Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

IL GOVERNO

PRIMA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

IL GOVERNO

INDICE PRIMA PARTE

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia d’Italia.

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Per Nome e Cognome.

L’Unione Europea.

Il Piano Marshall.

Bella Ciao al 25 aprile.

Fondi Europei: il tafazzismo italiano.

Gli Arraffoni.

Educazione civica e disservizi.

Quello che siamo per gli stranieri.

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Italioti antifascisti.

Italioti vacanzieri.

Italioti esploratori.

Italioti misteriosi.

Italioti Ignoranti.

Italioti giocatori d’azzardo.

Italioti truffatori.

Italiani Cafoni.

Italioti corrotti e corruttori.

Italioti ladrosi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Potere dà alla testa.

Democrazia: La Dittatura delle minoranze.

Un popolo di Spie.

Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

Il Capitalismo.

I Liberali.

Il Realismo.

Il Sovranismo -Nazionalismo.

I Conservatori. Cos’è la Destra?  Cos’è la Sinistra?  

Il Riformismo progressista.

Il Populismo.

Il solito assistenzialismo.

La Globalizzazione.

L’Italia è una Repubblica fondata sul debito pubblico.

Le Politiche Economiche.

Il Finanziamento ai partiti.

Ignoranti.

I voltagabbana.

La chimera della semplificazione nel paese statalista.

Il Voto.

Mafiosi: il voto di scambio.

Il Voto dei Giovani.

Il Voto Ignorante.

Il Tecnicismo.

L’Astensionismo: e la chiamano democrazia…

La Rabbia.

I Brogli.

I Referendum.

Il Draghicidio.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

La Campagna Elettorale.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

Le Votazioni ed il Governo.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una Costituzione fascio-catto-comunista.

Quelli che…La Prima Repubblica.

Le Presidenziali.

Storia delle presidenziali.

La Legge.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

I Top Manager.

I Politologi.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Traffico d’influenze.

La malapianta della Spazzacorrotti.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Impuniti.

Concorsopoli Vigili del Fuoco e Polizia.

Concorso truccato nella sanità.

Concorso scuola truccato.

Concorsi ed esami truccati all’università.

Ignoranti e Magistrati.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ignoranti ed avvocati.

SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Amministratori pubblici: Troppi sprechi e malagestio.

I Commissari…

Il Cnel ed Aran: Come sprecare un milione all’anno.

Spreco a 5 Stelle.

Le ali italiane.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

Bancopoli.

La Nascita dell’Euro.

Il Costo del Denaro.

Il Debito. Pagherò.

ConTanti Saluti.

Il Leasing.

I Bitcoin.

I Bonus.

Evasori fiscali!

L'Ingiunzione di Pagamento.

Bollette luce e gas, mercato libero o tutelato.

La Telefonia.

Le furbate delle Assicurazioni.

I Ricconi alle nostre spalle.

 

 

 

 

 

IL GOVERNO

PRIMA PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

       ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

Qual è il giorno più brutto e più bello della vita?

Il giorno del Compleanno.

Più brutto: devi sorbire gli auguri di circostanza di gente che, spesso, non ti conosce o non ti stima.

Più bello: è un anno in meno di una vita di merda e di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Da giovane praticante avvocato con patrocinio legale (abilitazione a tempo di 6 anni e competenza civile limitata e per reati minori) mi sono scontrato con la malagiustizia e l’ingiustizia.

Vittima di un mondo forense e giudiziario dove cane non mangia cane.

Non avendo protezione ero discriminato nello svolgimento della professione e nell’abilitazione.

Sono stato costretto all’attacco per difendermi.

Mi sono rivolto con prove alle istituzioni man mano superiori, nell’omissione degli organi inferiori.

E’ lì che, anziché trovare alleati, è nato il complotto nei miei confronti, che mi ha annientato.

Sono stato vittima di repressione e persecuzione per aver denunciato l’accesso truccato alle professioni forensi e giudiziarie e sollevato casi di malagiustizia ed ingiustizia.

17 anni di bocciature all’esame di avvocato con compiti non corretti e voti identici.

Procedimenti penali finiti nel nulla attivati contro di me da magistrati ed avvocati.

Pulito, ma povero. Ciò nonostante sono orgoglioso di essere diverso e rappresentare al mondo con i miei saggi una realtà sconosciuta. 

Sono un saggista, autore indipendente. Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, giudicato ed informato, educato ed istruito da coglioni. E se un Parlamento è composto da coglioni, si sforneranno Leggi del cazzo.

Antonio Giangrande: A proposito di referendum e lotta referendaria: tempo fa un mio amico e parente, non per competenza ma per disciplina di partitino, appoggiava una posizione che era contraria alla mia, che votavo per competenza e non per ordini di scuderia. Nella foga della campagna referendaria, per essere contro la sua posizione mi insultò pesantemente. A fine votazioni costui, a prescindere dall’esito che non gli cambiò sicuramente la vita, perse, comunque, il suo partitino, perché si estinse in quanto poggiato su un leader fasullo e, cosa più grave, perse l’amico e parente, fedele compagno di vita.

Questo per dire che qualunque posizione si prenda, la massa che combatte sarà sempre perdente.

Da “L’Attimo fuggente”. (Robin Williams) John Keating:

“Due strade trovai nel bosco, io scelsi la meno battuta, per questo sono diverso.”

“Dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso.”

“Vivi la tua vita intensamente prima che tutto finisca... perché dopo saremo cibo per i vermi e concime per i fiori...”

“Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!”

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

 Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.

In Italia: i giornalisti non informano; i professori non istruiscono. Essi fanno solo propaganda. Sono il megafono della politica e delle vetuste ideologie e quelli di sinistra son molto solidali tra loro. Se fai notare il loro propagandismo e te ne lamenti, si risentono e gridano alla lesa maestà, riportandosi alla Costituzione Cattomassonecomunista. In natura i maiali, se ne tocchi uno, grugniscono tutti, richiamando il loro diritto di parola. Scritto tanti anni fa, ma ancora attuale. John Swinton, redattore capo del New York Times, 12 aprile 1893. “In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so pure io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che se lo facesse esse non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattr’ore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza, e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so pure io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali”.

Quando senti qualcuno che continuamente ti dice: “ma perché non fai questo, perché non fai quello”, significa che nella sua arrogante e fallimentare nullità si sente superiore a te, non potendo o volendo riconoscere il tuo valore, tanto da voler darti lezioni.

Quando senti qualcuno che, quando tu esprimi un’opinione, continuamente ti dice: “sì, ma…, però…”, vuol dire che nella sua assoluta ignoranza, si sente presuntuosamente nella ragione e tu colpevolmente nel torto.

In questo modo è inutile alcun dialogo. Se non fosse altro per solidarietà e per altruismo, giusto per dare loro dei saggi o sapienti consigli, che a quanto pare non son richiesti, nè ben accetti. 

Con questi esseri inferiori è inutile rapportarsi, se non per mandarli affanculo, immersi nella loro totale ignoranza (incompetenza, imperizia, inesperienza) e/o idiozia (mancanza di intelligenza). 

I conoscenti si incontrano. I compagni ed i parenti si impongono e si subiscono. I coniugi si tollerano. I figli si accettano. Gli amici si scelgono. Io non ho amici per il sol fatto che da loro voglio la perfezione. E, in questo mondo, nessuno è perfetto.

Il paradosso è che quello che tu pensi di loro, così loro pensano di te.

Se correggi un ignorante: questi ti odierà per averlo smascherato.

Se correggi un sapiente: questi ti ringrazierà per averlo arricchito.

La guerra ed i contemporanei.

Noi, ieri, abbiamo studiato la storia. Oggi la viviamo.

Per questo non bisogna guardare gli eventi bellici periodici con gli occhi di piccoli menti, ma annotare gli eventi per poterli raccontare in modo imparziale ai posteri.

Di personaggi come Putin è subissata la storia e solo loro sono ricordati.

La malvagia ambizione è insita negli esseri normali e di questo bisogna prenderne atto.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, giudicato ed informato, educato ed istruito da coglioni.

E se un Parlamento è composto da coglioni, si sforneranno Leggi del cazzo.

Il dogma del liberale: la Libertà è fare quel che si vuole nel rispetto della Libertà altrui.

La libertà propria è la Libertà altrui sono diritti assoluti e nessuno di questi diritti deve essere limitativo o dannoso all’altro.

Il socialismo (fascio-comunismo) è il potere dato in mano a caste, lobbies, massonerie e mafie.

ASSIOMA CON INTERCALARE: Un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.

Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.

Antonio Giangrande: Se questa è democrazia…

Riportiamo l’opinione del sociologo storico Antonio Giangrande, autore del saggio “Governopoli” e di tanti saggi dedicati per ogni fazione politica presente in Parlamento.

Se questa è democrazia…

I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.

I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.

I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.

I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.

Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.

La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori. Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria. Se questa è democrazia…

Antonio Giangrande: A proposito di Sarri. Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Gli interisti sono come i comunisti: quando perdono è perchè gli altri rubano (così risuccederà con la Juve) o gridano al "razzista" per farli degradare, come succede al Napoli. Se poi i media sono in mano a giornalisti di sinistra o comunque del nord è tutto dire. I salottieri si scandalizzano del "Frocio" dato a al furbo Mancini, ma si sbrodolano con la parola "terrone" dato a destra ed a manca in ogni tempo e in ogni dove. E' vero che ormai il potere è gay (vedi le leggi in Parlamento) e le femministe si sono prostate all'Islam (vedi le reazioni su Colonia), ma frocio è una offesa soggettiva. Terrone è una offesa ad un intero popolo. Ma tutti tacciono, anche i meridionali coglioni. Se "Terrone" vuol dire cafone ignorante: bèh , non prendo lezioni dai veri razzisti e ignoranti. (Se qualcuno ha qualche commento fuori luogo. Gli consiglio di leggere il mio libro "L'Italia Razzista"!

Pec inviata il 21 novembre 2022 alle autorità indicate: rimasto tutto lettere morta, senza la dignità di un riscontro.

ISTANZA DI ACQUISIZIONE DEI DIRITTI D’AUTORE

DA PARTE DEL MINISTERO DELLA CULTURA

DA PARTE DELLA MONDADORI LIBRI SPA

DA PARTE DELLA SIAE

DELL’OPERA MONUMENTALE DI SOCIOLOGIA STORICA

“L’ITALIA DEL TRUCCO. L’ITALIA CHE SIAMO.

L’ITALIA ALLO SPECCHIO. IL DNA DEGLI ITALIANI.”

 

Al Presidente del Consiglio

Giorgia Meloni

Al Ministro della Cultura

Gennaro Sangiuliano

Ai Sottosegretari per la Cultura

Lucia Borgonzoni

Gianmarco Mazzi

Vittorio Sgarbi

Al Presidente Marina Berlusconi

Al Presidente del Consiglio di Gestione della SIAE

Salvatore Nastase

 

Oggetto: cessione onerosa dei diritti d’autore dell’opera monumentale di Sociologia Storica “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo. L’Italia allo specchio. Il DNA degli italiani” ed acquisizione

 

Pregiatissimi

Sono il dr Antonio Giangrande, sociologo storico, ad oggi autore di oltre 360 saggi, composti da centinaia di pagine cadauno, che raccontano l’Italia per argomento e per territorio, con aggiornamenti periodici senza soluzione di continuità, così come indice in calce alla presente

Opere frutto di ricerca, di raccolta, di studio e di discussione. Oggetto di lettura gratuita di migliaia di internauti internazionali, fruitori degli e-book pubblicati su Google Play. Fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. La stessa enciclopedia Wikipedia attinge da queste opere, citandole.

A dispetto del titolo della Collana Editoriale, le opere non sono denigratorie dell’Italia, anzi ne risaltano le qualità, ma affermano delle verità storiche taciute. In queste opere sono escluse fake news e fonti propagandistiche ed ideologiche e le citazioni sono di autori credibili ed autorevoli.

 

Sin dal 2008, è stata la mia missione raccontare l’Italia contemporanea, anche attraverso il suo passato.

Costretto a spendere il mio tempo in quest’opera, impedito dalle circostanze avverse a far altro, dopo aver dedicato la mia vita a formarmi professionalmente nel campo giuridico.

Mai finanziato o sostenuto economicamente da alcuno, anzi osteggiato, oggi a 60 anni, senza reddito e senza prospettive di possibilità di alcuna pensione, mi trovo costretto a cedere i diritti della mia opera. Mia moglie, anch’essa sessantenne, dopo avermi sostenuto economicamente, svolgendo i lavori più umili e poco remunerati, non è più in grado di svolgere adeguatamente il suo appoggio.

Per questi motivi, dato che con la Cultura non si mangia, con la presente istanza

chiedo alle Autorità Adite

di procedere all’acquisizione esclusiva dei diritti d’autore delle opere in oggetto peculiari ed esclusive, affinchè siano di fruizione universale, con un contributo una tantum o un sostegno vitalizio, affinchè mi si dia una possibilità per continuare, o, addirittura, che tale immane lavoro non sia disperso per abbandono dopo la mia morte.

Sono in attesa di un loro riscontro. Intanto porgo i miei distinti saluti ad ognuno di loro.

In calce i titoli delle opere aggiornate periodicamente.

Avetrana lì 21 novembre 2022 Dr Antonio Giangrande

Per chi denigra la Regina e la Monarchia. Per onor del vero è solo un’icona ed ha meno poteri la monarchia britannica con degni natali che il presidente repubblicano italiano, eletto da un Parlamento di …

Una persona può essere sana o avere qualche malattia.

Le malattie sono curabili secondo l'evoluzione della scienza riconosciuta dalle istituzioni e dalle lobby farmaceutiche, e/o la preparazione dei medici, e/o nel caso della prevenzione e della scoperta nei tempi giusti.

La sanità italiana non permette la prevenzione o la cura adeguata, tenuto conto delle liste di attesa dovute alla gestione privatistica della sanità dei baroni e, spesso, della svogliatezza e dell’impreparazione dei medici.

Un malato: o è curabile o è terminale.

Al malato curabile si somministrano le terapie necessarie prescritte da uno specialista voglioso e preparato.

Il malato terminale, in base al censo ed alla famiglia, si abbandona o gli si somministrano le terapie palliative.

La parola palliativo deriva dalla parola latina pallium che significa mantello, protezione.

Per cure palliative si intende “l'insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un'inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”. (Legge n.38/1 Art. 2-Definizioni)

Le cure palliative, quindi, sono quell'insieme di cure, non solo farmacologiche, volte a migliorare il più possibile la qualità della vita sia del malato in fase terminale che della sua famiglia.

La cura palliativa per i pazienti agiati in Italia diventa, spesso, accanimento terapeutico. I familiari, o solo per imposizione di alcuni di essi in contrasto con il resto della famiglia, o il malato, servito e riverito, protraggono egoisticamente la cessazione della vita di qualche giorno, al costo di immani sofferenze per il malato stesso con interventi chirurgici e cure inutili, che non vuol cessare una vita, spesso inutile per sè stesso e per la società, e con molti oneri assistenziali per loro da parte dei familiari e della sanità pubblica.

Quando si decide di dire basta alle cure palliative, non è eutanasia egoistica, ma vero senso di carità per una morte dignitosa e caritatevole.

Quale valore affettivo vuol significare vedere il proprio caro sofferente in perenne stasi o in catalessi con il catetere per l'urina, la pala al culo, la flebo attaccata, il sondino per l'alimentazione. l'occhialino dell'ossigeno?

Quale interesse è per il malato terminale a cui si danno false speranze di guarigione, facendolo morire disperato, anziché accompagnarlo ad una morte serena e consapevole?  

Gli amici su facebook: Averne migliaia che ti ignorano o averne pochi, ma veri e sinceri?

Un antico detto dice: Chi trova un amico, ha trovato un tesoro. Oggi, nel tempo delle contraffazioni tutti voglion diventare ricchi. Succede, quindi, nel mondo virtuale dei social network che si hanno amici di cui si detesta e si contesta ogni post pubblicato, o che distribuiscono pillole di idiozie, specie quelli distinti ideologicamente da destra come da sinistra, passando dai 5stellati, o che ignorano quello che sei o che fai, se non addirittura ti detestano o travisano ogni tua opinione e, per sminuirti, non condividono i tuoi post, ma pubblicizzano il prodotto dei tuoi concorrenti. Amici, meglio perderli che trovarli, ma ce li si tiene comunque per far numero. Spesso gli stessi amici virtuali, per strada ti incontrano e non ti salutano. Io, di mio non ho mai chiesto l’amicizia a nessuno in un mondo omologato, ma ai miei amici faceboocchiani, che hanno chiesto ed ottenuto la mia amicizia, do il beneficio della verifica di solidità e sincerità ed attuo il controllo della strumentalità della loro richiesta. Al termine dell’anno amicale li cancello. Se rinnovano la richiesta di amicizia, chiedendomi il perché, si palese il loro interesse ad avermi come amico. Ergo: a quel punto ho trovato un tesoro.

Turismo e risorse ambientali. “Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi”.

19 settembre 2016. Dibattito pubblico a Otranto, in Puglia, sul tema: "Prospettive a Mezzogiorno".

Il resoconto del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Nel Salento: sole, mare e vento. Terra di emigrazione e di sotto sviluppo economico e sociale dei giovani locali. Salentini che emigrano per mancanza di lavoro…spesso con un diploma dell’istituto alberghiero. Salentini che perennemente si lamentano della mancanza di infrastrutture per uno sviluppo economico e che reiteratamente protestano per i consueti disservizi sulle coste e sui luoghi di cultura. Salentini con lo stipendio pubblico che si improvvisano ambientalisti affinchè si ritorni all’Era della pietra. Salentini con la sindrome di Nimby: sempre no ad ogni proposta di sviluppo sociale ed economico, sia mai che i giovani alzino la testa a danno delle strutture politiche padronali. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. Salentini che dalla nascita fin alla morte si accompagnano con le stesse facce di amministratori pubblici retrogradi che causano il sottosviluppo e che usano ancora il metro di misura dei loro albori politici: per decenni sempre gli stessi senza soluzione di continuità e di aggiornamento.

Presente al convegno Flavio Briatore, fine conoscitore del tema, boccia il modello turistico italiano, partendo proprio dalla Sardegna del suo Billionaire. Intanto per il caro trasporti: «Hanno un'isola e non lo sanno - dice Briatore alla platea del convegno - pensano che la gente arrivi per caso. La gente arriva o via mare o via aerea: sono due monopoli, per cui fanno i prezzi (che vogliono). Se tu vai da Barcellona a Maiorca, quattro persone sul traghetto spendono 600 euro. Da Genova ad Alghero ne spendono 1600. L'80 per cento degli amministratori - aggiunge ancora Briatore - non ha mai preso un aereo. Come si fa a parlare di turismo senza averlo mai visto?».

Briatore è poi passato alla Puglia, dove nell’estate 2017 aprirà il Twiga Beach di Otranto grazie a una cordata di imprenditori locali ed ha criticato l'offerta turistica del territorio, sottolineando in particolare la mancanza di servizi adeguati alle esigenze dei turisti più facoltosi, sorvolando sulla mancanza di infrastrutture primarie: «Se volete il turismo servono i grandi marchi e non la pensione Mariuccia, non bastano prati, né musei, il turismo di cultura prende una fascia bassa di ospiti, mentre il turismo degli yacht è quello che porta i soldi, perché una barca da 70 metri può spendere fino a 25mila euro al giorno. Masserie e casette, villaggi turistici, hotel a due e tre stelle, tutta roba che va bene per chi vuole spendere poco - ha affermato Briatore - ma non porterà qui chi ha molto denaro. Ci sono persone che spendono 10-20mila euro al giorno quando sono in vacanza, ma a questi turisti non bastano cascine e musei, prati e scogliere - ha continuato l'imprenditore - io so bene come ragiona chi ha molti soldi: vogliono hotel extralusso, porti per i loro yacht e tanto divertimento». Non poteva essere altrimenti: Briatore ha puntato il dito sulle mancanze di infrastrutture a sostegno di quelle strutture turistiche mancanti ad uso e consumo di un’utenza diversificata e non solo mirata ad un turismo di massa che non guarda alla qualità dei servizi ed alla mancanza di infrastrutture. Una semplice analisi di un esperto. Una banalità. Invece...

Sulle affermazioni di Briatore si è scatenato un acceso dibattito, in particolare sui social: centinaia i commenti, quasi tutti contro.

I contro, come prevedibile, sono coloro che sono stati punti nel nerbo, ossia gli amministratori incapaci di dare sviluppo economico e risposte ai ragazzi che emigrano e quei piccoli imprenditori che con dilettantismo muovono un giro di affari di turismo di massa a basso consumo con scarsa qualità di servizio.

L’assessore regionale Sardo Maninchedda: «A parole stupide preferisco non rispondere».

Francesco Caizzi, presidente di Federalberghi Puglia replica alle parole dell’imprenditore: «La Puglia non è Montecarlo, Briatore si rassegni. La Puglia ha hotel che vanno dai 2 stelle ai 5 stelle, dai bed & breakfast agli affittacamere. Sono strutture per tutte le tasche e le esigenze, ma con un unico denominatore comune: rispettano l’identità del luogo. Questo significa che non ci si può aspettare un’autostrada a 4 corsie per raggiungere una masseria. È probabile che si dovrà percorrere un tratto di sterrato, ma nessuno ha mai avuto da ridire su questo. Anzi, fa parte del fascino del luogo».

Loredana Capone, assessore imperituri (governo Vendola per 10 anni e con il Governo Emiliano), che ha concluso da poco un lavoro di diversi mesi sul piano strategico del turismo, ha illustrato il punto di vista di un eterno amministratore pubblico: «Dobbiamo partire da quello che abbiamo per puntare ai mercati internazionali. Come stiamo nei mercati? Prima di tutto evitando qualsiasi rischio di speculazione e abusivismo. È puntando sulla valorizzazione del patrimonio, residenze storiche, masserie, borghi, che saremo in grado di offrire un turismo di qualità, capace di portare ricchezza. Non i grandi alberghi uguali dappertutto, modelli omologati e omologanti. Anche gli investimenti internazionali puntano al recupero più che alla nuove costruzioni».

La visione di Briatore proprio non piace a Sergio Blasi, altro esponente eterno del Pd che si è detto disponibile a concorrere alla primarie del centrosinistra a Lecce: «Briatore punta alla creazione di non-luoghi riservati all’accesso esclusivo di una élite economica ad altissima qualità di spesa, nei quali conta chi sei prima di entrare e non quello che sarai diventato alla fine del tuo viaggio o della tua vacanza. Io la ritengo una prospettiva poco interessante per il Salento. E lo dico da persona che ha criticato fortemente la svolta “di massa” di alcune attrazioni, che a furia di sbandierare numeri sempre più alti finiscono per rovinare più che per valorizzare le opportunità di crescita. Ma esiste un mezzo – ha proseguito nel suo post l’ex segretario regionale del Pd - nel quale collocare un’offerta turistica che sia in grado di valorizzare le potenzialità inespresse, e sono tante, garantendo al contempo una “selezione” non in base al ceto sociale quanto agli interessi e alle aspettative del turista. Noi dobbiamo guardare ad un turismo che apprezza la cultura, anche quella popolare, la natura e il paesaggio. Che apprezza i musei e i centri storici tanto quanto il buon vino e il buon cibo. Che sia in grado di apprezzare e rispettare la terra che visita e di non farci perdere il rispetto per noi stessi».

Per Albano Carrisi: “La Puglia piace così!”

Naturalmente l’Italia degli invidiosi, che odiano la ricchezza, quella ricchezza che forma le opportunità di lavoro per chi poi, senza quell’occasione è costretto ad emigrare, non ha notato la luna, ma ha guardato il dito. Il discorso di Briatore non è passato inosservato sul web dove alcuni utenti classisti, stupidi ed ignoranti hanno manifestato subito il loro disappunto. "Tranquillo Briatore, i parassiti milionari che viaggiano e non pagano non ce li vogliamo in Puglia", ha commentato un internauta, "Noi vogliamo musei e prati perché vogliamo gente che ami cultura e natura. Gli alberghi di lusso fateli a Dubai", ha ribattuto un altro.

Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi. E’ chiaro che il Salento quello ha come risorsa: sole, mare e vento. E quelle risorse deve sfruttare: in termini di agricoltura, ma anche in termini di turismo, essendo l’approdo del mediterraneo. E’ lapalissiano che le piccole e le grandi realtà turistiche possono coesistere e la Puglia e il Salento possono essere benissimo l’alcova di tutti i ceti sociali e di tutte le esigenze. E se poi le grandi strutture turistiche incentivano opere pubbliche eternamente mancanti a vantaggio del territorio, ben vengano: il doppio binario, strade decenti al posto delle mulattiere, aeroporti, collegamenti ferro-gommati pubblici accettabili per i pendolari ed i turisti, ecc.. Ma il sunto del discorso è questo. Salento: sole, mare e vento. Ossia un luogo di paesini e paesoni agricoli a vocazione contadina con il mito tradizionale della “taranta” e della “pizzica”. E da buoni agricoltori, i salentini, da sempre, la loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna od ulivi ed edificati abusivamente, perciò da trascurare. Ed i contadini poveri ed ignoranti, si sa, son sottomessi al potere dei politicanti masso-mafiosi locali.

Stesso discorso va ampliato in tutto il Sud Italia. Gente meridionale: Terroni e mafiosi agli occhi dei settentrionali, che invidiano chi ha sole, mare e vento, e non si fa niente per smentirli, proprio per mancanza di cultura e prospettive di sviluppo autonomo della gente del sud: frignona, contestataria e nel frattempo refrattaria ad ogni cambiamento e ad una autonoma e propria iniziativa, politica, economica e sociale.

Allora chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere? Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici.

Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista.

Un tempo non si buttava niente. Tutto si riciclava. Un tempo si era solo rigattieri senza speranza. Si acquistava e si rivendeva roba vecchia, usata, fuori uso o fuori moda, specialmente vestiti, masserizie e simili. La rigattierìa era ciarpame vecchio senza valore, oggetti di scarto.

Oggi, in nome del consumismo sfrenato, alla faccia dei comunisti desunti, non si butta il vecchio o rotto cialtrame, ma tutto quello che in casa non trova posto o non viene usato. I figli crescono? La tecnologia avanza? I vestiti son fuori moda? Via tutto. Roba nuova, oltretutto ancora imballata, la ritrovi nelle oasi della raccolta differenziata dei rifiuti. A regalarla agli altri, sia mai. Anzi buttata…E poi chi la vuole? A proporla diventa un'offesa. Il consumismo sfrenato anche per chi non ha da mangiare… Dove siamo arrivati. I conformisti e conformati, poi, se ti vedono a razzolare intorno a quei beni buttati, ma utilizzabili, ti prendono per un “Barbone” che rovista nei rifiuti.

Oggi si è solo Antiquari. Il rigattiere, a differenza dell’antiquario, non seleziona e non valorizza; semplicemente, rimette in circolazione dei beni che possono avere ancora una loro funzione. Ed oggi le cose vecchie vanno solo al macero. Vale per le cose; vale per le persone.

È ora di dirselo, l’uomo comune è una merda. Dopo la Teoria della classe disagiata, minimumfax continua ad analizzare la società italiana contemporanea, ma questa volta si parla della Gente, quella variopinta galassia di umanità rabbiosa, che odia la Casta e non si fida più di nessuno, ma che è ormai al centro della politica italiana, scrive Andrea Coccia il 24 Ottobre 2017 su L’Inkiesta. Non è passato nemmeno un mese dall'uscita in libreria di Teoria della classe disagiata, il libro con cui Raffaele Alberto Ventura ha cercato di descrivere la traiettoria e lo scacco a cui è soggetta la classe creativa e intellettuale, minimumfax torna ad affrontare la realtà con un libro che per molti versi alla Teoria di Ventura è speculare. Si tratta de La gente. Viaggio nell'Italia del risentimento e raccoglie l'esperienza di reporter di Leonardo Bianchi, uno che negli ultimi anni si è fatto notare per le sue scorribande pubblicate da Vice, Internazionale, ValigiaBlu, ed è sostanzialmente un ritratto, multiforme e sfaccettato come il soggetto di cui parla, di una parte della società che probabilmente per i disagiati di Ventura è “fuori dalla bolla”, ma che rappresenta una grande parte dell'Italia e non solo. Dal movimento dei Forconi ai neofascisti delle periferie romane, dai complottisti agli anti gender fino ai giustizieri della notte de noartri, difensori improvvisati dell'ordine pubblico e paladini della legittima difesa, ma anche buongiornisti, gonzonauti e boccaloni di ogni tipo: la galassia della Gente — che altri chiamano la Ggente, con la doppia — è dispersa per tutta la penisola, da Nord a Sud, e pure al Centro, non fa distinzione geografiche, né campanilistiche. Il denominatore comune di questa ggente è la rabbia, il risentimento, il richiamo all'autorità — della polizia, delle armi, della legittima difesa — e il rigetto verso qualsiasi cosa c'entri con l'autorevolezza, la conoscenza e l'intellettualità. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. Quello di Leonardo Bianchi è un gran lavoro, ma d'altronde lo è sempre stato. A differenza di quello teorico di Ventura, il suo ha le radici ben piantate nella cronaca, nei volti e nelle vite dei personaggi che mette in scena — e che non di rado racconta in maniera decisamente cinematografica — ma nello stesso tempo riesce a non privarsi della profondità, del tentativo di uscire dall'hic et nuncunendo i puntini e cercando di vedere il quadro complessivo. Per qualcuno la Ggente sarebbe l'ultima evoluzione del Popolo, quell'entità che è entrata a piedi uniti nella politica a partire dall'epoca delle rivoluzioni, ma forse è qualcosa di più complesso. Per cercare di definirlo Bianchi ne traccia tre grandi caratteristiche: il forte risentimento verso la cosiddetta Casta; la rabbia esasperata, indignata, ma soprattutto non imbrigliata in una ideologia di partito; e la tendenza a inventare e a credere a teorie del complotto e versioni alternative nei campi della storia, della geopolitica, della medicina. Eppure, la sensazione che resta dopo la lettura dei reportage di Bianchi è che più che al popolo, questa gente somigli alla folla, quella entità che iniziò ad apparire nell'immaginario collettivo intorno alla metà dell'Ottocento, descritta nel celebre racconto di Edgar Poe, l'Uomo della folla. È probabilmente più da quella massa variegata ma indistinta, da quel flusso che figliò poi nel Novecento la società di massa dell'omologazione e dell'individualismo apolitico che nasce il gentismo e la gente. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. I popoli erigevano monumenti ai propri eroi e ci si raccoglieva intorno al momento delle proprie rivendicazioni politiche, la gente, che non ha nemmeno più grandi rivendicazioni da fare, la strada la teme, la guarda di sottecchi dalle finestre dei piani alti di qualche caseggiato popolare, covando rabbia, rancore, risentimento. Con il popolo una volta si poteva immaginare di costruire delle comunità, con la gente, ora, non si costruisce nulla, ma al contrario, si distrugge.

