maio si era permesso di osservare (cosa in cui è finalmente diventato bravissimo) un'evidenza, e cioè che Conte ha offerto a Putin su un vassoio d'argento la testa di Draghi e che a Mosca si brinda per le sue dimissioni. Ma la portavoce di Sergei Lavrov (che invece è un maestro nel nasconderle, le evidenze, e la lista è chilometrica) pretende che questa ovvietà sia un'invenzione della Farnesina. Al Cremlino avrebbero invece ben chiaro che si tratti di un affare interno italiano, «limitandosi» ad auspicare che il nostro prossimo governo prenda finalmente le distanze da Washington: il che poi significa che dovremmo rompere l'unità della Nato come il suo boss tanto gradirebbe. Alla faccia del limitarsi.

A completare la trinità dei commenti dei vertici russi è arrivato il più vicino di tutti a Putin, ovvero il suo portavoce Dmitry Peshkov. Anche per lui, il destino di Draghi è affare interno italiano. Chiaro il messaggio sottinteso: non siamo i mandanti di niente e di nessuno.

(ANSA il 15 luglio 2022) - "Gli sviluppi politici a Roma sono un affare interno italiano. Noi auguriamo all'Italia tutto il bene possibile, e di riuscire a superare i problemi creati dai precedenti governi. Noi vogliamo avere buoni rapporti con l'Italia". Lo ha detto all'ANSA la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. "Non solo i responsabili, ma la maggioranza del popolo russo - ha aggiunto la portavoce - considerano l'Italia come un buon partner. Abbiamo molte cose in comune, e obiettivi comuni".

Da corriere.it il 15 luglio 2022.

Il New York Times ha pubblicato un articolo sulla crisi del governo italiano, nel quale analizza anche le ripercussioni a livello europeo di questa situazione. Dalla stabilità — spiega — l’Italia si è improvvisamente trovata sull’orlo del caos. «L’uscita di Draghi sarebbe traumatica per l’Italia» sottolinea l’articolo, parlando di «inaspettata crisi di governo, teatrini e macchinazioni dietro le quinte» che hanno «lasciato l’Italia in uno stato di animazione sospesa e creato una potenziale calamità per l’Europa che cerca un fronte unito contro l’aggressione della Russia in Ucraina e affronta un’ondata di infezioni Covid e crisi energetica».

E di come «la possibile uscita di Draghi apra la porta a forze che sono più bendisposte nei confronti di Putin». 

Lo scossone per l'Unione europea è citato in questo passaggio: «Se Mattarella o i partiti politici non riuscissero a convincere Draghi a restare, questo significherebbe instabilità non solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa, e in un momento precario» mentre l’Ue, «di cui Draghi è convinto sostenitore, lotta per mantenere l’unità di fronte all’aggressione in Ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin». 

Inoltre, il Nyt ricorda come Draghi abbia «portato fuori» l’Italia «dai giorni peggiori della pandemia» e di come abbia «riempito il governo di esperti altamente qualificati» che hanno fatto uscire il Paese «dal suo malessere politico ed economico». 

E di come Draghi abbia «immediatamente rafforzato la postura internazionale dell’Italia e la fiducia degli investitori». E di come i 200 miliardi di euro del Pnrr, per «l’Italia siano la migliore opportunità di modernizzazione da decenni». Draghi «ha reso il populismo fuori moda e la competenza ammirevole, ha riposizionato l’Italia come una forza affidabile per i valori democratici in Europa». 

(ANSA il 22 luglio 2022) - Il futuro dell'Italia è "desolante". Lo afferma il New York Times in un editoriale di David Broder, autore che sta lavorando a un libro sul fascismo nell'Italia contemporanea. 

Broder si sofferma sull'ascesa del partito Fratelli d'Italia e sulla figura della sua leader Giorgia Meloni, divenuti fonti di ispirazione in altri paesi europei. 

 "Forse non vinceremo tutti insieme nel fuoco. Ma se l'estrema destra dovesse prendere il governo, in Italia o altrove, alcuni di noi sicuramente bruceranno", dice Broder rifacendosi alle parole contenute nel libro di memorie di Meloni.

Il New York Times dedica ampio spazio alle dimissioni di di Mario Draghi, con le quali "si chiude un periodo di eccezionale stabilità e influenza politica e si apre una stagione politica che si promette caotica", con l'Italia che torna di nuovo a essere un "laboratorio politico per l'Europa".

(ANSA il 22 luglio 2022) – “Il grande pranzo di Berlusconi: come la destra italiana ha spodestato Mario Draghi". Con questo titolo Politico.eu apre il proprio sito con la crisi politica italiana e le dimissioni del presidente Draghi.

"In un pomeriggio torrido, alcuni dei più potenti politici italiani si sono riuniti all'ombra di una lussuosa villa in uno dei quartieri più esclusivi di Roma, si sono seduti a un pranzo a base di pesce spada e insalata e hanno complottato per rovesciare il governo di Mario Draghi. Martedì 19 luglio, il padrone di casa a Villa Grande era Silvio Berlusconi, il miliardario ex primo ministro italiano che guida il partito di centro-destra Forza Italia. 

Al suo fianco c'era Matteo Salvini della Lega di estrema destra, con i rappresentanti di altri gruppi e i loro aiutanti. A spronare i complottisti per telefono, mentre i colloqui si protraevano fino al giorno successivo, c'era Giorgia Meloni, leader dell'opposizione che ora è in pole position per diventare il prossimo primo ministro italiano in un'elezione lampo in autunno", è il racconto fatto da Politico.

"Nel giro di 24 ore, il destino di Draghi era segnato. I complottisti avevano ritirato il loro appoggio alla sua grande coalizione e al primo ministro non restava altro che andare al Quirinale, dove giovedì mattina ha rassegnato le dimissioni", si legge nell'articolo firmato dal corrispondente a Roma. E gli effetti, per Politico.eu, sono chiari. 

"L'Italia si trova ora ad affrontare mesi di agitazione. Probabilmente ci vorranno diverse settimane dopo le elezioni del 25 settembre prima che si possa mettere insieme una nuova coalizione. La crisi politica italiana è un problema anche per l'Unione Europea. La Banca centrale sta cercando di evitare una recessione incombente, bilanciando al contempo la necessità di contenere l'inflazione con i rischi di una nuova crisi del debito", si legge.  

“Draghi resti al suo posto”. Lo auspica tutta la comunità internazionale. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Luglio 2022.

Da Bruxelles a Washington messaggi per spingere verso una soluzione della crisi. La presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola: "Per garantire stabilità all’Europa abbiamo bisogno della sua autorevolezza "

Il pressing su Mario Draghi per far sì che resti al timone del governo italiano s’intensifica a Bruxelles a Washington. Dalla capitale dell’Unione europea sono arrivati messaggi in questo senso dai leader di tutti gli schieramenti politici della maggioranza che sostiene Ursula von der Leyen. Il consigliere americano per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, ha reso noto che il presidente USA Joe Biden “segue molto da vicino quanto avviene a Roma e che ha un profondo rispetto per il premier Draghi”. La Casa Bianca è ben consapevole di avere a Palazzo Chigi un alleato prezioso ed autorevole e quindi auspica per la continuità del suo governo. 

Il socialdemocratico Frans Timmermans, numero due della Commissione Europea, ha scelto di rilanciare un tweet di Enrico Letta per affermare che “Draghi è un partner autorevole nel contesto europeo e internazionale e che il suo contributo in questo difficile momento storico è importante per l’Italia e per l’Ue“. Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo ed esponente dei popolari, ha premesso che “in Europa serve la stabilità e che siccome l’Italia è uno Stato membro importante e fondatore, abbiamo bisogno che mantenga il suo ruolo di leadership all’interno dell’Unione europea, soprattutto in questi tempi difficili“. 

Ancor più incisivo Stéphane Séjourné, leader e capogruppo di Renew Europe gli eurodeputati liberali, vicinissimo a Emmanuel Macron per il quale non ci possono essere alternative: “Sosteniamo gli sforzi dei partiti della nostra famiglia politica per trovare una soluzione che riconfermi il governo Draghi”.

Diverse cancellerie si sono messe in contatto con Palazzo Chigi per chiedere informazioni e chiarimenti sui possibili sviluppi della crisi in corso, dopo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha respinto le dimissioni di Mario Draghi. Giovedì, cioè il giorno dopo dell’intervento del premier italiano in Parlamento, è prevista la riunione della Banca Centrale Europea che darà il via libera all’aumento dei tassi. Non sono attese sorprese: come previsto ci sarà un aumento di 25 punti base e verranno presentate le caratteristiche del cosiddetto scudo anti-spread, ma l’intervento sui tassi previsto per settembre è ancora tutto da definire. 

Il timore più grande è che l’instabilità politica italiana si trasformi in instabilità economica, innescando una spirale in grado potenzialmente di danneggiare l’intera Eurozona. A Bruxelles sanno molto bene che le acque saranno già molto agitate in autunno, tra frenata del Pil, aumento dell’inflazione e molto probabilmente una crisi delle forniture energetiche. Per questo c’è l’auspicio e la speranza che l’Italia possa ricomporre al più presto la crisi politica per proseguire verso un’ordinata conclusione della legislatura. E mai in passato si era vista la comunità politica internazionale sostenere un premier di un altro Paese-

“Tutti gli attori politici farebbero bene a risolvere questa situazione il più rapidamente possibile“, ha sollecitato il tedesco Markus Ferber, esponente del Ppe nella commissione Affari Economici dell’Europarlamento, ben noto per le sue posizioni da “falco”. Il politico della Csu intravede seri rischi per la stabilità finanziaria: “L’Italia potrebbe ritrovarsi presto in guai peggiori che potrebbero rendere nervosi i mercati”.

Da Bruxelles Ursula von der Leyen e Charles Michel hanno adottato la linea del silenzio per non essere accusati di interferenze, ma stanno seguendo entrambi con grande attenzione tutto quello che succede nei “palazzi” del potere a Roma. Dall’entourage di Von der Leyen confermano quanto già fatto filtrare 24 ore prima e cioè che la presidente della Commissione “lavora molto bene insieme con il primo ministro Draghi”. Anche la vicepresidente Margrethe Vestager ha assicurato di essere “molto soddisfatta della collaborazione con i ministri” del governo Draghi, citando esplicitamente “Vittorio Colao sui dossier digitali“, ma anche “i ministri delle Finanze (Daniele Franco, ndr) e dell’Energia (Roberto Cingolani, ndr)”.

Incalzato dalle domande dei giornalisti sulle possibili manovre del Cremlino per indebolire i governi europei, il portavoce dell’Alto Rappresentante Josep Borrell ha affermato che “la Russia tenta di destabilizzare l’Ue” anche attraverso la politica domestica nei vari Stati europei. “Attori interni, anche politici, possono essere parte degli sforzi della Russia per destabilizzare l’Ue con attacchi ibridi“, ha poi aggiunto Peter Stano, precisando però che il suo è un discorso in generale e non riferito in modo particolare all’Italia. Redazione CdG 1947

Crisi di governo, Mosca esulta: «Fuori un altro». New York Times: «Draghi è un titano». Il Cremlino spera ora di «ripristinare buoni rapporti» con l'Italia. Il Nyt riporta le preoccupazioni occidentali sulla possibilità che l'uscita di Draghi apra le porte in Italia a forze solidali con Putin. GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sus il 16 Luglio 2022.

Le foto pubblicate da Medvedev di Johnson e Draghi con accanto il punto interrogativo: chi sarà il prossimo premier che "salterà"?

A FESTEGGIARE le dimissioni (‘’in sonno’’ fino a mercoledì) del governo Draghi non sono stati soltanto i cinghiali, i gabbiani e i topi, preoccupati di non potersi procurare il cibo a buon mercato, qualora il Comune di Roma riuscisse a costruire un termovalorizzatore.

Probabilmente anche le associazioni più intransigenti dei tassinari (quelle più responsabili hanno sottoscritto accordi di convivenza con Uber) hanno sperato che, saltando anticipatamente la legislatura, non venisse approvato il ddl sulla concorrenza recante il contestato articolo 10.

SALONI DEL CREMLINO IN FESTA

Ma i toni più festosi sono risuonati nei saloni del Cremlino. Il primo ad esultare sui social è stato Dmitrij Medvedev, ex colomba divenuto implacabile falco del regime, che ha postato una foto del recente vertice dei leader del G7 con due vistose croci di colore rosso sulle effigi di Boris Johnson e di Mario Draghi, corredate da un punto di domanda maligna su chi sarà il prossimo (con la speranza che si tratti di Joe Biden, sconfitto alle elezioni di medio-termine).

Poi ieri ha preso una posizione ufficiale lo stesso Cremlino, augurandosi un superamento della crisi in Italia in grado di ripristinare buoni rapporti con la Federazione russa. D’altra parte, chi ha potuto seguire ieri mattina la rassegna della stampa internazionale si è accorto che sia i principali quotidiani europei che quelli americani hanno dato un gran rilievo al caso Italia.

L’agenzia Ansa ha riportato ampi brani di un articolo del New York Times che rappresentano adeguatamente le preoccupazioni presenti in tutte le Cancellerie del mondo occidentale. «Mario Draghi, da quando è entrato in carica come presidente del Consiglio all’inizio del 2021 – ha scritto il New York Times – ha guidato il Paese fuori dai giorni peggiori della pandemia di Covid e ha inserito nel governo tante persone altamente qualificate ed esperti che hanno scosso l’Italia dal suo malessere politico ed economico».

NYT: «DRAGHI UN TITANO»

Il quotidiano della Grande Mela definisce il premier un «titano d’Europa, spesso chiamato Super Mario per aver salvato l’euro da presidente della Banca centrale europea, ha immediatamente rafforzato la posizione internazionale dell’Italia e la fiducia degli investitori».

«La promessa della sua mano ferma al volante – prosegue il Nyt – ha aiutato l’Italia a ricevere più di 200 miliardi di euro dall’Europa, una somma che ha dato all’Italia le migliori possibilità di modernizzazione degli ultimi decenni. Draghi ha portato una crescita moderata in Italia, ha apportato riforme al suo sistema giudiziario e a quello fiscale, ha snellito la burocrazia e ha trovato diverse fonti di energia lontano dalla Russia, comprese le rinnovabili».

Durante il suo governo, aggiunge l’autorevole quotidiano, Draghi «ha reso fuori moda il populismo e la competenza un fattore da ammirare, e ha riposizionato l’Italia come forza affidabile per i valori democratici in Europa».

Poi, sempre secondo il quotidiano americano, «forse la cosa più cruciale fatta da Draghi è stata spingere l’Italia, che ha spesso mantenuto una relazione stretta e ambigua con la Russia, nel mainstream europeo sulle questioni del sostegno all’Ucraina e delle sanzioni contro la Russia».

Infine il Nyt ricorda che «l’Italia è stata la prima grande nazione occidentale a sostenere pubblicamente l’eventuale adesione dell’Ucraina all’Unione europea».

L’INCOGNITA “GIUSEPPI”

Ma il commento non si limita a parlare del passato prossimo; il Nyt ipotizza anche un futuro altrettanto prossimo, prevedendo che a questo punto che un’uscita di Draghi dal governo «aprirà le porte a forze che sono molto più solidali con Putin».

Che dire? C’era bisogno di varcare l’Oceano per leggere un’analisi di quanto sta succedendo in Italia? In queste ultime ore più o meno tutti gli osservatori hanno descritto la mossa di “Giuseppi’’ come un’avventura, una sorta di suicidio assistito, incomprensibile e controproducente per la stessa grama prospettiva di ciò che resta del M5S. Di Conte si è detto di tutto, fino a trattarlo come un poveretto che non capisce ciò che fa e si lascia trascinare dai sentimenti rancorosi dei primi “terrapiattisti’’ del movimento, i quali – l’applauso al Senato lo confermerebbe – si sentono finalmente liberi di tornare alle barricate contro il sistema.

Polonio, il cortigiano della reggia di Elsinore, invitava sempre a cercare una logica nella follia. Giuseppe Conte è pur sempre un personaggio che, provenendo dal nulla, è riuscito a diventare presidente del Consiglio in ben due governi sostenuti da maggioranze diverse. È stato in grado di accreditarsi a livello internazionale in breve tempo come non era mai riuscito a Matteo Renzi.

Dopo la caduta del suo secondo governo, il Pd di Nicola Zingaretti tentò in ogni modo di trovare una maggioranza – anche raccogliticcia – che gli consentisse di restare in sella, come possibile federatore di uno schieramento progressista. È stato il principale alleato di Enrico Letta nella costruzione del cosiddetto “campo largo” Nei giorni scorsi, quando ormai erano evidenti le intenzioni del M5S al Senato, Pierluigi Bersani ha sostenuto che Conte era stato disarcionato da una congiura di palazzo e che errori e limiti da parte dei grillini c’erano stati, ma che loro «hanno percepito ostilità o disprezzo ovunque si voltassero. Esiste un concetto che si chiama dignità: non è la fase in cui si sta attaccati alla sedia, ma la fase in cui c’è da difendere la dignità».

LE CHANCE DI CONTE

Le cronache, poi, hanno raccontato di un diverbio nell’ultima riunione del Consiglio dei ministri tra Andrea Orlando e Roberto Cingolani, da cui si potrebbe supporre che la sinistra del Pd sia accusata di aver lavorato per Conte. Col passare delle ore, però, alcuni passaggi che sembravano incomprensibili, si rivelano meditati.

Gli apprezzamenti del Cremlino non vi sarebbero mai stati se quel regime non riconoscesse a Conte di avere delle chance. Se proviamo a mettere insieme i pezzi del puzzle non possiamo non utilizzare ciò che ha dichiarato lo scorso 1° luglio Michele Santoro in una intervista a Il Foglio.

«La prima cosa da fare sarebbe liberarsi dall’incubo della variante Grillo – ha detto Santoro – Mettersela alle spalle. Chiudere con il grande comico inafferrabile, che a volte emerge dall’ombra per poi reimmergersi a seconda dei suoi sbalzi umorali. Questo periodo va chiuso. Altrimenti non si va avanti. La seconda cosa da fare sarebbe poi quella di uscire da questa coalizione di governo, perché è la condizione necessaria per poter svolgere un ruolo politico importante anche sulla questione della guerra. E intorno alla questione della guerra si può ricostruire un’offerta politica a sinistra. Ma Conte deve dimostrare che ci crede veramente. Non come ha fatto con la risoluzione sull’invio delle armi». Sono esattamente le cose che Conte ha eseguito.

La politica internazionale – dopo la guerra in Ucraina – è tornata a essere divisiva e a condizionare l’azione dei governi. Esistono le condizioni in Italia, nella prospettiva di un progressivo logoramento del quadro geopolitico, per la costruzione di un polo filo putiniano o comunque – come ha scritto il Nyt – per la discesa in campo di «forze che sono molto più solidali con Putin».

Conte sarebbe più credibile se conducesse una campagna elettorale “pacifista’’ e, soprattutto, potrebbe entrare in sintonia con forze potenti che si muovono e si muoveranno sempre più sullo scenario internazionale. Ma questi sono di converso i motivi che indurranno Mario Draghi a bere il calice amaro della permanenza al governo, sia pure in una condizione più logorata che difficile.   

Il tweet di Navalny e l'attacco di Kiev: "L'amico di Putin fa cadere Draghi". Roberto Fabbri il 17 Luglio 2022 su Il Giornale.

Messaggio social di Vladimir Milov, braccio destro dell'oppositore russo. Il consigliere di Zelensky: "Non lasciamo che Mosca usi lo scontro politico per minare le democrazie e fermare l'invio di armi".

Mario Draghi è un capofila della dura - e soprattutto coesa, il che non era affatto scontato all'inizio - reazione europea all'aggressione russa all'Ucraina. Senza compromessi sulle sanzioni a Mosca, deciso in favore dell'ammissione di Kiev nell'Unione Europea e sull'invio delle armi necessarie al Paese attaccato per difendersi. Senza dimenticare il suo ruolo politico attivo e determinato per fissare un prezzo massimo per il gas. Tutte cose che il Cremlino non ha apprezzato. Nello scintillante palazzo del potere putiniano hanno ben presente che Draghi, con l'azione del suo governo, ha fatto piazza pulita di quel filorussianesimo più o meno sotterraneo che aveva caratterizzato le scelte dell'Italia nel passato, in particolare ai tempi del gialloverde «Conte I» in cui non ci si faceva problemi a esprimere simpatie e a stendere tappeti rossi reali e virtuali per dittatori euroasiatici.

Nel resto d'Europa e in America dove a differenza che da noi la partecipazione alla Nato e alla stessa Ue non viene vissuta da troppi sia a sinistra che a destra come un obbligo mal sopportato si percepisce più chiaramente la rilevanza del cambiamento di rotta che Draghi ha saputo imporre e che non si vuole veder svanire: un cambio di sentimento, prima ancora che di sostanza politica. Che pure c'è stata eccome, e basterebbe ricordare che su quel treno diretto a Kiev il mese scorso era stato il premier italiano a insistere con Emmanuel Macron e Olaf Scholz, argomentando lucidamente fino a persuaderli della necessità di esprimere una comune, concreta e inequivocabile posizione di sostegno a Kiev da parte delle tre principali potenze dell'Unione.

Ora, checché ne dicano al Cremlino e al ministero degli Esteri russo, le difficoltà politiche di Macron, del premier britannico Boris Johnson e adesso quelle di Draghi in Italia non vengono affatto vissute con il distaccato rispetto per gli affari interni altrui. Piuttosto, come ha fatto notare il ministro degli Esteri Di Maio, nei palazzi del potere di Mosca si brinda ad esse più che volentieri. E Di Maio (fresco di addio al mondo ambiguo dei Cinquestelle, che ben conosce e che secondo fonti dell'entourage di Joe Biden avrebbe goduto di finanziamenti russi in nero) non è il solo a notare la solare evidenza di ciò che ha definito l'offerta a Putin da parte di Giuseppe Conte della testa di Draghi su un piatto d'argento: il leader del M5S avrà certamente come priorità quella di salvare le fortune del suo partito in agonia, ma se appena si solleva lo sguardo dalle miserie dei tatticismi politici italiani giocati sulla tolda del Titanic, è impossibile non accorgersi del favore colossale che egli ha fatto a Vladimir Putin. Ed è legittimo chiedersi nell'interesse di chi, e su eventuale input di chi, abbia ritenuto di infliggere proprio adesso un tale danno al fronte occidentale.

In Russia e in Ucraina simili preoccupazioni vengono espresse più direttamente. Vladimir Milov, che vent'anni fa fu giovanissimo viceministro russo dell'Energia ai tempi della prima presidenza Putin per poi passare nei ranghi di Scelta Democratica con l'oppositore Aleksei Navalny, scrive secco e chiaro in un tweet che «l'amico di Putin Giuseppe Conte sta cercando di far cadere il governo di Mario Draghi in Italia». E da Kiev dove si è ben capito cosa ci sia realmente in ballo arriva l'accorato appello-denuncia di Mikhaylo Podolyak: «La tradizionale lotta politica interna nei Paesi occidentali non deve toccare l'unità su questioni fondamentali per il bene e per il male come la fornitura di armi all'Ucraina. Non possiamo permettere al Cremlino scrive il primo consigliere del presidente Volodymyr Zelensky di usare la competizione politica come arma per minare le democrazie». 

Da Pechino a Caracas, i flirt grillini col "nemico". Francesco Maria Del Vigo il 17 Luglio 2022 su Il Giornale.

I grillini flirtano con i putiniani e venerano lo zar? C'è poco da stupirsi.

I grillini flirtano con i putiniani e venerano lo zar? C'è poco da stupirsi. Nulla di nuovo sotto il cielo stellato di un Movimento che, fin dai suoi albori, ha sempre subito l'irresistibile fascino delle dittature e delle autocrazie. Non c'è niente da fare, loro, di fronte alle limitazioni delle libertà personali, a regimi e regimetti, dittatori e presunti tali, si sciolgono. Da Chavez a Morales, dalla Cina di Xi agli ayatollah iraniani. E, giusto per non farsi mancare nulla, hanno anche strizzato l'occhio ai terroristi islamici.

Il numero uno delle sbandate è Di Battista, che è un po' come il compagno di classe del Liceo che s'innamora sempre delle ragazze sbagliate. Nel 2014, sul blog di Grillo, si sdilinquisce per gli jihadisti mozza teste e suggerisce di trattare con loro e «smetterla di considerarli come disumani».

Ineffabile.

L'anno dopo il Che Guevara di Roma Nord organizza un convegno a Montecitorio in cui si esaltano i regimi chiavisti. Nel 2017 una delegazione grillina (della quale fanno parte Manlio Di Stefano e Vito Petrocelli) vola in Venezuela per le commemorazioni dei quattro anni dalla scomparsa di Chavez. I rapporti tra Caracas e i pentastellati sono così stretti che nel 2020 il quotidiano spagnolo Abc pubblica una indiscrezione secondo la quale il Movimento, nel 2010, avrebbe ricevuto dal regime un finanziamento da 3,5 milioni di euro. Tutto assolutamente smentito da Casaleggio. Ma tutto altamente verosimile. D'altronde Maduro spendeva elogi per il partito dell'ex comico, ritenendolo «promotore di un movimento di sinistra, rivoluzionario e anticapitalista nella Repubblica italiana». Tutto torna, i compagni della decrescita (in)felice, l'asse internazionale rosso di chi detesta la finanza, pensa che il capitalismo sia solo predatorio e idolatra lo stato e lo statalismo è ben saldo.

Ma le liaisons dangereuses con i «cattivi» non finiscono qui. Storica l'intervista di Beppe Grillo a un giornale israeliano, nel 2012, nella quale difende il modello Ahmadinejad in base alle testimonianze del suocero e del cugino (che sono iraniani). Mitologici i reportage dell'immarcescibile Di Battista che, inviato in una iperuranica Persia felix, descrive Teheran come la capitale mondiale della sicurezza e del benessere. D'altronde ha avuto un'impressione molto simile anche in Russia, da dove ha inviato i suoi più recenti articoli. Ultima, ma non per importanza, la corrispondenza di amorosi sensi con la Cina di Xi Jinping, che ha portato, durante il primo governo Conte, alla celeberrima Via della Seta. Ora tocca alla Russia di Vladimir Putin. Ma - ne siamo certi - appena salterà fuori un nuovo autocrate, loro saranno già lì, pronti ad adularlo e a farsi manovrare.

Roberto Fabbri per il Giornale il 16 luglio 2022.

Perfettamente indifferenti ai massacri di civili ucraini perpetrati dalla loro «operazione speciale» (guai a chiamarla guerra: Vladimir Putin non gradisce, dunque è galera immediata per chi si azzarda, ma sotto le bombe si muore lo stesso), ai piani alti di Mosca se la ridono. E ridono di noi italiani, purtroppo. 

Ridono delle pene in cui si dibatte il nostro premier, spinto a un passo dal gettare definitivamente la spugna dalla inqualificabile iniziativa del suo predecessore, che pur di recuperare (ed è tutt' altro che detto) qualche punticino nei sondaggi elettorali non esita a mettere a repentaglio non solo il prezioso e faticoso lavoro di questo governo d'emergenza assoluta, ma l'immagine e il ruolo stesso del nostro Paese sulla scena internazionale. 

A Mosca se la godono un mondo a vedere Mario Draghi, l'uomo che ha restituito all'Italia stabilità, credibilità e una inequivocabile posizione atlantista così sgradite a Putin, alle prese con le beghe di un partito di dilettanti allo sbando, con i ricatti di un leader mediocre e incapace di indicare una linea coerente che non sia appunto quella di distruggere con i più vari pretesti quella stabilità, quella credibilità e quell'atlantismo.

E mentre si ascolta la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova augurarsi fin d'ora che il prossimo governo italiano sia finalmente meno asservito agli interessi degli Stati Uniti, non si può fare a meno di farsi qualche preoccupata domanda, rileggendo le pagine di un'autrice informata come Catherine Belton in Gli uomini di Putin, in cui si ricorda citando fonti americane come il Movimento Cinque Stelle fosse incluso nella lista dei partiti europei anti sistema che la Russia sosterrebbe con fondi neri. 

Senza dimenticare la «passione cinese» della leadership pentastellata culminata nella misteriosa visita di Beppe Grillo nel giugno dell'anno scorso all'ambasciata cinese a Roma a cui un imbarazzato Giuseppe Conte aveva preferito, all'ultimo momento, non partecipare.

Che sia vero (come sostenne apertis verbis Giorgia Meloni) o falso che il M5S sia la quinta colonna della Cina e forse anche della Russia di Putin che con la Cina va a braccetto in Italia, rimane il fatto che a Mosca l'iniziativa di quel partito che ha quasi disarcionato Mario Draghi è piaciuta tantissimo. 

L'eterno numero due di Putin Dmitry Medvedev, che già gli aveva dato rozzamente del mangiaspaghetti per aver partecipato con gli omologhi francese e tedesco a una visita ufficiale a Kiev per esprimere sostegno all'Ucraina, non aveva perso tempo due giorni fa a chiedersi beffardo sui social chi sarebbe stato il prossimo leader occidentale a seguire la strada del declino già imboccata da Boris Johnson e Mario Draghi.

Poi è arrivata, immancabile, la Zakharova. La quale, con il suo innato senso del rispetto per chi non la pensa come Cremlino comanda, ha detto papale papale del nostro ministro degli Esteri che «non capisce niente di ciò di cui si occupa». 

Luigi Di Maio si era permesso di osservare (cosa in cui è finalmente diventato bravissimo) un'evidenza, e cioè che Conte ha offerto a Putin su un vassoio d'argento la testa di Draghi e che a Mosca si brinda per le sue dimissioni. Ma la portavoce di Sergei Lavrov (che invece è un maestro nel nasconderle, le evidenze, e la lista è chilometrica) pretende che questa ovvietà sia un'invenzione della Farnesina. Al Cremlino avrebbero invece ben chiaro che si tratti di un affare interno italiano, «limitandosi» ad auspicare che il nostro prossimo governo prenda finalmente le distanze da Washington: il che poi significa che dovremmo rompere l'unità della Nato come il suo boss tanto gradirebbe. Alla faccia del limitarsi.

A completare la trinità dei commenti dei vertici russi è arrivato il più vicino di tutti a Putin, ovvero il suo portavoce Dmitry Peshkov. Anche per lui, il destino di Draghi è affare interno italiano. Chiaro il messaggio sottinteso: non siamo i mandanti di niente e di nessuno.

“Colpa dei sovranisti pagati da Putin”. La folle teoria di Annunziata su Draghi. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 25 Luglio 2022

La Rai servizio pubblico si arricchisce di un’altra perla sul piano di una informazione equilibrata. Artefice di questa straordinaria performance, che se stessimo negli States meriterebbe la candidatura al premio Pulitzer, è Lucia Annunziata, conduttrice di Mezz’ora in più, in onda la domenica pomeriggio su Rai3.

Durante la lunga intervista a Enrico Letta, la giornalista Campana ha tentato di fornire in imbarazzante assist al segretario dem, proponendogli una versione di natura complottistica della caduta del governo di larghe intese guidato dall’ex presidente della Bce.

Questo il suo stupefacente intervento: “Io penso che Draghi non poteva assolutamente stare con un governo che diventava non solo in parte, ma della parte che in Europa sollevava più problemi. E non sono tanto gli uomini di Conte, quanto gli uomini di Salvini. Io credo, detto in sintesi per i nostri telespettatori (sigh), dietro il grande tema di questa rottura. E lui (Draghi) un passaggio lo ha fatto nel suo discorso, citando chi ha tentato di rompere la nostra opposizione a Putin, dentro questa storia c’è ancora, secondo me, il tema internazionale del fronte sovranista che è stato pagato e ha appoggiato Putin. È stato pagato prima, perché questo lo sappiamo, ed ha appoggiato Putin prima contro l’Europa e adesso sulla questione della guerra.”

Ovviamente, chiamato dalla stessa conduttrice ad esprimere un parere su codesta sua strabiliante analisi geopolitica in stile caciottaro, il buon Letta ha cercato di salvarsi in calcio d’angolo con un complicato giro di parole. In pratica, sostanzialmente smentendo la tesi fantascientifica della sua intervistatrice, il leader del Pd si è limitato a dire che indubbiamente i russi avranno stappato la vodka per festeggiare la caduta di Draghi, ma aggiungendo che sono altre le ragioni che hanno condotto quest’ultimo a rassegnare le dimissioni.

Ora, al di là delle usuali sgrammaticature tipiche di Lucia Annunziata, è stupefacente che un osservatore ben pagato coi quattrini del contribuente possa permettersi il lusso di sparare ipotesi tanto surreali, quanto maldestramente finalizzate a demonizzare ancora una volta i cattivoni della destra italiana, presunti sodali del cattivone mondiale per antonomasia, ovvero Vladimir Putin l’autocrate.

In questo senso delle due l’una: o la nostra, in una campagna elettorale che si prospetta piuttosto infuocata, ha voluto portare il suo non richiesto contributo alla causa di una sinistra confusa e perennemente alla ricerca del suo introvabile centro di gravità, oppure ella crede seriamente all’ipotesi delirante di un Draghi che compie l’harakiri politico per non consegnare il Paese all’orso russo.

Un quest’ultimo caso mi sentirei di consigliare sommessamente alla signora Annunziata di farsi vedere, ma da un professionista molto bravo. Claudio Romiti, 25 luglio 2022

Quelli che tifano per Putin in Italia. Angelo Panebianco su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022. 

Forse solo i 5 Stelle assumeranno una posizione chiara pro-Putin, soprattutto se avrà un ruolo di rilievo Alessandro Di Battista. Altri prenderanno posizioni meno esplicite, ma altrettanto preoccupanti.

Nella campagna elettorale italiana c’è un convitato di pietra, Vladimir Putin. Sicuramente grato a coloro che hanno tolto di mezzo quello che considerava un suo inflessibile nemico (Draghi), il quale, per giunta, in virtù del proprio prestigio personale, era molto influente nello schieramento occidentale. Putin, presumibilmente, si aspetta dalle elezioni italiane l’uno o l’altro di due esiti. O un’Italia resa instabile dal voto o la vittoria di uno schieramento nel quale abbiano peso e responsabilità partiti che gli sono amici o, comunque, non ostili. Entrambi gli esiti farebbero comodo alla Russia.

In condizioni completamente mutate stiamo per assistere (anzi, per partecipare) a una nuova edizione delle elezioni del 18 aprile 1948. Anche oggi, come allora, l’Italia è chiamata a fare una scelta di campo. Ma con la fondamentale differenza che allora il campo occidentale era dotato di una fortissima leadership in grado di dare compattezza al suo sistema di alleanze nel confronto con l’Unione Sovietica mentre oggi il campo è pieno di buche, malmesso, diviso. Per le ragioni che ha indicato Federico Rampini ( Corriere del 24 luglio).

L’ormai debolissimo Biden si avvia a diventare, dopo che, nelle elezioni di metà mandato, presumibilmente, avrà perso la maggioranza al Congresso, una «anatra zoppa». Molti ipotizzano che Putin stia aspettando proprio quel momento per trattare con gli occidentali, da una posizione di forza, il futuro dell’Ucraina. Macron non ha la maggioranza in un Parlamento pieno zeppo, a destra come a sinistra, di amici di Putin. Non è per caso che la putiniana Marine Le Pen si sia complimentata con i suoi sodali italiani per avere fatto cadere Draghi. La Germania è guidata da un debole cancelliere che non sa a che santo votarsi e, più in generale, da una classe dirigente che non ha ancora deciso che cosa il proprio Paese debba fare da grande. Una Germania debole significa, in prospettiva, una Unione europea tendenzialmente allo sbando. Per inciso, è inutile continuare ad invocare, in questa fase, un’Unione politicamente forte, un esercito europeo, e tutti i soliti argomenti del repertorio «europeisticamente corretto». Nulla di tutto ciò ci sarà mai se prima l’Europa non avrà affrontato e risolto i suoi problemi di leadership. Per ora, e per il futuro prevedibile, ciò non sembra possibile. Anzi, bisogna dire che, date le difficili condizioni in cui opera, l’Unione stia facendo del suo meglio per proteggere i suoi affiliati dalle turbolenze in atto. Alle suddette difficoltà dell’Occidente possiamo anche aggiungere la presenza di una quinta colonna di Putin entro l’Unione europea (Orbán) e di una Turchia che resta nella Nato solo perché si tratta di una carta, fra le molte che usa, che le fa comodo ai fini della sua autonoma politica di potenza. Anche se e quando tale politica entra in conflitto con gli interessi occidentali.

Tutti coloro che pensano che quello occidentale sia il peggior mondo possibile esclusi tutti gli altri, si sono rallegrati quando, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la Nato si è di colpo rivitalizzata, i governi occidentali si sono ricompattati, Svezia e Finlandia si sono precipitate sotto l’ombrello militare occidentale. Si disse: Putin ha perso, scommetteva su un Occidente diviso e impotente, e invece lo ha rivitalizzato di colpo, gli ha dato una nuova «missione comune». Insieme ai cinesi, si disse, Putin dava per scontato che le deboli e decadenti democrazie occidentali avrebbero manifestato anche in questa occasione tutta la loro impotenza. A dimostrazione del fatto che, come Putin e i dirigenti cinesi pensano, il mondo futuro appartiene al potere autocratico, appartiene a loro. Bene, si pensò, è successo il contrario.

Forse abbiamo venduto troppo presto la pelle dell’orso. Gli elementi di debolezza delle democrazie su cui le grandi potenze autocratiche scommettono non sono una loro invenzione, esistono realmente. Le società aperte e libere occidentali sono vulnerabilissime. È anche vero che proprio i principii di libertà su cui si fondano sono il loro punto di forza: rendono il loro modo di vita più attraente di quello consentito dalle potenze autoritarie e generano una grande forza sia morale che economica, incentivando e aggregando le molteplici iniziative dei singoli. Ma anche le potenze autoritarie hanno, oltre che vistose debolezze, punti di forza, il principale dei quali è che non devono rendere conto a nessuno di crimini e misfatti. La partita è dunque apertissima e non è possibile sapere al momento chi saranno alla fine i vincitori e chi i vinti.

Torniamo alle faccende di casa nostra, alla campagna elettorale. Sappiamo già quasi tutto. Non si confronteranno «liberisti» e «statalisti» (il liberismo, se per tale si intende una politica alla Thatcher, non ha mai avuto corso in Italia). Ma modi diversi per amministrare la massiccia presenza dello Stato nell’economia e nella vita pubblica italiana. Ci sarà anche qualche flebile voce a favore della concorrenza (cruciale nella cosiddetta «agenda Draghi») a fronte di un tuttora potentissimo Paese dei «fasci e delle corporazioni»: tassisti e bagnini non sono affatto gli unici che beneficiano della possibilità di scaricare sui consumatori i costi delle proprie rendite di posizione. Forse l’Europa sarà presente nella campagna elettorale. Nel senso che tutti diranno di volere usare i fondi del Pnrr. Ma non tutti parleranno delle riforme (giustizia, Pubblica amministrazione e, appunto, concorrenza) necessarie per usufruirne.

Ci sarà un modo sicuro per sapere chi è schierato con chi, nel braccio di ferro planetario fra democrazie e autocrazie. Molti degli avversari di Draghi e che disapprovavano le sue scelte, cercheranno, durante la campagna elettorale, di parlare il meno possibile di politica internazionale. Si limiteranno a dire qualche banalità a favore della «pace», glissando sul fatto che la guerra non l’hanno voluta gli occidentali ma Putin. Si concentreranno invece sulle questioni interne ove è più facile mimetizzarsi. Faranno il possibile per non far capire agli elettori che c’è in ballo, prima di tutto, una scelta di campo.

Fra i nemici dell’alleanza occidentale, forse solo i 5 Stelle assumeranno una posizione chiara, esplicita, pro-Putin. Soprattutto se, nel confronto elettorale, avrà un ruolo di rilievo Alessandro Di Battista. Gli altri, alla domanda «Lei è d’accordo con la politica estera di Draghi?», risponderanno «Sì, ma». Dove il «ma» sta per «ma anche no». Con i ringraziamenti di Vladimir Putin.

Ombre russe sulla crisi. Augusto Minzolini il 16 Luglio 2022 su Il Giornale.

Dopo la mossa dei 5 Stelle Mosca esulta: il nuovo premier non sia filo Usa. Pressing di Washington per Draghi. Ue: Putin cerca di destabilizzare i governi.

Magari saranno solo congetture ma è più facile spiegare la folle crisi di governo italiana inquadrandola con il grandangolo della politica internazionale che non attraverso le lenti del cortile di casa nostra. Alla notizia delle dimissioni del nostro Premier al Cremlino hanno brindato, il «falco» Medvedev ha sfoderato il solito sarcasmo («dopo Johnson e Draghi chi sarà il prossimo?»), mentre l'ineffabile Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri Lavrov, ha auspicato «un nuovo governo non asservito agli interessi americani». Inutile dire che, invece, la Casa Bianca ha indossato il lutto. In fondo in Europa tra la debolezza di Macron e i calcoli di Scholz, Draghi è diventato un interlocutore privilegiato di Washington specie per la guerra in Ucraina. Per non parlare della Ue. Il portavoce di Ursula von der Leyen ha addirittura ammesso che «la Russia tenta di destabilizzare l'Unione e gli Stati membri».

Per cui la follia di Giuseppe Conte se per la politica interna può essere paragonata ad un mezzo suicidio, a livello internazionale ha una chiave di lettura. Nessuno può dimenticare i rapporti con Mosca dell'ex premier nel suo primo governo. Le ombre. E, alla prova dei fatti, il capo grillino ha commesso quel «draghicidio» tanto auspicato da Mosca che Matteo Salvini (da anni sospettato di aver ricevuto finanziamenti da Putin) non ha commesso. Per dire che «i fatti» alla fine rendono giustizia rispetto alle inchieste di qualche settimanale.

Vista in quest'ottica la pazza crisi è foriera di una serie di conseguenze di non poco conto. Può un partito, in questo caso i grillini, mettere in crisi un governo impegnato in prima fila, insieme agli alleati, in un drammatico confronto con la Russia senza pagarne dazio? Può essere considerato ancora affidabile? A queste domande dovrebbe rispondere innanzitutto Enrico Letta che lo ha scelto come alleato. È come se il Psi avesse messo in crisi all'epoca il governo guidato da Francesco Cossiga sugli euromissili. Per cui dopo una crisi provocata con tanta leggerezza (e incoscienza) si pone per Conte e i suoi una sorta di fattore «P» (Putin) che li rende poco raccomandabili per una maggioranza di governo. Una riedizione, riveduta e corretta, del fattore «K» (cioè il rapporto con il comunismo internazionale): la motivazione che tenne il Pci per decenni fuori dall'area di governo.

La verità è che Conte e i suoi non si sono resi conto del cambio di fase a livello internazionale, del ritorno di una nuova Cortina di ferro. E hanno giocato con il fuoco.

Di contro c'è un problema anche per un Mario Draghi che è molto restio a tornare sui suoi passi (a Palazzo Chigi l'ipotesi che va per la maggiore è una conferma delle dimissioni nel dibattito di mercoledì): se la crisi ha una sua valenza sullo scacchiere geopolitico, può il premier che ha caratterizzato la sua azione a Palazzo Chigi nel rapporto stretto con gli Stati Uniti abbandonare il campo, se da Washington gli fosse chiesto di restare? Sarebbe davvero complicato per un personaggio con la storia di Draghi, che è sempre stato attento ai segnali che arrivavano dal mondo anglosassone, dire di «no». Ecco perché più delle promesse dei partiti di governo, delle giravolte grilline, degli appelli alla responsabilità del Quirinale, nella mente di un Premier stufo non poco delle miserie della politica italiana, possono aprire un varco le valutazioni di carattere internazionale e i richiami dello zio Sam.

Mosca gode per la caduta dei leader europei. Marco Gervasoni il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.

A Mosca si festeggia. L'ex presidente Medvedev posta una foto di Boris Johnson e di Mario Draghi e si chiede chi sarà il prossimo.

A Mosca si festeggia. L'ex presidente Medvedev posta una foto di Boris Johnson e di Mario Draghi e si chiede chi sarà il prossimo. Putin voleva la testa dei due leader e nel giro di pochi giorni ha avuto entrambe. E se, nella caduta di Johnson, non hanno certo giocato sui conservatori pressioni esterne, almeno per quanto ne sappiamo, non metteremmo la mano sul fuoco per quanto riguarda il pugnalamento di Draghi. Entrambi a oggi sono ancora premier, il primo già dimissionario, il secondo non ancora. Ma, se anche Draghi rinascesse, non avrebbe più comunque la forza e l'autorevolezza che l'avevano reso il leader della Ue più combattivo contro il despota russo. Sembrano passati mesi dalla recentissima foto di Draghi in carrozza verso Kiev con Scholz e Macron: icona di una Italia protagonista, che il successore di Draghi, quello eventuale di prima o quello dopo le elezioni, non riuscirà più a ripetere. E anche il BoJo dei viaggi continui a Kiev, tutto finito. Con una importante differenza: chiunque a Londra prenderà il suo posto, non muterà la linea britannica contro l'invasione russa. Mentre è molto probabile che nessun successore di Draghi avrà il medesimo carisma nel rappresentare un simbolo di civiltà e di occidente contro Putin. Un altro elemento hanno in comune l'ex premier inglese e l'ex presidente del consiglio italiano: sono state vittime della democrazia parlamentare. Biden e Macron non corrono infatti rischi del genere: la loro legittimità nasce da un voto popolare diretto e non possono essere estromessi, eccezion fatta per una procedura di messa in stato di accusa. Ora la domanda è più che lecita: può l'istituto parlamentare, sia nelle forme rodate ed efficienti di Westminster che in quelle usurate di Roma, essere adeguato alle sfide delle dittature plebiscitarie dei Putin, degli Orban, degli Erdogan? E ancor più allo scenario di guerra dei prossimi anni, che vede contrapposti il fronte occidentale e un rinnovato asse del male, per dirla con Bush jr, tra Russia, Cina e Iran? La domanda è ovviamente retorica e la risposta è, purtroppo, negativa. Con leadership forti e autorevoli bruciate dalla dissoluzione dei partiti politici, dalle regole parlamentari spesso vetuste, da sistemi illogici come il nostro doppio cameralismo (ah se si fosse abolito il Senato!) o, nel Regno Unito, decadenti come la Camera dei Lord, l'Occidente è destinato, in un tempo forse più breve di quanto si immagini, a soccombere. O la democrazia rappresentativa rinascerà in forme più solide ed organizzate, oppure potrebbe, anche da noi, essere sostituita da regimi plebiscitari dal profumo orientale. Un profumo che annuncia la morte della libertà.

Vinnytsia, Italia. Non è più guerra, è genocidio degli ucraini (e gli utili idioti del Cremlino affondano Draghi). Christian Rocca su L'Inkiesta il 15 Luglio 2022.

Lo spettacolo osceno di un avvocaticchio che, nel pieno dell’aggressione all’Europa e col pretesto di un inceneritore, costringe alle dimissioni il più autorevole uomo politico dell’Occidente non è la notizia più agghiacciante della giornata. La notizia più agghiacciante è l’attacco russo ai una città a sud ovest di Kyjiv. E la crisi italiana avrà conseguenze anche sull’invasione dell’Ucraina 

Lo spettacolo osceno di un avvocaticchio senz’arte né parte che, nel pieno di un drammatico attacco all’Europa ordito da un criminale ammirato dal suo movimento di cinque deficienti, fa cadere il governo guidato dal più autorevole uomo politico dell’emisfero occidentale, con il pretesto surreale di non voler costruire un termovalorizzatore nella città che i suoi babbei e la sua babbea hanno trasformato in una discarica a cielo aperto, è il segno di questi tempi impazziti, di ‘a fessa mmano a ‘e criature, e di volenterosi complici del populismo non meno colpevoli di questo disastro annunciato che costerà miliardi di euro ai cittadini italiani tra spread, rientro degli investimenti esteri e poderosi crolli in borsa, senza contare gli effetti negativi della mancanza di un governo capace di meritarsi i finanziamenti europei post Covid. 

Eppure questa non è la notizia più agghiacciante della giornata. 

La notizia più agghiacciante della giornata è l’attacco missilistico russo contro un centro commerciale, un palazzo di uffici e una clinica oncologica di Vinnytsia, in Ucraina, a sud ovest di Kyjiv, a migliaia di chilometri dal fronte del Donbas, eseguito con due missili Kalibr ad alta precisione il cui margine di errore è di due-quattro metri e che quindi sono stati puntati proprio lì, sul cuore pulsante di una città e su un ospedale per malati di cancro, in pieno centro e in pieno giorno, alle dieci e trenta del mattino, con l’unico obiettivo di massimizzare il numero delle vittime civili ucraine.

I russi hanno assassinato almeno ventitré persone, tra cui tre bambini, i feriti gravi sono oltre cinquanta, i dispersi altrettanto. 

Una delle bambine uccise dal terrorismo russo, Lisa di tre anni, aveva la Sindrome di Down e stava andando con la madre Iryna dal medico. È stata filmata fino a qualche istante prima dell’esplosione, mentre spingeva il passeggino davanti alla mamma orgogliosa di quella bimba speciale. 

Le fotografie successive all’attacco mostrano Lisa a terra, immobile e coperta da detriti e da quel che è rimasto del passeggino. La mamma, Iryna, ha perso una gamba e molto più di una gamba. 

La Russia è uno Stato terrorista, guidato da una cosca di mafiosi paranoici e popolato da milioni di volenterosi carnefici di ucraini e delle libertà occidentali, a questo punto altrettanto colpevoli dei loro leader o perché incapaci di fermare la mattanza orchestrata dal Cremlino o perché conniventi con le politiche stragiste di Putin e con i suoi crimini contro l’umanità. 

Non è più una guerra, quella della Russia all’Ucraina. È un genocidio, dichiarato, pianificato, in via di esecuzione. 

Mario Draghi è stato uno dei leader occidentali, con Joe Biden e Boris Johnson, ad averlo capito perfettamente e pur avendo provato più volte a far ragionare Putin è stato l’architetto delle sanzioni internazionali e della risposta unitaria del mondo libero.

Giuseppe Conte, invece, si è opposto all’invio di armi offensive all’Ucraina, non sia mai che potessero offendere Putin, un dittatore ricevuto a Roma come un Papa e al quale ha concesso di far sfilare l’esercito russo da sud a nord dell’Italia durante il lockdown. 

Oggi parleremo tutti della sfiducia dei Cinquestelle al governo e delle dimissioni di Draghi, ma non della strage di innocenti a Vinnytsia, né del genocidio ucraino né dei brindisi al Cremlino per la caduta di Draghi e di Johnson, come da tweet di quel pesce lesso di Medvedev, l’ex Robin di Putin.

Parleremo, però, delle operazioni politiche speciali condotte in Bieloitalia dai facilitatori e dagli utili idioti dei criminali di Mosca. Non parleremo di Vinnytsia, dunque, ma del fronte italiano del genocidio ucraino pianificato dai russi. 

Operazione politica speciale. Che strano, Conte e Salvini alleati per indebolire il peggiore nemico di Putin nell’Ue. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 15 Luglio 2022.

Con le dimissioni di Draghi, il dittatore russo potrebbe togliersi dai piedi il suo avversario europeo più deciso, capace anche di trascinare i ben più malleabili Scholz e Macron a un intransigente allineamento atlantista. Le ironiche coincidenze che i malpensanti potrebbero interpretare come un disegno

Come qualcuno ricorderà, quando cadde il Governo Conte-bis Goffredo Bettini evocò un golpe realizzato «per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli e dunque, per loro, inaffidabile». 

Visto che gli intellettuali progressisti doc, in genere, pensano che gettare il sasso e ritirare la mano sia una prova di commendevole moderazione politica e intellettuale e hanno un senso della responsabilità a misura della loro ipocrisia, Bettini non concluse, come avrebbe dovuto, paragonando Giuseppe Conte a Salvador Allende e Mario Draghi ad Augusto Pinochet, ma sostenne al contrario che «nel vuoto e nell’incertezza» che si era «determinata, il presidente Mattarella ha saputo mettere a disposizione della Repubblica Mario Draghi. Una grande personalità. Una risposta di emergenza a una situazione di emergenza».

Proviamo a usare per gioco – sia chiaro: solo per gioco – con maggiore rigore e radicalità lo schema di Bettini nell’interpretare premesse, conseguenze e beneficiari della crisi aperta dall’ex fortissimo riferimento del mondo progressista. Proviamo – sia chiaro: solo per gioco – a tirare il sasso e a non ritirare la mano.

La scaturigine di questa crisi è in uno scandalo autoprodotto nel côté contiano. L’intervista confezionata da Il Fatto a Domenico De Masi circa la richiesta di Draghi a Grillo di fare fuori l’ex capo del Governo dalla guida dei 5 Stelle, che sarebbe stata confermata da alcuni fantomatici messaggi scritti, di cui però nessuno ha confermato l’esistenza, ha rappresentato una bufala giornalistica totale, ma una mossa politica rilevante, perché ha permesso di eccitare l’incazzatura di tutti i pentastellati che si sentivano traditi dal fedifrago Luigi Di Maio. 

Come insegnano i maestri della dissonanza cognitiva di scuola moscovita, perché qualcuno faccia quello che tu vuoi, devi fare in modo che sia lui a volerlo. E per incamminare il tumulto di parlamentari impazziti e in scadenza verso un esito compiutamente nichilista, bastava fare percepire e desiderare loro la defenestrazione di Draghi come un supremo atto di giustizia e un risarcimento dell’affronto subito.

Così mentre Grillo, che era sceso a Roma a scaricare Di Maio e a blindare il Governo («non si fa una crisi su un cazzo di inceneritore»), se ne tornava a casa malmostoso e sfiduciato, Alessandro Di Battista se ne partiva per la Russia, a fare straordinari reportage su Il Fatto, che raccontano di quanto i russi siano orgogliosi di Putin, i ristoranti siano pieni e le sanzioni non facciano un baffo al valoroso popolo in arme contro l’aggressione della Nato.

Intanto Conte incontrava accigliato Draghi chiedendo rispetto – il massimo valore politico, nell’era della suscettibilità universale – e consegnava all’usurpatore di Palazzo Chigi papelli di richieste urgenti, ma differibili, per allungare il brodo del negoziato e il logoramento dell’esecutivo. 

Infine Conte decideva di togliere la fiducia a Draghi proprio sul «cazzo di inceneritore» su cui Grillo aveva detto: transeat, per poi esibirsi in una eccezionale supercazzola dorotea, in cui spiegava che non intendeva così uscire dalla maggioranza, ma non intendeva neppure rimanervi a queste condizioni, dando modo all’altro grande interprete del putinismo pacifista tricolore, Salvini, di dichiarare che il Governo era finito e la legislatura era chiusa. Posizione su cui sembra finalmente ricompattarsi, dopo un lustro, l’intero centro-destra, storicamente unito anche da simpatie e frequentazioni putiniane.

Ora che Draghi ha rassegnato le dimissioni, se tutto va come deve andare, Putin si sarà finalmente tolto dai piedi il suo avversario europeo più deciso, capace anche di trascinare i ben più malleabili Scholz e Macron a un intransigente allineamento atlantista. Col che non si vuole certo dire – ci mancherebbe – che in Italia sia in corso un’operazione politica speciale della Russia. Si vuole solo ironicamente illuminare un insieme casuale di coincidenze, dietro a cui qualche malpensante potrebbe intravedere perfino un disegno.

Da corriere.it il 18 Luglio 2022.

Beppe Grillo cambia la foto profilo di WhatsApp e posta l'immagine di un barattolo di colla Coccoina. Secondo fonti pentastellate, la trovata del garante M5S sarebbe un messaggio rivolto ai parlamentari «incollati alla poltrona». Per le stesse fonti la foto della Coccoina è da interpretare anche come una smentita di Grillo ad alcune ricostruzioni giornalistiche delle ultime ore che lo descrivono come irritato se non addirittura «sconcertato» dall'atteggiamento del leader 5 Stelle Giuseppe Conte. 

Borrell: «Mosca festeggia addio Draghi? Non venda la pelle orso»

«Non si vende la pelle dell'orso prima di averlo preso». Così l'Alto rappresentante dell'Ue per la Politica estera, Josep Borrell, rispondendo a una domanda sul fatto che a Mosca stiano festeggiando per la crisi del Governo Draghi. 

Dadone in assemblea M5S: «Seguirò la decisione Conte»

«Seguirò la decisione del mio capo politico», ha detto in assemblea M5S la ministra per le Politiche giovanili Fabiana Dadone, citata dall'Adnkronos. 

Casalino e la crisi M5S: gli effetti sul contratto dello spin doctor. Resta al Senato, stop alla Camera

L’aria di scissione nei 5 stelle si respira anche nei dettagli, come ad esempio le scelte sulla comunicazione. Le tensioni nel movimento fanno la prima vittima. Il contratto di Rocco Casalino , in scadenza a luglio, non sarà rinnovato alla Camera. «Non è stata trovata la quadra», fanno sapere da ambienti stellati. 

Accordo Casellati-Fico: fiducia prima al Senato

Le comunicazioni del presidente del Consiglio ed il successivo dibattito sulla fiducia con il voto partiranno da Palazzo Madama. È l'accordo tra i presidenti del Senato Elisabetta Casellati e della camera Roberto Fico. Lo riferiscono fonti accreditate del Senato.

Grillo, il mistero della foto su WhatsApp: cosa ha fatto mentre tutto saltava per aria. Libero Quotidiano il 18 luglio 2022

Beppe Grillo non si smentisce mai e ancora una volta provoca. Mentre il suo Movimento 5 Stelle si spacca e prende direzioni - almeno all'apparenza - diverse da quelle del governo, il fondatore cambia la foto profilo di Whatsapp. Fin qui nulla di strano se non fosse che pubblica l’immagine di un barattolo di colla Coccoina. Secondo diverse fonti vicino al mondo pentastellato, la trovata del garante sarebbe una frecciata a quei parlamentari "incollati alla poltrona". 

Ma non è tutto, perché altri sono convinti che si tratta di una smentita nei confronti di alcune ricostruzioni giornalistiche delle ultime ore che lo descrivono come irritato se non addirittura "sconcertato" dall’atteggiamento del leader 5 Stelle Giuseppe Conte. È stato lui infatti ad aver ordinato ai Cinque Stelle di abbandonare l'Aula durante il voto sul dl Aiuti.  

Secondo Agi, che aveva diffuso l'indiscrezione, Grillo sarebbe "sconfortato" dal dibattito interno al M5s. Nello specifico Grillo sarebbe preoccupato dall’eccessiva "personalizzazione" del leader Cinque Stelle nello scontro con il premier. Eppure Grillo aveva sposato all’inizio la strada scelta dall’ex premier. Non resta dunque che aspettare mercoledì quando Draghi si presenterà alle Camere dichiarando la sua volontà di dimettersi. Solo in quell'occasione si capirà la mossa del Movimento di Conte.

Grillo e il M5S: Beppe (feroce) lascia correre la rissa nel partito. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 19 luglio 2022.  

L’assenza, il silenzio, il dubbio. Che pensa, davvero, Beppe Grillo? Pensa che va bene così.

Come sempre lucido, cinico, feroce.

Osserva il Movimento che esplode, implode, si spacca e frantuma, una scissione realizzata e una annunciata, tra tonfi, sputi e urla, assemblee come tonnare, draghiani e rivoltosi, contiani e dimaiani, un mischione mortificante di professionisti della poltrona e burattini impazziti, con nuovi eroi di governo come Davide Crippa e coatte ribelli in cerca del terzo mandato.

Beppe, e adesso?

Sta andando esattamente come voleva che andasse. Un passaggio drammatico, ma obbligato. Necessario. Ha deciso tutto l’ultima volta che è sceso a Roma: il vecchio trucco dell’Elevato che arriva e sistema le cose non funzionava più. La linea dettata con iperboli di perfidia, il carisma che convinceva i più testardi, gli occhi strabuzzati per ipnotizzare: si è accorto che i parlamentari lo guardavano con aria annoiata, scettica, distratta. Avevano altre urgenze: mi conviene andare con Di Maio o restare con Conte e far cadere il governo? Chi dei due potrebbe ricandidarmi?

Grillo non ha mai avuto simpatia per Giuseppe Conte. Resta scolpita una frase drammatica: « Giuseppe è l’uomo dei penultimatum». E poi quella sua voce di velluto, la pochette titillata, l’eloquio da supercazzola tipo «Le urgenze che abbiamo posto a Draghi non sono urgenti»: quando sento Conte — dice in privato — mi vengono le bolle.

Quanto a Di Maio: tutti sanno che l’ha sempre chiamato «il piccoletto» (sprezzante). Nel suo spettacolo Insomnia lo fulminava con questa battuta: «Io sono l’unico a conoscere tutte le cose vere della vita di Luigi. Io sono l’unico in grado di metterlo in difficoltà».

Di Maio lo sapeva: e infatti se ne è andato. Conte invece s’è infilato, da solo, in un angolo. Altre immagini in dissolvenza dall’assemblea permanente: gran via vai di auto blu, deputate con borse Louis Vuitton, Casalino come un divo del cinema anni Trenta tra minacce inaudite e volgari compromessi, patetici bizantinismi, sondaggi in picchiata.

Grillo non c’è perché, pensa, devono andare a sbattere da soli. Litigate, dividetevi, epuratevi. Seguirà domanda finale: Conte può essere ancora il vostro capo?

Grillo sente tutti i giorni Virginia Raggi.

Grillo le ha detto: tieniti pronta. Tra un po’, si torna all’antico. Arrabbiati contro tutto e contro tutti (e ci sarà anche Dibba, che rientrerà dalla Russia bello carico: a leggere i suoi reportage, Putin potrebbe avergli ispirato qualche buona ideuzza).

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 18 luglio 2022.

Meno male che c'è il subcomandante Dibba. Perché mentre noi ce ne stiamo qui tranquilli a occuparci di banali faccenducole - governi che cadono, inflazione che galoppa e contagi che dilagano - Alessandro Di Battista viaggia senza sosta per «comprendere il mondo e raccontarlo». 

Oddio, non tutto il mondo: in questo momento sta girando la Russia (uno dei pochi timbri mancanti sul suo passaporto, dove ci sono già quelli di Argentina, Panama, Nicaragua, Cile, Guatemala, Cuba, Costa Rica, Colombia, Belize, Ecuador, Iran, Bolivia e Paraguay). Raccontarci l'impero di Putin. 

Impresa ammirevole, perché parliamo dello Stato più grande del pianeta, con 11 fusi orari diversi. E lui lo fa, generosamente, per conto di noi pigroni stanziali. Per farci conoscere «quello che pensano dall'altra parte». Rivelandoci una realtà sorprendente.

Per esempio, lui che era partito da Roma convinto che le sanzioni hanno fallito e che il popolo russo è con Putin, una volta a Mosca ha scoperto - e ce lo ha raccontato in un memorabile reportage - che le sanzioni hanno fallito e il popolo russo è con Putin. Ma siccome lui è un instancabile cercatore di verità, non si è fermato qui. 

E senza farsi intimorire da quel regime che sbatte in cella chiunque osi mostrare in pubblico anche un cartello bianco senza alcuna scritta, l'esploratore Di Battista ha trovato le prove che «le sanzioni hanno messo d'accordo persone che prima non lo erano affatto», e che «più ci si allontana da Mosca più aumentano i supporter di Putin».

Così lui è andato il più lontano possibile. Ieri è arrivato a Irkutsk, una delle più grandi città della Siberia: la terra del gelo dove prima gli zar e poi Stalin deportarono milioni di polacchi, ceceni, caraci, ingusci, balcari, tedeschi e cabardi, e dove oggi finiscono gli ucraini trascinati via dal Donbass. Ma non sono loro, quelli che lui sta cercando a Irkutsk, dove l'Unione Sovietica sembra sopravvivere surgelata nei palazzi staliniani. 

No, lui cerca qualcosa di più importante. Se a Mosca le sanzioni hanno messo d'accordo gli avversari di prima, avrà pensato lui che conosce il mondo, qui che siamo a cinquemila chilometri devono essere accaduti miracoli. Lui, ne siamo sicuri, li scoprirà presto. E li rivelerà a noi uomini di poca fede: nella prossima puntata del Dibba Tour. 

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 19 luglio 2022.  

E un classico, lo sfogo dell'ex. Ma stavolta il colpo di lombi di Dino Giarrusso, giornalista, ex Iena televisiva, barba e pensieri levantini, il più votato 5 Stelle di sempre -120mila voti all'Europarlamento- rivela il vero volto del M5s.

Caro Giarrusso, qual è la verità nel Movimento che hai mollato per fondare il tuo partito "Sud chiama Nord" (assieme a Cateno De Luca: ora l'incubo dei partiti in Sicilia, col 46% nel messinese coi 5 Stelle che arrancavano al 4%...)?

«La verità è che Conte, che è stato un ottimo premier, è un capo politico inesistente e vittima di una guerra fra bande, manovrato da altri, da un "cerchio tragico". Cioè Taverna, Crimi, Cancelleri, Fico che si sono tutti schierati con lui nella speranza di veder derogata la regola del tetto del secondo mandato, perché molti di loro sarebbero tornati a far nulla o a far poco nella vita civile. Tieni conto che la regola è fondativa del Movimento.

Quando Cancelleri, in Sicilia dice "faccio un passo indietro sulla mia candidatura", che cazzo mi significa? La regola dice che non avrebbe mai potuto più candidarsi. Ma Grillo l'ha mantenuta. Tutto il casino dell'indiscrezione De Masi su Draghi /Grillo nasce da lì...». 

Hai addirittura parlato di «follia a 5 Stelle»...

«L'Italia è l'unico paese al mondo dove un ministro - D'Incà- chiede la fiducia, il suo partito non gliela vota e lui non esce né dal partito né dal governo. Follia. Ma la realtà è che Conte ha perso il controllo del partito da quando ha ignorato il volere degli iscritti attraverso la piattaforma. Avevamo fatto gli Stati Generali, il primo vero congresso M5S, da dove era uscita chiara l'indicazione: serve un organo collegiale e non un capo politico, poi si sarebbe trovato un ruolo a Conte».

Perché allora Conte è rimasto capo politico, scusa? Se uno deve fare l'uomo forte e solo al comando, non è meglio scegliersi il Pd, la Lega, Berlusconi?

«Ma appunto. Conte ha imposto emeriti sconosciuti come Gubitosi, Ricciardi, Turco e Todda (poi fatta viceministro). Ma nei voti degli iscritti prima era arrivato Di Battista con 11mila voti, poi io con 8500 e molto staccato Di Maio, 4500. Si è ignorato tutto. Dopo io, che volevo primarie interne, sono stato accusato addirittura di volere fare il presidente della Regione Sicilia e sono stato stoppato per incompatibilità di ruolo come europarlamentare. Peccato che Floridia, calata dall'alto, abbia due ruoli, Senato e governo. Il fatto è che lì non comanda Conte».

Ah no? E chi comanda, scusa?

«Paola Taverna, non si sa come e perché, è diventata il vero Capo politico. Ha cercato in tutte le salse di piazzare l'amico Ettore Licheri che ha preso sberle dappertutto (dalla presidenza della Commissione esteri alla candidatura come referente della Sardegna, facendo incazzare pure i sardi). Molti anche non dimaiani sono passati con Di Maio pur di non votarlo. Taverna è responsabile delle liste delle amministrative e il Movimento 5 Stelle lì è sparito, veleggiando al 2%, in Sicilia fino al 6% ma prima facevamo il 40%. E ha probabilmente spinto Conte - che non li conosceva, ovvio- a nominare direttamente quasi 240 referenti sul territorio».

Allora quando molti M5S dicono che la Taverna «tiene per le palle i senatori», forse è vero.

«Sì. A Palermo si sono messi con Orlando, sempre criticato. A Paternò alleanza con Cuffaro, considerato da sempre il diavolo, con Conte che continuava a sdegnarsi. A L'Aquila li ha fatti andare con la Pezzopane, nostra nemica storica: hanno fatto lo 0,8%. Il campo largo l'ha fatto funziona- re solo per il Pd che ha sempre prodotto un suo candidato quando il candidato sindaco dove- va essere M5S».

Quindi ora si va al voto e arriva Di Battista?

«Di Battista prepara il ritorno, ma con Conte. Io al voto ci andrei, per rispetto del popolo. E fa nulla se -dalle parti dei miei ex amici e della sinistra dicono che può vincere Fratelli d'Italia. Be', è la democrazia. Bloccare le elezioni per impedire al centrodestra e a Giorgia Meloni di salire a Palazzo Chigi, è davvero la cosa più fascista. Ma la realtà è che qua tutti si fanno i cazzi loro; nessuno vuole andare al voto perché, da qui a fine legislatura, i parlamentari perderebbero 100mila euro a testa. Ma te li vedi?». 

Insomma, un disastro. Da collega a collega, odio dire "te l'avevo detto". Ma te l'avevo detto...

«Avevi ragione. Io me ne sono andato in tempo risparmiandomi l'umiliazione di questa pantomima che sembra uscita da un film di Nanni Moretti, "mi si nota di più se voto, o non voto?". Grillo l'ho sentito: è sconsolato, totalmente deluso e direi nauseato, poteva intervenire prima per evitare questo sfacelo, ma ormai è tardi...».

(Adnkronos il 19 luglio 2022) - "Entrare nel governo Draghi è stato un  suicidio. Lo dissi subito a tutti!". Lo scrive di Twitter Alessandro Di Battista. L'ex grillino poi rincara la dose in un video su Youtube."Ma vi rendete conto che le due persone che hanno fatto cadere gli ultimi due governi, Renzi e Salvini, saranno ancora vostri alleati di governo? Io non ho parole. Questi dirigenti dovrebbero chiedere scusa". (Iac/Adnkronos)

Da corriere.it il 18 Luglio 2022.

L’aria di scissione nei 5 stelle si respira anche nei dettagli, come ad esempio le scelte sulla comunicazione. Le tensioni nel movimento fanno la prima vittima. Il contratto di Rocco Casalino , in scadenza a luglio, non sarà rinnovato alla Camera. «Non è stata trovata la quadra», fanno sapere da ambienti stellati. 

A Montecitorio il capogruppo guarda caso è il governista Davide Crippa (restio già l’anno scorso a siglare l’intesa con l’ex portavoce di Palazzo Chigi) che in questa fase è contro i falchi contiani e ha diverse frizioni anche con il Presidente M5S. La scelta di non rinnovare il contratto di Casalino sembra il preludio di uno scontro politico imminente. Diverso il discorso al Senato, dove la capogruppo Castellone e i falchi intendono dare seguito per un altro anno alla collaborazione con Casalino. 

L’ex concorrente del Grande Fratello ha incominciato la sua militanza nel Movimento 5 Stelle nel 2011. Dopo 3 anni, nel 2014, diventa responsabile per la comunicazione con i media al Senato per il gruppo parlamentare del partito fondato da Beppe Grillo. Dal 2018 al 2021 è stato portavoce e capo dell’ufficio stampa del presidente del Consiglio durante i governi Conte I e Conte II assumendo la posizione di spin doctor della comunicazione politica del Movimento 5 Stelle. 

Antonio Bravetti per “la Stampa” il 19 Luglio 2022.

Il sogno di Rocco Casalino si chiama palazzo Madama. È lì che s' immagina. Tra i legni scuri, i soffitti affrescati e le moquette rosse. «Sono i senatori quelli che contano- ripete ogni tanto- i loro voti pesano. Io mica voglio essere un peone alla Camera». Montecitorio? Poca roba. Lui si vede candidato, eletto, senatore Casalino. 

Nel frattempo, però, rischia di finire "espulso" dal Movimento 5 stelle. Vittima dello scontro sempre più aspro tra governisti e contiani. Dopo l'esperienza a palazzo Chigi, Casalino è stato assunto un anno fa con un contratto di consulenza per l'attività di comunicazione pagato a metà dai gruppi di Camera e Senato del M5S. «L'abbiamo pagato per non vederlo mai- si lamentano tanti pentastellati- lavora solo per Conte».

Tra questi anche Davide Crippa, il capogruppo a Montecitorio. Sempre più in rotta con i duri e puri del Movimento che tifano per affossare il governo Draghi, Crippa nei giorni scorsi ha inviato una mail a Casalino. «Con la presente le comunichiamo che il giorno 15 luglio 2022 il suo contratto scade e non è più richiesta alcuna prestazione da parte sua».

Grazie e arrivederci. Non bastasse, vien fuori che nemmeno il Senato avrebbe intenzione di rinnovare il contratto di Casalino. I condizionali sono d'obbligo, perché la battaglia che si annuncia in Parlamento mercoledì potrebbe ridisegnare, di nuovo, le forze interne al Movimento.

Cosa tifi Casalino non è un mistero. «Questo governo non lo sopporto- dice senza remore a tutti i cronisti che incontra tra i Palazzi della politica- prima finisce e meglio è». Con i suoi fedelissimi, Riccardo Ricciardi e Michele Gubitosa, lavora da giorni allo strappo definitivo. Quelle malelingue di Insieme per il futuro lo chiamano «il ras» del Movimento.

La colpa più grossa che gli imputano è di aver stilato una lista con i nomi di chi mandare in televisione. Se il tuo nome non c'è, non esisti. Nelle ultime settimane il rapporto tra Casalino e Conte si è un po' logorato. Troppo ondivago l'ex premier. Indeciso, titubante. All'ex portavoce non piacciono quelle che definisce le «montagne russe dei ragionamenti» dell'avvocato del popolo. Lui andrebbe dritto per la strada che porta al voto. Niente fiducia, crisi di governo, addio a Draghi. Un film, con Casalino protagonista: Natale a Palazzo Madama.

Tommaso Labate per “il Corriere della Sera” il 19 luglio 2022.

«Vogliamo che le nostre proposte abbiano un seguito per gli italiani? Ecco, questo obiettivo lo otteniamo solo stando al governo. Oppure, se proprio dobbiamo uscire, facendolo sulla base di un percorso chiaro, non che ti alzi una mattina e non voti più la fiducia...». Gli amici e colleghi che ne hanno raccolto le confidenze negli ultimi giorni lo ascrivono di diritto all'ala governista dei Cinque Stelle, anche se magari lui non si definirebbe tale. 

E lui stesso, che nell'ultimo anno ha centellinato le uscite pubbliche riducendole all'osso, era sul punto di farne una che non sarebbe passata inosservata, lanciando un endorsement a favore della permanenza nella maggioranza che sostiene Mario Draghi, anche se all'ultimo ha preferito la via della prudenza per evitare strappi con Giuseppe Conte. 

Uno sceneggiatore con poca fantasia potrebbe intitolare questa storia «lo strano caso di Alfonso Bonafede». Strano anche perché l'uomo che aveva provocato la frattura tra Conte e Renzi che aveva poi portato alla morte del Conte bis - con la riforma sulla giustizia poi smantellata dalla Cartabia - adesso si muove come una talpa che scava di nascosto il tunnel che può salvare la vita a un altro, di governo.

Quello guidato da Mario Draghi. Quando gli chiedono se si è pentito di aver portato Conte nei Cinque Stelle, Bonafede risponde simulando l'azione di una cerniera che tappa la bocca, come l'emoticon di WhatsApp più usata dai grillini nell'ultima settimana. Le uniche tracce pubbliche della sua posizione, maturata negli ultimi giorni, le ha lasciate ieri intervenendo all'assemblea del Movimento, dove ha sottolineato che «il più grande errore in questo momento sarebbe dividerci in fazioni: falchi, contiani, responsabili e governisti». 

Un approccio che l'ha portato anni luce distante dalla posizione barricadera dei tanti che, in apertura di riunione, hanno cecchinato la presa di posizione del capogruppo alla Camera Davide Crippa, che in accordo col Pd aveva chiesto di iniziare il dibattito di domani dalla Camera e non dal Senato.

Bonafede, insomma, non si iscrive al partito di chi crede che solo un bagno d'opposizione può risollevare i numeri del Movimento, nei sondaggi e alle urne. Anzi, come ha detto ieri in assemblea, è convinto che vadano esplorate tutte le condizioni perché ci sia «chiarezza» sulla permanenza all'interno della maggioranza. «Non c'è bisogno di alcuna onda emotiva» perché «le persone e le imprese non vogliono sapere chi vince tra i politici; vogliono sapere, per esempio, se gli sblocchiamo il superbonus», ha scandito.

Quando l'ultimo conto alla rovescia in vista del D-day di domani in Parlamento è appena cominciato, l'ex ministro della Giustizia evita di consumare uno strappo con Conte. Al contrario, ripete, «abbiamo fiducia in Giuseppe, che condurrà varie interlocuzioni in queste ore rimanendo concentrato sugli obiettivi». 

Ma «dentro e fuori da questa assemblea», ha concluso con un appello, «in un momento delicatissimo per gli italiani, ciascuno di noi deve essere ambasciatore del buonsenso». E il buonsenso, nella sua visione personale delle cose, è quello che l'ha spinto a tirare il freno a mano rispetto a una fuga in avanti che sarebbe stata considerata uno schiaffo alla leadership del Movimento.

«È sbagliato tirare per la giacchetta Conte, tra ultimatum sì e ultimatum no. Le sue parole rimettono al centro del dibattito gli italiani e gli obiettivi contenuti nei 9 punti sono le nostre priorità», chiarisce Bonafede sull'oggi. Ma il domani, per lui, ha i contorni definiti di una crisi di governo che rientra, di un'alleanza col Pd da confermare, di fratture da evitare. Tra coloro che sperano che il premier di ieri torni a confermare la fiducia al suo successore, mentre scava come una talpa il tunnel che può mettere in salvo la maggioranza, c'è insomma anche lui. Anche se non si vede ancora.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 19 luglio 2022.

 Se fossi un grillino, affinché in queste ore drammatiche prevalga l'anima più puramente grillina del Movimento, proporrei la seguente consultazione su Rousseau: 

volete voi che 1) il Movimento resti nel governo Draghi; 2) il Movimento esca dal governo Draghi; 3) esca dal governo Draghi e riammetta nel Movimento quelli che erano stati espulsi perché non volevano entrare nel governo Draghi;

4) resti nel governo Draghi e riammetta i dimaiani che se ne sono andati per restare nel governo Draghi; 5) resti nel governo Draghi aderendo alla nuova formazione dei dimaiani; 6) punti a ricostituire il governo col Pd; 7) resti nel governo Draghi purché senza Pd; 8) punti a ricostituire il governo con la Lega; 9) resti nel governo Draghi purché senza Lega; 9) resti nel governo Draghi purché senza Berlusconi;

10) resti nel governo Draghi ma solo con Berlusconi; 11) esca dal governo Draghi ma con Berlusconi e il Pd per un governo Conte III; 12) resti nel governo Draghi purché senza Draghi per un governo Conte III; 

13) esca dal governo Draghi ma soltanto se si va al voto; 14) esca dal governo Draghi ma soltanto se si va all'opposizione; 15) esca dal governo Draghi ma soltanto se Meloni va al governo per essere soli all'opposizione; 16) resti o esca dal governo Draghi purché di concerto con Meloni per provare il brivido dell'unica alleanza che manca;

17) resti nel governo Draghi ma soltanto se tutti gli altri vanno all'opposizione; 18) esca o resti nel governo Draghi, è indifferente, basta che Conte si levi di torno; 19) esca dal governo Draghi purché tutti gli eletti raggiungano Di Battista in Siberia. Eddai, un po' di democrazia diretta.

Il discorso integrale di Mario Draghi al Senato, pubblicato da corriere.it il 20 luglio 2022.

Signor Presidente, Onorevoli Senatrici e Senatori, Giovedì scorso ho rassegnato le mie dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. 

Questa decisione è seguita al venir meno della maggioranza di unità nazionale che ha appoggiato questo Governo sin dalla sua nascita. Il Presidente della Repubblica ha respinto le mie dimissioni e mi ha chiesto di informare il Parlamento di quanto accaduto – una decisione che ho condiviso. 

Le Comunicazioni di oggi mi permettono di spiegare a voi e a tutti gli italiani le ragioni di una scelta tanto sofferta, quanto dovuta. 

Lo scorso febbraio, il Presidente della Repubblica mi affidò l’incarico di formare un governo per affrontare le tre emergenze che l’Italia aveva davanti: pandemica, economica, sociale. «Un governo» – furono queste le sue parole – «di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica». «Un Governo che faccia fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili». 

Tutti i principali partiti – con una sola eccezione – decisero di rispondere positivamente a quell’appello. Nel discorso di insediamento che tenni in quest’aula, feci esplicitamente riferimento allo «spirito repubblicano» del Governo, che si sarebbe poggiato sul presupposto dell’unità nazionale. 

In questi mesi, l’unità nazionale è stata la miglior garanzia della legittimità democratica di questo esecutivo e della sua efficacia. Ritengo che un Presidente del Consiglio che non si è mai presentato davanti agli elettori debba avere in Parlamento il sostegno più ampio possibile. 

Questo presupposto è ancora più importante in un contesto di emergenza, in cui il Governo deve prendere decisioni che incidono profondamente sulla vita degli italiani. L’amplissimo consenso di cui il Governo ha goduto in Parlamento ha permesso di avere quella «tempestività» nelle decisioni che il Presidente della Repubblica aveva richiesto. 

A lungo le forze della maggioranza hanno saputo mettere da parte le divisioni e convergere con senso dello Stato e generosità verso interventi rapidi ed efficaci, per il bene di tutti i cittadini. Grazie alle misure di contenimento sanitario, alla campagna di vaccinazione, ai provvedimenti di sostegno economico a famiglie e imprese, siamo riusciti a superare la fase più acuta della pandemia, a dare slancio alla ripresa economica. 

La spinta agli investimenti e la protezione dei redditi delle famiglie ci ha consentito di uscire più rapidamente di altri Paesi dalla recessione provocata dalla pandemia.

Lo scorso anno l’economia è cresciuta del 6,6% e il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo è sceso di 4,5 punti percentuali. 

La stesura del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, approvato a larghissima maggioranza da questo Parlamento, ha avviato un percorso di riforme e investimenti che non ha precedenti nella storia recente. 

Le riforme della giustizia, della concorrenza, del fisco, degli appalti – oltre alla corposa agenda di semplificazioni – sono un passo in avanti essenziale per modernizzare l’Italia.

A oggi, tutti gli obbiettivi dei primi due semestri del PNRR sono stati raggiunti.

Abbiamo già ricevuto dalla Commissione Europea 45,9 miliardi di euro, a cui si aggiungeranno nelle prossime settimane ulteriori 21 miliardi – per un totale di quasi 67 miliardi.

Con il forte appoggio parlamentare della maggioranza e dell’opposizione, abbiamo reagito con assoluta fermezza all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. La condanna delle atrocità russe e il pieno sostegno all’Ucraina hanno mostrato come l’Italia possa e debba avere un ruolo guida all’interno dell’Unione Europea e del G7. 

Allo stesso tempo, non abbiamo mai cessato la nostra ricerca della pace – una pace che deve essere accettabile per l’Ucraina, sostenibile, duratura. Siamo stati tra i primi a impegnarci perché Russia e Ucraina potessero lavorare insieme per evitare una catastrofe alimentare, e allo stesso tempo aprire uno spiraglio negoziale.

I progressi che si sono registrati la settimana scorsa in Turchia sono incoraggianti, e auspichiamo possano essere consolidati. Ci siamo mossi con grande celerità per superare l’inaccettabile dipendenza energetica dalla Russia — conseguenza di decenni di scelte miopi e pericolose. In pochi mesi, abbiamo ridotto le nostre importazioni di gas russo dal 40% a meno del 25% del totale e intendiamo azzerarle entro un anno e mezzo. 

È un risultato che sembrava impensabile, che dà tranquillità per il futuro all’industria e alle famiglie, rafforza la nostra sicurezza nazionale, la nostra credibilità nel mondo. Abbiamo accelerato, con semplificazioni profonde e massicci investimenti, sul fronte delle energie rinnovabili, per difendere l’ambiente, aumentare la nostra indipendenza energetica.

E siamo intervenuti con determinazione per proteggere cittadini e imprese dalle conseguenze della crisi energetica, con particolare attenzione ai più deboli. 

Abbiamo stanziato 33 miliardi in poco più di un anno, quasi due punti percentuali di PIL, nonostante i nostri margini di finanza pubblica fossero ristretti. Lo abbiamo potuto fare grazie a una ritrovata credibilità collettiva, che ha contenuto l’aumento del costo del debito anche in una fase di rialzo dei tassi d’interesse. 

Il merito di questi risultati è stato vostro - della vostra disponibilità a mettere da parte le differenze e lavorare per il bene del Paese, con pari dignità, nel rispetto reciproco. 

La vostra è stata la migliore risposta all’appello dello scorso febbraio del Presidente della Repubblica e alla richiesta di serietà, al bisogno di protezione, alle preoccupazioni per il futuro che arrivano dai cittadini. 

Gli italiani hanno sostenuto a loro volta questo miracolo civile, e sono diventati i veri protagonisti delle politiche che di volta in volta mettevamo in campo. 

Penso al rispetto paziente delle restrizioni per frenare la pandemia, alla straordinaria partecipazione alla campagna di vaccinazione. Penso all’accoglienza spontanea offerta ai profughi ucraini, accolti nelle case e nelle scuole con affetto e solidarietà. 

Penso al coinvolgimento delle comunità locali al PNRR, che lo ha reso il più grande progetto di trasformazione dal basso della storia recente. Mai come in questi momenti sono stato orgoglioso di essere italiano. L’Italia è forte quando sa essere unita.

Purtroppo, con il passare dei mesi, a questa domanda di coesione che arrivava dai cittadini le forze politiche hanno opposto un crescente desiderio di distinguo e divisione. 

Le riforme del Consiglio Superiore della Magistratura, del catasto, delle concessioni balneari hanno mostrato un progressivo sfarinamento della maggioranza sull’agenda di modernizzazione del Paese. 

In politica estera, abbiamo assistito a tentativi di indebolire il sostegno del Governo verso l’Ucraina, di fiaccare la nostra opposizione al disegno del Presidente Putin. 

Le richieste di ulteriore indebitamento si sono fatte più forti proprio quando maggiore era il bisogno di attenzione alla sostenibilità del debito.

Il desiderio di andare avanti insieme si è progressivamente esaurito e con esso la capacità di agire con efficacia, con «tempestività», nell’interesse del Paese. Come ho detto in Consiglio dei Ministri, il voto di giovedì scorso ha certificato la fine del patto di fiducia che ha tenuto insieme questa maggioranza. 

Non votare la fiducia a un governo di cui si fa parte è un gesto politico chiaro, che ha un significato evidente.

Non è possibile ignorarlo, perché equivarrebbe a ignorare il Parlamento.

Non è possibile contenerlo, perché vorrebbe dire che chiunque può ripeterlo.

Non è possibile minimizzarlo, perché viene dopo mesi di strappi ed ultimatum. 

L’unica strada, se vogliamo ancora restare insieme, è ricostruire da capo questo patto, con coraggio, altruismo, credibilità. 

A chiederlo sono soprattutto gli italiani. 

La mobilitazione di questi giorni da parte di cittadini, associazioni, territori a favore della prosecuzione del Governo è senza precedenti e impossibile da ignorare. 

Ha coinvolto il terzo settore, la scuola e l’università, il mondo dell’economia, delle professioni e dell’imprenditoria, lo sport. Si tratta di un sostegno immeritato, ma per il quale sono enormemente grato. 

Il secondo è quello del personale sanitario, gli eroi della pandemia, verso cui la nostra gratitudine collettiva è immensa. 

Questa domanda di stabilità impone a noi tutti di decidere se sia possibile ricreare le condizioni con cui il Governo può davvero governare.

È questo il cuore della nostra discussione di oggi.

È questo il senso dell’impegno su cui dobbiamo confrontarci davanti ai cittadini. 

L’Italia ha bisogno di un governo capace di muoversi con efficacia e tempestività su almeno quattro fronti.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è un’occasione unica per migliorare la nostra crescita di lungo periodo, creare opportunità per i giovani e le donne, sanare le diseguaglianze a partire da quelle tra Nord e Sud. Entro la fine di quest’anno, dobbiamo raggiungere 55 obiettivi, che ci permetteranno di ricevere una nuova rata da 19 miliardi di euro. 

Gli obiettivi riguardano temi fondamentali come le infrastrutture digitali, il sostegno al turismo, la creazione di alloggi universitari e borse di ricerca, la lotta al lavoro sommerso. 

Completare il PNRR è una questione di serietà verso i nostri cittadini e verso i partner europei. Se non mostriamo di saper spendere questi soldi con efficienza e onestà, sarà impossibile chiedere nuovi strumenti comuni di gestione delle crisi. L’avanzamento del PNRR richiede la realizzazione dei tanti investimenti che lo compongono. 

Dalle ferrovie alla banda larga, dagli asili nido alle case di comunità, dobbiamo impegnarci per realizzare tutti i progetti che abbiamo disegnato con il contributo decisivo delle comunità locali. Dobbiamo essere uniti contro la burocrazia inutile, quella che troppo spesso ritarda lo sviluppo del Paese. E dobbiamo assicurarci che gli enti territoriali – a partire dai Comuni - abbiano tutti gli strumenti necessari per superare eventuali problemi di attuazione.

Allo stesso tempo, dobbiamo procedere spediti con le riforme che, insieme agli investimenti, sono il cuore del PNRR. La riforma del codice degli appalti pubblici intende assicurare la realizzazione in tempi rapidi delle opere pubbliche e il rafforzamento degli strumenti di lotta alla corruzione. Dobbiamo tenere le mafie lontane dal PNRR. È il modo migliore per onorare la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e degli uomini e donne delle loro scorte, a trent’anni dalla loro barbara uccisione. 

La riforma del codice degli appalti è stata approvata, ed è in corso il lavoro di predisposizione degli schemi di decreti delegati. Questi devono essere licenziati entro marzo del prossimo anno. 

La riforma della concorrenza serve a promuovere la crescita, ridurre le rendite, favorire investimenti e occupazione. Con questo spirito abbiamo approvato norme per rimuovere gli ostacoli all’apertura dei mercati, alla tutela dei consumatori.

La riforma tocca i servizi pubblici locali, inclusi i taxi, e le concessioni di beni e servizi, comprese le concessioni balneari. Il disegno di legge deve essere approvato prima della pausa estiva, per consentire entro la fine dell’anno l’ulteriore approvazione dei decreti delegati, come previsto dal PNRR. 

Ora c’è bisogno di un sostegno convinto all’azione dell’esecutivo – non di un sostegno a proteste non autorizzate, e talvolta violente, contro la maggioranza di governo. 

Per quanto riguarda la giustizia, abbiamo approvato la riforma del processo penale, del processo civile e delle procedure fallimentari e portato in Parlamento la riforma della giustizia tributaria. Queste riforme sono essenziali per avere processi giusti e rapidi, come ci chiedono gli italiani. È una questione di libertà, democrazia, prosperità. Le scadenze segnate dal PNRR sono molto precise.

Dobbiamo ultimare entro fine anno la procedura prevista per i decreti di attuazione della legge delega civile e penale. La legge di riforma della giustizia tributaria è in discussione al Senato, e deve essere approvata entro fine anno. 

Infine, l’autunno scorso il Governo ha dato il via al disegno di legge delega per la revisione del fisco. Siamo consapevoli che in Italia il fisco è complesso e spesso iniquo. Per questo non abbiamo mai aumentato le tasse sui cittadini. 

Tuttavia per questo occorre procedere con uno sforzo di trasparenza. Intendiamo ridurre le aliquote Irpef a partire dai redditi medio-bassi; superare l’Irap; razionalizzare l’Iva. I primi passi sono stati compiuti con l’ultima legge di bilancio, che ha avviato la revisione dell’Irpef e la riforma del sistema della riscossione.

In Italia l’Agenzia delle Entrate-Riscossione conta 1.100 miliardi di euro di crediti residui, pari a oltre il 60% del prodotto interno lordo nazionale – una cifra impressionante. Dobbiamo quindi approvare al più presto la riforma fiscale, che include il completamento della riforma della riscossione, e varare subito dopo i decreti attuativi. 

Accanto al PNRR, c’è bisogno di una vera agenda sociale, che parta dai più deboli, come i disabili e gli anziani non autosufficienti. 

L’aumento dei costi dell’energia e il ritorno dell’inflazione hanno causato nuove diseguaglianze, che aggravano quelle prodotte dalla pandemia.

Fin dall’avvio del governo abbiamo condiviso con i sindacati e le associazioni delle imprese un metodo di lavoro che prevede incontri regolari e tavoli di lavoro. Questo metodo è già servito per gestire alcune emergenze del Paese: dalla ripresa delle attività produttive nella fase pandemica fino alla sicurezza del lavoro, su cui molto è stato fatto e molto resta ancora da fare. 

Oggi è essenziale proseguire in questo confronto e definire in una prospettiva condivisa gli interventi da realizzare nella prossima legge di bilancio. Quest’anno, l’andamento della finanza pubblica è migliore delle attese e ci permette di intervenire, come abbiamo fatto finora, senza nuovi scostamenti di bilancio.

Bisogna adottare entro i primi giorni di agosto un provvedimento corposo per attenuare l’impatto su cittadini e imprese dell’aumento dei costi dell’energia, e poi per rafforzare il potere d’acquisto, soprattutto delle fasce più deboli della popolazione. Ridurre il carico fiscale sui lavoratori, a partire dai salari più bassi, è un obiettivo di medio termine. Questo è un punto su cui concordano sindacati e imprenditori. Con la scorsa legge di bilancio abbiamo adottato un primo e temporaneo intervento. 

Dobbiamo aggiungerne un altro in tempi brevi, nei limiti consentiti dalle nostre disponibilità finanziarie. Occorre anche spingere il rinnovo dei contratti collettivi. Molti, tra cui quelli del commercio e dei servizi, sono scaduti da troppi anni. La contrattazione collettiva è uno dei punti di forza del nostro modello industriale, per l’estensione e la qualità delle tutele, ma non raggiunge ancora tutti i lavoratori.

A livello europeo è in via di approvazione definitiva una direttiva sul salario minimo, ed è in questa direzione che dobbiamo muoverci, insieme alle parti sociali, assicurando livelli salariali dignitosi alle fasce di lavoratori più in sofferenza. Il reddito di cittadinanza è una misura importante per ridurre la povertà, ma può essere migliorato per favorire chi ha più bisogno e ridurre gli effetti negativi sul mercato del lavoro. C’è bisogno di una riforma delle pensioni che garantisca meccanismi di flessibilità in uscita in un impianto sostenibile, ancorato al sistema contributivo. 

L’Italia deve continuare a ridisegnare la sua politica energetica, come fatto in questi mesi. Il Vertice di questa settimana ad Algeri conferma la nostra assoluta determinazione a diversificare i fornitori, spingere in modo convinto sull’energia rinnovabile. Per farlo, c’è bisogno delle necessarie infrastrutture. Dobbiamo accelerare l’istallazione dei rigassificatori – a Piombino e a Ravenna. 

Non è possibile affermare di volere la sicurezza energetica degli italiani e poi, allo stesso tempo, protestare contro queste infrastrutture. Si tratta di impianti sicuri, essenziali per il nostro fabbisogno energetico, per la tenuta del nostro tessuto produttivo. In particolare, dobbiamo ultimare l’istallazione del rigassificatore di Piombino entro la prossima primavera. È una questione di sicurezza nazionale.

Allo stesso tempo, dobbiamo portare avanti con la massima urgenza la transizione energetica verso fonti pulite. Entro il 2030 dobbiamo installare circa 70 GW di impianti di energia rinnovabile. La siccità e le ondate di calore anomalo che hanno investito l’Europa nelle ultime settimane ci ricordano l’urgenza di affrontare con serietà la crisi climatica nel suo complesso. 

Penso anche agli interventi per migliorare la gestione delle risorse idriche, la cui manutenzione è stata spesso gravemente deficitaria. Il PNRR stanzia più di 4 miliardi per questi investimenti, a cui va affiancato un «piano acqua» più urgente. Per quanto riguarda le misure per l’efficientamento energetico e più in generale i bonus per l’edilizia, intendiamo affrontare le criticità nella cessione dei crediti fiscali, ma al contempo ridurre la generosità dei contributi. 

Come promesso nel mio discorso di insediamento, e da voi sostenuto in quest’aula, questo governo si identifica pienamente nell’Unione Europea, nel legame transatlantico.

L’Italia deve continuare ad essere protagonista in politica estera. La nostra posizione è chiara e forte: nel cuore dell’Unione Europea, nel legame transatlantico. La nostra posizione è chiara e forte nel cuore dell’Ue, del G7, della NATO. 

Dobbiamo continuare a sostenere l’Ucraina in ogni modo, come questo Parlamento ha impegnato il Governo a fare con una risoluzione parlamentare. Come mi ha ripetuto ieri al telefono il Presidente Zelensky, armare l’Ucraina è il solo modo per permettere agli ucraini di difendersi. Allo stesso tempo, occorre continuare a impegnarci per cercare soluzioni negoziali, a partire dalla crisi del grano. E dobbiamo aumentare gli sforzi per combattere le interferenze da parte della Russia e delle altre autocrazie nella nostra politica, nella nostra società.

L’Italia è un Paese libero e democratico. Davanti a chi vuole provare a sedurci con il suo modello autoritario, dobbiamo rispondere con la forza dei valori europei. L’Unione Europea è la nostra casa e al suo interno dobbiamo portare avanti sfide ambiziose. 

Dobbiamo continuare a batterci per ottenere un tetto al prezzo del gas russo, che beneficerebbe tutti, e per la riforma del mercato elettrico, che può cominciare da quello domestico anche prima di accordi europei. Queste misure sono essenziali per difendere il potere d’acquisto delle famiglie, per tutelare i livelli di produzione delle imprese. In Europa si discuterà presto anche della riforma delle regole di bilancio e di difesa comune, del superamento del principio dell’unanimità. 

In tutti questi campi, l’Italia ha molto da dire – con credibilità, spirito costruttivo, e senza alcuna subalternità. Ci sono altri impegni che l’esecutivo vuole assumere che riguardano, ad esempio, la riforma del sistema dei medici di base e la discussione per il riconoscimento di forme di autonomia differenziata.

Tutto questo richiede un Governo che sia davvero forte e coeso e un Parlamento che lo accompagni con convinzione, nel reciproco rispetto dei ruoli. All’Italia non serve una fiducia di facciata, che svanisca davanti ai provvedimenti scomodi. Serve un nuovo patto di fiducia, sincero e concreto, come quello che ci ha permesso finora di cambiare in meglio il Paese. 

I partiti e voi parlamentari — siete pronti a ricostruire questo patto? Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi, e che poi si è affievolito? 

Siamo qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione, perché e solo perché gli italiani lo hanno chiesto. 

Questa risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani. 

Grazie.

Riprendendo la parola a Palazzo Madama, il presidente del Consiglio ha risposto a chi lo ha accusato di volere "i pieni poteri": "Siete voi che decidete", ha detto. E ha poi replicato direttamente al capogruppo 5 stelle. Il Fatto Quotidiano il 20 luglio 2022.

Un duro attacco ai partiti durante le comunicazioni in Aula della mattina. Una replica ancora più dura e, questa volta, rivolta direttamente al Movimento 5 stelle. Mario Draghi si è presentato davanti a Palazzo Madama per dare le sue condizioni per andare avanti, ma gli interventi hanno provocato reazioni ancora più nette. E il rischio, sempre più concreto, che si torni a elezioni. Il presidente del Consiglio ha preso la parola visibilmente innervosito e ha chiuso chiedendo la fiducia. E andando, di fatto, alla conta.

La replica di Draghi – “La mia sarà una replica breve”, ha esordito, “per primo ringrazio tutti coloro che hanno sostenuto l’operato del governo con lealtà e partecipazione. Il secondo punto, rispondo alle osservazione fatta dai senatori Licheri, Santanché” e altri in cui “sembro quasi mettere in discussione la natura della nostra democrazia, come se avessi detto che non è parlamentare. La democrazia è parlamentare ed è la democrazia che rispetto e riconosco. Vorrei rileggere esattamente le cose che ho detto”, ha aggiunto il premier tornando sui passaggi che gli erano stati ‘contestati’. Da parte di Draghi, “niente richieste di pieni poteri, va bene? – rimarca il presidente del Consiglio senza nascondere il disappunto – volevo rispondere a questo appunto ché è importantissimo“. E ancora: “Il sostegno che ho visto nel paese”, “mi ha indotto a riproporre un patto di coalizione e sottoporlo a vostro voto, voi decidete. Niente richieste di pieni poteri”.

Poi il presidente del Consiglio si è rivolto direttamente al capogruppo M5s in Senato Ettore Licheri. “Sul salario minimo ho detto quello che dovevo dire, c’è una proposta della commissione europea, abbiamo aperto un tavolo con i sindacati e Confindustria, continueremo la discussione qualunque sia la vostra decisione oggi”. E ha sottolineato che “c’è una proposta che non veda l’imposizione, il diktat del governo sul contratto di lavoro“. Poi, affrontando l’altro tema centrale per il Movimento 5 stelle, ha continuato: “Sul reddito di cittadinanza ho sempre detto che è una cosa buona, ma se non funziona è una cosa cattiva“. Quindi, ha affrontato l’altra questione che ha creato tensioni e problemi con il Movimento 5 stelle: “Per il Superbonus, il problema sono i meccanismi di cessione. Chi li ha disegnati senza discrimine o discernimento? Sono loro i colpevoli di questa situazione per cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti. Ora bisogna riparare al malfatto e tirare fuori dai guai quelle migliaia di imprese”. Infine ha risposto alle accuse della destra che, stando alle ricostruzioni, avrebbe richiesto un intervento sui temi etici: “Voglio essere chiaro, c’è stato un rimprovero sul perché il governo abbia deciso di non intervenire su temi come la cannabis, lo ius scholae, il dl Zan, temi di origine parlamentare, per la sua natura di governo fondato su una ampia coalizione di unità nazionale”. E ha chiuso: “Non ho molto altro da dire e chiedo sia posta la fiducia sulla proposta presentata dal senatore Casini”.

Tassisti, Putin e richieste di debito: i tre schiaffoni di Draghi a Conte e Salvini. GIANLUCA DE ROSA il 20 Luglio 2022 su Il Foglio

Nel suo intervento in Senato il premier ha bacchettato M5s e Lega in almeno tre passaggi. Il centrodestra annulla gli interventi in Aula: parleranno solo i capigruppo. "L'idea di rompere è nell'aria", ci dice il forzista Cangini

Serve un nuovo patto di fiducia sincero e concreto per andare avanti, i partiti e voi parlamentari siete pronti a ricostruire questo patto?”, ha detto il presidente Mario Draghi concludendo le sue comunicazioni al Senato. Adesso, dunque, la palla passa alle forze politiche. Si va avanti o si torna alle urne? Osservati speciali: Lega e M5s. Al termine delle comunicazioni del presidente i due partiti sono gli unici che non hanno applaudito. Il segretario del Carroccio Matteo Salvini ha riunito i suoi i senatori in una sala di palazzo Madama per decidere il da farsi. Dal suo staff fanno filtrare che nelle ultime ore Salvini ha avuto altri contatti con amministratori locali, associazioni di categoria, sindacati e imprenditori. Soprattutto è costante, sempre aperto, il collegamento con Silvio Berlusconi. A differenza dei leghisti i senatori di FI si sono spellati le mani per applaudire il presidente Draghi. 

Una differenza che passa anche attraverso i sonori tre ceffoni che l’ex presidente della Bce ha tirato alla Lega nel corso del suo discorso a palazzo Madama, mentre elencava tutte le intemperanze dei partiti che hanno “fiaccato l’azione di governo”. 

Il primo riguarda la richiesta insistente del Carroccio di uno scostamento di bilancio. “Le richieste di ulteriore indebitamento si sono fatte più forti proprio quando maggiore era il bisogno di attenzione alla sostenibilità del debito”, ha detto Draghi. Il presidente ha poi ricordato il surreale sostegno della Lega alle proteste dei tassisti contro il ddl Concorrenza e il governo. “Ora - ha ammonito - c’è bisogno di un sostegno convinto all’azione dell’esecutivo, non di un sostegno a proteste non autorizzate, e talvolta violente, contro la maggioranza di governo”. Infine la politica estera, la guerra in Ucraina. “In politica estera - ha detto Draghi - abbiamo assistito a tentativi di indebolire il sostengo del governo verso l’Ucraina, di fiaccare la nostra opposizione al disegno del presidente Putin”. Un riferimento decisamente esplicito alle uscite del segretario della Lega, alle sue aspirazioni di volare a Mosca, alle sue figuracce sul confine polacco. 

Il risultato per adesso è che tutti gli interventi in aula di Lega e FI sono stati annullati. Parleranno solo i capigruppo. Il senatore di FI Andrea Cangini lo dice così: “L’idea di rompere è nell’aria”.

(ANSA il 20 luglio 2022) Nessun senatore M5S, e quasi nessuno della Lega, ha applaudito alla fine del discorso del presidente del Consiglio Mario Draghi. Matteo Salvini è rimasto immobile. Gli applausi più calorosi per Draghi dal banco del governo sono arrivati da Luigi Di Maio.

Da corriere.it il 20 luglio 2022.

Draghi si toglie le pietruzze appuntite dalle scarpe

(Monica Guerzoni) Una dopo l’altra Draghi si toglie pietruzze appuntite dalle scarpe e le lancia ora verso i banchi dei 5Stelle, ora verso la Lega. E quando cita Zelensky e la necessità di armare l’Ucraina M5S e Carroccio non applaudono. E Giarrusso grida: «Ma va…!». 

Ore 10:15 - Il discorso integrale di Draghi

Qui trovate il discorso integrale tenuto da Mario Draghi in Parlamento per spiegare le ragioni delle sue dimissioni, con cui ha rilanciato la possibilità di «ricostruire un patto di maggioranza». 

Ore 10:13 - Timidi applausi dai 5 Stelle

(Monica Guerzoni) Sull’agenda sociale qualche timido applauso arriva dall’ala sinistra del M5S.

Ore 10:12 - Draghi al contrattacco

(Monica Guerzoni) Draghi al contrattacco. Pnrr, «vera agenda sociale» per ridurre le diseguaglianze. Sui tassisti va in crisi Gasparri; Suo balneari Salvini scuote la testa: nostalgia del Papete? 

Ore 10:10 - Conte è online su Whatsapp

(Tommaso Labate) Giuseppe Conte sta seguendo Draghi in tv da una stanza del gruppo parlamentare del Movimento Cinquestelle al Senato. «E forse nel mentre sta chattando su WhatsApp», si lascia scappare un suo ex ministro. Come fa a saperlo? «Stavo per scrivergli un messaggio e ho visto che era online».

(ANSA il 20 luglio 2022) - "Questa Forza Italia non è il movimento politico in cui ho militato per quasi venticinque anni: non posso restare un minuto di più in questo partito". Lo afferma in una nota Mariastella Gelmini, ministro per gli Affari regionali e le autonomie, aggiungendo che "Forza Italia ha definitivamente voltato le spalle agli italiani, alle famiglie, alle imprese, ai ceti produttivi e alla sua storia, e ha ceduto lo scettro a Matteo Salvini". (ANSA).

(ANSA il 20 luglio 2022) -  "La demagogia si è mangiata la politica non solo a causa della velleità del M5S, del Pd che pone questioni identitarie, dell'approccio alla politica di Matteo Salvini. Non parlo di Fi per questione di stile. 

Dopo aver votato la fiducia per 55 volte al governo Draghi e sentito quello che ha detto oggi non v'è un fatto politico che cambi il mio voto. Voterò la fiducia". Lo ha detto nell'Aula del Senato Andrea Cangini di Fi in dichiarazione di voto sula fiducia comunicazioni del presidente del Consiglio, in dissenso dal suo gruppo.

Urla, tradimenti e Xanax: la corrida folle dell’Aula. E Casalino salta euforico. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 20 Luglio 2022.

Le facce terree dei dem, l’istinto di Renzi («Si mette male»). E Salvini si stappa una Coca. Cronaca del grande tonfo. 

Rocco, calmati.

«E-le-zio-ni! E-le-zio-ni!».

Rocco, dai, non fare così.

«Ma sono troppo felice! Troppo!» (Rocco Casalino saltella, stringe i pugni, eccitazione efferata: già si immagina finalmente candidato qui al Senato, un bell’accredito sicuro sul conto corrente, l’auto blu. Giuseppe Conte, immobile, osserva il suo spin doctor: l’avvocato di Volturara Appula suda freddo, ha il viso tirato e bianco come la pochette. Sta pensando: questo festeggia, però io intanto ho fatto un casino, ho acceso la miccia della crisi e — adesso — non solo mi sono giocato la reputazione ma, forse, pure la guida del Movimento. Il testimone oculare di questa scena esce dalla stanza dicendo: «Vi lascio soli, che è meglio»).

Il governo, fuori, sta morendo.

Mario Draghi aveva chiesto che la fiducia fosse votata solo sulla risoluzione firmata da Pier Ferdinando Casini. Due righe. Definitive. «Il Senato, udite le comunicazioni del Presidente del Consiglio, le approva». Ma Lega e Forza Italia dicono di no. Avrebbero voluto un Draghi Bis: nuovo programma, nuovi ministri, un’altra storia. I 5 Stelle si astengono.

Dov’è Matteo Salvini?

Eccolo laggiù. Sta entrando alla buvette, chiude una telefonata, ripone il cellulare in tasca. Cronisti intorno. Domande.

Perché in aula lei oggi non ha mai preso la parola? Silenzio.

Si vergogna a metterci la faccia sulla fine di questo governo? Silenzio.

È il suo nuovo Papeete? Silenzio (però s’aggiusta la cravatta e poi stappa una lattina di Coca-Cola: al Papeete Beach era a torso nudo, sudato e barcollante, e vuotava un mojito dietro l’altro).

Accanto a Salvini c’è uno dei suoi più cari amici: Claudio Duringon (quello che giusto un anno fa propose di dedicare un parco pubblico di Latina ad Arnaldo Mussolini, fratello minore del Duce; sorvolando sul dettaglio che il parco era già intitolato a Falcone e Borsellino). Duringon cerca di buttarla in allegria. Mostra al capo la foto del figlio: «Mi somiglia, eh?». Nessuno ride. La Lega è scossa. Salvini, pochi minuti fa, ha cercato di dire qualcosa a Giancarlo Giorgetti, il numero due della Lega, che lo ha — letteralmente, brutalmente — ignorato. Giorgetti aveva abbracciato Draghi alla fine del suo discorso. Un gesto di affetto, una plastica dimostrazione di intesa. Da quel momento, numerose telefonate tra Giorgetti e i governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, che chiedevano rassicurazioni. «Matteo che intenzioni ha?». Ma Matteo era con Giorgia Meloni seduto davanti a Silvio Berlusconi, nella sua villa sull’Appia Antica. «Non strapperemo mica?», chiedeva Zaia. E invece qui s’è strappato tutto, tutto è venuto giù. Adesso arriva la notizia che Mariastella Gelmini lascia Forza Italia. Parole come pietre: «Il Cavaliere ha tradito gli italiani e ha passato lo scettro a Salvini».

Con lei, l’ormai ex ministra Gelmini, che mette su uno sguardo livido e punta l’indice verso la collega Licia Ronzulli. «Sei contenta, ora che hai mandato a casa il governo?». Ronzulli (dietro un paio di occhiali da sole): «Vai a piangere da un’altra parte… e prenditi uno Xanax!».

Poco prima, dichiarazioni sparse. Emma Bonino: «Presidente Draghi, lei ha il dovere di restare». Poi la grillina Barbara Lezzi (ex impiegata in un’azienda di pezzi di ricambio per orologiai, ministro per il Mezzogiorno nel governo gialloverde): «Lei, presidente Draghi…», ma vabbé, niente di interessante. Quindi il capogruppo leghista Massimiliano Romeo: «Qui deve nascere un nuovo governo, con una nuova maggioranza».

Draghi si alza e se ne va.

Matteo Renzi, di puro istinto: «Si mette male». Luigi Zanda (Pd) di pura autorevolezza: «Draghi, nel suo discorso, è stato netto. Ha chiesto di essere messo nelle condizioni di lavorare per il Paese. Ma se a questa richiesta, si replica dettandogli condizioni, proponendogli di allestire un nuovo esecutivo, beh, significa che si vuole andare diritti verso il baratro». Certi, con spensieratezza. Quella del grillino Danilo Toninelli è leggendaria. Da ministro per le Infrastrutture andò a Porta a Porta per poi sganasciarsi di risate davanti al plastico del ponte Morandi, le cui macerie, a Genova, erano ancora fumanti. «Eh eh… certo che cade il governo. Perché, non l’avete ancora capito?».

Sospensione dei lavori. Passa il sottosegretario Bruno Tabacci, l’aria curiale, le parole come fil di ferro. «Sa qual è la notizia? Che Salvini se ne stava nascosto dietro a Conte. E invece eccolo qui, chi è Salvini». Prima sensazione: quelli del Pd, Franceschini, Orlando, Amendola, tutti muro muro, mogi, rassegnati, hanno capito che il centrodestra è tipo maionese impazzita. Seconda sensazione: quelli di FI paiono un po’ a rimorchio dei leghisti.

Circoletti, chiacchiere, teoremi. «Nel suo intervento, Draghi ha picchiato duro anche sulla Lega pensando: se mi riconfermano, sarò più forte; se mi sfiduciano, esco a testa alta». E il Pnrr? E l’inflazione? E la crisi energetica? Ripassa Renzi: «Ragazzi, si va al voto». Salvini e Berlusconi hanno deciso: questo governo deve morire. Lega e FI escono dall’aula. I 5 Stelle non votano. Carlo Calenda su Twitter: «Sarà un caso, ma il governo più serio e atlantista della storia viene mandato a casa da tutti coloro che hanno sostenuto posizioni filoputiniane» (allega foto di Conte e Berlusconi con Putin, più Salvini con la famosa, tragica maglietta).

Ma quello laggiù non è Rocco?

Ma che fa? Ancora?

Paola Taverna sfonna cose e Matteo Salvini vota per il bene dell’Italia: il peggio del palazzo. E poi il sogno della Margherita 4.0, Di Battista contro Di Maio, le giravolte di Conte (che resta pure fuori casa) e il partito della follia. Anche questa settimana una raccolta di frasi incredibili.

Wil Nonleggerlo su L'Espresso il 20 Luglio 2022.

Le peripezie politiche di Giuseppe Conte, la grammatica senatoriale di Taverna e Calderoli, i sogni istituzionali di Mastella e Casalino, passando per la Coccoina di Beppe Grillo e per i manifesti pro-Draghi di Maria Elena Boschi. C'è persino Matteo Renzi che canta “con le mani ciao ciao”. Crisi di governo, caldo torrido, voto di fiducia alle porte: il “microclima” ideale per la fioritura di uno Stupidario come si deve. Leggete responsabilmente.

A casa

++ Giuseppe Conte arriva a piedi a casa ma nessuno gli apre e va via in macchina ++

(Agenzia Ansa – 16 luglio)

Beh allora

“Il nostro non era un 'no' alla fiducia, ma una reazione alle umiliazioni subite”

(Il leader M5s Giuseppe Conte e la crisi di governo spiegata bene, live su Facebook – 16 luglio)

Cosa diceva

“Draghi è un’eccellenza, una persona di valore” (Conte, 5 settembre 2020). “Non sono un sabotatore, da me nessun ostacolo a Draghi che è una persona stimabile, di prestigio” (Conte, 4 febbraio 2021). “Non staccherò la spina al governo Draghi, da parte mia e del Movimento c’è lealtà” (Conte, 8 giugno 2021). “Sosteniamo il governo Draghi in modo leale e costruttivo” (Conte, 5 settembre 2021). “Draghi rimanga a Palazzo Chigi, è il punto di equilibrio” (Conte, 8 novembre 2021). “Bisogna preservare Draghi e il suo governo” (Conte, 23 gennaio 2022). “Il sostegno a Draghi non è in discussione” (Conte, 22 giugno 2022)

(Alcune delle dichiarazioni raccolte da Mattia Feltri nel suo “Buongiorno”, La Stampa – 13 luglio)

Parla la vicepresidente del Senato

Lei. La senatrice grillina Paola Taverna. È venuta in bilico su zatteroni bianchi da spiaggia tipo Kursaal di Ostia. Sguardo spiritato, soffia perfida. “Oggi li sfonnamo de brutto”.

(Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera – 15 luglio)

Parla il vicepresidente del Senato

“Conte non ha fatto votare la fiducia ai suoi: ragazzi, sapete che vi dico? Che mi sento un po’ meglio. Perché ce lo siamo levati dai coglioni!”

(Il senatore Roberto Calderoli dal palco della festa leghista di Osio Sotto, Bergamo – 18 luglio)

Di Battista e i 5 Stelle

“Si appellano al senso di responsabilità quelli che, negli ultimi anni, sono stati responsabili solo del loro culo, tra l’altro flaccido come la loro etica. Parlano di rispetto delle Istituzioni coloro i quali, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, hanno violentato il Parlamento, togliendogli ogni dignità”; “In molti, guardandogli i deretani riconoscerebbero all’istante i loro volti”

(Alessandro Di Battista su Facebook, dopo il non voto del M5s in Senato al dl Aiuti – 19 luglio)

Domanda legittima

“Ricordo ai colleghi della Lega che Salvini ha dichiarato che d'ora in poi la Lega voterà solo provvedimenti utili all'Italia. Ma perché finora abbiamo votato provvedimenti non utili?”

(La senatrice Emma Bonino, intervenendo in aula – 11 luglio)

Totti e Ilary

“E che ti pare che voti quando c’è la pandemia?, e che ti pare che voti quando c’è la guera?, e che ti pare che voti quando sale lo spread?, e che ti pare che voti se se lasciano Totti e Ilary?…”

(Giorgia Meloni, leader Fdi, nel corso di un comizio a Palombara Sabina – 15 luglio)

La scelta delle parole

“Draghi è uno statista, Conte è uno stagista”

(Il leader Iv Matteo Renzi in conferenza presso la Stampa Estera – 18 luglio)

Istantanee dalla manifestazione pro-Draghi

L’onorevole di Italia Viva Maria Elena Boschi posta sui social una foto scattata assieme ad un bimbo (provvisto di mascherina) che portava il seguente maxi-cartello al collo: “Quando ero piccolo mi piacevano i maghi, ora invece mi piace Draghi. Alle magie e alle favole non ci credo più, perciò al mio futuro pensaci tu!”

(Instagram – 19 luglio)

Il sogno di Mastella

“A livello nazionale sogno la Margherita 4.0. Con Renzi, con Toti, con Di Maio”

(Clemente Mastella, sindaco di Benevento, a La Verità – 18 luglio)

Rappresentante di lista

“In tutto questo noi stiamo dietro al sor Tentenna: Giuseppe Conte oggi è il sor Tentenna, non si capisce che vuole fare… vuole andare via dal governo? Vada! Ciao ciao, con le mani ciao ciao”

(Matteo Renzi a Tg2 Post – 13 luglio)

Erano i gemelli del gol

“Nessuno ha mentito come Di Maio nella storia politica italiana, nemmeno Renzi, che in confronto sembra un personaggio del libro 'Cuore'”

(Alessandro Di Battista in un video su Facebook – 18 luglio)

 Avanguardie

Crisi di governo, gli ex M5S Dessì e Petrocelli volano in Nicaragua per festeggiare la rivoluzione sandinista. Intervista ai due ex grillini: “Ne valeva la pena, grande esperienza. Ci aspettiamo le scuse da Conte che ci criticò per il nostro mancato appoggio a Draghi”. (…)

Ma visto che ci siete, da lì farete tappa a Cuba?

Dessì. “A Cuba siamo stati invitati, andremo poi, e torneremo in Venezuela, in Cina e poi quando finisce la guerra anche in Russia”.

Petrocelli. “Dessì ce lo porto se si comporta bene” (ride di nuovo, ndr)

Dessì. “Siamo l'avanguardia modernista del socialismo eheh”.

(La Repubblica – 19 luglio)

La coccoina

Roma, 18 luglio – Il garante del M5S, Beppe Grillo, modifica l’immagine e lo stato del suo profilo WhatsApp, pubblicando la foto della colla Coccoina. È quanto viene riferito a LaPresse da fonti parlamentari vicine al fondatore dei cinque stelle, che vi vedono un chiaro messaggio contro chi rema contro il Movimento e vuole restare attaccato alla poltrona

(LaPresse) 

Il Pd e i tag

“Ora ci sono #cinquegiorni per lavorare affinché il Parlamento confermi la #fiducia al Governo #Draghi e l’Italia esca il più rapidamente possibile dal drammatico #avvitamento nel quale sta entrando in queste ore. @EnricoLetta”

(@pdnetwork, profilo Twitter ufficiale del partito – 14 luglio)

“Pd partito di pinguini”

De Luca alla festa dell’Unità: “Più sei un pinguino, più perdi elezioni, più fai carriera”. Il governatore campano: “Il Partito Democratico ha preso il peggio della Dc e del Pci, i dirigenti a Roma occupano il tempo a creare relazioni tra una carbonara e una amatriciana”

(Corriere del Mezzogiorno – 18 luglio)

Lasciateci il Nobel

“Nei primi mesi di governo molti di voi hanno scritto di come questo Esecutivo sia coinciso con un momento magico per l’Italia: la vittoria dei Maneskin all'Eurovision, il trionfo della Nazionale di calcio agli Europei, Mario Berrettini in finale a Wimbledon, la prima volta per un italiano, le medaglie alle Olimpiadi, tra cui quella straordinaria dei 100 metri, il Nobel per la Fisica a Giorgio Parisi. Una serie di eventi così non si era mai vista. Da quel momento in poi le cose sono andate veramente a gonfie vele: l'Italia non si è qualificata ai Mondiali di calcio, siamo arrivati sesti all'Eurovision, Berrettini non ha partecipato a Wimbledon causa Covid, e ora vivo nel terrore che l’Accademia svedese ci ripensi, e chiami Parisi per dirgli: ci siamo sbagliati, ridacci il Nobel”

(Il premier Mario Draghi alla cena dei corrispondenti della Stampa Estera – 12 luglio)

Sognando il Senato

M5S, gruppo Camera 'licenzia' Rocco Casalino: il contratto non sarà rinnovato. La comunicazione inoltrata via mail: “Non è più richiesta alcuna prestazione da parte Sua” (Adnkronos – 16 luglio).

Il tramonto di Casalino scaricato dai deputati: “Non era mai presente”. Ora sogna la candidatura a senatore ma anche il rapporto con Conte si è logorato (La Stampa – 19 luglio)

Può ripetere?

“Io non voglio l’Africa in Italia! L’Africa in Italia non la voglio! Io non la voglio l’Africa in Italia!”

(Daniela Santanchè, parlamentare Fdi, a Dritto e Rovescio su Rete 4 – 24 giugno)

Grazie direttore

“C’è un solo modo per combattere la povertà, diventare ricchi”

(Vittorio Feltri su Twitter – 13 luglio) 

Il Partito della Follia

Il Partito della Follia creativa è l'ultima creazione di Giuseppe Cirillo, ossia il Dr. Seduction. Dal 2018 in avanti aveva rilanciato la sua prima creatura politico-elettorale, cioè il Partito delle Buone Maniere.

(Gabriele Maestri sul proprio blog, I simboli della discordia – 17 luglio)

“Il comunista Rizzo, l'ex pm Ingroia, e l'ex leghista Donato: sovranisti e rossobruni uniti verso le elezioni”

Sabato il congresso di Ancora Italia a Napoli. Le estrazioni culturali dei promotori sono in alcuni casi agli antipodi, ma le convergenze antisistema (dalla pandemia alla guerra in Ucraina) sono dichiarate e condivise: “Via da Oms, Nato e Ue”. “Sono convinto che un 5% può essere alla nostra portata”, ragiona il senatore Emanuele Dessì, oggi accasato nel Partito comunista.

(Repubblica.it – 18 luglio)

Film festival

Il festival del cinema per ragazzi di Giffoni annuncia l’ospite Orsini ed esplode la baruffa social. “Chiamate Lavrov direttamente”, ha risposto l’ex sindacalista Bentivogli all’account del festival, entusiasta dell’arrivo del docente della Luiss

(Open – 16 luglio) 

Who’s next?

Post sarcastico su Telegram di Dmitri Medvedev, ex presidente russo e attuale vice presidente del Consiglio di Sicurezza di Mosca. Il falco russo ha postato le foto in successione di Boris Johnson e Mario Draghi, poi una figura in nero con il punto interrogativo che sta a significare “chi sarà il prossimo?”

(TgCom24 – 14 luglio)

In memoria di Shinzo Abe

“Uccidere un ex presidente mi sembra più un fatto privato, non credo cambi molte cose. Se uccidessero per dirti… Berlusconi non lo possiamo dire, perché è sempre attivo… se non fosse in realtà Draghi, conterebbe poco… ecco, se uccidessero Conte non capiterebbe molto di memorabile, infatti nessuno lo ucciderebbe… in realtà è un morto che cammina, quindi sarebbe inutile ucciderlo”

(L’onorevole Vittorio Sgarbi a Controcorrente, Rete 4 – 10 luglio)

Incalzarci con la L

“Chiediamo ai cittadini di incalzarci, incalzarci, per fare sempre di più e meglio”

(Il sindaco di Roma Roberto Gualtieri al Tg4 – 11 luglio) 

I've got the devil in me!

Napoli, bacio fra le modelle ai Quartieri Spagnoli, la suora si infuria e le allontana: “Che fate? Che fate? È il diavolo! Gesù, Giuseppe, Sant'Anna e Maria!”

(Fanpage.it – 16 luglio)

Lo zig zag di Conte, l’eterno indecisionista ridotto all’irrilevanza. Sebastiano Messina su La Repubblica il 21 Luglio 2022.  

L'Avvocato è passato dal sostegno leale a Draghi al rifiuto di votare la fiducia. Ora si ritrova verso le elezioni alla guida di un'Armata Brancaleone.

Ha deciso di non decidere cosa andava deciso per decidere chi doveva decidere, ma l'ha deciso quando tutto era già stato deciso. E non da lui, Giuseppe Conte l'Indecisionista. L'uomo che in tre settimane è passato dal "sostegno leale, costruttivo e corretto" a Mario Draghi ai penultimatum con le "urgenze non urgenti" e infine al rifiuto di votare la fiducia ma che, per carità, non era una sfiducia. Con la comica conclusione di ieri, quando ha dato ordine ai suoi di non votare né a favore né contro il governo, dichiarandosi "presenti ma non votanti". Raramente, a memoria di cronista, una crisi di governo ha visto uscire dal campo così malconcio - ridotto all'irrilevanza numerica e all'insignificanza politica - il partito che l'aveva così maldestramente aperta, finendo per essere "messo alla porta" come diceva ieri sera il suo quasi leader.

Conte sceneggiatore del disastro

Di questa disastrosa impresa, Conte è stato lo sceneggiatore, il protagonista e il colpevole. È stato lui ad aprire le ostilità contro Draghi - che ha sempre considerato come l'usurpatore della sua poltrona, l'uomo di quel "Conticidio" che andava vendicato - prendendo a pretesto un pettegolezzo di seconda mano, secondo il quale Draghi aveva chiesto a Grillo di farlo fuori. Pettegolezzo smentito da Grillo e da Draghi, di cui Conte - misteriosamente, improvvisamente, inspiegabilmente - dopo averlo definito "un fatto grave" non ha più voluto parlare dopo aver incontrato Draghi ("È una questione in cui non voglio entrare"). È stato lui a trasformare un problema politico in uno psicodramma, denunciando "mancanze di rispetto, attacchi pregiudiziali, invettive per distruggerci", arrivando a sostenere che "il nostro non è un no alla fiducia ma una reazione alle umiliazioni subite", roba da psicanalista.

La maratona di riunioni del M5S

Ma il suo disastroso capolavoro è stato l'interminabile zigzag tra l'ala irriducibile e quella governista dei cinquestelle, la sua oscillazione permanente tra il mezzo sì e il mezzo no, nel goffo tentativo di non essere abbandonato né da chi voleva la testa di Draghi né da chi voleva restare con Super Mario. Così un giorno prometteva sostegno al governo, "ma serve discontinuità", e il giorno dopo avvertiva: "Stiamo con un piede fuori". Un giorno consegnava a Draghi un papello in nove punti con le "urgenze non urgenti", e due giorni dopo annunciava: "Pretendiamo un cambio di passo immediato". Senza mai prendersi la responsabilità della decisione definitiva: infilando tutto il Movimento in una catena di Consigli Nazionali, assemblee dei parlamentari e riunioni notturne via Zoom che non hanno mai deciso né sì né no. Così, dopo aver votato a Montecitorio la fiducia al governo sul decreto Aiuti, a Palazzo Madama i grillini glie l'hanno negata. Per via del termovalorizzatore di Roma, certo, ma anche per le mancanze di rispetto e le umiliazioni subite, si capisce. Mentre Conte ripeteva ai telegiornali che i due voti erano frutto delle "medesime lineari, coerenti motivazioni".

Adesso che la crisi di governo ha avuto una conclusione assai diversa da quella che prevedeva il suo piano, l'Avvocato del Popolo si ritrova alla guida di un Movimento che conta meno della metà dei parlamentari eletti quattro anni fa ed è crollato nei sondaggi dal 32,7 per cento del 2018 all'11 cento della settimana scorsa, una percentuale che se anche lui riuscisse nell'improbabile miracolo di trasformarla in seggi riporterebbe nel prossimo Parlamento solo 77 pentastellati, contro i 335 dell'ultima volta. Lui che doveva rilanciare i cinquestelle trasferendo su di loro la popolarità conquistata a Palazzo Chigi, in un solo anno ha perso un terzo dei consensi, una settantina di parlamentari se ne sono andati e altre due dozzine facendo le valigie.

Il mai-nato partito di Conte

Chissà come sarebbero andate le cose se Conte avesse dato retta a chi gli suggeriva di fare un suo partito. Ma lui - come ha raccontato il suo superconsulente Domenico De Masi - "ha scartato quell'idea perché era un'operazione costosa e una fatica enorme, scegliendo di prendersi un partito già bello e pronto". Purtroppo, l'impresa si è rivelata più difficile del previsto. "È una faticaccia enorme, non credo che la potrò reggere fisicamente a lungo", confessò dopo soli 35 giorni, 25 comizi e un pranzo con Grillo. Forse, chissà, credeva che guidare un partito fosse una passeggiata, per chi era stato capace di formare due governi, uno con la destra e un altro con la sinistra. E magari si era convinto, leggendo i sondaggi che gli portava Casalino, di avere dentro di sé - senza saperlo - le qualità del leader, ma con l'abilità dell'astuto avvocato che riesce a difendere qualunque causa senza mai sposarla, e dunque può farsi corteggiare dagli eredi della Ditta che vedono in lui il domatore democratico dei grillini selvatici, però si rifiuta di essere chiamato "alleato" e non vuol sentir parlare di "centrosinistra", ma semmai di "fronte progressista" che è come un blazer blu: puoi andarci dovunque.

Sogni di gloria che oggi svaniscono nel nulla. Dopo la figuraccia rimediata nella battaglia per il Quirinale, dove candidò a sua insaputa il capo dei servizi segreti, Conte ha sfidato a duello Draghi ma ha perso senza neanche combattere. E ora si ritrova sulla strada che porta alle elezioni anticipate alla testa di un Movimento ridotto a un'Armata Brancaleone che ormai è solo l'ombra slabbrata di quell'esercito di giustizieri senza macchia e senza paura che voleva fare la rivoluzione a cinque stelle. 

Giù dalla giostra. La strada senza uscita di Conte, prigioniero della sua mediocrità politica. Mario Lavia su L'Inkiesta il 19 Luglio 2022.

L’avvocato di Volturara Appula non riesce a tenere le redini del suo partito che in massa rischia di abbandonarlo al suo destino, sostenendo il governo Draghi. O si arrende e vota la fiducia o va all’opposizione ma senza alcun credito.

Un uomo di quasi 58 anni – li compirà tra qualche giorno – avvocato e politico per caso sta tenendo in ostaggio il governo italiano, le Camere, persino il Quirinale contro il mondo libero, la maggior parte del Parlamento, vastissime aree della società italiana, sindaci, giornali, imprenditori. Barricato come Jean Gabin in Alba tragica in due palazzi vicinissimi tra loro nel pieno centro della Roma del potere, l’uomo è circondato, e proprio per questo rischia di diventare un pericolo pubblico. 

La situazione è in evoluzione, di certo non potrà andare avanti: mercoledì o la va o la spacca, probabilmente ci si conterà e il politico per caso perderà. Tutto il mondo politico lo schifa, ormai, tranne i soliti ammaccati aficionados che si autodefiniscono di sinistra, scambiando la missione della sinistra con il solito casino antistituzionale in nome – ça va sans dire – delle ragioni dei lavoratori (e pazienza se salterà il Pnrr, si farà una bella manifestazione con Landini e Bombardieri). 

Anche se Mario Draghi andrà avanti, si avvicina il momento in cui il Partito democratico, principale responsabile del lungo corteggiamento dell’uomo in queste ore barricato, dovrà dire da che parte sta. 

E intanto l’avvocato e politico per caso si vede sbalzato dalle comode poltrone del potere sulle quali lo avevano issato i populisti e i loro amici dopo aver carpito il voto di tanti italiani convinti da un Mangiafuoco genovese che loro avrebbero cambiato l’Italia, antica promessa di demagoghi e dei qualunquisti. 

Ma ecco che a un certo punto, inevitabilmente, la storia ha girato e non è bastato un Ciampolillo a salvare quest’uomo sempre più privo di idee – quelle poche che aveva le aveva tutte gettate nella palude fangosa del potere, sapete quelle fosse d’acqua stagnante dove nei film americani i gangster gettano i cadaveri. 

Al presidente del Consiglio Mario Draghi mezzo mondo chiede di continuare:  parliamo di Joe Biden, non Clemente Mastella. Mentre il nostro uomo, sudaticcio e afono, vede tanti dei suoi mandarlo a quel Paese, vedremo oggi quanti deputati lasceranno l’ex Movimento insieme al capogruppo Crippa. 

L’uomo di Volturara Appula non sta tenendo il partito, com’era per tante ragioni (anche di emolumenti mensili) prevedibile, e gli hanno consigliato (Enrico Letta) di ripensarci e votare mercoledì anch’egli la fiducia dato che una marea di (ex) grillini farà così.

L’avvocato del populismo è così giunto a un bivio drammatico: o si arrende e vota la fiducia – e dovrebbe chiedere scusa al Paese – o va all’opposizione ma senza alcun credito, non ha il fisico per fare il Fuggitivo come Harrison Ford, non è un capopopolo, un Masaniello, un Jean-Luc Mélenchon, un Jeremy Corbyn, nemmeno un Pier Luigi Bersani. 

L’uomo, a 58 anni, è un politico per caso che sta per scendere dalla giostra, e non per caso.

Emanuele Lauria per repubblica.it il 20 luglio 2022.  

L'evoluzione della crisi fa esplodere platealmente lo scontro dentro Forza Italia. Nell'Aula di Palazzo Madama, poco dopo le dichiarazioni del premier Mario Draghi, il ministro per gi affari regionali Maria Stella Gelmini, capo delegazione di Fi nel governo, ha attaccato verbalmente la senatrice Licia Ronzulli, stretta consigliera di Berlusconi e delegata ai rapporti con gli alleati.

"State facendo cadere il governo per seguire la linea della Ronzulli", ha urlato Gelmini puntando il dito verso i banchi dei senatori dove era seduta Ronzulli insieme ai forzisti Gallone e Toffanin. La senatrice ha replicato alla collega: "Prenditi uno Xanax, la linea da noi la dà solo Berlusconi". Momenti di tensione che sono proseguiti anche fuori dall'Aula. 

Gelmini, nei giorni scorsi, si era spesa a favore di una prosecuzione "senza condizioni" del governo Draghi, mentre Ronzulli è considerata una delle esponenti di Fi più dialogante con la Lega, seppure, fanno sapere da Forza Italia, in questi giorni ha lavorato per trovare una soluzione di continuità per il governo Draghi. 

Poco prima, la ministra aveva risposto così a chi le chiedeva cosa avrebbe fatto nel caso in cui Forza Italia avesse optato per negare la fiducia a Draghi. "Non lo so", ha risposto Gelmini dopo un lungo silenzio. 

Gelmini lascia Forza Italia: «Quello che è successo ieri è gravissimo: Putin sarà soddisfatto. Il mio futuro? Rifletto». Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 20 luglio 2022.

Venticinque anni di fedeltà, l’ultimo in verità piuttosto contrastato è sfociato due mesi fa in un durissimo attacco al leader per il suo atteggiamento giudicato ambiguo sulla guerra in Ucraina. Si è rotto in pochi mesi il rapporto di con il Cavaliere e il suo partito. E non si è mai più ricostruito, anche se sul suo futuro la ministra uscente degli Affari regionali non si sbilancia su un suo futuro approdo: «Non ho preso alcuna decisione, non so cosa farò. Rifletto, ci penserò».