MELITO PORTO SALVO – AVETRANA. IL FILO CONTINUO DEL LINCIAGGIO DI UNA COMUNITA’.

“Giornalisti, mafiosi ed omertosi siete voi!”

Quando il rigurgito del brodo primordiale dell’ignoranza produce conati di vomito di razzismo.

Un fatto di cronaca diventa lo stimolo per condannare una comunità.

Il commento del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che ha scritto “Reggio e La Calabria, quello che non si osa dire” e “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese”.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.

Il giornalista per essere tale deve essere abilitato: ossia deve essere conforme ed omologato ad una stessa linea di pensiero.

E’ successo ad Avetrana dove i pennivendoli a frotte si son presentati per dare giudizi sommari e gratuiti, anziché raccontare i fatti con continenza, pertinenza (attinenza) e verità. Hanno estirpato dichiarazioni a gente spesso non del posto e comunque con una bassa scolarizzazione, o infastidita dalla loro presenza, cestinando le testimonianze scomode per il loro intento. Certo è che a Brembate di Sopra, per il caso di Yara Gambirasio, hanno trovato impedimento alle loro scorribande per la meritoria presa di posizione del sindaco del luogo.

E’ successo a Melito Porto Salvo dove il fatto di cronaca è divenuto secondario rispetto all’intento denigratorio dei pseudo giornalisti, sobillato dai soliti istinti razzisti di genere o di corporazione o di interesse politico. E certo, che come a Mesagne per la vicenda di Melissa Bassi, dove la mafia era estranea, non poteva mancare l’intervento di “Libera” per dare una parvenza di omertà e ‘ndranghetismo sulla vicenda. Non c’è migliore visibilità se non quella di tacciare di mafiosità una intera comunità.

Nel render conto della vicenda nei miei libri sociologici ho avuto enorme difficoltà, fino all’impossibilità, a trovare un pezzo che riportasse la testimonianza di tutte quelle persone per bene di Melito, assunte tutto ad un tratto, dalle penne malefiche e conformi, a carnefici di una ragazzina.

Il tarlo che pervade i pennivendoli è sempre quello: MAFIA ED OMERTA’.

Eppure il sindaco di Melito ha espresso totale solidarietà alla 13enne abusata e ciononostante non poteva non difendere il suo paese e la sua comunità, cosa che a Mesagne ed ad Avetrana non è successo. “Nel paese c’è una parte di omertà e una parte di ‘ndrangheta ma il paese non è tutto ‘ndrangheta e non è tutto omertà, nel paese c’è una parte sana che è la stragrande maggioranza”. Così il sindaco di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, commenta le polemiche che si sono scatenate intorno alla vicenda della ragazza vittima di violenza sessuale di gruppo. Libera, nei giorni scorsi, ha organizzato per la ragazza una fiaccolata a cui però hanno partecipato poche persone. “Alla fiaccolata, è vero, ha partecipato solo il 10% della popolazione, io avrei gradito una presa di posizione forte ma non posso condannare chi non se l’è sentita di venire, devo rispettare la volontà di ognuno”, ha detto il sindaco. Quello che è successo, ha sottolineato il primo cittadino, “è la cosa peggiore accaduta nella storia melitese in assoluto, da parte mia c’è una ferma e piena condanna e totale solidarietà alla ragazzina. La cosa principale adesso è salvaguardare il suo interesse con ogni forza e ogni mezzo. Come sindaco e come genitore mi sento corresponsabile per quello che è accaduto e in questa vicenda ci sono responsabilità di tutti, la scuola, la chiesa, la società civile – ha aggiunto – Tutti ci dobbiamo interrogare”. “Adesso quello che posso fare è spendermi per vedere cosa si può fare per la ragazza – ha detto il sindaco – ho già fatto la delibera di indirizzo per la costituzione di parte civile quando si farà il processo. Ci siamo impegnati per sostenere le spese legali. L’indirizzo è quello di aiutare la famiglia. I ragazzi che hanno causato questa situazione vanno condannati a prescindere, quello che è stato fatto è inimmaginabile ma auguro loro un futuro migliore e apro loro la porta del perdono”.

Questa presa di posizione ai pennivendoli è di intralcio. Su “Stretto web” del 13 settembre 2016 si legge. “Il Comitato di redazione della Tgr Calabria, in una nota a firma dei suoi componenti, Livia Blasi, Gabriella d’Atri e Maria Vittoria Morano, “respinge con forza – è detto in un comunicato – gli ingiustificati e reiterati attacchi da parte del primo cittadino di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, al servizio pubblico, colpevole, a suo dire, di sciacallaggio mediatico. Il riferimento è al modo in cui il nostro giornale avrebbe trattato la vicenda di abusi e violenze di gruppo ai danni di una ragazzina”. “In particolare, in occasione della marcia silenziosa organizzata da Libera – aggiunge il Cdr – dal palco, il sindaco ha fortemente criticato i servizi realizzati sul caso dalla Tgr Calabria sostenendo: “Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi”, come riportato anche dall’inviato de “La Stampa”, Niccolo’ Zancan, autore di un reportage pubblicato in data 11 settembre sul quotidiano torinese. Testimone degli attacchi, il service per le riprese “Bluemotion”, nella persona della nostra collaboratrice Giusy Utano, presente alla fiaccolata per conto della Tgr Calabria e alla quale va tutta la nostra solidarietà”. “La posizione assunta dal primo cittadino di Melito – è detto ancora nella nota – ci colpisce e ci sorprende. La Tgr Calabria, infatti, come testimoniano i servizi andati in onda e visionabili sul sito on-line della testata, ha trattato sin dal primo momento il caso con tutte le cautele possibili, nel rispetto sia della vittima che dei suoi presunti carnefici. Nostra volontà, inoltre, è stata quella di raccontare di una comunità ferita e darle voce e questo abbiamo fatto. Ne è emerso un contesto assai complesso in cui non sono mancati atteggiamenti di chiusura, di condanna, di riflessione ma anche di vicinanza e solidarietà ai ragazzi del branco. Fedeli al dovere di cronaca, abbiamo “fatto parlare” le immagini e dato spazio alle diverse testimonianze raccolte. Pertanto, non crediamo che questo corrisponda a denigrare la comunità di Melito. D’altronde, lo stesso Sindaco, ai nostri microfoni, ha sottolineato come nella vicenda tutti abbiano la loro parte di responsabilità. “Sono mancate – ha detto – la famiglia, la scuola, la chiesa, la società’ civile, la politica, le associazioni sportive. Nessuno può dirsi esente da responsabilità. Tutti dobbiamo recitare un mea culpa’”. “A questo punto – conclude il Cdr della Tgr Calabria – ci chiediamo, qual è l’offesa da noi arrecata alla comunità di Melito? E’ evidente che non ne abbiamo alcuna in una vicenda di per sè talmente dolorosa da essere capace, da sola, di scuotere l’opinione pubblica e sollecitare non poche riflessioni”.

L’offesa più grande arrecata alla comunità non è quello che si è voluto far vedere, anche artatamente, istigando i commenti più crudeli e sprezzanti su di essa, ma quello che si è taciuto per poter meglio screditarla. L’omertà è in voi, non nei Militesi. Avete omesso di raccontare quel paese pulito con una comunità onesta, coinvolta inconsapevolmente in una cruda vicenda. Ecco perché non ci dobbiamo meravigliare di trovare e leggere solo articoli fotocopia con un fattore comune: ’Ndrangheta ed omertà. Lo stesso atteggiamento avete avuto con Avetrana. Sembra un film già visto.

Cari giornalisti, parlare di un semplice fatto di cronaca come quello contemporaneo di Tiziana Cantone, suicida per il video hot nel napoletano, senza coinvolgere la Comunità locale? Non ce la potete proprio fare? Godete ad infangare le comunità del sud? E che soddisfazione si trae se a scrivere nefandezze è proprio quella gente del sud che condivide territorio, lingua, cultura, tradizioni, usi di quella stessa gente che denigra?

Un’ultima cosa. In queste stravaganti e bizzarre liturgie delle fiaccolate che servono per far sfilare chi è in cerca di notorietà io non ci sono mai andato: a Mesagne ed a maggior ragione ad Avetrana, perché cari giornalisti: mafiosi ed omertosi siete voi ed io dai mafiosi mi tengo lontano!”

Se questi son giornalisti… “Ma nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salentino, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci, masserie rifatte a bed and breakfast e pozzi sperduti nel buio. Come ad Avetrana, del resto, l’omertoso paese di Sarah Scazzi, che dista un’ora di strada da qui, ma meno d’un sospiro di silenzio da questa trama mostruosa, quest’altra, quasi in fotocopia, di un’altra ragazzina sepolta nei campi, di altre famiglie disfunzionali o malate, di familismi amorali che diventano delitto e complicità, perché la legge non varca l’orto di casa”. Goffredo Buccini 13 settembre 2017 Corriere della Sera.

Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali.

Specchia. Noemi Durini e Lucio Marzo. Un film già visto, come Sarah Scazzi.

Lucio Marzo, fidanzato di Noemi, ha confessato ed ha fatto trovare il corpo.

Per il delitto di Sarah Scazzi, Michele Misseri, reo confesso, anch’egli ha fatto trovare il corpo, ma non è stato condannato per l’omicidio.

Chi sarà condannato per il delitto di Noemi Durini?

A Specchia, come ad Avetrana, si aspettavano i giornalisti con le palle, ma son arrivati solo…i coglioni.

Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi. Lettera al Direttore. Se questa è antimafia…di Antonio Giangrande*

In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale.

Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposti a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate.

L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione?

E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile?

E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi?

La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere.

La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…

Allora niente è mafia.

E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

*Antonio Giangrande ha scritto dei saggi sulla Mafia. (Mafiopoli; La Mafia dell’Antimafia; Castopoli; Massoneriopoli; Impunitopoli.)

Antonio Giangrande: Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Imparare ad imparare. Ci ho messo anni a capire l’importanza del significato di questa frase. L’arroganza e la presunzione giovanile dapprima me lo ha impedito. Condita da una buona dose di conformismo. Poi con il passare del tempo è arrivata la saggezza.

Capire di dover capire significa non muoversi a casaccio, senza una meta, senza un fine, senza un programma. Capire di dover capire significa chiedersi che senso ha ogni passo che ci indicano di compiere e che compiamo, ogni prova che superiamo, ogni giorno che spendiamo insieme a delle persone. Quante volte approcciamo un problema con la reale convinzione di risolverlo con indicazioni di altri, senza chiederci se davvero esiste una strada differente per arrivare ad una conclusione sensata.

Ecco, capire di dover capire. Non muoversi a caso, per sentito dire, parlando con le persone sbagliate, non valutando attentamente ogni passo che si deve compiere. Per fare questo dobbiamo essere pronti ad “imparare ad imparare” ovvero lasciare da parte nozioni acquisite e preconcetti e ad aprirci al nuovo.

Imparare ad imparare significa creare un percorso.

Serve leggere libri? Se la risposta è positiva dobbiamo adottare un metodo per selezionare quali libri leggere perché la mole dei libri in circolazione è tale che non potremmo reggere il passo, ne, tantomeno, compararne logica e verità.

Art. 21 della Costituzione: diritto di manifestare il proprio pensiero. Diritto di critica e di cronaca; diritto di informare ed essere informati. C'è qualcuno che crede, invece, che sia diritto al villipendio e alla diffamazione, nascondendosi dietro l'anonimato. Più io cerco di cancellare questi pseudo amici infiltrati per fare propaganda politica, più loro si moltiplicano.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.

Noi non siamo poveri. Ci vogliono poveri. Non siamo in democrazia. Siamo in oligarchia politica ed economica.

Perchè i regimi cosiddetti democratici ci vogliono poveri? Per incentivare lo schiavismo psicologico che crea il potere di assoggettamento. Nessun regime capitalistico o socialista agevola il progresso economico delle classi più abbienti e numerose, che nelle cosiddette democrazie rappresentative sono indispensabili alla creazione ed al mantenimento del Potere.

Il Regime capitalista è in mano a caste e lobby che pongono limiti e divieti al libero accesso ed esercizio di professioni ed imprese.

Il regime socialista è in mano all'élite politica che pone limiti alla ricchezza personale.

Tutti i regimi, per la loro sopravvivenza, aborrano la democrazia diretta e l'economia diretta. Infondono il culto della rappresentanza politica e della mediazione economica. Agevolano familismo, nepotismo e raccomandazioni.

Muhammad Yunus, l’economista bengalese settantottenne, Nobel per la pace nel 2006, che con l’invenzione del microcredito in 41 anni ha cambiato l’esistenza di milioni di poveri portandoli a una vita dignitosa, non ha avuto esitazioni, giovedì 17 maggio 2018 all’Auditorium del grattacielo di Intesa San Paolo a Torino, nell’indicare la via possibile verso l’impossibile: eliminare la povertà. E contestualmente la disoccupazione e l’inquinamento. Come riferisce Mauro Fresco su Vocetempo.it il 24 maggio 2018, tutto il sistema economico capitalistico, nell’analisi di Yunus, deve essere riformato. A partire dall’educazione e dall’istruzione, immaginate per plasmare persone che ambiscono a un buon lavoro, a essere appetibili sul mercato; ma l’uomo non deve essere educato per lavorare, per vendere se stesso e i propri servizi, deve essere formato alla vita; l’uomo non deve cercare lavoro, ma creare lavoro, senza danneggiare altri uomini e l’ambiente. Perché ci sono i poveri, si domanda Yunus, perché la gente rimane povera? Non sono gli individui che vogliono essere poveri, è il sistema che genera poveri. Ci stiamo avviando al disastro, sociale e ambientale: oggi, otto persone possiedono la ricchezza di un miliardo di individui, questi scenari porteranno, prima o poi, a uno scenario violento: dobbiamo evitarlo. La civiltà è basata sull’ingordigia. Dobbiamo invece mettere in atto la transizione verso la società dell’empatia.

Yunus ha dimostrato, con il microcredito prima e con la Grameen Bank poi, che quella che a economisti e banchieri sembrava un’utopia irrealizzabile è invece un’alternativa concreta, che dal Bangladesh si è via via allargata a più di 100 Paesi, Stati Uniti ed Europa compresi. Con ironia, considerando la sede che lo ospitava, Yunus ha ricordato che, quando qualcuno gli ribadiva che un progetto non era fattibile, «studiavo come si sarebbe comportata una banca e facevo esattamente il contrario». Fantasia, capacità di rischiare e, soprattutto, conoscenza e fiducia nell’umanità, in particolare nelle donne, sono i segreti che hanno permesso di dar vita a migliaia di attività imprenditoriali, ospedali, centrali fotovoltaiche, sempre partendo dal basso e da progettualità diffuse. L’impresa sociale, che ha come obiettivo coprire i costi e reinvestire tutti profitti senza distribuire dividendi, sostiene Yunus, è l’alternativa possibile e molto concreta per vincere «la sfida dei tre zeri: un futuro senza povertà, disoccupazione e inquinamento», titolo anche del suo ultimo lavoro pubblicato da Feltrinelli. L’impresa sociale può permettersi di produrre a prezzi molto più bassi, non ha bisogno di marketing pervasivo, campagne pubblicitarie continue, packaging attraente per invogliare il consumatore. Così anche le "verdure brutte", quel 30 per cento di produzione agricola che l’Europa butta perché di forma ritenuta non consona per essere proposta al consumatore – «la carota storta, la patata gibbosa, la zucchina biforcuta una volta tagliate non sono più brutte» ha ricordato sorridendo Yunus – possono essere utilizzate da un’impresa sociale e messe in vendita per essere cucinate e mangiate.

«Il reddito di cittadinanza per tutti? È questo che intendiamo per dignità della persona? Ai poveri dobbiamo permettere un lavoro dignitoso, la carità non basta».

Il premio Nobel Yunus: "Il reddito di cittadinanza rende più poveri e nega la dignità umana". Scrive il HuffPost il 13 maggio 2018. L'economista ideatore del microcredito intervistato dalla Stampa: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo e senza creatività". "Il reddito di cittadinanza rende più poveri, non è utile a chi è povero e a nessun altro, è una tipica idea di assistenzialismo occidentale e nega la dignità umana". Parola di Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese che ha vinto il premio Nobel per la pace nel 2006 per aver ideato e creato la "banca dei poveri". In un'intervista a La Stampa, l'inventore del microcredito boccia tout court il caposaldo del programma M5S: "I salari sganciati dal lavoro rendono l'uomo un essere improduttivo, ne cancellano la vitalità e il potere creativo".

Secondo Yunus l'Europa ha un grande limite. "L'Asia avrebbe bisogno di molte cose che in Europa ci sono e ci sono da tanto tempo, ma trovo che da voi ci sia un pensiero unico che limita gli slanci. Mi spiego meglio: le società europee sono ossessionate dal lavoro, tutti devono trovare un lavoro, nessuno deve rimanere senza lavoro, le istituzioni si devono preoccupare che i cittadini lavorino... Invece in Asia la famiglia è il luogo più importante e non c'è questo pensiero fisso del lavoro: esiste una sorta di mercato informale, in cui gli uomini esercitano loro stessi come persone. Penso che la lezione positiva che viene dall'Asia sia quella di ridisegnare il sistema finanziario attuale, privilegiando la dignità delle persone e il valore del loro tempo".

Durissimo il giudizio sul reddito di cittadinanza. "è la negazione dell'essere umano, della sua funzionalità, della vitalità, del potere creativo. L'uomo è chiamato a esplorare, a cercare opportunità, sono queste che vanno create, non i salari sganciati dalla produzione, che per definizione fanno dell'uomo un essere improduttivo, un povero vero".

Noi abbiamo una Costituzione comunista immodificabile con democrazia rappresentativa ad economia capitalista-comunista e non liberale.

I veri liberali adottano l'economia diretta con la libera impresa e professione. Lasciano fare al mercato con la libera creazione del lavoro e la preminenza dei migliori.

I veri democratici adottano la democrazia diretta per il loro rappresentanti esecutivi, legislativi e giudiziari, e non quella mediata, come la democrazia rappresentativa ad elevato astensionismo elettorale, in mano ad un élite politica e mediatica.

Ci vogliono poveri e pure fiscalmente incu…neati.

Quanto pesa il cuneo fiscale sui salari in Italia? E in Europa? Nell'ultimo anno la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà, scrive l'Agi.

Che cos’è il cuneo fiscale e quanto pesa in Italia. Il cuneo fiscale – in inglese Tax wedge – è definito dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) come «il rapporto tra l’ammontare delle tasse pagate da un singolo lavoratore medio (una persona single con guadagni nella media e senza figli) e il corrispondente costo totale del lavoro per il datore».

Nella definizione dell’Ocse sono comprese oltre alle tasse in senso stretto anche i contributi previdenziali. Quindi se per un datore il costo del lavoratore è pari a 100, il cuneo fiscale rappresenta la porzione di quel costo che non va nelle tasche del dipendente ma nelle casse dello Stato. Nel caso dei contributi, i soldi raccolti dallo Stato vengono poi restituiti al lavoratore sotto forma di pensione (ma, come spiega l’Inps, nel nostro sistema “a ripartizione” sono i lavoratori attualmente in attività a pagare le pensioni che vengono oggi erogate: non è che il pensionato incassi quanto lui stesso ha versato nel corso della propria vita, come se avesse un conto personale e separato presso l’Inps).

Secondo il più recente rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 – pubblicato l’11 aprile 2019 – nel 2018 in Italia la busta paga di un lavoratore medio (circa 30 mila euro lordi) era tassata del 47,9 per cento. Quindi su 100 euro di lordo in busta paga, a un lavoratore italiano medio arriva un netto di 52,1 euro. Quasi la metà. Ma come siamo messi in Europa da questo punto di vista?

La situazione in Europa. Il rapporto dell’Ocse Taxing Wages 2019 contiene anche una classifica dei suoi Stati membri, in base al peso del cuneo fiscale. Andiamo a vedere come si posizionano l’Italia e il resto degli Stati Ue presenti in classifica. Roma arriva terza, con il 47,9 per cento. Davanti ha il Belgio, primo in classifica con un cuneo fiscale (e contributivo) pari al 52,7 per cento, e la Germania con il 49,5 per cento. Subito sotto al podio si trova la Francia, con il 47,6 per cento, appaiata con l’Austria. Seguono poi Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia, Lettonia e Finlandia. Gli altri Stati comunitari grandi e medio-grandi sono nettamente più in basso in classifica: la Spagna è sedicesima nella Ue con il 39,6 per cento, la Polonia ventesima con il 35,8 per cento, e il Regno Unito ventitreesimo con il 30,9 per cento. Londra è poi, dei Paesi Ue che sono anche membri dell’Ocse, quello con il cuneo fiscale minore.

Altri Paesi Ocse. In fondo alla classifica dell’Ocse non troviamo nessuno Stato dell’Unione europea. La percentuale più bassa è infatti attribuita al Cile, appena il 7 per cento di cuneo fiscale. Davanti, staccati, arrivano poi Nuova Zelanda (18,4) e Messico (19,7). Degli Stati europei, ma non Ue, quello con la percentuale più bassa è la Svizzera, con un cuneo fiscale del 22,2 per cento. Gli Stati Uniti, infine, hanno un cuneo pari al 29,6 per cento. La media Ocse è del 36,1 per cento.

Conclusione. In Italia il cuneo fiscale è pari al 47,9 per cento. Questa è la terza percentuale più alta tra i Paesi dell’Ocse. Davanti a Roma si trovano solamente Berlino e Bruxelles.

Antonio Giangrande. A COME ABUSIVISMO EDILIZIO ED EVENTI NATURALI.

La Natura vive. Alterna periodi di siccità a periodi di alluvioni e conseguenti inondazioni.

La Natura ha i suoi tempi ed i suoi spazi.

Anche l’uomo ha i suoi tempi ed i suoi spazi. Natura ed Uomo interagiscono, spesso interferiscono.

Un fenomeno naturale diventa allarmismo anti uomo degli ambientalisti.

Da sempre in montagna si è costruito in vetta o sottocima, sul versante o sul piede od a valle.

Da sempre in pianura si è costruito sul greto di fiumi e torrenti.

Da sempre lungo le coste si è costruito sul litorale.

Cosa ci sia di più pericoloso di costruire là, non è dato da sapere. Eppure da sempre si è costruito ovunque perché l’uomo ha bisogno di una casa, come gli animali hanno bisogno di una tana.

Invece, anziché pulire gli alvei (letti) dei fiumi o mettere in sicurezza i costoni dei monti per renderli sicuri, si impongono vincoli sempre più impossibili da rispettare.

Invece di predisporre un idoneo ed aggiornato Piano Regolatore Generale (Piano Urbanistico Comunale) e limitare tempi e costi della burocrazia, si prevedono sanzioni per chi costruisce la sua dimora.

A questo punto, quando vi sono delle disgrazie, l’allarmismo dell’ambientalismo ideologico se la prende con l’uomo. L’uomo razzista ed ignorante se la prende con i meridionali: colpa loro perché costruiscono abusivamente contro ogni vincolo esistente.

Peccato che le disgrazie toccano tutti: in pianura come in montagna o sulla costa, a prescindere dagli abusi o meno fatti da Nord a Sud.

Solo che al Nord le calamità sono disgrazie, al Sud sono colpe.

Peccato che i media razzisti nordisti si concentrano solo su temi che discriminano le gesta dei loro padroni.

L’abbattimento delle case private. Abusivo: Condonato e distrutto.

L’inerzia delle amministrazioni pubbliche: ambientalismo militante e toghe politicizzate.

Il privato con diritto alla casa, rinunciando all’assegnazione o all’occupazione abusiva di un appartamento pubblico, non aspetta i tempi biblici degli intimoriti amministratori che, per interessi privati o per lo spauracchio dell’abuso d’ufficio, negano il diritto ad una salubre esistenza, non adottando gli strumenti urbanistici adeguati, o non approvando in tempi accettabili un progetto lecito presentato. Il buon padre di famiglia provvede, per necessità, a dare un tetto ai suoi cari, investendo i risparmi di una vita. Chi è abituato a chiedere ed a ottenere una casa senza sudore della sua fronte in conto alla comunità, si oppone a tutto ciò.

Fognature, depuratori, allacci e salassi.

Con questa mia, tratto di un posto, ma è riferito a tutto il territorio pugliese: imposizione dei siti di raccolta e smaltimento delle acque nere, con l’aggravante dello scarico a mare, ed imposizione di salassi per servizi non resi.

Più volte, inascoltato, ho parlato del depuratore-consortile di Manduria-Sava, viciniori alla frazione turistica di Avetrana, con il progetto dello scarico a mare delle acque reflue. L’ho fatto come portavoce dell’associazione “Pro Specchiarica” (zona di recapito della condotta sottomarina di scarico) e come presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Il progetto sul depuratore e sullo scarico a mare fu avviato dai sindaci di Manduria: da Antonio Calò e proseguito da Francesco Saverio Massaro, Paolo Tommasino, Roberto Massafra. I governatori e le giunte regionali hanno autorizzato i depuratori e gli scarichi a mare, (quindi non solo quello consortile di Manduria-Sava posto a confine al territorio di Avetrana e sulla costa). I vari governatori sono stati Raffaele Fitto del centro destra e Nicola Vendola del centro sinistra. Entrambi gli schieramenti hanno preso per il culo (intercalare efficace) le cittadinanze locali, preferendo fare gli interessi dell’Acquedotto pugliese, loro ente foriero di interessi anche elettorali. Le popolazioni in rivolta, in particolare quelle di Avetrana, sono sobillate e fomentate da quei militanti politici che ad Avetrana hanno raccolto, prima e dopo l’adozione del progetto, i voti per Antonio Calò alle elezioni provinciali e per tutti i manduriani che volevano i voti di Avetrana. Il sindaco Luigi Conte, prima, e il sindaco Mario De Marco, dopo, nulla hanno fatto per fermare un obbrobrio al suo nascere. Conte ha pensato bene, invece, con i soldi pubblici, di avviare una causa contro Fitto per la riforma sanitaria. In più, quelli del centro destra e del centro sinistra, continuavano e continuano ed essere portatori di voti per Raffaele Fitto e per Nicola Vendola, o chi per loro futuri sostituti, e per gli schieramenti che li sostengono. Addirittura Pietro Brigante sostenitore dell’amministrazione Calò nulla ha fatto per rimediare allo scempio. Brigante, nativo di Avetrana e candidato sindaco proprio di Avetrana.

Ma oggi voglio parlare d’altro, sempre in riferimento all’acquedotto pugliese e al problema depurazione delle acque. In generale, però. Giusto per dire: come ci prendono per il culo (intercalare efficace).

Di questo come di tante altre manchevolezze degli ambientalisti petulanti e permalosi si parla nel saggio “Ambientopoli. Ambiente svenduto”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it.

L’acquedotto Pugliese ha fretta per l’inizio dei lavori del depuratore di Manduria e Sava e della relativa condotta sottomarina. L’ente idrico ricorda che i finanziamenti accordati dalla Regione Puglia per la realizzazione dell’opera già appaltata, sono fruibili entro il 31 dicembre del 2015. Quindi solo di speculazione si tratta: economica per l’AQP; politica per gli amministratori regionali in previsione delle elezioni regionali??

Si parla sempre di Depurazione e scarico in mare. Perché non si parla mai di Fitodepurazione? Perché non fornire agli operatori del settore significativi spunti di riflessione attorno ai vantaggi e alle opportunità reali della fitodepurazione? La fitodepurazione non è solo una tecnica naturale di rimozione degli inquinanti utilizzabile per i reflui di provenienza civile, industriale ed agricola: è, allo stesso tempo, strumento efficace di miglioramento e salvaguardia ambientale. Rappresenta, altresì, una risposta concreta ed economicamente interessante nella gestione delle acque di scarico di derivazione civile ed industriale. Invece no. Nulla si guadagnerebbe!

Comunque, l'uso di immobili non serviti da fognature regolari comporta per i proprietari l'applicazione delle Sanzioni Amministrative previste dall’art. 133 del D.L.vo n. 152/2006 e, costituendo inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità, delle sanzioni previste dall'art. 650 del C.P., per cui gli utenti devono comunicare tempestivamente all'Amministrazione Comunale l'avvenuta realizzazione dell'allacciamento, onde prevenire successivi controlli ed

eventuali contestazioni ovvero irrogazione di sanzioni. Alla scadenza del termine prima indicato la immissione di reflui in sistemi di raccolta provvisori (vasche a tenuta stagna e quant’altro) viene a configurare fattispecie illecite riconducibili all’abbandono di rifiuti. Gli immobili non allacciati saranno ritenuti inagibili in quanto privi di autorizzazione allo scarico. L'uso di immobili non serviti da fognature regolari comporta per i proprietari l'applicazione delle sanzioni amministrative e penali previste al Titolo V del D.Lgs. 11.05.1999 n.152 e s.m.i. E’ altresì fatto assoluto divieto di far confluire nella rete pubblica di fognatura nera le acque.

Ma andiamo avanti. Il Sindaco di Avetrana Mario De Marco con Ordinanza n. 7 del 15 aprile 2014 Prot. n. 2543, impone l’allaccio obbligatorio alla rete fognaria entro luglio 2014. Tutto il paese è nel panico per quanto riguarda le opere di allaccio, tenuto conto che la maggior parte sono vecchie case ed i collegamenti partono dalla parte posteriore delle abitazioni. Migliaia di euro di spesa. Il Sindaco è a posto. I cittadini, no!