Perché sbattere la porta? «Quello che è successo ieri è gravissimo. La crisi si era aperta a causa delle convulsioni del M5S: non era facile riuscire a prendersi la responsabilità di portare il Paese al voto in mezzo a una crisi senza precedenti, con l’inflazione ai massimi da quaranta anni, e una guerra. La FI che ho conosciuto in questi venticinque anni di militanza e di impegno politico, sarebbe stata dalla parte di Mario Draghi, che ha fatto un ottimo lavoro, è un convinto europeista, e che certo non è di sinistra».

E perché non è successo? «Vuole la verità? Lega e FI il governo lo hanno sempre sopportato e non supportato. E già dalla settimana scorsa la Lega ha cominciato a mettere paletti, fino ad arrivare a prefigurare la richiesta di sostituire un ministro come Lamorgese (che non è dei 5 Stelle!), senza che da FI si alzasse una sola voce critica. La gestione di ieri è stata la rappresentazione dell’appiattimento acritico sulla Lega ed è stato il colpo definitivo di una storia ultra ventennale di battaglie liberali, riformiste ed europeiste. Avranno anche il consenso dei tassisti probabilmente, ma non quello di chi crede nelle riforme, nell’UE, nel liberalismo e nella concorrenza. Non potevo restare un minuto in più in un partito che non riconosco».

Lega e FI si fonderanno per contrastare la Meloni? «L’opprimente osmosi con la Lega era evidente da tempo. Mentre gli altri partiti di maggioranza riunivano i gruppi, le delegazioni di governo, i dirigenti, i vertici di FI parlavano solo con Salvini e con un ristretto cenacolo di dirigenti azzurri che meriterebbero la tessera ad honorem del Carroccio. I nostri parlamentari consultati solo a decisioni prese. E per quale risultato? Le elezioni ci sarebbero comunque state al più tardi in primavera: non far niente per impedirle adesso, mentre da ogni dove arrivavano appelli ad anteporre gli interessi del Paese, ha significato mettere a rischio gli obiettivi del Pnrr, la legge di bilancio, il nuovo decreto Aiuti che era in gestazione... Un danno enorme per il Paese e un passo che indebolirà il fronte occidentale. Putin sarà soddisfatto».

Però FI e Lega hanno proposto un nuovo governo senza i 5stelle. «Sì, dopo che il premier ha ribadito che non ci sarebbe stato un altro governo da lui guidato... Potevano direttamente chiedere le urne. Sarebbe stato più onesto».

Però oggi FI e Lega, con FdI, sfideranno un «campo largo» di centrosinistra affondato da Conte: non era un’occasione da sfruttare? «Il centrodestra non è più tale e non è neanche una destra-centro. È semplicemente un cartello elettorale populista e sovranista: si uniscono per vincere ma hanno posizioni diverse su tutto. Dai vaccini, alla politica estera. Lega, FI e FdI hanno sostenuto fino a ieri tesi diverse, pure sul Pnrr con la Meloni. Anche ammesso che questa destra, che è riuscita anche a “consegnare” Draghi alla sinistra, vinca le elezioni, difficilmente riuscirà a guidare il Paese verso la direzione giusta».

I suoi colleghi di governo come la pensano? «Credo che siano come me basiti, ma non posso rispondere per loro. Certamente anche loro hanno sofferto la totale estromissione dalla gestione del partito. Siamo sempre stati per tutti questi mesi isolati al governo. FI anziché rivendicare i risultati di un esecutivo che le tasse ha iniziato a tagliarle, che ha gestito bene la pandemia, che ha avviato un’enorme opera di differenziazione energetica, ha continuamente messo i bastoni fra le ruote in Parlamento. Il buono che è stato fatto sulle riforme rischia di andare al macero. Chi voleva subito uno scostamento di bilancio per aiutare famiglie e imprese, ha affossato il decreto Aiuti che il governo stava predisponendo. Adesso se ne riparla dopo le elezioni... prima i voti, poi le famiglie...».

Che resta del suo rapporto con Berlusconi? «FI si è disciolta nel populismo salviniano. La FI che ho conosciuto non avrebbe avuto dubbi nello scegliere fra Draghi e le pulsioni sovraniste di Salvini, e non avrebbe permesso che il presidente Berlusconi, che ha fatto grandi cose per il Paese, e che ha pagato per questo un prezzo alto, si allineasse a questa destra. Ho provato a convincerlo, ma è evidente che ha fatto la sua scelta, e io ho fatto la mia. Continuo a nutrire per lui stima e affetto. Pensare però che questa storia politica venga dissipata dentro la nuova destra trumpista e lepenista, mi addolora molto. Ma non posso far finta di nulla».

Francesca Schianchi per “la Stampa” il 21 luglio 2022. 

Di buon mattino, Pier Ferdinando Casini solca a grandi passi il Salone Garibaldi ancora semideserto: «Cosa succede oggi? Ma nienteee», sorride sornione, la cravatta con tante piccole coccinelle portafortuna, il mood rilassato. All'ora di pranzo, dopo il discorso di Draghi, mentre il M5S chiuso nei suoi uffici con Conte non è più percepito come un problema, perché i riflettori si sono spostati sul centrodestra e inizia a diffondersi la voce che chissà, forse Lega e Forza Italia non votano, Casini si aggira scuro in volto: «Ero molto più tranquillo stamattina». 

A sera, a pochi minuti da quel voto che, con 95 sì e 38 no, certifica la fine dell'avventura di Draghi a palazzo Chigi, il senatore bolognese scuote la testa, la giornata sulle montagne russe è finita e l'ultimo tornante è stato fatale, «lasciatemi solo nel mio dolore». Eppure, ci aveva provato lui a intervenire, con quella risoluzione asciutta, una riga sola - «ascoltate le comunicazione del presidente del consiglio, il Senato le approva» - su cui viene posta la fiducia e attorno a cui per qualche ora nel pomeriggio il Pd ancora spera di compiere il miracolo, in un tourbillon di indiscrezioni e ipotesi: tutto inutile, al tramonto il governo Draghi non c'è più, manca l'ufficialità delle dimissioni ma è solo questione di ore.

Che la spensieratezza del mattino fosse mal riposta - l'ottimismo del segretario Letta che si aspettava «una bellissima giornata», Matteo Renzi che prevedeva «finirà bene» - lo si capisce presto, già dopo dieci minuti dall'inizio delle comunicazioni del premier. A partire da quando, dopo aver ringraziato le forze politiche per i risultati ottenuti fin qui, declama retoricamente «mai come in questo momento sono stato orgoglioso di essere italiano» e tutta la maggioranza applaude, tranne lo spicchio popolato dai Cinque stelle, giusto un paio azzardano il battimani, un'esibizione di ostilità che li accompagna per tutti i trentacinque minuti in cui lui scandirà le sue proposte per un «nuovo patto di fiducia». 

Un'ostilità che monta come un'onda e investe anche la parte destra dell'emiciclo, lì dove Salvini siede tra Bagnai e Calderoli, e prende appunti: ci attacca sui balneari, sui taxi, sul fisco Alla fine, mentre Pd e Forza Italia applaudono come si fa al proprio governo, il segretario del Carroccio chiama a raccolta i suoi: «Andiamo ai gruppi», l'incertezza sul da farsi si solidifica, la tentazione della Meloni che da lontano denuncia «il premier pretende pieni poteri» citando testualmente la famosa frase salviniana pre-Papeete di tre anni fa rimbomba nella testa, cambia l'umore nel Palazzo e alla buvette, crocevia di incontri e chiacchiere.

«Certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano», sorride Mara Carfagna che da dove era seduta ha visto bene la saldatura dei due partiti a braccia conserte. «L'approccio del discorso di Draghi era tutto sbagliato», commenta Renzi alla buvette con Calderoli. 

I Cinque stelle si riuniscono: non annunciano ancora che non voteranno la fiducia, ma a vederli da fuori lasciano pochi dubbi. I leghisti prima si consultano fra loro e poi vanno in delegazione a Villa Grande, la residenza romana di Berlusconi. In Aula il dibattito comincia, tra gli scranni pochi senatori, nei banchi del governo il pienone: mancano solo loro, i ministri di Lega e Cinque stelle, gli incerti che non sanno più se di lì a poco voteranno la fiducia a se stessi.

 «Io penso che lei debba restare, e non faccio parte dell'intergruppo "Torna a casa Lassie" né "Resta con noi"», scherza Emma Bonino, occhi negli occhi col premier che ci ride su. Al suo fianco Guerini e Di Maio, ministri fedelissimi che fino all'ultimo puntano sulla soluzione non traumatica del rebus, poco più in là Carfagna, Brunetta, Gelmini: mentre a qualche chilometro si decide che non si voterà la risoluzione, loro sono lì, al fianco del premier, «se sarò ancora ministra questo fine settimana? 

Beh, non so ancora se nel pieno delle funzioni o per gli affari correnti...», diceva la mattina Maria Stella Gelmini con un gran sorriso, e sembrava un vezzo di superstizione: poche ore più tardi ancora un po' si prende per i capelli con Licia Ronzulli, la fedelissima berlusconiana con cui non corre buon sangue, ala filo-Lega del partito: «Contenta che hai mandato a casa il governo?», l'attacco della ministra; «Vai a piangere da un'altra parte e prenditi uno Xanax», la serena risposta della collega. 

Continua il dibattito in Aula, pigro, tra qualche citazione dei «sacchi da mettere alle finestre» (La Russa) e gli «opinionisti col Rolex», rivisitazione dei celebri comunisti col Rolex (De Bertoldi, Fratelli d'Italia): Draghi sta lì, fisso, ascolta, prende appunti, ma sa bene, sanno tutti, che le notizie vere sono fuori dal Palazzo. Distillate dalle agenzie, dalle «note del centrodestra di governo» che come le briciole di Pollicino disegnano il percorso e anche chi non ci credeva, chi nel carnaio bollente che diventa a un certo punto il Salone Garibaldi insisteva che no, non è possibile, Berlusconi non gli consentirà di far cadere il governo, si arrende all'evidenza: governo solo senza M5S, «profondamente rinnovato», non voteremo la risoluzione Casini, quando il capogruppo Romeo prende la parola la volontà di rompere è evidente.

Dopo aver innescato il meccanismo, il Movimento mentre tutto questo accade sta riunito da qualche parte, attore non protagonista, ormai più nessuno si chiede cosa farà: alla fine non vota ma resta in Aula per garantire il numero legale, «chiedere una delega in bianco mortifica il nostro ruolo», giustifica la scelta la capogruppo Castellone, quanta suspense per sei giorni per non giocarsi nemmeno un colpo di scena. Dopo la replica livido in volto, Draghi sembra quasi sollevato, insolitamente sorridente. Tra i partiti è già cominciato un improbabile scaricabarile su chi ha fatto cadere il governo: la campagna elettorale è appena cominciata.

Il tramonto di SuperMario da salvatore a impallinato. Paolo Guzzanti il 21 Luglio 2022 su Il Giornale.

Ipotesi sul futuro dell'ultimo tecnico al governo. Dal Quirinale sfumato allo sgambetto di Conte.

Sembra ieri. Quando prendeva corpo la candidatura di Draghi al Quirinale si levarono voci molto sensate che dicevano: al Quirinale? Ma Draghi è a Palazzo Chigi per svolgere un lavoro, anzi una missione. Quella di consentire all'Italia di incassare tutti fondi europei concessi o concordati in cambio di riforme. Siamo già in un altro mondo e in un'altra dimensione che ci porterà presumibilmente ad elezioni ad ottobre, cosa ancora mai accaduta nella storia repubblicana. È giustissimo perché da troppi anni l'Italia, governata in perenne stato di emergenza che non permette che una relazione di causa effetto fra ciò che la gente pensa e vuole e il capo dl governo; se ricordiamo bene, l'ultimo Presidente del Consiglio emerso come vincitore e per questo incaricato di governare fu Silvio Berlusconi contro il quale fu ordita una trama sudamericana che trovava sponda e ispirazione nello stesso Quirinale.

Ora tutti si chiedono che ne sarà di Draghi, impedito di concorrere per il Quirinale, e messo a rosolare sul grill delle trame grilline. E così, un altro «Super Mario» dopo Monti, se ne va a meno che non succeda qualcosa che oggi non è possibile prevedere. La sua caduta è diventata un preoccupante evento internazionale di cui tutti i giornali più importanti parlano con preoccupazione e l'Italia per ora perde quella posizione di leadership europea fondata sulla figura e il prestigio personale, la postura, la voce, le cadenze dell'ex Presidente della Banca Europea.

Lo sgambetto glielo ha fatto l'avvocato Giuseppe Conte, per due volte primo ministro (per caso) di governi a geometria variabile, ora di estrema destra e poi di estrema sinistra, un'autentica rovina per l'Italia del Covid quando tutto il mondo era convinto che il Covid fosse una malattia soltanto cinese e italiana. Di lui, Conte, si ricorderà ad imperitura memoria che è stato l'unico caso di governo a far entrare in Italia una formazione militare russa in uniforme e con bandiere al vento, che sarebbe venuta per aiutare i poveri italiani ad affrontare il Covid.

Poi venne Renzi che fece cadere Conte e cominciò la nuova era. Un'era che finisce quando Conte ritorna e fa cadere Draghi sostanziamene chiedendo un diverso schieramento dell'Italia sulla questione dell'invasione russa in Ucraina. In fondo, i russi li aveva già chiamati una volta per vedere come si facevano da noi le iniezioni.

Ieri Draghi sembrava un uomo più sconcertato che indignato, anche se l'indignazione traspare. Ha risposto a tutti coloro che lo accusavano praticamente di «cesarismo», cioè di aver deliberatamente messo da parte le proposte di legge divisive di iniziativa parlamentare come il decreto Zan o lo «Ius scholae» per rispettare la coesione di una maggioranza.

È certo che se la sua caduta definitiva sarà confermata come di fatto sembra, la questione del seguito della sua vita appare se non oscuro almeno complesso. Si è parlato di lui frequentemente come di un possibile candidato alla successione del segretario generale della Nato Stoltenberg, ma ormai la situazione è molto fluida perché di fatto il mondo occidentale è in preda alla disfatta politica: in America Biden è in caduta libera, Boris Johnson ha lasciato, Emmanuel Macron non è più nella pienezza dei poteri, il neo cancelliere Sholtz è investito da uno scandalo di festini sessuali, l'ex grande leader giapponese Abe è stato ucciso e, buon ultimo, Draghi è stato fatto fuori dalle manovre interne e scissioniste di un movimento che non ha alcun radicamento storico come i Cinque Stelle che nasce dalle battute teatrali di un comico. In questa situazione Draghi si è trovato in scacco senza neppure aver capito bene la logica degli eventi che lo hanno portato al massacro. Fino all'ultimo ha puntato sui tentativi di mediazioni sul salario minimo e tutte le altre richieste e proposte sempre senza cambiare espressione del viso, senza perdere apparentemente la calma. Insomma, poveraccio, ha davvero cercato di fare «whatever it takes» ma la sua era una pura illusione. La vera partita si è giocata fra le forze che vogliono andare alla conta del voto e quelle che resistono, ma alla fine le carte si sono rimescolate quando il centrodestra, Berlusconi e Salvini, si siano trovati d'accordo sul fatto che l'arte maggioritaria degli elettori non può più essere confiscata del diritto di votare e scegliere la maggioranza che governerà il Paese. Nessuno per ora prende in considerazione una eventualità che potrebbe complicare lo scenario: e cioè che Draghi possa presentarsi alle elezioni. Nel passato gli esempi sono finiti malissimo: Lamberto Dini ci provò dopo essere stato premier e perse miseramente così come perse male il partitino di Mario Monti, il Super Mario con il loden. Draghi, ha per così dire, una prudenza ambiziosa e non si esporrebbe mai ad un bagno elettorale, ma c'è chi ci pensa. Quel che è certo è che l'epoca nefasta ed eccezionale della peste, della guerra e della gran carestia sarà governata dai politici di professione.

Il premier non ha saputo ascoltare il Parlamento. Draghi e il discorso populista che non ha funzionato: “Me lo chiede l’Italia”. David Romoli su Il Riformista il 21 Luglio 2022. 

Il compito era difficile e lo si sapeva in anticipo. Per molti versi era una delle principali preoccupazioni del Quirinale alla vigilia dello showdown parlamentare di ieri: si trattava di trovare un punto d’equilibrio delicato tra fermezza e apertura, tra disponibilità ad ascoltare le esigenze dei partiti e indisponibilità a esserne ostaggio sino alla paralisi. Sarebbe stata una missione ardua per chiunque e tanto più per un leader che non è un politico di professione, non è avvezzo alla mediazione a volte estenuante che è il prezzo della democrazia parlamentare. Sta di fatto che quell’obiettivo Mario Draghi non lo ha centrato.

Il suo discorso, molto atteso, dai contenuti ignoti sino all’ultimo secondo, ha reso tutto molto più difficile. Draghi ha affermato che se non escludeva la possibilità di proseguire nell’esperienza di governo era perché “lo chiedeva il Paese”, in una sorta di rapporto diretto tra il premier e il Paese che aggira e ignora la mediazione del Parlamento. Una posizione che, a ben guardare, non è dissimile nella logica di fondo da quella del vituperato “populismo”. In questo caso, è vero, il sostanziale disprezzo per il Parlamento e per i suoi riti non è mosso in nome dell’ “uno vale uno” di grillina memoria ma, al contrario, in nome della superiore competenza del tecnocrate che tuttavia si rivolge direttamente al popolo, capace di apprezzare i suoi risultati, a differenza di una politica avviluppata nelle sue trame. Ma la differenza, pur reale, maschera le somiglianze. La tecnocrazia e il populismo rappresentano le due braccia della stessa tenaglia.

Al Parlamento, nella sostanza e a tratti anche nella forma, il premier chiede una cosa sola: di approvare le decisioni del governo. Del resto è una visione che aveva già illustrato senza perifrasi alcuni mesi fa: «Il governo ha la responsabilità di decidere. Ai partiti spetta il compito di garantire l’appoggio parlamentare alle sue decisioni». Non è precisamente quel che avevano in mente i costituenti quando scelsero di costruire una democrazia parlamentare. Si può discutere su quanto sia stata reale e quanto mediatica la “mobilitazione” del Paese, l’invocazione rivolta a Draghi perché tornasse sulla sua decisione. Ma il punto in realtà non è questo: è sull’opportunità di brandire il sostegno popolare invece di quello parlamentare e quasi in contrapposizione a quello parlamentare.

Draghi è morto, il ‘campo largo’ nì: Zanda apre all’alleanza “tattica” con Conte e 5 Stelle dopo la sfiducia

Draghi doveva essere fermo, su questo non c’è dubbio. In caso contrario l’eventuale retromarcia, la decisione sofferta di rimangiarsi la stentorea affermazione secondo cui non era possibile alcun governo senza l’M5s sarebbe apparsa come un cedimento di portata tale da travolgere la credibilità del premier. Non c’era però alcun bisogno di vibrare mazzate come quelle che ha scelto di sferrare il premier, chiamando in causa la differenza tra una visione della democrazia europea e una “putiniana”, rinfacciando alle forze prese di mire di attaccare chi invece di garantire “un sostegno convinto all’azione dell’esecutivo” offre quel sostegno “a proteste non autorizzate, e talvolta violente, contro la maggioranza e il governo”.

Quello che è arrivato al pettine ieri è un nodo la cui esistenza era nota da lungo tempo: non si è trattato affatto di una vampata improvvisa e imprevedibile. Draghi ha sempre interpretato il suo ruolo come quello di un commissario straordinario molto più che non come quello di un premier sostenuto da una pur anomala e divisa maggioranza parlamentare. I partiti vivevano già con massimo fastidio il commissariamento nella prima fase del governo. Lo avevano manifestato nel modo più vistoso e clamoroso con lo sgambetto che aveva precluso al premier la via del Colle. Quel segnale poteva essere colto, come a lungo ha consigliato Mattarella di fare a Draghi oppure, al contrario, poteva moltiplicare il fastidio del premier per le alchimie e le strade tortuose della politica. Nella prima ipotesi, quella suggerita dal Quirinale, il premier avrebbe dovuto fissare alcuni paletti insuperabili ma per il resto trattare con le forze politiche. Nella seconda ridurre invece ulteriormente i margini di trattativa.

Draghi ha imboccato la seconda strada e l’ha confermata ieri. Nel suo discorso non ha delegato alcuno spazio alla mediazione con i partiti. Forse lo ha fatto perché il mestiere di politico non si impara da un giorno all’altro e in questo caso Mario Draghi si è reso involontariamente la vita più difficile da solo. O forse, come molti sospettano ma senza che ce ne sia alcuna prova, ha invece reso freddamente la pariglia a chi gli aveva imposto di revocare in dubbio la scelta delle dimissioni. David Romoli

Passi falsi, ingenuità e provocazioni finali. Così SuperMario ha cercato la rottura. Paolo Guzzanti il 22 Luglio 2022 su Il Giornale.

Non avvezzo alla politica, s’è affidato solo a Letta nella gestione del rapporto con i riottosi grillini. Ambizioso, s’è detto pronto a fare il capo dello Stato. Poi, stufo dei giochini di palazzo, s’è fatto licenziare

Draghi probabilmente ha commesso errori che non sapeva valutare proprio perché ciò che sembra: un politico, prestato alla politica e amato politicamente proprio perché sembra estraneo alla politica. Quello che probabilmente non è compreso è che tutto ciò costituisce l'essenza di un uomo politico. Però al tempo stesso questa e stata la sua debolezza perché la mancanza di esperienza nella politica politicante gli ha fatto commettere errori ora ingenui ora venati dall'ostinazione. La sua idea di convocare nel palazzo del governo un unico leader Enrico Letta perché gli sembrava il più usabile nella gestione scomposta e trasandata di quel che resta del M5s, è stata una gaffe che non si può spiegare soltanto con la disattenzione. Diciamocela tutta: Mario Draghi è un uomo di destra che risponde a tutte le caratteristiche migliori della migliore destra: uno che crede col cuore e con la mente alla democrazia liberale e che insorge di fronte alla violazione sfacciata delle leggi internazionali. Senza se e senza ma. Punto. Alla gente, agli elettori, piacciono le persone senza se e senza ma. Tuttavia, la politica della realtà è molto più complicata, contiene rituali che in genere sfuggono anche ai giornalisti parlamentari con maggiore esperienza e possiamo supporre, solo supporre, che il senso pratico di cui è straordinariamente ricco, gli abbia fatto intravvedere delle scorciatoie che non esistevano.

C'è un problema di fondo e lo conosciamo bene: la sinistra non ha idee sufficienti per camminare con i suoi piedi ma è alla continua ricerca di bastoni che poi si rivelano serpenti. La testardaggine gli Enrico Letta nel volere oltre ogni limite ragionevole mantenere nel suo recinto la riserva indiana dei 5 Stelle è la causa della instabilità e di tutti gli equivoci di fondo su cui poggia la politica dei governi che si sono succeduti all'ultimo di Silvio Berlusconi proprio perché fu l'ultimo dei governi espressi da una volontà popolare.

È il momento in cui si ripassa alla moviola tutto ciò che Draghi ha detto, fatto, lasciato credere, realizzato o promesso per il nuovo gioco di società: la caccia all'errore del drago. Il primo che noi ricordiamo fu la sua sorprendente e un po' imbarazzante disponibilità ad andare al Quirinale sostenendo il contrario di ciò che ha sempre detto. E cioè che lui si trova a Palazzo Chigi per gestire con competenza, rapidità e soddisfazione i fondi europei indispensabili all'Italia per mettersi allo stesso livello delle grandi democrazie europee, visto che l'Italia non è sempre vissuta come una grande democrazia europea ma come la caricatura della democrazia. Ieri In Inghilterra girava una vignetta di Banksy in cui la Camera dei comuni appariva abitata da scimmioni. Si sa che gli inglesi non vanno sempre per il sottile: il senso era in una domanda: «Siamo diventati equivalenti agli italiani?».

Che Draghi abbia tutte le caratteristiche di un liberaldemocratico conservatore è evidente, tanto che il suo sponsor naturale è stato proprio Berlusconi che del resto lo aveva proposto per la banca centrale europea tirandosi addosso le ire del Presidente Cossiga, ma la conseguenza è sempre la stessa: il Pd, o comunque si sia chiamato in passato, è un fan storico dei governi democratici di destra perché gli tolgono le castagne dal fuoco. E Draghi sa benissimo che sulla sua immaginaria appartenenza si è giocata una partita delicatissima che purtroppo ha per ora vinto Conte lasciando sbalordito il centro destra. C'è anche il caso che Draghi, pur essendo perfettamente consapevole del delicato equilibrio fra essere e apparire, abbia giocato una mano masochista: mandare al diavolo tutto per chiamarsi fuori dalla politica, ma agendo con procedure formalmente impeccabili ma facendo scattare una risposta sorpresa e irritata proprio dal centro destra che più gli somiglia. Quel che è certo è che nessuno si aspettava una sequenza di sorprese che, secondo le voci di palazzo, avrebbero messo in crisi lo stesso Presidente della Repubblica. È stato un po' come tirare la palla in tribuna nel momento in cui stai per segnare e questo gesto inatteso ha scompaginato l'iniziativa del governo che stava procedendo come accade sempre alla vigilia delle elezioni, fra maree e marette. Ma resta il dubbio: può un uomo così sottile ed esperto aver assecondato una catena di errori evitabili?

Marcello Sorgi per “la Stampa” il 23 luglio 2022.

Ci vorrà tempo per sapere con certezza chi ha armato la mano che ha pugnalato Draghi in Senato e quanto lunga è la lista dei pugnalatori. Dal Quirinale trapela una certa irritazione per la versione "a discolpa" fornita da Berlusconi, secondo la quale ci sarebbe stato un mezzo via libera dal Colle alla proposta del centrodestra di dar vita a un Draghi bis senza i 5 stelle, iniziativa che il premier giudicò provocatoria e che determinò un'accelerazione dello scioglimento della maggioranza di unità nazionale.

In realtà, che il clima in Parlamento fosse tale da non consentire al governo di andare avanti, Draghi lo aveva capito da tempo: indicativo, del resto, era stato il modo in cui a gennaio era scattato uno sbarramento alla sua candidatura al Quirinale. La descrizione del presidente del Consiglio dell'indisponibilità a consentire all'esecutivo di realizzare le riforme necessarie per il Pnrr, mercoledì nelle "comunicazioni" a Palazzo Madama, sarà stata pure urticante, ma era senz' altro realistica.

E la giornata parlamentare arrotolatasi fino all'ultimo nelle sue convulsioni ha dato prova di una generale incapacità a trovare un compromesso che potesse consentire al governo di andare avanti. Ora arriva anche una ricostruzione di Renzi, che rivela a Bruno Vespa come anche il centrosinistra avesse tentato la strada di un bis, con il sostegno o l'appoggio esterno di Conte, tornato sui suoi passi, e che sarebbe stata questa manovra a sollevare la reazione del centrodestra.

L'una e l'altra iniziativa - ammesso che la rivelazione renziana sia confermata - avrebbero avuto come risultato la conclusione dell'esperienza dell'unità nazionale. Fondata, come si sa, sull'equidistanza e sulla collaborazione simmetrica, non sotto forma di alleanza, ma di stato di necessità, delle due coalizioni, adesso in lotta per scaricarsi addosso la colpa del crac del governo e di aver fatto ruzzolare l'Italia verso una tornata di elezioni anticipate in autunno in una fase di emergenza. 

Non che sia proprio indispensabile, vista l'evidenza dell'accaduto, accertare di chi sia stata la colpa: presto infatti saranno i problemi del Paese a richiamare i partiti dalla campagna elettorale a nuove, difficili prove. Sperando che, dopo aver compiuto il disastro, siano in grado di affrontarle. 

Mario Draghi, perché il centrodestra non ha colpe: chi l'ha fatto cadere. Giuseppe Valditara su Libero Quotidiano il 3 luglio 2022

È in corso il tentativo di scaricare sul centrodestra la responsabilità della crisi di governo. Ricostruiamo i fatti e poi le persone valuteranno. Il M5S non vota la fiducia su un provvedimento decisivo per il governo: il ddl "Aiuti". Draghi si dimette ritenendo impossibile continuare a governare con il partito di Conte. Nelle ore successive i grillini mandano a Draghi una serie di richieste irricevibili come condizione per continuare a collaborare. Su pressione di Mattarella Draghi ritira le dimissioni e si presenta in Parlamento. Il centrodestra unito si dichiara disponibile ad appoggiare un governo Draghi bis ma senza i 5 Stelle dato che le loro proposte sono ritenute incompatibili come lo stesso Draghi aveva denunciato.

Sarebbe in effetti una pagliacciata ridurre tutto a tarallucci e vino. Il giorno precedente il voto, Draghi vede per una lunga ora Enrico Letta. Dopo le proteste del centrodestra, escluso dalle consultazioni, in serata ne sente i leader. 

Si arriva a mercoledì. Anziché fare un discorso dialogante e di apertura, Draghi bacchetta insieme 5 Stelle e Lega, mettendoli sullo stesso piano, contestando fra l'altro le aperture di questa alle istanze dei tassisti. Il suo appare subito un discorso molto duro, del "prendere o lasciare", alla fine si dice però disponibile a proseguire anche con il partito di Conte smentendo se stesso. Gli sfugge che la politica è rappresentanza di interessi, mediazioni, dialogo. Un premier non eletto dai cittadini in una democrazia non può impedire a parlamentari eletti dai cittadini di mantenere canali di comunicazione con i loro elettori.

Fra l'altro la Lega ha sempre votato lealmente ogni provvedimento. Non altrettanto ha fatto il Pd che ha votato contro il governo sull'ex Ilva insieme con i 5 Stelle.

E si arriva allo show down finale che sa di vera e propria congiura. Nella ricostruzione del Corriere un gruppo di ministri avrebbe detto a Draghi: «Adesso dobbiamo fino in fondo. Devi mettere la fiducia sulla mozione Casini (ndr: eletto con la sinistra) e vediamo chi vota contro». La fiducia viene cioè posta sulla mozione della sinistra scartando così la mozione della Lega. Se si fosse voluto un esito positivo, un leader accorto avrebbe cercato o imposto una mediazione. Così si è messo invece nelle mani di chi gli ha teso una trappola. La sua è stata una scelta di campo che è sembrata una provocazione. In quella mozione si recuperavano fra l'altro i 5 Stelle, essenziali al Pd per cercare di vincere le prossime elezioni, e si davano a Draghi pieni poteri. Non solo. Negli stessi frangenti Franceschini e D'Incà si sarebbero rivolti a Conte con la famosa frase riportata sempre dai giornali: «allora rimaniamo così», blindando cioè l'appoggio esterno del M5S in modo da far naufragare la proposta del centrodestra. A quel punto Draghi accogliendo il suggerimento del Pd ha di fatto decretato la fine del suo governo. Solo ingenuità politica o condiscendenza ad un disegno per non assumersi la responsabilità della prossima legge di Bilancio? 

Mario Draghi, a fregarlo è stato il Pd. Così Letta lo ha fatto schiantare. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 22 luglio 2022

Si vota il 25 settembre. Il centrodestra ha un’alleanza rodata, per quanto non estranea ad avventure rocambolesche e raptus suicidi, e si presenterà compatto. La sinistra è stata spiazzata dalle dimissioni di Draghi, che pensava di pilotare a proprio vantaggio e invece le sono sfuggite di mano. I dem hanno perso il loro alleato di riferimento, M5S, che non potrà rientrare nel campo largo di Letta. C’è troppo poco tempo infatti perché il Pd riesca a sorvolare come se nulla fosse sulla sfiducia di Conte al premier e perché vada in prescrizione il tentativo di omicidio che i progressisti hanno perpetrato nei confronti dell’avvocato foggiano, al quale hanno affettato il partito neanche fosse un salame, un pezzo alla volta. Ecco che allora l’alternativa che si presenta a Letta, e che il segretario ha già iniziato a cavalcare, è buttarla sul marketing, il che significa rottamare la ragione sociale del proprio partito e sostituirla con un solo brand: siamo noi gli eredi di Draghi, e tanti saluti agli immigrati, ai gay, alla patrimoniale, al salario minimo e a tutto quello che i progressisti fino a ieri sostenevano di rappresentare. Se l’ex governatore della Bce ci mette il cappello sopra, bene; altrimenti, si va avanti lo stesso.

IL COLLANTE - L’anima, anzi il cuore, del banchiere diventa così il collante con cui mettere su un cartello elettorale che tiri dentro i centristi, da Calenda a Renzi, da Di Maio a Brugnaro e macro partiti vari, una sorta di Ulivo senza la sinistra vera. È quello che, sostengono i bene informati, il Pd, nella figura di Franceschini in particolare, ha tentato di fare tra martedì e mercoledì, senza passare dal voto, pratica alla quale è notoriamente allergico. La narrazione avallata dalla stampa progressista dice che Draghi è caduto perché, dopo la sfiducia di Conte, ha incassato anche quella della Lega, che avrebbe trascinato nel baratro Forza Italia. È un racconto funzionale a costruire una campagna elettorale che metta sotto il tappeto tutte le contraddizioni, le inadeguatezze e le responsabilità nello sfascio dell’Italia dello schieramento progressista per fare del centrodestra, già ribattezzato il “fronte populista”, la rappresentazione del male assoluto nonché il killer di Draghi.

Le cose però sono andate diversamente. E non solo perché il centrodestra, dopo il discorso del premier, aveva presentato con la Lega una mozione che impegnasse la maggioranza a sedersi al tavolo per concordare una linea guida di un nuovo esecutivo da affidare sempre all’ex governatore della Bce. La verità è che Letta, il giorno prima dell’intervento decisivo in Senato, si era recato in visita privata dal premier dimissionario dopo aver concordato con il suo drappello di dirigenti di strettissimo giro un piano per un Draghi bis che tagliasse fuori dalla maggioranza non solo M5S ma anche una parte della Lega. I dem puntavano a staccare Berlusconi, e magari anche la parte più governista del Carroccio, da Salvini e ad andare avanti con una coalizione che li vedesse ancora più al centro della stanza dei bottoni.

Questo è il pacchetto, che potremmo ribattezzare “Franceschini”, venduto al premier, che non a caso il giorno dopo ha fatto del discorso con il quale avrebbe dovuto compattare tutti intorno alla propria figura un atto d’aggressione alla Lega, funzionale a determinarne la fuoriuscita. La scommessa che Salvini rompesse ma Forza Italia no è stata vanificata dalla tenuta del Cavaliere, imprevista e tetragona, che ha scompaginato i piani, soprattutto dei ministri azzurri, due dei quali, Brunetta e Gelmini, hanno per questo lasciato il partito; e vedremo cosa farà nei prossimi giorni la Carfagna, mentre già si registra l’abbandono del suo fedelissimo, Cangini.

REAZIONE BILIOSA - In questo contesto si giustifica anche la reazione, biliosa e sopra le righe, che Draghi ha avuto all’offerta dei leader del centrodestra di andare avanti con loro e con nuovi patti. L’ex governatore si è trovato un copione in mano che non corrispondeva alla realtà di quanto avveniva in Aula e ha perso le staffe, tradendo una scarsa attitudine alle logiche della politica, che forse è anche la ragione principale per la quale a gennaio ha perso il Quirinale, spingendo sull’acceleratore quando invece avrebbe dovuto alzare il piede, proprio come l’altro giorno a Palazzo Madama. Il risultato è che il premier è stato messo in trappola dalla sinistra, che gli ha fatto fare pure la figuraccia di chi, anziché continuare a timonare la nave, la abbandona con un pretesto per paura che affondi. Perché è indubbio che Draghi, se avesse voluto, avrebbe potuto essere ancora a Palazzo Chigi nel pieno dei suoi poteri.

Sarebbe bastato che accogliesse la mozione del centrodestra anziché arroccarsi su una posizione di rottura con Lega e Forza Italia, mal consigliato dai suoi laudatores, che ora, per mancanza di argomenti originali fanno campagna elettorale sulle sue spoglie, oltre che, come sempre, sulla denigrazione dell’avversario, al quale tanto per cambiare attribuisce le colpe proprie. 

Giulio Tremonti demolisce Mario Draghi: "Stupido. Discorso strampalato". Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 23 luglio 2022

Giulio Tremonti ha un vecchio conto in sospeso con Draghi. E risale a quando, nel 2011, lui era ministro dell'Economia e l'altro presidente della Bce. Allora dopo un tot di anni il professore non esita a togliersi qualche pietruzza dalla scarpa. Andandoci giù pesante. E sostenendo che all'ex premier si può applicare la terza legge fondamentale della stupidità umana: «Uno stupido», dice Tremonti citando Carlo Cipolla, intervistato ad Omnibus, su La7, «provoca danni agli altri senza ottenere benefici per se stesso». E questo precetto si addice a Draghi. In particolare al suo intervento davanti ai senatori mercoledì scorso. Quando SuperMario ha sostenuto che «sono gli italiani», e non i partiti rappresentati in Parlamento, ad avergli chiesto di andare avanti.

«Oggettivamente», spiega Tremonti, l'impianto del discorso draghiano è stato «strampalato», «con un tasso di retorica elevato». Quello appena finito, aggiunge, è stato «un esperimento politico di unità nazionale», creato in Parlamento, «dove il capo del governo è uno non eletto» e sta lì proprio perché «non è stato eletto». Altra cosa era l'unità nazionale del Dopoguerra: «All'epoca c'era la Costituente» e quella esperienza «si rompe con De Gasperi che esclude dal governo Togliatti».

Nel suo discorso di insediamento Draghi cita quel precedente, ma è «un errore», secondo l'ex ministro dell'Economia, «perché quella non era unità nazionale. C'era il Piano Marshall, ma non era assimilabile come fase storica». Poi un altro episodio storico di unità nazionale risale agli anni settanta, ma con un'altra differenza, «perché i comunisti erano in Parlamento, non al governo». Quello draghiano, sostiene Tremonti, è «il primo esperimento di unità nazionale» nel senso «parlamentare» del termine.

Al di là delle definizioni, secondo il professore di Pavia, è stato sbagliato proprio l'approccio del presidente uscente. «Vai in Parlamento, mancano pochissimi giorni all'avvio della campagna elettorale, limitati a fissare alcuni punti oggettivamente impegnativi per un governo e lascia perdere il resto degli argomenti che sono tipici della campagna elettorale». Così da rispettare i meccanismi parlamentari. Draghi invece che ha fatto? «Ha parlato come se avesse davanti un intero e lungo periodo di legislatura. Ha messo insieme tutto», anche stabilimenti balneari e taxi. «L'ho trovato molto discontinuo, molto poco logico». Pure sul perimetro della maggioranza parlamentare Tremonti ha da ridire: «Se voleva l'unità dei Cinquestelle, come ha dichiarato, poi non doveva accettare che nel suo governo ci fosse uno che era uscito dal Movimento fondando un suo partito alternativo», cioè Di Maio. «Questo è abbastanza atipico». A meno che, conclude Tremonti, il sentimento che ha spinto Draghi non fosse un «cupio dissolvi». E allora questo spiegherebbe tutto. 

Michele Arnese per startmag.it il 21 luglio 2022.

“Draghi si autoaffonda”, titola Il Fatto Quotidiano. 

“Draghi si è mandato a casa”, titola Verità & Affari. 

Due quotidiani di orientamento opposto – il primo sensibile alle istanze di M5s, Leu e sinistra varia, il secondo considerato vicino al centrodestra, non solo di governo – fotografano una medesima sensazione: il presidente del Consiglio non ha fatto proprio nulla – anzi ha fatto di tutto – per essere mandato a casa.

Per ribadire che le sue dimissioni non erano state un capriccio ma una decisione frutto di una constatazione: tre partiti della maggioranza – non solo M5s – non credevano più all’esecutivo di larghe intese. 

Basta andare a rileggere le attese del centrodestra di governo solo poche ore prima delle comunicazioni di Draghi in Senato. 

Lega, Forza Italia, Udc e Noi per l’Italia si attendevano che l’attività dell’esecutivo si concentrasse ora “su temi prioritari come ridimensionamento del reddito di cittadinanza, controllo dell’immigrazione clandestina, pace fiscale con la rottamazione delle cartelle esattoriali, investimenti sul nucleare”. 

Nulla di tutto ciò è stato menzionato o evocato da Draghi. 

Poi, ovviamente, il premier non ha esaudito gli auspici del centrodestra di governo per un nuovo esecutivo senza M5s (considerato da Draghi, come ripetutamente detto, un pilastro della maggioranza). 

Ma nelle comunicazioni in Senato Draghi ha deluso anche i pentastellati: gli accenni draghiani su reddito di cittadinanza, salario minimo e superbonus sono stati o evanescenti o per nulla rassicuranti, secondo i grillini.

Non solo: nella replica in Senato, Draghi – nel mentre chiedeva la fiducia (anche a M5s) sulla risoluzione presentata da Casini e non su quella firmata da Calderoli – ha sbertucciato ancora e in maniera più ruvida sia su reddito di cittadinanza che sui superbonus per le ristrutturazioni edilizie. 

Ecco le parole precise di Draghi. 

Primo: “Il reddito di cittadinanza è una cosa buona, ma se non funziona è una cosa cattiva”. 

Secondo: “Sul superbonus voi sapete quello che ho sempre pensato, ma il problema non è il superbonus, il problema sono i meccanismi di cessione che sono stati disegnati: chi ha disegnato quei meccanismi di cessioni senza discrimine e senza discernimento, lui o lei o loro sono i colpevoli di questa situazione in cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti. Ora bisogna riparare al malfatto”.

Due Vaffa ben assestati.

Crisi di governo, Sergio Mattarella "furioso con Draghi": la frase che ha irritato il Quirinale. Il Tempo il 22 luglio 2022

Mentre il Paese si prepara a una campagna elettorale balneare con le elezioni anticipate fissate per il 25 settembre  l'umore del calo dello Stato è tutt'altro che disteso. Sergio Mattarella ha "le pa**e fumanti", si legge in un report di Dagospia in cui si dà conto dello stato d'animo del presidente dopo che il Parlamento ha costretto alle dimissioni il premier Mario Draghi che lui aveva portato a Palazzo Chigi. Insomma, Mattarella "è infastidito da un Parlamento di inetti che non ha saputo anteporre l’interesse nazionale alle beghe di orticello", si legge nel retroscena. 

Ma il capo dello Stato ce l'ha soprattutto con lo stesso Draghi. Il giudizio sulle ultime mosse dell'ex capo della Bce "è pessimo" e quello sul suo  discorso al Senato è definitivo. L'intervento del premer stato "molto divisivo, inutilmente ostile", senza diplomazia o quella misura politica che averebbe salvato il governo. Una frase in particolare avrebbe irritato il Quirinale: “Se sono qui è perché me l’hanno chiesto gli italiani”, vista come uno slancio "peronista". Per tutta risposta, si legge nel Dagoreport, Draghi avrebbe detto a Mattarella "che non intende mettere mano alla legge finanziaria, che andrà presentata entro il 31 dicembre per evitare l’esercizio provvisorio. Draghi vuole occuparsi, e lo farà malvolentieri, solo degli affari correnti".

Dopo 17 mesi si chiude l'esperienza del governo di salvezza nazionale o del presidente. Dopo una settimana di trattative, scivolate spesso in avvenimenti dal sapore amaro, Mattarella ha potuto solo constatare "il venir meno del sostegno parlamentare al Governo e l’assenza di prospettive per dar vita a una nuova maggioranza", le parole del capo dello Stato che ha indicato il perimetro dell'azione di governo nei pochi mesi che portano alle elezioni. In primis la messa in sicurezza del Pnrr. 

Mattarella, il «non detto» del presidente sul ruolo dei partiti. Marzio Breda su Il Corriere della Sera il 21 Luglio 2022.

Nel discorso pronunciato ieri, il capo dello Stato non ha rimproverato le forze politiche, ma ha inviato messaggi impliciti relativi alla guerra e alla crisi economica e sociale

Ascoltare Sergio Mattarella fa a volte venire voglia di indovinare il «non detto» dei suoi discorsi. 

È capitato anche ieri, dopo che ha spiegato perché ha sciolto le Camere e cosa si aspetta dal Parlamento in congedo (che non ha ringraziato, mentre invece ha ringraziato Draghi). 

Avrebbe potuto, come qualcuno pensava, rampognare esplicitamente i partiti — 5 Stelle, Lega e Forza Italia — per la prova di viltà istituzionale offerta al Senato, scaricando gli uni sugli altri la colpa di aver affondato Draghi, avendo in realtà concorso insieme a quell’esito? 

Certo, poteva, ma non l’ha fatto per due ragioni:

1) la campagna elettorale è già aperta e lui intende preservare la propria neutralità se non altro perché dal 25 settembre sarà di nuovo chiamato in causa;

2) non è nelle sue categorie politiche, neppure durante le crisi più acute, scivolare in anatemi alla Pertini o alla Napolitano, che questo tipo di sfoghi si concedevano. 

Di fatto, comunque, alcuni messaggi di secondo grado ci sono, nel suo intervento, centrato sulla legittimazione del governo a lavorare ancora. 

Per esempio, quando elenca le varie emergenze del Paese e, riferendosi ai rischi aperti dalla guerra portata dalla Russia in Ucraina , il sottinteso è chiaro: per delle forze responsabili non era davvero il momento di mettere tutto a repentaglio, addirittura «la sicurezza nostra e dell’Europa». 

Altro passaggio che conferma il concetto, le righe in cui puntualizza i suoi «doveri», tra i quali quello di ricordare una serie di misure «per contrastare gli effetti della crisi economica e sociale», dall’inflazione all’energia ai prodotti alimentari, senza contare «l’attuazione del Pnrr nei tempi concordati». E non per nulla nel memorandum infila il cenno a un tempo presente che «non consente pause» traducibile come una sanzione: dopo la vostra performance dissennata, vi ho mandati a casa in 24 ore senza neppur fare consultazioni e non potete dire nulla. 

E poi ancora, nel rivolgere un appello al Parlamento affinché dia un «contributo costruttivo» all’esecutivo dimissionario, Mattarella si è rivolto davvero a tutti. Compreso quel partito dei Fratelli d’Italia che in questi 5 anni non è mai stato al governo. Resta invece da esplorare il giudizio complessivo del presidente sugli attori di un collasso politico innescato dalla scissione dei 5 Stelle. Chissà se gli è venuto in mente l’altra storica scissione repubblicana, aperta da Saragat nella famiglia socialista, che nel ’47 determinò la fine della prima fase dei governi De Gasperi. Quelli, guardacaso, di unità nazionale.

È la fine dell’era Draghi: Forza Italia, Lega e 5 stelle impallinano il governo. In Senato non ci sono i numeri per un’ampia fiducia, appena 95 sì. Il presidente del Consiglio mette fine alla sua esperienza a Palazzo Chigi. Il voto anticipato sembra ormai certo. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 20 Luglio 2022.

Alla fine il «colpo di pistola di Sarajevo» temuto dal segretario del Pd Enrico Letta è stato davvero quel non voto alla fiducia sul ddl Aiuti giovedì scorso da parte del Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte. Un gesto che ha dato il via al crollo di un governo che aveva la fiducia al Senato quando il colpo è stato sparato da chi non pensava certo di far cadere l’esecutivo. Invece da quel colpo si è arrivati alla grande guerra  tra partiti, presidente del Consiglio Mario Draghi e Quirinale con il risultato che da questa sera il paese ha un governo sfiduciato.  E la «splendida giornata», auspicata sempre da Letta che questa volta non ha azzeccato la previsione, si è trasformata in un disastro.

In Senato Draghi ottiene appena 95 sì dopo lo strappo in mattinata di Lega e Forza Italia e nel pomeriggio anche del Movimento 5 stelle. A sostenere ancora l’ex presidente della Bce alla fine restano solo Pd e centristi, aggrappati fino all’ultimo a questo governo che doveva garantire il proseguo della legislatura fino alla scadenza naturale di marzo. Invece adesso il ritorno alle urne ad ottobre sembra certo, a meno di sorprese dell’ultima ora e di conigli dal cilindro che potrebbe tirare fuori il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. 

La “sfiducia” arriva per il mancato voto da parte di Lega, Forza Italia  e Movimento 5 stelle alla mozione Casini, che dava invece ancora fiducia al governo. Dopo una giornata sulle montagne russe alla fine Matteo Salvini lascia la parola al suo braccio destro Stefano Candiani per impallinare Draghi: «La lealtà dei ministri della Lega non è mai venuta meno in tutti i giorni del governo. Noi, presidente Draghi, abbiamo preso nota del suo richiamo sulla democrazia parlamentare ma un Parlamento fatto da transfughi e segnato dalla diaspora del M5s non può garantire stabilità al governo. Il problema non è lei, che è una figura di garanzia e stabilità, ma sono il Pd e il M5s che hanno creato solo fibrillazione in questo percorso.

Tutto è naufragato sull'incoerenza del M5s che in questa maggioranza come già avevamo verificato, ha messo solo fibrillazione su fibrillazione».  Anche Forza Italia non vota la fiducia: poco dopo si dimette dal partito la ministra Mariastella Gelmini: «Ho ascoltato gli interventi in Aula della Lega e di Forza Italia, apprendendo la volontaà di non votare la fiducia al governo in un momento drammatico per la vita del Paese. Questa Forza Italia non è il movimento politico in cui ho militato per quasi venticinque anni: non posso restare un minuto di più in questo partito.

Poco dopo è il Movimento 5 stelle che annuncia la sua sfiducia: «Lei, presidente Draghi, aveva detto che un governo di alto profilo non deve identificarsi con nessuna forza politica. Mi permetta di dire che un governo di alto profilo non dovrebbe nemmeno schierarsi nettamente con una forza politica, come invece è stato fatto”m dice la capogruppo del M5s al Senato, Mariolina Castellone.

A favore del governo restano quindi Pd e centristi vari, da Azione di Carlo Calenda a Coraggio Italia al gruppo di Luigi Di Maio passando per Italia Viva. Fine della storia.

In mattinata Draghi, dimissionario dopo il mancato voto dei 5 stelle al ddl Aiuti, si era presentato in Senato per tenere delle comunicazioni. Draghi parla per quasi 20 minuti e di fatto lancia un messaggio chiaro al Parlamento: se dobbiamo andare avanti si devono fare le riforme, anche quelle contestate, dalla norma sulla concorrenza per i tassisti al rinnovo delle concessioni con gara per i balneari, per fare degli esempi.

Il discorso non piace a Silvio Berlusconi e a Matteo Salvini: troppo duro nei toni e senza apertura al dialogo su balneari, tassisti e tasse, appunto. Argomenti molto cari al centrodestra. E a nulla questa volta sono serviti i soliti tentativi dei governisti di Forza Italia e Lega, in primis Renato Brunetta e Giancarlo Giorgetti, per evitare alla fine l’apertura vera della crisi del governo. Riuniti a Villa Grande, a Sud di Roma, i due leader dopo il discorso di Draghi  decidono di dare mandato ai propri capigruppo in Senato di chiedere un nuovo esecutivo senza il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte che questa situazione ha creato non votando il ddl Aiuti: «Il Senato accorda il sostegno all'azione di un governo profondamente rinnovato sia per le scelte politiche sia nella composizione», mette nero su bianco il partito di Salvini in una risoluzione firmata dai senatori Roberto Calderoli e dal capogruppo leghista al Senato Massimiliano Romeo. E il forzista Maurizio Gasparri aggiunge: «Se c'è una maggioranza, può governare il Paese con questo presidente del consiglio. Non abbiamo esigenze di poltrone ma di serietà sì e di discontinuità sì. Con chi scambia il Parlamento - che voleva aprire come una scatoletta - per il teatrino della politica non possiamo condividere un percorso, lei presidente Draghi meno ancora di noi». «Stavolta è finita», sussurra subito dopo a Palazzo Madama un componente della segreteria dem, mentre Matteo Renzi ai suoi dice: «Questa volta Draghi ci manda a quel paese». «Conte combina il più epico guaio della storia recente. Ma il centrodestra di governo, geloso, gli ruba in corner, davanti agli Italiani, la responsabilità di far cadere il governo Draghi. Ma davvero stiamo assistendo a tutto questo?», dice il presidente della Liguria e di Italia al Centro, Giovanni Toti.

Nel pomeriggio si spera ancora nella controreplica di Draghi, per trovare spiragli di trattativa con il centrodestra. Invece Draghi attacca sul superbonus e il reddito di cittadinanza, facendo andare su tutte le furie il Movimento 5 stelle. Tenendo però a precisare che «qui nessuno chiede pieni poteri». Frase detta da Giorgia Meloni contro Draghi dopo le comunicazioni della mattina. Alla fine così salta il banco. Il colpo di pistola si trasforma nel caos. Forse  quello che voleva lo stesso Draghi, evidentemente in rotta con gran parte della maggioranza e che al presidente Mattarella aveva detto chiaramente di voler lasciare l’incarico già dopo il mancato voto al ddl Aiuti da parte dei 5 stelle. Sono contenti anche i partiti di centrodestra e i loro leader, compreso Silvio Berlusconi, convinti di prendersi il governo e il Parlamento al voto anticipato di ottobre. Gli unici che escono davvero con le ossa rotte da questa giornata sono i dem, che si ritrovano senza governo e senza adesso una vera alleanza forte in vista del voto possibile ad ottobre: «In questo giorno di follia il Parlamento decide di mettersi contro l'Italia – dice Letta –  Noi abbiamo messo tutto l'impegno possibile per evitarlo e sostenere il governo Draghi. Gli italiani dimostreranno nelle urne di essere più saggi dei loro rappresentanti».

Ecco i motivi della rottura tra Draghi e il centrodestra. Francesco Curridori il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il voto di fiducia chiesto dal governo solo sulla risoluzione presentata dal senatore Casini è solo l'ultimo sgarbo che Draghi ha compiuto nei confronti del centrodestra.

Alla fine, è rottura tra il premier Mario Draghi e il centrodestra. L’ex governatore della Banca Centrale Europea, chiamato a gran voce a guidare un governo di unità nazionale per salvare il Paese dopo il fallimento del Conte-bis, ha sempre avuto un occhio di riguardo soprattutto per il Pd.

Neanche dieci giorni fa, nel corso della conferenza stampa sulle nuove misure contro il caro energia, Draghi aveva chiarito: “Serve un’azione di governo che renda il populismo non necessario”, mettendo sullo stesso piano il M5S e la Lega. La giornata di ieri ha reso ancora più evidente la preferenza di Draghi per il Pd quando ha incontrato inizialmente Enrico Letta e, solo in seconda battuta, la delegazione del centrodestra di governo composta da Matteo Salvini, Antonio Tajani, Lorenzo Cesa e Maurizio Lupi. Le loro richieste erano semplici e chiare, sia dal punto di vista politico sia programmatico. La crisi di governo, va ricordato, è iniziata per volontà del comportamento irresponsabile del Movimento Cinque Stelle che non ha votato la fiducia sul Dl Aiuti a causa del termovalorizzatore per Roma. Era, dunque, più che lecita la richiesta di dar vita un governo completamente nuovo che non comprenda nessun rappresentante pentastellato. Era altrettanto doveroso chiedere un rinnovamento nella compagine di governo, sostituendo i titolari dei dicasteri della Salute e degli Interni, Roberto Speranza e Luciana Lamorgese. Quest’ultima, a taccuini chiusi, ha spesso ricevuto svariate critiche da parte degli esponenti del Pd, ma il premier Draghi si è reso indisponibile ad affidare gli Interni a un esponente leghista e, quindi, a modificare la sua impostazione in materia immigrazione.

Draghi, un discorso sbilanciato a sinistra

Dal punto di vista programmatico, poi, da parte del premier non vi è stata alcuna apertura sui temi economici, ma anzi sono arrivate critiche molto dure verso il centrodestra si è fatto portavoce delle istanze dei balneari e dei tassisti. Ma non solo. Draghi non ha fatto evidenti aperture a favore della pace fiscale, ma anzi ha lanciato delle vere e proprie bordate contro chi ha contestato la riforma del catasto. Nel corso della sua replica, inoltre, ha spiegato che il suo governo ha deciso di non intervenire su temi come la cannabis e lo ius scholae proprio “per la sua natura di unità nazionale nei temi di origine parlamentare”. Draghi se n’è lavato le mani come un Ponzio Pilato qualsiasi quando sarebbe stato più utile per il Paese e per il suo governo dire con chiarezza a Letta e ai dem di togliere dal tavolo i temi divisivi che avrebbero creato attrito all’interno della sua maggioranza. L’ultimo sgarbo istituzionale è stata la decisione di porre il voto di fiducia solo sulla risoluzione presentata dal senatore Pierferdinando Casini e non quella presentata dal centrodestra. “Forza Italia, Lega, UDC e Noi con l’Italia hanno accolto con grande stupore la decisione del presidente del consiglio Mario Draghi di porre la questione di fiducia sulla risoluzione presentata da un senatore - Pierferdinando Casini - eletto dalla sinistra”, si legge nella nota diramata dal centrodestra di governo. Da giorni, d’altronde, il centrodestra chiedeva un nuovo governo senza i pentastellati, come viene rimarcato anche al termine del comunicato. “Il presidente Silvio Berlusconi questa mattina aveva comunicato personalmente al Capo dello Stato Sergio Mattarella e al presidente del consiglio Mario Draghi la disponibilità del centrodestra di governo a sostenere la nascita di un esecutivo da lui guidato e fondato sul ‘nuovo patto’ che proprio Mario Draghi ha proposto in Parlamento. La nostra disponibilità – conclude la nota - è stata confermata e ufficializzata nella proposta di risoluzione presentata dal centrodestra di governo in Senato”.

Il retroscena. Berlusconi e Salvini furiosi: Mattarella e Draghi ci hanno tradito. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Luglio 2022. 

Nel centrodestra sono furiosi. Convinti che gli sia stata tesa una trappola. Bisogna capire da parte di chi. Del Pd, di Mattarella, di Draghi? E a che scopo? Solo per far ricadere sul centrodestra la colpa della crisi, scagionando un po’ il povero Conte, o invece perché in realtà a sinistra si voleva la crisi e si stavano preparando strategie elettorali che prevedevano che la destra si assumesse almeno in parte una responsabilità del patatrac di Draghi?

Vediamo di ricostruire le cose secondo la versione che circola ai vertici di Forza Italia. Prima del voto in Senato, la settimana scorsa, nel quale i 5 Stelle tolgono la fiducia a Draghi, ci sono varie telefonate tra i dirigenti del centrodestra e Draghi. In particolare si parlano Berlusconi e Draghi. E il capo di Forza Italia spiega al Presidente del Consiglio che il centrodestra di governo (come si chiama ora l’asse Berlusconi-Salvini) è pronto a sostenerlo “perinde ac cadaver” (detto gesuita molto caro a Draghi, che vuol dire: fino alla morte…) a una sola condizione: fuori i 5 Stelle che hanno fatto mancare la fiducia senza nessuna ragione e che chiaramente non offrono alcuna affidabilità.

Le fonti interne a Forza Italia, autorevolissime, dicono che Draghi non ebbe niente da obiettare. E questo suonò come un incoraggiamento per il centrodestra. Ancora martedì sera ci sarebbe stata una telefonata tra Draghi e Berlusconi. Che tra l’altro avrebbe convinto Draghi a riparare alla gaffe commessa la mattina convocando Letta e solo Letta (Enrico) a Palazzo Chigi. Telefonata molto distesa, nella quale Draghi avrebbe riferito a Berlusconi di essere stanco, provato dallo stress della politica e del suo teatro, e Berlusconi avrebbe insistito sulla necessità che Draghi restasse a Palazzo Chigi. Mercoledì, dopo l’intervento di Draghi in Senato (non molto apprezzato dal centrodestra per via di alcune stoccate soprattutto alla Lega ) Salvini e Berlusconi scrivono la famosa mozione di fiducia a Draghi che prevede l’esclusione dei contiani dal governo. Dopo averla scritta, telefonano prima a Mattarella e poi a Draghi, e la leggono all’uno e all’altro. Senza ricevere alcuna obiezione, o condanna, o richiesta di modifica. E così la presentano in Senato pensando che la crisi è risolta.

Qualche quarto d’ora dopo compare la mozione Casini, della quale nessuno ha parlato né a Forza Italia né alla Lega, che mette fuorigioco il centrodestra e rimette in gioco la pattuglia di Conte. Palazzo Chigi decide di mettere la fiducia sulla mozione Casini (cioè del centrosinistra, che probabilmente ha ottenuto il via libera da Conte) e di escludere la mozione di Forza Italia e della Lega. È a questo punto, spiegano a Forza Italia, che il centrodestra si trova con le spalle al muro e non può far altro che chiamarsi fuori. Sarebbe stato lo stesso Berlusconi a dare l’indicazione di non votare contro la mozione Casini ma di uscire dall’aula, permettendo in questo modo a Draghi di ottenere comunque la fiducia. Dicono i suoi che Berlusconi vedesse e continui a vedere molto bene la possibilità che Draghi prosegua la sua azione di governo. Tanto che ieri mattina aveva preparato i suoi deputati a intervenire nel dibattito sulla crisi, alla Camera, chiedendo a Draghi di andare avanti comunque, dato che il Parlamento gli aveva votato la fiducia. Dicono i berlusconiani che ancora ieri mattina esisteva uno spiraglio per salvare il governo. Ma che non c’è stato niente da fare perché Draghi ha deciso così.

Naturalmente se questa ricostruzione non fosse drasticamente smentita sarebbe piuttosto grave. Davvero due personalità del peso e del calibro di Mattarella e Draghi erano informati delle mosse di Forza Italia e della Lega e non hanno fatto nulla per aprire una discussione con loro, lasciando anzi credere che non ci fossero problemi? Diciamo che questa crisi aperta dal “drammatico” episodio dell’avvocato Conte offeso a morte perché Grillo lo scavalcava nei rapporti con palazzo Chigi, e che non ha mai perso le caratteristiche della farsa, si chiuderebbe con un ulteriore elemento di commedia, con inversione di ruoli, bugie, trucchi trappole. Non sarebbe una bella cosa.

A meno che uno non dovesse addirittura sospettare che dietro le quinte si stia svolgendo un progetto politico, che passa per le elezioni, e che prevede l’utilizzo della figura di Draghi in funzione anti-destra. Anche questo è possibile. Non sarebbe la prima volta che un presidente della Repubblica entra a pieno titolo nella battaglia politica e si scorda per un momento di essere l’arbitro e non il centrattacco. Neanche questa, però, sarebbe una cosa bella.

Ma ora cosa succede nella destra, terremotata dalla crisi imprevista e non gradita? Ovviamente tutto si concentra nella battaglia elettorale. Probabilmente Forza Italia vedrebbe molto bene la modifica della legge elettorale e il ritorno al proporzionale. Perché in questo modo riconquisterebbe la sua indipendenza e probabilmente anche la sua centralità nel futuro parlamento. Nessuno sa che tipo di giochi, di alleanze, di bilanciamenti si realizzeranno nel futuro parlamento. E se ogni forza politica avesse la possibilità di giocare per sé in campagna elettorale, per studiare solo dopo le alleanze, tutto sarebbe più semplice, specialmente per i partiti più moderati (come Forza Italia e il Pd). Ma la legge elettorale a questo punto non può più essere cambiata. Specie da un parlamento sciolto. Quindi bisognerà fare le coalizioni e per il centrodestra la strada è scritta. Alleanza fra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Benissimo. Ed è anche probabile che questa alleanza avrà la maggioranza assoluta nel futuro parlamento.

Ma a quel punto che si fa? Meloni, capo del partito probabilmente più votato, sarà la candidata premier? Il problema non è tanto il dualismo e la competitività con Salvini, il problema è Berlusconi che tutto può accettare ma non Meloni premier. Non la considera capace, non la considera statista, la considera arrogante. Vuole trovare un’altra soluzione. Una via d’uscita sarebbe quella di presentare una lista unica con Salvini, perché questo consentirebbe ai due, forse, di diventare primo partito del centrodestra. Ma i sondaggi dicono che l’unificazione non conviene. Costerebbe ai due partiti circa il 5 per cento dei voti. Una quantità non sopportabile. E che comunque gli impedirebbe di essere primo partito. E allora?

Allora vedremo. Non c’è nessuna legge che dice che la coalizione che vince è obbligata a governare insieme. Nessuno impedisce a una parte di essa di allearsi con una parte dell’altra coalizione. Non è andata così dopo il 2018? Può succedere di nuovo. Una nuova versione di governo di unità nazionale senza 5 stelle? Può darsi. Con Draghi di nuovo in sella? È improbabile, a questo punto, ma niente è impossibile. Sullo sfondo di questo nervosismo e di questi movimenti, c’è l’incubo di tutti. La guerra. In Italia è avvenuto un fatto curioso: il centrosinistra è stato ed è più guerresco del centrodestra. In particolare del centrodestra di governo. La Meloni è schierata su posizioni più guerresche che può. Salvini molto meno. Berlusconi è convinto, dicono i suoi, che la guerra è stata una sciagura tremenda provocata dall’aggressività degli Ucraini e dalla sciagurato errore di Putin. Gli ucraini hanno in tutti i modi vessato il Donbass, provocando migliaia e migliaia di morti.

Hanno spinto la popolazione filorussa a chiedere l’aiuto di Putin. Il quale ha sbagliato tutti i calcoli, politici e militari: ha pensato che l’invincibile armata rossa sarebbe arrivata a Kiev in una settimana e tutto sarebbe finito lì. Non aveva capito la realtà delle forze in campo. E non aveva previsto la compattezza dell’Europa e la durezza delle sanzioni economiche. Ora Putin è all’angolo. E può uscirne solo rafforzando la violenza militare. La situazione è pericolosissima e l’Europa non sembra in grado di intervenire e di svolgere una funzione di mediazione. Sa solo inviare armi. Ma inviare armi serve solo ad aumentare il numero die morti. E intanto gli Usa e la Nato riescono solo a gettare benzina sul fuoco.

C’entra qualcosa tutto questo con la crisi italiana? Sicuramente c’entra molto. Ormai la politica si combatte su base internazionale. Ed è difficile immaginare una soluzione dell’impasse italiana che non abbia qualche relazione con la crisi internazionale e anche con la guerra. Chissà se il centrodestra o il centrosinistra saranno in grado di prendersi sulle spalle questo problema. Per ora la crisi ha portato un solo vantaggio, indubbio: la scomparsa di Conte e la messa fuorigioco della sua pattuglia piena di Toninelli.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

"Sono io sconcertato per l’uscita di Draghi: ha scelto lui la strada che porta alle elezioni. Sarà il centrodestra a garantire la stabilità". Augusto Minzolini il 22 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il leader di Forza Italia al "Giornale": "Non mi aspettavo che finisse così, sono stato io al principio del 2021 a chiedere la nascita di questo governo come risposta alle emergenze del Paese. 

Presidente Berlusconi, c'è un po' di sconcerto in giro per il precipitare della crisi politica che ha portato alle dimissioni di Draghi. Com'è potuto accadere?

«Per la verità il primo ad essere sconcertato sono io. Sono stato io, al principio del 2021, a chiedere la nascita del governo Draghi come risposta alle emergenze del Paese e Forza Italia è stata, fra i partiti di governo, quello più leale e costruttivo. Nei giorni scorsi i Cinque Stelle, in grave difficoltà, hanno ritirato la fiducia al governo creando una situazione che lo stesso presidente Draghi ha definito insostenibile. E proprio per questo meno di una settimana fa ha rassegnato le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato. Di fronte a questo, noi abbiamo chiesto di rifare un patto di governo, sotto la guida di Draghi, su basi nuove, coerenti, solidali. Questo implicava ovviamente sostituire i ministri ed i sottosegretari grillini, espressione di una forza politica che si era chiamata fuori dalla maggioranza. Era l'unica strada per concludere la legislatura, come noi avremmo voluto, con sei mesi di lavoro utile al Paese. Il Presidente del Consiglio ha scelto un'altra strada, che conduce alle elezioni. Perché lo abbia fatto, è una domanda che andrebbe rivolta a lui. Noi eravamo prontissimi a continuare a sostenerlo, ed anche a pagare per questo un prezzo in termini di consenso».

C'è il tentativo della sinistra, con ricostruzioni di comodo, di indicare come responsabili di questa crisi non solo i grillini di Giuseppe Conte, ma anche il centro-destra di governo. Il solito gioco...

«Un gioco davvero sfacciato e di poco respiro. Noi la crisi abbiamo fatto di tutto per evitarla. Quanto abbiamo detto e scritto in Parlamento in questi giorni confusi sta a dimostrarlo. Il Paese non può permettersi la paralisi, in un momento nel quale bisogna realizzare gli obbiettivi del PNRR. La guerra ai confini dell'Europa e dell'Occidente pone in pericolo la sicurezza di tutti, il rincaro dell'energia e delle materie prime sta avviando una spirale inflazionistica deleteria per il risparmio degli italiani. Per questo eravamo pronti a qualsiasi sacrificio, ma non ci hanno ascoltato. Il Pd ha giocato questa partita in modo esclusivamente tattico, pensando a mettere il cappello su Draghi per superare le proprie difficoltà e le proprie contraddizioni. Tutto questo sulla pelle degli italiani».

Si aspettava che Mario Draghi, invece, di prendere atto pubblicamente dell'impossibilità di mantenere Conte nell'area della maggioranza, appoggiasse una risoluzione generica come quella presentata da Pierferdinando Casini che di fatto vi ha indotto a non votare la fiducia?

«Non mi aspettavo che finisse così. Avevo anticipato personalmente al Presidente del Consiglio quali fossero le nostre intenzioni. Ho sperato fino alla fine che la razionalità e l'amore per l'Italia prevalessero, da parte di tutti. Voglio però ribadire che noi non abbiamo negato la fiducia al governo, non abbiamo partecipato ad una votazione che non aveva nessuna logica. Dopo tutto quello che era successo, dopo che lo stesso Presidente Draghi aveva invocato una ripartenza, che senso avrebbe avuto concludere il dibattito al Senato votando un documento che lasciava irrisolte tutte le questioni aperte? Che anzi non diceva assolutamente nulla? La mozione Casini era semplicemente un espediente tattico voluto dal Pd per non dover affrontare scelte importanti per il futuro del Paese».

Cosa bisogna fare per rassicurare i nostri alleati a livello internazionale e i mercati che non si aspettavano un epilogo del genere?

«A questo punto l'unica cosa da fare è votare il più presto possibile, sapendo che dalle elezioni uscirà una maggioranza chiara e definita, di centro-destra, alla quale la nostra presenza darà un carattere rigorosamente atlantista e europeista, liberale e cristiano. I nostri alleati si aspettano credibilità e stabilità. Saremo noi a garantirla, badando a non disperdere quanto di buono c'è stato nell'esperienza del governo Draghi ed è molto, anche per merito nostro - e a continuarne l'opera, imprimendo una svolta liberale all'azione di Governo per accelerare lo sviluppo».

A questo punto vede un'altra strada percorribile oltre a quella delle elezioni anticipate in autunno?

«Purtroppo no. L'irresponsabilità dei grillini e i tatticismi del Pd ci hanno condotto a questo punto. Premesso questo, le elezioni non sono una bestemmia, il momento è sbagliato ma in democrazia dare la parola al popolo sovrano è sempre la più alta forma di legittimazione. Dopo 11 anni, finalmente gli italiani potranno decidere da chi vogliono essere governati. La democrazia è un bene prezioso, del quale può disporre solo un miliardo e mezzo di persone, su otto miliardi di abitanti della terra. Teniamocela stretta e ridiamole il giusto valore».

Immagino che lei si candiderà? Una nuova sfida.

«Sarò ovviamente in campo, alla guida di Forza Italia. È una nuova grande battaglia di libertà, che affronterò con l'entusiasmo di sempre. Del resto ero già al lavoro da settimane per preparare il programma per le elezioni del 2023. Ora si tratta di accelerare, ma molto del lavoro è già fatto».

C'è l'idea di una federazione tra Forza Italia e la Lega, addirittura di una lista unica per le elezioni. È un'ipotesi concreta?

«No, non lo è mai stata. La Lega è un alleato leale, siamo forze politiche diverse, espressione di culture diverse, con un linguaggio e uno stile politico diverso. Ci rivolgiamo ad elettorati diversi. Possiamo lavorare bene insieme, come abbiamo fatto nei giorni scorsi, confrontandoci con tutte le formazioni del centro-destra di governo sulle iniziative politiche da intraprendere, mantenendo ciascuno la propria identità. C'erano la Lega, l'UDC e Noi con l'Italia. Noi siamo liberali, cristiani, europeisti, garantisti. Siamo l'unico centro possibile, alleato con la destra democratica, nel solco del Partito Popolare Europeo, che abbiamo l'orgoglio di rappresentare in Italia».

La questione della premiership nelle ultime tornate elettorali ha creato non pochi problemi dentro il centro-destra, ha alimentato il dualismo Salvini-Meloni, non sarebbe il caso di fissare delle regole riconosciute da tutti?

«Credo sinceramente che questo sia il meno importante dei problemi. Quello che dobbiamo definire non è un nome, è un progetto comune da proporre agli italiani, credibile in Europa e nel mondo. Poi, alla fine del percorso, ragioneremo insieme sul nome più appropriato da proporre al Presidente Mattarella come nuovo Presidente del Consiglio».

La fine traumatica del governo Draghi ha provocato l'uscita di Mariastella Gelmini e Renato Brunetta da Forza Italia. Cosa ne pensa?

«Riposino in pace. Non sono abituato a commentare le decisioni di chi tradisce senza motivazioni e senza prospettive politiche. Io rispetto sempre le scelte di tutti. Anche quelle sbagliate. Però mi dispiace, sul piano personale, il modo in cui è avvenuta».

Vista la fine del governo Draghi e le polemiche che si sta portando dietro e i sondaggi che danno favorita l'alleanza di centro-destra si prospetta una campagna elettorale complicata. Si aspetta colpi di mano da parte della sinistra per condizionare le elezioni?

«Ho visto molte scorrettezze elettorali nel passato, sempre commesse dalla sinistra ai nostri danni. Talora con l'aiuto di alcuni settori politicizzati della magistratura. Ma ho fiducia nella tenuta del nostro sistema democratico. Guai se non fosse così».

Il tentativo populista di Lega, 5 Stelle e Forza Italia di autoassolversi dallo strappo contro il governo Draghi. Massimo Franco su Il Corriere della Sera il 21 Luglio 2022. 

C'è uno scaricabarile sconcertante sulle responsabilità della caduta del governo Draghi. Ora peserà molto il modo in cui mercati finanziari e istituzioni europee reagiranno all'instabilità scatenata dallo sgambetto a una personalità rispettata come l'ex presidente della Bce 

Il tentativo, ora, è di limitare i danni della crisi; di garantire una parvenza di continuità dopo le dimissioni di Mario Draghi e lo scioglimento delle Camere. 

Ci prova lo stesso premier, che rimane in carica per gli affari correnti. Ma non sarà facile. 

Per la prima volta ci sarà una campagna elettorale tra agosto e settembre. E l’incertezza e lo sconcerto che seguono la sua uscita di scena dopo lo strappo dei grillini e quello di Lega e Forza Italia risultano difficili da smaltire. 

Lo scaricabarile sconcertante sulle responsabilità prelude a tensioni crescenti. È già guerra di narrative. Con il Pd di Enrico Letta pronto a rivendicare una difesa coerente dell’azione del governo; e a additare i sabotatori senza fare differenze tra gli uni e gli altri: un «cambio di paradigma» che disdice il potenziale asse col grillino Giuseppe Conte. 

I Cinque Stelle abbozzano una goffa difesa sostenendo che Draghi li aveva praticamente «messi alla porta». 

Quanto al centrodestra «di governo», dopo lo smarcamento tenta di scaricare le colpe sull’asse M5S-Pd. Il punto di partenza è questo, l’epilogo tutto da scrivere. 

Peserà molto il modo in cui in queste settimane mercati finanziari e istituzioni europee reagiranno alla ricaduta dell’Italia in una fase di instabilità: per di più sacrificando una personalità rispettata a livello internazionale come Draghi. 

Le ironie dell’ex premier svedese Carl Bildt su un Cremlino pronto a stappare lo champagne se la Lega di Matteo Salvini vince le elezioni, è un assaggio del rischio di isolamento dell’Italia: come i dubbi di Letta sulla continuazione dell’appoggio all’Ucraina da parte di un governo di centrodestra. Salvini dice di lavorare già al programma del nuovo governo, dando per scontata la vittoria. Rottamazione delle cartelle fiscali, guerra all’immigrazione clandestina dal Viminale, e altre vecchie parole d’ordine. Sembra volere esorcizzare con l’attivismo il fantasma della destra di Giorgia Meloni, che invece garantisce l’esame dei provvedimenti bloccati dalla crisi. 

C’è una gran fretta di far dimenticare lo sgambetto a Draghi, che si è sommato al no alla fiducia dei grillini, la scorsa settimana. 

Lo scioglimento, definito «inevitabile» dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, rischia di bloccare le riforme e la stesura della legge finanziaria. Per questo il Quirinale ha deciso di stringere i tempi, ammonendo che non sono consentite pause. 

C’è la scommessa del Piano per la ripresa da vincere, per avere altri venti miliardi di euro dall’Europa. Ma soprattutto, c’è una credibilità da salvare. Sarà questo il vero problema da affrontare, tra schieramenti gonfi di contraddizioni interne ma già protesi verso la rissa.

La replica di Draghi a Berlusconi: “Macché stanco, io non volevo andarmene”. Giampiero Casoni il 22/07/2022 su Notizie.it.

A stretto giro di posta e dopo la crisi di governo arriva la replica di Mario Draghi a Silvio Berlusconi: “Macché stanco, io non volevo andarmene”

La replica di Mario Draghi a Silvio Berlusconi ha il tono di quelle contese in cui uno dei protagonisti non vuole passare per “fesso”: “Macché stanco, io non volevo andarmene”. Lo scenario che disegnano il Corriere della Sera ed Open è quello di un premier dimissionario che lascia intuire le “vere responsabilità” nella caduta del governo.

La replica di Draghi a Berlusconi

E che in buona sostanza, a contare che neanche inertizzato Giuseppe Conte avrebbe fatto recedere il centrodestra e che nello stesso Matteo Salvini brigava da tempo, lascia scoperto un solo fattore sorpresa, sorpresa amara: Forza Italia. In buona sostanza Mario Draghi si sente “mandato via” e fosse stato per lui da Palazzo Chigi non avrebbe schiodato affatto. A far cadere tutto sarebbe stata perciò la mozione del centrodestra.

Ecco perché oggi, a mente più fredda, Mario Draghi è “irritato” contro molti di quelli che nelle sue dimissioni ci hanno visto un’ecatombe istituzionale, perché sa benissimo che moltissimi fra quei molti nell’ecatombe hanno avuto parte attiva.

Sul quotidiano Libero Draghi ha replicato al Cav che di lui aveva detto che era “stanco” e che “ha scelto di andarsene”. Per l’ex presidente della Bce il centrodestra voleva esautorarlo con “un governo bis senza 5 stelle destinato a durare un giorno”.

Tutto il resto, per Draghi, sono solo “sciocchezze” e Berlusconi lo ha spiazzato.

Draghi dopo la crisi: un governo bis sarebbe durato un giorno. Berlusconi dice che sono stanco? Non lo sono. Monica Guerzoni su Il Corriere della Sera il 22 Luglio 2022.

Le lodi di Macron, il grazie al Parlamento e la cena con lo staff. Nega che scenderà in campo. Il fastidio per le frasi di Berlusconi

Il «grazie» al Parlamento e ai ministri che lo applaudono in piedi, due rapidi inchini con la testa e quella battuta, pronunciata con la voce che tradisce l’emozione: «Qualche volta anche il cuore dei banchieri centrali viene usato». Dietro il sorriso immortalato dalle telecamere mentre annuncia le sue dimissioni a Montecitorio c’è il sollievo per la fine della battaglia parlamentare. E c’è una vena di rimpianto. Il primo cruccio di Mario Draghi è non poter ultimare il lavoro avviato nel febbraio del 2021: per un ex presidente della Bce stimato nel mondo, che a 74 anni ha raggiunto ogni traguardo che si era prefissato, Quirinale a parte, lasciare incompiuto il programma di governo del Paese è di certo un rammarico. Il secondo cruccio è aver provato sulla sua pelle quanto le sirene delle elezioni possano togliere alle forze politiche «il senso di responsabilità nazionale».

Tutte sciocchezze

L’improvvisa svolta di Berlusconi (qui le sue parole al Corriere) lo ha molto colpito. E ieri sera, quando gli hanno riferito le dichiarazioni dell’ex premier, Draghi si è seccato parecchio. «Non sono stanco e non ho colto la palla al balzo — è stata la sua reazione —. E non è vero che il presidente Mattarella ce l’abbia con me, perché abbiamo condiviso ogni scelta, passo dopo passo». La verità per Draghi è che il centrodestra voleva disarcionarlo con «un governo bis senza i 5 Stelle, destinato a durare un giorno». Tutto il resto sono «sciocchezze», frutto di un grande lavoro «di disinformazione» orchestrato per ragioni elettorali.

Se Berlusconi lo ha spiazzato, Salvini lo ha sorpreso meno, perché da settimane Draghi aveva visto lo sfilacciamento dei rapporti con la Lega e sofferto l’inasprirsi delle rivendicazioni. Per paradosso, il premier ha costruito nel suo mandato un rapporto migliore con Giorgia Meloni, della quale ha apprezzato il «comportamento leale». Quanto a Giuseppe Conte, che lo ha giudicato «sprezzante e aggressivo», Draghi non si rimprovera di aver criticato duramente Superbonus e reddito di cittadinanza. E se qualcosa ha sbagliato mercoledì al Senato, pensa che «per valutare gli errori ci sarà tempo». Venuto meno il patto di fiducia che reggeva la maggioranza era necessario «andare a un chiarimento profondo», sia con i 5 Stelle che con la Lega. E se pure avesse smussato i toni sui dossier più identitari «sarebbe finita allo stesso modo», perché il centrodestra aveva scelto di correre al voto e ha approfittato dello strappo di Conte.

Nessuna recriminazione

Il governo dell’unità nazionale non c’è più e al suo posto resta un esecutivo per la gestione degli «affari correnti». Eppure, nel primo Consiglio dei ministri da dimissionario, Draghi riparte come nulla (o quasi) fosse accaduto: «Ora rimettiamoci al lavoro». Nessuna recriminazione, nessuna accusa. Ci sono anche i ministri che hanno lasciato le impronte digitali sulla crisi ma hanno tenuto le poltrone. Lui li ringrazia tutti e da quasi tutti incassa «applausi, solidarietà, affetto e stima». Giorgetti non parla, Speranza ricorda di averlo conosciuto al Quirinale il giorno del giuramento, Patuanelli accenna un «grazie presidente». Fra due mesi si vota, eppure Draghi sprona la squadra come se avesse una legislatura davanti: «Ora dobbiamo mantenere la stessa determinazione nell’attività che potremo svolgere nelle prossime settimane, nei limiti del perimetro che è stato disegnato».

Il perimetro è ampio. Draghi non scriverà la legge di Bilancio ma potrà far fronte alle emergenze «legate alla pandemia, alla guerra in Ucraina, all’inflazione e al costo dell’energia». Continuerà la sua battaglia in Europa per imporre un tetto al prezzo del gas dalla Russia, potrà portare avanti l’implementazione del Pnrr e decidere se inviare altre armi all’Ucraina.

Dolori e gioie

Giornata intensa, tra dolori e gioie: l’omaggio di Macron («grande statista, partner fidato») e un articolo lusinghiero dell’Economist. Aprendo il Cdm il premier ringrazia Mattarella per la fiducia e «la saggezza con cui ha gestito questa fase di crisi», formula che dissolve divergenze e attriti con il Quirinale. Sorvola sui diktat dei partiti, le liti, i distinguo, gli ultimatum e ringrazia i ministri «per la dedizione, la generosità, il pragmatismo» di questi 17 mesi. A parole li abbraccia tutti, draghiani e oppositori: «Dobbiamo essere molto orgogliosi del lavoro che abbiamo svolto, al servizio di tutti i cittadini». Evidente lo sforzo di spazzar via dal tavolo le scorie della battaglia e tranquillizzare l’Europa e i mercati rispetto all’esito delle prossime elezioni: «L’Italia ha tutto per essere forte, autorevole, credibile nel mondo. Lo avete dimostrato giorno per giorno». E dovrà dimostrarlo anche il premier al quale, o alla quale, tra un centinaio di giorni Draghi passerà la campanella. Per chi ha senso delle istituzioni «favorire il lavoro del governo che ci succederà» è un dovere che va oltre il colore politico.

Letta, Renzi, Calenda e Di Maio sono già in campagna elettorale e la lealtà al premier, fino alle dimissioni e oltre, è già uno slogan della sfida alla destra. «Proveremo a combattere per l’agenda Draghi», è la rotta indicata dal segretario del Pd. Vittorio Sgarbi pronostica che il campo largo di Letta sarà sostituito da un «campo per Draghi». Ma chi lavora a contatto con l’ex presidente della Bce esclude che abbia in mente di impegnarsi in politica: «Forse con dieci anni di meno sarebbe stato tentato, ma ora è assolutamente indisponibile». Non scenderà in campo e non solo perché, come azzarda un ministro, «non vuole fare la fine di Monti». Diverso sarebbe se dalle urne non uscisse una maggioranza e Mattarella gli proponesse di restare a Chigi. In quel caso per Draghi non sarebbe facile sottrarsi.

Prossimi appuntamenti

La sua agenda sarà più leggera, ma alcune date sono cerchiate in rosso: il Meeting di Rimini, un Consiglio Ue, una tappa a Praga, un evento con i giovani e l’assemblea dell’Onu. «Per i saluti ci sarà tempo» ha detto ai ministri, giurando che conserverà «un ricordo molto bello» delle riunioni a Palazzo Chigi.

Mercoledì sera, per quanto stremato dalla folle giornata a Palazzo Madama, Draghi ha portato a cena i membri del suo staff. C’erano Roberto Garofoli, Antonio Funiciello, Paola Ansuini, Francesco Giavazzi. E quando il presidente si è alzato per pagare il conto, ha incassato l’applauso di tutto il ristorante.

Crisi di governo, Draghi dopo le dimissioni: «Ora lasciatemi fuori». Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022. 

L’agenda Draghi non coincideva con l’agenda dei partiti? Secondo il premier, la crisi di governo è stata un «divorzio unilaterale», deciso dal centrodestra dopo l’«ingenuità» del M5S. La settimana che cambiò l’Italia: dalle dimissioni respinte a quando ha rassegnato il mandato 

«Le cose andavano bene e bisognava farle andare male». L’altro ieri, per commentare la fine del governo, Draghi si è ispirato alle leggi di Murphy e le ha adattate alla sua indole romana. Così, con una battuta, ha smontato la tesi in voga nel Palazzo: l’idea che la crisi sia stata frutto di un divorzio consensuale tra il premier e le forze della maggioranza, che avrebbero tacitamente convenuto di non poter più andare avanti perché l’agenda Draghi non coincideva con l’agenda elettorale dei partiti.

Il presidente del Consiglio — che la crisi l’ha vista da vicino — sostiene invece si sia trattato di un «divorzio unilaterale», deciso dal centrodestra dopo l’«ingenuità» dei Cinque Stelle. Salvini e Berlusconi hanno subito sfruttato l’occasione offerta da Conte. Altrimenti non avrebbero rotto, timorosi com’erano della reazione del loro elettorato. È l’imperizia del Movimento, insomma, ad aver compromesso irrimediabilmente l’equilibrio. E sempre da lì parte ogni qualvolta ripercorre la fine delle larghe intese. E rivede l’atteggiamento sempre più conflittuale del leader della Lega che nemmeno rispondeva alle telefonate, il gioco a specchio del Cavaliere, certe reazioni stizzite di una parte del mondo accademico geloso dei risultati del suo gabinetto.

La sciocchezza del Movimento

Senza la «sciocchezza» del Movimento resta convinto che avrebbe proseguito, anche nelle difficoltà prodotte dai partiti che — avvicinandosi la scadenza elettorale — ogni giorno avanzavano nuove richieste. «Siete dei rompiscatole», diceva Draghi al termine delle telefonate: «Tanto lo so che domani vi inventerete un’altra cosa». Sarà stato forse un eccesso di razionalizzazione dei processi, ma era persuaso che la maggioranza gli avrebbe fatto completare il programma e gestire le rogne: dalla Finanziaria al rigassificatore di Piombino, contro cui hanno protestato tutti i partiti della coalizione, insieme al sindaco della città che è di Fratelli d’Italia.

È dopo «l’errore di Conte» che ha cambiato idea. Perciò era salito al Quirinale per rassegnare il mandato: «Ma Mattarella — disse ai suoi collaboratori — mi ha chiesto di andare in Parlamento e io ci vado». Le cinque giornate di Draghi, vissute tra le dimissioni e il dibattito al Senato, sono state la testimonianza che non c’era più nulla da fare. «In quella fase — raccontano a Palazzo Chigi — era un susseguirsi continuo di telefonate con il capo dello Stato: cinque, sei, sette... A un certo punto abbiamo perso il conto».

In Draghi il «tentativo genuino» di provare a rimettere insieme i cocci della maggioranza si scontrava con la percezione che mancasse la volontà dei partiti di collaborare. E che questo fosse «l’epilogo naturale delle elezioni del 2018». Dopo il definitivo commiato dall’incarico, il premier ha ricostruito la sequenza degli eventi e si è convinto che non sarebbe servito a nulla «un approccio più mellifluo» nel discorso al Senato, «perché tutto era stato deciso». I grillini «non volevano ricucire» e Salvini — che vedeva «la porta spalancata» delle urne — aveva già stretto l’accordo con Berlusconi.

Ne ebbe la certezza la sera in cui ricevette a Palazzo Chigi la delegazione del centrodestra, che protestò perché in mattinata Draghi aveva incontrato il segretario del Pd . «Letta aveva chiesto di vedermi», rispose il premier: «Allora gli ho detto di venire qui. Sarà stato un errore ma...». «Mario», lo interruppe Tajani: «Nessuno di noi ha mai messo in dubbio la tua malafede». E dopo quel lapsus freudiano, iniziò una lunga sequenza di richieste per dar vita a un nuovo governo e andare al voto a marzo. «Fosse per me anche a febbraio», spiegò il capo del governo: «Ma questa decisione spetta a Mattarella, non posso stabilirla io».

Il profilo super partes

Tutti sapevano che Draghi non avrebbe mai accettato di guidare un Draghi-bis, né nella versione proposta dal centrodestra né nella versione poi auspicata dal centrosinistra. Il motivo è chiaro, e non è legato solo al fatto che questo nuovo esecutivo non sarebbe durato «nemmeno un giorno». Il punto è che l’ex capo della Bce, dicendo sì, avrebbe perso il suo profilo super-partes. E non intendeva consegnarsi al gioco dei partiti, nemmeno indirettamente. Infatti quando alcuni esponenti politici nei giorni scorsi gli hanno chiesto di poter usare il suo nome per la loro lista, il premier li ha dispensati con una battuta, prima di chiedere di «lasciarmi fuori»: «Basta con la politica. Ho altre idee per me in futuro».

Eppure quando entrò al Senato per il suo ultimo intervento, avrebbe proseguito «se i partiti avessero preso coscienza degli errori». Certo, «aveva le tasche piene» dell’andazzo, «ma non ero stanco» come ha sostenuto il Cavaliere. E non voleva i «pieni poteri», anche se «quella frase sugli italiani che ho pronunciato in Aula potevamo migliorarla», ha detto poi ai collaboratori. Ma la richiesta di restare a Palazzo Chigi giunta dal Paese, l’aveva condivisa. Quanto le parole dei suoi familiari che — dopo aver inizialmente accolto con sollievo le sue dimissioni — gli avevano intimato: «Non puoi star fermo».

Quel discorso a Palazzo Madama parve però a tutto l’emiciclo un’entrata a gamba tesa sulla politica, come se il premier cercasse di farsi «espellere». Nelle intenzioni di Draghi era invece l’unico modo per dire le cose come stavano: «Bisogna ricominciare a trivellare per estrarre il gas. E Piombino, i balneari, i tassisti...». E infine il passaggio su Putin, che non poteva esimersi dal fare e che sapeva avrebbe fatto imbestialire Salvini, intento ancora a coltivare stretti rapporti con l’ambasciatore russo, con cui si vede a cena.

I rapporti ruvidi

È finita com’è finita. Ma dopo le cinque giornate, Draghi ha potuto constatare com’erano cambiati nel tempo i rapporti in seno al Consiglio dei ministri, anche con le persone con cui nell’anno e mezzo di governo aveva avuto «rapporti ruvidi» e che però nell’ultima fase si erano mostrati «collaborativi». Per esempio Franceschini . I loro duelli in seno al governo sono noti, ma il premier riconosce che il ministro della Cultura si è «adoperato per ricucire» ed evitare la crisi. Quando arrivò a Palazzo Chigi non si capacitava del fatto che i media venissero a sapere quasi in tempo reale di quanto accadeva durante le riunioni. Tanto che un giorno avvisò i ministri: «Non costringetemi a farvi lasciare i cellulari fuori dal salone».

Ora che sta per congedarsi farà «il possibile» per garantire la transizione con il prossimo esecutivo sui temi in agenda: dal Pnrr alla contabilità di Stato. E non vede scossoni a livello internazionale per l’Italia. È vero, dai partner occidentali sono arrivati molti appelli pubblici e molte telefonate private perché non mollasse. Ha gestito tutto direttamente, con il suo cellulare, senza mai passare attraverso i canali diplomatici. E quando gli hanno chiesto se anche Biden l’avesse chiamato, ha tergiversato un attimo prima di rispondere «no».

Le cinque giornate sono state molto dure. In quella fase è parso taciturno e guardingo anche con le persone dello staff: «D’altronde — sussurrano a Palazzo Chigi — era la prima volta nella sua lunga esperienza che si trovava con tante persone intorno. Nemmeno alla Bce». Così si viene a sapere che a Francoforte circolava una definizione sul suo conto: «Draghi è ovunque ma non è qui». Il premier non ne era (ovviamente) al corrente, ma l’ha trovata simile a quella che fece un suo amico negli anni della giovinezza: «Mario è altrove, impegnato».

Le idee per il futuro

Adesso sono tornate le battute e si concede a discutere di politica leggendo i sondaggi, che prevedono un risultato elettorale chiaro e che però fanno anche trasparire un desiderio di centro nella pubblica opinione. Perciò si informa sulle dinamiche dei partiti e sui processi di aggregazione che dovrebbero verificarsi in vista del voto. È un modo per prepararsi al distacco, in attesa delle «idee che ho per il mio futuro». E che non prevedono alcun tipo di coinvolgimento nella sfida delle urne. Semmai è rammaricato per non aver completato la missione, perché — per esempio — sulla politica energetica, dopo essersi speso per garantire un progressivo distacco dalla dipendenza russa, teme che a novembre non parta il rigassificatore di Piombino. Un vero chiodo fisso.

Al pari della Roma. L’acquisto di Dybala l’ha galvanizzato, il fantasista argentino gli piace tanto. E il fatto che abbia segnato il primo gol della squadra in allenamento è per lui una sorta di premonizione. Ma è Mourinho l’uomo che «ha cambiato tutto». Dopo la vittoria della Conference league, Draghi sostenne che il tecnico portoghese avesse «trasformato un gruppo di abili giocolieri in una squadra». Non c’era alcun riferimento alle vicende politiche.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 21 luglio 2022. 

Più imprevedibile di un manicomio, la politica ha messo in scena l'inedito, goffo duello finale tra Matteo Salvini e Pierferdinando Casini, il gabbamondo sempre gabbato contro il più astuto di tutti, gatto e al tempo stesso volpe dell'eternità italiana. Incredibilmente, hanno perso entrambi, Salvini e Casini, ma solo perché Berlusconi non ha perdonato Pierfurby, come per sempre lo ha battezzato Dagospia catturandone l'anima, e mai avrebbe permesso proprio a lui - "il traditore" - di salvare Mario Draghi e il suo governo.

Salvini non se l'aspettava, sognava di avere imprigionato Draghi in un'altra tela, una supertela da Uomo Ragno, e di essere diventato, proprio lui così ruvido e maldestro, il nuovo finissimo tessitore di Palazzo, nascosto come il papa absconditus del diritto ecclesiastico. E ora è furioso perché, in una giornata-babele ha invece aiutato Draghi a dimostrare che, anche in Italia, ci si può dimettere non solo quando ci si sente "al di sotto", ma anche quando ci si sente "al di sopra", come fu, per esempio, il caso di De Gaulle che andò via senza dare spiegazioni e perciò permise a Raymond Aron di scrivere: «È un piacere ascoltare il silenzio di quest' uomo».

Matteo Salvini lo aveva pure detto: non temo Giorgia Meloni, temo Giuseppe Conte. Non che ancora lo temesse come l'avversario che solo tre anni fa - sembra un secolo - lo aveva castigato e umiliato. Salvini temeva Conte come destino finale. Non solo aveva paura che la Lega si sgretolasse come i 5stelle, ma che "l'effetto Draghi" continuasse a immiserire la sua leadership, sino a renderlo appunto insignificante: un altro Conte. 

Ovviamente il capitano ha ancora il terrore di non essere più capace di sedurre, riscaldare e caricare i ragazzi padani che a settembre lo aspettano a Pontida, «i rivoluzionari da scuola Radioelettra» li chiama Giorgetti, che ieri sera gli ha detto: «La tua partita comincia adesso, dopo i novanta minuti in campo».

Ieri Salvini implorava Berlusconi - non fatemi "marciare" con Giorgia Meloni né "marcire" con Giancarlo Giorgetti - quando si è messa vorticosamente a girare la sua doppia identità. La scenografia era la Villa Grande che fu di Zeffirelli, il teatro del colpo di scena, del grande spettacolo, dell'eccesso che prende la mano. Dunque si sentiva smarrito, Matteo Salvini, come l'omino volante di Chagall, ma nella versione dell'omaccio volante, deturpato dal rancore, il meno zeffirelliano di tutti gli uomini. 

E perciò alle 13, con Berlusconi, Salvini posava a statista: «Faremo il bene dell'Italia». Alle 14 telefonava, addirittura, a Giorgia Meloni: «Preparati alla campagna elettorale, torneremo insieme». E poi alle 15, al telefono con Mattarella, di nuovo: «Presidente, faremo il bene dell'Italia ». E ancora alle 20, quando tutto ormai sarà finito, dirà: «Faremo il bene dell'Italia».

Salvini si era pure preso le sberle di Draghi ma, obbedendo a quell'altro se stesso, paziente e strategico, che non riuscirà mai a diventare, aveva indossato la tunica penitenziale, si era adornato di umiltà e aveva scelto di non parlare al mattino in Senato. Avrebbe voluto farlo nel pomeriggio per battezzare il Partito unico, «il centrodestra di governo per Salvini presidente». Non che avesse rinunciato a fare il regista: aveva ceduto il suo posto al capogruppo Romeo e si era messo a trattare, ma questa volta senza esporsi per non ripetere il disastro del gennaio scorso quando, alle grandi manovre per il Quirinale, bruciava "nomi" a ripetizione, persino quelli di Sabino Cassese e di Elisabetta Belloni.

E va bene che siamo nel Paese delle mille identità, ma più che il solito, abusato Machiavelli ci vorrebbe adesso un comico per raccontare quel capitan Salvini che, in combattimento contro se stesso, per tutta la durata del governo Draghi si atteggiava a Churchill: «Sono pragmatico, sono un uomo concreto, lascio agli altri le etichette: fascista, comunista».

Studiava i codici della moderazione da quando a Bologna lo avevano sconfitto - ricordate? - le sardine. Mascherato da Cherubino di Mozart, «non so più cosa son, cosa faccio», si tratteneva in maniera sgangherata davanti a Draghi che fingeva di credere al suo travestimento pur sapendo che, prima o poi, Salvini sarebbe tornato se stesso. E se all'inizio ci volevano i nomi "Elsa Fornero" o "Carola Rackete" per farlo tornare, magari per un momento, l'incredibile Hulk, quello che più insultava e più seduceva una certa Italia in decomposizione: «sbruffoncella, fuorilegge, complice dei trafficanti, assassina, delinquente, criminale».

E invece, dopo l'aggressione dell'Ucraina, erano i raggi gamma di Putin a risvegliare il capitan Fracassa dei "pieni poteri", diventato pacifista e filorusso. Anche "la ciambella" con cui aveva sognato ieri di salvare e imprigionare Mario Draghi in una camicia di forza, la mozione presentata dal suo fido Calderoli, deve essergli sembrata una sapienza di filosofia politica anglosassone alla Isaiah Berlin e non la solita furbizia politica meridiana, la destrezza di mano del terrone padano: «Il Senato accorda il sostegno all'azione di un governo profondamente rinnovato sia per le scelte politiche sia nella composizione ». Ma poi, all'improvviso, come Clint Eastwood, è arrivato Pierfurby, con il suo rigo appena: «Il Senato, udite le comunicazioni del presidente del Consiglio dei ministri, le approva»: al cuore, Ramon, al cuore. 

Dai co-ispiratori involontari ai responsabili ultimi. Chi ha causato la crisi. SALVATORE VASSALLO, politologo, su Il Domani il 21 luglio 2022

L’incredibile fallimento andato in scena in Senato ha co-ispiratori e responsabili diretti. Lo possiamo dire ex post, si intende, perché fino all’altro ieri le ragioni della continuità e le spinte per garantirla apparivano talmente forti da poter contrastare le tante derive in senso opposto. Nel pieno di una guerra in Europa, con tutto quello che ne consegue a cominciare dall’emergenza energetica, la politica italiana da un calcio al premier che aveva invocato come salvatore della patria in un meschino vortice di risentimenti, inconcludenza e fretta di tornare al voto. Cancella in un pomeriggio il patrimonio di reputazione acquisito presso i nostri principali alleati nel mondo e fa un regalo graditissimo a Vladimir Putin.

INFLUENZA MELONIANA

In ordine inverso di influenza, il primo co-ispiratore è ovviamente il partito di Giorgia Meloni, che non ha mai smesso di ripetere il mantra “elezioni subito” e ha messo quindi fretta ai suoi alleati impauriti di arrivare alla primavera del 2023 prosciugati.

La richiesta era (per loro) ovvia, i modi sono stati del tutto sgrammaticati. I fratelli di Giorgia sembra non abbiano ancora imparato che la volontà popolare nella nostra repubblica democratica si esercita “nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Anche le scelte dell’arbitro sono discutibili, ma fino a che l’arbitro non fischia la fine della legislatura, la sovranità popolare è legittimamente esercitata da chi era stato eletto dai cittadini per rappresentarli in parlamento (punto).

Il secondo co-ispiratore, è quella (larghissima) parte del PD che, all’opposto, ha voluto mantenere Sergio Mattarella al Quirinale e Mario Draghi a Palazzo Chigi, pensando di far durare all’infinito il miracolo di un partito che con il 20% dei voti induce tutti gli altri ad accettare un proprio esponente alla presidenza della repubblica e un capo del governo perfettamente in sintonia con la propria agenda politica. Va detto che di mezzo c’è stata l’invasione russa dell’Ucraina e avere Mattarella, Draghi, Lorenzo Guerini e il Luigi Di Maio atlantista nei posti chiave ha dato all’Italia una posizione solida nei momenti decisivi. Però, come previsto, appena è diventato certo lo scavallamento della scadenza che garantisce loro la pensione (23 settembre), i parlamentari giallo-verdi si sono sentiti liberi di rompere le righe; Draghi è stato bruciato in malo modo e Mattarella potrebbe essere ora “costretto” a rimanere in carica 14 anni per non cedere il passo a un presidente espresso dal solo centrodestra.

IL RUOLO DI SALVINI

Il terzo è Matteo Salvini, su cui c’è poco da dire. Si è ripreso il ruolo di capitano degli anti-immigrati e si è preso una rivincita sui leghisti-di-governo, per ammutolire i quali è stato sufficiente sfruttare lo stile inutilmente urticante scelto dal Presidente del Consiglio per il suo discorso al Senato, come in altre recenti occasioni.

I principali responsabili sono gli ultimi due della lista. Giuseppe Conte si era proposto come civilizzatore del M5S. Al momento della rottura con il Salvini del Papete, pareva pronto a trasformare il partito di Grillo in una squadretta affiatata a sostegno della democrazia liberale, di una UE riformata, in perfetta sintonia con il Quirinale. La gestione della pandemia gli ha regalato popolarità e lo aveva reso credibile come co-fondatore di un nuovo centrosinistra. Avrebbe potuto lasciare di comune accordo la bad company pentastellata con la scusa di generare valore aggiunto e allargare il consenso attraverso un ulteriore marchio. Invece ha seguito le voci di dentro (Rocco Casalino, Paola Taverna) che lo hanno indotto a puntare sull’usato logoro e poi forse anche voci di fuori (che tifano per il disimpegno dell’Italia verso l’Ucraina e la destabilizzazione del nostro quadro istituzionale). Lui è diventato il portavoce dei demolitori, Di Maio il capo dei responsabili.

Ma il disastro poteva essere evitato se Silvio Berlusconi o chi per lui avesse detto: “fermatevi un attimo”. La Lega non avrebbe potuto strappare. Purtroppo, Fi non ha classe dirigente capace di esprimere una linea politica in proprio e Berlusconi si è consegnato a Salvini in cambio di non si sa cosa, contro Confindustria e i vertici del Ppe, andando incontro a una campagna elettorale estiva in cui risulterà invisibile.

I due principali responsabili del disastro, FI e M5S, hanno veramente poche cose in comune. Se non che sono due partiti senza bussola, tanto da causare elezioni anticipate da cui hanno solo da perdere. Andando da soli nei collegi uninominali, i 5S si ridurranno nella prossima legislatura a quattro gatti. Forza Italia, vaso di coccio nella competizione tra Lega e Fdi, continuerà la sua discesa verso l’irrilevanza.

SALVATORE VASSALLO, politologo. Salvatore Vassallo è professore ordinario di Scienza politica e Analisi dell'Opinione Pubblica nell'Università di Bologna. È direttore dell'Istituto Cattaneo.

L’AUTUNNO DEL PATRIARCA. Berlusconi passa la mano stanco di politica. DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 21 luglio 2022

Berlusconi si è consegnato a Salvini. Volontariamente, come nella più classica sindrome di Stoccolma. Ma prigioniero comunque. Tenuto all’oscuro di una buona parte delle cose che potrebbero mettere in dubbio la scelta di consegnarsi

Chi lo ha visto negli ultimi giorni lo descrive come «stanco di politica». Lo sfottò letterario, ma comunque affettuoso di chi sa alla fine di dovergli tutto, si traduce nell’immagine di un Silvio Berlusconi ormai un po’ disinteressato alle vicende del suo partito; abbastanza rimbambito; e molto molto isolato. È questo l’ex cavaliere che mercoledì sera al Senato ha fatto la differenza nella “non fiducia” della destra di governo a Mario Draghi.

Una condizione generale dell’uomo e del leader politico che non nega il fatto che durante le lunghe ore di trattativa con Matteo Salvini a Villa Grande – il villone sulla via Appia che è la sua nuova pomposa residenza romana – prima di concedere il nulla osta per mandare a casa Draghi, si è fatto dare ampie garanzie di «pari dignità» per i candidati di Forza Italia nelle future liste con la Lega. Ieri, a Repubblica, ha dato l’impressione opposta: Draghi «ha colto la palla al balzo per andarsene» e «adesso siamo già al lavoro per un nuovo governo di centrodestra».

SALVINI VENTRILOQUO

La verità sarebbe diversa. È ormai sparito l’anziano leader che vola dalla Francia per partecipare alle consultazioni con l’incaricato Draghi, quello che con Draghi ha un rapporto «antico e solidissimo», quello che «l’ho mandato io alla Banca d’Italia e alla Bce». Non c’è più. Al suo posto c’è un Berlusconi che chiede la verifica di governo da ventriloquo di Matteo Salvini quando i Cinque stelle non partecipano alla fiducia sul decreto Aiuti. E che poi sfonda le dighe, cede definitivamente al leghista, e dà l’ok alla risoluzione per il Draghi bis, con nuovi ministri leghisti. Una formula che è una provocazione visto che il presidente del Consiglio l’aveva respinta davanti allo stesso Salvini e ad Antonio Tajani la sera di martedì a palazzo Chigi.

Berlusconi si è consegnato a Salvini. Volontariamente, come nella più classica sindrome di Stoccolma. Ma prigioniero comunque. Tenuto all’oscuro di una buona parte delle cose che potrebbero mettere in dubbio la scelta di consegnarsi.

Per esempio: i cronisti che mercoledì mattina stavano di guardia davanti alla porta dell’aula del Senato da cui era entrato Mario Draghi, hanno visto per tre volte il premier allontanarsi con il cellulare in mano, e tornare subito dopo. Il presidente ha provato a contattare Silvio Berlusconi, ma non gli è stato passato. Avrebbe voluto sentire dalla sua voce l’intenzione del suo partito, proprio in virtù di quell’«antico e solidissimo» rapporto. Una nota ufficiale del centrodestra di governo smentisce questa ricostruzione, ma delle telefonate a vuoto di Draghi ci sono testimoni oculari. 

LE PERDITE

Con la scelta di buttare giù il banchiere Forza Italia ha subìto quattro perdite di prestigio. La prima, annunciata in aula, il senatore Andrea Cangini, solido liberale: il discorso di Draghi era pieno di «cose utili al paese oltreché largamente compatibili con una cultura di centrodestra», ha detto mercoledì in dissenso dal gruppo. A ruota l’ha seguito la ministra Mariastella Gelmini, dopo un “incontro ravvicinato” con la senatrice Licia Ronzulli, vicinissima a Salvini e ruspante vigilante della prigionia dorata di Berlusconi. Ieri mattina è arrivato l’addio del ministro Renato Brunetta, che nel Transatlantico della Camera ha ricevuto la solidarietà dei colleghi e l’omaggio dei cronisti.

«Forza Italia ha rinnegato la sua storia», ha spiegato, «il mio partito ha deviato dai valori fondanti della sua cultura: l’europeismo, l’atlantismo, il liberalismo, l’economia sociale di mercato, l’equità, i cardini della storia gloriosa del Ppe integralmente recepiti nell’agenda Draghi». È il ritratto, en rose e anche un po’ immaginario, del vecchio cavaliere. In serata persino la cautissima Mara Carfagna, che resta in un governo sfiduciato dal suo partito, ha preso le distanze da FI e «avviato una seria riflessione», pur «grata al presidente Berlusconi per le opportunità che mi ha offerto in questi anni». Solo che da mercoledì di Berlusconi ce n’è un altro, virtuale, ed è Salvini a gestirne il profilo.

DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

Berlusconi, l’eterno ritorno del Caimano: l’impunito che ha fatto saltare più governi che fidanzate. Francesco Merlo su La Repubblica il 22 Luglio 2022. 

Lo "statista moderato", il "patriarca liberale" ha staccato la spina all'esecutivo Draghi

"Draghi chi?" ha detto mercoledì sera al telefono a un vecchio amico della banda malandrina e non è stato uno sbotto di boria, ma "di allegro realismo". Davvero l'ha detto?, ho chiesto. Siamo nell'Italia di Berlusconi e anche la spocchia ha la sua tradizione e i suoi precedenti. Nel "Draghi chi?", come in un Oscar autoassegnato alla carriera, si condensa infatti la vita dell'eversore e dell'impunito che, nella sua lunga collezione di banchi sbancati e di tavoli rovesciati, ha fatto "saltare" più governi che fidanzate, e sia bicamerali sia festival di Sanremo, e una volta persino la coppa dei campioni del suo Milan, offeso perché c'era un riflettore difettoso.

Il morso del Caimano Silvio Berlusconi sulla fine di Mario Draghi. Ha iniziato la legislatura da sconfitto, si è allontanato dalla politica, ma ha sempre cercato di indirizzare Salvini. A 86 anni farà l’ottava campagna elettorale dopo un’inedita svolta a destra sostenuta dalla corrente milanese (Fedele Confalonieri) e osteggiata da quella romana (Gianni Letta). Carlo Tecce su L'Espresso il 21 Luglio 2022.

Ci siamo cascati un’altra volta. Confusi da quel solito doppio strato di cerone o di calza color carne. Il solito Silvio Berlusconi, ineffabile e pure imprendibile, il Caimano mai sazio di morsi, ci ha fregati ancora. Così diverso e sempre uguale a sé stesso, immune agli acciacchi, ai giudici come gli piace dire, al calendario come non gli piace dire, ha diretto la caduta di governo col solito piglio da padrone di casa anche se Forza Italia è una casa sempre più piccina e di periferia.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 21 luglio 2022

Eppure c'è sempre una villa di Berlusconi al crocevia e all'epilogo della prolungatissima crisi italiana. Brevi ed edulcoratissimi videoclip trasmettono su milioni di schermi le immagini dei notabili del centrodestra che attorniano il padrone di casa, prima in piedi, poi seduti in circolo sotto il portico, sedie da giardino, qualche ombrellone, pini e ulivi sullo sfondo, qualche volta si vede la camminata di gruppo sul prato.

Manca l'audio, effetto acquario. In questo fine stagione segnato dalla canicola la regia della Real Casa è ben attenta a nascondere sgocciolii di sudore sui volti e pezze sui vestiti; in compenso gli addetti alla comunicazione hanno cominciato a metterci la colonna sonora, ieri una musica elettronica fra il rilassante il satisfying, l'app del telefonino l'attribuisce a un gruppo che si chiama "We Deserve This", ce lo meritiamo.

Loro senz' altro, se lo meritano, altri meno. Villa Grande, in realtà, non è poi così grande.

Niente di paragonabile ai fasti urbanistici di Villa La Certosa, compiuto incrocio di Versailles e Wonderland, Luigi XIV più Michael Jackson con tanto di planimetria, sembra, mutuata del Tempio di Re Salomone. Dotata di pizzeria, gelateria (con finti scontrini), giostrina, casa delle farfalle, eccetera.

Nei primi anni 2000 venne "coperta" dal segreto di Stato, ciò che forse impedì si venisse a sapere che al termine di una cena con Putin, durante un sontuoso spettacolo pirotecnico, un maldestro razzo bruciò i pantaloni all'autocrate d'onore. 

Nessuno lo dice anche perché l'Appia antica è splendida, specie al tramonto, ma Villa Grande è scomoda e, anche al confronto di Arcore, assai modesta.

Con qualche azzardo documentario, ma conoscendo i ribaldi ghiribizzi del berlusconismo megaloide, si può sospettare che l'altisonante denominazione sia frutto del nuovo proprietario. Invano cercano di avvalorarne la fama il busto dell'imperatore Ottaviano all'ingresso, gli immancabili e pesanti drappeggi & damaschi, lo studio con le bandiere; ci sono "appena" cinque camere da letto, non si sa se vi è mai arrivato il lettone putiniano e cadendo nel bagno, appena arrivato, Silvione si fece malissimo. 

Detta per negazione: non è affatto una reggia; sta dentro una specie di comprensorio nel quale i vicini di casa sono lo stilista Valentino, la spericolata cantante Ana Bettz, gli studi di Franco Nero e il produttore Raparelli; non lontano abita Christian De Sica.

Per Zeffirelli, che vi abitò a lungo e la vendette a Berlusconi più di vent' anni orsono, andava benissimo. Nel giardino sono sepolti tutti i suoi amatissimi cani. C'è anche una sorta di monumento a Musetta o a Biondella, ex randagie che il Maestro riportò dalla Romania. Dudù si è visto in una sola clip. 

Tutto questo non c'entra nulla col governo e con i destini della nazione. Al dunque conta poco anche la circostanza che Berlusconi, a Roma, sta sempre chiuso lì dentro, non partecipa più di persona agli incontri, né agli scontri che a colpi di Xanax stanno dilaniando Forza Italia.

Ma la storia politica non potrà fare a meno di ricordare che lo spintone a Draghi, bene o male, fu decretato in una sua villa, estremo lascito di un potere che continua a sentirsi monarchico, anche se il sovrano è sempre più vecchio, i cortigiani sempre più torvi o immalinconiti, il gastro-clou del nuovo cuoco Adelmo sono le pere cotte e gli alleati della Lega e delle altre nanesche formazioni, maledicendo il caldo e la distanza, devono attraversare la città, varcare cancelli assediati da giornalisti riarsi dalla sete, per fare finta di dare ragione al vecchio re e poi pensare, meglio se cinicamente, ai comodacci loro.

Giorgia Meloni, nel frattempo, che ha il jolly in mano, ha preteso di essere dispensata delle riunioni definendole «conviviali» - là dove l'apparente asetticità del linguaggio nasconde il più sprezzante disdegno per tutto quel lussuoso baraccone. Una delle ultime volte che ha messo piede a Villa Grande fu quando (14 febbraio) lei e gli altri volponi del centrodestra «chiesero di accettare » - tali gli infausti verbi risuonati nel millimetrico comunicato - la candidatura al Quirinale. Eh, figurarsi la scena! Faceva freddo. Intabarrato in un golfone, con un filo di ansia Berlusconi, che pure nella sua vita ne ha fatti fessi tanti, disse: «Non chiedetemi se io ho i numeri, ditemi se ci sono i vostri numeri per me». E quelli sì-sì-sì - e già prima del cancellone avevano spifferato il Piano B.

Dagospia il 22 luglio 2022. ALLA FINE SALGONO TUTTI SUL CARROCCIO DI SALVINI - LA CADUTA DEL GOVERNO DRAGHI HA MOSTRATO CHE NELLA LEGA I TANTO DECANTATI “GOVERNISTI”, “RESPONSABILI” E “MODERATI” NON ESISTONO - NON SOLO IL PAVIDO GIORGETTI, ANCHE ZAIA E FEDRIGA CHE HANNO INSALIVATO DRAGHI PER MESI ELOGIANDOLO IN OGNI MODO, NON HANNO MOSSO UN MUSCOLO PER EVITARE IL “DRAGHICIDIO”: TUTTI ALLINEATI E COPERTI DIETRO IL “CAPITONE” - LA COLPA NON E’ LA LORO, E’ DI CHI GLI HA ATTRIBUITO UNO SPESSORE CHE NON HANNO...

 FEDRIGA, DRAGHI HA FATTO OTTIMO PERCORSO TRA DIFFICOLTÀ

(ANSA il 22 luglio 2022) - "Mario Draghi ha fatto un ottimo percorso in mezzo a molte difficoltà con una maggioranza estremamente eterogenea. Penso al Pnrr, alla lotta alla pandemia, alla crisi con la guerra in Ucraina, alla crisi economica: è riuscito a tenere e ad avere quella capacità di dialogare con i paesi stranieri che ha reso l'Italia protagonista". Lo ha sottolineato il presidente del Friuli Venezia Giulia e della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga, a margine di un incontro alla Corte dei Conti. Riflettendo su una possibile candidatura di Draghi con un grande centro e il Pd alle prossime elezioni, Fedriga ha puntualizzato che il premier dimissionario "ha escluso qualsiasi ipotesi di strumentalizzazione della sua persona e questo, secondo me, sottolinea ancora una volta anche le qualità umane di Draghi". Il Governo Draghi, ha quindi aggiunto, "c'è ancora per disbrigare gli affari correnti. Sono contento delle parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella", sulle questioni urgenti, che "verranno portate avanti dal governo in carica e avranno un processo di continuità rispetto alle elezioni che si terranno a settembre, quindi alla nascita del nuovo esecutivo". Tra queste, ha ricordato Fedriga, le milestone del Pnrr e la questione energia.

C. Zap. per il “Corriere della Sera” il 23 luglio 2022.

Matteo Salvini si compiace per la compattezza mostrata dalla Lega. Ma con i governatori del Carroccio ci sono state 48 ore di gelo dopo tanti malumori e maldipancia trattenuti a fatica per giorni (vedi il caso del mancato comunicato di sostegno a Draghi). Perché sui territori l'ipotesi di andare ad elezioni prima e di non votare la fiducia al governo poi ha avuto un peso ben diverso da quello percepito a Roma. Le categorie economiche e i mondi di riferimento si sono fatti sentire, contavano che prevalesse il senso di responsabilità. Quella linea in Senato, però, non ha retto. Il timore di pagarne le conseguenze è stato avvertito dai governatori che hanno tuttavia preferito annegare la loro rabbia nel silenzio.

Ma ora è già tempo di campagna elettorale. È anche, o soprattutto, per questo che Luca Zaia e Massimiliano Fedriga (ma anche Attilio Fontana, Christian Solinas, Donatella Tesei e il presidente della Provincia autonoma di Trento Maurizio Fugatti), così come Giancarlo Giorgetti e i colleghi ministri Massimo Garavaglia e Erika Stefani, alla fine, pur avendo sostenuto la necessità di garantire appoggio a Draghi, si sono allineati alla scelta del leader, diversamente da quanto è avvenuto in Forza Italia.

La fronda sembra rientrata, pronta a riemergere se le elezioni non dovessero andare come ci si aspetta. Nella Lega il dissenso esplicito, al di là di non essere gradito, non ha mai fatto la fortuna di chi se ne è reso interprete, fin dai tempi di Umberto Bossi. Del resto, Salvini sapeva che la posizione dei governatori poteva essere insidiosa per lui.

Per questo li ha consultati prima, durante e anche nei momenti decisivi dell'epilogo del governo. E anche ieri, all'avvio di una campagna elettorale che nelle intenzioni dovrebbe riportare il centrodestra nella stanza dei bottoni, il segretario della Lega li ha voluti sentire per un confronto.

La nota diffusa da Salvini sottolinea che «è emersa grande soddisfazione per la compattezza della Lega, a differenza di altri partiti» (annotazione velenosa). E poi aggiunge: «I governatori sono già al lavoro anche per offrire spunti utili in vista dei dossier più interessanti per la campagna elettorale a cominciare dall'autonomia. Grande attenzione per economia, sburocratizzazione, infrastrutture, energia e tasse». 

Zaia guarda avanti: «Io capisco la posizione delle categorie economiche, che è quella di chi vorrebbe stabilità e scadenze perfette per le elezioni. Il tempo che manca per avere un nuovo Parlamento e un nuovo governo non è molto e spero che si recuperi velocemente. Mi auguro che ci sia una maggioranza solida e che si continuino a fare le riforme di cui l'Italia ha bisogno».

Fedriga nelle ultime settimane ha preso più volte le difese del presidente del Consiglio. E anche all'interno della Lega si è speso perché non si spezzasse il filo. La linea «governista» non ha prevalso, ma il governatore del Friuli-Venezia Giulia conferma le sue valutazioni: «Secondo me Draghi ha fatto un ottimo percorso in mezzo a molte difficoltà con una maggioranza estremamente eterogenea.

È riuscito a portare a casa il Pnrr, ma penso anche alla lotta alla pandemia, alla crisi con la guerra in Ucraina e la crisi economica, è riuscito ad avere la capacità di dialogare con i Paesi stranieri e ha reso l'Italia protagonista». Fedriga e Zaia rispondono all'unisono su un loro possibile impegno a Roma. «Non vedo l'ipotesi di una mia chiamata» replica il primo. «Io presidente del Consiglio? No, ogni volta che si parla di elezioni sono candidato a tutto quello che passa per strada. Io penso al Veneto» chiude il secondo.

GOVERNO: ZAIA, NON VOLEVAMO PIÙ I 5 STELLE

(ANSA il 22 luglio 2022) - "E' innegabile lo standing al presidente Draghi però è anche vero che la Lega, il mio partito, ha fatto delle proposte, nel senso che abbiamo posto la questione di non avere più i 5 Stelle perchè ricordo che noi il 14 luglio abbiamo votato il decreto aiuti con 10 miliardi di aiuti per i cittadini e i 5 Stelle no. Quindi la fiducia non l'abbiamo votata". Lo ha detto il Presidente del Veneto Luca Zaia parlando oggi a Treviso della situazione di Governo.

"Guardiamo anche all'altra metà della vicenda, stiamo parlando dei mesi di agosto e metà settembre, quindi alla fin fine riusciamo a recuperare tutta questa fase estiva grazie al Presidente della Repubblica che ha fissato subito le elezioni". Lo ha detto il Presidente del Veneto Luca Zaia parlando della crisi di Governo. "Comunque avremmo avuto un mese di chiusura del Parlamento - sottolinea - . Ricordo che i ministri restano in carica e si va avanti assolutamente con i provvedimenti strategici anche perchè noi abbiamo dato la disponibilità a votarli".

"Capisco la posizione delle categorie venete, che è la posizione di chi cerca stabilità, di chi vorrebbe sempre giustamente avere scadenze perfette per le elezioni. Chi non lo vorrebbe. Però pensiamo che tra 60 giorni abbiamo un Parlamento, un governo e tutto". Lo dice il governatore del Veneto Luca Zaia parlando del pressing del mondo economico veneto perchè Draghi continuasse il suo lavoro. "Penso e spero che si recuperi velocemente e soprattutto mi auguro che questo Paese possa avere una maggioranza solida e che si continuino a fare le riforme - sottolinea -. Perchè al di là di chi prenderà in mano le redini dell'Italia voglio ricordare che le riforme vanno fatte, perchè ne abbiamo bisogno". Precisa poi che "l'autonomia non riparte da zero perchè i compiti per casa sono stati fatti e non c'è governo di destra o di sinistra che può prescindere dall'autonomia, altrimenti avrà il Veneto contro".

Michele Serra per “la Repubblica” il 22 luglio 2022.

In casa mia la campagna elettorale è iniziata ufficialmente ieri, 21 luglio, alle 13,05 in punto, quando il leghista Morelli ha dichiarato a Rainews che il governo Draghi è stato fatto cadere da Enrico Letta «che vuole la droga libera». 

Normalmente le frescacce dei politici, specie con questo caldo, sono per me ragione di moderato divertimento. Invece (con questo caldo) mi sono alzato in piedi e ho cominciato a inveire contro il tizio come se avessi ancora vent' anni e dunque credessi ancora che la verità esiste, come ingenuamente capita in gioventù; e gli ho detto, ad altissima voce, quello che merita un sottosegretario di Draghi che non ha votato la fiducia a Draghi e ora, vigliaccamente, accusa di draghicidio proprio chi ha votato la fiducia a Draghi. Superior stabat lupus: niente come Il lupo e l'agnello descrive l'invincibile alleanza tra la menzogna e la protervia.

Per fortuna ero solo nella stanza e nessuno ha potuto vedermi in quello stato. Sta di fatto che, dopo lunghi mesi nei quali ero sostanzialmente asintomatico, la febbre della politica mi ha ripigliato a tradimento. 

E so già che peggiorerà: ci sono in giro decine di persone con la pistola fumante (uno è Tajani, compresente in decine di telegiornali, forse fa uso di ologrammi) che esprimono vivo apprezzamento per Draghi, anzi sono più draghiani di Draghi, e soprattutto, pur avendo fatto cadere Draghi, sono più draghiani di chi ha votato la fiducia a Draghi. Sento che, in questa stramba estate elettorale, non ci basterà più il vecchio titolo di Cuore "Hanno la faccia come il culo". Dovremo ricorrere, per le licenze poetiche, al Vernacoliere.

Francesco Olivo per “la Stampa” il 22 luglio 2022.

Non esce dalla Lega, ma non sa se ricandidarsi. Giancarlo Giorgetti resta al ministero per sbrigare quegli affari correnti di cui Mattarella ha allargato il perimetro. Ma le cose sarebbero potute andare in maniera diversa. Mercoledì sera, infatti, il ministro dello Sviluppo economico aveva rassegnato le proprie dimissioni. La Lega, di cui è vicesegretario, aveva appena affossato il governo e la prima reazione è stata quella di comunicare a Mario Draghi, il suo passo indietro.

Il presidente del Consiglio e il Quirinale però, gli hanno chiesto di restare, troppo delicati i dossier che sono sul tavolo del suo ministero: Pnrr, accordi di sviluppo, crisi aziendali. Ma l'amarezza per la fine del governo non è certo passata: «Ora diranno che eravamo entrati al governo per colpa mia», scherza, senza sorridere, in un colloquio con Il Foglio. La giornata al Senato, d'altronde, è stata lunga e ricca di scene forti.

Nelle ore più drammatiche, quando tutto sta per precipitare anche per mano della Lega, il telefono di Giorgetti squilla. È una telefonata che non può lasciare indifferente un leghista della primissima ora. Umberto Bossi sta assistendo da casa alla morte del governo Draghi e crede che si tratti di un errore enorme. Così chiama uno dei pochi di cui si fida ancora. Con il tono flebile, il Senatùr recapita un messaggio al ministro: «Quei due stanno facendo un cavolata». I due che stanno sbagliando sono Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, l'alleato di una vita e il successore mai amato davvero.

Giorgetti ascolta, è sconsolato, crede che Draghi non meriti queste scene, lo spettacolo che il Senato sta offrendo è, nel suo giudizio, poco dignitoso. Così, l'unica risposta a Bossi è la seguente: «Prova a chiamarli tu». L'appello del fondatore della Lega e i tentativi dello stesso Giorgetti di intavolare una trattativa, non avranno alcun effetto: Salvini, d'altronde ha deciso da tempo che conviene andare alle urne e il discorso di Draghi, letto come un attacco al partito, gli offre un argomento per ritenere che è giunta l'ora.

Giorgetti non commenta questa decisione, ha visto spesso il segretario nei giorni scorsi, ma la disciplina di partito gli impone discrezione. Eppure, se le parole, al solito, sono poche, i gesti pubblici dicono molto: mercoledì il ministro ha abbracciato Draghi al termine del suo discorso, scambiando con lui parole e sorrisi anche dopo la replica, quando la fine ormai era vicina. 

Ieri, alla Camera, altro momento significativo: il lungo applauso dei ministri al premier, Giorgetti non fa eccezione, «vedere Draghi emozionato fa un certo effetto», commenta un altro ministro. In questa scena c'è tutta la difficoltà di Giorgetti di questi mesi: gli applausi vengono dal vicesegretario di un partito che non ha votato la fiducia.

E infatti, dal Pd arrivano accuse di ipocrisia: «Ho visto applausi ipocriti al presidente Draghi, come quelli del ministro Giorgetti o del capogruppo di Forza Italia, Barelli. E non posso sopportarlo», dice il deputato del Pd, Walter Verini, parlando in Transatlantico. Ma anche alcuni fedelissimi salviniani, che esultano per la fine del governo, storcono il naso e fanno notare come Giorgetti riservi a Draghi un trattamento assai migliore di quello verso il segretario, come quando lo paragonò a Cristiano Ronaldo.

La sua risposta è netta: «Applaudo chi se lo merita». Ai suoi collaboratori e ai deputati che gli sono più vicini ripete che non c'è nessuna voglia di criticare Salvini, ma se la strategia per la campagna elettorale, come si nota già dai primi fuochi, sarà incentrata nel criticare l'operato del governo cui la Lega ha fatto parte, allora sarà difficile trovare Giorgetti in prima linea: «Io non rinnego Draghi - ripete in queste ore - per lui rimane il rispetto e la stima». I due, d'altronde, si conoscono da molto tempo e non sarà certo questa crisi di governo a incrinare i rapporti.

L'amarezza per la fine del governo è tale che il ministro ha raccontato di non voler prendere ora decisioni sul suo futuro. Eppure, non c'è molto tempo, fra meno di un mese vanno consegnate le liste e Giorgetti ancora non sa se avrà voglia di starci. Salvini, nelle riunioni di ieri, ha chiesto a tutti, ministri compresi, di metterci la faccia. Chi lo conosce sa che sicuramente non seguirà le orme dei suoi colleghi di Forza Italia, Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, che hanno lasciato il partito: «Se Giancarlo non dovesse candidarsi - racconta un fedelissimo - la Lega è casa sua, non se ne andrà». Però una campagna elettorale con la ruspa potrebbe volerla evitare. 

Il sedicente bravo. Le acrobazie di Giorgetti per riallinearsi a Salvini dopo l’esperienza draghiana. Amedeo La Mattina su L'Inkiesta il 23 Luglio 2022

L’eminenza grigia del Carroccio era un sostenitore convinto del governo di unità nazionale e non l’ha mai negato. Adesso dovrà condurre la campagna elettorale al fianco del segretario leghista e forse tornare ministro al fianco della peggior destra

Di solito non parla, gli piace interpretare l’eminenza grigia che lavora sodo nell’ombra e decide, con un debole per le nomine pubbliche. In questi giorni invece i giornali traboccano di sue frasi soffiate per lanciare messaggi, spiegare, giustificare, prendere le distanze, per non assumersi la responsabilità della caduta di Maradona. Così Giancarlo Giorgetti aveva definito Mario Draghi quando, esercitando l’arte calcistica-politica da mediano, aveva convinto Matteo Salvini a entrare nella nazionale dell’unità.

Ci entrò lui, il suo amico di cordata Massimo Garvaglia e la veneta Erika Stefani, vicina al governatore Luca Zaia. I moderati, i governisti. Senza che Salvini ci mettesse becco. Lo stesso è accaduto con Forza Italia: Mara Carfagna, Renato Brunetta e Mariastella Gelmini non sono stati scelti da Silvio Berlusconi e abbiamo visto cosa è successo. Sempre osteggiati dal cerchio magico di Arcore, mai invitati alle riunioni in cui si decideva, comprese alle ultime dove è stata emessa la sentenza di morte del loro esecutivo.

La Lega di governo al governo e i colonnelli del “Capitano” leghista a rosicare, a dire che Giorgetti è appiattito su Draghi, che se ne infischia delle esigenze del Carroccio, dell’elettorato leghista. Sarebbe sua la colpa del crollo dei consensi, e non di Salvini, che ha inanellato un errore dietro l’altro. Lui, il ministro dello Sviluppo economico, non ci sta e si assolve per giustificare l’espulsione dal campo di Maradona.

Un leghista in tutte le stagioni. Trent’anni lì, «una vita da mediano… sempre lì, lì nel mezzo, finché ne hai stai lì» al vertice del partito, da Umberto Bossi a Roberto Maroni, a Salvini, con le cravatte slacciate, le giacche stropicciate, la faccia furbacchiona, la bacchetta bocconiana in mano per picchiare. Come è successo all’inizio di luglio scorso quando ha definito «rivoluzionari della scuola Radio Elettra» quelli del suo partito tentati dalla crisi di governo approfittando delle turbolenze innescate da Giuseppe Conte sul Dl Aiuti.

Tutto inizia da queste turbolenze che sono diventate tempesta. Ma Giorgetti, che conosce bene i suoi polli, aveva già capito che sarebbe stato lo stesso Salvini a infilarsi nel pertugio che ha portato alla crisi di governo. Quando c’è odore di sangue la bestia si risveglia: farsi scappare l’occasione di tirare il calcio di rigore a porta vuota, cioè far precipitare tutto a elezioni, era un’occasione d’oro. È quello che è successo, ma Giorgetti non si è messo di traverso. Ha avvertito il premier di quello che veramente stava montando al vertice della Lega?

Ora, nelle innumerevoli uscite sui giornali in maniera indiretta, sostiene di avere suggerito a Draghi di tenere il punto, di dare dimissioni irrevocabili: «Tanto ti incastrano lo stesso». Insomma, sapeva cosa aveva in testa Salvini, ma non l’ha detto in tempo al premier. E quando era troppo tardi gli ha suggerito di tenere duro. In questo modo smentisce in un solo colpo Berlusconi e Salvini che si affannano ad attribuire a Draghi la volontà di mollare perché lo sciagurato non ha accettato il bis con nuovi ministri e senza i Cinquestelle. E poi era stanco, si è premurato a dire Berlusconi, si lamentava di lavorare il doppio rispetto a quando era alla Bce. Oltre il danno la beffa.

Giorgetti ora non intende rinnegare nulla di quello che ha fatto accanto a Draghi, che a suo avviso meritava un’uscita di scena migliore. Alla Camera e al Senato lo ha abbracciato e applaudito, gli ha espresso solidarietà ma non ha ingaggiato una battaglia nel suo partito. Uscire dalla Lega come hanno fatto da Forza Italia Gelmini, Brunetta e Carfagna? Figuriamoci!

A Enrico Letta che lo ha criticato per gli applausi, ha risposto che continuerà a farlo perché Draghi lo merita. Però sta sempre lì «a recuperar palloni» per Salvini. Non ha condiviso la scelta dei rivoluzionari Radio Elettra, verrà ricandidato e, in caso di vittoria del centrodestra farà il ministro, magari dell’Economia o comunque con portafoglio pesante.

Dovrà prima impegnarsi in campagna elettorale, accanto a Giorgia Meloni e coloro che hanno sempre detto che il governo Draghi è stato una disgrazia per l’Italia. Si impegnerà con acrobazia, senza mai rinnegare Draghi, sia chiaro.