“Manduria Oggi” del 22 giugno 2014 scrive “il gruppo consiliare “Per la Rinascita di Avetrana” chiede al sindaco di ritirare l’ordinanza con la quale i cittadini vengono obbligati ad allacciarsi alla rete della fognatura. La decisione è scaturita al termine di un incontro pubblico promosso dallo stesso gruppo consiliare, al quale ha partecipato l’assessore ai Lavori Pubblici, Daniele Petarra. «I dubbi che avevamo prima dell’incontro sono rimasti tali» si legge in una nota che reca la firma dei consiglieri Conte, Lanzo e Micelli. «L’assessore Petarra non ha saputo fornire risposte precise e dettagliate sui tempi di funzionamento della rete fognaria e del depuratore...Inoltre non ci sembra giusto che i cittadini debbano sborsare una somma importante al momento della presentazione della domanda, per poi non sapere quando e se andrà tutto in funzione».

Per quasi tutti i cittadini avetranesi, che non vogliono spender soldi e continuare a vivere nell’illegalità, questa nota dell’opposizione di sinistra è un buon alibi per non adempiere ai doveri e continuare ad inquinare. Ma la beffa è che, per chi più onesto degli altri è stato pronto a contrarre il servizio, rispetto ad altri più riottosi o addirittura omittenti, dal 1° maggio 2014 gli sono addebitati in bolletta la quota fissa e variabile di fognatura e depurazione, per sé ed anche per i terremotati. Una mazzata. Peccato, però, che l’allaccio non c’è e non si sa quando ci sarà.

Bene a chi credere?

Al sindaco? In caso contrario ha commesso abuso di ufficio e falso in atto pubblico.

A Conte, Micelli e Lanzo? In caso contrario vi è procurato allarme ed istigazione a delinquere.

E comunque non all’Acquedotto pugliese che si fa pagare gli oneri di servizio da tutti, anche da chi non ha fatto domanda di allaccio, quantunque non eroghi il servizio promesso.

Quindi i depuratori si costruiscono con i finanziamenti regionali e il servizio si paga anche se non c’è? Mi chiedo dove si impara a fare impresa in questo modo. Vorrei sapere chi sono i docenti.

Svista, speculazione, o cosa? Ma intanto il sindaco Mario De Marco è a posto con la sua coscienza e la sua responsabilità amministrativa. Così come per il depuratore di Manduria, vale anche per il depuratore di Avetrana.

Imposizione dei siti di raccolta e smaltimento delle acque nere, con l’aggravante dello scarico a mare ed imposizione di salassi per servizi non resi. Spero che questo succeda solo ad Avetrana, perché se succede in tutta la Puglia (e a me risulta di sì), be’ stiamo proprio freschi e salassati!

A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire….diamo proposte e non proteste.

Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno abbiamo bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane.

E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS?

Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.

E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti.

Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.

I governanti sono esclusivamente economisti. Loro valutano il costo delle loro decisioni in termini economici, non misurano l’indispensabilità, quindi l’utilità delle loro scelte. Il popolo vuole pane e divertimento. La libertà, per la gleba, può andarsi a fare fottere. Ecco perché i governi scelgono di non far niente. E quel niente è importante che sia più utile che giusto. In questo modo cristallizzano lo status quo.

I Governi sono in balia degli umori del popolo.

I capitalisti non vogliono dare niente, i comunisti vogliono solo avere tutto.

I Governi, dettata l’agenda economica, non avendone la perizia, delegano l’aspetto pratico del governare agli apparati burocratici. I burocrati ed i magistrati legiferano e decretano a loro vantaggio, ammantando il loro potere fossilizzato da abuso ed impunità decennale.

Il popolo tapino subisce e tace, senza scrupolo di coscienza, perché chi non vuol dare, non dà; chi vuole avere, ha!

La liturgia della politica nel nome della democrazia, in fondo, è tutta una presa per il culo….

Perché non esiste politica; non esiste democrazia. Esiste solo l’economia e la finanza. L'utile ed il dilettevole.

I soldi governano il mondo. Non la democrazia o la dittatura, né tanto meno la fede.

Poveri stolti. “Non fatevi tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano; ma fatevi tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano né rubano” (Matteo 6:19-20).

Vangelo di Matteo, 7, 1: “Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.”

Col giudizio con cui giudichi sarai giudicato… ma non da Dio – e difatti Gesù non dice minimamente una cosa del genere – ma da te stesso, perché tu sei il tuo unico giudice. La misura la decidi tu, e anche questo Gesù lo dice molto chiaramente, in un modo indubitabile per chiunque non abbia dei paraocchi davanti agli occhi.

Giudica, e sarai giudicato. Perdona, e sarai perdonato. Dai, e ti sarà dato. E sarai sempre tu a giudicarti, a perdonarti e a darti qualcosa, perché sei tu l’unico padrone delle tue energie interiori.

Matteo 7:

1 Non giudicate, per non essere giudicati;

2 perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.

3 Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?4 O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave?

5 Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.

6 Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.

7 Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto;

8 perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.

9 Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra?

10 O se gli chiede un pesce, darà una serpe?

11 Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!

12 Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.

13 Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa;

14 quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!

15 Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci.

16 Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?

17 Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi;

18 un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni.

19 Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco.

20 Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.

21 Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.

22 Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?

23 Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.

24 Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia.

25 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia.

26 Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia.

27 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande».

28 Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento:

29 egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.

Io, Antonio Giangrande, sono orgoglioso di essere diverso.

Faccio quello che si sento di fare e credo in quello che mi sento di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

A proposito di Islam

Fermo restando che ci sono tantissime persone di fede islamica che sono della brava gente, non posso che esprimere i miei più profondi dubbi sulla "buona fede" della religione musulmana. Ciò che più non capisco è come si possa denigrare la nostra cultura, quella occidentale, che ha portato l'uomo ad un successivo livello di evoluzione e difendere senza "se" e senza "ma" una cultura/società che, IN GRAN PARTE, è ferma al medioevo, in cui le donne sono sottomesse all'uomo e considerate di loro proprietà, i "miscredenti" e i peccatori vengono uccisi, la "Sharia" si basa sulla "legge del taglione", gli omosessuali perseguitati, la libertà religiosa un miraggio, i diritti più basilari sono ancora da conquistare, una civiltà che per secoli ci ha attaccato, invaso, depredato, tentato di conquistarci. E con le ondate di immigrazione proprio dal mondo arabo rischiamo di dover convivere IN CASA NOSTRA con tutte queste situazioni. Ma ciò che trovo più strano, però, è il fatto che coloro che difendono il mondo islamico sono proprio coloro che partecipano ai gay pride, sono attivisti per i diritti delle donne, ecc. Forse perché i voti alle elezioni valgono più di ogni tipo di coerenza.

P.S. Qualche migliaia di immigrati islamici su 60 milioni di abitanti di certo non sono un problema, ma se cominciano a diventare qualche milione la situazione cambia. Occhio...

Non mi sento italiano…ma per fortuna o purtroppo lo sono…

Dialogo con un mussulmano in Italia.

«Perché tu sei così radicale?

Perché non abiti in Arabia Saudita???

Perché hai abbandonato già il tuo Paese musulmano?

Voi lasciate Paesi da voi definiti benedette da Dio con la grazia dell’Islam e immigrate verso Paesi da voi definiti puniti da Dio con l’infedeltà.

Emigrate per la libertà …

per la giustizia …

per il benessere …

per l’assistenza sanitaria ..

per la tutela sociale …

per l’uguaglianza davanti alla legge …

per le giuste opportunità di lavoro …

per il futuro dei vostri figli …

per la libertà di espressione ..

quindi non parlate con noi con odio e razzismo ..

Noi vi abbiamo dato quello che non avete …

Ci rispettate e rispettate la nostra volontà, altrimenti andate via».

Qualcuno afferma che queste frasi le abbia pronunciate Julia Gillard (primo ministro australiano) ed abbia rilasciato queste affermazioni nel 2005 rivolgendosi ad un Islamista radicale estremista in Australia.

Qualcun altro decreta che sia una bufala e che Julia Gillard non abbia mai proferito quelle frasi.

Se nessuno fino ad oggi ha dato paternità a queste frasi, allora dico: sono mie!

L’abbattimento delle case private. Abusivo: Condonato e distrutto.

L’inerzia delle amministrazioni pubbliche: ambientalismo militante e toghe politicizzate.

Il privato con diritto alla casa, rinunciando all’assegnazione o all’occupazione abusiva di un appartamento pubblico, non aspetta i tempi biblici degli intimoriti amministratori che, per interessi privati o per lo spauracchio dell’abuso d’ufficio, negano il diritto ad una salubre esistenza, non adottando gli strumenti urbanistici adeguati, o non approvando in tempi accettabili un progetto lecito presentato. Il buon padre di famiglia provvede, per necessità, a dare un tetto ai suoi cari, investendo i risparmi di una vita. Chi è abituato a chiedere ed a ottenere una casa senza sudore della sua fronte in conto alla comunità, si oppone a tutto ciò.

Quello che non ci dicono. Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti, che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico). Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali. 

PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA? Antonio Giangrande: “stavolta io sto con Roberto Saviano”.

Intervento di Antonio Giangrande, scrittore tarantino, autore di decine di saggi d’inchiesta.

Lo scrittore napoletano, autore di “Gomorra” e “Zerozerozero”, è accusato di aver inserito delle frasi altrui nei suoi libri, tratte da fonti non citate. Saviano si difende: “è cronaca…e la cronaca appartiene a tutti”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Come far sì che si parli di questioni delicate e pericolose che gli scribacchini non fanno? Come si fa a far conoscere situazioni locali e temporali su tutto il territorio nazionale e raccontate da autori poco conosciuti?

Quello che succede quotidianamente davanti ai nostri occhi è quello che vedono tutti e non ci sono parole diverse per raccontarlo. I racconti sono coincidenti. Possono cambiare i termini, ma i fattori non cambiano. Gli scribacchini, poi, nel formare i loro pezzi, spesso e volentieri si riportano alle veline dei magistrati e delle forze dell’Ordine.

Ergo: E’ una bestialità parlare di plagio.

E poi, l’informazione di regime dei professionisti abilitati alla conformità non è tutta un copia ed incolla?

Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Come per esempio: si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Quegli stessi mussulmani che in casa loro i cristiani li trucidano. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi.

A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire….diamo proposte e non proteste. Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno si è bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane. E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS? Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.

E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti. Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.

La sinistra usa la stessa solidarietà adottata con i migranti come nella lotta alla mafia: farsi assegnare i beni confiscati e farli gestire da associazioni o cooperative vicine a loro a alla CGIL o a Libera, che è la setta cosa.

Io ho trovato un sistema affinchè non sia tacciato di mitomania, pazzia o calunnia: faccio parlare chi sul territorio la verità scomoda la fa diventare cronaca ed io quella realtà contemporanea la trasformo in storia affinchè non si dimentichi.

Io generalmente non sto con Saviano: per il suo essere di sinistra con quello che comporta in termini di difetti ed appoggi. La sinistra, per esempio, non dice che mafia ed antimafia, spesso, sono la stessa cosa, sol perché l’antimafia è da loro incarnata. Ma stavolta io sto con Saviano perché la verità appartiene a tutti e noi abbiamo l’obbligo di conoscerla e divulgarla. Saviano ha raccontato una realtà conosciuta, ma taciuta. Verità enfatizzata e strumentalizzata dalla sinistra tanto da renderla nociva. Può aver appreso da scritti altrui? Può darsi. Basta che sia verità. Se qualche autore vuol speculare sulla verità raccontata, allora la sua dignità vale quanto la moneta pretesa. Se poi chi critica ed aizza mesta nel fango, questi vuol distogliere l’attenzione sulla sostanza del contenuto, anteponendo artatamente la forma. Ed i lettori, in questa diatriba, non guardino il dito, ma notino la luna.

Io, da parte mia, le fonti le cito, (eccome se le cito), per dare credibilità alle mie asserzioni e per dare onore a chi, nelle ritorsioni, è disposto con coraggio a perdere nel nome della verità in un mare di viltà. I miei non sono romanzi, ma saggi da conoscere e divulgare. Perché noi dobbiamo essere quello che noi avremmo voluto che diventassimo. E delle critiche: me ne fotto. Dr Antonio Giangrande

A proposito dello sgombero dell’immobile occupato abusivamente da stranieri a Roma:

Perché gli organi di informazione ideologizzati, che hanno perso ogni forma di credibilità, esaltano una frase detta sotto pressione e tensione da un solo poliziotto e sottacciono le violenze a danno degli altri agenti di polizia? E perché gli scribacchini si indignano dello sgombero di un immobile occupato abusivamente e pagato con i fondi pensione dei cittadini italiani, mentre tacciono spudoratamente, quando ad essere cacciati di casa sono quei cittadini italiani vittime di sfratti o di esecuzioni forzate, frutto di usure bancarie impunite o di sentenze vendute?

Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione.

La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile.

Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile.

Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.

Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale". Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”

Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.

Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.

Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna. Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".

E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:

riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);

riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);

riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);

riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.

In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.

Da: Pacho Pedroche Lorena (venerdì 22 settembre 2018). Salve, sono Lorena Pacho, giornalista spagnola presso il giornale El País. Sto lavorando presso un servizio sugli avvocati italiani che chiedono l'omologazione del titolo di studio in Spagna. Sarebbe possibile parlare con il Dr. Giangrande, per favore, per fare qualche domanda sul processo e come funziona in Italia? in relazione con i sui libri L' Italia dei concorsi pubblici truccati ed esame di avvocato. La ringrazio cordiali saluti. La ringrazio tanto, gradisco molto questa soluzione e la ringrazio. Invio qua delle domante, si senta libero di rispondere a tutte oppure solo a una parte. Anche si senta libero per la lunghezza, ma non è necessario sia molto lungo. L'obiettivo di questo servizio è per una parte fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per diventare avvocato spiegando come è il processo in Italia, perchè è così lungo, difficile e tortuoso accedere alla abilitazione alla professione di avvocato e quale sono le ombre e difetti di questo processo:

- Quali sono le particolarità que definiscono meglio il processo per l'abilitazione alla professione di avvocato? (per fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per l'omologazione.

«In Italia per diventare avvocato bisogna laurearsi in Giurisprudenza (in legge). Poi si segue un periodo di praticantato con corsi obbligatori onerosi ed esosi e solo alla fine si affrontano gli esami di abilitazione organizzati dal Ministero della Giustizia. Le commissioni di esame di avvocato sono composte da avvocati, professori universitari e magistrati. La stessa composizione che abilita gli stessi magistrati ed i professori. Con scambio di ruoli e favori. Io ho partecipato per 17 anni all’esame di abilitazione, fino a che ho detto basta! In questi anni ho vissuto tutte le fasi delle riforme emanate per rendere, in effetti, impossibile l’iscrizione all’albo tenuto dagli avvocati più anziani. All’inizio della mia esperienza il praticantato era di due anni e poi affrontavi l’esame con le commissioni del proprio distretto, portando i codici annotati solo con la giurisprudenza. Allora non si sentiva parlare di migrazione verso la spagna di aspiranti avvocati. Se eri bocciato, bastava riprovare ed aspettare. Da sempre, però, vi era la litania che gli avvocati erano troppi. Ad oggi il praticantato si svolge con corsi di formazione obbligatori ed a pagamento per 18 mesi e l’esame sarà svolto con soli codici senza annotazioni della giurisprudenza. Inoltre, con l’avvento del cosiddetto governo “liberale” di Silvio Berlusconi, l’allora Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha previsto la transumanza degli elaborati degli esami. Spiego meglio. Le commissioni di esame di avvocato del Nord Italia erano avare nell’abilitare, per limitare la concorrenza. Roberto Castelli era del partito di Matteo Salvini, attuale vice premier. La lega Nord, prima di essere anti immigrati è stata da sempre anti meridionale. Se il loro motto oggi è “prima gli italiani”, allora era “prima i settentrionali”. Nel Nord d’Italia vi era la convinzione che le commissioni del sud Italia erano prodighi, per questo vi erano più idonei all’esame di avvocato. La stessa Ministro Gelmini del Governo Berlusconi, lei impedita a Brescia, ha fatto l’esame in Calabria. A loro dire, poi, la massa di idonei emigrava al Nord, togliendo lavoro ai locali, che tanto avevano fatto illecitamente per tutelare se stessi. Secondo questa riforma di stampo razzista le prove scritte sono visionate da commissioni estratte a sorte, con spostamento dei plichi con gli elaborati da nord a sud e viceversa, con aggravio di tempo e di denaro. In questo modo sono avvantaggiati i candidati del nord Italia, i cui compiti sono corretti dalle commissioni del sud, rimaste benevoli. I partiti statalisti di sinistra non hanno fatto altro che confermare questo iniquo sistema».

- Secondo Lei, che senso ha rendere obbligatorio l'esame di Stato per gli avvocati?

«Non ha senso rendere obbligatorio un esame che non garantisce il merito, tenuto conto che i candidati, oltretutto, hanno sostenuto tantissimi esami all’università. Benissimamente a fine studio universitario potrebbero sostenere l’esame finale di abilitazione (come in altri paesi) avente valore di esame di Stato. Poi ci pensa il mercato: chi vale, lavora».

- Funziona il sistema dei concorsi di abilitazione alla professione forense in Italia?

«Il sistema di abilitazione forense in Italia non funziona perché non garantisce il merito, ma è stabilito solo per limitare l’accesso ai giovani aspiranti avvocati per la tutela di rendita di posizione o per garantire i propri protetti».

-Perchè è così alta la percentuale di concorrenti che non superano, che non passano gli esami di avvocato?

«La percentuale di idonei diventa di anno in anno sempre minore. Perché negli anni hanno limitato l’intervento degli avvocati nella tutela dei diritti (vedi ricorsi contro le sanzioni amministrative o per i sinistri stradali o per onerosità delle cause); ovvero hanno imposto delle tasse e dei contributi esosi. Questo porta la lobby degli avvocati a tutelare gli interessi corporativi sempre più ristretti, negando l’accesso ai nuovi. I giovani per aggirare l’ostacolo prendono altre strade: ossia, la migrazione per ottenere la meritata professione per la quale hanno studiato per anni e che per questo non possono fare altro. Inoltre il fatto di diventare avvocato non dà sicurezza di reddito, perché comunque ai giovani avvocati è impedito entrare in un certo sistema di potere che assicura lavoro. Per lavorare come avvocato devi essere protetto ed omologato».

-Si può parlare di qualche irregolarità, anomalie nella fase di correzione ed in che modo? Possiamo parlare di altre anomalie?

«Il mio parere è per cognizione di causa diretta e per aver studiato e cercato prove (in testi ed in video da visionare sul mio canale su Dailymotion) per oltre venti anni per dimostrare che l’esame di avvocato in particolare, ma ogni esame di abilitazione o concorso pubblico in Italia è truccato (irregolare). Il frutto del mio lavoro sono i saggi “ESAME DI AVVOCATO. ABILITAZIONE TRUCCATA”, in particolare. E “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI” per quanto riguarda tutti i concorsi pubblici e gli esami di Stato.

Nei miei saggi si dimostra con prove inoppugnabili dove si annida il trucco:

Nelle fasi preliminari (tracce conosciute);

Durante le prove (copiature e dettature);

Durante le correzioni (commissioni irregolari e compiti non corretti, ma dichiarati tali);

Durante la tutela giudiziaria (disparità di giudizio rispetto a ricorsi simili o uguali).

Da tener conto che i commissari sono professionisti diventati tali in virtù di concorsi analoghi, quindi truccati».

- Quale sarebbe l'obiettivo di truccare questi esami di avvocati?

«Si truccano gli esami per garantire un proprio familiare o un proprio amico o conoscente. O per tutelare l’interesse corporativo».

- Lei vuole aggiungere qual cosa altro che pensa può essere utili per i lettori spagnole oppure importante per capire la situazione e questo fenomeno.

«Io sin dalla prima volta ho denunciato le anomalie. Sin dal principio mi hanno minacciato che non sarei diventato avvocato. Pensavo che valesse la forza della legge e non, come è, la legge del più forte. Per 17 anni mi hanno sempre dato voti identici per tutte le tre prove annuali, senza che il compito sia stato corretto (mancanza di tempo calcolato dal verbale). Le mie denunce pubbliche hanno provocato la reazione del potere con procedimenti penali a mio carico da cui sono uscito sempre assolto. I giornalisti, anche loro figli del sistema, mi oscurano, non impedendomi, però, di essere seguitissimo sul web, attraverso le mie opere pubblicate su Amazon. Si dà il caso che sia una giornalista spagnola a chiedere un mio parere e non una italiana. Il fatto che i giovani italiani vadano in Spagna o in Romania o in altre località molto più liberali che l’Italia, per poter realizzare i loro sogni, hanno la mia piena solidarietà. E’ solo un atto di puro stato di necessità che discrimina eventuali reati commessi. Se lo fanno violando le norme non sono meno colpevoli di chi nella loro patria illiberale, viola le norme impunemente. Perché negli esami di Stato e nei concorsi pubblici chi aiuta o favorisce o raccomanda qualcuno a scapito di altri viola una noma penale grave, costringendo gli esclusi a spendere tantissimi soldi che non hanno. E solo per poter lavorare».

Il nuovo comunistambientalismo combatte una battaglia retrograda, coinvolgendo le menti vergini degli studenti che assimilano tutto quanto la scuola di regime gli propini.

L'intento è quello di far regredire una civiltà secolare, sviluppata con conquiste sociali ed economiche.

Il progresso tecnologico ed industriale irrinunciabile è basato sullo sfruttamento delle risorse. Le auto per spostarci, il benessere con gli elettrodomestici e le forme di comunicazione.

Il progresso tecnologico ed industriale ha prodotto benessere, con lavoro e sviluppo sociale, con parificazione dei censi.

Il Benessere ha fatto proliferare l’umanità.

L'uguaglianza sociale ha portato allo sviluppo sociale con svago e divertimento con il turismo e lo sfruttamento dell'ambiente.

Per gli ambiental-qualunquisti o populisti ambientali il progresso va cancellato. La popolazione mondiale ridimensionata.

Si torna alla demografia latente e gli spostamenti a piedi, nemmeno a cavallo, perchè gli animali producono biogas. Oltretutto, per questo motivo, non si possono allevare gli animali. La nuova religione è il veganismo.

Si comunicherà con le nuvole di fumo. E si torna nelle grotte dove fa fresco l'estate e ci si sta caldi e riparati d'inverno.

Inoltre bisogna che la foresta ed i boschi invadano la terra. Pari passo a pale eoliche e campi estesi di pannelli solari. La natura e l’energia alternativa al primo posto, agli animali (all'uomo per ultimo) quel che resta. Vuoi mettere la difesa di un nido di uccello palustre, rispetto alla creazione di posti di lavoro con un villaggio turistico eco-sostenibile sulla costa? E poi il business delle rinnovabili come si farà?

Come sempre i massimalisti dell'ecologia non mediano: o è bianco o è nero. Per loro è inconcepibile l'equilibrio tra progresso e rispetto della natura e degli affari.

La sinistra ha abbandonato I Diritti Sociali dei tanti (Il popolo dei ceti medio e bassi) poco rappresentati in Parlamento in favore de I Diritti Civili dei pochi (Immigrati, mussulmani, LGBTQIA+, ecc.) sovra-rappresentati in Parlamento rispetto al numero reale nella società italiana.

Concorsi Pubblici (truccati) e Pubblico Impiego. Sì…non per tutti. La Stabilizzazione del precariato amico.

Chi trova un amico (politico) trova un lavoro. Con la stabilizzazione del precariato si supera il principio costituzionale del concorso pubblico (quantunque truccato) per accedere al pubblico impiego.

Articolo 97 della Costituzione: I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.

Fatta la truffa stabilita per legge e trovato l'inganno. Si fanno entrare a chiamata diretta (tra elenchi predisposti e riservati per dare parvenza di legalità ed imparzialità) gli amici nel pubblico impiego (sanità, scuola, Enti Locali, ecc, settori spesso ritenuti fortini della sinistra), et voilà con la stabilizzazione gli si trova un'occupazione che altrimenti sarebbe riservata ai soli vincitori concorsuali.

Voto di scambio? Ma va là, per i sinistri non conta.

La tassa di passaggio.

Il problema della Sicilia? “Il traffico!” “Palermo ha un grande problema! Un problema intollerabile!”. “Quale?”. “Il traffico!”

Ricordate l’avvocato mafioso di “Jonny Stecchino” di e con Roberto Benigni?

Il film è del ’91, ma la battuta è sempre attuale

“Nel mondo siamo conosciuti anche per qualcosa di negativo, quelle che voi chiamate piaghe. Una terribile, e lei sa a cosa mi riferisco: l’Etna, il vulcano, ma è una bellezza naturale. Ma c’è un’altra cosa che nessuno riesce a risolvere, lei mi ha già capito. La Siccità. La terra brucia e sicca, una brutta cosa. Ma è la natura e non ci possiamo fare niente. Ma dove possiamo fare e non facciamo, perché in buona sostanza, purtroppo posiamo fare e non facciamo… Dov’è? È nella terza e più grave di queste piaghe che diffama la Sicilia e in particolare Palermo agli occhi del mondo. Eh… Lei ha già capito. È inutile che glielo dica. Mi vergogno a dirlo. È il traffico! Troppe macchine! È un traffico tentacolare, vorticoso, che ci impedisce di vivere e ci fa nemici famiglia contro famiglia, troppe macchine!”.

 E' esemplare la celebre scena del film “Non ci resta che piangere” con Roberto Benigni e Massimo Troisi. I due viaggiatori si trovavano ad attraversare il confine della Signoria fiorentina, e un integerrimo casellante continuava a domandare: “Chi siete? Da dove venite? Cosa portate? Dove andate?  Un Fiorino!” ad ogni minimo movimento andirivieni alla dogana. Così ad ogni movimento dei poveri viaggiatori (una volta gli cadeva un sacco di farina, un’altra volta perdevano qualcos’altro), venivano richiamati e bloccati. Fino a che Troisi, spazientito dalla bizzarra e petulante circostanza con un vivace “Vaffa” risolve la situazione proseguendo il cammino.

La tassa di Passaggio. Da tripadvisor.it il 2020.

saveriodb Lecce, Italia

Gentile Forum di Roseto Capo Spulico,

ho ricevuto una multa per eccesso di velocità sulla SS106 Jonica a Roseto.

Vivendo a Lecce, chiederei a qualcuno del luogo, se possibile, un'informazione:

- La multa è per aver superato la velocità media in un tratto di 1,77 Km, in direzione Ovest (da Metaponto verso Villapiana per intenderci). Per quel che ricordavo, su quel percorso l'unico controllo della velocità media era a Montegiordano, ma non a Roseto. A Roseto mi sembrava fosse segnalato dai cartelli solo un controllo 'istantaneo', non medio. Sbaglio io?

Vi ringrazio per l'informazione! Saverio Di Benedetto

hildita nikita Catanzaro, Italia

Ciao, purtroppo in quel tratto ci sono sistemati ben 4 autovelox ognuno di un comune diverso, oltre quello di Roseto c'è del comune di Amendolara, Spezzano Albanese e non ricordo se c'è anche Trebisacce o Rocca Imperiale ... in due km ho preso 4 multe nello stesso giorno e non credo lo dimenticherò più quel tratto

 

ECC.MO PREFETTO DI COSENZA

RICORSO IN OPPOSIZIONE A SANZIONE AMMINISTRATIVA

Ai sensi dell’art. 203 Codice della Strada

(D.lgs. 30 aprile 1992, n. 285)

 

PER RICORRENTE GIANGRANDE ANTONIO nato ad Avetrana (Ta) il 02/06/1963 e residente ad Avetrana in Via A. Manzoni, 51, in proprio. C.F: GNGNTN63H02A514Q Tel. 3289163996 giangrande.antonio@alice.it

CONTRO RESISTENTE COMUNE DI ROSETO CAPO SPULICO, in persona del Sindaco pro tempore, per quest’atto domiciliato presso la sede del Comando di Polizia Locale sito in Roseto Capo Spulico, via G.B. Trebisacce snc..

* * *

Oggetto: Ricorso in opposizione al verbale di violazione del Codice della Strada n. 002703022

Protocollo 00002704/A/22

Cronologico 0027030221502703

del 13/06/2022 ore 07:44, emesso da FARINA BEATRICE appartenente al Comando di Polizia Locale del Comune di ROSETO CAPO SPULICO,

consegnato per la spedizione con raccomandata n. 787200279345 il 22/09/2022

notificato in data 27/09/2022

per la violazione dell’art.142 comma7 C.d.S., con cui si ingiunge il pagamento della somma totale di Euro 59,00, di cui euro 42,00 per minimo edittale, e 17 euro di spese di notifica e procedimento e in misura ridotta di Euro 46,40,00, di cui euro 29,4,00 per minimo edittale, e 17 euro di spese di notifica e procedimento.

Contestazione: in presenza di limite di velocità di 90 km ora, si procedeva a 96 km ora, effettiva 91 km ora (96 meno la riduzione del 5%, minimo 5 km, vedi l’art 1, dm 29 ottobre 1997 ai sensi dell’art. 345 comma 2, DPR 16/12/1992 n. 495, mod. dall’art. 197 DPR 16/06/1996 n. 610)

 

PREMESSO CHE LA SANZIONE IN FATTO

E’ INOPPORTUNA, IRRAGGIONEVOLE E FISCALE. La velocità contestata è di 1 km in più di quello consentito. Si procedeva a 96 km ora, meno il 5%, minimo 5 km di riduzione, 91 km ora. Consentito 90 chilometri. L’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 3698/2019 che non ammette giustificazioni è derogabile per inopportunità in presenza di uno stato di necessità.

E’ ANNULLABILE PER STATO DI NECESSITA’ E FORZA MAGGIORE ai sensi della sentenza n. 7198/2016 della Corte di Cassazione. Si procedeva a quella velocità per stato di necessità e forza maggiore, perché costretti ad inseguire l’auto dei carabinieri di Avetrana incaricati dell’accompagnamento coattivo del ricorrente per una testimonianza presso il Tribunale di Palmi, a pena di sanzioni penali.

PREMESSO CHE LA SANZIONE IN DIRITTO

E’ ANNULLABILE PERCHE’ NULLA ED ILLEGITTIMA PER TARDIVITA’.

L’infrazione è avvenuta il 13/06/2022.

Come in calce da verbale di contestazione e nota delle poste italiane:

La consegna per la spedizione del verbale di violazione alle Poste Italiane è avvenuta il 22/09/2022.

La consegna in mano dell’obbligato al pagamento della sanzione è avvenuta il 27/09/2022.

Il ritardo e di ben 9 giorni oltre i 90 giorni di notifica, senza tener conto che luglio ed agosto hanno 31 giorni: infrazione il 13 giugno; spedizione del verbale il 22 settembre.

La notifica quindi è nulla, perché tardiva, e nulla si deve all’organo contestatore a mo’ di sanzione.  Dal momento in cui l’infrazione è stata commessa al momento in cui la notifica viene recapitata all’indirizzo di residenza dell’automobilista possono passare al massimo 90 giorni, così come disposto dall’articolo 201 del Codice della strada. Il periodo di 90 giorni durante i quali la notifica deve essere consegnata decorre dal momento in cui l’infrazione è stata commessa e non da quando è stata accertata. Può sembrare una sottigliezza linguistica ma non lo è, considerando che la questione è stata affrontata dalla Corte di cassazione la quale, con la sentenza 7066/2018, Corte di Cassazione Civile sez. VI, ord. 21 marzo 2018, n. 7066, che ha definitivamente chiarito che i 90 giorni decorrono dal momento in cui l’infrazione è stata rivelata e non accertata.

Tutto ciò premesso e considerato, il sottoscritto ricorrente

CHIEDE

Voglia l’Ecc.mo Prefetto adito, contrariis reiectis:

Dichiarare l’annullamento del verbale di violazione del Codice della Strada n. 002703022

Protocollo 00002704/A/22

Cronologico 0027030221502703

del 13/06/2022 ore 07:44, emesso da FARINA BEATRICE appartenente al Comando di Polizia Locale del Comune di ROSETO CAPO SPULICO, consegnato per la spedizione il 22/09/2022 e notificato in data 27/09/2022 per la violazione dell’art.142 comma7 C.d.S., con cui si ingiunge il pagamento della somma totale di Euro 59,00, di cui euro 42,00 per minimo edittale, e 17 euro di spese di notifica e procedimento.

In subordine in caso di rigetto del ricorso, disporre il mantenimento della sanzione al minimo edittale, in misura ridotta di Euro 46,40,00, di cui euro 29,4,00 per minimo edittale, e 17 euro di spese di notifica e procedimento.

In ogni caso, ordinare la sospensione provvisoria degli effetti della sanzione amministrativa in modo che, in attesa della conclusione del procedimento, l’amministrazione che l’ha emessa non possa pretendere il pagamento né possa chiederne la riscossione forzata facendo intervenire l’Agenzia delle entrate-riscossioni. E data la oggettiva nullità del verbale, per omissione o abuso, l’amministrazione intimante possa incorrere in una violazione penale.

Si producono i seguenti documenti in copia:

Copia del ricorso firmato 3 pagg.

Verbale di violazione del C.d.S: 2 pagg.

Intimazione di testimonianza coattiva.

Nota delle Poste Italiane.

Documento di identità

Con osservanza. Avetrana, lì

Firma del ricorrente _________________

Si prega di inviare qualsiasi comunicazione relativa al presente procedimento ai seguenti recapiti:

Via A. Manzoni 51 Avetrana Ta.

 

L’Italia degli autovelox. ‘Fare cassa’ e ‘Tassa di passaggio’. Da aduc.it il 13 giugno 2022.

A novembre il decreto Infrastrutture (Dl 121/2021) ha imposto la pubblicazione sul web dei rendiconti comunali da proventi di multe. Il quotidiano ILSOLE24ORE ha spulciato i dati, ed ha rilevato cose interessanti. Soprattutto lo “zero” che si legge negli incassi 2021 da multe diverse da quelle per eccesso di velocità in luoghi come Roseto Capo Spulico (Cosenza) e Melpignano (Lecce). Quest’ultimo Comune ha rivitalizzato le entrate incassando 4,98 milioni e Roseto 728mila euro (che si aggiungono agli incassi delle vicine Montegiordano, Rocca Imperiale e Trebisacce). Dai dati del ministero si evince che qui i vigili non hanno visto nemmeno una cintura slacciata, un guidatore parlare al cellulare, parcheggiare in modo vietato, prendersi una precedenza non dovuta o qualsiasi altra infrazione stradale.

A Colle Santa Lucia (BL) succede lo stesso. Idem per la Provincia di Brescia, che pare non avere altre forme di vigilanza su strada e così risulta non incassare un euro nemmeno da chi è uscito fuori corsia rovinando un guard-rail.

Il quotidiano economico si chiede se, per esempio, i mutui che a Milano vengono ripagati anche con una parte dei cospicui incassi delle multe siano davvero attinenti alla sicurezza stradale. 

“Tassa di passaggio” per locali o turisti che in alcune strade sono poco ligi al rispetto di limiti di velocità che, chiunque si sposta, sa che spesso sono un po’ troppo risicati rispetto a tipo di strade e di veicoli. Le norme risalgono a quando certi asfalti e certe caratteristiche infrastrutturali erano molto più precarie di oggi, mentre le auto più diffuse erano tipo la 500 Fiat con le portiere incernierate posteriormente che, per passare da una marcia all’altra, occorreva fare la doppietta, oltre che quando si andava a 90Kmh tremava tutta la carrozzeria.

Il mondo è cambiato, ma non le norme per far rispettare i limiti di velocità. E siccome alcuni autovelox erano proprio “indecenti” per dove erano piazzati, a luglio del 2020 fa è stata modificata la legge per consentire l’uso di macchinette automatiche ovunque, trasformando in regolarità le precedenti irregolarità. 

Nel nostro Paese, quando ci sono i problemi, invece di affrontarli, spesso si fa come la polvere che finisce sotto il tappeto. A questo aggiungiamo che oltre “per fare cassa”, gli autovelox sono anche “tassa di passaggio”. 

Nel frattempo, sicurezza a go-go e crescita della sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, con conseguente invenzione e applicazione di marchingegni per “fottere” o “non farsi fottere”.

Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?

E quello del dubbio scriminate, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

Il commento del dr. Antonio Giangrande, che sul tema ha scritto dei saggi: “Legopoli. La Lega da Legare”; “Italia Razzista”; “L’Invasione Barbarica Sabauda del Mezzogiorno d’Italia”.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…

Processo Scazzi a Taranto…aspettando la Cassazione.

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Ne parliamo con il dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che ben conosce quel foro avendo esercitato la professione forense e dalla cui esperienza ne sono usciti dei libri.

«Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati».

è stato presentato il ricorso contro lo Stato italiano presso la Corte Europea dei Diritti Umani.

In Italia si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione.

Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità e buon andamento (efficienza).

Nota bene. Non illudetevi dai voti alti. I voti ottenuti dai candidati alle amministrative non sono voti esclusivamente personali, ma conseguiti attraverso alleanze e tradimenti. Con il voto con doppia preferenza di genere ognuno ha potuto fare l’alleanza con il candidato dell’altro sesso della medesima lista. I più furbi hanno stabilito alleanza con più partner disattendendo il principio della reciprocità.

Razzismo e Disastri Ambientali.

Disastri Ambientali e Dissesti idrogeologici: morte e distruzione.

Alluvioni, Allagamenti, Smottamenti, Frane.

Per i media prezzolati e razzisti.

Al Nord Italia: Eventi e danni naturali imprevedibili dovuti al cambiamento climatico in conseguenza del riscaldamento globale e causati da Vortici di Bassa Pressione dovuti all'alta Pressione perenne del Sud Italia con i suoi 30 gradi anche ad ottobre.

Al Sud Italia: Disastri meritati dovuti a causa dell'abusivismo; degli incendi dolosi e del disboscamento; dell'incuria e dell'abbandono delle opere pubbliche di contenimento e prevenzione.

“Per fortuna il maltempo si è spostato al sud”: la gaffe del TG5. Da Redazione di Cefalù Web 13 novembre 2014. Elena Guarnieri, presentatrice del TG5 ieri sera si è resa protagonista di una brutta gaffe parlando di maltempo. La giornalista in diretta durante l’edizione serale del popolare tg della rete ammiraglia di Mediaset, parlando della perturbazione che imperversa su tutta la penisola ha affermato: “Il peggio sembra essere passato, la perturbazione si è spostata al Sud“. Forte lo sdegno dei telespettatori soprattutto del meridione che condannano con fermezza l’imperdonabile gaffe.

Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione.

La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile.

Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile.

Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.

Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale". Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”

Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.

Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.

Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna. Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".

E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:

riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);

riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);

riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);

riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.

In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.

La nostra vita in mano ai sedicenti esperti: Esperti di che?

Il loro parere vale quanto l’opinione dei partecipanti ai vari Grandi Fratelli di Mediaset.

Esperto è chi conosce: il Covid 19 è un virus sconosciuto.

I professoroni hanno detto il tutto ed il contrario di tutto ed in antitesi tra di loro.

Il Governo di inesperti si sono affidati ai professoroni inesperti ed hanno portato i cittadini italiani terrorizzati e condizionati un po’ di qua ed un po’ di là come cani al guinzaglio. Mascherina per tutti:

è possibile che il cittadino sia infettato

è probabile che il cittadino sia infettato

è possibile che il cittadino sia a rischio d'infezione

è probabile che il cittadino sia asintomatico

è possibile che il cittadino sia pauci sintomatico

è confermato che il cittadino sia infettato

Se il cittadino non ha niente ed è sano come un pesce, vuol dire che è un complottista: a lui non va messa la mascherina, ma si obbliga l’uso del bavaglio

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. 

Licenziare il lavoratore dannoso all'impresa ed alla società civile, significa educare al lavoro ed al rispetto dei ruoli, delle persone e della proprietà altrui. Come significa anche aprire il mercato del lavoro a chi il lavoro non lo ha mai avuto per colpa di coloro che, sindacalizzati e politicizzati, avevano il monopolio e l'esclusiva dell'occupazione. Perchè qualcuno deve coprire il posto di lavoro lasciato libero dal licenziamento.

In Italia: i giornalisti non informano; i professori non istruiscono. Essi fanno solo propaganda. Sono il megafono della politica e delle vetuste ideologie e quelli di sinistra son molto solidali tra loro. Se fai notare il loro propagandismo e te ne lamenti, si risentono e gridano alla lesa maestà, riportandosi alla Costituzione Cattomassonecomunista. In natura i maiali, se ne tocchi uno, grugniscono tutti, richiamando il loro diritto di parola.

Scritto tanti anni fa, ma ancora attuale. John Swinton, redattore capo del New York Times, 12 aprile 1893. “In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so pure io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che se lo facesse esse non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattr’ore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza, e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so pure io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali”.

"Io so di non sapere". Il problema è che, questo modo di essere, adesso è diventato: "Io so di non sapere e me ne vanto". Oggi essere ignoranti è qualcosa di cui vantarsi. Prima c’erano i sapienti, da cui si pendeva dalle loro labbra. Poi sono arrivati gli uomini e le donne iperspecializzate, a cui si affidava la propria incondizionata fiducia. Alla fine è arrivata la cultura “fai da te”, tratta a secondo delle proprie fonti: social o web che sia. A leggere i saggi? Sia mai!

Tommaso Buscetta: “Cosa Nostra ha costituzione piramidale. La famiglia mafiosa prendeva il nome dal paese di origine. Tre famiglie contigue formavano il mandamento. I mandamenti formavano la Commissione provinciale o Cupola, i cui rappresentanti formavano la Commissione interprovinciale o Cupola. Di fatto i mafiosi non votavano la DC in quanto tale, ma votavano e facevano votare ogni partito che non fosse il Partito Comunista”. Per questo i comunisti, astiosi e vendicativi, ritengono mafiosi tutti coloro che non sono comunisti o che non votano i comunisti. Tenuto conto che al Sud i moderati hanno maggiore presa, in tutte le loro declinazioni, anche sinistri, ecco la gogna territoriale o familiare o come scrive Paolo Guzzanti: Il teorema della mafiosità ambientale.

L’accanimento prende forma in varie forme:

Il caso del delitto fantastico di “concorso esterno”.

Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.

La Mafia delle interdittive prefettizie che alterano la concorrenza.

Lo scioglimento dei Consigli Comunali eletti democraticamente.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli dei miei libri: "Contro Tutte Le Mafie" o "La Mafia dell'Antimafia" o “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri.

Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.

Chi era Luigi Amicone. Un anno fa si è impegnato a censurarmi. Ha fatto in modo che nessuno pubblicasse le mie opere. Ha inoltrato l’esposto infondato contro di me ad Amazon, Google Libri e Lulu, costringendoli a cancellare il mio account di pubblicazione e di fatto censurandomi. L’unico a farlo rispetto a centinaia di migliaia di autori e di citazioni e in riferimento a un suo articolo marginale, doverosamente citato, pubblicato su Il Giornale.it, posto in discussione ed in contraddittorio rispetto ad altri articoli sullo stesso argomento. Mi ha posto temporaneamente sul lastrico, ledendo, oltretutto, la mia onorabilità e reputazione. Questa la mia risposta:

Dr Luigi Amicone, sono il dr Antonio Giangrande. Il soggetto da lei indicato a Google Libri come colui che viola il copyright di “Qualcun Altro”. Così come si evince dalla traduzione inviatami da Google. “Un sacco di libri pubblicati da Antonio Giangrande, che sono anche leggibile da Google Libri, sembrano violare il copyright di qualcun altro. Se si controlla, si potrebbe scoprire che sono fatti da articoli e testi di diversi giornalisti. Ha messo nei suoi libri opere mie, pubblicate su giornali o riviste o siti web. Per esempio, l'articolo pubblicato da Il Giornale il 29 maggio 2018 "Il serial Killer Zodiac ... ". Sembra che abbia copiato l'intero articolo e incollato sul "suo" libro. Sembra che abbia pubblicato tutti i suoi libri in questo modo. Puoi chiedergli di cambiare il suo modo di "scrivere"? Grazie”.

Mi vogliono censurare su Google.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto.

Premessa: Ho scritto centinaia di saggi e centinaia di migliaia di pagine, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Reclamo: Non si chiede solo di non usare i suoi articoli, ma si pretende di farmi cambiare il mio modo di scrivere. E questa è censura.

Lorenzin: “Ho il Covid, non so come l’ho preso”.

“Abbiamo preso tutte le precauzioni eppure siamo stati contagiati”: dal reparto di Neurochirurgia dell'ospedale Perrino l’ultimo caso di sanitari positivi, ben dieci, al coronavirus.

Nonostante i consigli sulle precauzioni il virus infetta: che i consigli siano sbagliati?

Che governi l'uno, o che governi l'altro, nessuno di loro ti ha mai cambiato la vita e mai lo farà. Perchè? Sono tutti Comunisti e Statalisti. Sono sempre contro qualcuno. Li differenzia il motto: Dio, Patria e Famiglia...e i soldi.

Gli uni sono per il cristianesimo come culto di Stato. Gli altri sono senza Dio e senza Fede, avendo come unico credo l'ideologia, sono per l'ateismo partigiano: contro i simboli e le tradizioni cristiane e parteggiando per l'Islam.

Gli uni sono per la Patria e la difesa dei suoi confini. Gli altri sono senza Patria e, ritenendosi nullatenenti, sono senza terra e senza confini e, per gli effetti, favorevoli all'invasione delle terre altrui.

Gli uni sono per la famiglia naturale. Gli altri sono senza famiglia e contro le famiglie naturali, essendo loro stessi LGBTI. E per i Figli? Si tolgono alle famiglie naturali.

Gli uni sono ricchi o presunti tali e non vogliono dare soldi agli altri tutto ciò che sia frutto del proprio lavoro. Gli altri non hanno voglia di lavorare e vogliono vivere sulle spalle di chi lavora, facendosi mantenere, usando lo Stato e le sue leggi per sfruttare il lavoro altrui. Arrivando a considerare la pensione frutto di lavoro e quindi da derubare.

Alla fine, però, entrambi aborrano la Libertà altrui, difendendo a spada tratta solo l'uso e l'abuso della propria.

Per questo si sono inventati "Una Repubblica fondata sul Lavoro". Un nulla. Per valorizzazione un'utopia e una demagogia e legittimare l'esproprio della ricchezza altrui.

Ecco perchè nessuno si batterà mai per una Costituzione repubblicana fondata sulla "Libertà" di Essere e di Avere. Ed i coglioni Millennials, figli di una decennale disinformazione e propaganda ideologica e di perenne oscurantismo mediatico-culturale, sono il frutto di una involuzione sociale e culturale i cui effetti si manifestano con il reddito di cittadinanza, o altre forme di sussidi. I Millennials non si battono affinchè diventino ricchi con le loro capacità, ma gli basta sopravvivere da poveri.

Avvolti nella loro coltre di arroganza e presunzione, i Millennials, non si sono accorti che non sono più le Classi sociali o i Ceti ad affermare i loro diritti, ma sono le lobbies e le caste a gestire i propri interessi.

Antonio Giangrande: Usurati ed esecutati. Aste giudiziarie fallimentari. Il marcio sotto il tappeto: chi si scusa si accusa.

Il business delle Aste giudiziarie fallimentari e della gestione dei beni confiscati a presunti mafiosi.

L’intervento del dr Antonio Giangrande, presidente della Associazione Contro Tutte le Mafie.

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Sono presidente di una associazione Antiracket ed Antiusura, riconosciuta dal Ministero dell’Interno perché iscritta presso la Prefettura di Taranto nell’elenco dei sodalizi antimafia, finchè lo permetteranno. La mia peculiarità è quella di essere presidente di una associazione che non prende soldi da alcuno, né ha agganci politici o istituzionali. Per tale carica e per la mia storia sono l’unico destinatario delle lamentele di migliaia di cittadini usurati ed esecutati da tutta Italia. Accuse tutte uguali: sfiducia nella giustizia e nelle istituzioni. La mia risposta a costoro è una sola: non caverete un ragno dal buco.

L’assunto è provato dal mio libro “Usuropoli e Fallimentopoli. Usura e fallimenti truccati”. Saggio che raccoglie le storie piccole e grandi sparse in tutta Italia. Storie come quelle di cui si parla in questo periodo al tribunale di Taranto: Foro chiacchierato per questa e per altre vicende. Ma del chiacchiericcio si deve tacere, altrimenti capita quello che capita a me: perseguitato dalla magistratura di Taranto e Potenza perché oso parlarne.

Da tempo mi chiamano i cittadini tarantini per denunciare anomalie nella gestione delle aste giudiziarie fallimentari e di questi ne ho fatto un gran fascio, oggetto di prove, veicolati presso uno studio legale che le raccoglie. Solo in questo periodo è montata la polemica per la presentazione di interrogazioni parlamentari, che ha permesso di parlare pubblicamente del fenomeno senza ritorsioni e stranamente si è parata un’alzata di scudi a spada tratta da parte delle corporazioni coinvolte: Excusatio non petita, accusatio manifesta, ossia, chi si scusa si accusa.

Ma provare a chi? Ai magistrati?

Un fallimento? In Italia può durare anche mezzo secolo !!! Quarantasei anni: a tanto ammonta la durata della procedura fallimentare di un’azienda di Taranto. Lo racconta Sergio Rizzo nella “Cricca”, un saggio Rizzoli dedicato alle lentezze e ai mille conflitti d’interesse del nostro Paese. Leggiamone un estratto. A Berlino la costruzione del Muro procedeva a ritmi serrati. Papa Giovanni XXIII aveva scomunicato il comunista Fidel Castro e la Francia riconosceva l’indipendenza dell’Algeria. In Italia Aldo Moro apriva la stagione del centrosinistra, Enrico Mattei regnava sull’Eni, Antonio Segni entrava al Quirinale. E mentre per la prima volta, dopo 400 anni, le orbite di Nettuno e Plutone si allineavano e gli Stati Uniti mandavano il loro primo uomo in orbita intorno alla Terra, in quel 1962 falliva a Taranto la ditta del signor Otello Semeraro. Non meritò nemmeno due righe in cronaca la notizia che al tribunale del capoluogo pugliese stava per cominciare una delle procedure fallimentari più lunghe della storia della Repubblica. Quarantasei anni. Nel 2008 il tribunale di Taranto ha approvato il rendiconto finale del fallimento Semeraro, con un verbale condito da particolari burocraticamente esilaranti. «Avanti l’Illustrissimo Signor Giudice Delegato Pietro Genoviva assistito dal cancelliere è personalmente comparso il curatore Michele Grippa il quale fa presente che tutti i creditori ed il fallito sono stati avvisati mediante raccomandata con avviso di ricevimento dell’avvenuto deposito del conto di cancelleria.» Nonostante ciò il giudice «dà atto che all’udienza né il fallito né alcun creditore è comparso». Sulle ragioni dell’assenza dei creditori non ci sono informazioni certe. Invece il signor Semeraro, pur volendo, difficilmente si sarebbe potuto presentare. Fitto è il mistero dell’indirizzo al quale gli sarebbe stata recapitata la raccomandata, con tanto di ricevuta di ritorno: perché egli, purtroppo, non è più tra i vivi. Come il tribunale di Taranto non poteva non sapere, avendo accertato, nel rendiconto del fallimento, un versamento di 10.263 euro «a favore della vedova di O. Semeraro». Quarantasei anni. Una lentezza inaccettabile per qualunque procedimento. Figuriamoci per un fallimento che ha fatto recuperare in tutto 188.314 euro, ai valori di oggi. Con la doverosa precisazione che un terzo abbondante se n’è andato in spese: 70.000 euro, di cui 50.398 soltanto per gli avvocati. Nei tribunali mancano i cancellieri, è vero. Nemmeno i giudici sono così numerosi. Poi la burocrazia, le procedure...Sulla scia del fenomeno denunciato è scandaloso quanto succede a Taranto. L’avv. Patrizio Giangrande, fratello del presidente Antonio Giangrande, e l’avv. Giancarlo De Valerio vincono la causa contro Equitalia Spa per risarcimento danni, sulla base di ipoteche su immobili emesse da detta società senza alcun avviso e per importi milionari attinenti presunti crediti, risultati inesistenti. Il Tribunale ha riconosciuto il risarcimento di svariate migliaia di euro liquidati in via equitativa. La cosa scandalosa è che, purtroppo, sono migliaia i casi in cui avvengono invii di cartelle talvolta recanti debiti anche estinti e con scadenze decennali. Il sistema permette al Fisco di effettuare sequestri di immobili o fermo amministrativo di auto, senza aver verificato, come nel caso di causa, la effettiva esistenza debitoria applicando interessi e spese che spesso superano l’importo del debito stesso, stranamente somme non calcolate come usuraie. Allucinante è il fatto che gli avvocati, in virtù della sentenza di condanna, recatisi unitamente all’ufficiale giudiziario per rendere ad Equitalia il torto subito ed eseguire il pignoramento presso la loro sede a Taranto, gli è stato comunicato dalla stessa Equitalia spa che non intende pagare, ritenendo i beni e i fondi insequestrabili. Pazzesco è che solo il Quotidiano di Puglia, alla pagina interna su Manduria, a firma di Gianluca Ceresio, si è occupato della vicenda che interessa tutti i cittadini, non solo tarantini, per la disparità di trattamento dei diritti lesi.

Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06628. Pubblicato il 9 novembre 2016, nella seduta n. 719: “…le denunce che giungono presso il Tribunale e la Procura potentina sarebbero destinate all'insabbiamento ed all'archiviazione, così come era stato evidenziato nell'atto di sindacato ispettivo 4-06370”. Aste, stop alle accuse: “rispettate tutte le leggi”, scrive Campicelli su “Il Quotidiano di Puglia”. Il presidente del Tribunale di Taranto Francesco Lucafò respinge con fermezza qualsiasi insinuazione su “condotte non lineari” nell’esercizio delle funzioni svolte dai magistrati tarantini impegnati sul fronte delle esecuzioni immobiliari e delle aste giudiziarie: «La legge è chiara e le procedure si rispettano fino in fondo».

Già perché nei tribunali si rispettano le leggi? A questa domanda risponde un ex magistrato antimafia.

Ingroia: «Il tribunale di Roma ignora il lavoro dei pm nisseni». L’ex pm aveva chiesto che l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara venisse ascoltato come teste assistito nel processo sul riciclaggio del tesoro di Ciancimino, scrive il 2 novembre 2015 "Il Corriere del Mezzogiorno". «Sono rimasto sorpreso della decisione del tribunale di Roma di non acquisire gli atti dell’inchiesta della procura di Caltanissetta e del Consiglio Superiore della Magistratura sull’ex presidente della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, e di non ascoltare l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara nella veste di teste assistito. Una decisione che trovo assolutamente incomprensibile e che rende purtroppo più difficile la ricerca della verità». Lo dichiara l’avvocato Antonio Ingroia, difensore di Raffaele Valente e del rumeno Victor Dombrovschi. «Il collegio - aggiunge Ingroia - ha totalmente ignorato le evidenti connessioni probatorie esistenti tra il processo di Roma e l’inchiesta di Caltanissetta, che vede indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara e la giudice Silvana Saguto per fatti gravissimi all’esame del Csm e su cui si è pronunciato in modo netto anche il ministro della Giustizia Orlando. Nel procedimento romano, infatti, risultava che Cappellano Seminara era stato nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati, e sequestrati proprio grazie alle informative di Cappellano Seminara: come si può negare che ci sia una connessione con quanto emerso nelle ultime settimane a Palermo? La logica suggerisce di sì e invece il tribunale ha deciso di ignorare il lavoro dei pm nisseni. Evidentemente - conclude Ingroia - meglio non sentire, non vedere, non sapere. Ma non è così che si accerta la verità e si fa giustizia».

Ma provare a chi? Agli ispettori ministeriali?

Se, come è stato evidenziato nell’interrogazione parlamentare, tutto è stato insabbiato a Potenza, come può desumersi fonte di prova un atto che non si trova o che sia già valutato negativamente dal sistema giudiziario? E comunque, il Ministero della Giustizia, (andando contro corrente, anche in virtù delle risultanze di una certosina ispezione senza condizionamenti ambientali, da cui risultasse un sistema criminale collusivo non certificato dai magistrati), promuovesse un’azione disciplinare nei confronti dei responsabili, quale risultato ne conseguirebbe, se non un esito scontato?

PUNTATA DEL 29/11/2015. LA GIUSTA CAUSA di Claudia Di Pasquale

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO:…ma un procedimento disciplinare del CSM a carico di un magistrato può durare fino a 5 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE: Ogni anno quanti procedimenti vengono invece archiviati?

PASQUALE CICCOLO - PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE: La media è il 94% circa.

CLAUDIA DI PASQUALE: Che cosa?

PASQUALE CICCOLO - PROCURATORE GENERALE CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE: Delle archiviazioni sul numero degli esposti. Noi facciamo azione disciplinare sul 7% degli esposti.

FRANCANTONIO GRANERO - EX PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI SAVONA: Quando un magistrato prende uno svarione nessuno gli fa un procedimento disciplinare.

Ma provare a chi? Ai Prefetti in funzione antiusura ed antiracket?

Nella migliore delle ipotesi, da rappresentanti istituzionali e governativi, ti impediscono di parlare di usura bancaria e di aste truccate, come di malagiustizia in generale; nella peggiore delle ipotesi si parla di Prefetti arrestati o condannati, come Ennio Blasco per corruzione in relazione alle certificazioni antimafia rilasciate, o Carlo Ferrigno per usura e sesso in cambio di aiuto o agevolazioni.

Ma provare a chi? Agli avvocati?

Avvocati? A trovarne uno meritevole di tale appellativo è un’impresa. E se lo trovi te lo tieni stretto, pur essendo sempre un avvocato, coi i suoi difetti e con i suoi pregi. Il fascio di prove sono in mano ad un avvocato coraggioso di Massafra, che per ripicca è isolato ed accusato di Stalking giudiziario. Per altro gli avvocati di Taranto hanno preso una netta posizione.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la Giustizia per scopi elettorali», Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: “preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi”, scrive Enzo Ferrari su "Taranto Buona Sera” il 16 novembre 2016.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Ma provare a chi? Ai commercialisti?

Vicenda Aste pilotate, i commercialisti: fiducia nei magistrati, scrive Marcella D'Addato il 15 novembre 2016 su "Canale 189”.

Ma provare a chi? Ai politici parlamentari?

I due parlamentari di Taranto (avvocati) scrivono al ministro per difendere la sezione fallimentare del tribunale. Chiarelli e Pelillo evidenziano quelle che ritengono le estraneità assolute con fatti riguardanti la malavita e attaccano i parlamentari M5S che chiedono di chiarire presunte anomalie, scrive il 16 novembre 2016 “Noi Notizie”.

La polemica. Abusi nella gestione dei fallimenti, bufera sul Movimento 5 Stelle. Pelillo e Chiarelli scrivono al ministro Orlando e attaccano i senatori pentastellati, scrive "Taranto Buona Sera” il 16 novembre 2016. Diventa un caso politico la polemica sollevata da un gruppo di senatori del M5S su presunti abusi nella gestione dei fallimenti al Tribunale di Taranto. La reazione parlamentare all’interrogazione dei Cinquestelle arriva in modalità bipartisan con una lettera congiunta degli onorevoli Michele Pelillo (Pd) e Gianfranco Chiarelli (CoR) indirizzata al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Una lettera nella quale, oltre a esprimere incondizionata fiducia agli operatori della giustizia, i due deputati accusano i senatori del M5S di aver voluto strumentalizzare politicamente situazioni che neppure conoscono.

Ma provare a chi? All’antipolitica parlamentare?

Aste Immobiliari del Tribunale di Taranto, il Meetup amici di Beppe grillo di Massafra risponde, scrive "Vivi Massafra” il 16 Novembre 2016. «Ma quali fini elettoralistici… il movimento 5 stelle non ne ha bisogno, cammina sulle sue gambe, anzi corre, e meno male che c’è!" Meetup Amici di Beppe Grillo Massafra». Da sapere che i 12 senatori della prima interrogazione che ha innescato la polemica ed i 15 senatori della seconda interrogazione sono quei parlamentari che hanno votato contro la responsabilità civile dei magistrati. Ergo: per la loro assoluta impunità ed irresponsabilità! Inoltre è risaputo il fenomeno dei concorsi pubblici farsa o truccati. Allora perché non chiedere ai rappresentanti delle categorie interessate pronti ad aprir bocca, come loro sono stati abilitati?

Ma provare a chi? Al regime omologato dell’informazione, che ha anch’essa assoluta fiducia nella magistratura?