Poi, quando tornerà al governo, dovrà pure sobbarcarsi la fatica di trasformare in leggi tutte le promesse elettorali dei suoi alleati e amici di partito, comprese la flat tax alla Viktor Orbàn e gli scostamenti di bilancio. Prenda appunti: Berlusconi propone di porterà tutte le pensioni a mille euro. Il Cavaliere è già in orbita, è carico come un grillo (lo assicura Antonio Tajani), vuole vendere cara la pelle di titolare dei moderati, altro che succube dei sovranisti. Pregusta, Berlusconi, di tornare tra i banchi del Senato dal quale era stato allontanato dopo la condanna e l’applicazione della Severino. Vendetta, tremenda vendetta.

Prepariamoci allo show, a un film paradossale, a vedere magari Meloni frenare l’impeto e l’assalto della finanza pubblica, Giorgetti, insieme a Guido Crosetto, a mediare con Bruxelles. Prima ancora però, tra pochi giorni, l’horror movie della divisione dei collegi uninominali.

C’è chi scommette che il mediano maximo ci stupirà, non accetterà di candidarsi, e se ne andrà in pensione anticipata a 55 anni, sdegnato da questa politica e da questi politicanti, a organizzare gite in pullman con altri pensionati a Città di Pieve.

La fine del governo scuote il Vaticano. La Chiesa condanna Salvini: “Trionfo di interessi beceri”. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 22 Luglio 2022. 

Democrazia a rischio, classi sociali svantaggiate ancora più in difficoltà e politicamente inascoltate. Tra questi due poli si svolge la riflessione preoccupata del mondo cattolico all’indomani della crisi di governo certificata dal capo dello stato. «La scelta di Conte e del Movimento 5stelle di rimettere in discussione in nome del popolo la vita del Governo Draghi non deve meravigliare. I populismi, infatti, sono come burrasche che si infrangono su tutto ciò che è Governo e istituzioni». Lo scrive il settimanale Famiglia Cristiana, nell’editoriale del numero in edicola e affidato al gesuita Francesco Occhetta. «I populismi sono movimenti storici ciclici che compaiono quando il popolo soffre e subisce crisi finanziarie, l’aumento della disoccupazione, flussi migratori, l’incremento delle spese militari, il coinvolgimento nei conflitti, la crisi della classe media, la corruzione della classe politica e la constatazione che le classi dirigenti da popolari diventano aristocratiche».

Il populismo ha memoria corta e vive un “eterno presente liquido” in cui «è possibile essere prima populisti e poi europeisti; filorussi e, poco dopo, favorevoli alla Nato; statalisti e poi liberali; alleati della destra e poi della sinistra», «strumentalizzando il popolo che ha la responsabilità di avergli affidato una delega in bianco». Se “anche la Chiesa” ha una responsabilità, ora «è urgente un accordo di sistema strategico, non politico, tra la destra e la sinistra per garantire che il Paese rimanga nel quadro costituzionale e negli accordi internazionali presi e sia in grado di affrontare i grandi temi sociali dal lavoro al sostegno di famiglie e imprese. È il segno della scissione tra demos (popolo) e kratos (potere) che ha screpolato il cristallo della democrazia». All’analisi fanno da contrappunto le riflessioni sintetiche sui social media del vescovo ausiliare di Roma Benoni Ambarus. «E così – commenta sul suo profilo Twitter – anziché pensare al bene comune, oggi buona parte della classe politica ha dimostrato che pensa solo al proprio interesse, becero ed egoista. E così, ancora una volta, questa crisi la pagheranno le persone più deboli. Che tristezza».

Nei giorni scorsi all’approssimarsi della crisi il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, parlava di «grande preoccupazione alla situazione politica che si sta determinando e che rischia di sovrapporsi ad una fase di crisi più generale che sta già incidendo in modo pesante sulla vita delle persone e delle famiglie». Riferendosi alle emergenze: guerra in Ucraina, inflazione, pandemia, precarietà lavorativa, aveva chiesto uno scatto di responsabilità in nome dell’interesse generale del Paese che deve prevalere sulle pur legittime posizioni di parte per identificare quello che è necessario e possibile per il bene di tutti». Due giorni fa era intervenuto con un’intervista al Corriere della Sera mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Parlando nella veste di coordinatore della Commissione governativa per la riforma dell’assistenza agli anziani. «Con un’iperbole, ma non tanto, direi al presidente Draghi che, tra le varie ragioni, ci sono anche quattordici milioni di anziani che vivono in Italia a chiedergli di restare». Aggiungendo: «Mi auguro comprenda quanto sia essenziale che resti. Ci sono responsabilità più grandi delle nostre condizioni e sensibilità personali. Capisco tutte le difficoltà, ma è importante che il presidente del Consiglio e il governo, in un momento difficile come questo, possano continuare a svolgere la loro opera».

E adesso tra i provvedimenti congelati c’è anche la legge-delega sulla riforma dell’assistenza agli anziani che il governo non ha fatto in tempo ad approvare. Ma anche prima della crisi, i segnali di allarme sulla situazione politica erano stati raccolti dalla parte più sensibile e ricettiva del mondo cattolico. I Dehoniani di Bologna, attraverso Settimananews, sito di notizie ed approfondimenti, avevano commentato lo “stato di salute” del cattolicesimo democratico prendendo spunto da un articolo di Marco Damilano, ex direttore de L’Espresso. “Settimananews” sottolineava la corresponsabilità del mondo cattolico per non essere stato “all’altezza” della tradizione democratica dei decenni passati. Tuttavia «davanti alla crisi nostrana della democrazia, la società non è innocente ma coprotagonista di una trasformazione della politica da negoziazione delle conflittualità sociali a specchio narcisistico della loro implementazione istituzionale. A questo si unisce l’incuria nei confronti delle istituzioni ridotte a erogatrici di soddisfazione dei nostri bisogni privati e dei desideri rivendicati come diritti inalienabili. L’esplosione e il tramonto del movimento 5stelle ne è un esempio». Da qui l’auspicio che quanto prima inizi “un dibattito su cattolici e politica” perché «hanno contribuito sia a scrivere alcune delle pagine più luminose della nostra democrazia, sia a indebolirne in molti modi gli assi portanti negli ultimi decenni».

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Le Idi di luglio. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 21 luglio 2022. 

Non so se Draghi sia Giulio Cesare, ma di sicuro chi lo ha accoltellato non assomiglia a Bruto. Il capo dei congiurati dell’antica Roma rivendicava con orgoglio le ragioni del suo gesto, mentre questi hanno cominciato a vergognarsene prima ancora di averlo compiuto, palleggiandosi le responsabilità come ladruncoli colti in castagna. Abbiamo potuto ammirare autentici capolavori di analisi illogica. I grillini (o quel che ne resta) hanno accusato Draghi di essere troppo di destra e però la destra di averlo fatto cadere. I berluscones (o quel che ne resta) di flirtare troppo con la sinistra e però la sinistra di averlo tradito. Quanto a Salvini, ha dato prova di un coraggio lievemente inferiore a quello di don Abbondio, lasciando che a sfiduciare il governo in diretta tv fosse un altro leghista, mentre lui sedeva a due scranni di distanza per non correre il rischio di essere inquadrato. Il culmine dell’assurdo è stato raggiunto dal «bell’applauso» con cui ieri mattina la Camera ha omaggiato lo stesso Draghi che il Senato aveva licenziato la sera prima. D’altronde è dai tempi di Bruto che le persone di talento piacciono agli italiani solo quando se ne vanno, quando cioè viene meno l’invidia che il loro talento provoca in chi ne è sprovvisto. Fino a un attimo prima passano per privilegiati o sopravvalutati, ma appena lasciano libera la poltrona vengono rimpianti e mitizzati da tutti, a volte persino da chi li ha fatti fuori, e sempre dal popolo nel cui nome i congiurati millantavano di aver agito. 

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 21 luglio 2022.

Tra gli effetti nocivi del riscaldamento globale va annoverato l'impazzimento estivo della politica italiana. Quando gli scienziati si decideranno ad affrontare seriamente la questione, non potranno che scoprire evidenti connessioni tra l'aumento delle temperature e il comportamento di Salvini e Conte, già protagonisti tre estati fa di un doppio colpo di teatro che - adesso si può dire - fu un doppio colpo di sole e portò l'uno a far cadere un governo di cui era ministro e l'altro a rimanere a Palazzo Chigi con il sostegno dell'opposizione. 

Quanto è successo in questi giorni conferma i sospetti che alcuni climatologi avanzarono già allora: Conte si è sfilato dalla maggioranza d'emergenza non certo perché fosse finita l'emergenza, ma appena il barometro ha raggiunto i 38 gradi. Mentre Salvini ha aspettato che sfiorasse i 40 per sfiduciare un governo a cui aveva rinnovato la fiducia non più tardi di giovedì scorso.

Sarebbe però ingiusto affermare che il caldo abbia colpito soltanto loro: ha insidiato le berlusconiane Ronzulli e Gelmini, ridottesi a battibeccare in Senato come due automobilisti al semaforo, ed è arrivato a scalfire persino l'aplomb di Draghi, che, quando non ne ha potuto proprio più, ha cominciato a togliersi dei sassolini dalle scarpe che sembravano il Monte Bianco. A proposito, scusate il pensiero malizioso (sarà il caldo), ma considerata la posizione comune di Conte e Salvini sulla guerra, il vero mistero non è che il governo sia caduto, ma come abbia fatto a durare fino a ieri. 

Tommaso Labate per corriere.it il 21 luglio 2022.

«Allora rimaniamo così, io farò di tutto coi miei per arrivare a questo punto. Noi votiamo la fiducia a Draghi ma ritiriamo i ministri dal governo. Tanto per evitare equivoci: diciamo sì alla fiducia ma il nostro, da stasera, diventa un appoggio esterno». Dire dell’incredibile Luna park che è stata la giornata di Giuseppe Conte, lo starter che ha premuto il grilletto di una crisi di governo che ha preso pieghe imprevedibili, vuol dire raccontare cinque o sei personaggi a cui l’ex presidente del Consiglio ha prestato corpo e voce durante la giornata più lunga di una legislatura morente. 

Il barricadero neo-leader dell’opposizione ma anche il placido cucitore di una tela governista, l’avvocato azzeccagarbugli che scandaglia le norme del regolamento del Senato ma anche il giudice severo che ripete «faccio come dico io», il totus politicus che elabora trame ma anche il capopopolo che le disfa. Tutto spalmato in quindici-sedici riunioni che si susseguono una dopo l’altra; tutto in una stessa persona.

A metà pomeriggio, si materializza la versione più governista del Conte degli ultimi mesi. L’ex presidente del Consiglio ha parlato a più riprese con Dario Franceschini e Francesco D’Incà, poi è arrivato il momento di ricevere nella stanza del Senato dove trascorre l’intera giornata — quella in uso alla capogruppo Mariolina Castelloni — gli altri due leader del vecchio campo largo, Enrico Letta e Roberto Speranza. «Allora siamo d’accordo?», ripetono quasi all’unisono i segretari di Pd e Articolo 1, tentando di pescare l’unico jolly che può salvare il salvabile. «Siamo d’accordo, io ci provo», replica il capo politico del M5S. «Fiducia sì, ma subito dopo i nostri escono dal governo e il mio diventa un appoggio esterno».

Il miraggio dura una quarantina di minuti. Letta e Speranza, insieme a D’Incà e Franceschini, hanno giusto il tempo di recapitare il ramoscello d’ulivo contiano a Draghi e al Quirinale. Poi tutto torna indietro come le navi di Ulisse respinte dal vento proprio quando erano pronte ad attraccare a Itaca. Conte li chiama al telefono. E urla: «Ma l’avete sentito quello che ha detto Draghi nella replica? Io dovrei chiedere ai miei di votare la fiducia a una persona del genere? Qui non si tratta della mia dignità personale, quella non dipende certo da Draghi e comunque me ne fregherei. Qua si tratta di chiedere ai senatori del M5S di votare la fiducia a uno che ha appena calpestato la dignità politica di tutto il Movimento!».

Nella stanza della Castellone l’aria condizionata va e viene. Conte si toglie e si rimette la giacca cento volte, allenta la cravatta e poi la ricompone, la celeberrima pochette si trasforma in una specie di fazzoletto ai limiti dell’inservibile. Nelle riunioni che si susseguono una dopo l’altra — i vice, i capigruppo, la delegazione dei ministri — il capo politico fa la colomba coi falchi e il falco con le colombe. Stefano Buffagni, che entra ed esce dalla stanza alla ricerca di un’interlocuzione qualsiasi che possa salvare il salvabile, si attacca al telefono: «Che vi avevo detto? Ve l’avevo detto o no che se iniziava una crisi così al buio, poi finiva male? Io vivo in mezzo a gente che si spacca la schiena. Gli italiani ci impalano tutti, dal primo all’ultimo politico. E fanno bene».

Quando Draghi finisce di leggere la sua replica, gli spazi di manovra si annullano del tutto. Il centrodestra ha virtualmente staccato la spina. C’è l’ultimo filo di un gomitolo di trattativa che passa dalla scrivania di Conte. E Conte decide di farlo in mille pezzi. «Draghi ci ha insultato. Ha insultato le proposte politiche del Movimento. Ma non si è limitato a insultarci. L’ha fatto con livore». 

Attorno a lui, c’è gente con le mani nei capelli. «Ohi, be’? Che vi aspettavate?», dice il capo politico quando l’assemblea permanente sta per sciogliersi, forse per sempre. «Non si tratta di me. Io mi porto appresso la responsabilità di un intero movimento». Qualche ora dopo s’è fatta sera, l’aria condizionata viene abbassata, le finestre aperte. Conte, dopo una giornata di risposte, passa alle domande. Dall’ultima riunione con la cerchia ristretta: «Ma secondo voi Mattarella che cosa fa adesso?». Sipario.

Massimo Giannini per lastampa.it il 21 luglio 2022

«Su, adesso basta con le sciocchezze. Io stimo Mario Draghi, lo sanno tutti. E tutti si ricordano che lo portai io al vertice della Banca Centrale Europea nel giugno 2011. Però adesso finiamola con questa storia che siamo stati noi a farlo fuori e a cacciarlo dal governo…». 

È ora di pranzo, e nella calura di Villa Grande la voce del Cavaliere risuona forte e chiara come non si sentiva da tempo. Al telefono, Silvio Berlusconi ha qualche sassolino dalla scarpa che si vuole togliere, il giorno dopo la “Vergogna”, come ha titolato la Stampa di questa mattina: avevamo la migliore riserva della Repubblica alla guida del Paese, orgoglio e vanto per l’Italia nel mondo, e siamo riusciti a bruciare pure quella.

Protagonisti della “political assassination” sono stati, in combutta, i capi-bastone della curva ultrà gialloverde, quelli che stravinsero le elezioni del 2018: Giuseppe Conte ha innescato la miccia per conto dei Cinque Stelle, Matteo Salvini l’ha fatta esplodere mettendo la firma della Lega. 

Ma stavolta c’è di peggio: la novità è che ad aggregarsi alla congiura dei “Draghicidi” si è aggiunto anche il padre-padrone di Forza Italia. Che invece di bagnare le polveri, le ha infiammate. Com’è stato possibile? 

«Ecco, facciamo un po’ di chiarezza…», risponde Berlusconi dalla sua magione romana, dove in questi giorni il centrodestra ha bivaccato a più riprese per venire a capo - senza riuscirci, se non al prezzo di sacrificare SuperMario - della crisi più pazza del mondo. 

«Io ho letto il titolo del suo giornale, vergogna, ha scritto, ma noi non dobbiamo vergognarci di nulla. Noi non abbiamo buttato giù il governo. Draghi si è buttato giù da solo, prima con le cose che ha detto in aula, poi con le decisioni successive!». 

Ma come? La non-fiducia sul termovalorizzatore l’hanno decisa i grillini la settimana scorsa, e la non-fiducia alla mozione Casini l’hanno decisa insieme Forza Italia e Lega ieri... Il Cavaliere la vede in un altro modo: «Senta, io ieri ho parlato con tutti. Ho chiamato il presidente della Repubblica Mattarella e il presidente del Consiglio Draghi, e a tutti e due ho letto il testo della nostra risoluzione. Nessuno dei due ha sollevato obiezioni. 

Lì dentro non c’era scritto mandiamo a casa Draghi, ma il contrario. Noi ci eravamo già meravigliati per il fatto che Draghi la settimana scorsa aveva ribadito che questo governo non esiste senza i Cinque Stelle. Ma l’abbiamo seguito sulla sua stessa linea.

Poiché i grillini vogliono uscire, ne prendiamo atto e facciamo subito un Draghi bis, senza di loro, e cambiando alcuni ministri. Questo gli ho detto: ripartiamo, e andiamo avanti. Bastava che Draghi accettasse, e oggi sarebbe tutto un altro film…». 

Ancorché romano, l’Uomo di Arcore è un fiume in piena. Ma come si fa a pensare che Super Mario, dopo i calci che aveva tirato nei denti ai partiti, avrebbe potuto accettare un Draghi bis alle condizioni imposte dal centrodestra, cioè un rimpastone che presupponesse magari anche la fuoriuscita di ministri come Lamorgese e Speranza? 

“Premesso che non abbiamo mai parlato di nomi, io le rispondo certo che avrebbe potuto, per il bene del Paese. Ma non l’ha fatto, e la responsabilità è sua, non nostra”. A Draghi non faranno piacere, queste parole… «Capisco, ma le confesso che sono rimasto davvero perplesso per i suoi comportamenti. Anche questa mattina alla Camera avrebbe ancora potuto ricucire tutto. In fondo aveva preso la fiducia con 95 voti al Senato…». 

Ma pensare a una retromarcia, dopo quello che era successo ieri a Palazzo Madama, sarebbe stato davvero troppo… «Sì, ma solo per un motivo – risponde secco Berlusconi – e cioè che lui aveva già deciso tutto. Lo sanno tutti che non ne poteva più, lo sanno tutti che ne aveva le scatole piene. 

Dimettersi era una sua volontà precisa, a prescindere da quello che avrebbero fatto, detto e votato i partiti. Vuole che le riveli un’indiscrezione?». Il Cavaliere non resiste: «Sa cos’ha detto Draghi a un comune amico? Basta, non ne posso più, qui mi fanno lavorare il doppio di quanto lavoravo alla Bce…».

La maldicenza? Il venticello della calunnia? Vai a sapere. Certo è che nel “day after”, quando fatti, opinioni e mercati dimostrano che l’Italia è ripiombata nel caos, la Bce ha chiuso l’ombrello e noi non abbiamo più il suo ex governatore a proteggerci, il centrodestra anche agli occhi di un’opinione pubblica sconcertata ha un disperato bisogno di cancellare le impronte digitali dalla “scena del crimine”. 

Ma poi, dopo quello che è successo, di che centrodestra parliamo? Anche questo è stato uno strappo, stavolta interno a quella metà del campo. Berlusconi, che in questi tre anni ha cercato di rivestirsi con i nobili panni dello statista, conservatore europeo e moderato, responsabile e repubblicano, alla fine si è fatto trascinare sulla via del Papeete dal Capitano leghista.

E qui il Cavaliere ha un sussulto, si indigna, non ci sta: «Eh no, questo non lo voglio neanche sentir dire! Ma secondo lei se mettiamo vicino Berlusconi e Salvini, chi prevale tra i due per competenza, esperienza, cultura e savoir-faire? Dai su, non scherziamo. Io non sono affatto spinto da Salvini. Il centrodestra sono io…». 

Il Patriarca non accetta il suo autunno. Anzi, ha già detto e ripete che è pronto a candidarsi. Tanto ormai si va a votare. «Anche su questo ho qualche perplessità – aggiunge – ho visto che il Capo dello Stato sta pensando a una delle ultime due domeniche di settembre. Non sono convinto: che facciamo, una campagna elettorale di due-tre settimane? Troppo poco, non va bene…».

Perché una cosa è sicura: lui la campagna elettorale la farà. È pronto a candidarsi al Senato, il Tempio dal quale fu “cacciato”, lui sì, in virtù della legge Severino, dopo la condanna definitiva per frode fiscale. Tornare a Palazzo Madama ha dunque il sapore della rivincita. Magari, chissà, in cuor suo ha persino l’illusione di esserne eletto presidente, benché dopo la Casellati sia un assurdo peccato di “ubris”. 

Ma insomma. È anche sicuro che Forza Italia, con lui risceso in campo, possa arrivare al 20 per cento. Volontà di potenza o delirio di onnipotenza? Più la seconda, a occhio e croce. Anche perché, nel frattempo, il partito azzurro perde i pezzi. Gelmini e Brunetta annunciano l’addio.

E qui il Cavaliere abbassa il tono di voce. Sembra quasi rattristato: «A queste persone ho dato tutto. Non mi merito che facciano questo. La Gelmini, poi… Ricordo che se ne voleva andare già ai tempi di Monti. Ma comunque… Non mi merito nemmeno che queste persone, andandosene, dicano quelle cose: ‘Forza Italia non è più la stessa, Berlusconi è diventato un’altra persona…’.

Tutte sciocchezze. Sono loro che sono cambiati, non io. Sono loro che mancano di riconoscenza nei miei confronti. Ma le dico io una cosa, e la dico anche e soprattutto a loro: non hanno futuro. E non lo sostiene nemmeno Silvio Berlusconi, lo dimostrano i fatti di questi anni: guardi che fine hanno fatto, tutti quelli che sono usciti da Forza Italia… Perché la verità, alla fine, è questa: tutti quelli che mi lasciano non hanno futuro, punto e basta». La telefonata finisce così. 

Da Villa Grande si sente in sottofondo una voce femminile che chiama la servitù: «Attenzione, il cane ha fatto la cacca sul tappeto…». Nella testa resta solo una domanda sospesa: e Silvio? Silvio, seduto sul Carroccio a fianco a Matteo, lanciato all’inseguimento di Giorgia e dei suoi Fratelli? Questa livorosa e litigiosa carovana destrorsa, che futuro ha?

Dagoreport il 21 luglio 2022

Sconfitti, depressi, rassegnati: gli orfani di Draghi in Parlamento hanno ricevuto una mazzata psicologica epocale. E’ dura ritrovarsi turlupinati da Conte, Salvini e Berlusconi, le majorettes di Putin, che si sono spalleggiati magistralmente nell’aprire la crisi e nel farla deflagrare. 

Ma il sapore amaro della batosta non può’ durare a lungo: le elezioni incombono (si voterà il 25 settembre), la campagna elettorale sarà brevissima, il M5s è ormai fuori dal “campo largo”, destinato a finire nelle fauci di Raggi e Di Battista; e il centrodestra è avanti nei sondaggi.

Urge un Piano B.

L’idea che prende corpo, a cadavere ancora caldo del governo Draghi, è un rassemblement centrista e iper-draghiano che metta insieme tutti i partitelli d’area (Azione, Italia Viva, Coraggio, +Europa, fuoriusciti da Forza Italia) che, correndo in solitaria, non riuscirebbero a farsi valere neanche in assemblea di condominio (“Insieme per il futuro” di Luigi Di Maio galleggia intorno all’1,8%, secondo i sondaggi). 

Una sorta di “progetto Macron alla pummarola” per evitare che l’Italia finisca nelle mani di Salvini, Meloni e di quella mummia incipriata di Berlusconi. Lo slogan d’attacco sarà: “Chi vuole davvero questo disgraziato Paese in una sorta di riedizione dell’Ungheria di Orban o di colonia di Mosca?”.

Gli euro-poteri, che temono l’avanzata delle destre, si sono attivati per spingere i litigiosi galletti (da Renzi a Calenda) a creare un pollaio comune. Da Francia e Germania è iniziata una moral suasion a organizzarsi in nome della fantomatica “Agenda Draghi”. 

Persino il Vaticano segue con apprensione lo stato comatoso del centrosinistra e spinge Calenda a un’alleanza per opporre una diga ai “barbari” del Centrodestra. Qualche invito a fare presto e a “costruire” è arrivato anche alla sinistra Pd di Orlando e Provenzano.

Il poco tempo a disposizione per suggellare una decente alleanza di progetto spingerà il Centrosinistra a fare una campagna elettorale aggressiva e polarizzante sul “Draghicidio” e collocazione internazionale (atlantisti vs amici di Orban e Putin). 

Sarà lo spauracchio della Orban in gonnella (Meloni), della groupie di Mosca (Salvini) e del redivivo Cainano (Berlusconi) a tenere insieme la baracca elettorale di Letta & friends. Non mancheranno le accuse di fascismo a Fratelli d’Italia, il “pericolo nero” sarà evocato a pie’ sospinto. Insomma l’armamentario ideologico che puo’ aiutare a ridimensionare una sconfitta che ora, visti i sondaggi, sembra certa.

Se i partiti si organizzano alla buona, Mattarella ha le palle fumanti. E’ infastidito da un Parlamento di inetti che non ha saputo anteporre l’interesse nazionale alle beghe di orticello. 

In piena emergenza bellica, inflazionistica, energetica, idrica e economica non si sfascia un governo con una delicatissima legge Finanziaria da scrivere, un Pnrr da mettere a terra e per di più a pochi mesi dalla naturale scadenza della legislatura. Insomma bisogna essere proprio cojoni (o in malafede) per non capirlo.

E poi il presidente della Repubblica, il cui slogan era e resta “responsabilità”, è incazzato con Draghi. Il giudizio sulle ultime mosse di Mariopio è pessimo: ha trovato il suo discorso al Senato molto divisivo, inutilmente ostile. Non c’era un briciolo di quella diplomazia che forse avrebbe potuto salvare il governo. 

Il Colle non ha gradito neanche quello slancio alla Peron che Draghi ha tirato fuori per autolegittimarsi (“Se sono qui è perché me l’hanno chiesto gli italiani”). L’ex Bce ha anche detto al Quirinale che non intende mettere mano alla legge finanziaria, che andrà presentata entro il 31 dicembre per evitare l’esercizio provvisorio. Draghi vuole occuparsi, e lo farà malvolentieri, solo degli affari correnti.

Ps: Dopo Gelmini e Brunetta anche Mara Carfagna è vicina all’addio a Forza Italia. Grande malumore anche in Gianni Letta che ieri ha provato a contattare telefonicamente Berlusconi e ha trovato il “filtro” di Licia Ronzulli.

Paolo Madron per tag43.it il 21 luglio 2022.

Giornata da teatro dell’assurdo, che dal pomeriggio diventa una sorta di gran premio degli errori (e degli orrori): qualcuno voluto, la gran parte involontaria, cosa che in politica peraltro non è un’attenuante. 

Il festival degli sbagli per la verità lo aveva iniziato in mattinata Mario Draghi. Il discorso con cui si è ripresentato su invito del Quirinale alle Camere era una sorta di campo largo delle recriminazioni.

Inutilmente duro, astioso, quasi mirasse a farsi votare contro, inspiegabilmente allargato a temi collaterali agli oggetti del contendere. Non più solo contro i 5 Stelle, colpevoli di aver aperto questa crisi e di averla cristallizzata in una forma assembleare permanente. 

Ma anche con la Lega accomunata nella reprimenda, perché Matteo Salvini ha aggiunto benzina sul fuoco chiedendo la testa di un paio di ministri, relativi rimpasti e soprattutto ponendo il veto a una riproposizione della maggioranza con i grillini che ne facessero ancora parte.

Un epilogo segnato nonostante i tentativi di salvataggio, compresa la vana risoluzione Casini.

A quel punto l’epilogo era segnato, ineluttabile più di tutti i tentativi fatti dal Quirinale e i suoi pontieri di trovare una soluzione che consentisse al governo di andare avanti. Ma quando i sassolini che uno (e non è solo il premier) si toglie dalle scarpe diventano pietre e poi valanghe è difficile pensare di invertire la corsa.

Tutti i tentativi per farlo si sono rivelati vani. Vani gli sforzi del Pd di rianimare in zona Cesarini quel che restava del campo largo, e per il partito di Enrico Letta che vi aveva puntato anche in prospettiva molte delle sue carte è uno smacco. Vana la convinzione che i governisti presenti tra i 5 Stelle e nel centrodestra si sarebbero presi la scena smentendo le indicazioni dei leader.

Vano l’escamotage di presentare una risoluzione firmata da Pier Ferdinando Casini che potesse far da calamita a coloro che non avevano nessuna voglia di tornare all’opposizione. Anzi, l’idea di mandare avanti l’ex presidente della Camera ed esperto di alchimie parlamentari ha ancor più irrigidito le posizioni, compattando i fronti interni degli schieramenti invece che dividerli. 

Almeno al momento, cioè nell’ora che contava di più. Che poi in un futuro neanche lontano ci possano essere ripercussioni in seno ai partiti che hanno perpetuato il draghicidio è più che probabile. E quindi la scissione avvenuta in casa pentastellata potrebbe vantare più di un tentativo di imitazione. Senza aspettare troppo, Mariastella Gelmini ha già lasciato Forza Italia.

Giuseppe Conte si è trasformato da protagonista a utile idiota

Ma era ieri l’ora decisiva per i distinguo, e quell’ora per chi auspicava che Draghi potesse proseguire il suo mandato a Palazzo Chigi non è suonata bene. Puntare su una rivolta dei governisti che avrebbero dato al governo i numeri per continuare ha ricordato molto la caccia ai responsabili scatenata quando Renzi tolse la fiducia al Conte bis. 

Stessa frenesia, stessi calcoli sbagliati, stesso buco nell’acqua. Il precipitare della narrazione ha ingenerato poi esiti paradossali, con il centrodestra che si è infilato nelle tentennanti convulsioni dei 5 Stelle per rubare loro il pallino della crisi. Cosa che trasformava Conte da protagonista a utile idiota.

E con Berlusconi e Salvini che nel momento in cui rendevano noto di aver prospettato al Quirinale la loro disponibilità a continuare con Draghi lo impallinavano per bocca del capogruppo dei senatori leghisti Romeo che già ne aveva con toni forti liquidato l’esperienza. 

Chi ha esorcizzato l’esercizio del voto forse adesso se ne pente

Il finale è mesto, caotico, privo di esultanza anche da parte di chi, avendo da tempi non sospetti invocato il ritorno alle urne, avrebbe avuto di che gioire. Una crisi politica in un contesto congiunturale drammatico può avere esiti nefandi anche per chi l’ha tenacemente voluta. Salvo sorprese, si voterà a ottobre.

Chi scrive non ricorda una campagna elettorale che si sia svolta al sole di Ferragosto, e nemmeno in un contesto che la situazione internazionale si sta configurando come altamente recessivo. Ma votare è esercizio di democrazia, e chi lo ha esorcizzato per troppo tempo mettendo in campo soluzioni istituzionali o tecnocratiche forse adesso se ne pente.

Lucia Annunziata per “la Stampa” il 21 luglio 2022.

I coccodrilli hanno asciugato rapidamente le loro lacrime, e festeggiavano ieri pomeriggio, la pancia piena dei resti di una legislatura. Una soddisfazione almeno tocca a chi guarda, orripilato, tanta allegria: il velo è caduto, la maggioranza più larga della storia recente, si è rivelata per quello che era - una malmostosa, rabbiosa, silente comunità politica che lodava in pubblico il suo premier e complottava in privato di mangiarselo.

Nemmeno essere Mario Draghi è stato sufficiente.

La figura più influente del nostro Paese - per provato curriculum e risultati (qualunque cosa se ne voglia pensare) - è stato politicamente fatto a pezzi nel giro di pochi mesi. Prova finale che la crisi delle istituzioni - nell'ordine ascendente: Partiti, Parlamento, Presidenza del Consiglio, e Quirinale - innescata dieci anni fa dalla fine del governo Berlusconi e il ricorso a un governo tecnico, quello di Mario Monti, è arrivata al punto di non ritorno. L'Italia è anche ufficialmente, da questo momento, e agli occhi di tutto il mondo, un sistema politico fallito.

La fine della storia è arrivata senza nemmeno un po' di onore: i coccodrilli sono usciti, accalcandosi, dal portone del Senato, ridendo com' è giusto per un branco che ha vinto una battaglia. Ma la corsa felice serviva soprattutto a lasciare in tempo l'aula così da non dover votare; così, cioè, da non mettere il proprio nome sul "draghicidio". 

Sapevano che nella prossima campagna elettorale l'eliminazione di Mario Draghi costituirà una scelta di campo, una definizione politica. Ed hanno ragione a temere. Le conseguenze di quello che è successo nel Parlamento italiano sono destinate ad essere, nella dinamica europea, una evoluzione che riapre una lotta politica interna al continente come da tempo non vedevamo.

L'unico modo per capire davvero quello che sta succedendo è strappare questa vicenda dal qui e ora, e riconnetterla con quello che è successo all'inizio di questa legislatura, alla formazione del governo giallo-verde nel 2018. Ripartendo dalla domanda di oggi - chi ha ucciso Mario Draghi? Risposta semplice: Giuseppe Conte, e Matteo Salvini. Ancora loro due. È dal 2018 che questa coppia pur nelle divisioni e negli scontri, nei momenti più rilevanti della storia politica del Paese si rivela un'alleanza di ferro.

La coppia funzionò perfettamente all'inizio del governo giallo-verde, si divise nel secondo governo Conte, ma sotto la tensione è sempre rimasta un'automatica convergenza di sentimenti e decisioni: furono loro due a lavorare contro l'elezione di Mario Draghi al Quirinale, e loro due sono stati la testa di ponte dell'assalto al suo governo. L'assonanza fra i due è talmente spontanea, talmente limata, da sfociare spesso senza neanche accorgersene in perfette sovrapposizioni. Salvini e Forza Italia infatti mossi da un feroce sentimento anti-Conte, al punto da porre a Draghi il diktat di formare un nuovo governo senza Conte, colpevole di aver affossato l'Unità nazionale, in assenza del consenso di Draghi a questo piano, hanno dato loro il colpo finale al governo affossato, a loro dire, da Conte.

La novità di questa coppia è che si è aggiunto stavolta nel "draghicidio", a consacrazione dell'egemonia di Salvini, Silvio Berlusconi, che, ammaliato dalla prospettiva del voto subito in chiave di competizione con la Meloni, ha abbandonato il ruolo di capo del partito della moderazione e dell'Europeismo di destra, in Italia. Come si vede, il sottofondo di tutto quello che è successo continua a tornare a un punto preciso della formazione della nostra classe politica: la vittoria nel 2018 di due partiti populisti, Lega e M5S. Non durò molto, l'esperimento. Ma qualcuno si ricorda perché , in queste ore?

Quella vittoria presa in Italia come una delle tante giravolte di un instabile panorama politico, creò un vasto allarme in Europa. Così vasto da avere forte eco anche oggi.

Si ricorderà che il successo elettorale dei populisti nel 2018 avvenne nell'infuocato clima della crisi dei migranti da una parte e nel formarsi di un forte fronte anti-Europa. Non si scherzava in merito. Un vero e proprio fronte costituito da Orban, Salvini, e Le pen (ci limitiamo ai nomi più rilevanti) che portava avanti, in vista delle Europee del 2019, la parola d'ordine: «Vinceremo noi e cambieremo le regole Europee».

Salvini in Italia fece di quella promessa il traino della sua prima fase di governo. L'Europa, dietro le frasi di circostanza - la Merkel era una maestra in questa arte di dissimulazione delle sue rabbie- temeva fortemente questo progetto. Progetto finanziato e apertamente sostenuto dalla Russia di Putin. Il Presidente Russo, già implicato nella guerra in Ucraina dal 2014, sosteneva apertamente Orban, la Le Pen, ( per sua stessa ammissione finanziata con 5 milioni di Euro) e Salvini in Italia. 

Era il momento del successo della Brexit, del governo neonazista in Austria, del movimenti antieuropa in Olanda. L'Europa della Merkel tremava e dissimulava. Ma non stette a guardare. A pochi giorni dalle europee del 2019 venne diffuso un video che mostrava Heinz-Christian Strache, vicepremier e leader del Partito delle libertà (Fpö), di estrema destra, mentre tratta con una pseudo-oligarca russa durante una serata alcolica a Ibiza. Sebastian Kurz, capo del governo austriaco, scelse di dimettersi immediatamente, annunciando elezioni anticipate.

Nel 2019 l'Espresso rivela gli incontri in un albergo di Mosca, il Metropol, tra esponenti della Lega (Salvini era in città ma non nell'albergo) e Russi che promettevano fondi al partito italiano. Un episodio mai chiarito, ma mai smentito, che lasciò Matteo Salvini intontito sotto il peso di una vicenda più grande di quel che immaginasse. Una vicenda che ha lasciato su di lui e sul suo alleato di allora Conte (anche lui in quel periodo, il 2018, protagonista di molte visite a Mosca) un permanente sospetto, ritornato alla grande in questi mesi di guerra, di una relazione un po' troppo speciale con Putin.

Va ricordato, tuttavia, che la rottura sui soldi di Mosca, fu la fine del governo Conte 1, e del rapporto fra i due alleati, nonché la ragione della brillante presa di distanza che portò Conte al suo secondo mandato costruito stavolta con il Pd. Eppure quella relazione fra Salvini e Conte è tornata sempre a galla, quando si è trattato del governo Draghi, come abbiamo scritto. Da ieri quella relazione si rafforza, anche senza la volontà dei due leader. Conte e il fronte della destra marciano nella stessa direzione. In Europa le orecchie sono già alzate.

QUANDO SI È CONSAPEVOLI DI NON AVERE ARGOMENTI PLAUSIBILI, RESTA SOLO LA FUGA. La storia si ripete, ma la tragedia si trasforma in farsa. Quando il centrodestra deve assumere decisioni importanti, non ha la statura adeguata per poterlo fare. GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sud il 21 luglio 2022.

La storia si ripete, ma la tragedia si trasforma in farsa. C’è “qualcosa di antico’’ nello sfascio della legislatura a cui abbiamo assistito. Nella mattinata di giovedì 6 dicembre 2012 i lavori della Camera erano sospesi in attesa di votare la fiducia, nel pomeriggio, per il decreto sui costi della politica, presentato dal governo di Mario Monti.

Io, deputato del popolo della Libertà nella XVI legislatura, partecipavo ad un incontro con una delegazione di parlamentari del Togo, quando, le agenzie di stampa prima, una telefonata, poi, mi informavano di ciò che stava succedendo al Senato, come reazione del Pdl alle considerazioni svolte poche ore prima dal ministro Corrado Passera a proposito dell’orientamento di Silvio Berlusconi di essere di nuovo in campo.

Più tardi, a casa, grazie ai tg, aveva ricostruito quanto era avvenuto. Il Pdl si era astenuto per protesta pur assicurando il mantenimento del numero legale allo scopo di consentire all’Assemblea di approvare il provvedimento all’esame. Allora mi era sembrato ovvio che qualche strappo fosse prevedibile, poco dopo, anche a Montecitorio. A inizio seduta avevamo ricevuto il consueto sms nel quale venivamo invitati ad astenerci.

“La politica ha sue regole – mi ero detto – anche a noi deputati viene chiesto di tenere il punto”. Nelle loro dichiarazioni di voto gli esponenti degli altri partiti ci avevano sommersi di critiche, fino a quando non prese la parola il capogruppo Fabrizio Cicchitto. Fin dalle prime battute mi resi subito conto che si stava preparando qualche cosa di ben più grave. Cicchitto, infatti, liquidò con una battuta il caso Passera (definendolo <untorello>) per passare poi a presentare il voto di astensione come una modifica di carattere generale della collocazione del Pdl nei confronti dell’esecutivo derivante da una critica alla sua linea di condotta in particolare nell’economia. Per sostenere questa posizione Cicchitto andò a rinvangare quasi tutte le occasioni di conflitto emerse nell’anno precedente, dimenticando che, su ciascuna di esse, una composizione più o meno brillante era stata in seguito raggiunta. Non ci volle molto a capire che – mentre al Senato i capi gruppo avevano avuto il buon senso di circoscrivere la rottura ad un caso specifico, recuperabile con un atto di scuse da parte del ministro Passera – alla Camera si era andati ben oltre, fino al rischio di aprire una crisi di governo.  E così decisi di votare a favore in dissenso dal gruppo, come ho continuato a fare. Il giorno dopo, nel voto finale, Angelino Alfano arrivò persino a staccare la spina al governo, accusandolo di essere responsabile di un peggioramento complessivo dell’economia del Paese (per fortuna si era ricordato di includere tra i motivi di dissenso anche il voto all’Onu a favore della Palestina, il solo evento meritevole di una dura presa di distanza).

Gli avvenimenti successivi sono noti. Ricordo che allora scrissi: “In cinquant’anni di vita politica raramente mi è capitato di assistere ad errori così gravi’’. Tanto che uscii dal gruppo e trascorsi gli ultimi mesi di attività parlamentare (si andò alle elezioni anticipate) in quello misto a Montecitorio. Ieri mi sono reso conto che quando il centro destra deve assumere delle decisioni importanti, non ha la statura adeguata per poterlo fare. E, purtroppo, come nel dicembre 2012, il protagonista di questo voltafaccia, nell’ambito del centro destra, è ancora una volta Silvio Berlusconi, il quale evidentemente ha scelto la strada delle elezioni anticipate. Mario Draghi al mattino ha svolto al Senato delle comunicazioni di grande spessore politico. E ha dimostrato – cosa di cui si dubitava – che era disposto a continuare nella attività di governo. Ha messo i partiti, il Parlamento davanti alle loro responsabilità ripercorrendo, una per una, le varie occasioni di conflitto sollevate, come bandierine, dalle forze politiche della coalizione. 

Nello stesso tempo ha fornito risposte ragionevoli su tutti i punti contenuti nelle agende dei diversi partiti. Ed ha stigmatizzato – chiamando per nome i protagonisti – i ribellismi emergenti da settori della società civile (taxisti, balneari, cittadini di Piombino, ecc.) protetti di volta in volta da alcune componenti della stessa maggioranza. I paragoni non sono sempre azzeccati; ma a chi scrive il discorso di Draghi di ieri, mi ha ricordato quello di Giorgio Napolitano quando venne rieletto al Quirinale. In quell’occasione però il Parlamento dimostrò maggiore consapevolezza dei suoi limiti riconoscendosi nelle critiche del Presidente.

Ieri, abbiamo avuto l’impressione, seguendo i lavori del Senato, che la reazione dei partiti sia stata quella del risentimento per dei richiami alla responsabilità che sembravano troppo onerosi. Poi la sorpresa. Come afferma il tenente Innocenzi nel film “Tutti a casa’’ (Luigi Comencini, 1960) a commento dei fatti dell’8 settembre 1943. “I tedeschi si sono alleati con gli americani’’.  Ha colto il paradosso della mossa del centro destra (con la risoluzione Calderoli sottoscritta da tutti i capigruppo della destra di governo, il governatore della Liguria Giovanni Toti: “Conte – ha scritto su twitter – combina il più epico guaio della storia recente. Ma il centrodestra di governo, geloso, gli ruba in corner, davanti agli italiani, la responsabilità di far cadere il governo Draghi! Ma davvero stiamo assistendo a tutto questo?”.

Si è così. Si dice che i topi siano i primi a scendere da un battello prossimo al naufragio. Ieri, i topi del centro destra hanno fatto di tutto per salire a bordo e prendere posto tra coloro che stavano affondando la nave del governo. Negli ultimi giorni dal 14 luglio ad oggi i pentastellati sono stati ricoperti di accuse di irresponsabilità, derisi, giudicati dilettanti inaffidabili, incapaci persino di spiegare i motivi delle loro iniziative, incendiari inconsapevoli, personaggi in cerca d’autore, scappati di casa e quant’altro. Poi è arrivato il D Day, il giorno in cui i “grillini’’ sono chiamati – come imputati – a dire il grande Si o il grande No, ma all’improvviso si accorgono che il lavoro sporco lo stanno facendo altri partiti.  Ci hanno pensato Salvini e soci a mettere Draghi con le spalle al muro. Ma il premier li ha bloccati con una astuta tattica parlamentare, imponendo – con la fiducia – la votazione sulla mozione Casini e costringendoli alla uscita dall’Aula come dei pentastellati qualsiasi.  Nessuno si è preso la briga di rispondere alla domanda di Draghi: “I partiti e voi parlamentari siete pronti a ricostruire questo patto? Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi, e che poi si è affievolito? Siamo qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione, perché e solo perché gli italiani lo hanno chiesto’’.

Se Conte avesse avuto un po’ di sense of humor avrebbe invitato i senatori del suo “rito’’ a intervenire elogiando il discorso del premier e a ritenersi soddisfatti delle risposte ottenute. Così il cerino acceso sarebbe restato in mano al centrodestra. Ma il M5S non poteva sottrarsi all’ultimo momento al gioco perverso che aveva iniziato il 14 luglio. La capogruppo Maria Domenica Castellone sembrava una persona che si lamentava con il partner per un amore finito male, rimproverandogli le disattenzioni, i maltrattamenti e le incomprensioni. In sostanza, un discorso centrato sulla difesa della dignità della sua forza politica, rivendicando al movimento di aver contribuito alla salvezza del Paese attraverso la partecipazione ai due governi presieduti da Conte, i cui meriti Draghi si era dimenticato di riconoscere. Quando si è consapevoli – vale per la destra di governo come per i “grillini’’ – di non avere argomenti plausibili, resta solo la fuga. 

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Conte, Salvini e Berlusconi sono i killer di Draghi e soprattutto di un’Italia che voleva rinascere. Franco Locatelli il 21 Luglio 2022 su FIRSTonline. 

Chi ha firmato la fine del Governo Draghi ha fatto sorridere Putin ma ha fatto un danno incalcolabile all’Italia e alla sua reputazione internazionale, di cui speriamo che gli elettori si ricordino nel prossimo voto. 

Giuseppe Conte del Movimento Cinque Stelle, Matteo Salvini della Lega e Silvio Berlusconi di Forza Italia negando la fiducia al Senato a Mario Draghi firmano il regicidio del miglior premier italiano degli ultimi decenni, mandano a casa il Governo e spianano la strada alle elezioni politiche anticipate. E’ questo l’allucinante risultato del mercoledì nero di Palazzo Madama che ha segnato il de profundis del Governo Draghi e ridato sicuramente il sorriso a Vladimir Putin, l’unico vero vincitore della autodissoluzione italiana.

Conte, Salvini e Berlusconi: le vere ragioni della lotta a Draghi

Ma come spiegare l’apocalisse del Senato? Nei prossimi giorni qualcuno dirà che Mario Draghi si era stufato delle beghe da strapaese dei Cinque Stelle e della Lega e cercava una via d’uscita per dimettersi, che i suoi interventi al Senato potevano essere più morbidi, che non era il caso di evocare la mobilitazione civile a favore della sua permanenza a Palazzo Chigi e che l’adesione alla risoluzione Casini, che era la più neutra che si potesse immaginare, è suonato uno sgarbo al centrodestra di Governo. Tutte sciocchezze. 

In realtà Draghi ha fatto a Palazzo Madama un discorso di grande dignità parlando all’Italia il linguaggio della verità senza curarsi delle piccinerie politiche e senza cercare mediocri compromessi per difendere una poltrona che non aveva cercato ma rispettando sempre il Parlamento.

Ma è proprio il linguaggio della verità ed è la volontà di cambiare finalmente il Paese con le riforme, che non ci chiede solo l’Europa ma che avremmo dovuto fare da anni, che risultano indigesti a quelle forze politiche che venderebbero anche la madre per qualche voto in più e che hanno dimostrato, una volta di più, di non avere la benché minima attenzione agli interessi generali del Paese. Che senso ha se non quello legato alla cieca corsa al consenso elettorale il proposito di mandare subito a casa un Governo che stava onorando l’Italia come non succedeva da anni e che avrebbe comunque finito la sua corsa nel giro di qualche mese alla scadenza naturale della legislatura? Di sicuro non ha il senso di aver cercato il meglio per l’Italia perché mandare a casa l’italiano più autorevole nel mondo è solo un tragico autogol, che fa perdere soldi (quelli del Pnrr) e soprattutto reputazione internazionale al nostro Paese, tornato con Draghi protagonista in Europa e non solo soprattutto nella stagione drammatica della guerra della Russia all’Ucraina.

Conte, Salvini e Berlusconi: quanti danni all’Italia voltando le spalle a Draghi

Non si può mandare all’aria tutto quanto di buono ha fatto il Governo Draghi per opporsi al termovalorizzatore di Roma, per difendere non solo i diritti ma anche gli scioperi contro la cittadinanza dei tassisti, per chiudere gli occhi di fronte alle incongruenze del Reddito di cittadinanza e alle frodi nate all’ombra del Superbonus. Ma che ci si poteva aspettare da un azzeccagarbugli come Giuseppe Conte, a cui solo la miopia del Pd ha creduto per tanto tempo, ma che ha sempre anteposto i suoi interessi personali e di parte a quelli del Paese? E che dire di Salvini che non ha resistito alla tentazione di replicare in Senato la farsa del Papeete? Quanto a Berlusconi bisogna avere rispetto per l’età, ma si era già capito dall’intervista al Corriere della Sera del fido Confalonieri che il leader di Forza Italia fiutava l’odore del sangue e non avrebbe usato mezze misure per scalzare Draghi e inseguire la vanità di un ritorno sulla scena e di un possibile riscatto elettorale.

I danni che la liquidazione del Governo Draghi recano al Paese sono immensi e ma enormi sono anche quelli che pesano e peseranno sulla causa della pace. L’Italia di Draghi era il Paese dell’Occidente più coerentemente impegnato a sostenere l’Ucraina e a creare le basi di un futuro negoziato di pace nel quale non prevalesse la forza bruta della Russia. Se ora Putin sorride, chi ha brigato per mandare a casa Draghi dovrebbe guardarsi allo specchio e chiedersi perché.

Franco Locatelli. Socio fondatore, amministratore e direttore responsabile di FIRSTonline. Milanese di nascita, ha sempre lavorato tra Milano e Roma. Ha cominciato a progettare un giornale online di informazione economica e finanziaria il giorno dopo la sua uscita, nella primavera del 2010, da Il Sole24Ore, dove ha trascorso più di 25 anni, è stato capo della redazione Finanza e Mercati ed editorialista e ha commentato i più importanti avvenimenti economici e finanziari dalla metà degli anni Ottanta. Per l’editore Olschki ha scritto due storie di banche locali della Toscana, la prima delle quali con lo storico dell’arte Antonio Paolucci. Nel 2014 ha pubblicato con Ugo Calzoni il saggio "Imperi senza dinastie" edito dalla Compagnia della stampa Massetti Rodella. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha insignito della onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica Italiana 

Progetto Smart. Il giorno in cui mio fratello Draghi ha trattato da imbecilli gli imbecilli. Guia Soncini su L'Inkiesta il 21 Luglio 2022.

Il presidente del Consiglio ha imparato la lezione più importante del presente, ovvero che non vale più «mi sono spiegato male». Per questo ai senatori che gli hanno attribuito di volere pieni poteri ha riletto le sue esatte parole, con l’aria schifata che ha Maggie Smith in Downton Abbey. 

Le ventiquattr’ore in cui mi sono sentita sorella di Mario Draghi si sono svolte tra martedì e mercoledì, tra Washington e Roma. È cominciato tutto quando Alexandria Ocasio-Cortez – la più furba delle millennial suscettibili e ignoranti – ha messo le mani dietro la schiena mentre la polizia la allontanava da una manifestazione.

Sapeva cosa sarebbe successo: le foto l’avrebbero ritratta con le mani tenute come fosse ammanettata. Vai poi a spiegare, scrivere editoriali che nessuno leggerà, invitare a guardare per intero i video in cui alzava il braccio destro, che teoricamente era ammanettato al sinistro, a salutare la folla. Un’immagine vale più di mille parole: volete che non lo sappia AOC, la Ferragni del parlamento statunitense?

Mi sono ricordata di mille conversazioni in cui avevo sostenuto che Draghi non l’avrebbe mai votato nessuno, senza social, senza cuoricini, giusto una barzelletta di recente ma per il resto nessuna concessione al mercato del «dovete esser simpatici, amabili, gente con cui andremmo a cena, se siete o no capaci a fare il vostro lavoro viene dopo». Draghi è uno che può essere solo nominato, mai eletto. Sia detto a demerito di noialtri, l’elettorato del ventunesimo secolo, quello più scemo della storia del suffragio universale.

E quindi è arrivata la giornata di ieri, i siti e i social avevano i prevedibili titoli su Alexandria Ocasio-Ferragni arrestata, condotta via in ceppi, martire del libero pensiero. (Lei twittava che non di performance fotogenica s’era trattata ma di buona abitudine quando t’arrestano: se metti le mani dietro la schiena non t’accusano di fare resistenza e non ti sparano, rischio concreto quando arrestano deputate davanti a decine di telecamere).

Intanto, al senato italiano, parlamentari dei quali non riuscivo a capire i partiti parlavano di che cosa avrebbe dovuto fare Draghi per accontentarli. (Ho passato un numero inammissibile di minuti a cercare di capire cosa fosse il sottinsieme del gruppo misto chiamato «Progetto Smart», e ho fallito).

Ma, soprattutto, è arrivata la giornata in cui mio fratello Mario Draghi ha fatto un errore: ha citato l’appello dei sindaci per dirci che è molto desiderato, un po’ come Alba Parietti che pubblica foto del culo dicendo che non sarà come quando aveva trent’anni ma non può rifarselo perché Vittorio Sgarbi le ha detto che è monumento nazionale. (Draghi non sapeva a cosa somigliasse il suo citare i sindaci: non avendo Facebook, non segue la pagina di Alba Parietti).

Ha citato questo benedetto appello e il risultato è stato che, per tutto il pomeriggio, tutti gli smart che volevano attaccarlo hanno detto eh sì ma quelli che l’hanno firmato sono duemila, vuol dire che ce ne sono seimila che non ti vogliono. Ma non è per questo che l’ho sentito fratello (pubblicherei d’altra parte anch’io foto del culo, se somigliasse a quello di Alba Parietti sessantenne; se somigliasse a quello di Alba Parietti trentenne, andrei direttamente in giro nuda).

Non è stato neanche perché quelli dibattevano e io continuavo a canticchiare «Se stanno insieme ci sarà un perché, e Draghi vorrebbe riscoprirlo stasera» (che fastidio, non ci sta con la metrica).

E non è stato neanche – un po’ sì, ma solo un po’ – perché gli interventi mi ricordavano il mio metodo per compilare il tema di maturità. Era uscito Leopardi, ci chiedevano di dimostrare non so più che tesi rispetto alla sua poetica. Annotai i versi che mi ricordavo (che in questo momento sono solo «quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi», ma all’epoca ce l’avevo più fresco, visto che il limitare di gioventù salivo), e decisi che quelli sarebbero stati i versi che dimostravano la tesi. Costruii il tema intorno alle citazioni.

Gli interventi in Senato sembravano fatti con lo stesso criterio. La Rauti e poi La Russa che si appropriano culturalmente di Scola (la sinistra è talmente impegnata a guardare serie coreane su Netflix che lascia Sordi e Manfredi alla destra: che malinconia). La Russa che fa suo persino Dalla, coi sacchi di sabbia vicino alla finestra, e Gaber, santo cielo: manca solo Pizzaballa. Gasparri che con «noi dicevamo le cose giuste anche prima» sembra quasi citare Nanni Moretti, ma che è, il pomeriggio delle appropriazioni culturali; c’è uno che chiaramente in omaggio a Guglielmi mescola l’alto e il basso, «Li sfonnamo de brutto» e Winston Churchill; ma per fortuna ci sono anche cialtroni che hanno riciclato un discorso vecchio e continuano a ripetere «siamo al 14 di luglio».

Non è per tutti i derelitti che hanno avuto i loro bravi minuti per esprimersi, che ho sentito fratello un banchiere che non ha mai usato il cuore. È accaduto che abbiamo passato la giornata a sentire che Draghi aveva chiesto pieni poteri, con tutto il corredo di madeleine (il mojito, il Papeete, Salvini in felpa, Salvini con la faccia tra le tette della cubista, quella memorabile estate che dovrebbero mandare in replica su Italia 1).

I senatori che somigliano all’elettorato, i giornalisti che somigliano al loro pubblico: tutti hanno continuato a parlare di questa richiesta di pieni poteri.

Poi, a un certo punto del pomeriggio, Draghi ha ripreso la parola, con l’aria schifata che ha Maggie Smith in Downton Abbey, e ha detto che non gli pareva stessero parlando di cose che aveva effettivamente detto, «vorrei a questo punto rileggere esattamente le cose che ho detto». Le ha rilette, giuro, col tono di chi spiega come si lucida l’argenteria a una cameriera particolarmente ottusa.

Fratello, sapessi le volte che mi chiedono conto di un verbo che non ho mai usato, e penso: certo, è il verbo del titolo, abitiamo un tempo in cui si contestano gli articoli avendo letto solo i titoli. Non glielo puoi neanche far notare, perché ti dicono ah, vile, prendi le distanze dal titolista, stai dicendo che ha tradito il tuo pensiero. No, imbecille che eleggi altri imbecilli, sto dicendo che un titolo è una sintesi, se vuoi criticare le mie precise parole leggile, stanno lì, puoi farlo. Poi non ho mai la pazienza di dirglielo. Draghi sì, e io d’ora in poi lo copierò.

Imparerò tutto da lui, che ha imparato la lezione più importante del presente, ovvero che non vale più «mi sono spiegato male». Quello valeva quando chi si prendeva il disturbo di risponderti era perlopiù dotato di comprensione del testo. Adesso, che l’aspirante opinionista ti risponde non avendo ascoltato il tuo discorso, ma avendo letto una card su Instagram che dice che vuoi pieni poteri, adesso che l’aspirante opinionista ti dice che Alexandria Ocasio-Ferragni è stata condotta via in ceppi, ha visto le foto, adesso puoi solo dirgli: imbecille, te lo ripeto. Poi lui «imbecilli» ai senatori e ai commentatori televisivi e social non l’ha detto; ma nel tono c’era, altroché se c’era.

Storia delle mie vene. Il Paese che ha sempre bisogno di un Mario per risollevarsi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 Luglio 2022.

L’infermiera che per fare un prelievo si deve sdraiare per terra (senza poi riuscire a riempire le provette) è il simbolo perfetto di una nazione che si barcamena tra incompetenza strutturale e piccoli grandi salvatori della patria.

Ho letto dello scandale du jour del reparto di oncologia d’un ospedale di Napoli mentre, un bel po’ più a nord, in una struttura privata, a mezzogiorno, un’infermiera stesa per terra cercava di prelevarmi del sangue urlando un nome non particolarmente raro. Perché mi prelevavano il sangue a mezzogiorno? Perché l’infermiera era stesa per terra? E chi invocava? Quanti misteri, nella prima scena di questo appassionante giallo dell’estate.

Lo scandale du jour, come riferito da Repubblica, è che nel reparto sono affissi due cartelli: «È severamente vietato domandare quante persone ci sono in lista prima del proprio turno di visita», e «Inoltre si fa presente che l’orario di visita scritto sulla prenotazione non ha valore e non sarà rispettato».

Sospetto che non sia neanche la cosa peggiore che si possa leggere in un reparto di oncologia, posti nei quali mi vien sempre da pensare che forse sarei di malumore anch’io, se avessi a che fare tutto il giorno con gente che muore (qui è dove i fini psicologi smettono di leggere indignandosi perché la mia mamma ha il cancro e semmai è lei che ha diritto di essere di malumore mica tu che fai il tuo lavoroooo).

L’ultimo articolo che A.A. Gill lasciò scritto morendo raccontava del suo cancro e delle cure inadeguate che aveva ricevuto, giacché era inglese, e il grande non detto è che avere il servizio sanitario nazionale è uno scambio al ribasso: non andate in bancarotta per curarvi, in compenso le cure non saranno quelle più all’avanguardia; non andrete in bancarotta ma verrete curati così così, e i ricchi manderanno i loro cari al Cedars Sinai, perché la sanità a pagamento americana ha soldi da investire in ricerca, in cure sperimentali, in tutto ciò che l’Inghilterra non ha pagato a Gill.

Questo è il punto in cui una serie di ottusi sbraita che «la sanità pubblica è meravigliosa e mi ha salvato la vitaaaa», una frase che fa sempre molto ridere: il paziente medio non ha gli strumenti per valutare se il malanno che ha avuto sarebbe stata in grado di guarirlo anche un’infermiera sveglia, o se servisse un genio della medicina e per rara botta di culo gliene sia capitato uno; il «mi ha salvato la vita» d’un paziente vale quanto il «come scrivi bene» che mi dice il lettore medio, cioè niente (almeno finché non inventano un TripAdvisor di medici e scrittori; ma probabilmente ce n’è già uno e io non lo so, ce n’è già uno e io ho pochissime stelline che i miei lettori appongono per vendicarsi del mio dar loro degli analfabeti).

Insomma i cartelli di Napoli sono molto italiani: «severamente» prima di vietato è il modo in cui tenta di fare «buh!» la tentata autorità rivolgendosi a un pubblico che, più o meno consciamente, sa bene che l’italiano non ha né la parola per dire enforcement né quella per dire accountability. E sono molto maleducati: cosa vuol dire che l’orario previsto non vale niente? Vuol dire quello che vuol dire ovunque, solo che gli altri non sono così cafoni da esplicitarlo.

Mentre tentavo di non pensare agli aghi e mi distraevo leggendo dei cartelli napoletani, ero digiuna da sedici ore per dei prelievi che avrebbero dovuto farmi alle otto. Ma, quando sono arrivata in anticipo per il mio check-up, le signore dell’accettazione erano molto impegnate a spettegolare d’una loro collega.

Sono stata due ore in sala d’attesa, e con me una trentina di persone che avevano probabilmente appuntamento alla mia stessa ora. E che probabilmente come me, quando finalmente sono arrivate davanti a un medico, si sono sentite chiedere: ma signora, come mai ha fatto così tardi? Eh, dottore: avevano da chiacchierare.

Questo perché, in una nazione fondata sulla cialtroneria, le strutture private sono cialtrone quanto quelle pubbliche, e devi pure supplicarli per dar loro i tuoi soldi, cosa di cui non mi capacito ogni volta che cerco di prenotare una risonanza e un centro privato mi dice «eh ma è estate, ci sono le ferie» e io mi sento Pretty Woman con manate di contanti che nessuna commessa vuole.

Lo so: non ho ancora sciolto il mistero della tizia stesa per terra, quando finalmente a mezzogiorno è stato il mio turno di farmi togliere il sangue. Dovete sapere che io non ho le vene. Cioè, immagino di averle essendo ancora viva, ma ogni volta che devono prelevarmi il sangue mi dicono «eh, ma lei non ha vene». Di recente parlavo con una persona che ha problemi anche lei di prelievi, e le raccontavo d’un infermiere che una volta m’ha detto: è perché è disidratata.

Quindi, l’altroieri, questa persona m’ha raccomandato di bere. E io per ventiquattr’ore ho bevuto come le aspiranti modelle che girano con la bottiglia d’acqua in borsa, ho bevuto per gonfiare le mie povere vene di sangue annacquato, ma niente: l’infermiera m’ha detto che l’unica era farmi tenere il braccio giù nella speranza che arrivasse più sangue all’avambraccio, e che lei si stendesse per terra a farmi il prelievo. Senonché da per terra non riusciva ad agguantare le provette – doveva riempirne ben sette – e quindi ha iniziato a urlare: Mario! Mario!

Mi sono chiesta se fosse una manifestazione spontanea per chiedere a Draghi di restare, e intanto a lei s’è rotta la mia vena (come a ogni mio prelievo) e c’erano ancora da riempire sei provette. Eravamo rovinate, neanche il governo Amato avrebbe potuto garantirmi le analisi, prova tu a fare il prelievo forzoso se le vene non collaborano.

Poi Mario è arrivato, ed era un infermiere che prima mi ha detto che quella dell’acqua era una stronzata, poi mi ha fatto storcere il polso e ha chiesto un ago più piccolo, e infine ha riempito sei provette in un minuto.

Non volevo ammettere che una donna avesse bisogno d’un uomo che sapesse fare il suo lavoro meglio di lei, quindi ho montessorianamente lodato l’impegno e il fatto che «la signorina» si fosse stesa per terra; poi mi sono immaginata i TikTok in cui si lamentava, «le pazienti mi chiamano signorina per sminuirmi», quindi mi sono corretta, «dottoressa», mentre pensavo ma è infermiera, che vocativi si usano con le infermiere – ma nulla di tutto ciò è importante, neanche l’ematoma nero di vena rotta oggi sul mio braccio.

L’unica cosa che voglio sapere è se anche a Napoli, come ovunque in questa derelitta nazione, serva sempre un Mario a risollevare da terra quelli che il loro lavoro proprio non sanno farlo.

L’antipolitica ha colpito e affondato anche l’uomo che salvò l’Euro. Draghi si è lasciato andare a stonature e sgrammaticature istituzionali sorprendenti, quando ha contrapposto il volere dei cittadini a quello del Parlamento. Quasi che i due attori fossero contrapposti... Davide Varì su Il Dubbio il 21 luglio 2022.

Come abbiamo fatto a liberarci dell’uomo del “whatever it takes”, l’uomo che ha salvato l’Euro e forse l’Europa? Difficile trovare una ragione politica credibile. Certo, c’è la crisi irreversibile dei 5Stelle che ha trasformato Giuseppe Conte, un ex presidente del consiglio (sic!), in una mina vagante pronta a esplodere da un momento all’altro. E poi la voglia di elezioni del centrodestra, ansiosa da tempo di raccogliere quel che i sondaggi promettono da mesi e mesi. Infine l’ambiguità del Pd.

Un Pd che da un lato ha sostenuto lealmente Draghi e dall’altro ha continuato a intrattenere “relazioni pericolose” con i grillini, ovvero con coloro che da mesi preparavano la fuga dal governo convinti di poter portare a casa il colpaccio schivando le urne. E in effetti è assai singolare, e assai poco credibile, che un partito che ha governato prima con la Lega, poi con i dem e infine con entrambi (ingoiando ogni cosa), decida di “sfiduciare” Draghi a causa di un inceneritore. No, il Movimento ha preparato da mesi l’uscita di scena, e l’ha fatto sotto gli occhi del Pd. Eppure tutto questo non basta a spiegare quel che è accaduto ieri in Senato.

C’è una sorta di vocazione al suicidio, un istinto masochista che agisce nel nostro paese ogni qual volta provi a rialzare la testa. È una pulsione che riemerge in modo ricorrente e che, per la verità, sembra aver colpito lo stesso Draghi. Non v’è dubbio infatti che in questi ultimi giorni il maggior alleato dei grillini contro Draghi è sembrato Draghi stesso. Il quale ha deciso di drammatizzare una crisi che di certo poteva essere gestita in modo molto diverso. I motivi per cui il premier ha scelto questa strada sono davvero poco chiari. Tanto che qualche maligno ha avanzato l’ipotesi che Draghi fosse in cerca da tempo di una exit strategy, di un pretesto per mollare tutto come uno Schettino qualsiasi.

E anche ieri mattina, nel corso del suo primo discorso al Senato, l’impressione era quella di un premier indisponibile a qualsiasi tipo di concessione. Tanto che a tratti si è lasciato andare a stonature e sgrammaticature istituzionali sorprendenti, sedotto anche lui dalle derive dell’antipolitica. Si è lasciato andare a una stonatura, per dirne una, che ha avuto lo stesso “sgradevole” effetto delle unghie sulla lavagna. Un effetto, come spiegano gli studiosi, dovuto al superamento del limite di frequenze acustiche tollerato dagli uomini. Ecco quel limite ieri Mario Draghi lo ha superato quando ha contrapposto il volere dei cittadini a quello del Parlamento. Quasi che i due attori fossero contrapposti: «Sono qui – ha infatti detto Draghi – perché gli italiani me lo hanno chiesto, la risposta a tutte le domande non dovete darla a me ma a tutti gli italiani». Replica di Pierferdinando Casini: «Presidente lei è qui non solo perché glielo hanno chiesto gli italiani, ma perché il parlamento non le ha mancato la fiducia».

Intendiamoci, chi scrive – e credo di poter parlare anche a nome del buon Casini – è convinto che quello di Draghi sia stato il governo più importante della seconda Repubblica. Di più: per carisma, preparazione, coraggio e capacità visionaria, Draghi è stato il valore aggiunto che probabilmente ha salvato l’Italia da una crisi economica e sociale che avrebbe potuto metterci in ginocchio. Ciò non toglie che le nostre istituzioni, dal Parlamento al Colle, non sono fastidiosi ostacoli ma contrappesi che vanno rispettati e tenuti sempre in considerazione. Insomma, la scivolata di Draghi ci dice quanto in questi anni abbia scavato il virus dell’antipolitica, colpendo anche le élite più illuminate e preparate.