Da premettere che ricevo segnalazioni di inchieste a carico di magistrati ed avvocati delle quali nessuno ha mai saputo nullo, compreso l’inchiesta sul bilancio del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto. Ma è esemplare come la vicenda delle aste giudiziarie fallimentari a Taranto con conseguente interrogazione parlamentare e ispezione ministeriale a gennaio 2017, sia rimasta censurata sulla stampa nazionale e locale, salvo casi eccezionali. Nella cerchia nell’eccezionalità, nella maggioranza dei casi, però, deformando la realtà. Si pensi che il video della intercettazione privata ambientale in cui si dimostra la concussione di un delegato giudiziario è stato pubblicato da un giornale non tarantino, non pugliese, ma da un giornale lucano. E comunque nessuno ha avuto il coraggio di fare il nome dell’avvocato coinvolto a chiedere la presunta tangente.

Su come sono stati trattati i fatti vi è un esempio lampante: “Caso aste giudiziarie a Taranto, un'inchiesta per fare chiarezza. La procura farà chiarezza sulle denunce arrivate dagli agricoltori”. Servizio di Francesco Persiani del 9/11/2016 su TeleNorba. Breve intervista a Paolo Rubino, Tavolo Verde agricoltori: «Non possiamo che registrare una grande sfiducia nelle istituzioni. In questo caso della Magistratura». Il resto dell'intervista dedicata all'Avv. Fedele Moretti, Presidente Camera Procedure ed Esecuzioni Immobiliari. «La Procura indagherà, partendo dai servizi giornalistici di questi giorni, ritenute possibili notizie di reato e per questo acquisiti dall’autorità giudiziaria su disposizione del procuratore capo presso il Tribunale di Taranto Carlo Maria Capristo», chiosa Persiani.

Servizi giornalistici? Lo studio legale che ha il fascio di prove sulle aste di Taranto è tenuta ben lontana dagli autori dei servizi giornalistici mai nati. Perché? Perché i giornalisti son di sinistra e son amici dei magistrati. Ecco a voi una vera e propria perla andata in onda su Rainews24: durante la notte delle elezioni americane, Giovanna Botteri si è lasciata andare alla disperazione: «Che ne sarà di noi giornalisti se non riusciamo più a influenzare l’opinione pubblica?» Parole testuali: «Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta ed unita contro un candidato… che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana? Le cose che sono state scritte, le cose che sono state dette evidentemente non hanno influito su questo risultato e sull’elettorato che ha creduto a Trump e non alla stampa!». Forse è per questo che la gente non si fida più di voi? Forse è per questo che non vendete più giornali? Forse è per questo che dovete andarvene tutti a casa?

Ma i giornalisti sono troppo di sinistra? Si chiedono Luigi Curini e Sergio Splendore di Lavoce.info il 20 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". I giornalisti italiani si collocano politicamente più a sinistra dei cittadini. Ne consegue una scarsa fiducia dei lettori nella carta stampata. Perché i giornali non reagiscono? Perché a leggerli e comprarli sono coloro che hanno una posizione ideologica in media più vicina a chi li scrive. Il difficile rapporto tra italiani e stampa. Stando ai sondaggi periodicamente effettuati da Eurobarometro, i cittadini italiani hanno poca fiducia nella carta stampata. Sostanzialmente più di un italiano su due esprime un giudizio negativo a riguardo: negli ultimi quindici anni la media del livello di fiducia verso la stampa è stata complessivamente del 43 per cento, quattro punti in meno del dato europeo nello stesso periodo. Le spiegazioni più ricorrenti riconducono la sfiducia al modello di giornalismo italiano contraddistinto da una propensione al commento, da un alto livello di parallelismo politico e da una stampa che storicamente si è indirizzata a una élite, producendo, come conseguenza, bassi livelli di lettura. In questo quadro, il rapporto tra giornalisti e cittadini rimane tuttavia in secondo piano.

Tra gli omologati spicca la figura dell’eccezione. «Cane non morde cane. Le certezze del sistema e i dubbi dei cittadini. Sul caso delle aste pilotate al tribunale di Taranto e delle facili archiviazioni alla Procura di Potenza levata di scudi contro i Cinque Stelle e la nostra inchiesta. A quando la verità? - Scrive Michele Finizio su "Basilicata 24", mercoledì 16/11/2016. - Può darsi che quanto raccontato negli esposti dei cittadini vittime delle “presunte” irregolarità sia tutto falso, Oppure tutto vero. Basta fare qualche verifica. Eppure, a quanto pare, tutti i signori della giustizia, della politica, delle professioni, della stampa, non hanno dubbi: “Tutto regolare”. Vorremmo toglierci il dubbio anche noi, per questo il nostro lavoro di inchiesta sulla vicenda, continua. A presto rivederci».

Ma provare a chi? Agli usurati esecutati?

Le vittime, accusate di mitomania o pazzia, anziché fare un fascio di prove aggregandosi tra loro, anche per rompere il velo di omertà e censura, pensano bene di smarcarsi e fare guerra a sé per salvare il proprio orticello.

La conclusione di questo mio intervento, quindi, è che ogni vittima di qualsivoglia ingiustizia non caverà mai un ragno dal buco perché per gli altri sarà sempre “Tutto Regolare”, mentre per quanto riguarda se stessi: chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

E comunque, dopo quanto ho scritto, non mi si chieda perché il mio sodalizio si chiama Associazione Contro Tutte le Mafie. Il perché dovrebbe essere chiaro…

FALLIMENTI TRUCCATI. IL MARCIO DOVE NON TE LO ASPETTI: NEI TRIBUNALI E NELLO SPORT. Di Antonio Giangrande

Beni confiscati alla mafia in modo strumentale e fallimenti truccati.

Chi controlla i controllori? Dal caso Cavallotti ai casi di Danilo Filippini e di Sergio Briganti.

Venerdì 24 ottobre 2014 si tiene a Taranto la conferenza prefettizia tra il Prefetto, Umberto Guidato, il dirigente dell’Ufficio Ordine e Sicurezza Pubblica, sostituito dal capo di Gabinetto, Michele Lastella e le associazioni antimafia operanti sul territorio della provincia di Taranto. In quell’occasione è intervenuto il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, oltre che scrittore e sociologo storico, che da venti anni studia il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSapce.com e Google Libri.

Il dr Antonio Giangrande ebbe ad affermare che nuovi fenomeni si affacciavano nel mondo dell’illegalità: l’usura di Stato con Equitalia, l’usura bancaria e, per la crisi imperante, l’usura pretestuosa, ossia la denuncia di usura per non pagare i fornitori.

Il prefetto ed il suo vice, in qualità di rappresentanti burocratici del sistema statale prontamente hanno contestato l’esistenza dell’illegalità para statale e para bancaria, mettendo in dubbio l’esistenza di indagini giudiziarie che hanno svelato il fenomeno.

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi. Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

A conferma di ciò mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

Uno dice, meno male che di pulito in Italia ci rimane lo sport. Segno tangibile di purezza, sportività e correttezza.

Giovanni Malagò, n.1 dello sport italiano, un po' abbacchiato per i 16 mesi di squalifica come... nuotatore, scrive Fulvio Bianchi su “La Repubblica”. Un momento difficile per tutto lo sport italiano, specie nelle istituzioni del calcio. Un momento non facile per la Lega Pro e il suo storico presidente Mario Macalli: dossier e denunce sono nelle mani della Procura federale (sperando che Palazzi, almeno stavolta, faccia in fretta) e anche della Repubblica della Repubblica di Firenze. Sono tanti, troppi, i fronti aperti: la Lega Pro ha licenziato il direttore generale Francesco Ghirelli, già braccio destro di Franco Carraro. E Ghirelli ha "confezionato" un dossier (scottante) che Macalli ha fatto avere al superprocuratore Palazzi. Lo stesso Palazzi presto potrebbe deferire il n.1 della Lega, e vicepresidente Figc, per il caso Pergocrema (vedi Spy Calcio dell'8 ottobre). In caso di condanna definitiva superiore ad un anno, decadrebbe dalle sue cariche. Inoltre la Procura della Repubblica di Firenze l'estate scorsa ha rinviato a giudizio Macalli sempre per il Pergocrema. La stessa Procura toscana avrebbe aperto un fascicolo anche sull'acquisto della splendida sede fiorentina della Lega, sede inaugurata da Platini. In ballo ci sono un fallimento e un paio di milioni..

Il presidente del Coni Giovani Malagò è stato condannato dalla Disciplinare della Federnuoto a 16 mesi di squalifica in qualità di presidente dell'Aniene, società per la quale gareggia anche Federica Pellegrini, scrive “La Gazzetta dello Sport”. Per Malagò dunque scatta la sospensione da ogni attività sociale e federale per il periodo in questione. E' stata così riconosciuta la responsabilità di Malagò per "mancata lealtà" e "dichiarazioni lesive della reputazione" del presidente federale Barelli, denunciato dal Coni per una presunta doppia fatturazione. Il caso era nato per una denuncia del Coni, presieduto da Malagò, alla Procura della Repubblica di Roma, per una presunta doppia fatturazione per 820mila euro per lavori di manutenzione della piscina del Foro Italico in occasione dei Mondiali di nuoto. Nel registro degli indagati era stato iscritto il presidente della Federnuoto Barelli, ma il pm aveva chiesto al gip l'archiviazione. La partita giudiziaria era stata poi riaperta dalla decisione di quest'ultimo di chiedere un supplemento di indagini, tuttora in corso. Nel frattempo, nuovi colpi di scena. Barelli, infatti, ha invitato la Procura federale della Fin ad "accertare" e valutare i comportamenti di Malagò, nella sua condizione di membro della Fin come presidente della Canottieri Aniene. Un invito a verificare se ci possano essere state "infrazioni disciplinarmente rilevanti" nelle parole con cui Malagò riassunse la vicenda nella giunta Coni del 4 marzo, parlando, sono espressioni dello stesso Malagò davanti al viceprocuratore federale, "come presidente del Coni e non da tesserato Fin". Il documento-segnalazione di Barelli accusava in sostanza Malagò di aver detto il falso in Giunta accusando ingiustamente la Federazione. La nota Fin citava la "mancata lealtà" e le "dichiarazioni lesive della reputazione", gli articoli 2 e 7, che Malagò avrebbe violato con le sue parole su Barelli in Giunta sulle "doppie fatturazioni". I legali del Coni avevano sollevato eccezioni di nullità, illegittimità e incompetenza, depositando anche il parere richiesto dalla Giunta al Collegio di Garanzia dello Sport, che chiariva la non competenza degli organi di giustizia delle Federazioni su vicende del genere.

Il passato scomodo di Tavecchio, scrivono da par loro Tommaso Rodano e Carlo Tecce per Il Fatto Quotidiano. "Spuntano una denuncia per calunnia contro il super candidato alla Federcalcio e un dossier depositato in procura che lo riguarda. E si scoprono strane storie, dalle spese pazze fino al doppio salvataggio del Messina. Ogni giorno che passa, e ne mancano cinque all’annunciata investitura in Federcalcio, il ragionier Carlo Tavecchio arruola dissidenti, smarrisce elettori: resiste però, faticosamente resiste. Nonostante le perplessità di Giovanni Malagò (Coni), dei calciatori più famosi e di qualche squadra di serie maggiore o inferiore. Il padrone dei Dilettanti, che dal ‘99 gestisce un’azienda da 700.000 partite a stagione e da 1,5 miliardi di euro di fatturato, com’è da dirigente? Dopo aver conosciuto le sue non spiccate capacità oratorie, tra donne sportive handicappate e africani mangia-banane, conviene rovistare nel suo passato. E arriva puntuale una denuncia per calunnia contro Tavecchio, depositata in Procura a Varese due giorni fa, a firma Danilo Filippini, ex proprietario dell’Ac Pro Patria et Libertate, a oggi ancora detentore di un marchio storico per la città di Busto Arsizio. Per difendersi da una querela per diffamazione – su un sito aveva definito il candidato favorito alla Figc un “pregiudicato doc” – Filippini ha deciso di attaccare: ha presentato documenti che riguardano il Tavecchio imprenditore e il Tavecchio sportivo, e se ne assume la responsabilità. Oltre a elencare le cinque condanne che il brianzolo, già sindaco di Ponte Lambro, ha ricevuto negli anni (e per i quali ha ottenuto una riabilitazione) e i protesti per cambiali da un miliardo di lire dopo il fallimento di una sua azienda (la Intras srl), Filippini allega una lettera, datata 24 ottobre 2000, Tavecchio era capo dei Dilettanti dal maggio ‘99. Luigi Ragno, un ex tenente colonnello dei Carabinieri, già commissario arbitrale, vice di Tavecchio, informa i vertici di Lega e Federazione di una gestione finanziaria molto personalistica del presidente. E si dimette. “Mi pregio comunicare che nel corso del Consiglio di Presidenza – si legge – è stato rilevato che la Lega intrattiene un rapporto di conto corrente presso la Cariplo di Roma, aperto successivamente al Primo Luglio 1999 (…). L’apertura del conto corrente appare correlata alla comunicazione del Presidente di ‘avere esteso alla Cariplo, oltre alla Banca di Roma già esistente, la gestione dei fondi della Lega. Entrambi gli Istituti hanno garantito, oltre alla migliore offerta sulla gestione dei conti, forme di sponsorizzazione i cui contenuti sono in corso di contrattazione”. Quelle erano le premesse, poi partono le contestazioni a Tavecchio: “Non risulta che alcun organo collegiale della Lega sia mai stato chiamato a esprimere valutazioni in ordine a offerte formulate dagli Istituti di credito di cui sopra”. “Risulta che non sono state prese in considerazione dal presidente più di venti offerte di condizione presentate in busta chiusa da primarie banche che operano su Roma, le quali erano state contattate dal commissario”. “Non risulta che né la Banca di Roma né la Cariplo abbiano concluso con la Lega accordi di sponsorizzazione”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale del bilancio della Lega non appare, nella voce ‘banche’, la presenza del conto corrente acceso presso Cariplo”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale, alla voce ‘Liquidità/Lega Nazionale Dilettanti’ risulta l’importo di Lire 18.774.126.556, che non rappresenta, come potrebbe sembrare a prima vista, il totale delle risorse finanziarie dei Comitati e delle Divisioni giacenti presso la Lega, bensì è costituito da un saldo algebrico tra posizioni creditorie e posizioni debitorie nei confronti della Lega”. Segue una dettagliata tabella dei finanziamenti ai vari Comitati regionali, e viene così recensita: “Il presidente della Lega ha comunicato che ai suddetti ‘finanziamenti di fatto’ è applicato il tasso di interesse del 2,40%, la cui misura peraltro non è stata stabilità da alcun organo collegiale”. Il vice di Tavecchio fa sapere di aver scoperto anche un servizio di “private banking”, sempre con Cariplo, gestito in esclusiva dal ragionier brianzolo: “Nessun Organo collegiale della Lega ha mai autorizzato l’apertura di tale rapporto (…) e mai ha autorizzato il presidente a disporre con firma singola (…) Trattasi di un comportamento inspiegabile e ingiustificabile, anche in considerazione della consistenza degli importi non inferiore ai venti miliardi di lire”. Ragno spedisce una raccomandata alla Cariplo, e si congeda dai Dilettanti di Tavecchio: “Di fronte all’accertata mancanza di chiarezza, di trasparenza e di correttezza e di gravi irregolarità da parte del massimo esponente della Lega, non mi sento di avallare tale comportamento gestionale e comunico le immediate dimissioni”. Per comprendere la natura del consenso costruito minuziosamente da Tavecchio nella gestione della Lega Dilettanti, un caso esemplare è quello del Messina calcio. La società siciliana approda in Lnd nella stagione sportiva 2008-2009. La famiglia Franza è stufa del suo giocattolo, vorrebbe vendere la squadra, ma non trova acquirenti. Il Messina è inghiottito dai debiti. Dovrebbe militare in serie B, ma il presidente Pietro Franza non l’iscrive al campionato cadetto: deve ricominciare dai dilettanti. Il problema è che il Messina è tecnicamente fallito (la bancarotta arriverà dopo pochi mesi) e non avrebbe le carte in regola nemmeno per ripartire da lì. E invece Tavecchio, con una forzatura, firma l’iscrizione dei giallorossi alla Lega che dirige. L’uomo chiave si chiama Mattia Grassani, principe del foro sportivo e, guarda caso, consulente personale di Tavecchio e della stessa Lnd: è lui a curare i documenti (compreso un fantasioso piano industriale per una società ben oltre l’orlo del crac) su cui si basa l’iscrizione dei siciliani. In pratica, si decide tutto in casa. Nel 2011 il Messina, ancora in Lega dilettanti, è di nuovo nei guai. Dopo una serie di vicissitudini, la nuova società (Associazione Calcio Rinascita Messina) è finita nelle mani dell’imprenditore calabrese Bruno Martorano. La gestione economica non è più virtuosa di quella dei suoi predecessori. Martorano firma in prima persona la domanda d’iscrizione della squadra alla Lega. Non potrebbe farlo: sulle sue spalle pesa un’inibizione sportiva di sei mesi. Non solo. La documentazione contiene, tra le altre, la firma del calciatore Christian Mangiarotti: si scoprirà presto che è stata falsificata. Il consulente del Messina (e della Lega, e di Tavecchio) è sempre Grassani: i giallorossi anche questa volta vengono miracolosamente iscritti alla categoria. Poi, una volta accertata l’irregolarità nella firma di Mangiarotti, la sanzione per il Messina sarà molto generosa: appena 1 punto in classifica (e poche migliaia d’euro, oltre ad altri 18 mesi di inibizione per Martorano). Tavecchio, come noto, è l’uomo che istituisce la commissione “per gli impianti sportivi in erba sintetica” affidandola all’ingegnere Antonio Armeni, e che subito dopo assegna la “certificazione e omologazione” degli stessi campi da calcio alla società (Labosport srl) partecipata dal figlio, Roberto Armeni. Non solo: la Lega Nazionale Dilettanti di Tavecchio ha un’agenzia a cui si affida per l’organizzazione di convegni, cerimonie ed assemblee. Si chiama Tourist sports service. Uno dei due soci, al 50 per cento, si chiama Alberto Mambelli. Chi è costui? Il vice presidente della stessa Lega dilettanti e lo storico braccio destro di Tavecchio. Un’amicizia di lunga data. Nel 1998 Tavecchio è alla guida del comitato lombardo della Lnd. C’è il matrimonio della figlia di Carlo, Renata. Mambelli è tra gli invitati. Piccolo particolare: sulla partecipazione c’è il timbro ufficiale della Figc, Comitato Regionale Lombardia. Quando si dice una grande famiglia."

«Denuncio Tavecchio. Carriera fatta di soprusi» dice Danilo Filippini a “La Provincia Pavese”. A quattro giorni dalle elezioni Figc, Carlo Tavecchio continua a tenere duro, incurante delle critiche e delle prese di posizione - sempre più numerose e autorevoli - di coloro che ritengono l’ex sindaco di Ponte Lambro del tutto inadeguato a guidare il calcio italiano. Tavecchio è stato anche denunciato per calunnia da Danilo Filippini, ex presidente della Pro Patria che ha gestito la società biancoblù dall’ottobre 1988 all’ottobre 1992.

Filippini, perché ha deciso di querelare Tavecchio?

«Scrivendo sul sito di Agenzia Calcio, definii Tavecchio un pregiudicato doc e un farabutto, naturalmente argomentando nei dettagli la mia posizione e allegando all’articolo il suo certificato penale storico. Offeso per quell’articolo, Tavecchio mi ha denunciato per diffamazione. Così, tre giorni fa, ho presentato alla Procura di Varese una controquerela nei suoi confronti, allegando una ricca documentazione a sostegno della mia tesi».

In cosa consiste la documentazione?

«Ci sono innanzitutto le cinque condanne subite da Tavecchio. Poi i protesti di cambiali per una somma di un miliardo di vecchie lire dopo il fallimento della sua azienda, la Intras srl. Ho allegato inoltre l’esposto di Luigi Ragno, già vice di Tavecchio in Lega Dilettanti, su presunte irregolari operazioni bancarie con Cariplo. Più tutta una serie di altre irregolarità amministrative».

Quando sono nati i suoi dissidi con Tavecchio?

«Ho avuto la sfortuna di conoscerlo ai tempi in cui ero presidente della Pro Patria. Quando l’ho visto per la prima volta, era presidente del Comitato regionale lombardo. In quegli anni ci siamo scontrati continuamente. Con Tavecchio in particolare e con la Federazione in generale».

Per quale motivo?

«I miei legittimi diritti sono sempre stati negati, in maniera illecita, nonostante numerosi miei esposti e querele, con tanto di citazioni di testimoni e prove documentali ineccepibili. Da vent’anni subisco dalla Federcalcio ogni tipo di abusi».

Per esempio?

«Guardi cos’è successo con la denominazione “Pro Patria et Libertate”, da me acquisita a titolo oneroso profumatamente pagato, e che poi la Federazione ha girato ad altre società che hanno usato indebitamente quel nome. Per non parlare della mia incredibile radiazione dal mondo del calcio, che mi ha impedito di candidarmi alla presidenza della Figc, come volevo fare nel 2001. Una vera discriminazione, che viola diritti sanciti dalla Costituzione. Sa qual è l’unica cosa positiva di questa vicenda?»

Dica.

«Sono uscito da un mondo di banditi come quello del calcio. E ora mi occupo di iniziative a favore dei disabili: impiego molto meglio il mio tempo».

Tavecchio risulta comunque riabilitato dopo le cinque condanne subite.

«Mi piacerebbe sapere in base a quali requisiti l’abbia ottenuta, la riabilitazione. E comunque, una volta riabilitato, avrebbe dovuto tenere un comportamento inappuntabile sul piano etico. Non mi pare questo il caso».

Insomma, a suo parere un’eventuale elezione di Tavecchio sarebbe una iattura per il calcio italiano...

«Mi auguro davvero che non venga eletto. Questo è il momento di cambiare, di dare una svolta: non può essere Tavecchio l’uomo adatto. Avendolo conosciuto di persona, non mi sorprende neanche che abbia commesso le gaffes di cui tutti parlano. Lui fa bella figura solo quando legge le lettere che gli scrivono i principi del foro. Comunque, ho mandato la mia denuncia per conoscenza anche al Coni e al presidente Malagò. Non ho paura di espormi: quando faccio una cosa, la faccio alla luce del sole».

"La vicenda Tavecchio? Una sospensione molto particolare.. Ma chi stava nell'ambiente del calcio sapeva perfettamente cosa sarebbe successo. Ho letto varie dichiarazioni e mi sento di condividere chi dice: tutti sapevano tutto, e questi tutti sono quelli che sono andati al voto e che, malgrado sapessero che questo sarebbe successo, hanno ritenuto che era giusto votare per Tavecchio. La domanda va girata a queste persone". Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, commenta così la vicenda dei sei mesi di stop al presidente della Figc decisi dall'Uefa, scrive “La Repubblica”. "L'elezione è stata assolutamente democratica, evidentemente non hanno ritenuto che il fatto potesse essere penalizzante per il proseguo dell'attività di Tavecchio. Io come presidente del Coni di questa cosa, può piacere o meno, ne devo solo prendere atto perché il Coni può intervenire se una elezione non è stata regolare, se ci sono delle gestioni non fatte bene, per problemi di natura finanziaria, se non funziona la giustizia sportiva, per tutto il resto dobbiamo prenderne atto senza essere falsi". Anche il sottosegretario Delrio, presente stamani ad un convegno al Coni col ministro Lorenzin, si è tirato fuori: "Il mondo sportivo è autonomo, il governo non può intervenire". Malagò ha anche spiegato che comunque questa vicenda "crea un problema di immagine al nostro calcio". Carlo Tavecchio, presente anche lui al Coni, ci ha solo detto: "Io sono stato censurato dall'Uefa e non sospeso. L'Uefa ha preso una decisione, non una sentenza". E dal suo entourage si precisa che la "lettera che Tavecchio ha scritto alle 53 Federazioni europee era di presentazione e non di scuse". Il 21 a Roma c'è Platini per presentare il suo libro: Tavecchio è irritato col n.1 dell'Uefa, lo incontrerà? Domani comitato presidenza Figc, venerdì il presidente Figc a Palermo con gli azzurri. Il lavoro va avanti. Intanto, il 27 torna in ballo anche Malagò: processo di appello alla Federnuoto dopo la condanna di 16 mesi in primo grado. La speranza è in drastico taglio, in attesa di Frattini...

Ma almeno Macalli è immune da qualsivoglia nefandezza?

Caso Pergocrema, Macalli verso il deferimento? Il vicepresidente della Figc e n.1 storico della Lega Pro, Mario Macalli, rischia il deferimento in margine al caso Pergocrema. Il procuratore federale, Palazzi, ha chiuso l'indagine e passato le carte alla Superprocura del Coni come prevedono le nuove norme di giustizia sportiva volute dal Coni: ora Macalli potrà presentare le sue controdeduzioni, ed essere anche interrogato. La prossima settimana Palazzi deciderà se archiviare o deferire (più che probabile). Il caso Pergocrema si trascina ormai da molto tempo: questa estate la procura della Repubblica di Firenze aveva chiesto il suo rinvio a giudizio. Macalli secondo i magistrati avrebbe "provveduto a registrare a proprio nome i marchi Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932". In questo caso, il n.1 dell'ex Serie C, come stato scritto su Repubblica la scorsa estate da Marco Mensurati e Matteo Pinci, "intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando un danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento". Macalli aveva sempre assicurato la sua totale estraneità ai fatti. "Chiarirò tutto". Pare sia arrivato il momento. Possibile inoltre il deferimento di Belloli, presidente del Comitato regionale lombardo e fra i candidati alla successione di Tavecchio alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti. Oltre a lui, resterebbero in corsa solo Tisci e Mambelli, mentre avrebbero fatto un passo indietro Repace e Dalpin. Mercoledì prossimo riunione con Tavecchio. Si vota l'11 novembre. Per finire, chiusa l'inchiesta di Palazzi anche su Claudio Lotito: interrogati quattro giornalisti, acquisito il video. Ora le carte sono in possesso di Lotito, che deve difendersi, e del generale Enrico Cataldi, superprocuratore Coni: presto Palazzi dovrebbe fare il deferimento per le parole volgari su Marotta.

La Commissione Disciplinare ha deliberato il 6 marzo 2013 in merito al fallimento dell’Us Pergocrema 1932 ed ha inibito gli ex presidenti Sergio Briganti per 40 mesi e Manolo Bucci per 12, l’ex amministratore delegato Fabrizio Talone per 6 mesi, l’ex vice presidente Michela Bondi per 3 e gli ex consiglieri del Cda Estevan Centofanti per 3, Luca Coculo e Gianluca Bucci entrambi per 6 mesi, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla base delle indagini effettuate dalla Procura Federale, la Disciplinare ha deciso di infliggere sanzioni ai personaggi di cui sopra accusandoli «di aver determinato (i due presidenti) e di aver contribuito (gli altri dirigenti) con il proprio comportamento la cattiva gestione della società, con particolare riferimento alle responsabilità del dissesto economico-patrimoniale».

A sbiadire ancor di più l’immagine di Briganti, però, ci pensa Striscia la Notizia. L’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti, è stato protagonista di un servizio in una delle ultime puntate di Striscia la Notizia, il tg satirico in onda su Canale 5, intitolato “Minacce, spintoni, schiaffi”, scrive “La Provincia di Crema”. Jimmy Ghione è stato avvicinato da una giovane donna che ha segnalato come, nel vicolo del pieno centro di Roma dove si trova il bar di Briganti, le auto non riescano a transitare in quanto la strada è occupata da un lato da sedie e tavolini del locale e dall’altro da motorini. In quel vicolo, il transito è consentito soltanto agli automezzi di servizio, ai taxi, ai motocicli e alle auto munite del contrassegno per i disabili. E proprio un disabile stava sull’auto guidata dalla donna, che si è trovata la strada bloccata. A quel punto, la signora ha chiesto a Briganti di spostare i tavolini, ma la risposta è stata «un vulcano, una cosa irripetibile», ha commentato la donna.

C’è da chiedersi: quanto importante sia il Briganti per Striscia, tanto da indurli ad occuparsi di lui e non delle malefatte commesse dai magistrati e dall’elite del calcio?

Macalli a inizio ottobre 2014 è stato anche deferito per violazione dell’art. 1 dalla Procura Figc (dopo un esposto di Massimo Londrosi, d.s. del Pavia) per aver registrato a suo nome nel 2011 quattro marchi riconducibili al club fallito, e per aver ceduto - dopo aver negato il bonifico che ha fatto fallire il club - quello «Us Pergolettese 1932» alla As Pizzighettone, che nel 2012-13 ha fatto la Seconda divisione con quella denominazione. Macalli patteggerà, scrive “Zona Juve”. Anche su internet non si trova conferma.

Mario Macalli, da 15 anni presidente della Lega Pro di calcio, sarebbe indagato per appropriazione indebita, in merito alla sua acquisizione del marchio del Pergocrema, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla scomparsa della società gialloblu (club dichiarato fallito dal tribunale cittadino il 20 giugno 2012), indagano le procure di Roma e Firenze che hanno ricevuto una denuncia da parte dell’ex presidente dei gialloblu Sergio Briganti, nei giorni scorsi inibito per 40 mesi dalla Federcalcio proprio per il fallimento del Pergo. E’ possibile che le due inchieste vengano riunificate. Macalli è stato vice presidente per alcuni anni della società gialloblu, vive a Ripalta Cremasca ed ha il suo studio in città. La storia dell’acquisizione del marchio venne scoperta e resa pubblica da un gruppo di tifosi che avrebbero voluto rilevare la società, percorrendo la strada dell’azionariato popolare. Con quattro registrazioni di marchi, Macalli ha reso impossibile il loro proposito.

Un altro terremoto scuote le malandate istituzioni del calcio italiano. La procura di Firenze, nel giorno della stesura dei gironi, ha chiesto il rinvio a giudizio per Mario Macalli, presidente della Lega Pro. L'accusa: abuso d'ufficio, scrive “La Provincia di Crema”. Oggetto dell'inchiesta penale condotta dal sostituto procuratore di Firenze, Luigi Bocciolini è la vicenda del fallimento del Pergocrema nell'estate 2012, nata dalla denuncia di Sergio Briganti, oggi difeso dagli avvocati Giulia De Cupis e Domenico Naso, e allora presidente del club lombardo. I dettagli dell'accusa per il manager sono pesantissimi: "In presenza di un interesse proprio, intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi, e che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento".