Certo, la questione può apparire secondaria rispetto a ciò che sta accadendo in queste ore, eppure le due cose sono strettamente legate: se il premier avesse dato più dignità alle istituzioni e alla politica, forse, chissà, lui sarebbe ancora ben saldo a palazzo Chigi e noi tutti saremmo molto più tranquilli. 

Draghi e le verità scomode. Giuseppe Trapani, Giornalista, su Il Riformista il 20 Luglio 2022 

Dimmi cosa, come, quando e dove  e ti dirò chi sei.  Sta qui tutta la differenza “politica” tra Mario Draghi e il resto del panorama politico italiano che – usando un eufemismo – si è da anni convinto stupidamente di poter governare senza farlo, di dire cose senza un appiglio con la realtà, di fare teoria senza pratica,   di pontificare in campagna elettorale per poi scappare di fronte alle decisioni anche impopolari. Tutto questa sceneggiata non regge più.  Io personalmente non amo le agiografie, le incensazioni di facciata anzi partirei da una provocazione.

In un paese normale con politici responsabili (di destra, di sinistra o di centro, vedete voi…) un Mario Draghi non starebbe al governo ma avremmo – passatemi la battuta – tanti Draghi di diverso colore. Ovvero leader con la loro identità di vedute ma indistinguibili per valori comuni, scelte di campo inequivocabili, orizzonti inclusivi.  Invece nel nostro paese votiamo incapaci, poi ci arrabbiamo ma lasciamo fare il lavoro sporco al “tecnico” salvo poi scaricarlo per decimali di voti, per un pungo di consensi effimeri. E quindi dove sta il discrimine, la sottile linea rossa da non attraversare? Quella che abbandona la demagogia, lo slogan cazzaro e ti sbatte in faccia la verità. Laddove con questo termine indichiamo non qualcosa di metafisico, di trascendente e dogmatico ma verità in politica vuol dire un fatto e non la somma delle opinioni pur legittime.

Ecco Mario Draghi –  in questo senso –  è filosoficamente un parmenideo ovvero certifica brutalmente  l’essere delle cose e – per converso – ci dice che quel che non è non può essere.  E soprattutto in politica non si da.  Qualche esempio: se si decanta la cosiddetta pace fiscale ma poi mancano in cassa  1000 miliardi di crediti verso il fisco, come pagare il welfare senza tasse ? Chiedetelo a Salvini e non a Draghi. Oppure perchè mai combattere per ottenere il PNRR vantandosene in tutti i luoghi e in tutti i laghi se poi non si determinano le scelte operative votando i decreti attuativi successivi? Chiedetelo a Conte e non a Draghi. Non ci si può scandalizzare se sindaci, sindacati, categorie produttive e associazioni chiedono di continuare l’azione di governo se non si comprende che l’agenda di governo di unità nazionale è tale perchè trasversale agli interessi particolari. Su questo chiedetelo alla Meloni e non a Draghi.

Tutto questo per dire la differenza tra un colore e l’arcobaleno, tra le parti (legittime) e il tutto. Sappiamo che un tutto richiede alla parti di “cedere” qualcosa (e spesso invita a cedere tanto) ma ricordiamoci che tanto è stato detto agli italiani con i risultati disastrosi osservabili a occhio nudo.

L’attuale premier si è limitato a certificare i fatti offrendo un’agenda, forse la più pragmatica possibile non fosse altro che questo programma riformista di transizione e di fine legislatura scontenta i populisti. Quindi, è l’assunzione di quest’agenda il dato politico più importante di oggi al di là di come finirà. 

Poi possiamo tornare al festival delle opinioni ma quantomeno sappiamo che a quel punto ci teniamo uno scenario di disastro  bifronte chiamato Conte e Salvini. 

Ripeto: il giorno in cui non governerà un tecnico nel nostro paese vorrà dire che abbiamo politici più inclini alla serietà del tempo presente. Mi permetto un’evocazione cinematografica detta senza ironia.

Questo momento politico così decisivo mi ricorda le parole della  Maddalena che nel capolavoro di Franco Zeffirelli ha il volto meraviglioso di Anne Bancroft. Quando, testimone privilegiata ma inizialmente non creduta, disse più o meno così “io ve l’ho detto, adesso fate voi

L’agenda delle verità scomode oppure tarallucci e urne? Vedremo

Dagospia il 20 luglio 2022. ECCO I RISULTATI DI UN PARLAMENTO DI PIPPE - LO SPREAD TRA BTP E BUND TEDESCO APRE IN NETTO RIALZO A 230 PUNTI BASE, RISPETTO AI 212 PUNTI DELLA CHIUSURA DI IERI, DOPO LA CRISI DI GOVERNO. IL RENDIMENTO DEL DECENNALE ITALIANO SALE AL 3,56%, OLTRE IL TASSO DEI TITOLI GRECI (3,48%) - APRE IN RIBASSO PIAZZA AFFARI (-2,4%) CON LA CRISI DEL GOVERNO DRAGHI...

(ANSA il 20 luglio 2022) - Lo spread tra Btp e Bund tedesco apre in netto rialzo a 230 punti base, rispetto ai 212 punti della chiusura di ieri, dopo la crisi di Governo. Il rendimento del decennale italiano sale al 3,56%, oltre il tasso dei titoli greci (3,48%).

(ANSA il 20 luglio 2022) - In netto calo i future su Piazza Affari (-2,4%), con la crisi del Governo Draghi. I future degli altri listini europei galleggiano poco sopra la parità, in vista della riunione della Bce che varerà il suo primo rialzo dei tassi dal luglio 2011.

Dagospia il 20 luglio 2022. FATE UN APPLAUSO A SALVINI, BERLUSCONI E CONTE: L’ITALIA RISCHIA IL PATATRAC! – PIAZZA AFFARI OGGI È CROLLATA, E I TITOLI DI STATO ITALIANI SONO AI LIVELLI DI QUELLI GRECI: I BOND DI ATENE CON SCADENZA A DUE ANNI VENGONO GIUDICATI MENO RISCHIOSI DEI NOSTRI. ED È NIENTE RISPETTO A QUELLO CHE POTREBBE SUCCEDERE DA DOMANI. SECONDO GLI ANALISTI LO SPREAD POTREBBE SCHIZZARE A 300 PUNTI BASE. COME SE NON BASTASSE, RISCHIAMO DI PERDERE LA SECONDA RATA DEL RECOVERY FUND DA 24 MILIARDI. MA TRANQUILLI: LE LICENZE DEI TASSISTI E  LE CONCESSIONI DEI BALNEARI NON SARANNO TOCCATE...

Paolo Algis per l’ANSA il 20 luglio 2022.

La paura di perdere Mario Draghi, il garante dei conti pubblici e delle riforme in Italia, affonda Piazza Affari e fa risalire lo spread sopra i 210 punti base, alla vigilia di una riunione delicatissima in cui la Bce dovrà essere molto convincente sull'efficacia dello scudo anti-spread che sta mettendo a punto se vorrà evitare che il debito italiano finisca sotto il fuoco incrociato dei mercati. 

Il listino milanese ha chiuso in calo dell'1,6% al termine di una giornata molto volatile, in cui il Ftse Mib ha oscillato tra un rialzo dello 0,7% - confortato in mattinata dalla disponibilità del premier a proseguire l'esperienza di governo con una maggioranza ricompattata - e un calo del 2,3%, partito dopo la richiesta della Lega di un nuovo governo senza i 5Stelle e alimentato dalla paura di una crisi politica in una fase di grande complessità per via della crisi energetica, della guerra e dell'inflazione.

Il rischio sempre più concreto di una fine anticipata della legislatura ha fatto crollare in serata i future su Piazza Affari (-4,1%), anticipando la giornata drammatica che potrebbe vivere domani il nostro Paese. Stesso spartito per lo spread Btp-Bund, sceso inizialmente da 204 a 193 punti base e poi risalito a 212 punti base, mano a mano che la strada per una permanenza di Draghi a Palazzo Chigi si faceva più stretta, con il rendimento del nostro decennale cresciuto di 6 punti base al 3,37%, peggior titolo dell'Eurozona.

La crisi italiana ha appiattito i rendimento dei titoli di Stato italiani su quelli della Grecia, con i bond di Atene con scadenza a due anni che vengono ormai giudicati meno rischiosi di 13 punti base dei Btp di analoga durata, e quelli a 10 anni separati da solo 7 punti, il minimo da inizio 2022. David Zahn, capo del reddito fisso europeo di Franklin Templeton, ha ipotizzato che lo spread Btp-Bund possa schizzare a 300 punti base se i mercati non saranno convinti dallo strumento anti-frammentazione della Bce.

"Un crollo del governo, in questo momento, non farebbe certo dormire sonni tranquilli agli investitori", avverte Paul O'Connor di Janus Henderson: "un ulteriore allargamento degli spread obbligazionari italiani sembrerebbe molto probabile, in un contesto di prolungata paralisi politica e in un momento in cui l'economia italiana si trova ad affrontare molteplici venti contrari".

Ma anche la moneta unica, già indebolita dal rischio di una recessione in Europa, patisce le turbolenze politiche che coinvolgono uno dei Paesi più indebitati del Vecchio Continente, scivolando sotto quota 1,02 con il dollaro, e contribuendo a rafforzare la richiesta dei 'falchi' Bce di un aumento di mezzo punto percentuale dei tassi già domani.

Dagospia il 20 luglio 2022.

QUI VIENE GIÙ TUTTO! – DAL DDL CONCORRENZA ALLA RIFORMA FISCALE: LA DECISIONE DI SALVINI, BERLUSCONI E CONTE DI FAR CADERE IL GOVERNO DRAGHI METTE A RISCHIO NUMEROSI PROVVEDIMENTI CHE IL GOVERNO AVEVA IN CANTIERE PER I PROSSIMI MESI. MA SOPRATTUTTO, RISCHIA DI FAR PERDERE ALL’ITALIA LA SECONDA TRANCHE DEL RECOVERY FUND, DA 24 MILIARDI DI EURO – IN FORSE ANCHE IL TAGLIO DEL CUNEO, IL BONUS DA 200 EURO PER DIPENDENTI E LA STERILIZZAZIONE DELLE ACCISE DEI CARBURANTI…

Corrado Chiominto per l’ANSA il 20 luglio 2022.  

Dal Pnrr alla legge di bilancio, dagli interventi per la riduzione del cuneo fiscale al salario minimo: sono molti i progetti in bilico sul crinale della crisi politica. Il cantiere del governo si ferma. 

Ma forse non completamente per le misure che l'urgenza del momento potrebbe richiedere, come il varo del decreto di fine luglio-inizio agosto che anche un governo che non è nella pienezza dei propri poteri potrebbe/dovrebbe adottare per alleggerire il peso del caro energia sulle famiglie e sulle imprese. 

La fine anticipata della legislatura, invece, manderebbe in soffitta tutti i provvedimenti ora in Parlamento: dal ddl concorrenza alla riforma fiscale.

– PNRR: la complessa macchina del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che per l'Italia vale complessivamente 191 miliardi di fondi, è in un momento delicatissimo. 

Varate le norme per molti progetti si entra nella fase operativa. Nel primo semestre è stato centrato l'obiettivo di 45 progetti, necessari per richiedere la seconda tranche da 24 miliardi. Ora ne mancano 55 per la fine dell'anno, ai quali si aggiungono i progetti di riforma richiesti per ottenere una nuova tranche di anticipo del Pnrr 

- BOLLETTE E BENZINA: la sterilizzazione di 30 centesimi delle accise dei carburanti - dalla benzina al gasolio - è stata prorogata al 21 agosto, salvando gli esodi clou dell'estate. Poi il prezzo, se non ci sono ulteriori interventi, tornerebbe 'pieno'. 

Durano solo fino a settembre e quindi dovranno essere rinnovati per l'ultimo trimestre dell'anno gli interventi sulle bollette di gas e luce, che hanno bloccato gli oneri di sistema. Nonostante la crisi questi provvedimenti potrebbero essere adottati.

– MANOVRA E PENSIONI: tra i nodi principali che un governo nella pienezza dei propri poteri deve affrontare c'è la messa a punto della manovra, attesa dopo l'estate, che dovrà prevedere un decalage del debito pubblico. Se si va alle urne il calendario richiederà deciso impegno. Il nuovo quadro di previsioni (la Nadef) deve essere approvato entro il 27 settembre ed è evidente che sarà comunque l'attuale governo a predisporre le previsioni 'a legislazione vigente'. 

Poi entro il 15 ottobre queste vanno inviate all'Ue mentre il governo ha tempo fino al 20 dello stesso mese per il varo della legge di bilancio nella quale può valutare gli interventi da mettere in campo. Chiaro che le ipotesi di lavoro su taglio del cuneo o per la flessibilità in uscita delle pensioni sono ora in salita: scade infatti Quota 102, oltre che l'Ape Sociale e Opzione Donna. L'attuale governo aveva ipotizzato di prorogare questi due ultimi meccanismi e stava studiando un nuovo regime per consentire una maggiore flessibilità in uscita.

- IUS SCHOLAE, CANNABIS, FINE VITA E DOPPIO COGNOME: sono temi diversissimi ma accumunati da un identico destino, calendarizzati per luglio, senza fissare però una data, per la discussione in Aula alla Camera. Se si va alle urne decadono. La maggioranza del governo Draghi sui due temi era divisissima: Lega e Fi da una parte, Pd e M5s dall'altra. Analogo destino per la legge sul suicidio assistito che ha incassato a marzo il primo ok della Camera e ora è in commissione al Senato. 

Addio anche alla possibilità di legiferare sul doppio cognome così come sollecitato dalla Corte costituzionale che è intervenuta per sancire la possibilità di aggiungere quello materno. Decadono anche le norme per rivedere l'ergastolo ostativo, ovvero il divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia. 

 - CUNEO E 200 EURO: il sostegno dei redditi, per salvaguardarli dall'erosione dell'inflazione che ha raggiunto l'8%, passa attraverso molti strumenti che il governo ha ipotizzato di varare per la fine di luglio. Ma chiaro che anche se verrà varato il decreto difficile che vengano affrontati, ma anche che possa essere replicato per un secondo mese il bonus di 200 euro, previsto per dipendenti, pensionati e autonomi. Ancora più complicata l'ipotesi di una riduzione dell'Iva sugli aumenti dei beni di consumo più necessari.

- RIFORMA TASSE E CONCORRENZA: con la chiusura del Parlamento decadono anche alcuni provvedimenti di tipo economico, importanti anche ai fini degli obiettivi del Pnrr. Il primo è la delega fiscale, per la riforma del sistema tributario che superato il nodo del catasto è ora in commissione al Senato. L'altro è il ddl concorrenza ora all'esame in commissione alla Camera, dove non è ancora stato sciolto il nodo dell'articolo 10 sui taxi.

Draghi, replica durissima che chiude la porta a Conte: attacco ai 5 Stelle su reddito, salario minimo e superbonus. Poi chiede la fiducia.

Un azzardo che costa 21 miliardi solo sulla giustizia: riforme addio.  

Nel suo discorso al Senato, il premier aveva ricordato l’obbligo di approvare i decreti relativi ai ddl Cartabia. Riuscirci sarebbe stato comunque difficile, con questi partiti. Errico Novi su Il Dubbio il 21 luglio 2022.

Non è un caso: Mario Draghi aveva citato la giustizia al primo posto, ieri mattina, nel rivendicare le riforme portate a casa dal suo governo. I provvedimenti sulla «giustizia», innanzitutto, poi quelli relativi a «concorrenza, fisco, appalti, oltre alla corposa agenda di semplificazioni, sono», aveva detto, «un passo in avanti essenziale per modernizzare l’Italia».

È un passaggio chiave dell’intervento che il premier ha pronunciato a Palazzo Madama, ed è strettamente connesso al Pnrr. Perché il capo del governo aveva tenuto a ricordare altre due cose. Da una parte «la riforma del processo penale, del civile e delle procedure fallimentari», oltre a quella sulla «giustizia tributaria» appena incardinata in Parlamento, «sono essenziali per avere processi giusti e rapidi, come ci chiedono gli italiani». Ma dall’altra parte, e soprattutto, il presidente del Consiglio aveva aggiunto che «le scadenze segnate dal Pnrr sono molto precise», e che perciò «dobbiamo ultimare entro fine anno la procedura prevista per i decreti di attuazione della legge delega civile e penale». Senza contare che pure la riforma tributaria, ora al Senato, «deve essere approvata entro fine anno». Draghi neppure ha rammentato che “sgarrare” sui decreti attuativi del civile e del penale costerebbe 21 miliardi di Pnrr, oltre il 10 per cento del finanziamento promesso dall’Europa all’Italia.

Con uno stile ormai ben riconoscibile, il capo del governo, più che lanciare allarmi disperati, ha consegnato nelle mani dei partiti tutte le responsabilità, le conseguenze di una crisi e di un ritorno anticipato alle urne. Senza nemmeno puntualizzare le perdite mostruose che il paese soffrirebbe sul piano finanziario. E in effetti, i dati sono quelli evocati da Draghi col suo garbato senso di sfida. I patti con l’Europa prevedono che il percorso normativo debba essere completato entro il 2022, e che altrimenti parte dei fondi andrà perduta. D’altronde la giustizia dà anche la misura del nuovo «patto» che il presidente del Consiglio aveva richiesto nel discorso a Palazzo Madama. La materia è divisiva, e infatti Draghi, in un altro passaggio, non ha mancato di ricordare lo «sfarinamento» che nella maggioranza si è registrato, per esempio, attorno alla riforma del Csm. Ha rammentato cioè che, come sembra storicamente inevitabile, sulla giustizia si raggiunge il più alto grado di tensione, in Italia, a maggior ragione all’interno di una maggioranza così eterogenea. Ma il coefficiente di difficoltà della sfida risiedeva, per Draghi, proprio nella necessità che persino sulla giustizia, in tempi brevi, si arrivasse a un accordo, e innanzitutto al via libera sui decreti attuativi del nuovo processo.

Si doveva passare da subito, entro l’autunno, dalle sfibranti trattative intavolate fino a poche settimane fa sul ddl Cartabia a una coesione assoluta. Un miraggio. È la cifra del nuovo corso che Draghi si era detto disposto a intraprendere: dovete mettere da parte davvero i contrasti – è stato il messaggio rivolto dal presidente del Consiglio ai partiti – a cominciare dalle nuove norme sui processi. È vero che i decreti attuativi richiedono, in Parlamento, un parere non vincolante per l’esecutivo. Ma è anche vero che quei provvedimenti, una volta usciti dal legislativo del ministero di Marta Cartabia, avrebbero dovuto transitare per un Consiglio dei ministri già dimostratosi capace di clamorose balcanizzazioni, come nel varo del maxiemendamento alla riforma del Csm, nel febbraio scorso. Una maggioranza incapace di disciplinarsi, insomma, avrebbe rischiato di paralizzare anche questa ulteriore produzione normativa.

Ed è chiaro che le maggiori tensioni si sarebbero registrate sul processo penale. Ad esempio, sulla definizione puntuale delle nuove regole per i ricorsi in appello e in Cassazione. Non è un caso che il coordinamento dei testi impegni ormai gli uffici di via Arenula da quasi tre mesi. «I testi del penale saranno pronti entro l’estate», aveva assicurato Gian Luigi Gatta, consigliere della guardasigilli. A questo punto gli sforzi compiuti dai tecnici rischiano di essere inutili. In una prospettiva di coesione e ferrea “disciplina di maggioranza”, Draghi e soprattutto Cartabia avrebbero potuto trovare spazio anche per altri passi, come la normazione secondaria sul carcere, vale a dire le modifiche regolamentari previste dalla commissione Ruotolo per migliorare la qualità della vita di detenuti e agenti. Ipotesi che ora, in una prospettiva ridotta alla gestione degli affari correnti, diventerebbero irrealistiche.

D’altra parte, il vero banco di prova, sul carcere, sarebbe stato un altro: l’impatto, sulla maggioranza, di quei decreti attuativi del penale che prevedono di superare l’esecuzione inframuraria quando la pena è al di sotto dei 4 ani. Il ddl delega di Cartabia lo prefigura con chiarezza, ma in una maggioranza affamata di bandierine da sventolare, partiti come Lega e avrebbero approfittato, probabilmente, di quelle materie per infiammare ancora gli ultimi mesi di legislatura. La posta in gioco era alta. E i partiti non se ne sono mostrati all’altezza.

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Lega e 5 Stelle avevano una crisi nei sondaggi ed hanno anteposto i loro interessi rispetto all'interesse dell'Italia. L'Italia non ci ha guadagnato con le elezioni e non credo neanche le forze politiche che hanno fatto cadere il governo e credo che pagheranno il prezzo" alle elezioni. Lo ha detto il ministro Luigi Di Maio a Corriere Tv.

"Io credo che l'Italia abbia ancora bisogno di Mario Draghi". Lo ha detto il ministro Luigi Di Maio a Corriere Tv. "Io non posso stare con coloro che con il sovranismo, il populismo e l'opportunismo hanno buttato giù il governo. Voglio stare con chi crede nella stabilità, nella responsabilità e nelle riforme", ha aggiunto riferendosi al suo futuro politico. 

 (ANSA il 21 luglio 2022) - "Noi abbiamo posto questioni e temi, abbiamo sollecitato il premier Draghi a confrontarsi. C'è stata un'occasione importante ieri in Parlamento, perché ci sono lavoratori che prendono 3-4 euro lordi l'ora, 50mila aziende che hanno lavorato sul superbonus e stanno fallendo sui crediti fiscali bloccati, famiglie che devono decidere se pagare la bolletta o fare la spesa.

È normale sollecitare il presidente in carica. Gli abbiamo chiesto risposte che sono state molto generiche e purtroppo non c'è un nuovo governo, una nuova legislatura davanti, ci sono pochi mesi. E su queste poche risposte ci siamo sorpresi perché siamo stati anche attaccati". Lo ha detto il leader del M5s Giuseppe Conte, ospite di Zona bianca, su Rete4.

(ANSA il 21 luglio 2022) - Tutto si può dire meno che i temi posti da noi non erano questioni di contenuto, concreti, con la massima lealtà e collaborazione. Non abbiamo mai attaccato altri gratuitamente.

Delle volte sì, siamo stati pressanti nel richiedere un confronto e delle misure, delle soluzioni, come il taglio del cuneo fiscale e misure straordinarie per imprese e famiglie. Tant'è che alla nostra sollecitazione, quel documento presentato a Draghi, c'è stato un incontro con le parti sociali. E lo stesso premier aveva fatto delle aperture. Dopodiché ieri in Parlamento tutti attaccavano il M5s". Lo ha detto il leader del M5s Giuseppe Conte, ospite di Zona bianca, su Rete4.

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Noi non facciamo delle tattiche prendendo in giro, o giochi di palazzo. Noi ci siamo linearmente presentati in Parlamento chiedendo al premier Draghi di definire un'agenda dicendo le misure da adottare, di chiarirlo pubblicamente, nel confronto con le altre forze politiche. 

Non era mica una questione personale. Dopodiché il presidente Draghi è stato sprezzante con noi, veramente molto aggressivo, incomprensibilmente e ingiustamente". Lo ha detto il leader del M5s Giuseppe Conte, ospite di Zona bianca, su Rete4, spiegando perché il suo partito non ha votato la fiducia.

"In più - ha aggiunto - sono intervenute le altre forze politiche, Lega e FI in particolare hanno chiesto due cose: andiamo avanti solo se il M5s viene sbattuto fuori dalla maggioranza; vogliamo il rimpasto, che significa nuove poltrone. Quindi non confondiamo gli atteggiamenti del M5s, lineare e coerente, rispetto a quelli di tutti gli altri protagonisti della vicenda".

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Noi non eravamo arrivati per contrastare l'azione di governo. Assicuro che ancora fino all'ultimo abbiamo pensato di poter rinnovare la fiducia a questo governo perché potesse procedere speditamente per risolvere le urgenze". Lo ha detto il leader del M5s Giuseppe Conte, ospite di Zona bianca, su Rete4.

"Noi da mesi parliamo di estendere gli extraprofitti, abbiamo spinto il premier a uno scostamento di bilancio, a intervenire più energicamente in Europa, per un price cap, per una strategia comune, un Energy Recovery Fund. Abbiamo già gestito un'emergenza - ha aggiunto -, sappiamo cosa significa, le responsabilità, le tensioni, la complessità. Però abbiamo anche dimostrato di saper operare e ottenere misure importanti".

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Il campo largo c'è ancora? Noi siamo una forza progressista, ma non per autodefinizione: siamo oggettivamente progressisti perché guardiamo ala giustizia sociale, alla transizione ecologica e digitale, e abbiamo sicuramente un manifesto avanzato di misure in questa direzione. Chi vuole lavorare su queste misure, può ritrovarsi a condividere con noi, o a confrontarsi con noi. Poi spetterà al Pd fare le sue scelte". Lo ha detto il leader del M5s Giuseppe Conte, ospite di Zona bianca, su Rete4.

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Non era assolutamente nella nostra determinazione ritrovarci in quella situazione. Una situazione che purtroppo abbiamo subito. Abbiamo subito un'umiliazione politica davanti al Paese, assolutamente immeritata". 

Lo ha detto il leader del M5s Giuseppe Conte, ospite di Zona bianca, su Rete4, rispondendo a chi lo accusa di aver fatto un regalo a Vladimir Putin non confermando la fiducia al governo.

"Siamo stati responsabili, abbiamo offerto ai pensionati una pensione di cittadinanza, a cittadini che non hanno di che sopravvivere un Reddito di cittadinanza, abbiamo contribuito con le nostre misure al 6,6% di Pil, alla tenuta del Paese, a una sostanziale riduzione del debito. Tutto questo - ha aggiunto - ci è stato rinfacciato pubblicamente, ed è incomprensibile. Siamo rimasti sorpresi, sconcertati: per noi il metro non è favorire questo o quello, si può anche avere un premier prestigioso ma il problema è risolvere i problemi degli italiani".

(ANSA il 21 luglio 2022) - Con Mario Draghi "non c'è nessun personalismo. Quando sono uscito da Palazzo Chigi con il sorriso, gli ho lasciato 15-20 report sui dossier più importanti, volevo metterlo nella condizione di poter già operare nell'interesse del Paese il giorno dopo, e non è mai successo nel passaggio da un presidente all'altro". Lo ha detto il leader del M5s Giuseppe Conte, ospite di Zona bianca, su Rete4.

A chi gli domandava se c'è qualche problema con il premier, Conte ha risposto: "Andrebbe chiesto all'ospite che manca in questo momento. Per quanto mi riguarda, non è mai stato un fatto personale - ha aggiunto -, lo dimostra che il M5s è stata la forza che più ha lavorato in Parlamento, non ha mai attaccato gratuitamente gli avversari o i compagni di maggioranza". "Non abbiamo mai fatto polemiche inutili, però siamo stati continuamente attaccati - ha detto ancora Conte -, e ieri gli italiani che hanno seguito la diretta dal Senato hanno visto un concentrico attacco nei confronti del Movimento.

Mi chiedo, ma cosa fa paura del M5s, perché siamo considerati scomodi, cosa spaventa? Il fatto che abbiamo tagliato il numero dei parlamentari? Che abbiamo introdotto un sistema di protezione per quelli che non hanno voce, che tutti trascurano? Che siamo contro i privilegi e a favore di chi non ha garanzie?".

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Oggi era il compleanno di Grillo, ci siamo sentiti e gli ho fatto gli auguri. Anche lui è rimasto come me sconcertato, sgomento, per gli attacchi che abbiamo subito, e per il fatto che quasi tutte le forze politiche erano lì a chiedere il Movimento fuori dalla maggioranza. Siamo rimasti sorpresi da questo livore, da questa aggressione". Lo ha detto il leader del M5s Giuseppe Conte, ospite di Zona bianca, su Rete4.

(ANSA il 21 luglio 2022) - "La nostra è una comunità, alcune persone non erano più convinte dei valori e dei principi che abbiamo. Sono andate via, è stato un elemento di chiarezza che ha contribuito a rafforzare lo spirito di comunità. Quelli rimasti convintamente mi aiuteranno a trasformare l'Italia". Lo ha detto il leader del M5s Giuseppe Conte, ospite di Zona bianca, su Rete4, rispondendo a chi faceva notare che con il limite di due mandati il suo partito perderà alcune figure di primo piano. 

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Posso solo dire, che" Luigi Di Maio "ha avuto la fortuna e la responsabilità di avere una grande responsabilità, un ministero importantissimo in una fase importantissima. Quindi forse dovrebbe concentrarsi molto sulle funzioni ministeriali adesso, in questo periodo che rimane. Essersi distratto per creare la formazione di un nuovo partito non ha contribuito alla stabilità di governo, ma lasciamo perdere". Lo ha detto il leader del M5s Giuseppe Conte, ospite di Zona bianca, su Rete4, rispondendo a una domanda sul ministro degli Esteri e leader di Ipf. 

Federico Capurso per “La Stampa” il 21 luglio 2022. 

Il primo pensiero di Giuseppe Conte, dopo una notte complicata, fatta di telefonate, messaggi e poco sonno, è rivolto al Pd. Ai suoi alleati, che ora alleati non sono più tanto, e che lui vorrebbe invece al suo fianco, ieri, oggi, domani. «In questo momento siamo distanti», ammettono dal partito, «aspettiamo che si calmi la situazione e la prossima settimana ne riparleremo». Lo strappo fa male, ma c’è fiducia nella necessità di viaggiare insieme, fotografata dal numero di collegi che vincerebbe il Pd con loro e i molti meno che otterrebbe senza grillini in coalizione.

Conte in serata fa la parte dell’innamorato che finge disinteresse. «Spetterà al Pd fare le sue scelte», dice alle telecamere di “Zona Bianca”. «Noi siamo oggettivamente una forza progressista – sottolinea – e allora chi vuole lavorare su queste misure non può che confrontarsi con noi su queste scelte». 

Come a dire che lui, nel campo del Pd, c’è già. Nel frattempo ha mandato i suoi fedelissimi a riallacciare i fili. Riccardo Ricciardi ad esempio vede Nico Stumpo, di Articolo 1, ma anche da quelle parti tira una brutta aria. L’idea di una federazione di sinistra con Sinistra italiana e Verdi, poi, che riemerge in ambienti vicini al leader grillino, si ferma ancora prima di partire: «Fratoianni e Bonelli hanno un accordo di ferro con Enrico Letta, che li ha blindati accordandosi con loro su alcuni collegi», è la voce che arriva dalla Camera.

E nel piano del segretario del Pd, il Movimento non deve fondersi a sinistra, ma fare la terza gamba del campo largo. Campo che ora conta anche la presenza di Luigi D i Maio, in difficoltà per la caduta del governo e per la nascita del suo partito, che aveva programmato per settembre, quando invece si troverà in piena campagna elettorale. 

Il ministro degli Esteri guarda a sinistra, vuole allearsi con i Dem, ma pone un paletto, lo stesso del leader di Azione, Carlo Calenda: «Mai alleati con il Movimento». Calenda fa anche di più, perché non vuole saperne nulla nemmeno di Di Maio, nonostante entrambi siano convinti che Draghi sia stato «buttato giù da chi strizza l’occhio a Putin, per opportunismo e sondaggi». 

A questo punto, fa notare il leader di Ipf, «non credo potremo salvare il Pnrr, perché le riforme non si riusciranno a fare. Almeno salviamo la legge di bilancio». Conte stizzito più per la presenza ingombrante di Di Maio nel campo progressista, che non dalle responsabilità che gli vengono addossate, replica chiedendo al titolare della Farnesina di «pensare a fare il ministro» perché, quando ha provocato la scissione, «essersi distratto per curare la formazione di un nuovo partito non ha contribuito alla stabilità di governo». E questo è il miglior ritratto del campo progressista che va in pezzi. 

Il Movimento invece è ancora un gran bazar. Esce dal partito la deputata Maria Soave Alemanno, mentre rientrano il senatore Fabio Di Micco e la deputata Rosa Alba Testamento. La scissione però è scongiurata. Davide Crippa, capogruppo alla Camera che aveva progettato un’operazione responsabili per Draghi, adesso è all’angolo. In tanti chiedono la sua testa. 

Lui in assemblea si difende e punta il dito contro chi in queste settimane ha «attaccato, demonizzato, trattato con ferocia» chi la pensava diversamente. «È stato vergognoso – dice Crippa –, eppure fino a ieri pomeriggio tutte le opzioni erano sul tavolo, anche quella di dare la fiducia al governo. Dunque questi attacchi, col senno di poi, sono stati ancora più ingenerosi».

I fedelissimi di Conte ringhiano: «Se avessimo un bottone per cacciarlo, lo avremmo già premuto». Di sicuro, «non verrà ricandidato». Ci sarebbe comunque, per lui come per tanti altri della nomenclatura grillina, un’impossibilità dovuta al limite dei due mandati, ma i contiani si dicono certi: «Supereremo anche questo problema». 

L’idea è di tornare a interpellare gli iscritti con un voto online su SkyVote, in modo da salvare tanti big che dovrebbero occupare posti di rilievo nelle liste elettorali. Senza di loro, probabilmente, sarebbe anche difficile trovare sufficienti candidati. Certo, andrebbe convinto Beppe Grillo, che però non vuole più riaprire l’argomento.

«Faremo pressing su di lui», assicura un ministro M5S. A partire da oggi, però. Ieri sono arrivate al fondatore del Movimento solo telefonate di auguri. Anche quella di Conte, che dopo un «buon compleanno» ha anche discusso della giornata delirante appena passata in Senato. E Grillo, assicura, «è sconcertato e sgomento degli attacchi subiti dal Movimento in Aula».

 (AGI il 21 luglio 2022) - "Abbiamo discusso come si fa nei partiti seri e alla fine abbiamo preso la decisione nell'interesse anche del Paese. Basta vedere come era messo il Senato ieri, insomma, e anche Draghi ne ha preso atto. Noi abbiamo discusso come si fa nei partiti seri e alla fine abbiamo preso la decisione nell'interesse anche del Paese". Lo ha detto Giancarlo Giorgetti ad Agora' Estate RaiTre.  

Da corriere.it il 21 luglio 2022 

«Gli italiani ora ci impalano tutti. Dal primo all’ultimo» (Stefano Buffagni, M5S) 

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 21 luglio 2022.

«Ma ti rendi conto?»: la rabbia esplode senza freni. È il momento in cui avviene lo strappo. Mario Draghi sta tenendo il suo discorso di replica e i big Cinque Stelle assistono. I falchi non trattengono la collera per le parole del premier su reddito di cittadinanza e superbonus: sono sul piede di guerra da ore riuniti negli uffici di Palazzo Madama e la situazione per loro stava volgendo al peggio. Giuseppe Conte era tentato di dare il via libera alla fiducia, dopo l'ennesimo cambio di rotta della giornata. L'ultima riunione, quella per forza decisiva, sulla permanenza o meno nel governo è come un ottovolante: le posizioni cambiano di ora in ora.

Di primo mattino parte il pressing dei falchi che chiedono la linea dura, poi nel corso delle ore c'è un ammorbidimento della linea. La diplomazia M5S tenta un ultimo disperato colpo. E quasi ci riesce. Il Movimento sente anche la pressione degli alleati dem, eppure i senatori sono furenti. Le chat di Palazzo Madama, già dopo il primo intervento di Draghi in Aula, sono in fermento. I senatori mettono subito in chiaro la loro posizione: «Dobbiamo andarcene, che stiamo aspettando?».

I governisti fanno scudo: «Così ci suicidiamo», dicono diversi esponenti. Alcuni si precipitano per allargare il più possibile il summit in corso, che inizialmente è ristretto a Conte e ai suoi vice. Partecipano anche i due capigruppo, Mariolina Castellone e Davide Crippa. La platea si allarga: alla fine sono presenti molti senatori e diversi deputati. Conte vuole ascoltare tutte le posizioni prima di fare una sintesi.

Lo scontro interno non si placa. Il muro contro muro di versioni e visioni contrapposte prosegue senza soluzione di continuità. Dopo la replica, però, la situazione raggiunge un punto di non ritorno. «Come possiamo votare la fiducia dopo che ha fatto a pezzi superbonus e reddito di cittadinanza? Ci vuole dignità», si sfoga un senatore. Ci si muove lungo una linea sottile e i vertici sono preoccupati: «Dobbiamo salvaguardare la compattezza del gruppo» è il mantra. Dopo la decisione di non votare la fiducia, tra i governisti si respira scoramento: «Ora inizia l'era di Alessandro Di Battista leader dei Cinque Stelle».

Conte affronta i cronisti e attacca: «Abbiamo visto da parte del premier Draghi non solo indicazioni generiche, purtroppo su alcune misure c'è stato anche un atteggiamento sprezzante. Questo ci dispiace molto perché abbiamo ricevuto anche degli insulti». «Siamo stati messi alla porta e non c'erano le condizioni per proseguire una leale collaborazione», sostiene il presidente stellato. E ancora: «Il Movimento 5 stelle non ha mai chiesto un rimpasto o una poltrona in più. Non ha chiesto nulla di nulla per sé ma solo misure per i cittadini».

Dietro le parole del leader e la mossa compatta dei senatori, però, covano ruggini profonde. Che potrebbero avere epiloghi inattesi. L'avvocato Lorenzo Borré ieri ha ricordato in un post: «Visto che il codice etico, utilizzato spesso e volentieri come una clava verso i dissidenti, imponeva la votazione a favore della risoluzione Casini (in quanto stabilisce l'obbligo di votare la fiducia a governi M5S, ndr ), ora che si fa? Si attua l'autoespulsione di massa?».

L'ipotesi di chiedere l'espulsione dell'intero gruppo di senatori - precludendo loro una futura rielezione o un incarico interno - è già al vaglio di attivisti e delusi. In questo modo, verrebbero tagliati fuori da un futuro nel M5S contiano anche big come Paola Taverna o Vito Crimi, Ettore Licheri o Mario Turco. Una situazione al limite del grottesco. C'è chi ricorda: «Paragone è stato cacciato proprio per non aver votato la fiducia». Anche in questo caso, la strada si presenta tortuosa perché il collegio dei probiviri annovera tra le sue fila proprio due senatori (Barbara Floridia e Danilo Toninelli) e quindi sarebbe in conflitto di interessi per un giudizio sui colleghi di Palazzo Madama. Il duello tra fazioni, insomma, non è per niente concluso. 

Da corriere.it il 21 luglio 2022

Le Camere sono state sciolte, ma il «vitalizio» dei parlamentari è salvo. Nonostante la decisione del presidente della Repubblica di sciogliere le Camere e chiamare gli italiani al voto per eleggerne di nuove, gli attuali deputati e senatori non perderanno il diritto alla pensione pro quota di questa legislatura — seppur per una manciata di giorni. 

Le norme che regolano i cosiddetti vitalizi — in realtà una forma pensionistica che scatta al 65esimo anno di età —, prevede infatti che si maturi il diritto della quota per tutti e 5 gli anni della legislatura quando questa è arrivata a 4 anni, sei mesi e un giorno.

La data fatidica è il 24 settembre, mentre le Camere sono state sciolte oggi, giovedì 21 luglio. Come mai, allora, i «vitalizi» saranno garantiti? Perché la Costituzione — al secondo comma dell'articolo 61 — afferma che «finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti»: tanto è vero che queste esaminano eventuali decreti urgenti emanati nel frattempo o altri atti necessari del governo, come decreti legislativi di attuazione delle deleghe. 

Le prossime elezioni si svolgeranno il 25 settembre e le nuove camere si insedieranno il 15 ottobre, come prevede sempre la nostra Carta: 20 giorni dopo il voto, e 21 dopo la data «salva pensioni».

Il senso dei parlamentari per il vitalizio. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022.

Pare che molti parlamentari eletti per la prima volta abbiano festeggiato la caduta di Mario Draghi con l’euforia dell’ultimo giorno di scuola e con un sospiro di sollievo. 

Tutti, tranne pochi. Di loro ci occuperemo fra poco. 

Cosa c’era da festeggiare? Il raggiungimento della fatidica data «salva pensione»: per andare in quiescenza al compimento dei 65 anni con i contributi versati come parlamentari, i deputati e i senatori eletti per la prima volta dovevano superare la soglia dei 4 anni, 6 mesi e 1 giorno di permanenza in Parlamento. Per questa legislatura, la data di salvataggio era fissata per il 24 settembre. 

Per esempio, l’on. Valentina Barzotti del M5s non godrà del «vitalizio» perché subentrata alla defunta Iolanda Nanni, 6 mesi dopo l’inizio della legislatura. 

Siamo sinceri: avevamo un governo guidato da una delle più autorevoli personalità del nostro Paese. Il suo compito era gestire un debito pubblico fra i più alti del mondo facendo leva sulla competenza e sul prestigio internazionale. L’hanno scaraventato giù, senza riguardi. In confronto, cosa volete che sia un vitalizio in più? 

Per i pochi «sfortunati» avremmo anche potuto fare una colletta, in cambio di un Parlamento più responsabile, meno populista. Rispettiamo i diritti dei parlamentari ma soprattutto richiamiamoli ai loro doveri, whatever it takes.

La buonista Concita crocifissa sui social. Ora scopre il politicamente corretto. Massimiliano Parente il 25 Luglio 2022 su Il Giornale.

La De Gregorio fa apologia di Draghi ironizzando su una scuola campana.

Non voglio rientrare nella polemica scatenata da Concita (De Gregorio, ma la chiamo solo Concita perché disse a Alessandro Sallusti che chiamarla solo Concita era sessista, pur tenendo una rubrica su Repubblica intitolata «Invece Concita», titolo sessista quindi) che ha detto in tv che Mario Draghi «ha questo tono da titolare di cattedra Harvard che è finito in un alberghiero di Massa Lubrense».

Cioè non voglio rientrarci per difendere l'istituto campano, che si è difeso benissimo da solo. Piuttosto ci entro da scrittore, perché Concita è «giornalista e scrittrice», tanto ormai sono tutti «e scrittori» (pure i politici, tranne Mario Draghi, perché non è un politico e essendo uno dei più autorevoli economisti e banchieri a livello internazionale non ha tempo di scrivere libri, casomai ne scrivono su di lui). D'altra parte il maestro di Concita è stato Veltroni (Walter, lo chiamo per cognome perché viceversa sarà sessista chiamarlo per cognome), giornalista, politico, scrittore e regista, che ha prodotto librini insignificanti che non sai mai se sono per adulti o per bambini ma elogiati da tutti perché ha allevato generazioni di baricchi veltroniani.

I libri di Concita avrebbe potuto scriverli Veltroni e viceversa (all'istituto alberghiero di Massa Lubrense potrebbero insegnare a usarli quando un tavolo balla, sono sicuro che lì leggono Proust più di lei, infatti a differenza di Concita non scrivono), e poi tutta una carriera su Repubblica, da repubblichina femminista. A parte quando diresse L'Unità per farla fallire (non prima di aver licenziato in tronco decine di giornalisti, vittima del suo stesso politicamente corretto, come con i lavoratori alberghieri oggi), nel 2011, proprio quando Mario Draghi divenne Presidente della BCE e salvò l'euro e tutte le economie europee. In quello stesso anno invece Concita pubblicò il saggio Così è la vita (Einaudi, la casa editrice dei benestanti snob di sinistra, che era già di Berlusconi, ma Silvio è liberale, li ha lasciati tutti lì), un guazzabuglio veltroniano smielato e pieno di banalità per insegnare a vivere felicemente la morte (nelle corsie degli ospedali l'avrebbero inseguita brandendo le stampelle). Chi se lo ricorda più? Nessuno giustamente. Dopodiché prende la strada aperta dal femminismo e del #metoo con un altro fondamentale saggio: Cosa pensano le ragazze (sempre Einaudi, sempre Silvio), una serie di interviste con una premessa così: «ho parlato per sei anni con mille donne, dai sei ai novantasei anni». A parte che chissà quante bambine e vecchiette ha molestato per scrivere delle ragazze (avrebbero dovuto querelarla, sembrano tutte sceme), a parte i giri in tv e nei festival giusti per presentare l'ennesimo libro subito celebrato su Repubblica, mentre Concita faceva queste preziose ricerche Mario Draghi (Ph.D in scienze economiche al MIT, mica in Scienze Politiche a Pisa come Concita) continuava a lavorare duro alla BCE con l'Europa che affondava, pronunciando la famosa frase «Whatever it takes», cioè farò tutto ciò che è necessario costi quel che costi, e lo fece. Nonostante tutto è rimasto un uomo umile, con un curriculum autorevole e lungo come la spocchia di Concita, che è rimasta Concita. In fondo bisogna capirla.

Ottavio Cappellani per “la Sicilia” domenica 24 Luglio 2022.

Concita De Gregorio che dice: “Draghi sembrava un professore di Harvard all’alberghiero di Massa Lubrense” sembrava la sciacquetta che vuole sposare il medico.

(Avvertenza: questo pezzo è politicamente scorrettissimo ma, dato l’argomento, mi corre il dovere morale, nei confronti del linguaggio, di adeguare lo stile per eccesso a quanto sto criticando). 

Viene da chiedersi, data la bramosìa irrefrenabile, se Concita De Gregorio abbia mai davvero parlato con un professore di Harvard e se sappia (ma la risposta è: no) che al di là del “prestigio” che spande “Harvard”, e alla quale sono soggetti soltanto i provenienti dalla classe popolana, ci sono professori di Harvard che sono delle grandissime teste di minchia.

Ci chiediamo altresì se Concita De Gregorio sappia (ma la risposta è: no) che “snob” è la sincresi di “sine nobilitate”, frase che veniva apposta nei collegi inglesi (ai quali le istituzioni americane, con le loro divise e le loro partizioni sociali, per forza di cose si ispirano) accanto agli studenti che non provenivano da famiglia nobile. Essi studenti, da nuovi ricchi quale erano, male si destreggiavano nelle sottili etichette, soprattutto nella sublime sprezzatura (devi avere dilapidato parecchi patrimoni per saperla maneggiare), e così assumevano un atteggiamento altezzoso del cazzo imitando maldestramente una superficie della quale non conoscevano le profondità.

Ma comprendiamo che “Cettina”, questo è il vero abbreviativo di Concita, che altro non è che la versione wannabe-popolare di Concetta (non posso esimermi dal Citare Asunciòn e Conceptiòn, le cameriere di casa Covelli, e in effetti Concita, alla signora Covelli, un po’ ci somiglia – e di nuovo la citazione è d’obbligo, pronunciata  dal grande Riccardo Garrone all’indirizzo della signora: “Levateje er vino”), dicevo, comprendiamo Cettina-Conceptiòn Covelli De Gregorio, che con quel nome, ha forse bisogno di prendere le distanze da una cultura dalla quale probabilmente proviene, o quantomeno da quella cultura (direi salviniana, con le immaginette dei santi dietro, diciamo) proviene il suo nome, per cui ci sentiamo in obbligo, quanto meno per smettere di sentire le sue unghie sulla parete nel tentativo di arrampicarsi, di darle qualche suggerimento.

“Noi” preferiamo, e di gran lunga, Oxford e Cambridge, o come diciamo noi “Oxbridge”, università inglesi e in qualche maniera pubbliche, mentre riteniamo Harvard una sorta di scopiazzatura creata da quegli scappati di casa che sono gli americani che neanche sanno parlare inglese, a dirla tutta. In verità, molti di noi, preferiscono Cambridge a Oxford, per quella ventata anarchica (in tempi di democrazia non si può che essere anarchici, mia cara, vuoi approvare il potere dato a quelli lì?). Ergo, Cettina Cecioni, sappilo: noi, tra Harvard e l’alberghiero di Massa Lubrense, ma tutta ‘aa vita cco ll’arberghiero. E ‘nformate no?

Questa casa non è un alberghiero. Concita, Harvard e la società signorile di Massa Lubrense. Guia Soncini su L'Inkiesta il 22 Luglio 2022.

La battuta di Concita De Gregorio, fatta per illustrare la distanza tra Draghi e i parlamentari, scatena l’indignazione dei soliti social, pronti a lanciare accuse di classismo dimenticandosi di guardare la realtà

«A volte Draghi assume questo tono da titolare di cattedra a Harvard che è finito in un alberghiero di Massa Lubrense». Ci sono molte cose che si possono pensare quando, mercoledì sera, Concita De Gregorio butta lì questa battuta.

Quella che penserebbe qualcuno di costruttivo è: ecco, pensiamo a una seria riforma degli istituti alberghieri, ché a Milano è più facile trovare uno stylist eterosessuale che un cameriere di ristorante costoso che sia in grado di versarti il vino senza sgocciolarlo sulla tovaglia. (Spero apprezzerete come in tre righe, un solo screenshot, io vi dia modo d’accusarmi sia di classismo sia d’omofobia).

Quella che penso io è: maledizione, perché non l’ho scritta io.

Quella che pensa (e dice) un’ospite del programma condotto dalla De Gregorio è «eh ma non è un docente di Harvard» (la conduttrice esala «era una metafora, era un esempio», probabilmente maledicendo dentro di sé l’epoca del letteralismo).

Quella che pensa (e dice) la suscettibilità campana sui social è: come ti permetti, Massa Lubrense è un posto bellissimo. (Una volta avevamo le pro-loco, ora abbiamo i polemisti social. Tra i quali la docente universitaria e ospite televisiva Donatella Di Cesare, che pensa si tratti di questione meridionale; e il sindaco di Massa Lubrense, evidentemente convinto che Harvard sia una mensa, che invita la De Gregorio ad andare a mangiare lì e poi dire «mi sono sbagliata, scusatemi», se solo a Boston sapessero fare il dottorato in scienze politiche al sangue come lo spadellate voi).

È verità universalmente riconosciuta che siamo ormai completamente incapaci di considerare il bersaglio delle battute (l’alberghiero non è Harvard, che sia a Massa Lubrense, a Parigi o a Pordenone; e comunque: la figlia del multimilionario Chris Rock studia da cuoca a Parigi, essendo quelli che di mestiere fanno i soldi e non i polemisti di Twitter consapevoli che ormai saper friggere le uova è abilità più rispettabile che conoscere l’aoristo).

È verità universalmente riconosciuta che siamo altresì incapaci di considerare le cose nel loro contesto temporale. Mentre otto italiani su cento guardavano Concita De Gregorio e David Parenzo (povera Gruber: anni di fatiche, botte, e perdi casomai la crisi di governo), Jacob Bernstein pubblicava sul sito del New York Times la sua cronaca del funerale di Ivana Trump.

Da qualche giorno su Netflix c’è il nuovo monologo di Bill Burr, Live at Red Rocks, in cui a un certo punto il comico dice una delle grandi indicibilità contemporanee: per chi è un adulto oggi, è un po’ straniante vedere i nuovi padri che fanno la gara a chi è più amorevole verso i figli, giacché ai nostri tempi i padri erano figure terrorizzanti. E non è che i nostri tempi fossero l’Ottocento dickensiano, eh: parliamo di pochi decenni fa.

È un rimosso molto interessante. Qualche giorno prima di vedere Burr, ero a un pranzo al quale due signore parlavano di come ritenessero il far mangiare a un bambino una cosa che non gli piace non certo un ordinario tentativo di educarlo, ma «una violenza agghiacciante». Ho detto: beh, no, una violenza agghiacciante è prenderlo a cinghiate. Le signore sono insorte: come osavo anche solo evocare un’immagine del genere, come potevo sminuire il sopruso di farti ingoiare la sogliola sgradita.

La più scandalizzata delle signore era più vecchia di me, il che vuol dire che ha rimosso un tempo che ha vissuto, che ha applicato il metodo Strasberg alla vita e s’è convinta che la cosa più violenta e inaccettabile che tu possa fare a un bambino è dirgli: finché non mangi le verdure non ti alzi da tavola. D’altra parte uno dei più clamorosi successi televisivi degli ultimi anni, This Is Us, ha per protagonista un padre degli anni Ottanta chiaramente scritto con in mente i padri degli anni Venti: uno che ha come principale scopo di vita rendere felici i figli. La ragione per cui quello sceneggiato non dovrebbe funzionare è la ragione per cui funziona: vogliamo raccontarci che il mondo è sempre stato così.

E quindi l’articolo di Bernstein (figlio di Carl e di Nora Ephron) veniva twittato dagli americani con lo sdegno con cui gli italiani twittavano dell’alberghiero di Massa Lubrense: i figli di Ivana Trump raccontavano che la madre, cresciuta nella cortina di ferro e poco disposta ad assecondare i capricci, li picchiava col cucchiaio di legno.

Non c’era bisogno d’essere esperti in senso del tono o in dinamiche familiari per capire che le orazioni funebri riportate da Bernstein erano molto affettuose. «Se piangi ti do il resto», diceva Ivana al figlio nel bagno d’un ristorante a un cui tavolo il piccino aveva fatto troppi capricci, racconta il figlio quarant’anni dopo, ed è una frase così familiare a chiunque sia cresciuto nel Novecento che bisogna avere un grave rimosso (o una gran determinazione a far equivalere “famiglia Trump” con “violenza agghiacciante”) per prenderla per un’affermazione diffamatoria con cui i figli vogliono prendere le distanze dalla salma della madre.

Guardavi i tweet di ferma condanna davanti a un’ordinaria cronaca di genitorialità novecentesca, pensavi a Jacob Bernstein il cui documentario sulla madre era elegiaco, e improvvisamente dubitavi: avevi sempre creduto lo fosse perché Nora era una donna straordinaria, ma forse non era quello, forse è che in questo secolo fragile non si può dire la verità su nulla, neanche sul secolo scorso.

Mentre il ceto medio riflessivo italiano difendeva il teorico alberghiero di Massa Lubrense (mio commentatore preferito, sotto il tweet del campano Antonio Polito, uno che precisava che nell’alberghiero che in realtà sta a Vico Equense si forma il personale degli stellati in cui mangia Concita De Gregorio; chissà se si forma lì anche il personale che sgocciola il vino a Milano), io mi chiedevo se ci volesse Chris Rock – multimilionario con la terza media, intellettuale senza titoli di studio – per essere felice che la figlia studi da cuoca a Parigi, Parigi dov’è arrivata con l’aereo privato.

Noialtri poco ricchi con pretese intellettuali come reagiremmo, se invece del liceo-classico-che-apre-la-mente la nostra prole ci dicesse di voler frequentare una scuola in cui imparare a sfilettare il branzino? Diremmo ma certo, tesoro, meglio di Harvard, vuoi mettere? O correremmo a piangere da Concita?

(ANSA il 21 luglio 2022) - Ampio spazio alla crisi di governo in Italia sui giornali francesi in edicola oggi. "Mario Draghi se ne va, l'Italia nell'incertezza", scrive in prima pagina il quotidiano LE FIGARO, aggiungendo. "Lungamente applaudito alla Camera dei Deputati, il primo ministro italiano ha rassegnato le dimissioni al presidente della Repubblica, ieri, all'indomani dell'implosione della maggioranza".

"Draghi fa flop, l'Europa ha paura", scrive LIBERATION, aggiungendo: "Le dimissioni del presidente del consiglio, che ha molto lavorato per la stabilità monetaria, rischia di indebolire l'Unione, già sotto tensione dopo la guerra in Ucraina e il ritorno dell'inflazione": "Inflazione: Draghi si dimette, l'IUe naviga in acque torbide", aggiunge il giornale. Dello stesso tema si occupa LES ECHOS, evocando, tra l'altro, la decisione della Bce, di innalzare i tassi di interesse...

(ANSA il 21 luglio 2022) – “Per Putin una festa, per l'Europa uno shock". È questo il titolo di un editoriale della Sueddeutsche Zetung sulla caduta del governo italiano. "Nella crisi più grande l'Italia manda in pensione il suo numero 1. Sul più assurdo teatro di questa estate", si legge nel sottotitolo. 

"Ciao Mario! È la fine delle riforme?", scrive invece Handelsbatt, secondo il quale l'addio del premier italiano lascia un "grande vuoto". Il giornale vicino alle imprese elenca le cose che il "capitolo Draghi" ora concluso ha portato all'Italia e che ora sono "fortemente a rischio": la "stabilità politica", lo "standing internazionale" grazie al suo network "eccellente" in Europa, le "riforme arretrate", e la "fiducia dei mercati". "Adesso il garante si è dimesso, e i mercati reagiscono subito nel panico".

(ANSA il 21 luglio 2022) - "I 17 mesi di Mario Draghi come premier hanno dato all'Italia e all'Unione Europea motivo di ottimismo" sulla possibilità di un rilancio della "moribonda economia" italiana verso una "strada di crescita sostenibile". 

Lo afferma il Wall Street Journal in un articolo dedicato alle dimissioni dell'ex presidente della Bce. 

"La maggior parte del credito della veloce e resiliente ripresa economica dell'Italia dalla pandemia è del governo Draghi" commenta Mariana Monteiro, analista di Credi Suisse, con il quotidiano.

"Con un altro premier, senza la credibilità e le doti conciliatorie di Draghi, approvare le riforma sarò probabilmente più difficile", aggiunge Monteiro. 

(ANSA il 21 luglio 2022) - 'L'Italia perde Mario Draghi in un momento pericoloso'. E' il titolo di un editoriale del Financial Times firmato da Tony Barber e dedicato all'ex presidente della Bce. Un editoriale in cui Draghi è paragonato a Lucio Quinzio Cincinnato. "Come Cincinnato Draghi è stato chiamato a essere il salvatore dell'Italia", osserva il Financial Times aprendo il sito con le dimissioni dell'ex presidente della Bce. 

"Fra lo sgomento degli alleati dell'Italia e della Nato, per i quali le parole e le azioni di Draghi hanno avuto più autorità di quasi tutti i premier italiani post-1945, la fine del governo è arrivata troppo presto", aggiunge. Ma non è "molto accurato comunque suggerire che l'Italia è ora nel caos.

Anche se il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dovesse optare per le elezioni in settembre o ottobre, non c'è motivo per cui il parlamento italiano non possa approvare la manovra per il prossimo anno prima della fine di dicembre - mette in evidenza il Financial Times -. Potrebbe però essere più difficile per qualsiasi altro governo attuare le misure richieste per assicurarsi i fondi europei", aggiunge il quotidiano, paventando l'ipotesi che se la crisi divenisse molto acuta "a un certo punto in futuro l'Italia potrebbe chiamare un'altra personalità rispettata non politica per aiutare a risolvere i suoi problemi".

Francesca Basso per il “Corriere della Sera” il 21 luglio 2022. 

«L'Europa ha bisogno di leader come Draghi». È il titolo dell'intervento pubblicato due giorni fa sul sito Politico a firma Pedro Sanchez, il premier spagnolo socialista. Un gesto di amicizia e anche di coraggio perché Madrid si è esposta in prima persona. Sanchez ha scritto quello che la maggior parte delle capitali europee e le istituzioni Ue pensano. 

Le vicissitudini politiche italiane sono seguite con apprensione e anche stupore, perché l'instabilità dell'Italia ha ricadute su tutta l'Ue. Ancora ieri sera il capo portavoce della Commissione Ue, Eric Mamer, ha ricordato quanto detto in occasione delle dimissioni del premier Draghi il 15 luglio scorso: «La presidente Ursula von der Leyen ha ripetutamente enfatizzato la stretta e costruttiva cooperazione con il presidente Mario Draghi.

Attende di proseguire nella cooperazione con le autorità italiane sulle priorità e sulle politiche europee». 

Il commissario Ue all'Economia, Paolo Gentiloni ha richiamato in un tweet alla responsabilità: «Il balletto degli irresponsabili contro Draghi può provocare una tempesta perfetta. Ora è il tempo di voler bene all'Italia: ci aspettano mesi difficili ma siamo un grande Paese». 

Mentre la capogruppo dei socialisti al Parlamento Ue, Iratxe García Pérez ha puntato il dito contro i populisti e i popolari italiani: «C'è preoccupazione per l'evolversi della crisi di governo in Italia - ha twittato -. I populisti assieme al Ppe sono i responsabili di questa situazione». Anche Oltreoceano ci guardano. 

La Casa Bianca ricorda che «la leadership italiana sotto la guida del premier Mario Draghi è stata essenziale» in diversi dossier, dal clima, al sostegno della Nato e dell'Ucraina, alla promozione degli «interessi comuni di Stati Uniti e Italia» nel Mediterraneo. 

La stampa internazionale ha seguito la giornata. Il quotidiano francese Le Figaro ieri sera apriva il sito con la notizia «Italia: tre partiti nel governo di Mario Draghi gli negano la fiducia». 

Apertura anche per il Financial Times : «Draghi sull'orlo del precipizio dopo che i partner della coalizione hanno ritirato il sostegno». Nell'articolo si spiega che «la prospettiva di un'incertezza prolungata potrebbe turbare i mercati finanziari, l'Ue e la Banca centrale europea». La tedesca Faz ne scrive in homepage anche se non è la notizia principale: «Draghi sbaglia l'obiettivo nel voto di fiducia: probabili dimissioni».

E nel sommario: «Il presidente del Consiglio italiano ha vinto il voto di fiducia al Senato, ma i partiti al governo Lega, Forza Italia e M5S non hanno preso parte al voto. Il governo Draghi è ormai sull'orlo del collasso». Il New York Times si concentra sul «caos politico»: «Il governo Draghi cade a pezzi, ritorna in Italia la politica turbolenta». 

Draghi alla guida dell'Italia ha ridato credibilità al nostro Paese in Europa e restituito una leadership a Roma che ha cominciato a essere sistematicamente coinvolta nelle decisioni importanti da prendere, magari non sempre assecondata quando gli interessi tra gli Stati Ue erano in conflitto ma interpellata e ascoltata. 

Ora la prospettiva cambia. Quella fiducia di cui godevamo e che è alla base della riuscita di Next Generation Eu, è stata erosa dalla classe politica italiana. Torneremo ad essere sorvegliati speciali agli occhi della Commissione, dei Nordici e dei mercati. Dopo l'estate inizierà la discussione sulla riforma del Patto di Stabilità e convincere i falchi sarà più difficile.

(ANSA il 22 luglio 2022) – Editoriale dedicato alla crisi politica italiana oggi sulle pagine de El País, che scrive: "L'Italia, dopo una serie di mosse assurde, inopportune e autodistruttive dei suoi leader politici, è entrata forse nel momento più buio della sua storia recente" in merito alla sequenza di eventi che ha portato alle dimissioni del premier Mario Draghi. 

"Negli ultimi mesi, Draghi è diventato, all'interno dell'Unione Europea, uno dei più forti baluardi di resistenza alla guerra di Vladimir Putin in Ucraina", aggiunge l'editoriale, "e, soprattutto, la garanzia che le riforme che l'Unione chiede all'Italia sarebbero state attuate". In una situazione mondiale "così fragile", conclude El País, "è stato uno dei pesi massimi di un'Europa che oggi appare più debole".

Anche altre testate spagnole riservano spazio di primo piano agli ultimi avvenimenti politici in Italia, con cronache e articoli di analisi: La Vanguardia, per esempio, segnala come "l'ultra-destra" di Fratelli d'Italia sia in vantaggio nei sondaggi in vista delle politiche di settembre, mentre El Mundo, in un editoriale, parla di un Paese "condannato a un'altra crisi dal populismo".

Articolo di “El Pais” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 21 luglio 2022.

Draghi era stato in prima linea negli sforzi europei per fronteggiare il Cremlino, anche se gran parte dell'opinione pubblica italiana rifiutava lo scontro con Mosca – scrive El Pais 

La caduta di un governo in Italia è un fenomeno talmente comune (sono durati in media 13 mesi dal secondo dopoguerra) che a Bruxelles passa solitamente inosservato. Ma la defenestrazione del Primo Ministro Mario Draghi, messa in atto dai suoi stessi alleati di coalizione, arriva in un momento di enorme tensione geostrategica con la Russia.

E nella capitale dell'UE si teme che l'Italia, terza economia dell'eurozona, possa diventare un punto vulnerabile nella strategia nei confronti di Mosca o, nel peggiore dei casi, un cavallo di Troia al servizio del presidente russo Vladimir Putin. 

La partecipazione alla caduta di Draghi del gruppo popolare, lo stesso a cui appartengono il presidente della Commissione europea e il presidente del Parlamento europeo, ha suscitato stupore anche nelle file socialiste del Parlamento europeo. "È un disastro per l'Italia, ma anche per l'Europa, e tutto questo con la complicità del Partito Popolare Europeo", accusa l'eurodeputata Iratxe García, leader del gruppo socialista al Parlamento europeo.

García incolpa il gruppo del PPE, guidato dal deputato tedesco Manfred Weber, di aver incoraggiato le manovre del suo collega Silvio Berlusconi per sottrarre il governo a Draghi. 

Alla fine, il sostegno del partito di Berlusconi, Forza Italia, è stato la chiave dell'offensiva orchestrata dalla Lega di Matteo Salvini e dai grillini del Movimento 5 Stelle, che è riuscita a porre fine al periodo di Draghi. "Applaudirà anche la posizione assunta oggi dal suo partito in Italia?", chiede l'eurodeputato socialista a proposito della posizione filo-berlusconiana di Weber.

La Commissione europea, presieduta dalla deputata socialista tedesca Ursula von der Leyen, mercoledì si è tenuta fuori dalla crisi politica di Roma. "La Commissione non commenta mai gli sviluppi politici negli Stati membri", ha dichiarato il portavoce ufficiale della Commissione. "La Presidente von der Leyen ha ripetutamente sottolineato la stretta e costruttiva cooperazione con il Primo Ministro Mario Draghi e desidera continuare a collaborare con le autorità italiane su tutte le politiche e le priorità dell'UE", ha aggiunto la stessa fonte.

Bruxelles ha avuto in Draghi un fedele custode dell'ortodossia politica ed economica. L'ex presidente della Banca Centrale Europea ha goduto della fiducia di Berlino e Parigi, che hanno sempre visto in lui un punto di riferimento, soprattutto sulle questioni economiche. La sua presenza a capo del governo offriva anche una certa garanzia sull'attuazione del piano di risanamento e delle riforme di ampia portata richieste in cambio di 191,4 miliardi di euro in sovvenzioni e prestiti.

In base al mandato di Draghi, Roma aveva già assicurato una prima tranche di 21 miliardi di euro. E il mese scorso ha richiesto il secondo pagamento, per altri 21 miliardi. Ma il prevedibile crollo del governo potrebbe lasciare in sospeso la realizzazione delle condizioni previste dal piano di risanamento. Il compito che ci attende è enorme, perché finora l'Italia ha raggiunto solo il 10% delle tappe e degli obiettivi concordati con Bruxelles, rispetto al 13% della Spagna (che ha già ottenuto il via libera per il secondo pagamento) o al 22% della Francia (che è in regola con il primo pagamento).

Oltre alle preoccupazioni per la stabilità economica dell'Italia, che probabilmente peseranno sulle decisioni della Banca Centrale Europea di giovedì, a Bruxelles cresce la preoccupazione per gli stretti legami di gran parte della classe politica italiana con il Cremlino. I due partiti più coinvolti nella caduta di Draghi, la Lega di Matteo Salvini e il Movimento 5 Stelle, sono tradizionalmente simpatizzanti delle politiche di Putin. 

Salvini si è spinto fino a preparare un viaggio a Mosca in piena guerra, che non ha avuto luogo. E l'ex leader del Movimento e fino a poco tempo fa ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha lasciato il partito a giugno per il rifiuto dei grillini di inviare armi all'Ucraina per difendersi dall'invasione russa.

Fonti diplomatiche europee segnalano da settimane che l'Italia sta diventando anche il porto d'ingresso di presunte teorie accademiche e neutrali che mettono in discussione la posizione dell'UE nella guerra ucraina. L'argomentazione ripetutamente circolata su alcuni media italiani incoraggia la teoria secondo cui le sanzioni europee contro il Cremlino sono un danno autoinflitto all'economia europea che non scalfisce la potenza di fuoco russa. 

Dipendenza energetica da Mosca 

L'Italia è vista a Bruxelles come il tallone d'Achille più debole per l'unità dell'UE nella resistenza contro Putin. Il Paese transalpino, privo di centrali nucleari o di carbone, dipende per oltre il 70% dall'energia straniera e gli idrocarburi russi rappresentano più di un quinto del suo consumo energetico totale. L'Italia importa quasi il 93% del suo consumo di gas naturale (più della Germania) e il gas naturale rappresenta il 45% del consumo energetico del Paese.

Bruxelles teme che l'opinione pubblica di Paesi come l'Italia e l'Ungheria si rivolti contro le sanzioni alla Russia se la guerra in Ucraina si dovesse protrarre e se Mosca decidesse di interrompere le forniture di gas come ritorsione alle sanzioni europee. Per ora, la Commissione europea ha proposto una riduzione volontaria del 15% del consumo di gas in tutti i Paesi dell'UE. Ma Bruxelles non esclude di imporre tale taglio se i risparmi volontari non daranno i risultati sperati. 

Un recente sondaggio del think tank European Council on Foreign Relations (ECFR) aveva già mostrato a giugno che l'Italia è il Paese dell'UE con il minor sostegno all'Ucraina. Secondo il sondaggio, solo il 56% degli italiani ritiene che la Russia sia responsabile della guerra, rispetto alla media europea dell'80%; e solo il 39% ritiene che Mosca sia il principale ostacolo alla pace, mentre in Europa lo pensa il 64%. In Italia, il 28% attribuisce la colpa del conflitto agli Stati Uniti, percentuale che scende al 9% negli altri Paesi esaminati.

Nonostante la sua opinione pubblica, Draghi è stato in prima linea nelle iniziative di resistenza al Cremlino ed è stato il primo leader di un grande Paese, prima di Germania, Francia o Spagna, a sostenere inequivocabilmente la richiesta del Presidente ucraino Volodymir Zelenski di riconoscere il suo Paese come candidato all'adesione all'UE. La caduta di Draghi lascerebbe Bruxelles senza un pilastro e Kiev senza un prezioso alleato.

Da El Pais a Le Figaro, le reazioni della stampa estera alla crisi di governo: «Il Parlamento italiano un animale selvaggio e autodistruttivo». La Stampa il 20 luglio 2022.  

«Draghi sull’orlo del baratro». «Il primo ministro italiano si era detto pronto a restare». Ma «non raggiunge l'obiettivo». Sono taglienti le prime reazioni a caldo della stampa estera sulla crisi di governo italiana. Molte testate aspettano di capire fino in fondo l'esito della giornata al Senato, ma altre le dedicano già ampio spazio. Il quadro più spietato si condensa forse nell'incipit dell'editoriale con cui El Pais apre l'edizione online:«Il Parlamento italiano, un animale selvaggio e autodistruttivo, ha consumato mercoledì la sua ultima operazione letale e ha liquidato la legislatura obbligando il primo ministro, Mario Draghi, a dimettersi. Il violento evento ha molti genitori. Ma sono stati i partiti della destra, Forza Italia e la Lega, quelli che hanno inferto il colpo di grazia all'esecutivo di cui erano parte». Ma vediamo tutti i titoli. Su El Pais «L'Italia si avvicina alle elezioni anticipate, dopo che Draghi non riceve la fiducia del Parlamento». Mentre il Financial Times descrive «Draghi sull'orlo del baratro, dopo che gli alleati della coalizione hanno ritirato il loro appoggio». Le Figaro racconta la crisi scrivendo che «tre partiti del governo di Mario Draghi gli rifiutano la fiducia». A staccare la spina, spiega l'articolo riprendendo un lancio dell'Afp, «sono Forza Italia, partito di destra dell'ex premier Silvio Berlusconi, la Lega, formazione di estrema destra del tribuno populista Matteo Salvini, e la formazione populista Movimento Cinque Stelle». Per Frankfurter Allgemeine Zeitung «Draghi non raggiunge l'obiettivo di ottenere la fiducia, probabili dimissioni Il primo ministro italiano». Si parla di «sconfitta cocente in un voto di fiducia al Senato e il suo governo a Roma è dunque sull'orlo del fallimento». E poi viene sottolineato che «il ministro degli Esteri Luigi di Maio, del partito Insieme per il futuro, ha accusato i politici di aver fallito. "Abbiamo giocato con il futuro degli italiani. Le conseguenze di questo voto tragico resteranno nella storia"». Su Politico.Eu «Mario Draghi rischia la fine perché la coalizione italiana si rifiuta di sostenerlo». E ancora: «Mario Draghi rischia la fine della sua premiership, dopo che non è riuscito a ottenere un sostegno sufficiente dai partiti di destra della sua coalizione per continuare a guidare il governo italiano». Infine Le Monde che descrive il governo Draghi come «vicino all'implosione dopo le defezioni di tre partiti. Dopo le sue dimissioni la scorsa settimana – viene aggiunto -, il primo ministro italiano si era detto pronto a restare al suo posto se la coalizione fosse riuscita a rinsaldarsi. Ma Forza Italia, la Lega e il Movimento 5 stelle hanno deciso di non partecipare al voto di fiducia».

Francesca Basso per il “Corriere della Sera” il 21 luglio 2022. 

«L'Europa ha bisogno di leader come Draghi». È il titolo dell'intervento pubblicato due giorni fa sul sito Politico a firma Pedro Sanchez, il premier spagnolo socialista. Un gesto di amicizia e anche di coraggio perché Madrid si è esposta in prima persona. Sanchez ha scritto quello che la maggior parte delle capitali europee e le istituzioni Ue pensano. 

Le vicissitudini politiche italiane sono seguite con apprensione e anche stupore, perché l'instabilità dell'Italia ha ricadute su tutta l'Ue. Ancora ieri sera il capo portavoce della Commissione Ue, Eric Mamer, ha ricordato quanto detto in occasione delle dimissioni del premier Draghi il 15 luglio scorso: «La presidente Ursula von der Leyen ha ripetutamente enfatizzato la stretta e costruttiva cooperazione con il presidente Mario Draghi.

Attende di proseguire nella cooperazione con le autorità italiane sulle priorità e sulle politiche europee». 

Il commissario Ue all'Economia, Paolo Gentiloni ha richiamato in un tweet alla responsabilità: «Il balletto degli irresponsabili contro Draghi può provocare una tempesta perfetta. Ora è il tempo di voler bene all'Italia: ci aspettano mesi difficili ma siamo un grande Paese». 

Mentre la capogruppo dei socialisti al Parlamento Ue, Iratxe García Pérez ha puntato il dito contro i populisti e i popolari italiani: «C'è preoccupazione per l'evolversi della crisi di governo in Italia - ha twittato -. I populisti assieme al Ppe sono i responsabili di questa situazione». Anche Oltreoceano ci guardano. 

La Casa Bianca ricorda che «la leadership italiana sotto la guida del premier Mario Draghi è stata essenziale» in diversi dossier, dal clima, al sostegno della Nato e dell'Ucraina, alla promozione degli «interessi comuni di Stati Uniti e Italia» nel Mediterraneo. 

La stampa internazionale ha seguito la giornata. Il quotidiano francese Le Figaro ieri sera apriva il sito con la notizia «Italia: tre partiti nel governo di Mario Draghi gli negano la fiducia». 

Apertura anche per il Financial Times : «Draghi sull'orlo del precipizio dopo che i partner della coalizione hanno ritirato il sostegno». Nell'articolo si spiega che «la prospettiva di un'incertezza prolungata potrebbe turbare i mercati finanziari, l'Ue e la Banca centrale europea». La tedesca Faz ne scrive in homepage anche se non è la notizia principale: «Draghi sbaglia l'obiettivo nel voto di fiducia: probabili dimissioni».

E nel sommario: «Il presidente del Consiglio italiano ha vinto il voto di fiducia al Senato, ma i partiti al governo Lega, Forza Italia e M5S non hanno preso parte al voto. Il governo Draghi è ormai sull'orlo del collasso». Il New York Times si concentra sul «caos politico»: «Il governo Draghi cade a pezzi, ritorna in Italia la politica turbolenta». 

Draghi alla guida dell'Italia ha ridato credibilità al nostro Paese in Europa e restituito una leadership a Roma che ha cominciato a essere sistematicamente coinvolta nelle decisioni importanti da prendere, magari non sempre assecondata quando gli interessi tra gli Stati Ue erano in conflitto ma interpellata e ascoltata. 

Ora la prospettiva cambia. Quella fiducia di cui godevamo e che è alla base della riuscita di Next Generation Eu, è stata erosa dalla classe politica italiana. Torneremo ad essere sorvegliati speciali agli occhi della Commissione, dei Nordici e dei mercati. Dopo l'estate inizierà la discussione sulla riforma del Patto di Stabilità e convincere i falchi sarà più difficile.

Dagospia il 21 luglio 2022. CHE COINCIDENZA: IL GIORNO DOPO LA CADUTA DI DRAGHI PER MANO DEI FILO-PUTINIANI SALVINI, BERLUSCONI E CONTE, LE FORNITURE DI GAS RUSSO ALL’ITALIA AUMENTANO DEL 71% - IACOBONI: “PUTIN STA GIOCANDO AL GATTO COL TOPO CON LA POLITICA ITALIANA” – DI MAIO SULLA STESSA LINEA DI CALENDA: “NON È UN CASO CHE IL GOVERNO SIA STATO BUTTATO GIÙ DA DUE FORZE POLITICHE CHE STRIZZANO L’OCCHIOLINO AL PRESIDENTE RUSSO”

Tornano a aumentare le forniture di gas di Gazprom all'Italia, +71% rispetto al giorno precedente.

(da 21 a 36 milioni di metri cubi) 

Putin sta giocando al gatto col topo con la politica italiana

— jacopo iacoboni (@jacopo_iacoboni) July 21, 2022

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Non è un caso che il governo sia stato buttato giù da due forze politiche che strizzano l'occhiolino a Vladimir Putin". Lo ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, leader di Ipf.

Le forniture di gas russo attraverso il Nord Stream 1, riaperto stamane, sono arrivate al livello del 40%, come prima che il gasdotto fosse chiuso per manutenzione, l'11 luglio scorso. 

Lo riferisce la Tass citando il consorzio Nord Stream AG. Il gasdotto ha riaperto come previsto alle 07.00 ora di Mosca (le 06.00 ora italiana). Secondo l'operatore ucraino per il trasporto del gas Ogtsu, continuano anche le forniture della Gazprom attraverso l'Ucraina, che oggi dovrebbero arrivare a 42,4 milioni di metri cubi.

Tornano ad aumentare le forniture del gas dalla Russia verso l'Italia, con una crescita rispetto al giorno precedente del 71,4%. A comunicare il cambiamento del flusso è l'Eni sul proprio sito. 

"Gazprom ha comunicato per la giornata di oggi la consegna di volumi di gas pari a circa 36 milioni di metri cubi, a fronte di consegne giornaliere pari a circa 21 milioni di metri cubi effettuate nei giorni scorsi - afferma la società energetica italiana - Eni si riserva di comunicare eventuali aggiornamenti nel caso in cui vi fossero ulteriori variazioni significative nelle quantità in consegna comunicate da Gazprom".

Carlo Nordio, interferenza russa sulla crisi? "Inorridito da Berlusconi e Salvini". Libero Quotidiano il 22 luglio 2022

Clamoroso (e inatteso) strappo di Carlo Nordio con il centrodestra di governo. Il magistrato, ospite della War Room di Enrico Cisnetto, riflette sulla crisi di governo che ha portato alla caduta di Mario Draghi e ai sospetti, avanzati soprattutto da sinistra, di "interferenza russa" in quanto accaduto negli ultimi 2 giorni in Parlamento. "Non abbiamo prove - premette Nordio - ma le coincidenze sono diventate indizi gravi, precisi e concordanti". Parole clamorose, per diversi motivi. Primo fra tutti, perché Nordio è considerato dai retroscenisti e commentatori della politica italiana molto vicino a Fratelli d'Italia, il partito che da mesi chiede agli alleati Lega e Forza Italia di togliere la fiducia al governo di unità nazionale. Secondo, proprio Nordio è stato inserito da vari indiscreti nel novero del toto-ministri del possibile, futuro governo di Giorgia Meloni, favorita per Palazzo Chigi con l'appoggio (più o meno lieto) di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi.

"Sono rimasto inorridito dalle parole di Berlusconi e Salvini che rappresentavano una sorta di endorsement a Putin. L'aggressione russa all'Ucraina è folle, criminale e ingiustificata, e sarebbe inammissibile un governo che non sostenesse, in politica estera, la linea di Draghi, ovvero un sostegno all'Ucraina senza se e senza ma", incalza Nordio, il "ministro della Giustizia" in pectore di un "governo Meloni". 

Si intrecciano di nuovo, dunque, le pulsioni anti-guerra e la realpolitik di governo. Peraltro, va detto per non generarle ulteriori equivoci, Fratelli d'Italia si è subito schierata senza se e senza ma con la fornitura di armi italiane a Kiev in una chiave pienamente atlantica e filo-Nato. Un problema che, probabilmente, si potrebbe riproporre anche nel caso il centrodestra andrà al governo.

«Non capisco Berlusconi. La fine di questo esecutivo è opera del putinismo». Intervista a un ex "colonnello" del Cavaliere, che critica la scelta di far cadere il Governo Draghi. «Silvio ha perso l'occasione per riaffermarsi come leader politico moderato». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 22 luglio 2022.

Fabrizio Cicchitto, ex colonnello berlusconiano e presidente di Riformismo& Libertà, giudica «incomprensibile» la scelta di Forza Italia di non votare la fiducia a Draghi, spiega che «un’area di centro draghista come ispirazione si può formare, anche a causa della incredibile perdita di peso per l’Italia dopo questo disastro» e sulla fine del campo largo è netto: «la razionalità vorrebbe che l’alleanza Pd- M5S sia ormai tramontata, ma tra la razionalità e la realtà, purtroppo, spesso c’è differenza».

Presidente Cicchitto, che idea si è fatto della crisi di governo?

Abbiamo assistito a un atto di assoluta follia, irrazionalità e nichilismo. In questo momento gravano una serie di questioni già di per sé terribili: la pandemia non si è risolta, la guerra è tuttora in corso, ci sono inflazione e il rischio recessione. Per questo Draghi garantiva a tutti, destra, centro e sinistra, una guida forte e sicura. E in più era un ombrello per l’Italia, nel senso che le condizioni del debito pubblico e della scarsa qualità della classe dirigente sono chiare a tutta l’Europa, che a sua volta non brilla. Un’Italia che distrugge questo ombrello perde credibilità in Europa e nel mondo.

C’è chi dice che a Mosca si festeggia: pensa anche lei che ci sia un legame tra la crisi di governo e il regime di Putin?

Se vogliamo leggerla con una qualche intonazione globale, questa crisi comporta come dato oggettivo la scomparsa dell’Italia dal quadro internazionale e il fatto che si sono mosse in modo convergente per arrivare a questo risultato tre forze fortemente indiziate dal punto di vista dello inesistente o scarso atlantismo, scarso o inesistente europeismo e significativo putinismo, la dice lunga. Vale per Conte, vale per Salvini, per il quale c’è un’intera bibliografia che prova quanto sia profondo il suo putinismo, e vale per certi aspetti anche per Berlusconi.

Proviamo ad analizzare cosa ha mosso il comportamento di questi tre leader, a partire da Conte.

Conte è una monade impazzita da parecchio tempo e per analizzare le sue mosse ci sono due ipotesi. La prima è che sia animato da un folle spirito di vendetta contro l’usurpatore Draghi, accentuata dalla frequentazione con quell’anima nera di Travaglio. La seconda ipotesi è che abbia un riferimento internazionale ben preciso, tanto che una delle prime questioni poste a Draghi riguardava le armi inviate all’Ucraina. L’unico scopo della sua politica ormai da settimane era far cadere il governo Draghi. Da un certo punto in poi il Pd non ha più controllato Conte e lui è andato in libera uscita.

Ed è stato poi accompagnato da Salvini e Berlusconi. Pensa che Salvini guadagnerà da quanto accaduto?

Salvini è mosso da avventurismo e putinismo. Ha voluto mettere di fronte a un fatto compiuto tutta la vasta area della Lega che era contrarissima alla crisi. Ha paura della Meloni, ha capito che bisognava cogliere al volo qualunque occasione per tirarsi fuori da questa situazione e Conte gli ha servito un assist formidabile. E questo dimostra la nequizia di Conte. Gli ha consentito un colpo di mano che tuttavia va contro il Nord, il mondo imprenditoriale e le associazioni di categoria.

Rimane Berlusconi, che lei conosce bene. Cosa l’ha spinto a non votare la fiducia a Draghi?

Il comportamento di Berlusconi è il meno comprensibile. Aveva una straordinaria occasione per riaffermarsi come leader politico moderato e liberale del centrodestra, bloccando Salvini e prendendo in mano la situazione. Invece si è schiacciato totalmente sulla Lega e ha determinato lo sfascio complessivo del quadro. Non esiste più il centrodestra, ci sono due destre in concorrenza più un appendice di centro opaca e che sta perdendo colpi. Si riaffacciano figure come Tremonti, che aveva un solo scopo nella vita, cioè quello di far fuori Berlusconi e prenderne il posto ma gli è andata male per una questione di sillabe: invece di Tremonti venne fuori Monti.

E così il sostegno a Draghi è arrivato soltanto da Pd più la galassia centrista. Pensa che da qui possa nascere un terzo polo in vista del voto?

Un’area di centro draghista come ispirazione si può formare, anche a causa della incredibile perdita di peso per l’Italia dopo questo disastro. Tale scenario può essere alimentato anche da figure come Gelmini, Brunetta e Carfagna, e ne possono fare parte anche i vari Toti e Quagliariello. Insomma tutta quella galassia che con Draghi al governo aveva uno spazio relativo, mentre con Draghi colpito e affondato può ergersi a paladina del draghismo. Il punto è se viene meno il complesso napoleonico tra Renzi e Calenda. Bisogna capire se, di fronte all’idea di elezioni anticipate riescono a mettersi d’accordo. Il paese è molto preoccupato, bisognerà anche vedere la reazione dei mercati e dello spread che al momento non è positiva.

Come giudica il comportamento del Pd in questa crisi e nell’ultimo periodo?

I compagni del Pd, che hanno nel loro retaggio storico un Pci esperto in vigilanza rivoluzionaria, ne hanno avuta zero. Hanno scelto come alleato fondamentale Conte, tanto che la parte più a sinistra del Pd l’aveva presentato come punto di riferimento del polo progressista. Addirittura a guai in corso Bettini è arrivato a dire che Conte ha posto seri problemi di natura sociale senza provocare la crisi di governo. Uno che dice una cosa del genere significa non solo che sta in Thailandia, ma che ci sta senza leggere i giornali o guardare le televisioni.

Ieri però Letta ha detto che il campo largo è finito. Che ne pensa?

La razionalità vorrebbe che l’ipotesi del campo largo sia ormai tramontata, ma tra la razionalità e la realtà, purtroppo, spesso c’è differenza.

Da liberoquotidiano.it il 21 luglio 2022

Strano ma vero, Edward Luttwak si scaglia contro Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. L'economista statunitense non ha apprezzato la crisi di governo e le conseguenti dimissioni di Mario Draghi. Il suo timore è che di questa instabilità possa trarre vantaggio il Cremlino. "Visto in TV Draghi in piedi con Di Maio alla sua sinistra e Guerini sulla sua destra -la squadra che ha tenuto l'Italia nel patto Atlantico con (piccole) forniture di armi all'Ukraina. Contro ci sono gli amici di Putin: Berlusconi, Conte, Salvini  + i "Pacifisti", inutili".

Insomma, il tweet è chiarissimo e Luttwak prende una netta posizione contro Forza Italia, la Lega e il Movimento 5 Stelle che a suo dire hanno messo il presidente del Consiglio alla porta. Lo stesso premier che ha concesso l'invio di armi al Paese invaso dalla Russia. D'altronde la teoria del politologo in fatto di rifornimenti non è mai stata un mistero. 

"Ci sono due possibilità - scriveva settimane addietro -: o i Paesi occidentali mandano uomini, forze terrestri, in Ucraina, o l'esercito ucraino deve arrendersi. C'è anche la possibilità di inviare volontari addestrati, molti danesi e finlandesi stanno ad esempio andando a combattere con gli ucraini. Ormai le armi richieste, efficaci e sofisticate, stanno arrivando in Ucraina, ma mancano gli uomini".

E non era da meno contro coloro che sull'invio di armi la pensavano diversamente: "I veri amici della Russia sono nemici dei dittatori Russi. Coloro che difendono l'aggressione, quelli che vogliono sabotare gli aiuti a chi si difende". Da qui lo sfogo anti-Conte, Salvini e Berlusconi.

5S filo Putin? Se Di Maio sa parli, o taccia per sempre. «Non è un caso che il governo sia stato buttato giù da due forze politiche che strizzano l’occhiolino a Vladimir Putin», dice il titolare della Farnesina. Che forse deve qualche spiegazione ai cittadini prima di tuffarsi così nella campagna elettorale estiva...Rocco Vazzana su Il Dubbio il 22 luglio 2022.

«Non è un caso che il governo sia stato buttato giù da due forze politiche che strizzano l’occhiolino a Vladimir Putin». Da un mese esatto, da quando cioè ha lasciato il Movimento 5 Stelle e abiurato alla sua storia, Luigi Di Maio non pensa ad altro che ad attaccare quello che lui definisce il “partito di Conte”. Normale, dunque, che continui a martellare contro i suoi ex colleghi «irresponsabili» nel giorno delle dimissioni irrevocabili di Mario Draghi che segnano, inevitabilmente, l’imminente fine della sua esperienza al ministero degli Esteri.

Solo che Luigi Di Maio, tecnicamente, alla Farnesina siede ancora e, visto l’aplomb istituzionale che si è cucito addosso, farebbe bene a evitare di lanciare accuse di “intelligenza col nemico” russo nei confronti di un partito politico italiano. A meno che non abbia prove inequivocabili di possibili relazioni pericolose tra il Movimento 5 Stelle e il Cremlino. Ma anche se le avesse, Di Maio dovrebbe fornire qualche spiegazione in più ai cittadini prima di lanciare accuse e tuffarsi così nella campagna elettorale estiva. Perché il leader di “Insieme per il futuro” non è solo a capo di un ministero importante da cui potrebbero passare informazioni sensibili su possibili alle “interazioni” tra Putin e la politica italiana, è anche stato a capo di quel partito, il Movimento 5 Stelle, contro cui oggi punta il dito. Di Maio, dunque, dall’alto del suo osservatorio più che privilegiato sul grillismo, sa qualcosa su cui gli elettori dovrebbero essere informati? E se sì, perché ne parla solo ora e non ha denunciato prima, quando era il numero uno dei 5S, eventuali comportamenti opachi del suo ex partito? «Io ho fatto una battaglia interna al Movimento per collocarlo dalla parte giusta della storia, della Nato e dell’Unione europea», si limita a dire adesso, dopo aver sganciato l’ennesima “bomba” Di Maio. «Quando ho visto che non era più possibile me ne sono andato». Ma il Di Maio che oggi accusa Conte è lo stesso Di Maio che in epoca giallo-verde firmava con Xi Jinping il memorandum di adesione dell’Italia alla “Nuova via della seta” mandando su tutte le furie l’alleato d’oltreoceano? O è lo stesso Di Maio che nel febbraio del 2019 – con le mostrine di vice premier, ministro dello Sviluppo economico, ministro del Lavoro e capo politico del M5S – si scagliava pubblicamente contro le sanzioni a Mosca? Un errore contro cui «ci battiamo e ci batteremo, non perché siamo filorussi o filoamericani, ma perché siamo filoitaliani», diceva non troppo tempo fa, quando ancora, evidentemente, non aveva trovato l’uscita per la «parte giusta della storia». Ora che il ministro ha imbocatto un nuovo percorso e cambiato legittimamente idea su molte cose, non cada però nel vecchio vizio populista di attaccare gli avversari con allusioni e insulti gratuiti. Se Di Maio sa che Conte, o chi per lui, ha intrattenuto rapporti di qualche tipo con Mosca parli. E spieghi. Oppure farebbe bene a tacere.

Anna Zafesova per “La Stampa” il 22 luglio 2022.

«Per la Russia, l'Italia è un Paese sovrano e indipendente, che non dovrebbe dipendere da nessuno»: la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova abbandona i suoi tradizionali toni polemici per commentare la crisi di governo in Italia con apparente distacco. 

Nessun commento sferzante, «l'operato del governo Draghi dovrebbe essere valutato dagli italiani», dice la portavoce della diplomazia russa, rispondendo a una domanda sulle eventuali influenze di Mosca nel voler destabilizzare un Paese importante della Unione Europea e della Nato. 

Mario Draghi era stato più che esplicito nel chiedere, nel suo discorso al parlamento, di «bloccare le interferenze russe nella nostra politica e nella nostra società», ma Zakharova non contrattacca a questa accusa, mostrandosi stupita «per la necessità interna di spiegare quello che succede con fattori esterni». Subito dopo però arriva una frecciatina caustica: «Se l'Italia non viene considerata sovrana altrove, questo non ha nulla a che fare con la Russia».

La parola chiave qui è «sovrana», utilizzata nello stesso senso in cui la utilizzano i sovranisti, con una allusione abbastanza esplicita ai rappresentanti delle forze politiche antieuropeiste che ritengono l'impegno euroatlantico dell'Italia una «schiavitù». 

Zakharova però nega che la Russia nutra simpatie e preferenze: «Non sosterremo alcun partito nelle elezioni italiane, come invece fanno Usa e Ue», dice, per poi dichiarare come priorità del rapporto con l'Italia «lo sviluppo di una vantaggiosa cooperazione». 

Un altro messaggio, stavolta ai «pragmatici» che chiedono di togliere le sanzioni alla Russia per non penalizzare il Made in Italy. L'incremento dell'erogazione del gas russo all'Italia il giorno dopo la caduta del governo Draghi potrebbe essere una coincidenza come un segnale più che chiaro sui vantaggi che potrebbe avere un Paese europeo che, come minimo, si ritira dalla prima linea della solidarietà occidentale con l'Ucraina.

L'ex presidente Dmitry Medvedev, ormai la voce più aggressiva della propaganda russa, ieri ha scritto un post sugli «europei comuni che soffriranno un freddo terribile nelle loro case», e sui loro leader «stupidelli» che sarebbero stati «ingannati cinicamente»: un riassunto sprezzante dell'idea più volte espressa dal Cremlino che lo scontro globale si svolge tra Russia e Usa, e che gli europei sono soltanto pedine. 

Lo stesso Medvedev qualche giorno fa aveva pubblicato le foto di Boris Johnson e di Mario Draghi con accanto una sagoma nera con il punto interrogativo, e i canali Telegram dei politologi e blogger filoputiniani esultano per la «caduta dei governi occidentali», per «i codardi che scappano» per non pagare le conseguenze della guerra, e per la «rottura della prima coalizione pro-Ucraina dell'Europa. Aleksandr Dughin, l'ideologo del nazionalismo estremo russo che aveva teorizzato una «rivoluzione conservatrice» degli europei contro il «liberalismo americano», annovera Draghi tra i «leader russofobi» già caduti vittime della loro presa di posizione.

C'è chi si chiede se il prossimo sarà Macron o Scholz, o fa altri commenti che mostrano innanzitutto la fondamentale incomprensione di molti esperti russi dei meccanismi della politica occidentale, e in particolare di una democrazia parlamentare intricata come quella italiana. 

Sui social girano anche filmati di manifestazioni oceaniche di «italiani che festeggiano le dimissioni di Draghi» (a giudicare dalla quantità di bandiere italiane, il filmato risale a qualche celebrazione per una vittoria della nazionale di calcio) e altri fake simili.

Il boomerang della propaganda colpisce i propagandisti stessi, e la tv di Stato che martella tutti i giorni i russi con reportage sugli «europei disperati caduti in miseria» e «un inverno in cui gli occidentali dovranno scegliere se mangiare o scaldarsi» alla fine li convince, e li aiuta a creare una retorica che potrebbe venire esportata massicciamente nella campagna elettorale. 

Il politologo dissidente Ivan Preobrazhensky avverte che dall'Italia potrebbe arrivare un problema che «tutta l'Ue dovrà affrontare già nelle prossime settimane: come gestire i populisti, i neofascisti e gli amici di Putin».

I tanti brindisi a Mosca e lo sconcerto di Washington. Roberto Fabbri su Il Giornale il 21 luglio 2022.

La principale reazione che arriva da oltre confine alla caduta del governo Draghi è di sconcerto. Doveva essere l'esecutivo affidato a un fuoriclasse e sostenuto da tutti per salvare l'Italia e invece è caduto come un qualsiasi Fanfani VII balneare della Prima Repubblica. Come se la politica italiana non fosse in grado di capire cosa c'è realmente in gioco. Da Bruxelles e Washington ci si sforza di dominare la stupefazione, ma rimane la sostanza dell'accaduto: non è stato solo Conte a far cadere Draghi, ma anche una scelta decisiva nei numeri da parte del centrodestra. Scelta che non molti si aspettavano, oltrefrontiera, e che nessuno comprende.

Il commissario italiano Ue all'Economia Paolo Gentiloni prima spara a zero («Il balletto degli irresponsabili contro Draghi può provocare una tempesta perfetta»), poi ricorre ai toni del patriottismo: «Ora è il tempo di voler bene all'Italia: ci aspettano mesi difficili, ma siamo un grande Paese». Sui giornali francesi e inglesi i toni sono di asciutta perplessità: «Tre partiti negano la fiducia a Draghi», titola il Figaro, mentre il Guardian sceglie una foto di Draghi affranto e spiega che «Il premier italiano fallisce il tentativo di rianimare il suo governo».

Da Washington arrivano i commenti tipici della benevola potenza imperiale. «Non esprimiamo pareri sulle questioni politiche interne dice un portavoce della Casa Bianca - , gli Stati Uniti rispettano e sostengono il processo costituzionale italiano. L'Italia è uno stretto alleato, la nostra partnership forte è fondata sui valori condivisi della democrazia, dei diritti umani e della prosperità economica. Continueremo a lavorare insieme a stretto contatto su varie importanti priorità, compreso il sostegno all'Ucraina contro l'aggressione da parte russa».

Il quotidiano Washington Post è meno diplomatico: «Il governo italiano si è spaccato tra i rancori. La giornata che era iniziata con Draghi che sarebbe potuto restare alla guida del governo si è conclusa tra le recriminazioni, con divisioni sempre più profonde e con la quasi certezza di elezioni in autunno che favoriranno un gruppo di partiti di centro e di estrema destra». Per il quotidiano della capitale Usa «a questo punto il futuro dell'Italia potrebbe essere molto diverso: è molto probabile che il prossimo governo metta insieme partiti nazionalisti e di centrodestra compresi alcuni che hanno avuto posizioni euroscettiche e filorusse».

Anche il Washington Post nota che nei giorni scorsi alcuni politici vicini a Draghi avevano avvertito che la crisi italiana faceva il gioco di Putin. E questa polemica è continuata anche ieri, mentre il governo italiano collassava, tra i portavoce dei ministeri degli esteri russo e italiano. La signora Maria Zakharova ha preso di mira il nostro ministro Luigi Di Maio, ridicolizzandolo perché «alla ricerca di cause esterne in Russia per i fallimenti del suo governo». «Siamo stupefatti ha detto la portavoce di Sergei Lavrov -. A leggere i giornali italiani i nostri ambasciatori avrebbero il potere di cambiare i governi occidentali con un paio di telefonate»: chiaro il riferimento alle accuse rivolte a Conte di servire gli interessi di Mosca. Il portavoce di Di Maio ha replicato che ancor prima dell'inizio di questa crisi di governo qualcuno a Mosca non ha fatto altro che intervenire nel nostro dibattito politico interno, con continue e gravi ingerenze».

Calenda: "Il governo è stato cacciato dai filo-Putin". Huffpost il 20 Luglio 2022. 

Il leader di Azione ha twittato, postando le foto di Conte e Berlusconi in compagnia del presidente russo Putin e del leader leghista Salvini con indosso la nota maglietta col ritratto del numero uno del Cremlino.

 "Sarà un caso, ma il governo più serio e atlantista della storia recente viene mandato a casa da tutti quelli che hanno sostenuto posizioni filoputiniane. Sarà un caso". Lo scrive su Twitter il segretario di Azione Carlo Calenda, corredando il post con le foto di Conte e Berlusconi in compagnia del presidente russo Putin e del leader leghista Salvini con indosso la nota maglietta con il ritratto del numero uno del Cremlino.

A pronunciarsi via social giunge anche  il politologo americano Edward Luttwak, che tweetta: "Visto in tv Draghi in piedi con Di Maio alla sua sinistra e Guerini sulla sua destra, la squadra che ha tenuto l'Italia nel patto Atlantico con (piccole) forniture di armi all'Ucraina. Contro ci sono gli amici di Putin: Berlusconi, Conte Salvini + i "Pacifisti", inutili".

Gli «storici» rapporti tra Putin e i politici italiani. Alessandro Trocino su Il Corriere della Sera il 24 febbraio 2022.

La galassia di amici e simpatizzanti del presidente russo Vladimir Putin è storicamente vasta e trasversale: ecco le diverse posizioni, da destra a sinistra. 

Lunedì mattina, un signore brevilineo con loden verde, sigaro e occhiali scuri passeggiava in via Turati a Milano. 

Nulla di strano, se non fosse che rivedere dopo qualche mese l’inconfondibile figura di Gianluca Savoini è un corto circuito che in un secondo riallaccia i fili: l’hotel Metropol di Mosca, gli oligarchi delle società petrolifere, i servizi segreti, le foto sulla piazza Rossa di Mosca dell’ex presidente dell’associazione Lombardia-Russia abbracciato con Matteo Salvini. 

E poi, il Donbass, i venti di guerra in Ucraina. E appunto Salvini, a Strasburgo, con la maglietta di Putin, che postava sui social: «Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin!». 

Quello dei filo-putiniani italiani è storicamente un partito trasversale, che attraversa gli schieramenti da sinistra a destra, con motivazioni diverse. 

Partito di simpatizzanti o di pragmatici, che sarà messo duramente alla prova (e magari cambierà linea o rinnegherà certe posizioni del passato) di fronte aifolli bombardamenti di Kiev. 

In un libro pubblicato dalla Columbia University Press (ne parla Linkiesta) si dividono in due categorie i filo putiniani: i neo-euroasianisti e i Russlandversteher. 

I primi, normalmente schierati a destra, vedono nel regime sovietico un modello sociale e politico da imitare e contestano Nato e Ue da posizioni ultra nazionaliste e sovraniste. 

Più numeroso il gruppo dei Russlandversteher, termine che si può tradurre con «simpatizzanti». Che hanno una posizione pragmatica, con solidi agganci storici. È la posizione che oggi potremmo riassumere nello slogan (che riecheggia l’antico «Morire per Danzica?»): «Morire di freddo per l’Ucraina?». 

Quanto, cioè, siamo disposti a cedere, in termini di potere economico e di costi provocati dalla mancanza del gas russo, pur di difendere il popolo ucraino? 

La ragion pratica degli affari ha guidato molti in passato. Si è fatta prevalere la convergenza degli interessi sulla fermezza nei principi. Secondo i simpatizzanti filorussi, i veri nemici dell’Occidente sono la Cina e l’Islam (radicale, ma anche no). Gli autori della parte italiana del saggio, Luigi Germani e Massimiliano Di Pasquale, ricordano che il 24 ottobre del 1909 Vittorio Emanuele III e Nicola II firmarono a Racconigi un’alleanza tra Italia e impero zarista. Le relazioni tra Italia fascista e Urss restarono sempre floride. Il regime enfatizzò le malefatte dei comunisti in Spagna, ma tacque sull’Holomodor («sterminio per fame»), il genocidio di milioni di ucraini uccisi dalla carestia provocata dalla collettivizzazione forzata. 

Ma quali sono i politici attuali simpatizzanti e filo putiniani? Vediamoli, partito per partito. 

Lega

La fascinazione leghista è quella verso l’uomo forte, virilmente autoritario, sbrigativo (o peggio) con la dissidenza. 

Il primo storico simpatizzante, lo abbiamo visto, è Matteo Salvini. Che in questi giorni ha espresso posizioni «pacifiste» (panciafichiste, si sarebbe detto nella prima guerra mondiale), frenando sulle sanzioni (ma questa mattina ha «condannato con fermezza ogni aggressione militare», auspicando «l'immediato stop alle violenze»). 

Nel 2018, a Mosca, disse: «Mi sento più a casa qui che in Europa». 

Savoini fu l’ufficiale di collegamento tra la Lega di Umberto Bossi (filo serba ai tempi del Kosovo) e Aleksandr Dugin, analista politico russo legato al Cremlino, noto per le sue opinioni scioviniste e fasciste. L’ex parlamentare «destro» Mario Borghezio è sempre stato filo putiniano: «Putin difende lo spazio vitale della Russia di fronte alla manovre della Nato». Spazio vitale, un caso probabilmente l’uso di questo termine. Ma spazio vitale è il «lebensraum», termine usato da Hitler nel suo Mein Kampf per intendere i territori dell’Europa orientale germanofoni. Stefania Pucciarelli, sottosegretaria leghista alla Difesa, ribalta gli argomenti di chi critica il «Capitano»: «Semmai, i buoni rapporti di Salvini con la Russia possono essere un elemento che agevola un dialogo positivo tra Roma e Mosca». 

L’onorevole Luca Paolini, riferisce sul Foglio Valerio Valentini, chiarisce da che parte sta: «La verità è che siamo una colonia americana. Biden imporrà sanzioni e a pagarne le conseguenze saremo noi». Il deputato veronese Vito Comencini, tra passione e politica (ha sposato la russa Natalia Dandarova) coltiva rapporti stretti con la Crimea e con il Donbass. 

Solo i bombardamenti hanno provocato un soprassalto nella Lega. E ieri Matteo Salvini ha annunciato che non rinnoverà l’accordo di cooperazione siglato il 6 marzo del 2017 tra l’allora Lega Nord e Russia Unita, il partito di Putin. 

Movimento 5 Stelle

Il grillo-leghismo vede da sempre la Russia come un punto di riferimento e la Nato come un intralcio (anche se questa mattina il leader M5S Giuseppe Conte ha espresso «Ferma condanna per l'attacco russo che precipita la situazione e allontana ogni soluzione diplomatica»). 

Vito Petrocelli, presidente della commissione Esteri del Senato, è putiniano doc e non ha cambiato posizione. Definisce «immonda» la «propaganda» degli Stati Uniti e dice: «Le ragioni non stanno affatto tutte dalla parte dell’Occidente e di Kiev». 

Il dualismo Conte-Di Maio raggiunge vette notevoli anche in politica estera. Il ministro degli Esteri è saldamente filo atlantico (per convenienza o convinzione), l’ex premier ha invece flirtato con Alessandro Di Battista, filo putiniano a oltranza. L’altra sera sono andati a cena insieme e hanno certamente affrontato l’argomento. Del resto Di Battista è stato chiaro: «La Russia non sta invadendo l’Ucraina. Giustamente chiede garanzie sulla sua neutralità. Un’entrata di Kiev nella Nato sarebbe una minaccia inaccettabile». Sembra di sentir parlare Vladimir, con accento di Roma nord. 

Come non ricordare anche Manlio Di Stefano, che nel 2016 definiva l’Ucraina «uno Stato fantoccio della Nato (Usa e Ue)». Per lui, nel 2014 in Ucraina ci fu «un colpo di Stato» che mandò al potere «un governo composto da convinti neo-nazisti e dalla peggior tecnocrazia finanziaria internazionale». Di Stefano si opponeva, come tutto il Movimento, alle sanzioni per l’annessione della Crimea e partecipava volentieri ai congressi di Russia unita, il partito di Putin. Ora è sottosegretario agli Esteri e si è allineato. Non è dato sapere se abbia cambiato idea o se rimanga sottotraccia per necessità. Certo è che, in quella posizione, non rappresenta in modo plastico la linea politica del governo Draghi.

Forza Italia

«L’amico Putin». La frase è entrata nel lessico comune e dà conto dei rapporti vantati da Silvio Berlusconi quando era presidente del Consiglio. Anche visivamente ci si ricorda bene di un Cavaliere in colbacco, nella dacia sul mar Nero di Vladimir, che lo ha ospitato spesso: ma «non ci sono stati contatti» tra i due nelle ultime, drammatiche ore. 

Ad accompagnarlo nei suoi viaggi era di solito Valentino Valentini, deputato di Forza Italia, che nel 2005 fu insignito dal leader russo dell’Ordine di Lomonosov. Poi c’è Franco Frattini, che ha pagato con l’esclusione da una candidatura al Quirinale le sue posizioni filorusse. Il presidente del Consiglio di Stato, ex ministro degli Esteri, vantava «ottime relazioni» con le autorità russe. E fu lui a firmare l’accordo tra la Link di Vincenzo Scotti e l’università di Mosca . Frattini viene insignito della docenza onoraria all’Accademia diplomatica del ministero degli Esteri della Federazione russa. E nel 2018 garantisce per Giuseppe Conte davanti al ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov.

Sinistra e Pd

Romano Prodi non è certo sospettabile di atteggiamenti ostili agli Stati Uniti, alla Nato e all’atlantismo. Ma è anche un politico pragmatico. Tanto che qualche giorno fa a Piazza Pulita ha detto: «Draghi alzi il telefono e chiami Putin per fare un accordo con la Russia». Il motivo lo spiegava così: «Per anni abbiamo ricevuto il gas prima dall’Unione Sovietica e poi dalla Russia con contratti a lungo termine che favorivano i russi ma che in fondo ci davano sicurezza. Poi abbiamo preferito il libero mercato che all’inizio ci ha favoriti ma adesso ha dato il manico del coltello nelle mani di Putin». 

Prodi spiega che «noi siamo diversi dagli altri, è questo che dobbiamo capire. L’Italia nel gas è particolarmente vulnerabile». E quindi serve (o almeno serviva, prima dei bombardamenti di Kiev) una realpolitik , un’intesa cordiale con Putin, anche se nel frattempo sta invadendo l’Ucraina e l’Occidente minaccia sanzioni. Il Giornale lo ha prontamente paragonato a Salvini: «Se chiamano lui putiniano, che chiede il dialogo, perché non Prodi?». 

Nel 2018, Putin disse: «In Italia ho ottimi rapporti personali con Berlusconi e Prodi». 

Nel 2015, intervistato da Aldo Cazzullo, Prodi spiegò: «Se l’obiettivo è portare l’Ucraina nella Nato, allora crei tensioni irreversibili». Alla domanda in cui gli si faceva notare l’accusa di essere «troppo morbido con Putin», rispose: «Duro o morbido non sono concetti politici. Puoi essere duro se ti conviene, o morbido se ti conviene; non puoi fare il duro se te ne vengono solo danni. Isolare la Russia è un danno». 

Inutile dire che, all’estrema sinistra, Rifondazione comunista dice «no alla guerra in Ucraina e all’espansionismo della Nato» e no «alle forze etno-nazionaliste collaborazioniste con il nazismo». 

E Matteo Renzi (nel board della società russa di car sharing Delimobil)? Fino ad oggi aveva parlato poco della vicenda, poi (oggi) sono arrivate le dimissioni da Delimobil e la condanna: « Inaccettabile l'attacco russo in Ucraina. L'Italia sia come sempre al fianco di Europa e Stati Uniti in nome della libertà e dei valori». 

Giampiero Mughini per Dagospia il 21 luglio 2022.

Caro Dago, e così la democrazia parlamentare - quella di cui Winston Churchill diceva che era una gran schifezza ma migliore di tutti gli altri sistemi politici conosciuti - ha silurato quel “miracolo Draghi” che dovevamo al talento politico di Matteo Renzi. 

L’Italia dei partiti abbatte la sua risorsa più importante, un uomo apprezzato in tutta Europa e in tutto il mondo, fuorché dai russi, un uomo che quando il gioco si è fatto particolarmente duro ha forse presunto troppo da sé stesso e dal suo prestigio. I numeri sono numeri e perciò non resta altro che la via delle elezioni anticipate, cui ambiva così tanto lo schieramento detto di centro-destra, lo schieramento che sulla carta appare come probabilissimo vincitore. 

Del resto non po’ essere un caso se siano degli uomini di centro-destra a capo delle due regioni più vitali e trainanti di tutto il Paese, e la Lombardia e il Veneto. 

Di sicuro c’è che da ieri l’Italia è più povera. Stanno impazzendo i dati che raccontano il nostro rapporto con l’economia del resto del mondo e con le sue aspettative, lo spread innanzitutto. Va giù giù giù la Borsa. E’ singolare come dal discorso politico il più corrente e il più arruffato risulti ogni due per tre che i nostri salari siano i più bassi in Europa, solo che ogni volta omettono di dire che l’indice di produttività del nostro sistema industriale è fermo da oltre vent’anni. 

E’ semplicissimo, produciamo via via sempre meno ricchezza e dunque è sempre più sottile la fetta di torta cui attingere. Draghi regnante, era migliorato il rapporto su quanto sia grande il nostro debito pubblico (dopo la Grecia il più grande al mondo) e quanto sia grande il nostro prodotto nazionale lordo. Staremo a vedere quel che succederà in campagna elettorale, mesi in cui letteralmente mi tapperò le orecchie pur di non udire gli Irosi e gli Acchiappanuvole, le due grandi categorie della “gente” italica. 

Di sicuro la topografia politica italiana è fuori controllo. Avevano purtroppo ragione quelli di casa Pd che sostenevano che l’alleanza politica con i 5Stelle era una questione di vita o di morte, ché altrimenti lo schieramento di centro-destra sarebbe stato sovrastante. Solo che i 5Stelle sono la forza politica/elettorale la più insulsa e insussistente di tutta la nostra storia politica post-Prima Repubblica. La storia che avrebbe dovuto regalarci il bipartitismo “perfetto”, ossia due schieramenti ben identificati che si oppongono l’uno all’altro e vinca il migliore. E invece ne abbiamo una ventina di partiti, partitini, gruppetti, mucchietti, bande disarmate.

Io che voterei Calenda o Renzi tutta la vita non so che farò quando il 2 ottobre mi presenterò alle urne. Il Pd che si allea nuovamente con i 5Stelle? Non sta né in cielo né in terra. E dunque? Mah.

Di sicuro c’è anche che Giorgia Meloni ha niente a che vedere con il fascismo o cose orribilmente analoghe. E’ una ragazza intelligente. Non credo cercherà di sbattere contro i tanti spigoli di cui è fatta la società italiana. Che Dio ce la mandi buona. Draghi a parte, eravamo e siamo nelle sue mani. 

L'esecutivo resta in carica. Che cosa sono gli Affari Correnti: cosa può fare il governo Draghi dopo le dimissioni fino alle elezioni. Vito Califano su Il Riformista il 21 Luglio 2022 

Se è troppo presto capire cosa sarà di Mario Draghi dopo l’esperienza di governo, è certo che per altri giorni, una manciata di mesi, l’ex Presidente della Banca Centrale Europea (Bce) resterà a Palazzo Chigi dopo aver rassegnato le dimissioni da Presidente del Consiglio nelle mani del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Fine, anzi no: per il momento sono titoli di coda sui 522 giorni del governo cosiddetto di “unità nazionale”.

La comunicazione di Draghi ieri mattina al Senato aveva richiamato i partiti a una presa di responsabilità. Dopo l’apertura della crisi per via del non voto al dl Aiuti da parte del Movimento 5 Stelle la settimana scorsa, lo strappo con il centrodestra, e soprattutto con la Lega ripetutamente colpita dalle bordate del premier nel suo discorso, è risultato irreparabile. Draghi ora si dovrà occupare con il suo governo dei cosiddetti affari correnti mentre Mattarella indirà presumibilmente le elezioni.

Per Affari Correnti si intende un regime di autolimitazione del governo che non ha più la pienezza dei poteri. Il costituzionalista Alfonso Celotto spiega a Il Corriere della Sera che l’esecutivo non ha più capacità programmatica. Il governo non può fare nomine, non può fare disegni legge (inclusa la Finanziaria) e non può approvare decreti legislativi, salvo eccezioni imposte da scadenze imminenti (come il Pnrr).

All’esecutivo il compito di concludere attività già in corso e di affrontare eventuali imprevisti. I decreti legge possono essere adottati in caso di emergenza. Il governo Draghi dovrebbe restare in carica fino al giorno del giuramento del nuovo governo. Le Camere vanno verso lo scioglimento. Le date candidate per le elezioni sono quella del 25 settembre e quella del 2 ottobre. La data del 18 settembre sarebbe stata esclusa in quanto non ci sarebbero i tempi tecnici per far votare gli italiani all’estero. Alle 18:30 è previsto il Consiglio dei ministri.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

La ribellione populista contro il tecnico-politico. Massimiliano Panarari  su L'Espresso il 25 Luglio 2022. 

Non è bastato a Mario Draghi rivolgersi ai cittadini “disintermediando” i partiti

L’epilogo della crisi di governo “made in Giuseppe Conte” e poi rilanciata, su altre posizioni, dal destracentro si è rivelata assai istruttiva. E disvelatrice di tutta una serie di aspetti più o meno noti della politica italiana nella fase storica della crisi permanente.

Proprio per affrontare le emergenze che stanno determinando un cambiamento di paradigma nelle nostre società - la pandemia con la “messa a terra” del Pnrr e, più di recente, la guerra in Ucraina scatenata da Putin - il presidente della Repubblica Sergio Mattarella era stato il maieuta dell’esecutivo di (tendenziale) unità nazionale, il «Governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica», affidato a una personalità autorevole, diventato una «riserva della Repubblica» (come si direbbe in Francia) anche in virtù del suo prestigio internazionale.

Tenere a bada il fascino irresistibile della campagna elettorale permanente per i partiti, però, è complicato, specialmente quando si tratta degli irrefrenabili animal spirits in tal senso dei leader populisti, che i tecnici non li soffrono in senso quasi antropologico. Perciò il capo dello Stato aveva scelto la strada della parlamentarizzazione della crisi, in modo che risultasse chiaro e trasparente agli occhi dell’opinione pubblica chi intendeva sfilarsi e sulla base di quali motivazioni, aggirando la cortina fumogena del politichese di cui è inopinatamente divenuto specialista il Movimento Cinque Stelle in versione contiana.

Il Colle ha dispiegato, insomma, ancora una volta quella moral suasion che, come si è potuto constatare, costituisce ben più di una forma soft power nell’arco delle presidenze Mattarella. E, difatti, portando alla caduta del governo questa crisi politicista, che si è grottescamente sommata alle tante emergenze in corso, ha svelato che il ceto politico è nudo. E ha anche prodotto una metamorfosi politica dell’ex banchiere centrale Mario Draghi, il quale, pure, ha palesato dei tratti da impolitico in alcuni passaggi, e - per dirla in termini un po’ grossier - in taluni momenti avrebbe dovuto comunicare di più.

Le lettere e le manifestazioni di sostegno dei giorni passati a Draghi avevano così plasticamente decostruito la narrazione su cui l’antipolitica - anche quella arrivata a governare (o, per meglio dire, a sgovernare) - ha prevalentemente costruito le sue fortune dagli anni di Tangentopoli in avanti. Dai sindaci agli infermieri, dalle categorie economiche ai lavoratori marittimi fino ai gruppi di cittadini autoconvocati (in stile riedizione, più trasversale politicamente, dei “girotondi” dei primi anni Duemila) non si può certo dire che una parte del “popolo” non abbia chiesto il ritorno di Draghi a palazzo Chigi.

E, d’altronde, tutti i cittadini sono componenti del popolo (oltre che dell’opinione pubblica), a dispetto della narrazione dicotomica e polarizzante su cui lucrano elettoralmente i partiti populisti quando premono l’acceleratore della propaganda. Aveva allora fatto la sua comparsa un Draghi «tecnopopulista», come ha sostenuto qualcuno dopo averlo sentito pronunciare nelle sue comunicazioni al Senato la frase «Sono qui perché gli italiani lo hanno chiesto»? Sebbene la categoria - combinazione di tecnocrazia e populismo - sia una di quelle che si sono imposte di recente nel dibattito accademico, ci pare più opportuno parlare di un Draghi «disintermediatore» nei confronti dei partiti. Alla ricerca del consenso di una maggioranza parlamentare, e dunque anche - nelle articolazioni della società civile - di quello dei cittadini, proprio perché il suo governo non era l’esito di un voto popolare diretto. Disintermediando, per l’appunto, nei confronti delle segreterie e dei leader. Ma non è bastato, poiché la politica politicante, attraverso i partiti «già-populisti-e-ritornati-tali», è insorta contro il tecnico-politico che aveva provato a disciplinarla. E, naturalmente, ha finito per prevalere.

NOTA - DRAGHI E TABACCI SMENTISCONO SECCAMENTE IL DAGOREPORT: E' TOTALMENTE INFONDATO 

DAGOREPORT il 6 Agosto 2022.   

In coda all’ultimo consiglio dei ministri, Draghi si è intrattenuto a chiacchierare con il suo vecchio amico Tabacci, colloquio che fa luce definitiva sulla fine del governo. Mariopio ha confidato, intanto, la massima insofferenza (eufemismo) nei riguardi di Giuseppe Conte: non gli parlava perché non sopportava le sue supercazzole in modalità azzeccagarbugli foggiano. 

Lo trovava fasullo, dal ciuffo laccato in giù. Sentimento condiviso in toto nella famigerata telefonata da Beppe Grillo, poi rivelata per vanagloria dall’Elevato ai grillini e allo stesso Conte e spifferata dal sociologo sociopatico Domenico De Masi a “Un giorno da pecora”. 

“Meglio staccare la spina, subito”, ha confessato Draghi a Tabacci, spiegando il suo tono di aperta sfida al Senato ai 5Stelle, abbarbicati sul rigetto dell’inceneritore capitolino infilato dal governo nel decreto Aiuti – ostacolo che poteva rimosso facilmente sfilandolo dal decreto legge, infilando poi il termovalorizzatore in un emendamento.

Ma il premier è stato irremovibile dando poi il là alle mosse sfasciacarrozze di Salvini e Berlusconi che hanno chiesto di tenere fuori Conte e i suoi grullini e un Draghi-bis con tanto di traboccante rimpasto (fuori Lamorgese e Speranza).

“Era il momento buono per staccare la spina”, ha continuato nel suo ragionamento Draghi. “A ottobre la Finanziaria sarebbe stata un disastro zeppo di markette per raccattare voti; cosa che non avrei mai potuto accettare; a ottobre, non avrei potuto dimettermi: sarebbe stata una paralisi per l’Italia finire in esercizio provvisorio”. 

Rifilata al centrodestra di Salvini-Meloni-Berlusconi, secondo i sondaggi probabile vincitore della tenzone elettorale, la Finanziaria, mega-rogna da sbrigare con gli anti-sovranisti di Bruxelles, ora il principale obiettivo che è rimasto sul groppone di Draghi, oltre al viaggio all’Onu, sarà quello di raggiungere un accordo con gli alleati europei sul “price-cup” del gas: è certo che porterà a un calo del prezzo e sollievo per l’economia. 

L’ultima velenosa zampata dell’ex Bce è stata la conferenza stampa dopo il Cdm che ha approvato il dl Aiuti bis quando, messo su il solito ghigno sprezzante, ha sibilato: “Tanti auguri di buone vacanze a chi non ha la campagna elettorale e poi veramente i migliori auguri che si verifichino tutti i desideri e i sogni di coloro che hanno la campagna elettorale”. Un “Lavoratori, tiè!”, di sordiana memoria... 

La fine dell'esecutivo e le conseguenze. Chi evoca l’agenda Draghi ricordi che fine ha fatto quella Monti…Angelo De Mattia su Il Riformista il 27 Luglio 2022 

A poca distanza dalla caduta del Governo ricorre oggi il decennio della dichiarazione londinese di Mario Draghi, presidente della Bce, sulla difesa dell’euro: la dichiarazione che ebbe un netto successo e bloccò ogni tentativo di speculazione sulla moneta unica. Ne impedì la disintegrazione e con essa riuscì a prevenire le negative conseguenze politico-istituzionali. Oggi si ritiene che la dichiarazione passerà alla storia.

Naturalmente, non bisognerebbe mai trascurare che quel monito sopravveniva dopo che non molto tempo prima i Capi di Stato e di Governo dell’Unione – Angela Merkel compresa – si erano detti favorevoli, nel loro meeting, agli acquisti di titoli pubblici da parte della Banca centrale. In qualche modo le spalle erano coperte perché nessuno avrebbe potuto, a quel punto, contestare gli acquisti adombrando l’ipotesi del finanziamento monetario dei Tesori degli Stati vietato dal Trattato Ue. Lo “scudo” anti-frammentazione (il Transmission Protection instrument), varato dalla Bce giovedì,21 luglio, si ispira alla dichiarazione londinese. Mira, con gli interventi dell’Istituto, a una uniforme trasmissione della politica monetaria in tutta l’area; in sostanza, intende prevenire gli spread tra rendimenti dei titoli pubblici ingiustificati e disordinati; costituisce un passo per la normalizzazione del governo della moneta; si basa sui requisiti necessari (non su condizionalità) perché la Bce possa intervenire anche a richiesta dei Paesi interessati.

In effetti, l’innovazione esige un raccordo della politica economica e di finanza pubblica, basata sulla sostenibilità di deficit e debito e sugli equilibri macroeconomici, a livello centrale e di singoli Stati, con la politica monetaria. Non è solo un aiuto o un sostegno europeo, ma è pure un modo per richiedere coerenti azioni ai partner comunitari e per continuare sulla strada delle riforme. Proprio ora, come accennato, Draghi “ lascia”, tra gli epicedi che vengono intonati diffusamente, anche da qualcuno che ha concorso alla caduta del Governo. A un certo punto, poco manca che le dimissioni vengano attribuite pure al destino “cinico e baro”. L’analisi delle responsabilità delle dimissioni in questione continua. È fondata, ma manca di corrispondere pure al suono dell’altra campana, come oggettività vorrebbe. Si può ritenere che il discorso del Premier al Senato e la stessa replica abbiano avuto l’intento di trovare un punto d’incontro adeguato con le diverse posizioni espresse nell’alleanza di governo? Insomma, presentarsi a Palazzo Madama “per comunicazioni”, come voluto dal Capo dello Stato, aveva lo scopo di ribadire le posizioni del Premier o di ricercare, pur senza venir meno all’essenza di tali posizioni, le possibili convergenze, che però non risultano tentate?

È stato in definitiva un comportamento win-win: se accolto, il discorso, al quale non sono mancati toni ed espressioni di stampo peronista pur non voluto, avrebbe registrato un grande successo di Draghi; se non accolto, come è accaduto, ugualmente avrebbe visto un Draghi che non recede di un millimetro dalle sue posizioni e stimola rimpianti e impegni “pro futuro”, Già si ipotizza, infatti, che un risultato elettorale complesso e ambiguo, con la eventuale difficoltà della formazione di maggioranze nette, provocherebbe il ricorso a Draghi novello Lucio Quinzio Cincinnato, ricordando, però, la funzione di “dictator” del console romano. Per di più, si delinea, tra alcune forze politiche, una gara per avere la palma di portatori dell’ “agenda Draghi”, con ciò mostrandosi, tali forze, prive di una propria identità, incapaci di autonoma elaborazione programmatica, dimentiche che bisogna formulare proposte non per la fine di una legislatura, come necessariamente nell’impostazione draghiana, ma per i prossimi cinque anni, incapaci di cogliere l’autoassoggettamento a una condizione di subalternità intellettuale proprio nel momento in cui ci si dovrebbe presentare con un’immagine opposta per chiedere il voto agli elettori.

Agenda ( le cose da fare) Draghi, si ripete, senza neppure accompagnarla, come in Keynes, con il noto bilanciamento delle “ non agenda” (le cose da non fare). Ciò fa tornare alla mente quel che accadde alla caduta del Governo Monti: pure allora si parlava di un’Agenda. Si sa come poi finì. Si deve sperare che vi sia una resipiscenza, purtroppo anche nell’area che intende presentarsi come progressista e che, per ora, fa apparire lontana quella che si dovrebbe denominare, senza timori, “ sinistra”. Elaborazioni programmatiche subalterne e confuse o indeterminate relazioni tra partiti in funzione di generiche alleanze non sono di certo il modo migliore per realizzare una svolta rispetto all’oggi.

Angelo De Mattia

Dagonews il 27 luglio 2022.

La verità sulla caduta del governo Draghi sarà materia per gli appassionati del genere Crime. I pezzi del puzzle vengono composti e sparigliati per provare a dare agli eventi una loro coerenza. C’è un filone di pensiero che attribuisce l’inizio della fine del governo Draghi alla scissione dal M5s di Luigi Di Maio e dei suoi fedelissimi. Tolto un mattoncino di un governo che si reggeva con lo sputo, è venuto tutto giù. 

Uno strappo che ha inasprito i rapporti tra Conte e Draghi, poi definitivamente compromessi dalle “rivelazioni” del sociologo Domenico De Masi (“Draghi ha chiesto a Grillo di cacciare Conte perché inadeguato”).

La mancata fiducia del M5s al Decreto Aiuti ha spinto Lega e Forza Italia a chiedere un rimpasto di governo per regolare i conti. Salvini e Berlusconi non intendevano solo escludere i ministri cinquestelle dall’esecutivo (Patuanelli, Dadone, D’Incà), volevano soprattutto la testa del ministro dell’Interno Lamorgese e del ministro degli Esteri Di Maio. 

Draghi avrebbe dovuto dimettersi, Mattarella avrebbe dovuto iniziare le consultazioni e verificare l’esistenza di una nuova maggioranza, dare l’incarico a Draghi per formare un nuovo governo con tanto di giuramento. 

Mariopio si sarebbe trovato, controvoglia, a governare con un esecutivo sbilanciato a destra proprio nei mesi caldi della stesura della Legge di bilancio, a sei mesi dalla fine della legislatura. Un calcolo politico e di opportunità gli ha consigliato di adottare una linea intransigente verso i partiti (con ceffoni assestati a Lega e M5s), perfetta per farsi congedare.

Quel che è accaduto successivamente è noto. Scioglimento delle Camere e voto anticipato. Fu vera gloria per Salvini e Meloni? Era quel che realmente desideravano? I dubbi degli “addetti ai livori” sono molti. 

Un conto è invocare “elezioni subito” a beneficio di elettori e tifosi. Diverso è ritrovarsi al governo con lo scoglio immediato di una delicatissima Legge di bilancio da scrivere. E poi il voto anticipato ha bruciato ogni tentativo di rimonta della Lega su Fratelli d’Italia, togliendo a Salvini il ruolo di playmaker. Il Capitone sognava di andare al voto per essere subalterno alla Meloni? Ah, saperlo... 

Matteo Pucciarelli per "la Repubblica" il 31 luglio 2022.

«Non ci ho dormito diverse notti, sono state giornate di grande sofferenza, alla fine mi sono detto: prima del partito viene il bene del Paese», dice il ministro ai Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà. Dopo 12 anni lascia il M5S. 

Quando ha maturato la scelta?

«La sera del 20 luglio, dopo il non voto sulla fiducia. Una giornata di confronto tesissimo, dove ho assistito in presa diretta alla fine del governo Draghi. Quando sono rimasto solo nella sala del governo mi sono detto che dovevo lasciare il M5S, quella giornata non poteva rappresentare me e i miei valori. Mi sono confrontato con persone di cui ho fiducia, non volevo fosse una cosa a caldo. Alla fine mi sono sentito un estraneo nel mio stesso gruppo e ho preso la decisione».

Non c'è una correlazione con il mantenimento del tetto dei due mandati?

«Nessuna, avevo già scelto». 

Ha scritto che nel far cadere Draghi "hanno prevalso altre logiche". Quali?

«Da una parte una certa inesperienza politica, o ingenuità del M5S. Dall'altra nel centrodestra c'è stato grande cinismo. Ma sono convinto che oggi i cittadini, senza guardare la classica distinzione tra populismo, sovranismo, destra o sinistra, penseranno al senso di responsabilità. A chi lo ha avuto e a chi no. Tutte le persone che ho incontrato in questi giorni sono preoccupate per quel che può succedere a settembre o ottobre, volevano stabilità: parlo di amministratori locali, artigiani, piccola e media impresa. Tutti si domandano perché è caduto il governo e non lo comprendono».

Ripensando agli ultimi mesi: Conte voleva scientemente arrivare alla caduta del governo?

«Ci sono stati momenti convulsi, di sicuro le persone che gli stavano vicino non gli hanno fatto capire le conseguenze che ci sarebbero state». 

Con Conte avete avuto modo di parlare del suo addio?

«Abbiamo parlato un'ora questa mattina (ieri, ndr ). Lo ringrazio per il lavoro fatto nel Conte 2, in un periodo difficilissimo, però le nostre visioni non sono mai state allineate nell'ultima fase. Le mie critiche non l'ho mai nascoste, ho diffuso un documento per spiegare quel che avremmo perso se fosse caduto il governo. C'è rispetto e lealtà tra noi, ma aver innescato questa crisi è stato un errore molto grave». 

Se lei avesse lasciato il M5S prima del voto al Senato, il governo sarebbe durato di più?

«Ho votato la fiducia sul dl aiuti alla Camera, mentre nei mesi precedenti ho sempre cercato il dialogo tra le forze politiche, coinvolgendo anche le opposizioni, per cercare di diminuire le tensioni. Poi tutto è precipitato velocemente». 

Ma quindi aveva ragione Di Maio a fare la scissione, nel tentativo di offrire una copertura alla maggioranza?

«Per me ha sbagliato perché in quella maniera ha portato via dal M5S una buona parte delle persone che volevano dare continuità al governo. Si sono prodotte ulteriori difficoltà al nostro interno, è mancato un equilibrio». 

Si ritiene uno "zombie", come quelli descritti oggi da Grillo, contagiati dalla vecchia politica?

«Assolutamente no, ho lavorato per tre anni da ministro mettendo in secondo piano le mie necessità, la famiglia, per il bene del mio Paese cercando il dialogo e non l'individualismo, tentando di sminare ogni pericolo possibile nei vari passaggi parlamentari. Lavoro enorme di cui sono orgoglioso». 

Dicono che si candiderà col Pd. È vero?

«Ora sono concentrato sui lavori parlamentari della prossima settimana, l'ultima effettiva per Camera e Senato. Sul decreto aiuti ci sono ancora 14 miliardi stanziati. Abbiamo provvedimenti importanti da approvare, sia in Cdm che nelle capigruppo ho chiesto di poter concludere la legislatura in maniera ordinata, chiudendo più provvedimenti possibili e i decreti legislativi legati alle riforme necessarie per avere i fondi del Pnrr. Poi cercherò di poter comprendere il da farsi parlando con la mia famiglia. Penso occorra aiutare il Paese a non perdere il lavoro fatto, continuando ad avere una visione internazionale, di progresso e diritti civili. E per questo serve un impegno da parte delle persone».

Lei compreso quindi.

«Ripeto, per non consegnare il Paese alle destre serve l'impegno di tutti, il campo è quello delle forze progressiste». 

La fine del fronte progressista è responsabilità solo del M5S?

«C'è uno spartiacque preciso ed è rappresentato dal mancato voto di fiducia al Senato. Anche in quell'occasione ho fatto di tutto per evitare che ciò avvenisse. Le forze progressiste erano state chiare, l'orizzonte sarebbe stato il voto anticipato e il rischio di consegnare il Paese alle destre. Quindi rispetto a questa vicenda la responsabilità è molto precisa».

Senza il M5S però la vittoria del centrodestra sembra sicura, pensa che sia tutto irrecuperabile?

«In questo momento vedo molto complicato recuperare il rapporto che avevamo costruito in questi due anni, proprio perché tutto è stato messo in discussione senza un senso preciso e senza un punto di caduta da parte del M5S. Sono convinto che ci sarà una polarizzazione nel voto, tra chi credeva che Draghi dovesse andare avanti e chi ci ha portati al voto. Questo potrebbe cambiare radicalmente i sondaggi che danno per scontata la vittoria del centrodestra». 

Draghi un po’ Cesare, un po’ Scipione l’Africano ma di Bruto in Senato ce n’era più di uno. RAFFAELLA GHERARDI su Il Quotidiano del Sud il 26 Luglio 2022. 

In tempi in cui Putin è maestro di falsità storiche che spesso rimbalzano acriticamente sui media occidentali e a volte sono fatte proprie persino da alcuni storici di casa nostra, tracciando una ideale linea di continuità giustificazionistica fra glorie imperiali russe del passato e volontà di restaurarle nel presente, non deve stupire se di fronte al Draghicidio attuato in data 20 luglio nel Senato italiano qualche immagine della nostra storia torni alla memoria di quelle generazioni per le quali la storia è stata effettivamente materia primaria di insegnamento fin dal primo ciclo e senza sconti per quanto riguarda un passato profondo e cronologicamente molto lontano.

Ciò non certo ai fini di una impossibile comparazione con quest’ultimo ma semplicemente nella convinzione che passato-presente-futuro abbiano effettivamente qualcosa da dirsi. Magari qualche immagine, perché no, può anzi tornare alla ribalta, tanto per pensare un po’… E così, senza nessuna velleità di improponibili paragoni fra grandi figure del passato che “in quel di Roma” non hanno ricevuto, per usare un eufemismo, un grande trattamento da parte del Senato, alcuni commentatori hanno richiamato la sorte cruenta riservata a Giulio Cesare nel Senato della Repubblica romana più di 2000 anni fa.