“Abuso d’ufficio”. E’ questa l’accusa, formulata dal procuratore della repubblica di Firenze, Luigi Bocciolini, che nei giorni scorsi ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio Mario Macalli, presidente della Lega Pro, scrive “Crema On Line”. L’oggetto dell’inchiesta, iniziata nel marzo 2013 riguarda la vicenda del fallimento del Pergocrema, avvenuta nel giugno 2012. L’indagine è partita dalla denuncia dell’ex presidente gialloblu Sergio Briganti. Dai verbali in possesso della polizia giudiziaria fiorentina nell’aprile 2012 l’avvocato Francesco Bonanni, responsabile dell’ufficio legale della Lega Pro, era incaricato di effettuare i conteggi relativi alla ripartizione della quota della suddivisione dei diritti televisivi della legge Melandri. La somma destinata al Pergocrema, allora iscritta al campionato di Prima Divisione Lega Pro, era pari a 312.118,54 euro lordi, al netto 245.488, 80 euro. In quel periodo la società cremasca gravava in una pesante situazione debitoria nei confronti di tecnici, atleti e fornitori. Il 3 maggio 2012 è stata presentata un'istanza da Francesco Macrì, legale dell’Assocalciatori, in rappresentanza di dieci tesserati del Pergocrema che vantavano 170 mila euro di debiti nei confronti del club gialloblu. Il tribunale di Crema ha autorizzato il sequestro cautelativo della somma in giacenza, comunicandolo alla Lega Pro. Il sequestro è stato attivato il giorno successivo. Il dato certo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, è che il 27 aprile 2012 la Lega era pronta a versare la quota: Bonanni ha escluso di aver dato l'ordine a Guido Amico di Meane, al commercialista della Lega Pro, di bloccare il versamento alla società cremasca. L'unico che avrebbe dato disposizione di non effettuare il relativo bonifico agli uffici preposti sarebbe stato Macalli.

Eppure, nonostante l’impegno della Procura, il Gup di Firenze Fabio Frangini ha assolto Mario Macalli, presidente della Lega Pro, dall’accusa di abuso d’ufficio riguardo al caso del fallimento del Pergocrema. Secondo l'accusa Maccalli non avrebbe autorizzato il versamento alla società della quota dei diritti tv relativa alla stagione 2011-2012. Non luogo a procedere, scrive “La Provincia di Crema”. Il presidente di Lega Pro e vicepresidente della Federcalcio, Mario Macalli, è stato prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio, nell’ambito della vicenda che portò nel giugno del 2012 al fallimento dell’Us Pergocrema 1932. La decisione è stata presa martedì mattina 21 ottobre dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Firenze, che non ha quindi accolto la richiesta di rinvio a giudizio depositata dal pubblico ministero Luigi Bocciolini il 30 luglio scorso. Il reato ipotizzato per Macalli era quello previsto e punito dall’articolo 323 del codice penale (l’abuso d’ufficio, appunto). Secondo il pubblico ministero, nella sua qualità di presidente della Lega Pro Macalli aveva intenzionalmente arrecato un ingiusto danno patrimoniale al Pergocrema, dando agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione a bloccare, senza giustificazione, il bonifico alla società di 256.488,80 euro alla stessa spettante quale quota per i diritti televisivi. A seguito di ciò, il 28 maggio 2012, due creditori chirografari depositarono istanza di fallimento del Pergocrema, presso il tribunale di Crema, fallimento che veniva dichiarato il 19 giugno. In sostanza, l’accusa puntava a dimostrare che, la società gialloblù fallì perchè non fu in grado di saldare il debito contratto di 113.000 euro con il ristorante Maosi e l’impresa di giardinaggio Non Solo Verde. Il fallimento sarebbe stato evitato se la Lega Pro avesse eseguito a fine aprile sul contro del Pergocrema, come venne fatto per tutti gli altri club, il bonifico dei contributi spettanti alla società stessa. Ma il Gup — come detto —non ha sposato la tesi.

Al termine degli accertamenti, il Gup lo ha prosciolto con formula piena perché "il fatto non sussiste". I difensori del ragioniere cremasco, l’avvocato Nino D’Avirro di Firenze e Salvatore Catalano di Milano hanno evidenziato, tra l’altro, che Macalli non svolge la funzione di pubblico ufficiale e pertanto non si configura il reato di abuso d’ufficio, scrive “Crema On Line”. Quindi l’inghippo c’era, ma non è stato commesso da un pubblico ufficiale? E qui, da quanto dato sapere, il motivo del non luogo a procedere. Come mai questa svista dei pubblici ministeri? «Aspettiamo le motivazioni — ha affermato a caldo l’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti — e poi ricorreremo. La cosa non finisce qui». Dr Antonio Giangrande

Come si truccano le aste giudiziarie, o i procedimenti dei sequestri/confische antimafia o i procedimenti concorsuali o esecutivi.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv o con i suoi canali youtube?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che i procedimenti giudiziari esecutivi sono truccati o truccabili, siano esse aste giudiziarie, o procedimenti di sequestro o confisca di beni presunti mafiosi, ovvero procedimenti concorsuali o esecutivi.

«Oltre ad essere scrittore, sono presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio nazionale antiracket ed antiusura (al pari di Libera). Associazione già iscritta all’apposito elenco prefettizio di Taranto, ma cancellata il 6 settembre 2017 per mia volontà, non volendo sottostare alle condizioni imposte dalla normativa nazionale: obbligo delle denunce (incentivo alla calunnia ed alla delazione) e obbligo alla costituzione di parte civile (speculazione sui procedimenti attivati su denunce pretestuose). Come presidente di questa associazione antimafia sono destinatario di centinaia di segnalazioni da tutta Italia. Segnalazioni ricevute in virtù della previsione statutaria associativa. Solo alcune di queste segnalazioni sono state prese in considerazione e citate nei miei saggi: solo quelle di cui si sono interessati organi istituzionali o di stampa. Articoli giornalistici od interrogazioni parlamentari inseriti nei miei saggi d’inchiesta: “Usuropoli. Usura e Fallimenti truccati” e “La Mafia dell’antimafia».

Perché le segnalazioni sono state rivolte a lei e non agli organi giudiziari?

«Per sfiducia nella giustizia. La cronaca lo conferma. Chiara Schettini tenta di scrollarsi di dosso le accuse pesantissime che l'hanno portata in carcere, aggravate da intercettazioni che la inchiodano a minacce, a frasi sorprendenti come: "Io se voglio sono più mafiosa dei mafiosi". Il Fatto contro i giudici fallimentari: "Sono corrotti". Il quotidiano di Travaglio alza il velo sui giudici fallimentari. A parlare è una di loro: "Ci davano 150 mila euro e viaggi pagati per pilotare le cause...", scrive “Libero Quotidiano”. Il Fatto contro le toghe. No, non è un ossimoro, ma l'approfondimento del quotidiano di Travaglio e Padellaro sui tribunali fallimentari. Raramente capita di leggere sul Fatto qualche articolo contro le toghe e la magistratura. Per l'ultimo dell'anno in casa travaglina si fa un'eccezione. Così il Fatto alza il velo sullo scandalo dei magistrati corrotti dei tribunali fallimentari. A parlare è l'ex giudice Chiara Schettini, arrestata a giugno che al Fatto racconta: "A Roma era una prassi. Viaggi e soldi in contanti erano la norma per comprare le sentenze. Si divideva il compenso con il magistrato, tre su quattro sono corrotti". La Schettini è un fiume in piena e accusa i colleghi: "L'ambiente della fallimentare è ostile, durissimo, atavico, non ci sono solo spartizioni di denaro ma viaggi, regali, di tutto di più, una nomina a commissario giudiziale costa 150 mila euro, tutti sanno tutto e nessuno fa niente". Infine punta il dito anche contro i "pezzi grossi" della magistratura fallimentare: "Si sapeva tranquillamente che lì c'era chi per una nomina a commissario giudiziale andava via in Ferrari con la valigetta e prendeva 150 mila euro da un famoso studio, tutti sanno ma nessuno fa niente...". Cause truccate, tangenti, favori. Tra magistrati venduti, politici, e top model che esportano milioni - La giudice “pentita” Schettini, arrestata per corruzione e peculato, ha cominciato a fare i nomi del “sistema”, tra avvocati, commercialisti e legami tra professionisti e banditi della criminalità romana…, scrive Dagospia. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive, invece, Pietro Troncon su “Vicenza Piu”. Corruzione al tribunale: voi fallite, noi rubiamo, scrive Lirio Abbate su L'Espresso n. 3 - del 23 gennaio 2014. Più che un tribunale sembra il discount delle grandi occasioni. Una fiera dove la crisi fa arrivare di tutto: dagli hotel alle fabbriche, a prezzi scontatissimi. Ma all'asta sarebbero finiti anche incarichi professionali milionari, assegnati al miglior offerente. O preziosi paracadute per imprenditori spericolati dalla mazzetta facile. Minerva e il prezzo della verità. Fallimenti, magistrati e giornalisti, scrive Francesco Monteleone su “Affari Italiani”. Giornalisti contro magistrati. Quanto costa essere veritieri? E' la domanda posta dai giornalisti riuniti, all'ombra della statua di Minerva, sulle scale del Palazzo di Giustizia di Bari. “Aste e fallimenti truccati…” Di fronte all’ingresso dello stesso palazzo, una scritta sul muro sintetizza impietosamente il comportamento vergognoso di alcuni magistrati responsabili della Sezione Fallimentare, che hanno subìto provvedimenti duri da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. E la verità bisogna raccontarla...tutta! Una scatola di pasta piena di soldi consegnata in un parcheggio di Trezzano. Altre due buste di denaro, una passata di mano in un ristorante di Pogliano Milanese e una in un pub in zona San Siro. Infine, una borsa di Versace, regalata in un negozio del centro di Milano, scrive Gianni Santucci su “Il Corriere della Sera”. Ruota per ora intorno a questi quattro episodi l'inchiesta della Procura su un sistema di corruzione nelle aste giudiziarie del Tribunale di Milano. Ville in Sardegna all’asta assegnate dai magistrati ai loro colleghi. Sospeso il giudice Alessandro Di Giacomo e un perito. Otto indagati in tutto. Il sospetto di altri affari pilotati, scrive Ilaria Sacchettoni il 15 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Magistrati che premiano altri magistrati nell’aggiudicazione di ville superlative. Avvocati che, in virtù dell’amicizia con presidenti del Tribunale locale, si prestano a dissuadere altri avvocati dall’eccepire. Colleghi degli uni e degli altri che, interpellati dagli ispettori del ministero della Giustizia, su possibili turbative d’asta oppongono un incrollabile mutismo. Massa e Pisa, aste truccate: “Dobbiamo rubare il più possibile”. Chiesta la sospensione del giudice Bufo. L'accusa è di aver sottratto soldi all'erario e aver dato gli incarichi alla figlia dell'amico. Sette provvedimenti. Ai domiciliari anche l’ex consigliere regionale Luvisotti (An), scrivono Laura Montanari e Massimo Mugnaini il 10 gennaio 2018 su "La Repubblica". «Qui bisogna cercare di rubare il più possibile» dice uno. E l’altro che è un giudice, Roberto Bufo, 56 anni, di Carrara ma in servizio al tribunale di Pisa, risponde: «Esatto». E il primo: «Il concetto di fondo è uno solo... anche perché tanto a essere onesti non succede niente». La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Virus su rai 2 condotto da Nicola Porro. 22:33 va in onda un servizio dedicato al caso del magistrato Antonio Lollo di Latina. Gomez: "C'è un problema in Italia riguardo i tribunali fallimentari. Non è la prima volta che un magistrato divide i soldi con il consulente. Nelle fallimentari, è noto che c'è la cosiddetta mano nera. Sulle aste, succedono cose strane. E se a dirlo è Peter Gomez, il direttore de “Il Fatto Quotidiano”, giornale notoriamente giustizialista e genuflesso all’autorità dei magistrati, è tutto dire. Ed ancora. RACKET DI FALLIMENTI E ASTE. LE CONNIVENZE DELLA PROCURA FANTASMA TRIESTINA, scrive Pietro Palau Giovannetti (Presidente di Avvocati senza Frontiere). Non solo a Trieste. E adesso l'inchiesta sulle aste pilotate a palazzo di giustizia potrebbe salire decisamente di tono: alla Procura di Brescia, competente a indagare sui magistrati del distretto di Milano (dunque anche quelli lecchesi), sarebbero stati inviati mesi fa una serie di documenti di indagine, scrive Claudio Del Frate con Paolo Marelli su “Il Corriere della Sera”. Ed ancora. Tangentopoli scuote ancora Pavia, scrive Sandro Repossi su “Il Corriere della Sera”. Mentre il sostituto procuratore Vincenzo Calia invia due avvisi di garanzia a personaggi "eccellenti" del Policlinico San Matteo come Giorgio Domenella, primario di traumatologia, e Giovanni Azzaretti, direttore sanitario, spunta un'altra ipotesi: un magistrato sarebbe coinvolto nell'inchiesta sulle aste giudiziarie. Caso San Matteo. Ed ancora. Il pm Paolo Toso ha presentato oggi le richieste di pena per i 15 imputati del processo sulle aste giudiziarie immobiliari di Torino e provincia: in totale 62 anni di condanna. Aste immobiliari, il business dal lato oscuro. L'incanto di case e immobili, in arrivo da fallimenti di privati e imprese è, complice la crisi, un settore in crescita esponenziale. Ma anche uno dei più grandi coni d'ombra del sistema giudiziario, scrive Luciana Grosso su “L’Espresso”. Se avete qualche soldo da riciclare, le aste immobiliari sembrano essere fatte apposta. E sono tante: circa 50mila all'anno, per un valore complessivo incalcolabile e, soprattutto, incalcolato. Corruzione e falso, arrestati giudice e cancelliere a Latina, scrive “la Repubblica”. Corruzione in atti giudiziari, concussione, turbativa d'asta, falso. Sono alcune delle accuse contestate a otto persone ai quali la squadra mobile di Latina ha notificato ordinanze di custodia cautelare emesse dai giudici di Perugia e di Latina. Tra gli arrestati, quattro in regime di detenzione in carcere e altrettanti ai domiciliari, anche un magistrato e un cancelliere in servizio presso il tribunale del capoluogo, alcuni professionisti e un sottufficiale della Guardia di Finanza. Al giudice andava una percentuale dei compensi che, in sede di giudizio, lo stesso giudice riconosceva ai consulenti. Le indagini avrebbero accertato come i consulenti nominati dal giudice nelle singole procedure concorsuali, abitualmente corrispondevano a quest'ultimo una percentuale dei compensi a loro liquidati dal giudice stesso. Il filone di indagine ha permesso anche di svelare altri illeciti sullo svolgimento delle aste disposte dal Tribunale di Latina per la vendita di beni oggetto di liquidazione. Tutto questo non basta ad avere sfiducia nella Magistratura? Ogni segnalazione conteneva una denuncia presentata, che si è conclusa con esito negativo. Sono stato sentito dagli organi inquirenti, territorialmente toccati dagli scandali, per rendere conto del mio dossier. Gli ho spiegato che sono uno scrittore e non un Pubblico Ministero con potere d’indagine, con l’inchiesta giudiziaria bell’e fatta, né sono una parte con le prove specifiche allegate alla singola denuncia rimasta lettera morta. Val bene che una denuncia può non essere sostenuta da prove, o che al massino vale un indizio. Ma decine di casi a supporto di un’accusa, valgono decine di indizi che formano una prova. Se si ha fede si crede a ciò che non si vede; se non si ha fede (voglia di procedere da parte di PM o suoi delegati), una montagna di prove non basta! Anche il giornalista di Telejato, Pino Maniaci, a Palermo non veniva creduto quando parlava di strane amministrazioni giudiziarie sui beni sequestrati e confiscati a presunti mafiosi, che poi le sentenze non li ritenevano mafiosi. Però, successivamente, l’insistenza e lo scandalo ha costretto gli inquirenti a procedere contro i loro colleghi magistrati, che poi sono i dominus dei procedimenti giudiziari, anche tramite i collaboratori che loro nominano. Comunque di scandali se ne parla e se ne è parlato. Quasi tutti i Tribunali sono stati toccati da scandali od inchieste giudiziarie. Quei pochi luoghi rimasti immuni sono forse Fori unti dal Signore...».

Spieghi, lei, allora, come si truccato le aste giudiziarie e i procedimenti connessi…

«LA NOMINA DEI COLLABORATORI DA PARTE DEL GIUDICE TITOLARE. I custodi giudiziari spesso si spacciano anche per amministratori giudiziari, per poter pretendere con l’avvallo dei magistrati compensi raddoppiati e non dovuti. Essendo i consulenti tecnici, i periti, gli interpreti ed i custodi/amministratori giudiziari i principali ausiliari dei magistrati, come a questi ci si pretende di porre in loro una fiducia incondizionata. Spesso, però ci si accorge che tale fiducia è mal riposta, sia nei collaboratori, che nei magistrati stessi. La nomina del curatore esecutivo o del commissario concorsuale o amministratore dei beni mafiosi sequestrati o confiscati si dice che avviene per rotazione. Vero! Bisogna però verificare la quantità degli incarichi e, ancor di più, la qualità. Un incarico del valore di 10 mila euro è diverso da quello di 10 milioni di euro. All’amico si affida l’incarico di valore maggiore con liquidazione consistente del compenso! Di quest’aspetto ne parla la “Stampa”. Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Secondo quanto scrivono Il Messaggero e Il Fatto Quotidiano la procura di Perugia sta indagando sulla gestione delle procedure fallimentari del Tribunale di Roma. Ovvero di come il Tribunale assegna i vari casi di crisi aziendali ai curatori fallimentari, avvocati o commercialisti, che in base al valore della pratica che gestiscono vengono pagati cifre in alcuni casi molto alte. L’ipotesi al vaglio degli inquirenti è che a “guidare” queste assegnazioni ci sia un sistema clientelare o corruttivo.

L’AFFIDAMENTO E LA GESTIONE DEI BENI CONFISCATI/SEQUESTRATI AI PRESUNTI MAFIOSI. I beni dei presunti mafiosi confiscato o sequestrati preventivamente sono affidati e gestiti da associazione di regime (di sinistra) che spesso illegittimamente sono punto di riferimento delle prefetture, pur non essendo iscritte nell’apposito registro provinciale, e comunque sempre destinatari di fondi pubblici per la loro gestione, perchè vincitori di programmi o progetti allestiti dalla loro parte politica.

LA DURATA DEL MANDATO. Un mandato collusivo e senza controllo porta ad essere duraturo e senza soluzione di continuità. Quel mandato diventa oneroso per i beni e ne costituiscono la loro naturale svalutazione. Trattiamo della nomina e della remunerazione dei custodi/amministratori giudiziari. In questo caso trattasi di custodia dei beni sequestrati in procedimenti per usura. Il custode ha pensato bene di chiedere il conto alle parti processande, ben prima dell’inizio del processo di I grado ed in solido a tutti i chiamati in causa in improponibili connessioni nel reato, sia oggettive che soggettive. Chiamati a pagare erano anche a coloro a cui nulla era stato sequestrato e che poi, bontà loro, la loro posizione era stata stralciata. Questo custode ha pensato bene di chiedere ed ottenere, con l’avallo del Giudice dell’Udienza Preliminare di Taranto, ben 72.000,00 euro (settantaduemila) per l’attività, a suo dire, di custode/amministratore. Sostanzialmente il GUP, per pervenire artatamente all’applicazione delle tariffe professionali dei commercialisti, in modo da maggiorare il compenso del custode, ha ritenuto che la qualifica spettante al suo ausiliario non fosse di custode i beni sequestrati (art. 321 cpp, primo comma), ma quella di amministratore di beni sequestrati (art. 321 cpp, secondo comma, in relazione all’art. 12 sexies comma 4 bis del BL 306/1992 che applica gli artt. 2 quater e da 2 sezies a 2 duodecies L. 575/1965). Il presidente Antonio Morelli ha riconosciuto, invece, liquidandola in decreto, solo la somma di euro 30.000,00 (trentamila). A parte il fatto che non tutti possono permettersi di opporsi ad un decreto di liquidazione del GUP, è inconcepibile l’enorme differenza tra il liquidato dal GUP e quanto effettivamente riconosciuto dal Presidente del Tribunale di Taranto. Anche “Il Giornale” ha trattato la questione. Parcelle gonfiate, indagato consulente del Pm. Avrebbe ritoccato note spese liquidate dalla Procura: è stato nominato in 144 procedimenti. Con le accuse di truffa ai danni dello Stato e frode fiscale, il pm Luigi Orsi ha messo sotto inchiesta il commercialista M.G., più volte nominato consulente tecnico del pubblico ministero e dell'ufficio del giudice civile e anche amministratore giudiziario di beni sequestrati. E poi c’è l’inchiesta de “Il Messaggero”. Tribunale fallimentare, incarichi d'oro. Inchiesta sui compensi da capogiro. In tribunale, avvocati e cancellieri ne parlano con circospezione. E lo raccontano come se fosse un bubbone che prima o poi doveva scoppiare, perché gli interessi economici in ballo sono davvero altissimi e gli esclusi dalla grande torta cominciavano a dare segni di insofferenza da tempo.

LA VALUTAZIONE DEI BENI. La valutazione dei beni da vendere all’asta pubblica è fatta in ribasso, anche in forza di attestazioni false dello stato dei luoghi. Per esempio: si prende una visura catastale in cui il terreno risulta incolto/pascolo, ma in effetti è coltivato ad uliveto o vigneto. Oppure si valuta come catapecchia una casa ben manutenuta e rinnovata. Esemplare è il fallimento della Federconsorzi. Caposaldo dello scandalo, la liquidazione di un ente che possedeva beni immobili e mobili valutabili oltre quattordicimila miliardi di lire per ripagare debiti di duemila miliardi. L’enormità della differenza avrebbe costituito la ragione di due processi, uno aperto a Perugia uno a Roma. La singolarità dello scandalo è costituita dall’assoluto silenzio della grande stampa, che ha ignorato entrambi i processi, favorendo, palesemente, chi ne disponeva l’insabbiamento.

LE FUGHE DI NOTIZIE. Le fughe di notizie sulla situazione dei beni, le notizie sulla pericolosità o meno dei loro proprietari, o gli avvisi sulle offerte sono cose risapute.

LA MANCATA VENDITA. Spesso ci sono dei personaggi, con i fascicoli dei procedimenti in mano, che in cambio di tangenti promettono la sospensione della vendita. Altre volte i proprietari mettono in essere comportamenti intimidatori nei confronti dei possibili acquirenti, tanto da inibirne l’acquisto.

LA VENDITA VIZIATA. La vendita del bene all’asta può essere viziata, impedendo ai possibili acquirenti di parteciparvi. Per esempio si indica una data di vendita sbagliata (anche da parte degli avvocati nei confronti dei propri clienti esecutati), o il luogo di vendita sbagliato (un paese per un altro).

L’AQUISTO DI FAVORE. L’acquisto dei beni è spesso effettuato tramite prestanomi al posto di chi non è legittimato all’acquisto (come per esempio il proprietario esecutato), e spesso effettuato per riciclaggio o auto riciclaggio.

IL PREZZO VILE (VALORE TROPPO BASSO RISPETTO AL MERCATO). Il filo conduttore che lega tutte le aste truccate è la riconducibilità al prezzo vile: ossia il quasi regalare il bene da vendere all’asta, frutto di sacrifici da parte degli esecutati, rispetto al valore di mercato, affinchè si liquidi il compenso dei collaboratori del giudice, e, se ne rimane, il resto al creditore».

Cosa si può fare contro il prezzo vile?

«Contro il prezzo vile, se si vuole si può intervenire. Casa all'asta: addio aggiudicazione se il prezzo è troppo basso. Importante ordinanza del Tribunale di Tempio sulla revoca dell'aggiudicazione di un immobile all'asta, scrive la dott.ssa Floriana Baldino il 10 febbraio 2018 su “Studio Castaldi” - Dal tribunale di Tempio, con la firma del giudice Alessandro Di Giacomo, arriva un'importante decisione. Il giudice, a seguito del deposito di un ricorso urgente, ha revocato l'aggiudicazione dell'immobile all'asta, considerando la circostanza che l'immobile era stato venduto ad un prezzo troppo basso rispetto al valore che lo stesso aveva sul mercato. Il giudice, infatti, deve sempre valutare l'adeguatezza del prezzo di vendita rispetto a quello di mercato onde evitare "l'eccesso di ribasso", che sicuramente non va a vantaggio né del creditore né del debitore. L'unico a trarne vantaggio sarebbe soltanto colui che all'asta acquista l'immobile ad un prezzo irrisorio. Il giudice Di Giacomo, accogliendo dunque la tesi dell'avvocato difensore, ha revocato l'aggiudicazione dell'asta in base ai principi stabiliti dalla legge n. 203 del 1991. Tale legge parla impropriamente di "sospensione" ma, in verità, attribuisce al G.E. – fino all'emissione del decreto di trasferimento – un vero e proprio potere di revocare l'aggiudicazione dell'immobile a prezzo iniquo. Il potere di revocare l'aggiudicazione, prima spettava solo al giudice delegato ex art. 108 della legge fallimentare, ma la riforma ha attribuito questo potere al giudice dell'esecuzione, allo scopo di "restituire il processo esecutivo alla fase dell'incanto che andrà rifissato con diverse modalità, affinchè la gara tra gli offerenti si svolga per l'aggiudicazione del bene al prezzo giusto".

La sospensione della vendita. Già prima dell'approvazione del decreto del 2016, molti giudici, di diversi tribunali, avvalendosi della possibilità riconosciuta loro ex art. 586 c.p.c., in seguito alle modifiche apportate dalla legge n. 203/91 di conversione del D.lg. n. 152/91, sospendevano la vendita quando il prezzo era notevolmente inferiore a quello "giusto". Quel decreto, urgente, era stato pensato per la lotta alla criminalità organizzata delle vendite pilotate, ovvero negli anni in cui si assisteva ad una serie di incanti deserti al fine di conseguire, attraverso successivi ribassi, un prezzo di aggiudicazione irrisorio. Questa legge, pensata e studiata per la lotta alla criminalità organizzata, è stata poi applicata in diversi tribunali e per tutte le procedure che non avevano più alcuna utilità. Ogniqualvolta i giudici ritenevano che gli interessi economici del debitore e del creditore venissero frustrati dal prezzo troppo basso di aggiudicazione dell'immobile, potevano, a discrezione, "sospendere la vendita". Così, ad es., il tribunale di Roma, sez. distaccata di Ostia, con ordinanza del 9 Maggio 2013 che ha sospeso per un anno l'esecuzione immobiliare dopo cinque tentativi di asta. Nella fattispecie, il prezzo del bene si era talmente ridotto rispetto alla stima del perito che il giudice ha ritenuto che la sospensione di un anno della procedura, potesse essere un congruo termine per tentare la vendita dell'immobile ad un prezzo diverso, e magari più adeguato. Al Tribunale di Napoli invece un giudice è andato oltre restituendo il bene al debitore (ord. del 23.01.2014.), facendo riferimento a due principi importanti. Il primo, della ragionevole durata del processo, ed il secondo, principio cardine a cui il giudice napoletano ha fatto riferimento, quello secondo cui, procedere con l'esecuzione, non era più fruttuoso né per il debitore né per il creditore, sempre per il c.d. "giusto prezzo". Successivamente anche il Tribunale di Belluno si è espresso in tal senso con ordinanza del 3.06.2013.

La necessaria utilità del processo esecutivo. Il processo esecutivo deve avere una sua utilità. Soddisfare il creditore e liberare il debitore dai suoi debiti. Il periodo storico in cui ci troviamo non è sicuramente dei migliori ed il mercato immobiliare è sicuramente molto penalizzato. Si assiste sempre a situazioni in cui alle aste non vi è alcuna proposta di acquisto, almeno fino a quando il prezzo dell'immobile rimane alto. Poi il bene viene venduto ad un prezzo veramente irrisorio ed il creditore non viene soddisfatto dal prezzo ricavato dalla vendita, mentre il debitore si ritrova senza immobile (in molti casi proprio la prima abitazione) e con ancora i debiti da saldare. Molte norme sono intervenute in aiuto degli imprenditori in crisi ed ora tutto sta nelle mani dei giudici dei tribunali, che possono applicare le norme in una maniera più elastica e meno rigida.

La giurisprudenza. Importante, in materia di esecuzione, è la sentenza n. 692/2012 della Cassazione. Occupandosi di esecuzione in materia fiscale, la S.C. ha ribadito che: "Nell'esecuzione esattoriale il potere del giudice di valutare l'adeguatezza del prezzo di trasferimento non solo non subisce alcuna eccezione rispetto l'esecuzione ordinaria ma deve essere esercitato con particolare oculatezza, sì da valutare se, nel singolo caso, sia più dannoso per lo Stato creditore il protrarsi dei tempi di riscossione o la perdita della possibilità di realizzare gran parte del proprio credito, a causa della sottovalutazione del bene pignorato". Una massima enunciata prima della approvazione del "decreto del fare", ovvero quando ancora Equitalia poteva pignorare e vendere all'asta gli immobili dei contribuenti. La massima enunciata dalla Cassazione in materia tributaria, si adegua, ed uniforma, a quello da sempre sottolineato nel procedimento civile.

Il processo esecutivo deve mantenere la sua utilità. La Cassazione specifica inoltre che il concetto di prezzo giusto, non richiede necessariamente una valutazione corrispondente al valore di mercato, ma occorre aver riguardo alle modalità con cui si è pervenuti all'aggiudicazione, al fine di accertare se tali modalità (pubblicità ed altro), siano stati tali da sollecitare l'interesse dell'acquisto. Insomma, sempre più numerose le sentenze a favore del consumatore indebitato che vede svendere i propri beni senza ottenere, per di più, dalla vendita la soddisfazione dei creditori».

Come bloccare un'Asta?

«Se la tua casa è all’asta esistono diversi metodi per sospendere o bloccare definitivamente il pignoramento a seconda delle situazioni. L’importante è che le aste vadano deserte, scrive lo Studio Chianetta il 22 maggio 2017. Molto spesso – specie quando si ha a che fare con la legge – si prende cognizione dei problemi quando il danno è spesso irrimediabile. Succede a chi ha la casa pignorata che, dopo aver ignorato gli svariati avvisi del creditore e aver sottovalutato le carte ricevute dal tribunale, si chiede come bloccare un’asta. In verità, anche per chi è soggetto a un’esecuzione forzata immobiliare, esistono alcune scappatoie, pienamente legali, ma da prendere con le dovute cautele. Infatti, se è vero che esse consentono di sbarazzarsi del pignoramento dall’oggi al domani, dall’altro lato non vengono accordate dal giudice con facilità e automatismo. Del resto, come tutte le norme, anche quelle che consentono di bloccare un’asta immobiliare sono soggette a interpretazione e, peraltro, come vedremo, lasciano un campo di azione abbastanza ampio alla valutazione del giudice. Ma procediamo con ordine. Il problema della casa all’asta resta il cruccio principale per molti debitori che subiscono il pignoramento. Impropriamente si crede peraltro che la «prima casa» non sia pignorabile, cosa non vera per due ordini di motivi: innanzitutto il limite vale solo nei confronti dell’agente della riscossione (Equitalia o, dal 1° luglio 2017, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione); in secondo luogo perché a non essere pignorabile non è la «prima casa» ma solo l’unico immobile di proprietà del debitore (per cui, se questi ha due case, ad essere pignorabili sono entrambe e non solo la seconda). A dirla tutta, quando si tratta di creditori privati (la banca, un fornitore o la controparte che ha vinto una causa) il pignoramento immobiliare può essere avviato anche per debiti di scarso valore (invece, per i debiti con il fisco il pignoramento è possibile solo superati 120mila euro). Prima di capire come bloccare la casa all’asta sono necessarie due importanti precisazioni. La prima cosa da sapere è che, di norma, prima di procedere al pignoramento (e, quindi, all’asta), il creditore iscrive un’ipoteca sull’immobile. Per quanto ciò non sia vincolante (lo è solo nel caso in cui ad agire sia l’Agente della riscossione), avviene quasi sempre perché attribuisce un diritto di prelazione sul ricavato: in altre parole, il creditore con l’ipoteca si primo grado si soddisfa prima degli altri. La seconda indispensabile precisazione è che, per bloccare la casa all’asta si può contestare le ragioni del creditore solo se questi agisce in forza di un assegno o di un contratto di mutuo. Viceversa, se il creditore agisce in forza di una sentenza di condanna, il debitore non può più metterla in discussione (avendo avuto il termine per fare appello o ricorso per cassazione). Quindi, se il giudice ha fissato il nuovo esperimento d’asta e il creditore agisce perché ha ottenuto un decreto ingiuntivo (ad esempio, la banca per interessi non corrisposti) non è più possibile sollevare eccezioni sul merito del credito (ad esempio sull’anatocismo)».

Ma allora quando si può bloccare la casa all’asta?

«Le ragioni sono essenzialmente legate all’utilità della procedura. Ci spieghiamo meglio, scrive lo Studio Chianetta il 22 maggio 2017. Lo scopo del pignoramento – e quindi delle aste – è quello di liquidare i beni del debitore e, con il ricavato, soddisfare il creditore procedente. Una procedura che realizza l’interesse di entrambe le parti: quello del creditore – perché così ottiene i soldi che gli spettano – e quello del proprietario della casa – perché in tal modo si libera del debito. Quando però queste due finalità non possono essere realizzate, allora non c’è ragione di tenere in vita la procedura. Si pensi al caso di un’asta battuta a un prezzo ormai così basso da non consentire al creditore di recuperare neanche la metà delle somme per le quali agisce, al netto delle spese legali già sostenute. Nello stesso tempo, l’eventuale vendita – eseguita magari a favore di chi, furbescamente, ha atteso diverse aste prima di proporre un’offerta, in modo da far calare il prezzo – non consente al debitore di liberarsi della morosità, peraltro espropriandolo di un bene per lui vitale. Risultato: insoddisfatto il creditore, insoddisfatto il debitore. Consapevole di ciò il legislatore ha, di recente, emanato due norme che, sebbene possano apparire indipendenti tra loro, se applicate l’una con l’altra possono favorire la rapida conclusione del pignoramento.

COME BLOCCARE L’ASTA. Qualora non si presenti alcun offerente alle aste promosse dal tribunale, il giudice può disporre un ribasso del prezzo di vendita del 25% (ossia di un quarto). Molto spesso, però, nonostante i ribassi e il calo drastico del prezzo rispetto alla stima fatta all’inizio del pignoramento dal consulente del tribunale (il cosiddetto «Ctu», ossia il consulente tecnico d’ufficio), non si presenta alcun offerente. Con la conseguenza che il prezzo d’asta scende sempre di più fino al punto da non soddisfare le pretese dei creditori. Così il codice di procedura stabilisce che «quando risulta che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori – anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo – è disposta la chiusura anticipata del processo esecutivo». In pratica, tutte le volte che la casa, sottoposta a pignoramento immobiliare, non trova potenziali acquirenti e la base d’asta, a furia di ribassi, arriva a un prezzo che non è in grado di garantire un ragionevole soddisfacimento dei creditori il giudice decreta la fine anticipata del processo esecutivo. Si tratta di una estinzione anticipata del pignoramento che non consente allo stesso di risorgere in un secondo momento. Questo significa che il debitore torna nella piena disponibilità della propria casa prima pignorata e non dovrà subire alcuna asta. Ma quando è possibile raggiungere questo risultato? Quante aste bisogna aspettare? In teoria molte. E proprio per questo è intervenuta la seconda parte della riforma di cui abbiamo accennato in partenza. La seconda norma in evidenza è contenuta nel cosiddetto «decreto banche» dell’inizio 2016. In base all’ultima riforma del processo esecutivo, quando il terzo esperimento d’asta va deserto e il bene pignorato non viene aggiudicato, il giudice dispone un quarto tentativo di asta e, per rendere più allettante la partecipazione degli offerenti, può decurtare fino a metà il prezzo di vendita. Con l’ovvia conseguenza che, andata deserta anche la quarta asta, il prezzo di vendita sarà sceso così tanto da consentire il verificarsi di quella condizione – prima descritta – che consente l’estinzione anticipata del pignoramento: ossia l’impossibilità di conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori. Ecco così che già dopo la quarta o la quinta asta, al più dopo la sesta, è possibile bloccare le aste successive e chiudere una buona volta il pignoramento. Del resto scopo del pignoramento è quello di soddisfare il creditore e non infliggere al debitore una sanzione esemplare. Tanto è vero che una recente ordinanza del Tribunale di Tempio ha stabilito che: «Neppure le esigenze di celerità cui tale particolare procedura è improntata (si riferisce all’ esecuzione esattoriale), in forza delle quali l’espropriazione anche per prezzo vile trova la sua ragion d’essere nel preminente interesse dello Stato procedente, possono giustificare che il trasferimento degli immobili pignorati prescinda da un qualsiasi collegamento con il valore dei beni e che tale valore possa essere anche irrisorio, atteso che l’espropriazione ha la finalità di trasformare il bene in denaro per il soddisfacimento dei creditori e non certo di infliggere una sanzione atipica al debitore inadempiente». Secondo il giudice quindi è anche possibile sospendere la vendita se il prezzo è troppo basso. Il che è previsto dal codice di procedura civile che prevede la possibilità di sospendere il pignoramento anche una volta intervenuta la vendita: «Avvenuto il versamento del prezzo, il giudice dell’esecuzione può sospendere la vendita quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto».

LA SOSPENSIONE DELL’ESECUZIONE FORZATA SULLA CASA. C’è poi la possibilità di chiedere la sospensione del pignoramento quando il giudice ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto e di mercato. La misura è nell’interesse sia del debitore (che ha interesse a che la casa si venda al prezzo reale, per poter chiudere la partita col creditore), sia del creditore stesso (che intende recuperare quanto più possibile delle somme che gli spettano). Si tratta di un potere riservato al vaglio discrezionale del tribunale (ma che, ovviamente può essere sollecitato dagli avvocati delle parti) che comporta il differimento dell’asta pubblica “a data da destinarsi” (ossia a quando il mercato sarà più “maturo”). Sempre che, nelle more, non intervengano altri eventi modificativi del processo come, per esempio, il disinteresse del creditore, una trattativa tra le parti che porti a una transazione con sostanziale decurtazione del debito, ecc.

NEL CASO DI FALLIMENTO. Anche se la vendita avviene per via di un fallimento, le cose non cambiano. Difatti, la legge fallimentare prevede, nel caso in cui oggetto della vendita forzata sia un bene appartenente a un imprenditore fallito, che «il giudice delegato, su istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri interessati, previo parere dello stesso comitato dei creditori, può sospendere, con decreto motivato, le operazioni di vendita, qualora ricorrano gravi e giustificati motivi ovvero, su istanza presentata dagli stessi soggetti». In passato il tribunale di Lanciano, nell’ambito di pignoramento immobiliare conseguente a un fallimento ha preso atto del notevole squilibrio tra il prezzo di base d’asta dell’immobile e quello di mercato (per come attestato dalla perizia del Consulente tecnico d’ufficio) e, sulla scorta di ciò, ha sospeso la vendita della casa pignorata».

Antonio Giangrande: I comunisti dicono no al referendum perché pensano, a ragione, che la Costituzione antifascista sia roba loro e per questo non si tocca. Dicono che la riforma lede la democrazia e porta al regime di un uomo solo al comando e quell’uomo non è roba loro.

I Fascisti dicono no perché la riforma lede la democrazia e porta al regime di un uomo solo al comando (sic), pur essendo loro stessi presidenzialisti.

I centristi che dicono no al referendum sono quelli che lo hanno votato in Parlamento.

I pentastellati dicono no alla riforma perché sono soggetti alla sindrome del nimby. Sono quelli che dicono sempre no a prescindere. Presentano interrogazioni contro le aste truccate in Tribunale e poi votano contro la responsabilità civile dei magistrati. Sono quelli che vogliono incapaci in Parlamento, malpagati ed incompetenti, sol perché il loro capo non può essere parlamentare.

Tutti quelli che votano no alla riforma sono degli ipocriti conservatori che mirano solo a tenere la poltrona ed a estromettere Renzi per prenderne il suo posto.

I negazionisti da destra a sinistra coalizzati per un fine comune e che imperituri in Parlamento hanno portato l’Italia in queste condizioni peccano di credibilità.

E sol perché loro vogliono il no, io scelgo di votare sì. In una Italia che non cambia mai io voglio le riforme. Chi no fa non sbaglia mai e di lor mi son rotto il cazzo.

Credo di spiegarmi l’idolatria verso i magistrati dei comunisti e dei penta stellati para comunisti (perché chi è comunista, è cattivo ed invidioso dentro). Loro pensano, non avendo niente da perdere in termini di proprietà, che i “padroni” sono tali sol perché rubano. Ecco la loro voglia di dire “ quello che è tuo è mio, quello che è mio, è mio”. Per gli effetti i comunisti pensano di avere dalla loro parte i magistrati che li vendicano punendo i padroni. In questo modo vedono nemici ovunque. Non pensano i fessi che facendo così alimentano la ingiustizia sociale. Uno, perché in carcere ci sono solo indigenti, spesso innocenti. Due, perché in Italia il vero potere lo detengono i magistrati. Quindi non si parla di democrazia, ma di magistocrazia. Inoltre, né i magistrati, né i comunisti vengono da Marte. Ergo nel marcio italico si è tutti uguali. Basta non guardare fuori, ma guardarsi dentro. E non alimentare leggende metropolitane in simbiosi con i propri simili. Basta aprire al mondo il proprio cervello.

Covid. Immunità di gregge o Lockdown e coprifuoco?

L'Immunità di gregge è l'infezione totale ed immediata, tale da scongiurare la reinfezione, ove sussistesse come nel Coronavirus. La pandemia si estinguerebbe naturalmente in breve tempo.

Il Confinamento-Quarantena (Lockdown) e Coprifuoco è l'infezione graduale che, ove si manifestasse la reinfezione, sarebbe duratura e mai totale. La pandemia, negli anni, si fermerebbe, inibendo il protrarsi dell'infezione, tramite la prevenzione con i vaccini periodici, a secondo la variante del virus, che attivano gli anticorpi nei soggetti più forti, o con le cure con gli antivirali (combattono le cause) ed antinfiammatori (leniscono gli effetti). La quarantena è preferita per la speculazione effettuata su prevenzione e cura.

Immunità di gregge. Sarebbe un sistema che ci permetterebbe di uscire dalla crisi in tempi brevi senza restrizione. Il Virus circola liberamente. Ci sarebbero asintomatici, paucisintomatici e sintomatici lievi e gravi, i quali, quest'ultimi, sarebbero ricoverati e curati con qualsiasi cura disponibile, anche quelle osteggiate, ma efficaci. Ma è No! No. Non perchè, per media prezzolati ed allarmisti, per politici incapaci e per pseudoesperti virologi di sinistra, morirebbe troppa gente, ma perchè la malconcia sanità italiana non potrebbe sopportare lo stress dei ricoveri. Ergo: i morti sarebbero tali per la malasanità e non per il virus.

Lockdown e coprifuoco: misure per salvare vite umane? No! Misure deleterie per l'economia, ma obbligate per nascondere il fallimento della Sanità. Foraggeria e tagli. Clientelismi e nepotismi per la cooptazione e favoritismi al Privato hanno ridotto il sistema sanitario a dover adottare l'unica scelta: confinare i cittadini e centellinare i ricoveri per Covid per mancanza di personale ed infrastrutture, impedendo la cura, inoltre, di altre patologie, il cui numero di morti conseguenti è taciuto. Infartuano i pazienti per non collassare gli ospedali. Taglia, taglia che qualcosa resterà!

Insomma: confinamento e crisi economica è il prezzo da pagare per salvare la faccia ed i finanziamenti a pioggia a soggetti fisici e giuridici tutelati a fini elettorali. Finanziamenti che, se veicolati sulla sanità, porterebbe questa ad affrontare qualsiasi emergenza.

Antonio Giangrande: Coronavirus. Covid-19. SARS-CoV-2. Lo conosco. Li conosco. Testimonianza dall’inferno della malattia.

Intervista al dr Antonio Giangrande, sociologo storico, autore di “Coglionavirus”, libro in 10 parti che analizza gli aspetti clinici e sociologici del Virus; la reazione degli Stati e le conseguenze sulla popolazione.

Dr Antonio Giangrande, lei stesso è stato vittima del virus, essendo stato ricoverato in gravi condizioni in ospedale. Esprima, preliminarmente, la sua considerazione da vero esperto del virus.

«I nostri professoroni, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, al Consiglio Superiore di Sanità, fino ai componenti dei vari comitati consultivi, saranno titolati, sì, ma sono assolutamente ignoranti sul tema, essendo il Covid-19 un virus assolutamente sconosciuto. A dimostrazione di ciò ci sono i pareri e le direttive espressi nel tempo, spesso in contraddizione tra loro. Si va da “non è epidemia” dell’Organizzazione Mondiale di Sanità, al “le mascherine non servono” del Consiglio Superiore di Sanità. Per non dire delle contrapposizioni tra gli scienziati. Nonostante ciò, i pseudo esperti hanno imposto regole che si sono dimostrati essere protocolli della morte.

Il Contagio avviene per aerosol con insinuazione in ogni orifizio. O si è tutti bardati o ristretti in casa, o si è tutti a rischio di infezione: altro che mascherina e distanziamento di un metro.

La gente non è morta, o ha sofferto per il Covid-19, ma per la malasanità e per i protocolli sbagliati.

I posti letto negli ospedali sono mancanti perchè il ricovero non è tempestivo e con ciò si allungano i tempi di degenza. E le degenze non sono ristrette, usufruendo della terapia domiciliare o dell'assistenza domiciliare Usca per i casi più gravi non ospedalizzabili.

I nostri governanti, poi, da incompetenti in materia, hanno delegato ai sanitari, spesso amici, per pararsi il culo, la gestione della pandemia. Dico amici che stranamente gli esperti non allarmisti, si trovano tutti dalla parte dell'opposizione politica. La Gestione maldestra della pandemia ha comportato gravi conseguenze economiche, sociali e psicologiche. Scrivere "Coglionavirus" ha comportato la mia rovina economica. Amazon, piattaforma internazionale su cui quel libro ed altri 200 testi tematici, erano distribuiti, stampati e venduti, ha cancellato il mio account e fatto cessare i miei proventi. Un giorno, forse, qualcuno dovrà rendere conto a Dio ed alla giustizia penale e civile per il male fatto alla popolazione».

Parli di come è stato infettato.

«Per il mio lavoro e per il mio carattere ho sempre fatto vita riservata, così come mia moglie. Le uniche uscite erano il fare sport da singolo ed isolato ed il fare la spesa, con rispetto delle regole imposte: mascherine e distanziamento e rapportarsi il meno possibile con i genitori anziani. Eppure, questo mio comportamento esemplare, in ossequio alle regole sbagliate, si è dimostrato letale.

L’8 novembre 2020 mio fratello fa visita ai genitori: il giorno dopo ha la febbre.

Il 9 novembre 2020 vado a far visita ai miei genitori ultraottantenni: mascherina e distanziamento. Presente un terzo fratello. Ho notato che avevano il riscaldamento alto.

Il 10 novembre 2020, cioè giorno dopo il malessere dei miei genitori si trasforma in febbre lieve. Per questo motivo tutti i figli, tre maschi ed una donna, con altri familiari ristretti, gli fanno visita con mascherina e distanziamento.

I miei due fratelli dopo pochi giorni hanno evidenziato i primi sintomi, mia sorella asintomatica. Immediatamente, si è coinvolto il medico curante che ha provveduto al tampone per tutti. Alla fine risultano tutti infettati, compresi le loro famiglie. 15 componenti di 4 nuclei familiari. Ai primi sintomi, correttamente, tutti abbiamo adottato il confinamento domiciliare e nessuno ha infettato alcuno. Fortunatamente i genitori anziani sono stati pauci sintomatici, così come gli altri componenti della famiglia. Un fratello ricoverato in modo lieve. Solo io ho subito le conseguenze gravissime, rasentando la morte.

Si è scoperto che mio padre è stato infettato frequentando, con mascherina e distanziamento, un luogo pubblico. Egli pensava che la lieve febbre fosse dovuta al vaccino antinfluenzale.

Questo sta ha dimostrare due cose:

1. Che la mascherina ed il distanziamento non bastano, ma bisogna essere bardati con occhiali e visiera per non essere infettati. Il virus si insinua in ogni orifizio. Il virus è 100 volte più piccolo del batterio e quindi galleggia nell’aria e con essa si muove. Posso prenderlo dopo molti metri e dopo molti minuti;

2. Che spesso sono gli anziani ad infettare i giovani e non viceversa. Perché sono quelli che spesso non rispettano le regole;

3. Molti sono infetti asintomatici e non lo sanno. Ed infettano in buona fede;

4. Molti sono infetti pauci sintomatici o conviventi asintomatici o pauci sintomatici di infetti conclamati. Sanno di essere infetti, ma continuano la loro vita e da criminali infettano gli altri.

5. Ma cosa più importante che ho potuto constatare in seguito, dopo il mio ricovero, è che ci si infetta principalmente in strutture protette. Il degente C.mo C.lò è stato infettato in una RSA, quella di Villa Argento di Manduria e poi trasferito al Giannuzzi di Manduria. Il Degente V.to T.liente di Martina Franca, ricoverato al Santissima Annunziata di Taranto per altre patologie, è stato refertato negativo all’arrivo nel nosocomio e poi infettato in quel reparto. Successivamente trasferito al Giannuzzi di Manduria».

Parli dell’evoluzione della malattia.

«Dal famoso 9 novembre 2020 ho avvertito subito sintomi di malessere e febbre, ma ho continuato a fare i miei 22 chilometri di corsa e bicicletta. Fino a che la febbre a 39 e mezzo, senza sintomi specifici, me lo ha impedito. Pensavo fosse un periodico raffreddore, dovuto alla sudorazione e le temperature anomale, curabile con la tachipirina e gli antibiotici.

Il 15 novembre 2020 chiamo il medico curante chiedendogli un antibiotico più potente, con l’ausilio della penicillina, il cortisone e la protezione. Mi prescrive tutto, meno la tachipirina che è a pagamento. Antibiotico Azitromicina da 500, cortisone Deltacortene da 25, Penicillina, protezione, Eparina e sciroppo per la tosse. Per il proseguo della malattia ha voluto essere informata ed ella stessa si informava. Ha prontamente contattato l’ASL.

Il 20 novembre 2020 il tampone effettuato risulta positivo.

Il 22 novembre 2020 alle 10.30 per il persistere della febbre e per i sintomi di asfissia chiamo il 118. Con l’ossigenazione del sangue a 82, si decide il ricovero immediato».

Parli del suo ricovero e dell’impatto con il sistema sanitario.

«Per questa malattia la tempestività è essenziale. Prima si interviene, prima si impedisce l’aggravamento, prima si guarisce e nessuno muore. Prima si interviene e meno giorni sono di degenza e più posti letto sono a disposizione. Così come più posti letto si ottengono con una degenza limitata sostenuta da assistenza domiciliare Usca. Invece il sistema sanitario, per non ingolfare gli ospedali impedisce il ricovero ai pazienti sintomatici fino a farli diventare critici ed a lunga degenza, o con conseguenze mortali.

Ergo: il protocollo sbagliato porta la morte dei pazienti e la paralisi delle strutture sanitarie.

La saturazione ottimale del sangue deve essere pari a 100 o quasi. Ogni alterazione comporta un intervento immediato. A mio fratello è stato impedito un primo ricovero, dal medico del 118, con la saturazione a 92, chiaro sintomo di sofferenza. Tanto che c’è stato l’inevitabile peggioramento ed il ricovero, con degenza di settimane.

Alle 12 del 22 novembre 2020 inizia la mia odissea.

Dante Inferno, Canto III

"...Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterno duro.

Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate"...

Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo,

gridando: "Guai a voi, anime prave! ..."

Così sen vanno su per l'onda bruna,

e avanti che sien di là discese,

anche di qua nuova schiera s'auna..."

11 ore in attesa di ricovero Covid: la precisazione del Marianna Giannuzzi. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. Francesca Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 27 novembre 2020. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. A narrare l’esperienza, era stato il figlio del paziente, l’avvocato Mirko Giangrande in un’intervista rilasciata al Nuovo Quotidiano di Taranto, in cui lamentava, appunto, la lunga attesa a cui erano stati sottoposti a causa di un affollamento di ambulanze nel piazzale dell’ospedale. La direzione medica, in base alle notizie pervenute dal responsabile del Pronto Soccorso, racconta che all’arrivo del signor Giangrande in ospedale, l’assistito era stato visitato, eseguito il tampone naso-faringeo per verificare l’eventuale positività al Covid-19 e somministrata la terapia adeguata. In seguito, all’esito della positività del tampone, veniva fatto accomodare nell’area attrezzata all’osservazione breve fino a 48/72 ore e alle ore14:00 del giorno successivo, ricoverato nel reparto Medicina Covid, occupando il primo posto letto disponibile. «Al signor Giangrande non sono mai mancate le cure di cui ha avuto necessità in una giornata tuttavia congestionata per l’arrivo contestuale di numerose ambulanze del 118.», chiarisce la responsabile, riconoscendo l’imprevisto. Della stessa opinione anche la direzione Asl di Taranto che rivolge le proprie scuse al signor Giangrande ed al figlio, ribadendo che al paziente era sempre stata assicurata la massima sicurezza grazie all’esemplare competenza di tutti gli operatori sanitari presenti. Francesca Dinoi

Parla il figlio dell'uomo rimasto 11 ore in ambulanza prima del ricovero al Giannuzzi. L’avvocato Mirko Giangrande racconta in un’intervista al Nuovo Quotidiano di Taranto il calvario del padre ricoverato al Giannuzzi dopo un’attesa di 11 ore in ambulanza. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 24 novembre 2020. Un calvario di 11 ore. Tanto è durata l’attesa in ambulanza di un uomo di Avetrana domenica scorsa. A raccontare l’incredibile vicenda al Nuovo Quotidiano di Taranto è il figlio del povero malcapitato, Mirko Giangrande. I particolari che l’avvocato riferisce hanno dell’incredibile. Il paziente, positivo già da diversi giorni, è stato prelevato dalla sua abitazione dopo aver effettuato una cura anti-Covid domiciliare. Giunto nel piazzale dell’ospedale Giannuzzi, dopo le prime ore, l’uomo - provato dall’attesa ed in evidente stato di agitazione - ha allertato il 112 ed il 113 addirittura dall’interno dell’ambulanza. Le comunicazioni con la famiglia avvenivano tramite whatsapp, visto l’affaticamento respiratorio e la difficoltà nell’effettuare chiamate vocali. Intorno alle 16.30, gli è stato effettuato un prelievo di sangue, ma il povero malcapitato – già da più di 4 ore all’interno dell’ambulanza – non dava segni di miglioramento e la febbre continuava ad aumentare. Il racconto del figlio del pover’uomo si fa sempre più inquietante: «Io vivo fuori, mi sono sentito impotente oltre che angosciato. In più – aggiunge l’avvocato – la cura intrapresa a casa si era interrotta durante le ore in ambulanza. Aveva solo l’ossigeno a sua disposizione e la febbre continuava a salire. Non sapevo cosa fare così, ormai stravolto, ho contattato il consigliere regionale Renato Perrini che si è adoperato a denunciare all’Asl di Taranto quanto stava accadendo» riferisce Giangrande. Stando a ciò che ha raccontato lo stesso avvocato durante l’intervista, sarebbero state ben cinque le ambulanze in coda per ore, così come riferitogli dal padre. L’avvocato non ci sta e promette di andare a fondo sulla vicenda: «Mi preme evidenziare che questo è accaduto ad un uomo di 57 anni in grado di comunicare con l’esterno e di mantenere lucidità. Ma se fosse capitato ad un uomo anziano? Non si può correre il rischio di morire in attesa di essere ricoverati. Questi inconvenienti potevano essere comprensibili a marzo, ma non a novembre perché, come cittadini, ci saremmo aspettati una maggiore organizzazione» aggiunge Giangrande, che poi conclude: «Tenere bloccate le ambulanze per così tante ore è inconcepibile. E se dovessero servire per un’emergenza? Non ho parole».

Verso mezzanotte, dopo la previsione di spostarmi all’Ospedale di Castellaneta, a 100 km di distanza, e la mia forte opposizione (ho preso la valigetta e stavo per scendere dall’ambulanza per recarmi al pronto soccorso), mi introducono in Pronto Soccorso. Qui mi rifanno il tampone e la radiografia. Fino alle 4 nel corridoio, poi in una stanzetta. Il ricovero effettivo in reparto avviene il giorno, 23 novembre 2020, dopo alle 14.00».

Parli della sua degenza in ospedale.

«Traumatica e psicologicamente devastante. Dante Inferno, Canto III

"...Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterno duro.

Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate"...

Ed ecco verso noi venir per nave

un vecchio, bianco per antico pelo,

gridando: "Guai a voi, anime prave! ..."

Così sen vanno su per l'onda bruna,

e avanti che sien di là discese,

anche di qua nuova schiera s'auna..."

Il Reparto. I Reparti Covid si suddividono in: reparto ordinario Covid; reparto Medicina Covid (reparto semi intensivo con gestione diversa del paziente); reparto di terapia intensiva (Rianimazione con assistenza più pregnante per i casi più gravi), reparti post Covid per la rieducazione polmonare. Sono stato ricoverato al Reparto Ortopedia Covid dell’ospedale Giannuzzi di Manduria. Quindi curato anche da ortopedici. Mi portano in una stanza a tre letti. C’è uno di Avetrana che non vuole esser nominato ed il mio amico Damiano Messina, noto per la sua ditta di trasporti, che mi ha autorizzato a citarlo. E’ critico e con criticità, cioè grave e con comorbidità o comorbilità, ossia patologie pregresse. In precedenza i suoi polmoni erano stati colpiti da una malattia simile al Covid 19 dovuta ad un virus trasmesso dai pipistrelli e debitamente curata. Era proveniente dal Moscati di Taranto, di cui racconta tutto il male possibile. E’ stato tra i primi degenti del reparto Ortopedia Covid di Manduria, con altri provenienti dal Moscati di Taranto. Arrivato sabato 14 novembre sera, ha trovato il solito balletto dell’inaugurazione. Però non c’era ancora acqua per lavarsi, né per bere. Così come mancava l’elemento essenziale: l’ossigeno. Elemento essenziale e continuativo. Poi sono sempre state insufficienti le bombolette dell’ossigeno per i degenti sufficienti che dovevano andare al bagno non accompagnati. Avevo il letto numero 2. In quella stanza c’era il letto n. 3. Postazione speciale con ossigenazione fino a 20 litri. Adeguata per necessità dopo un caso di emergenza proveniente dalle altre stanze. Alla dimissione dei miei amici mi hanno spostato nella stanza assieme a mio fratello, ricoverato al pronto soccorso il giorno prima di me, ma saliti simultaneamente in reparto. Poi sono stato spostato in un’altra stanza. Avevo il letto n. 7. Entrambe le stanze avevano un comune denominatore. Le emergenze delle seconda andavano a finire nella prima. E guarda caso solo la stanza numero 2 ha avuto emergenze, risultate, poi, mortali. La stanza è una prigione. Rispetto a noi i reclusi ostativi o del 41 bis del carcere sono in vacanza. Quando non sei costretto a letto, sei comunque costretto a letto. Non puoi aprire le finestre, né aprire la porta di entrata/uscita. Così per settimane. La stanza aveva due telecamere, affinchè i medici avessero la situazione sempre sotto controllo. In questo modo loro sanno tutto quanto succede nelle camere, anche delle emergenze. Non puoi ricevere i parenti, ne la biancheria di ricambio, quindi stesse mutande, stessa maglietta, stesso pigiama per settimane. Se non hai rasoi o strumenti della manicure diventi un licantropo.

La pulizia delle stanze. La pulizia era buona e per due volte al dì.

Il Vitto. Il vitto era decente, ma spesso freddo. Le buste ermeticamente chiuse con l’elenco del contenuto, come previsto dal capitolato d’appalto, erano sempre aperte a rischio di contaminazione e con l’acqua mancante. L’acqua era riservata al buon cuore dei sanitari, su richiesta. La distribuzione del vitto avviene:

Ore 8.00 colazione. Latte macchiato o te, quasi sempre freddo. Biscotti o fette biscottate con marmellata.