Gli stessi hanno però avuto cura di sottolineare immediatamente sia l’improponibilità di un confronto fra la figura di Cesare e quella di Draghi sia, innanzitutto, di un paragone anche solo ideal-tipico fra coloro che avevano assassinato il primo richiamandosi alla difesa dei valori repubblicani e quelli che oggi, in nome di interessi sondaggistici e di bottega dei loro partiti e delle loro trame, sono ben lontani dall’ idea di un interesse nazionale che vada oltre il proprio specifico e settoriale campo di battaglia nell’aver determinato la caduta del secondo.

Del resto nessun novello Bruto si è levato nelle schiere della sua maggioranza di Governo che ne hanno decretato la fine a rivendicare la responsabilità delle loro scelte di fronte alla opinione pubblica nazionale: hanno tutti preferito giocare a scarica barile gli uni nei confronti degli altri, ben lontani dal volersi intestare il Draghicidio, davanti all’incommentabile “spettacolo” dato da ultimo e dinanzi agli occhi di tutti il 20 luglio, quando si è assistito al balletto senatorio di chi usciva dall’Aula per non votare la fiducia e chi, pur presente, dichiarava di non volerla votare, senza nemmeno il coraggio di dire “no” e metterci la faccia. Perché ritornare ancora su quanto accaduto la settimana scorsa e che è stato oggetto di una valanga di commenti sul piano interno e internazionale che hanno giustamente rilevato l’irragionevolezza e la vergogna di cui si è coperta larghissima parte della classe politico/partitica italiana, una delle peggiori dell’intera storia repubblicana?

Risposta: perché ancora oggi gli immarcescibili autori di quanto è accaduto si fanno in quattro per far rimbalzare verso altri le proprie responsabilità e addirittura sullo stesso Draghi. Inutile ribadire a tutti costoro che il discorso del Presidente del Consiglio in Senato è stato un vero e proprio manifesto di Politica con la “P” maiuscola: quella che non nasconde i problemi del Paese interni e internazionali e che chiama a raccolta la responsabilità di tutti. C’è addirittura chi non ha pudore di parlare di personale “stanchezza” di Draghi, che non avrebbe aspettato altro che gettare la spugna…..Ma per Bacco, lo avete ascoltato quel discorso? – verrebbe da commentare ai cittadini italiani, (quelli che hanno veramente a cuore le sorti del proprio Paese e non la politica dei politicanti anche se siedono negli scranni parlamentari, sono leader di partiti o i commenti di certi media che fino a ieri trovavano assai comodo giocare al tiro al bersaglio “senza se e senza ma” contro Draghi e che ora si ritrovano improvvisamente orfani del proprio nemico/bersaglio preferito)?

Vi sembra quello pronunciato solo pochi giorni fa davanti al Senato della Repubblica un discorso in ritirata da parte di uno che non vede l’ora di gettare alle ortiche il proprio compito? Come si fa a far torto alla intelligenza della opinione pubblica e alla dignità personale/istituzionale di Draghi con affermazioni di questo tipo, nella presunzione di poter addirittura risalire a una sua recondita e non apertamente dichiarata volontà? A partire da quella data fatidica del 20 luglio e di ciò che è successo nelle dichiarazioni di molti a seguire, lo stesso Draghi avrebbe tutte le ragioni di richiamare rivisitandola per sé la frase del Sommo Poeta: “e il modo ancor m’offende”.

Quanto a illustri personaggi della storia romana, ben consapevoli delle inevitabili forzature di ogni richiamo a epoche tanto lontane, ma di nuovo per cercare di ragionare un po’ semplicemente a ruota libera, potremmo forse rievocare la figura di Scipione l’Africano, l’eroe della seconda guerra punica e della piena affermazione del trionfo di Roma su Cartagine, eroe che viene richiamato anche nella parte iniziale del nostro inno nazionale nel segno dell’Unità dell’Italia? Egli si ritirò in seguito in volontario esilio nella sua villa di Liternum, dopo la intensa campagna denigratoria che gli era stata mossa dalla classe politica del tempo; a lui viene attribuita la celebre frase: “Ingrata patria, non avrai nemmeno le mie ossa!”

Forse lo stesso Draghi si stupirebbe di veder richiamata a suo proposito (ma si tratta davvero di giocare un po’ con la storia e trarne qualche suggestione) la figura di Scipione che evoca immediatamente guerre condotte contro i nemici esterni e vinte sui cruenti terreni di numerose battaglie per affermare pienamente la potenza di Roma… Eppure, mutatis mutandis e non certo nella prospettiva appena richiamata della guerra, nel segno di Draghi l’Italia ha davvero riconquistato inusitata autorevolezza sul piano internazionale con ricadute niente affatto secondarie anche sotto il profilo interno, elementi entrambi che larga parte dei cittadini italiani gli ha riconosciuto e gli riconosce.

Sono cittadini che non sono per nulla disposti a dimenticare sotto le sgangherate sferzate mediatiche di leader di partito che già ieri scaldavano i muscoli in vista delle elezioni e che ora proprio non sentono più alcun ritegno anche nel negare l’evidenza, dando fiato a mirabolanti promesse da venditori di fumo, in spregio totale di una opinione pubblica matura. Per queste ragioni immaginando il grido eventuale di Draghi contro “l’ingrata patria” di scipioniana memoria, sarebbe sicuramente da intendersi indirizzato soltanto contro una certa classe politica e non contro l’Italia reale, la quale ultima non ha sede e non si vede per nulla rappresentata nei palazzi di una politica che tuttora continua a voler mostrare il peggio di sé.

Whatever it takes, dieci anni dopo. László Andor, David Rinaldi su La Stampa il 25 luglio 2022.

Era il 26 Luglio 2012 quando Mario Draghi in una conferenza a Londra di fronte ad un pubblico di investitori pronunciò le famose tre parole che hanno cambiato il corso d'azione della politica monetaria in Europa e creato un’ancora di salvezza per diversi paesi nei difficili momenti della crisi dell’eurozona. Dieci anni dopo, la fine di Luglio gli ha riservato un trattamento molto diverso. Oltre ad esser stato sfiduciato da tre partiti della sua coalizione di governo (5SM, Lega e Forza Italia), pure la nuova leadership della BCE lo ha figurativamente mandato in pensione cambiando drasticamente quelle policy su cui Draghi aveva costruito la politica monetaria d’Europa. Finiscono infatti sia il quantitative easing che il regime a tassi negativi, con la BCE che ha aumentato il tasso di interesse di mezzo punto. Dieci anni dopo, l'Europa è appena uscita da due anni di una devastante pandemia, ha grandi ripercussioni dovute all’invasione russa in Ucraina in settori chiave come l'energia, la difesa, i trasporti e l’industria alimentare. Un'esperienza di pre-morte per la moneta unica «Nell'ambito del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l'euro. E credetemi, basterà», disse dieci anni fa Mario Draghi. Per comprendere il vero significato di quest’affermazione e della svolta che ha comportato, occorre comprendere che la moneta unica era in serio pericolo di vita a causa sia di una fallace struttura dell’unione economica e monetaria, sia di decisioni sbagliate nella gestione della crisi. Nei mercati finanziari, c'erano state speculazioni sulla possibile disintegrazione della moneta unica e sul default di diversi paesi europei. I tassi di interesse sui titoli di Stato avevano raggiunto circa il 7% in Italia, Francia e Spagna, il 15% in Irlanda, Portogallo e Cipro e avevano superato il 35% in Grecia. L'UE non fu in grado di affrontare la crisi da sola e l'intervento del Fondo Monetario Internazionale e dei conseguenti programmi di austerità spinsero l'eurozona nel circolo vizioso della recessione, e creando malcontento ed euroscetticismo su larga scala. All'inizio, per molti, sembrava una "crisi greca", ma dopo il crollo del settore bancario in Irlanda e Spagna, dopo il quasi fallimento del Portogallo divenne chiaro che si trattava di una crisi sistemica. Fu in quel periodo che partirono i lavori per il Rapporto dei Quattro Presidenti (Consiglio, Commissione, Eurogroup e BCE), un documento politico che ha rappresentato un momento di verità, con assai poche ambiguità riguardo alla vulnerabilità della nostra unione monetaria; un’agenda politica di trasformazione della governance europea iniziata, ma mai portata a termine. Chiedere l’impossibile alla politica monetaria La famosa frase di Draghi fu sufficiente per tranquillizzare i mercati e segnalare agli speculatori che era inutile scommettere sulla stabilità dell'eurozona; ma non s ideve pensare che fossero solo parole. In quell’estate di dieci anni fa, la BCE sviluppò piani concreti per acquistare nei mercati secondari le obbligazioni dei governi nazionali attraverso il rogramma Outright Monetary Transactions (OMT). A differenza del precedente Securities Market Programme, Draghi aveva delineato un supporto potenzialmente senza limiti nè di tempo nè di dimensioni; un programma inteso a «salvaguardare un'adeguata trasmissione della politica monetaria e l'unicità della politica monetaria», afferma la BCE. Altre due politiche attuate prima e dopo il momento del "whatever it takes" la dicono lunga sulla capacità di Draghi e della BCE di sostanziare un obiettivo chiaro - preservare l'euro - con soluzioni solide e innovative. Una è il Lont Term Refinancing Operations (LTRO) che ha preso il via all'inizio del 2012 offrendo prestiti treiennali all’1% alle banche che hanno bisogno di credito, con governi e cittadini che ne hanno beneficiato indirettamente grazie ad una maggiore capacità di prestito delle banche. L’altra è il quantitative easing che dal 2015 al 2021 ha raggiunto quasi 2950 miliardi di euro immessi nell’economia. Tutto questo per ricordare che la politica monetaria ha dovuto assumersi responsabilità enormi in quest’ultima decade, soprattutto per sopperire alla mancanza di una vera politica fiscale comune europea. Draghi ha dovuto stirare al massimo i poteri della BCE per salvare l'euro, ma ha anche dimostrato che la politica monetaria non può essere l'unico strumento di politica macroeconomica in Europa, soprattutto in tempi di forte deflazione. Aspettando un upgrade della governance economica Nonostante gli insegnamenti della crisi del 2012, molto poco è cambiato nella governance economica dell'UE, in particolare riguardo alle politiche fiscali. Ora esiste una linea di credito per evitare il default, il MES, ma ancora non è parte del diritto comunitario. Esiste il NextGenEU per rilanciare la ripresa post-COVID-19, ma trattasi di uno strumento di natura temporanea. Stesso discorso per il SURE, che ha contribuito a sostenere i redditi nel culmine della crisi ma non è diventato un meccanismo automatico per proteggere partite iva e dipendenti in caso di ulteriori shock. Finora non è stata creata una capacità di bilancio comune per l'area dell'euro. Abbiamo assistito alla creazione di un'Unione Bancaria, la cui importanza non va sottovalutata, ma anche lì, solo due terzi del piano iniziale sono stati attuati e ci sono ancora barriere politiche per la realizzazione di una garanzia europea dei depositi per i piccoli risparmiatori. Quando la pandemia di Covid-19 ha colpito, l'UE ha rapidamente compiuto due passi importanti per il consolidamento dell'UEM. Ha accantonato l'insieme delle regole di bilancio grazie alla clausola di salvaguardia del Patto di stabilità e crescita e ha introdotto prestiti congiunti per il dispositivo per la ripresa e la resilienza che ha quasi raddoppiato la capacità di bilancio dell'UE e costretto gli Stati membri a guardare alla propria strategia di sviluppo e investimento in modo sostenibile. Un commento praticamente unamime alla gestione della crisi pandemica, rispetto a quella del 2010-2012, è che la risposta dell’UE è stata rapida e solida. E’ indubbio che l'UE abbia imbeccato la via del recovery in appena due mesi ma quello che è stato creato è temporaneo, mentre l'UEM avrebbe bisogno di soluzioni permanente per eliminare definitivamente la vulnerabilità dell’unione monetaria. In secondo luogo, la portata rimane troppo piccola. Il NextGenEU è un inizio, ma per rispondere a tutte le aspettative e ai bisogni (difesa, cibo, energia, sicurezza, clima, digitale, posti di lavoro) si dovrebbero cosiderare capacità molto maggiori, sempre che si considerino questi bisogni come come beni pubblici europei. In terzo luogo, sono necessari nuovi strumenti comuni per dotare l'UEM e l'UE di un'adeguata funzione anticiclica, al di là degli strumenti per l’investimento di medio e lungo termine. La Commissione Europea è attiva al riguardo ma se i leader europei a livello del Consiglio non capiscono che c’è da agire ora, prima della prossima crisi, la governance economica europea rimarrà sempre più un agglomerato di toppe e misure temporanee, invece di una coesa struttura, solida anche durante le recessioni. Draghi out, per l'Italia e per l'Europa Quando nel 2021, nel mezzo della pandemia l'Italia si è trovata in una grave crisi politica interna, con il suo passato da leader europeo Mario Draghi è stato una scelta quasi naturale per guidare un governo di unità nazionale fino alla fine della legislatura. La sua missione era chiara e temporanea. Con la legge di bilancio da emanare in autunno e 55 obiettivi politici da raggiungere entro dicembre per mantenere l'accesso all’RRF, la mossa del 5SM sembra quantomeno irresponsabile. Mentre è inutile cercare di spiegare perché il 5SM, seguito da Lega e Forza Italia, non ha potuto aspettare altri 6-8 mesi per andare ad elezioni, ci preme sottolineare che la caduta di questo governo va anche a scapito di una potenziale riforma dell'UEM. Senza Draghi al timone, l'Italia e gli altri capi di stato pro-integrazione troveranno più difficile convincere i cosiddetti frugali della necessità di lavorare insieme verso una capacità fiscale comune, verso misure anticicliche europee e altre politiche che potrebbero prevenire le divergenze. All'Europa mancherà una voce forte e consapevole delle debolezze dell'attuale quadro di governance economica. Draghi avrebbe potuto aiutare a ridisegnare il quadro fiscale dopo aver magistralmente reinterpretato quello monetario, partendo da tre semplici parole a cui ha dato molto significato. (László Andor – già Commissario europeo per l'occupazione, gli affari sociali e l'integrazione, David Rinaldi – Director of Studies and Policy Foundation for european progressive studies)

Studente scrive la tesina su Mario Draghi, il premier gli risponde con una lettera. Giampiero Casoni il 02/09/2022 su Notizie.it.

Scrive la tesina su Mario Draghi che gli risponde: "Non so se merito simili elogi e paragoni ma spero che la mia storia possa esserti di ispirazione" 

Può accadere anche questo quando Palazzo Chigi non è una “fortezza” lontana dai cittadini, che uno studente che scrive la tesina su Mario Draghi cioè si veda rispondere con una lettera. Il giovane Alessio ha pubblicato non senza orgoglio lo scritto del premier sui social, scritto che ha ricevuto mentre era al mare in vacanza.

Ecco cosa ha scritto lo studente sul suo account Twitter annunciando che Mario Draghi in persona gli ha risposto: “Ieri mattina, al mare, ho ricevuto la risposta all’invio della mia tesina da parte del presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi”. 

Studente scrive la tesina su Mario Draghi

E ancora: “La mia tesina parlava della sua vita. Grazie per la risposta, ora sono contentissimo”. Di certo quella lettera ricevuta con l’intestazione di Palazzo Chigi e la firma del presidente del Consiglio Mario Draghi ha riempito di comprensibile gioia Alessio.

Ma cosa ha scritto a sua volta Mario Draghi al giovane studente che lo ha usato come argomento di analisi? 

“Caro Alessio, spero di esserti di ispirazione”

Ecco il testo: “Caro Alessio, mi ha molto colpito che tu abbia scelto di dedicarmi la tesina e ti ringrazio di averla condivisa. Non so se merito simili elogi o paragoni tanto illustri, ma spero che la mia storia possa esserti di ispirazione”.

E ancora: “In ogni fase della mia vita ho sempre considerato fondamentale impegnarmi nello studio e nel lavoro. I risultati che ho raggiunto sono stati anche merito degli straordinari maestri che ho avuto. Ne hai ricordati alcuni, come Federico Caffè e Franco Modigliani, ed è bello che un ragazzo come te li conosca”.

La risposta del Presidente del Consiglio ad Alessio. Studente gli dedica la tesi, Draghi lo ringrazia nella lettera: “Mi hai colpito, spero di essere di ispirazione”. Redazione su Il Riformista il 2 Settembre 2022 

Il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha scritto a uno studente che gli aveva dedicato una tesina. “Ciao Alessio, mi ha colpito che tu abbia scelto di dedicarmi la tesina”, ha scritto il premier italiano nella missiva che il giovane ha pubblicato su Twitter. Lettera spedita su carta intestata della Presidenza del Consiglio dei ministri. Il ragazzo è presumibilmente alla fine del ciclo delle scuole medie, si definisce appassionato di politica e attualità.

“Ieri mattina, al mare, ho ricevuto la risposta all’invio della mia tesina da parte del presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi. La mia tesina parlava della sua vita. Grazie per la risposta… Ora sono contentissimo”, ha scritto sui social Alessio, questo il nome dell’adolescente. Draghi lo ha voluto ringraziare personalmente per la dedica. “Non so se merito simili elogi o paragoni tanto illustri, ma spero che la mia storia possa essere d’ispirazione. In ogni fase della mia vita, ho sempre considerato fondamentale impegnarmi nello studio e nel lavoro”.

L’ex presidente della Banca Centrale Europea e Presidente del Consiglio uscente si è congratulato e ha ringraziato lo studente per i riferimenti citati all’interno del testo. “I risultati che ho raggiunto sono stati anche merito degli straordinari maestri che ho avuto. Ne hai ricordati alcuni, come Federico Caffè e Franco Modigliani, ed è bello che un ragazzo come te li conosca”.

Draghi resta tra i leader politici più apprezzati, anche se ha annunciato di non voler proseguire con la politica, dopo la caduta del suo governo, e nonostante diversi partiti stiano agitando in continuazione la cosiddetta “agenda Draghi” e stiano continuando a proporlo come Presidente del Consiglio anche dopo il voto alle politiche del prossimo 25 settembre. Il gradimento degli italiani per Draghi, secondo l’ultimo sondaggio Ipsos, e salito nelle ultime settimane, fino al 67%. E quindi di nuovo al livello dell’insediamento nei primi mesi del 2021.

Il premier risulta la figura più apprezzata anche dagli intervistati dal sondaggio Swg per Italian Tech, che ha interpellato giovani dai 18 ai 24 anni. Draghi ha incassato applausi e almeno due standing ovation anche all’ultimo meeting di Rimini. “Sognare va bene, ma la cosa più importante è ciò che fai in questo esatto momento. Non è importante ciò che vuoi diventare, ma ciò che sei in quel momento. Se fai bene le cose, sarai più libero di scegliere”, aveva detto in un incontro con i bambini di Save the Children a Torre Maura.

L’impressione è che non solo Alessio, il ragazzo della tesi, sentirà la mancanza di Draghi a Palazzo Chigi. “Un caro saluto, con affettuoso augurio di ogni successo”, il congedo del premier nella lettera al ragazzino.

"Draghi ha fatto cadere Draghi". Travaglio nella bufera. Per il direttore de il Fatto Quotidiano sarebbe stato Mario Draghi a fare in modo che il suo governo cadesse. Ma sui social alcuni utenti in totale dissenso lo sommergono di insulti. Federico Garau il 31 agosto su Il Giornale.

Bufera su Marco Travaglio per le sue ultime dichiarazioni a CartaBianca. Invitato a commentare la situazione politica attuale e la campagna elettorale, il direttore de il Fatto Quotidiano torna a parlare della caduta del governo quando Bianca Berlinguer gli chiede quali siano state le cause della fine dell' esecutivo.

"Draghi ha fatto cadere il governo Draghi"

"Io credo che il governo sia caduto soprattutto perché Draghi voleva scappare da quando tentò di fuggire al Quirinale a gennaio", attacca il giornalista. "Draghi ha tentato la fuga al Quirinale a gennaio, gli è andata male ed è rimasto lì. Sperava di andarsene a febbraio, e gli è scoppiata la guerra in mano. Quindi ha trovato il modo di andarsene a luglio quando, come tutti ricordiamo (anche se nessuno lo aveva notato al momento) chiese la fiducia mentre insultava i partiti che avrebbero dovuto dargliela. Stava dicendo loro, implicitamente, non datemela" aggiunge.

Insomma, un giudizio davvero molto duro quello di Travaglio, che sembra scaricare tutto addosso all'ex presidente della Bce. Le dichiarazioni del giornalista, però, hanno provocato una decisa reazione sui social, e non sono mancati insulti e messaggi al vetriolo.

La bufera su Twitter

Oltre alle risate, alle gif animate e alle faccine che esprimono incredulità, diversi utenti non hanno mancato di esprimere il proprio parere nei confronti del giornalista de Il Fatto. "Fa schifo. Sfacciataggine. A schiaffi", è uno dei primi commenti sotto al video di CartaBianca. E ancora: "Ti stimo così tanto che ti applaudirei per ore. Con la tua testa in mezzo. E due mattoni in mano".

C'è chi poi prende di mira direttamente il Movimento 5Stelle: "I 5s sanno solo dire questo". “Ma Travaglio ha cominciato pure a bere?”, attacca qualcuno. “È un disonesto, intellettualmente parlando, e lo dimostra ogni volta che apre bocca", commenta un altro.

"Questa distorsione della realtà (o fake news) è necessaria a chi ha fatto cadere Draghi, perché l'opinione pubblica non ha affatto gradito e nessuno vuole apparire responsabile. Ma le cose sono avvenute alla luce del sole e non erano difficili da interpretare" è il lungo post di un utente.

"O il travagliato è andato di melone, oppure testa il ritardo cognitivo delle sue cheerleaders", afferma un altro. "Un giorno la scienza scoprirà cos'ha colpito Travaglio negli ultimi anni" rincara la dose un utente.

E gli insulti proseguono. "Travaglio, di nome e di fatto....una garanzia" è il commento di qualcuno. "Travaglio cova invidia, odio e rancore, che riversa a valanghe su poveri malcapitati di turno, oltre ad essere filorusso e a diffondere bufale. Si può annoverare tra i personaggi peggiori dei nostri tempi" dice un altro. E c'è chi addirittura invoca il Tso.

Roberto Gressi per corriere.it il 16 settembre 2022.

Quello che è successo, almeno a spanne, lo sappiamo ormai più o meno tutti. Il governo Draghi è caduto, siamo nel pieno della prima campagna elettorale estiva della storia repubblicana, epilogo non del tutto imprevedibile di un pentolone dove bollivano furbizie, ambizioni, sgambetti, voglia di menare le mani, tentativi di alleanze e divorzi brutali, che si sono moltiplicati al seguito della pirotecnica partita per scegliere l’inquilino del Quirinale, conclusa con la riconferma di Sergio Mattarella. 

Ma come e perché tutto questo sia avvenuto si perde e si confonde, soprattutto a pochi passi dal voto, nell’abilità della politica nel non lasciare tracce, o per lo meno nel cancellarle. Il ruolo di Arianna in questo dedalo di retroscena se lo prende Tommaso Labate, giornalista avvezzo a non farsi imbrogliare, che sbarca in libreria con Ultima fermata, per l’editrice Solferino.

La tesi suggestiva che anima il racconto dei sette mesi che vanno dalla conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio fino alle dimissioni di Mario Draghi è che non è stata una concatenazione rapida di sfortunati eventi a portare alla caduta del governo più apprezzato dagli italiani, per lo meno dell’intera legislatura. Ma uno studiato logoramento, iniziato proprio con la battaglia per il Quirinale. Perché la scelta finale, largamente condivisa, ha sì segnato un’intesa importante, ma non ha lenito le ferite di quei giorni, che non si sono mai rimarginate.

E in effetti non è facile credere che l’intero castello di solida credibilità, interna e internazionale, sia crollato per quello che ha detto a «Un giorno da pecora» di Rai Radio 1, alla fine di giugno, il sociologo Domenico De Masi. Aveva raccontato di un suo colloquio con Beppe Grillo, nel quale il garante dei Cinque Stelle parlava delle sue telefonate con il premier, che si lamentava di Giuseppe Conte e chiedeva che fosse sollevato dal suo ruolo di timoniere del Movimento. 

Smentite, tensioni, ruvide telefonate pacificatrici, che probabilmente avrebbero alla fine sortito l’effetto di stemperare gli animi e di archiviare l’incidente, se non ci fosse stato un pregresso di asprezze legato ai giorni del Colle. Né è facile digerire che l’intera esperienza dell’unità nazionale, con il Pnrr davanti e con il Covid non ancora alle spalle, possa essere stata spazzata via per l’incapacità di trovare un accordo sulla costruzione del termovalorizzatore destinato a smaltire i rifiuti di Roma. E resta un mistero senza risposta la riunione raccontata da Labate, convocata da Berlusconi ad Arcore ben prima della crisi. Voleva preparare al volo otto spot di due minuti l’uno dal sapore elettorale e destinati al web. Per lanciare la proposta di pensioni minime a mille euro e promettere di piantare un milione di alberi.

Eccola allora la storia della guerra sotterranea e senza quartiere, ricca di retroscena, dettagli e curiosità, che si è consumata durante la corsa al Colle. Ha fatto fibrillare i Cinque Stelle ben prima della scissione ad opera del ministro degli Esteri. Luigi Di Maio si batteva per Mario Draghi e Conte non ne voleva sapere. Conte di accordava con Matteo Salvini per lanciare Elisabetta Belloni e Di Maio, insieme a Matteo Renzi, era il primo che si metteva di traverso. Enrico Letta cercava di convincere il leader grillino su una strada comune e lui faceva emergere non solo la sua contrarietà a una promozione del premier, ma tradiva anche una certa irritazione per quella che interpretava come una linea egemonica del Pd nei suoi confronti. 

Fino a un aperitivo a tre in casa di Roberto Speranza, dove alla fine Conte diceva a chiare lettere a Letta: «Noi Draghi non lo votiamo». Una progressiva e reciproca presa di distanza, nel merito ma soprattutto nei toni, che ha gettato il seme della caduta del governo, e amplificata poco dopo dall’invasione dell’Ucraina, con Letta e Conte su fronti talmente divergenti da rendere non più proponibile l’idea del campo largo.

La partita del Quirinale ha logorato pesantemente anche i rapporti nel centrodestra, con i franchi tiratori che impallinano Elisabetta Casellati, con Salvini che rifiuta l’intesa su Pier Ferdinando Casini, con lo stesso leader della Lega che converge su Mattarella rompendo con Giorgia Meloni . «Il centrodestra non esiste più», dirà la presidente di Fratelli d’Italia. Ma se l’ultimo atto della crisi di governo ha l’effetto di accrescere le differenze nell’area progressista, è invece cemento per rinsaldare l’alleanza avversaria. La scelta di Silvio Berlusconi e di Matteo Salvini di sfiduciare di fatto Draghi e di dare a Giorgia Meloni le tanto desiderate elezioni anticipate sana miracolosamente tutte le ferite, almeno fino al voto. 

Tommaso Labate è uno di quei giornalisti (tanti) che non lasciano mai a piedi il Corriere. Se una notizia arriva tardi, se è difficile da verificare, non si tira mai indietro, anche se sta su un treno o magari in un giorno di vacanza. Ultima fermata segue quello stile, con la ricerca puntigliosa e non faziosa di come sono andate veramente le cose, con un occhio attento ai particolari, con una scrittura di facile lettura anche nella complessità degli argomenti e nella concatenazione frenetica dei fatti. Il libro è anche un documento, che cuce una storia ancora calda e sensibile della nostra vicenda politica, e aiuta a capire non solo quello che è successo, ma anche quello che deve ancora succedere.

"Ha ispirato una rinnovata fiducia globale nell'Italia". Draghi statista dell’anno, gli Usa incoronano il premier: “Voce potente”, schiaffo ai politici italiani. Redazione su Il Riformista il 20 Settembre 2022 

Gli Stati Uniti incoronano Mario Draghi. L’ex premier – in smoking, il dress code richiesto per l’occasione – è stato premiato a New York come statista dell’anno. Un messaggio chiaro ai politici del Bel Paese, protagonisti di anni di decisioni scellerate e incomprensibili, culminate con la recente caduta del governo guidato dall’ex presidente della Bce e il ritorno al voto che domenica 25 settembre vedrà molto probabilmente trionfare l’astensione.

Alla 57esima edizione dell’Annual Awards Dinner della ‘Appeal of Conscience Foundation’, la fondazione che gli conferisce il premio World Statesman (statista dell’anno), che prima di lui hanno ricevuto diversi capi di Stato e di governo, da Gorbaciov ad Angela Merkel fino a Shinzo Abe, Draghi raccoglie gli elogi di tutti: dal presidente Joe Biden all’ex Segretario di Stato americano Henry Kissinger, oggi 99enne, arrivato a sorpresa (“Il suo coraggio e la sua visione faranno sì che resterà con noi a lungo”).

Mario Draghi “ha ispirato una rinnovata fiducia globale nell’Italia“. E’ uno dei passaggio dell’intervento di Stephen Schwarzman, presidente e ceo del Blackstone Group, in occasione della serata di gala. In un messaggio in video conferenza, perché a  Londra per i funerali della regina Elisabetta, Biden ha sottolineato: “Mi congratulo con il mio amico il primo ministro Mario Draghi per aver vinto il World Statesman Award 2022 e per il suo lavoro nel promuovere i diritti umani in tutto il mondo”. Draghi “è stato una voce potente nel promuovere la tolleranza e la giustizia e lo ringrazio per la sua guida”.

Nel corso del suo intervento, il premier italiano, che oggi interverrà all’Assemblea delle Nazioni Unite, ha ribadito: “Quando tracciamo una linea rossa, dobbiamo farla rispettare. Quando facciamo un impegno, dobbiamo onorarlo. Le autocrazie prosperano sfruttando la nostra esitazione. Dovremmo evitare l’ambiguità, per non pentirsene in seguito”.

Draghi rimarca l'”importanza del dialogo”, “al centro” della sua “vita professionale come economista e come decisore politico”. “Parlare non è solo un obbligo morale, è un dovere civico. A coloro che chiedono il silenzio, sottomissione e obbedienza dobbiamo opporre il potere della parola e delle azioni. Il mondo oggi ha bisogno di coraggio, chiarezza, amore e speranza“. E ricorda che “solo la cooperazione globale può aiutare a risolvere i problemi globali”. Eppure, riconosce Draghi, oggi il mondo si trova a fronteggiare una sfida enorme. “L’invasione russa dell’Ucraina rischia di inaugurare una nuova era di polarizzazione, che non vedevamo dalla fine della Guerra Fredda“. Per questo, “la domanda su come affrontiamo le autocrazie definirà la nostra capacità di plasmare il nostro futuro comune per molti anni a venire”.

Poi l’auspicio: “Spero che ci sia un futuro in cui la Russia decida di tornare alle norme che ha sottoscritto nel 1945“. 

Da open.online il 20 settembre 2022.

«Ho sempre avuto fiducia in Mario Draghi e nella sua straordinaria capacità di analisi intellettuale». Così l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, oggi 99enne, ha voluto complimentarsi con il premier italiano uscente. La scorsa notte, Draghi ha ricevuto a New York il premio di “Statista dell’anno”. Tra i complimenti più calorosi ricevuti dal premier ci sono senz’altro le parole di Kissinger, secondo cui Draghi «ha sempre dimostrato capacità, coraggio e visione, analizzando le questioni che gli si ponevano con il giusto approccio». 

L’ex segretario di Stato ha poi ricordato il loro primo incontro in aereo: «Era un volo in cui non si serviva cibo – ha spiegato Kissinger -. Io mi ero portato dei panini e ho finito per condividerli proprio con Mario Draghi». 

L’ex segretario di Stato americano ha aggiunto che «il suo coraggio e la sua visione faranno sì che resterà con noi a lungo», mentre Draghi, seduto accanto a lui, gli faceva segno con la mano di fermarsi. Prima di accettare il World Statesman Award, il premier italiano ha voluto ringraziare Kissinger per le parole d’affetto. «Sono davvero commosso per tutto quello che è stato detto questa sera – ha detto Draghi dal palco – In particolare, le parole del dottor Kissinger. Mi commuove il fatto che abbia voluto essere qui. La sua presenza è un immenso regalo per me».

Gabriele Carrer per formiche.net il 20 settembre 2022.

“La nostra amicizia è cominciata trent’anni fa”, quando “viaggiavamo assieme sull’aereo di un amico comune che non teneva cibo sull’aereo e io, conoscendolo, portavo dei panini da condividere con il signor [Mario] Draghi”. Che poi poi precisa: esattamente 30 anni fa, cioè il 1992, anno che ha fatto la storia d’Italia. 

Un aneddoto che a molti dei presenti ha fatto pensare all’avvocato Gianni Agnelli e agli anni Novanta, quando Draghi era direttore generale del Tesoro. Così il quasi centenario Henry Kissinger, presentatosi a sorpresa all’evento, ha iniziato la sua laudatio in occasione della consegna al presidente del Consiglio italiano del “World Statesman Award 2022” della Appeal of Conscience Foundation.

Il premio gli è stato assegnato dall’organizzazione guidata dal potente rabbino Arthur Schneier “per la sua multiforme leadership nella finanza e nel servizio ai cittadini di cui hanno beneficiato l’Italia e l’Unione Europea e ha aiutato la cooperazione internazionale”. “Draghi è stato una voce potente nella promozione della tolleranza e della giustizia, lo ringrazio per la sua leadership”, ha detto Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, in un messaggio inviato all’evento, sottolineando che il presidente italiano – un “amico” – “ha ricevuto il premio “per il suo lavoro per fare avanzare i diritti umani nel mondo”.

Durante la serata la fondazione ha premiato anche Jean-Paul Agon, presidente di l’Oreal Group, e Robert Kraft, fondatore di Kraft Group. Il rabbino Schneier, ricordando come la missione della fondazione abbia le radici nella sua esperienza di sopravvissuto all’Olocausto, ha definito Draghi “un leader esemplare”, con “grandi capacità di visione, che unisce e possiede le competenze finanziarie e politiche necessarie per affrontare le complesse questioni economiche, umanitarie e geopolitiche che il mondo ha davanti”.

Dall’ex segretario di Stato americano Kissinger (la sua “capacità analitica, il coraggio e la visione” ci”dicono che continuerà a essere con noi ancora per molto tempo”) all’amministratore delegato di Blackstone Stephen Schwarzman (“Ha ispirato una rinnovata fiducia globale nell’Italia”) è stato un coro unanime di amicizia, stima e sostegno a Draghi, in viaggio a New York per l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Tutti con l’auspicio – dichiarato o meno – che il presidente del Consiglio continui ad avere un ruolo per l’Italia e per l’Europa.

Presenti in sala Mariangela Zappia, ambasciatrice d’Italia negli Stati Uniti, e il cardinal Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede. Ma anche Maurice Lévy, fondatore di Publicis Group, Brian Thomas Moynihan, amministratore delegato di Bank of America, l’ambasciatore John Negroponte, ex direttore dell’Intelligence nazionale e vicesegretario di Stato americano, John Elkann, amministratore delegato di Exor e nipote prediletto di Gianni Agnelli, oltre a molte personalità del mondo economico e finanziario di New York.

«L’Italia è forte». L’ultima conferenza stampa di Draghi è una lezione a questa politica cialtrona. Mario Lavia su L'Inkiesta il 17 settembre 2022.

Il presidente del Consiglio ha fatto capire con la sua solita sobrietà le incongruenze di Conte, Salvini e Meloni. Ha escluso il secondo mandato a Palazzo Chigi e quel no rischia di pesare. Ma anche Mattarella aveva detto lo stesso prima di essere rieletto

Se è stata la sua ultima conferenza stampa da premier la si ricorderà come la lezione finale di un presidente del Consiglio che fino all’ultimo ha tenuto alta la dignità di un’alta funzione istituzionale oltre che la sua personale. C’è lo stile di Mario Draghi, fatto di ragione e passione assieme, senza mai debordare: ed è qui la prima, evidente differenza con i leader dei partiti cui spesso e volentieri sfugge la frizione, chi più chi meno. 

Nel giorno dell’ennesima manovra per far fronte al carovita (14 miliardi) ma soprattutto nelle ore dell’immane disastro delle Marche, dove poi è giunto, Draghi ha esibito con stile l’ostentato tirarsi fuori dalla contesa elettorale in corso, persino riprendendo con ironia forse non capìta l’affermazione di una collega (ci scusi se ci è sfuggito il nome) che aveva detto che lui «è sceso dal cielo»: «Come ha detto lei, sono sceso dal cielo e quindi non posso dare giudizi sulla campagna elettorale in corso». 

E il secco «no» con cui ha escluso un secondo mandato va letto in questa cornice di voluta estraneità alla battaglia elettorale, perché in fin dei conti – ha detto successivamente – chi può sapere cosa accadrà. Ma certo la nettezza di quel no annebbia il sogno di chi lo vorrebbe ancora in campo: il Partito democratico ha immediatamente colpito duro sul mento del Terzo Polo che ha fatto del ritorno di Draghi a palazzo Chigi la sua bandiera.

E ora? Fonti vicine a Carlo Calenda hanno avanzato una domanda retorica: poteva forse dire «sì, accetterei un nuovo incarico», cioè gettarsi nella mischia elettorale? È lo stesso ragionamento che ha fatto Matteo Renzi a Pordenone, intervistato dal direttore de Linkiesta Christian Rocca, chiarendo che la cosa alla fin fine dipenderà da Sergio Mattarella. 

Dice Renzi: «Sappiamo tutti che la differenza la farà, e l’ha fatta, solo la chiamata di Mattarella. Se la Meloni non riuscisse ad avere i numeri per governare toccherebbe al presidente della Repubblica indicare un presidente del Consiglio». Ma è chiaro che non tutti hanno capito che la figura di Draghi non è quella del capopartito e men che meno di uno che sgomita a caccia di potere, lui è e vuole restare un’autorità al di sopra del Grand Hotel della politica nostrana, ed è semplicemente impossibile per chiunque stabilire adesso cosa gli riserva il futuro. 

Ma quel no rimbomba, pesa. Come pesava quello di Mattarella alla sua rielezione, poi andò in un altro modo, per dire. 

La cosa che ieri è balzata agli occhi è Il modo elegante col quale il presidente del Consiglio ha evitato risposte esplicite sulla prospettiva di un governo di destra pur senza risparmiare, senza citarli, bordate prima a Matteo Salvini e poi a Giulio Tremonti ma con riferimento alle cose di adesso, quelle che lo riguardano: la Lega – dunque Salvini – che «non ha mantenuto la parola data» sulla delega fiscale (forse mai in passato era stato così severo, addirittura da un punto di vista morale, su un partito della coalizione) e poi Tremonti, che sta seminando notizie su un pesante lascito di miliardi e miliardi che il governo Draghi lascerebbe in eredità al successivo (ci ha pensato Daniele Franco – lodatissimo dal presidente del Consiglio- a smontare la panna). 

Ma su Salvini (riferimento implicito) il frontale duro è stato sulla Russia: «Qualcuno parla con Mosca e vuole togliere le sanzioni», che, per inciso, «funzionano» mentre alla Meloni ha spiegato che sul Pnrr c’è poco da modificare, ma chissà se lei avrà capito l’antifona. 

E di striscio una botta è arrivata anche a Giuseppe Conte, contrario all’invito di armi all’Ucraina è contento della controffensiva delle truppe di Zelensky – «Avrebbe voluto una controffensiva a mani nude?» – una controffensiva che l’Italia naturalmente sosterrà «fino alla Liberazione, perché questa è una guerra di Liberazione». 

A un certo momento si è anche un po’ irrigidito, non diciamo irritato perché Draghi difficilmente si irrita, almeno in pubblico, di fronte ai cronisti che, come insegna il mestiere, mettevano in luce i problemi – le presunte ingerenze russe, le dissociazioni della Lega eccetera eccetera: «La democrazia italiana è più forte, non si fa battere da pupazzi prezzolati». E ha ripetuto il concetto alla fine: «L’Italia è forte». Che è poi, in tre parole, la sintesi suprema del suo anno e mezzo a palazzo Chigi, la sua eredità, il suo messaggio.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 21 settembre 2022.

Sarò un'inconsolabile vedova, ma le mie vesti si sono tinte di lutto alle immagini di ieri, di Mario Draghi premiato a New York da Henry Kissinger come statista dell'anno. Kissinger ha lodato «la sua straordinaria capacità di analisi» e «il coraggio e la visione» con cui ha governato la Banca centrale europea e l'Italia, per Joe Biden è stato «potente nel promuovere tolleranza e giustizia», e non dico gli altri perché sembrava un elogio funebre a elogiato vivo.

Mezzi morti siamo noi, fenomeni che di quest'uomo non sappiamo che farcene, né a Palazzo Chigi né al Quirinale, ma qui sono alla mia solita geremiade. Però, per sovrapprezzo, due fenomeni degni campioni in un paese di fenomeni, Matteo Salvini e Giuseppe Conte, ieri sulla faccenda hanno detto la loro. Il primo ha rassicurato sull'inutilità di Draghi in un governo di centrodestra. Con tutto il rispetto, ha aggiunto. 

L'altro è salito all'ineguagliabile consegnando alla platea mondiale questo brocardo appulo: non è con un buon curriculum che si può governare un'emergenza energetica. Saranno loro due, insieme al resto della truppa, a cominciare da Giorgia Meloni, impegnata nelle stesse ore a chiamare coincidenze i rari punti d'accordo con Draghi, a disputarsi il ruolo di prossimo presidente del Consiglio.

C'è poco da dire, questa è la democrazia e la democrazia è più forte di qualsiasi leader, compresi quelli piovuti dal cielo per grazia divina. In democrazia la sovranità appartiene al popolo, che la esercita anche attraverso il voto. Ed è il popolo a indirizzare il proprio destino, sebbene spesso se ne dimentichi e raramente glielo si ricordi.

Henry Kissinger  - Testo pubblicato da "Repubblica" il 21 settembre 2022. della "laudatio" per il presidente del Consiglio Mario Draghi pronunciata in occasione del 57° Annual Award Dinner della Fondazione "Appeal of Conscience" presieduta da Rabbi Arthur Schneier, New York - traduzione di Luis E. Moriones 

Conobbi Draghi molti decenni fa e ho sempre avuto un enorme rispetto per lui.

Ha dimostrato una straordinaria capacità di analisi intellettuale che si è concentrata sul migliorare le cose, non solo su un punto particolare. 

È diventato primo ministro quando il Presidente italiano ha deciso che aveva bisogno di un leader che, pur essendo al di sopra delle parti, fosse rispettato dai partiti. Era sicuro che qualsiasi proposta gli avesse presentato il primo ministro Draghi sarebbe stata basata su un'analisi del buon risultato da raggiungere e dell'interesse nazionale. È quindi il simbolo di una sfida della nostra generazione. E la sfida è che noi, come società, abbiamo un'enorme quantità di competenze tecniche, ma non siamo necessariamente in grado di concentrarle su ciò che ci prospetta il futuro che abbiamo davanti. 

Si tratta di una crisi importante, prima di tutto in ambito economico, con la crisi economica all'inizio del secolo, e poi con la crisi che viviamo oggi, e che riguarda il futuro della pace e del progresso nel mondo.

Ha ricoperto incarichi importanti come direttore generale del Ministero del Tesoro, come presidente della Banca centrale europea e poi come primo ministro italiano. Mario Draghi è stato chiamato a svolgere compiti straordinariamente complicati perché si riteneva, e si è rivelato corretto, che avrebbe analizzato i problemi, che non li avrebbe affrontati da una prospettiva di parte e, quindi, nel corso dei decenni, ogni volta che Mario Draghi si è ritirato da uno di questi incarichi, si è trattato di un intervallo e mai di un ritiro definitivo.

Nel tempo attuale, i dirigenti devono decidere come condurre il loro Paese, o l'unità che governano, da dove sono a dove non sono mai stati, e per farlo non solo è necessaria un'elevata conoscenza tecnica, ma bisogna avere anche coraggio e visione. Coraggio perché i leader devono muoversi su strade ancora sconosciute ma necessarie. E visione per gestire il rapporto tra ciò che si sta sviluppando e le necessità di ognuno. Al giorno d'oggi, il mondo ha raggiunto una tecnologia impensabile anche solo una generazione fa, ma le capacità sviluppate non tengono ancora il passo con le finalità da raggiungere. 

Se guardiamo al mondo, vediamo gli Stati Uniti e la Cina in conflitto verbale quasi ogni settimana, e il pericolo è che quando questo diventa parte integrante del pensiero di ciascuna parte, può accadere qualche incidente, qualche imprevisto che poi viene interpretato con l'ostilità che si è creata. Cina e Stati Uniti hanno quindi bisogno di dialogare, non solo per le questioni immediate del momento, ma anche per l'evoluzione del futuro.

Guardiamo alla crisi ucraina e accogliamo con favore lo sforzo del popolo ucraino di mantenere la propria indipendenza e la propria libertà, ma dobbiamo anche considerare che cosa accadrà dopo la vittoria e quali saranno le relazioni tra l'Europa, un'Ucraina liberata e la Russia come entità storica. 

E in Medio Oriente la questione delle armi nucleari e della loro diffusione domina molte tensioni ed è la causa di molti pericoli. È quindi un grande privilegio per me parlare qui, per un uomo che credo abbia una capacità unica di analizzare le situazioni e contribuire alla loro soluzione. E può dare questo contributo a volte nel governo e a volte come consulente, ma il lavoro da lui svolto ha evidenziato che ha capacità analitica, coraggio e visione. Spero che sarà con noi per molto tempo nel suo ruolo costruttivo, e io lo osserverò, e che vada oltre il periodo che gli è stato concesso.

Umberto De Giovannangeli per ilriformista.it il 24 settembre 2022.  

Signore e Signori allacciate le cinture. Sta per iniziare un volo nell’alta politica. Alla guida è uno degli ultimi “Grandi vecchi” della politica italiana: Rino Formica. 

Senatore Formica che campagna elettorale è stata quella che si avvia alla conclusione?

Una campagna elettorale inesistente. Inesistente perché fatta con argomenti non solo fuori dall’attualità in evoluzione ma soprattutto fuori da una qualsiasi previsione dei processi politici globali che sono in corso. A mio modo di vedere questa campagna elettorale è stata inesistente perché i partiti politici hanno cercato di parlare a quella area sempre più ridotta dei votanti e non parlano all’area dei non votanti, cioè a quell’area che è la vera grande incognita, non solo perché è un’area che si annuncia larga e abbastanza vasta, ma soprattutto perché non sono state a fondo sondate le ragioni della consistenza e della qualità di quest’area del rifiuto al voto. Perché in quest’area c’è di tutto.

Vale a dire?

C’è la disaffezione nei confronti delle istituzioni. C’è il distacco fra le forze politiche e il proprio tradizionale elettorato. Insomma, una sinistra che perde il contatto col popolo e una destra che perde il contatto con i ceti produttivi, attivi, dinamici della società. Questo è un elemento di grande incertezza, la determinazione della qualità dell’astensione. Che va a collocarsi in una situazione di grande incertezza che è il quadro internazionale. Il quadro internazionale può nelle prossime settimane, sicuramente nei prossimi sei mesi, cambiare completamente qualsiasi risultato elettorale.

Su cosa basa questa sua allarmata considerazione?

Intanto c’è una preoccupante crisi dell’Onu. Basta rileggere con un minimo di attenzione il discorso di Guterres, il numero uno del Palazzo di Vetro, all’apertura dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, il quale dice senza mezzi termini, che questo organismo internazionale non è più in grado di svolgere il proprio ruolo. 

E se lo dice il timoniere vuole dire che la barca fa acqua da tutte le parti. E questa è la crisi dell’Onu. Poi c’è una situazione di carattere particolarmente europeo che ci riguarda direttamente, ed è la posizione di isolamento progressivo in cui si sta trovando la Russia nel contesto mondiale, che la porta ad atti che potrebbero essere atti disperati.

Perché, senatore Formica?

Beh, il discorso di Putin bisogna leggerlo come atto di disperazione, da isolamento. Con quel discorso che chiama alla mobilitazione parziale e adombra lo spettro della guerra nucleare, Putin ha chiuso l’“Operazione speciale” con i referendum e ha aperto una nuova fase: la guerra all’Occidente. Con una mobilitazione semi generale, con una modifica fortemente punitiva delle leggi sulla renitenza alla leva e soprattutto con un riferimento esplicito all’uso di qualsiasi arma totale. Questo naturalmente provocherà una situazione non solo nel campo europeo ma negli equilibri di carattere mondiale, porterà ad una situazione di ripensamento delle strategie generali delle varie aree geopolitiche in via di formazione nel mondo. Poi c’è un altro aspetto che non è stato sondato in maniera approfondita… 

Di quale aspetto si tratta?

È la crisi dell’imperial capitalismo totalizzante e globalizzante. Il discorso di Kissinger è un discorso in cui il “grande pontefice” dell’imperial capitalismo benedicendo Draghi lo ha tolto dalla vicenda politica nazionale e lo ha collocato in un gotha di carattere internazionale globale per costituire una difesa non solo dell’imperial capitalismo ma del potere dell’imperial capitalismo. Perché quei pericoli di guerra che si avvicinano mirano al cuore anche del potere dell’imperial capitalismo. E qui per noi si apre un’altra questione, un’altra incognita nuova in un sistema già scosso.

Nella cerimonia a New York di assegnazione di un importante riconoscimento a Draghi c’è lo sganciamento di Draghi dalla semplice condizione di essere punto di equilibrio al servizio delle istituzioni italiane, per assumere un ruolo, certo anche per quanto riguarda gli assetti di direzione e di governo futuro politico del Paese, ma in nome e per conto della tutela del potere dell’imperial capitalismo di cui Kissinger ha lucidamente intravisto i segnali di una possibile crisi. Questo è un punto molto delicato. 

E lo è perché incrocia una revisione possibile e imprevedibile delle alleanze e delle scelte di carattere internazionale. Un giorno con la Cina, un altro giorno contro la Cina, un giorno con la Russia e un altro ancora contro la Russia…Ed è tutto all’interno di paradigmi e di coordinate vecchie e superate. Che partono ancora dal presupposto che esista un vertice mondiale, Pannella avrebbe detto una cupola mondiale, che dirige e coordina i comportamenti delle varie aree imperiali. E non è così.

Perché la tecnologia ha stravolto anche questo potere delle minoranze oligarchiche mondiali, perché ha dato la possibilità in tempo reale all’umanità nella sua interezza di poter valutare un fatto che avviene in qualsiasi parte del mondo. Quando quattro miliardi di persone vedono contemporaneamente, assistono, prendono conoscenza e vengono investiti da un’atmosfera di pulsioni, di sentimenti e anche di affetti artificiali come è avvenuto con il funerale della regina Elisabetta, questo vuol dire che miliardi di persone possono contemporaneamente avere un comportamento univoco di fronte ad avvenimenti che mettono le popolazioni, il mondo, la gente, fuori dagli schemi oligarchici, delle minoranze dominanti del mondo.

Ma rispetto a questi scenari così importanti, epocali, che lei ha delineato, la politica italiana sembra essere troppo al di sotto…

Perché ha alle spalle trent’anni in cui è passata una idea sciagurata, esiziale, cioè che la politica era non solo inutile ma dannosa. Questa è l’idea che è passata. Noi abbiamo avuto trent’anni nei quali si è andato esaurendo tutto ciò che nel sistema aveva immesso il periodo precedente, dal ’45 al ’92, come formazione della coscienza politica del popolo. Nel Partito socialista all’inizio del ‘900 si aprì una discussione tra i dottrinari e i rivoluzionari della piazza. La lotta di classe era la violenza di classe o era la coscienza di classe. E i riformisti posero il problema che non c’è lotta di classe senza coscienza di classe.

E la coscienza di classe vuol dire che hai una dottrina di sostegno, hai un sapere che diventa non un sapere delle èlite ma di massa che domina il conflitto e il contrasto. E l’assenza della politica, nel senso più alto e nobile del suo essere e della sua funzione, produce o comunque lascia il campo libero alla ruvidezza, la grettezza anche dello scontro primitivo degli interessi più profondi che diventano sempre più fondamentalisti e poco legati alla ragione. 

In tutto questo, e in attesa dei risultati elettorali, si può dire che in questo Paese esista ancora, nella dimensione e nei caratteri che lei ha indicato, una forza di sinistra?

Io ragiono così: la sinistra ufficiale ha fatto di tutto per perdere la sua base sociale. Prima ha creato il populismo e il populismo ha dentro di sé, nella pancia, la creazione del reazionarismo delle classi dirigenti. Il populismo è generatore di autoritarismo, perché in definitiva è l’utilizzo strumentale del ventre delle masse e non della ragione e della mente delle masse. Io vedo però un fatto positivo in un atteggiamento che inizialmente è negativo: il distacco da questa politica quotidiana delle nuove generazioni. 

Questo apparentemente è negativo. Però apre la strada a una nuova generazione critica. Che viene dalla scuola, dall’università, dalla ricerca, dal lavoro duro, dalla emigrazione verso altri Paesi dove vi è maggiore possibilità non solo di lavoro dal punto di vista della sua primordiale espressione, cioè la sua remunerazione primitiva, ma anche dal punto di vista dell’umanizzazione della funzione dell’uomo.

L’uomo che ha bisogno del lavoro come scuola di umanità. Queste nuove generazioni sono il punto di appoggio, forse il punto di Archimede, per colmare questo vuoto politico trentennale che si è determinato nella situazione italiana. Forse siamo alla fine del vuoto. Quello che si capisce è che le vecchie oligarchie che hanno fatto quest’ultimo giro di valzer della formazione delle liste tra sei mesi saranno travolte.

Da iltempo.it il 23 settembre 2022.  

Giulio Tremonti attacca Mario Draghi. Lo fa parlando alla fine dell’incontro con gli imprenditori ad Assolombarda a Milano. Da «governatore della Banca d’Italia Mario Draghi - ha detto il candidato di Fratelli d’Italia - nelle considerazioni del maggio 2011, scrive: la gestione delle pubbliche finanze è stata prudente, appropriata all’obiettivo del raggiungimento del pareggio di bilancio. 

Due mesi dopo, per andare alla Bce, Draghi scrive l’opposto» e «manda la lettera. Io mi sono sempre chiesto: è un caso di omonimia o un caso di slealtà istituzionale? Non puoi dire una cosa e l’opposto». 

Ma una stilettata è arrivata anche al segretario del Partito Democratico: «Ho parlato molto di Enrico Letta, che è diventato di una violenza e di una cattiveria assolute. Letta inizia con un libro intitolato "Morire per Maastricht", per poco ci riesce. Dopodiché non avendo argomenti usa solo argomenti suicidi, come "hanno fatto i tagli nel 2006". È stato al governo un sacco di volte dopo, se il taglio era così brutto, è colpa sua che non l’ha tolto».

Vittorio Feltri, Giulio Tremonti? "Tutta la verità sui rapporti con Draghi". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 23 settembre 2022

Nostalgia di Giulio. In realtà sono tre i Giulio che rivorrei al governo: Giulio Cesare, Andreotti e Tremonti. Essendo difficile che i primi due si presentino alla chiamata del Capo dello Stato per ragioni che non mi dilungo a spiegare, resta il terzo personaggio. Fa di tutto per risultare antipatico, l'opposto di quanto consiglia il manuale del perfetto candidato, cioè ottimismo e illusioni, a cui il popolo è uso abboccare. Niente da fare. Questo valtellinese, traslocato a Pavia per insegnare e a Milano per esercitare la professione di avvocato tributarista, predilige la tecnica di Cassandra, prevedendo il peggio quando sembrerebbe impossibile scivolare ancora più giù. A meno che... Avete capito: ...a meno che non solo il governo italiano ma i capi mondiali o forse della galassia si accodino alle sue idee. Voi direte che siamo davanti a un matto, o a un mitomane. Be', io sono portato a dargli ragione, nonostante faccia di tutto per farsi dar torto. Infatti sprizza intelligenza e presunzione da tutti i pori; entrambi vizi detestabili, soprattutto il primo perché raro, ma è campione mondiale anche del secondo pur essendo quest' ultimo un fenomeno di massa. Non fa apposta, sono entrambi una condanna, ma diciamo che se li porta volentieri sulle sue spalle di uomo apparentemente timido, fino ad assomigliare al buffo professore di Oxford interpretato da Stan Lauren.

LE CHIAVI DEL PAESE

Esibisce questa sua doppia poco amabile fisionomia con la potenza dei geyser islandesi, a cui somiglia per la tendenza a esplodere con getti portentosi dopo parentesi di quiete. Poi eccolo. E mi incanta. Ha una razionalità di tipo mistico, da visionario attaccato contemporaneamente alla realtà con i suoi dati numerici e le sue leggi bronzee e alla triade dei suoi pensieri profondi: Dio, Patria e Famiglia, scusate le maiuscole che non mi appartengono ma a G&G (Giorgia e Giulio) senz' altro. Ci credono, non è una posa, è l'humus insieme conservatore e, ai nostri tempi, rivoluzionario da cui sgorga la loro idea alta e molto pratica di presente e di futuro. Interesse nazionale, superamento del mito della globalizzazione, identità culturale cristiana contro la dissoluzione nichilista del politicamente ed economicamente corretto, che prevede uomini e donne "a taglia unica". Su Meloni mi sono espresso di frequente. Quanto a Tremonti - dopo averlo in passato ridimensionato, dandogli un modesto 6+ - capovolgo il numero, e gli assegno un 9 meno, ed esaursico in quel meno il dato caratteriale, che non deve oscurare la sostanza delle sue analisi e proposte, ma è bene lo corregga evitando di sgambettarsi da solo, dando pretesti a chi lo vorrebbe escludere, garantendo sotto traccia che Mario Draghi avrebbe già segnalato a Quirinale, Bruxelles, Francoforte (Bce) e Casa Bianca il suo veto nei confronti dell'avversario storico, dal quale fu licenziato in quattro e quattr' otto da direttore generale del Tesoro appena Giulio prese possesso del dicastero. Confesso ho personale stima di Draghi, e non sono a tal punto sprovveduto da negargli competenza, prestigio e serietà. Ma ho nostalgia di Giulio, occorre sparigliare rispetto al conformismo delle sinistre che, scimmiottando Draghi per togliersi la patina di provincialismo, ossequiano Ursula von der Layen, Macron e Scholz, consegnando loro le chiavi del nostro Paese. Il tutto pur di sconfiggere la Meloni, con Tremonti da affondare con lei. Passi per Enrico Letta e compagnucci, che non sanno far di meglio che esibire la loro sudditanza a Parigi e Berlino pur di fiocinare il centrodestra prima e dopo le elezioni, ma spero proprio che Draghi non si mescoli a questa cagnara, trasformando dissapori personali per fare un danno all'Italia. Se lo conosco, non accadrà. Ma lo conosco? Aspetto conferma. Torno a Tremonti. È uscito in questi giorni il suo volume Globali77a7ione. Le piaghe e la cura possibile (Solferini, pp. 154, 16,00), e si è ripetuto il fenomeno consueto: ogni volta che prendo in mano un suo libro resto abbacinato dalla lucentezza dello stile e dalla chiarezza dei suoi giudizi. Inevitabilmente lo paragono ai discorsi e alle dichiarazioni dei ministri dell'Economia (Tesoro+Finanza) che gli sono succeduti dopo che Berlusconi dovette menare le tolle (lombardismo caro al nostro valtellinese, figlio di farmacisti). Persone in gamba, senz' altro. Con la testa sulle spalle, non si discute. Ma allora perché sono apparsi e scomparsi senza lasciare ricordi di sé? Sfido qualcuno a ricordare un colpo battuto sul tavolo di Bruxelles che abbia appena un pochino fatto traballare il tavolo tra quelli arrivati dopo di lui (Monti, mamma mia, Grilli, Saccomanni, Padoan, Tria, Gualtieri, oddio).

SPECULAZIONE

A questo punto provo a sintetizzare il libro, sperando di non banalizzarlo. È stato presentato mercoledì a Milano, chiamato a parlarne dalla associazione che porta il nome del grande Guido Carli (ed è presieduta dal nipote professor Federico). Gli hanno chiesto tre cose da fare subito. Ha risposto: 1- Eliminare le tasse sugli aumenti dovuti alla speculazione (lo Stato incassa di più grazie ad accise ed Iva se aumentano i costi di carburante). 2- Smetterla di fare leggi: i decreti emanati dal governo Draghi occupano, se si dispongono le pagine ordinatamente a terra, 25 campi di calcio. 3- Rendersi conto che è la speculazione finanziaria e non la geopolitica a determinare l'altissimo costo del gas (la Russia fornisce il 9% del metano di cui abbisogna l'Ue), agire sul piano giuridico di conseguenza. Di certo Tremonti dichiarerebbe, una volta ministro, la fine delle litanie pro-globalizzazione. Si passerebbe alla fase dell'internazionalizzazione. Dove ogni Paese agisce con la sua identità nel concerto dell'Europa e del mondo. Se provo a tradurre in termini di ideali, mi viene in mente Dio-Patria-Famiglia. E qualcuno mi segnala che in questo millennio fu il primo ministro a riproporre questa triade come difesa dei nostri valori e dei nostri interessi. Era il 28 agosto del 2008, al Meeting di Rimini. Il 15 settembre fallì la Lehamnn Brothters e si aprì la grande crisi che dura ancora oggi. Tremonti aveva capito tutto prima, diavolo d'un uomo.

Sebastiano Venier per tag43.it il 23 settembre 2022.

M versus M. Ovvero Mario Monti contro Mario Draghi. Un caso di vera e propria antipatia. Anzi, di ostilità, che non perde occasione di manifestarsi. Un’avversione che qualcuno riconduce alle eccessive ambizioni del senatore a vita, che è anche presidente dell’Università Bocconi. Certamente poi ci sono evidenti differenze culturali e politiche. 

Monti è un lombardo, liberista, sostenitore in Europa dell’asse franco-tedesco. Draghi un romano, keynesiano atipico che ama gli Usa dove si è appena recato a ricevere dalle mani di Henry Kissinger il premio statista dell’anno. 

Quella laurea ad honorem dalla Cattolica

Parlando dei due nemici l’economista Giulio Sapelli li ha dipinti così: «Monti non ha mai avuto una visione strategica e ha sempre disprezzato le parti sociali. Draghi appena messo piede a Palazzo Chigi al contrario ne ha subito fatto un interlocutore. Ha capacità politiche di lungo corso e ha mediato tutta la vita perché in fondo è un vero democristiano». Le occasioni di scontro, se pur indiretto, non sono mancate. 

Per esempio, quando ha lasciato la presidenza della Banca centrale europea, Draghi ha ricevuto una laurea ad honorem dall’Università Cattolica mentre tutti si aspettavano un’iniziativa simile partisse dalla Bocconi. La diversità di vedute tra i due economisti prestati alla politica sono alimentate dall’istruzione ricevuta.

Draghi ha studiato a Roma nel rigoroso liceo Massimiliano Massimo. È una scuola gestita dai gesuiti che gli ha trasmesso non solo la cultura della qualità ma anche un messaggio morale. I principi della pedagogia gesuitica si basano su due fondamenti: la cultura ci aiuta a comportarci con onestà, e ci aiuta a essere obbedienti nei confronti della fede. 

La chiamata al Tesoro da parte di Guido Carli

In seguito l’attuale se pur ancora per poco premier ha proseguito la sua formazione alla Facoltà di Economia de La Sapienza di Roma. In quegli anni, dominava la filosofia economica di Federico Caffè, uno tra i più influenti e noti studiosi italiani. Sarà proprio lui a fare da relatore alla tesi di Draghi dal titolo “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio“. Questo studio gli permetterà di conseguire la lode accademica e diventare assistente personale di Caffè.

Dopo aver conseguito la laurea nel 1970, il trasferimento negli Stati Uniti con l’obiettivo di conseguire un dottorato presso il Mit. Qui l’incontro con altri due economisti che hanno rivestito un ruolo chiave nella sua istruzione: Franco Modigliani e Robert Solow, entrambi premio Nobel per l’economia. Una volta ottenuto il master oltreoceano, la decisione di tornare in Italia per intraprendere la carriera accademica. 

Docente universitario della Facoltà di Economia e Scienze Politiche di diverse università italiane, nel 1991 fu chiamato da Guido Carli, ministro del Tesoro nei governi Andreotti VI e VII, a fare il direttore generale del dicastero, su suggerimento del governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Una full immersion nella politica che risulterà determinante nella sua carriera, oltretutto nell’epoca delle nascenti privatizzazioni delle più importanti banche e aziende pubbliche. 

Formazione e riferimenti culturali diversi

Al contrario Monti, dopo la laurea in economia alla Bocconi, ha proseguito gli studi alla Yale University. Nel 1985, dopo un’iniziale esperienza alla facoltà di Sociologia di Trento (anni 69-70) e successivamente all’università di Torino, è stato chiamato come professore di economia politica alla Bocconi.

Ed è qui che è cominciata la sua vera corsa verso il potere. Spinto da quelli che all’epoca si chiamavano poteri forti (Gianni Agnelli lo volle nel consiglio di amministrazione della Fiat) è diventato editorialista del Corriere della Sera e anima del Forum Ambrosetti di Cernobbio, un think tank che negli anni ha messo insieme capi di stato ministri, grandi imprenditori, manager, politici e grand commis con l’obiettivo di indirizzare opinioni pensieri e studi sui processi economici e geopolitici dell’Italia. 

Il numero uno della Bocconi è stato poi presidente del Consiglio dei ministri dal novembre 2011 fino all’aprile 2013 (dopo aver prima preteso e ottenuto dall’allora presidente Giorgio Napolitano di essere nominato senatore a vita). Conservando inizialmente l’incarico anche di ministro dell’Economia e delle finanze, lasciato successivamente a Vittorio Grilli. 

L’assenza di Draghi dal Forum di Cernobbio

Insomma, due figure di primo piano. Lo strano è che in questi anni Monti ha continuato a muove critiche a Draghi prima per le scelte da capo della Bce, poi per suo operato da premier. La più dura quando ha sostenuto che la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale è stato il risultato soprattutto della «destabilizzante ambizione» di Draghi che voleva andare lui al Colle. Un’accusa che ha lasciato stupiti in molti, ma non coloro che conoscevano bene le aspirazioni del presidente della Bocconi. 

Non c’è quindi da stupirsi se per la seconda volta da quando è premier Draghi abbia rifiutato l’invito al Forum Ambrosetti. Diventando l’unico caso di premier in carica che negli ultimi anni ha evitato di intervenire alla “Davos di casa nostra”. Persino Giuseppe Conte, capo del primo esecutivo sovranista, nel settembre del 2018 accettò di presenziare al salotto buono di Cernobbio. 

L’università Bocconi feudo di Mario Monti

I maligni sostengono poi che le ambizioni di Monti rischiano di avere conseguenze anche sul futuro della Bocconi. Da oltre 30 anni, il senatore regna incontrastato a dispetto della conclamata governance che dovrebbe essere il mantra dell’ateneo milanese. Nelle scorse settimane, per esempio, ha nominato nuovo rettore un altro suo protetto, Francesco Billari. Senza metterne in dubbio i meriti e la capacità professionali, il neo rettore non è molto conosciuto in ambito internazionale. 

Classe 1970, ha iniziato il suo percorso di studi proprio in Bocconi dove si è laureato in Economia politica nel 1994. In seguito, ha conseguito un dottorato di ricerca a Padova ed è stato leader di un gruppo di ricerca al Max Planck institute for Demographic research di Rostock e direttore del dipartimento di Sociologia a Oxford. La scelta risulta in continuità con quella del predecessore Gianmario Verona, altro docente legato a Monti e recordman per numero di mandati. È l’unico che ne ha fatto tre (sei anni in tutto) nell’arco della blasonata storia bocconiana.

La nomina di Billari ha destato perplessità, sapendo che un rettore è il biglietto da visita che attesta il prestigio di un ateneo. Più è apprezzato a livello internazionale, più dà lustro all’università che lo nomina. Chi difende la scelta di Monti sostiene invece che la critica nasca dall’entourage di Francesco Giavazzi, professore della Bocconi, che ha tentato più volte di diventare rettore ma è sempre stato bloccato da Monti vista la vicinanza proprio con Draghi, di cui guarda caso è stato nei 516 giorni del suo governo il più importante consigliere economico.