Ore 12. Pranzo. Primo, secondo, pane e frutta. Posate. Acqua mancante.

Ore 15.30. Cena. Idem come pranzo.

I pazienti. Paziente inteso come sostantivo si intende una persona affetta da malattia affidata ad un medico. Paziente inteso come aggettivo si intende una persona disposta alla moderazione, alla tolleranza ed alla rassegnata sopportazione. In questo caso verso il Covid e nei confronti dei sanitari.

Per i sanitari la morte di un paziente è sempre certificata come conseguenza di patologie pregresse: falso!

Nel reparto normale ortopedia Covid di Manduria venivano ricoverati pazienti critici, ma anche critici e con criticità, cioè gravi e con comorbidità o comorbilità, ossia patologie pregresse, che sicuramente avevano bisogno di altro reparto:

con assistenza specialistica semi intensiva ed intensiva, con interventi invasivi e non invasivi, che un normale reparto non garantisce;

strumenti specifici come per esempio il casco respiratorio per ventilazione polmonare o l’intubazione e non la semplice mascherina polmonare, o l’occhialino polmonare di un normale reparto.

La ossigenoterapia può essere sostenuta da 0 a oltre venti litri di ossigeno. Dipende dagli strumenti di erogazione. E in quel reparto non c’erano. Come non c’erano medici specialistici per ogni patologia riscontrata. Differenze di interventi che possono causare la morte.

Il mio amico Damiano Messina mi parla della sua esperienza traumatica. Ha assistito alla morte di P.tro D.ghia di Monteiasi, 64 anni. Damiano è stato ricoverato sabato 14 novembre, P.tro è portato nella sua stanza 2-3 giorni dopo. Il degente critico e con criticità non è stato ricoverato in un reparto adeguato alle sue patologie: ne prima né dopo l’emergenza. Il pomeriggio del 16 o 17 novembre è stato spostato di urgenza dal posto n. 9 della stanza di ricovero e posto al n. 3 della stanza di Damiano. Il posto è stato adeguato successivamente come postazione speciale. Tutto il pomeriggio P.tro ha sofferto agonizzante con sintomi di asfissia. Sostenuto con il solo ausilio del casco respiratorio con ossigenazione a 20. Spesso i compagni di stanza chiamavano con il pulsante di emergenza, perché il paziente lasciato solo per molto tempo si spostava e si toglieva il casco, perchè non dava il ristoro richiesto. L’intervento dei sanitari non era immediato. L’agonia si è protratta, senza soluzione di continuità, senza che vi sia stato alcun cambio di intervento terapeutico, fino al primo mattino del giorno dopo. La morte è intervenuta per inerzia. Spesso la presenza fisica dell'assistenza dei sanitari non era garantita. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Morte di un essere umano senza il sostegno dei familiari. E’ seguita pulizia della salma e composizione della stessa in un sacco di plastica. Un uomo diventato una cosa trasferita in obitorio.

La mia seconda stanza era la camera della morte. Durante la mia decenza, tutti i morti erano ivi ricoverati. C.mo C.lò, infettato alla RSA Villa Argento di Manduria, del letto n.9 ha preso il posto di P.tro D.ghia di Monteiasi. Il degente critico e con criticità non è stato ricoverato in un reparto adeguato alle sue patologie: ne prima né dopo l’emergenza. Ho convissuto con lui per due giorni dal 3 al 4 dicembre 2020. Era un continuo chiamare seguito da non immediata risposta. Per due giorni i parametri erano intorno agli 85-90 per l’ossigenazione e un ritmo cardiaco intorno ai 135 battiti, mai al di sotto dei 125, senza soluzione di continuità. La mascherina con il sacchetto gliela hanno messa quando la saturazione era ad 88, in sostituzione di quella con la proboscide. L’ultima chiamata di allarme da parte nostra (mia e di mio fratello riuniti nella stanza) per l’evidente sofferenza del paziente è avvenuta il 4 dicembre 2020. L’intervento non è stato pronto ed immediato. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Saturazione a 85 e 135 battiti e strumentazione impazzita. Il ritardo degli interventi mi ha costretto a filmare gli eventi a fini di giustizia ed informazione. Quando con le telecamere hanno visto che filmavo con il telefonino la situazione, con i parametri anomali e gli allarmi sonori della strumentazione, sono intervenuti a spostare il paziente nella postazione speciale. Subito dopo è intervenuto un energumeno di infermiere, che con fare minaccioso mi ha intimato, su ordine del medico, di cancellare il video dal cellulare. C.mo C.lò successivamente è morto, a 56 anni, ma tutti (dagli Oss, fino agli infermieri ed i medici) omertosamente hanno tenuto nascosto la notizia. Nella postazione n. 8 della mia seconda stanza un degente non autosufficiente è andato al bagno senza bomboletta di ossigeno, mancante, così come senza accompagnamento dei preposti a farlo. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Il paziente uscendo dal bagno ha avuto una mancanza d'aria ed è caduto. Si è schiantato al suolo ed è morto.

Omertà o meno, peccato per loro che mi sono trovato sempre nel posto giusto al momento giusto. O sbagliato secondo i punti di vista.

L’assistenza sanitaria. E’ previsto il Bonus Covid per medici e operatori sanitari. Va da 600 euro a oltre mille euro. L’1 dicembre 2020 c’è stata un’infornata di nuove assunzioni e trasferimenti al reparto Ortopedia Covid di Manduria.

Seconda ondata Covid in Puglia, indagine della Procura sulla gestione da parte della Regione. Fascicolo senza indagati né reati: tra gli accertamenti quello sulle assunzioni del personale sanitario. La Repubblica di Bari il 28 novembre 2020. La Procura di Bari ha aperto un fascicolo conoscitivo, cioè un modello 45, senza indagati né ipotesi di reato, sulla gestione della seconda ondata di contagi Covid in Puglia da parte della Regione. Sugli accertamenti in corso gli inquirenti mantengono il massimo riserbo. Il fascicolo è coordinato dal procuratore facente funzione Roberto Rossi. A quanto si apprende, tra gli aspetti su cui si sta concentrando l'attività investigativa ci sono verifiche sull'assunzione del personale sanitario.

Gli operatori sanitari, spesso, denunciano che a loro non viene fatto il tampone di controllo.

Gli operatori della sanità sono considerati degli eroi a torto dall’opinione pubblica, sotto influenza dei media, così come le forze dell’ordine ed i magistrati. I medici, gli infermieri e gli Oss, alcuni sono gentili, altri meno. Alcuni sono capaci, altri meno. Gli infermieri, spesso, passano da un paziente ad un altro per le operazioni di routine (prelievi del sangue, inserimento flebo, ecc.) senza disinfettarsi le mani. Tutti sono corporativi ed omertosi. Ai richiami di allarme non c’è pronto intervento, salvo eccezioni dovuti al buon cuore dell’operatore. Ma quello che turba ed inquieta è il loro distacco ed indifferenza di fronte alla sofferenza ed alla morte. Un giudice che manda in cella un innocente, spesso dovuto ad un suo errore, è indifferente e distaccato. Ma un operatore sanitario, se ha una coscienza, non può avere lo stesso distacco di fronte alla morte, specie se è stata causata per sua colpa o per colpa di un protocollo criminale.

Comunque delle mie affermazioni sugli operatori sanitari vi è ampia cronaca di stampa di conforto.

"Tra dieci minuti muori": così il medico al paziente Covid in fin di vita. Maltrattamenti e furti ai defunti nell'inferno dell'ospedale di Taranto. Gino Martina il 4 dicembre 2020 su La Repubblica-Bari. Sono almeno sette gli episodi che riguardano pazienti ricoverati al Moscati morti dopo giorni. Sarebbero venute a mancare assistenza e condizioni di ricovero umanamente adeguate: indaga la procura e anche l'Asl con un'inchiesta interna. Il sindaco convoca i vertici dell'azienda per un chiarimento. Uno dei racconti più scioccanti è quello di Angela Cortese. Il padre, Francesco, positivo al Covid, la notte tra l'1 e il 2 novembre aveva fatto il suo ingresso all'ospedale Moscati di Taranto. Dal suo ricovero al giorno seguente, l'uomo, 78enne, è rimasto in contatto con la famiglia attraverso il telefonino. Ma ciò che ha comunicato in quelle ore ha allarmato tutti: "Venitemi a prendere, qui muoio". Il 3 mattina, la donna, avvocato, parla con un medico che si trova nell'Auditorium dove il padre era stato sistemato. "Suo padre non collabora, non vuole mettersi la maschera Cpap, fra dieci minuti morirà, preparatevi!". La donna racconta di urla, di una sorta d'aggressione al telefono. "Ci sentiamo piombare addosso d'improvviso queste parole terribili - spiega -, quel medico sembrava una bestia inferocita, contro di noi e mio padre. Ho avuto solo la forza di chiedere della saturazione e per tutta risposta ho ricevuto altre urla: non c'è saturazione, vedrete che fra poco muore!". Cortese domanda se il padre fosse lucido, se stesse lì vicino. "Sì è qui, è qui, mi sta ascoltando, fra poco morirà!". La donna assiste in questo modo alla sua fine. "Neanche i veterinari con i cani si comportano in questa maniera", aggiunge, sottolineando come "Non gli è stata somministrata nessuna terapia, solo ossigeno, solo la Cpap". Affermazioni, quelle di Cortese, che dovranno trovare riscontro nella cartella clinica richiesta all'ospedale e nelle indagini che la procura ha avviato per diversi altri casi di morti nel presidio sanitario a Nord del rione Paolo VI.

Le inchieste. I procedimenti sono più d'uno, fanno seguito alle denunce dei parenti, ma sono volti anche a verificare la corretta osservanza delle misure precauzionali sanitarie da parte della dirigenza ospedaliera. Il sospetto è che l'organizzazione, le attrezzature e il numero del personale tra ottobre e novembre non fossero adeguati ad affrontare la seconda ondata della pandemia, lasciando spazio all'improvvisazione, a Operatori socio sanitari utilizzati come infermieri e personale sotto stress, portando a gravi mancanze. Al di là del lavoro della magistratura, sono almeno sette gli episodi che riguardano degenti del Moscati morti dopo giorni nei quali sarebbero venute a mancare assistenza e condizioni di ricovero adeguati, oltre che telefoni e oggetti di valore, come fedi e collane, non restituiti ai parenti. Su questi ultimi episodi l'Asl ha diffuso una nota nella quale smentisce che ci possano essere stai dei furti, ma fa emergere anche una scarsa comunicazione tra l'organizzazione del presidio e gli stessi operatori. "Nelle singole unità operative coinvolte nei percorsi assistenziali di presa in carico - scrive l'Asl - sono custoditi e repertoriati numerosi piccoli oggetti di valore ed altri effetti personali. Intanto il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha deciso di convocare i vertici Asl: "Se confermati, i fatti sono di una gravità inaudita".

Maltrattamenti e furti in ospedale a Taranto, il sindaco convoca i vertici Asl: "Fatti di una gravità inaudita". La Repubblica-Bari il 04 Dicembre 2020.

Gli oggetti smarriti. Si segnala, ad esempio, che nella cassaforte allocata nel punto di Primo intervento del 118 del presidio ospedaliero San Giuseppe Moscati, sono custoditi oggetti preziosi, mentre altri effetti personali quali valigie, telefoni e relativi carica batteria, sono conservati in aree dedicate del reparto". Nella stessa nota sono stati pubblicati i contatti e il link dell'ufficio di Medicina legale dell'azienda sanitaria attraverso il quale poter cercare le cose appartenenti ai propri cari. Ma alcuni parenti vanno avanti con la denuncia ai carabinieri, come il caso della famiglia Rotelli, sicura che il telefono del padre sia stato rubato e manomesso. Come affermano anche altri parenti di altri degenti, che parlano di video girati all'interno cancellati dai telefoni dei propri cari. "Mia madre - spiega Tina Abanese, di Massafra - è stata ricoverata in quei giorni per una crisi respiratoria. È stata maltrattata da alcuni addetti che le rispondevano in malo modo. Non è stata cambiata per ore. È rimasta anche senza cibo e dopo due giorni dalla sua morte ci siamo accorti che nella borsa mancavano la fede e un altro anello, che indossava al momento dell'ingresso in ospedale".

Il ricovero nel container. Donato Ricci, imprenditore di Martina Franca, ha perso invece il padre, ex ispettore di polizia. Ha raccolto i primi di novembre il suo grido d'aiuto. "Chiamate la polizia, portatemi via da qui", diceva. L'uomo, in salute prima di aver contratto il Covid, ha anche girato dei video nel container dov'era ricoverato con la biancheria abbandonata per terra in un angolo. Ricci ha raccolto in un gruppo Whats'app i contatti di altri parenti di chi non c'è più dopo esser passato in quei giorni nell'ospedale, durante i quali era anche difficile poter contattare i propri cari o avere notizie dal personale, per mancanza di un numero telefonico apposito (è stato attivato nelle ultime settimane). C'è chi racconta di bagni sporchi, inaccessibili, camere mortuarie con cadaveri sistemati alla peggio, addetti delle onoranze funebri che li prelevano senza alcuna protezione. "Abbiamo denunciato la sparizione di anelli, della fede nuziale e d alcune collane di mio padre - raccontano Mariangela e Pierangela Giaquinto, figlie di Leonardo, paziente Covid ricoverato il 30 ottobre e scomparso il 21 novembre - ci hanno detto che avrebbero richiamato se e nel caso avessero ritrovato qualcosa ma non abbiamo avuto alcune segnalazione. Mio padre è stato intubato e indotto due volte al coma farmacologico. La seconda, però, non ce l'ha fatta". A muoversi ora è anche il Tribunale del malato, che chiede formalmente un intervento della Regione: dall'assessore alla Sanità Pierluigi Lopalco al governatore Michele Emiliano. "La situazione è allarmante - spiega la coordinatrice Adalgisa Stanzione - non solo perché ci sono casi di morti, ma perché c'è stata una sottovalutazione delle autorità competenti. Se non si aveva personale sufficiente per assistere i pazienti bisognava agire prima, non arrivare fino ai primi di novembre, quando c'erano al Moscati 95 persone ricoverate per Covid. Gli Oss hanno dovuto sopperire al lavoro degli infermieri. Ci stiamo muovendo con le nostre strutture legali per fare chiarezza. La situazione è migliorata con l'attivazione dei posti alla clinica Santa Rita e all'ospedale Militare, ma senza personale i posti letto servono a poco. Il diritto alla salute - prosegue Stanzione - va rispettato a partire dalla qualità della prestazione che non può essere soffocata dalla pseudo carenza di infermieri e medici. E poi la gente va trattata con umanità, va ascoltata, e non attaccata come incompetente e sprovveduta, da personale sotto stress. La pandemia - conclude - non può essere affrontata senza mezzi, è come combattere una guerra senza fucili".

In ospedale la morte sospetta di un 68enne. I familiari: «Abbandonato su una sedia». C'è l'inchiesta. Francesco Casula su il Quotidiano di Puglia-Taranto Martedì 8 Dicembre 2020. La procura della Repubblica di Taranto ha disposto l'autopsia sul corpo di un uomo deceduto all'ospedale Moscati per Covid19, ma per cause ancora ignote alla famiglia dell'uomo. È stato il sostituto procuratore Remo Epifani ad aprire un fascicolo contro ignoti e a disporre l'esame autoptico: l'incarico al medico legale sarà affidato domani mattina nel Palazzo di giustizia e subito dopo il consulente eseguire gli accertamenti richiesti dal magistrati per stabilire la reale causa del decesso. Non ci sono, al momento, nomi iscritti nel registro degli indagati, ma il pubblico ministero Epifani ha ipotizzato il reato di «responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario». È stata la denuncia depositata dai familiari, alcuni dei quali si sono rivolti all'avvocato Gaetano Vitale, a spingere la procura a effettuare una serie di approfondimenti. Nella denuncia, infatti, i parenti della vittima hanno raccontato che l'uomo, dopo aver trascorso una degenza burrascosa dovuta al peggioramento delle sue condizioni, sembrava aver ormai superato la fase critica e secondo gli aggiornamenti che il medico di famiglia forniva ai congiunti, sembravano prossime le dimissioni dall'ospedale. Una mattina, però, quelle speranze insieme al resto del mondo sono crollate. I familiari hanno infatti ricevuto la telefonata da un medico del nosocomio tarantino che annunciava la morte dell'uomo. Nessuna spiegazione sulle cause, nessuna comunicazione ufficiale che informasse la famiglia di cambiamenti improvvisi del quadro clinico. Non solo. Secondo le informazioni raccolte da alcuni parenti, l'uomo di 68 anni con problemi di diabete, sarebbe stato ritrovato già cadavere nelle prime ore del 18 novembre, non nel suo letto, ma addirittura seduto su una sedia accanto al suo letto. Un dettaglio che secondo i denuncianti è la dimostrazione dello stato di abbandono al quale sarebbero stati costretti i pazienti nei reparti dell'ospedale ionico. E oltre all'elevato numero di pazienti rispetto a quello del personale sanitario, denunciato anche dai sindacati nelle scorse settimane, i familiari avrebbero anche fatto notare come in quella stessa notte in cui sarebbe avvenuta la morte del 68enne, sarebbero stati registrati anche altri 13 decessi. Per i familiari, quindi, la causa della morte potrebbe non essere stato il virus contratto dall'uomo una decina di giorni prima, ma lo stato di abbandono oppure le negligenze di chi avrebbe dovuto garantire assistenza. E dalle parole dei familiari, inoltre, sarebbero emerse anche accuse circostanziate rispetto alle modalità di sistemazione dei pazienti a cui il personale medico e paramedico è costretto a fare ricorso per affrontare l'emergenza in corso. Sulla vicenda il pm Epifani ha affidato anche una delega di indagini agli investigatori della Squadra mobile di Taranto che hanno acquisito la cartella clinica della vittima. La salma, in attesa dell'autopsia è stata trasferita nelle celle frigorifere di Bari. Gli elementi raccolti dai poliziotti e dal medico legale che sarà nominato come consulente della procura per effettuare l'autopsia, serviranno per ricostruire l'intero quadro della vicenda e poter valutare in modo chiaro e approfondito le eventuali responsabilità del personale che aveva in cura il 68enne.

Covid, preziosi scomparsi e disumanità, inchiesta sull'ospedale: «Vogliamo la verità». Le testimonianze dei familiari delle vittime: «Quando ci dissero, “faccia poche tragedie”». u il Quotidiano di Puglia-Taranto Sabato 5 Dicembre 2020. «Amore, mi stanno portando in rianimazione, forse m'intubano». È l'ultimo messaggio che Ubaldo, 62 anni, è riuscito a mandare alla moglie prima di morire. Un tenero cuoricino rosso per chiudere la frase. Questo, assieme a tanti altri strazianti messaggi audio e video, farà parte delle denunce, undici sinora quelle previste, che presenteranno i componenti del gruppo «Per i nostri parenti», mogli, figlie e figli di altrettanti pazienti deceduti per Covid nei reparti soppressi dell'ospedale San Giuseppe Moscati di Taranto. Parenti che chiedono giustizia, spinti da cause diverse: la scomparsa di oggetti di valore indossati dai propri cari, ma anche presunti comportamenti dei sanitari al limite del disumano come anche dubbi sul trattamento e sulle terapie praticate sui pazienti. Anelli, fedi nuziali, orologi e telefoni cellulari che appartenevano a pazienti morti per Covid, nell'ospedale Moscati di Taranto, non sono mai più stati consegnati ai parenti che sospettano possano essere stati rubati. La magistratura ha aperto una inchiesta, mentre l'Asl di Taranto ha avviato una indagine interna. Ad alcuni cellulari restituiti - secondo la denuncia dei parenti - sarebbe stata cancellata la memoria che conteneva importanti ricordi. E forse anche qualcosa di strano che accadeva nell'ospedale e che era stata filmata e quindi - secondo i familiari delle vittime - doveva essere cancellata. Tra gli episodi riferiti, quello di un paziente 78enne la cui figlia ha ricevuto la telefonata di una dottoressa che, urlando, si lamentava perché l'anziano non sopportava la maschera per l'ossigeno. Davanti al paziente, che era vigile, la dottoressa avrebbe detto «se non la tiene muore, fra dieci minuti muore». Pochi minuti dopo la stessa dottoressa avrebbe chiamato la figlia del paziente dicendo «gliel'avevo detto che moriva, ed è morto». Nel suo racconto, la figlia di Ubaldo, quello del tenero e drammatico ultimo messaggio con il cuoricino rosso alla moglie, parla di «sgarbatezza e disumanità» nel descrivere le comunicazioni tra la famiglia e il personale dove è stato ricoverato suo padre. La sua storia è simile alle altre del gruppo. «Nostro padre aveva 62 anni, era pensionato Ilva e soffriva solo di pressione che controllava bene con una compressa al giorno». Poi l'incontro con il coronavirus. Otto giorni di cura a casa, il peggioramento dei sintomi e il ricovero al Moscati. «Gli hanno fatto il tampone risultato poi positivo e nell'attesa del referto è stato messo in un ufficio adibito a stanza di degenza dove è rimasto due giorni su una brandina con la borsa degli indumenti sulle gambe». Finalmente viene sottoposto ad esame Tac che rivela una grave polmonite da Covid. Viene così spostato nel prefabbricato della rianimazione modulare e da allora inizia l'odissea della famiglia che non avrebbe avuto notizie per mancanza di interlocutori. Nel bunker schermato il telefonino non sempre aveva la linea. Il seguito del racconto è ricco di telefonate senza risposta o di mezze risposte o di risposte cariche d'astio di chi dall'altra parte del telefono avrebbe dovuto tranquillizzare e informare sulle condizioni di salute del malato. E' ancora a figlia a parlare. «Infine il messaggio di papà alla mamma e poco dopo la telefonata di una dottoressa che c'informa che dovevano intubarlo. La nostra reazione si può immaginare racconta la figlia - io stessa ho richiamato subito dopo per avere più informazioni e la risposta che mi hanno dato non la scorderò mai: "Signora, poche tragedie per favore perché non posso perdere tempo con lei"». Ubaldo non ce l'ha fatta, è morto il 7 novembre scorso nella rianimazione del Moscati. Le cause del decesso, oltre ai comportamenti dei sanitari, saranno i quesiti che i familiari metteranno nella denuncia che presenteranno appena entreranno in possesso della cartella cinica. Intanto su questo e sui presunti casi di furto di oggetti di valore dai cadaveri Covid, il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha convocato il direttore generale Asl, Stefano Rossi. «Si tratta di vicende - commenta il primo cittadino - se confermate, che oltre ad essere di una gravità inaudita, vanificherebbero gli sforzi che l'intera comunità sta compiendo e che, in particolare, stanno compiendo le istituzioni di ogni genere per garantire i diritti fondamentali dei cittadini in questo particolare periodo. Nessuna emergenza, infatti conclude il sindaco - può giustificare abusi, superficialità o deroghe al corretto esercizio di qualsiasi genere di servizio essenziale, a maggior ragione dei servizi di natura sanitaria».

Gli strumenti della cura. Il saturimetro è uno strumento per la misurazione dell’ossigeno del sangue e del battito cardiaco. In ospedale, questo strumento non è ad acchiappapanni, ma è adesivo al dito. Le unghie, il sudore, l'acqua ne minano l'affidabilità, ma sui parametri falsati, spesso si poggiano le terapie.

La Cura. Per i sanitari la morte di un paziente è sempre certificata come conseguenza di patologie pregresse: falso!

L’iter giornaliero è questo:

5.30 prelievi di sangue, a volte l’Emogas arterioso. Per sottoporsi a emogasanalisi arteriosa non è richiesto il digiuno, né la sospensione di eventuali terapie in corso. L'esame può essere moderatamente doloroso. E’ estremamente doloroso se fatto da mani incapaci. Spesso analisi dell’urine. Tre volte al giorno misurazione della febbre e misurazione della pressione.

8.30 distribuzione della protezione e del cortisone ed eventuale flebo.

16.30 somministrazione tramite flebo di antibiotici, farmaci sperimentali, liquido di lavaggio.

Si crede che rivolgendosi alle strutture sanitarie ci si possa curare dal covid. Non è così. Spesso si muore. Io posso raccontare la mia esperienza in virtù del fatto di essere Antonio Giangrande. Esperto del Virus, fortemente caparbio ed estremamente rompiballe. Io sono a detta di tutti un miracolato. Ma il miracolo l’ho anche voluto io. Dal primo momento, la degenza in ospedale è stata caratterizzata dall’essere positivo sia dal Covid, sia nello spirito. Il mio principio, data la mia esperienza, le mie traversie e le mie sofferenze, è: me ne fotto della morte. Ed è stato lo spirito giusto. Ho mantenuto il morale alto ai miei compagni ed intrattenuto ottimi rapporti con gli operatori sanitari (meglio tenerseli buoi a scanso di ritorsioni).

La mia cura prima del ricovero era: protezione, antibiotico, cortisone, eparina.

La mia cura in degenza era: protezione, antibiotico, cortisone, eparina. Uguale!

In aggiunta c’era solo l’ossigenoterapia.

Loro curano la polmonite bilaterale interstiziale. La polmonite da Covid-19 è altra cosa. Perché è diversa la causa. Se non combatti la causa, l’infiammazione si aggrava, porta al collasso dei polmoni, in particolare uno, e mina la funzionalità degli altri organi: da ciò consegue la morte.

Negli ospedali si attende. Si aspetta l’evoluzione della malattia. Si aspetta il miracolo. Non c'è evoluzione positiva della malattia se non si effettua la cura adeguata. Le cure ci sono ma non le applicano per protocollo.

L’ossigenoterapia a me applicata era pari a 10 litri, con inalazione tramite mascherina con la bustina.

Tra i medicinali e l’ossigeno, la terapia nel complesso si è dimostrata inadeguata, tanto da causare l’aggravarsi della mia situazione. Hanno portato il livello della mia ossigenazione a 15, il massimo per quel reparto di ortopedia con inalazione tramite mascherina con busta. Sempre lucido e con il morale alto ho imposto la mia volontà e la mia competenza. Farmi somministrare, tramite flebo, il “remdesivir”, adottato contro l’Ebola. Farmaco osteggiato dall’elite sanitaria mondiale e nazionale. Molti medici hanno fatto la raccolta di firme per l’adozione di questo farmaco farmaco.

La battaglia sul Remdesivir, il farmaco anti Covid che divide i due lati dell'Oceano. Elena Dusi su La Repubblica il 5 dicembre 2020. Per l'Oms non va usato: benefici inferiori ai rischi. Ma per il prestigioso New England Journal of Medicine a sbagliare è stata l'organizzazione mondiale per la sanità con sperimentazione su dati disomogenei. In ballo, oltre alla salute, c'è una fortuna: ogni ciclo di cura costa 2.400 dollari. C’è un farmaco che funziona in America ma non nel resto del mondo. E’ il controverso remdesivir, antivirale messo a punto per Ebola ma “riposizionato” in regime d’emergenza contro il coronavirus, usato anche per trattare il presidente americano Donald Trump. L’Organizzazione mondiale della sanità a fine novembre ha pubblicato i risultati di uno studio da lei coordinato: i benefici del farmaco non superano i rischi. «L’antivirale remdesivir non è consigliato per pazienti ospedalizzati per Covid-19, a prescindere dalla gravità della malattia, perché al momento non ci sono prove che migliori la sopravvivenza o la necessità di supporto di ossigeno». Anche i risultati dei trial precedenti non erano stati brillanti, ma lasciavano intravedere un qualche beneficio, come la riduzione dei giorni passati in ospedale (cinque in meno, in media, rispetto al placebo, secondo uno studio americano). La pubblicazione targata Oms, avvenuta sul British Medical Journal, ha spinto anche la nostra Aifa (Agenzia italiana per il farmaco) a riunire un tavolo per riscrivere le indicazioni di questo antivirale, che frutta alla casa produttrice americana Gilead 2.400 dollari per ogni ciclo (5 giorni di trattamento), somministrato via flebo esclusivamente in ospedale. L’articolo del British (che mette insieme i risultati di quattro studi diversi per un totale di 7mila pazienti) ha fatto cadere le azioni dell’azienda farmaceutica, nel giorno della pubblicazione, dell’8%. Da Boston, sede del prestigioso New England Journal of Medicine, è subito arrivata la replica: a sbagliare è l’Oms, scrive la rivista in un editoriale. La sperimentazione dell’Organizzazione di Ginevra, battezzata Solidarity, è stata condotta in 30 paesi, dalla Svizzera alla Germania, dall’Iran al Kenya. Secondo il New England non avrebbe raccolto dati omogenei. “Gli standard di cura in queste nazioni sono variabili, così come la condizione dei pazienti che vengono ricoverati in ospedale”. Il remdesivir – ribadisce l’altra sponda dell’Atlantico – deve continuare a essere somministrato. Di questa opinione era, fino alla scorsa estate, anche l’Europa. Trovatasi a corto di scorte (a luglio la Casa Bianca si è accaparrata tutte le dosi prodotte da lì a settembre), la Commissione ha intavolato in tutta fretta una trattativa con Gilead per una fornitura di 500mila dosi al prezzo di 1,2 miliardi di euro. La casa farmaceutica, secondo un’indiscrezione del Financial Times, conosceva già i risultati scettici dello studio Oms, ma non li avrebbe comunicati agli europei. “L’Italia – prosegue il quotidiano inglese – ha pagato 51 milioni per un ordine di remdesivir quando i casi stavano salendo e le scorte si stavano assottigliando”. Mi hanno fatto firmare la liberatoria con assunzione di responsabilità, previa nota informativa, per l’assunzione di un farmaco, non adottato a Manduria e nella maggior parte degli ospedali italiani. E poi, in previsione di morte certa, perché non tentare con cure che possono essere anche dannose o inefficaci?

Sull’efficacia del farmaco io sono un testimone, vivente, ospedalizzato ed attendibile. Dopo due giorni di cure, sì inefficaci, che mi hanno fatto rasentare la morte con il quadro clinico compromesso ed aggravante, con 15 litri di ossigeno e saturazione insufficiente, dopo tre giorni di infusioni con una dose al dì del farmaco, la mia situazione clinica è immediatamente migliorata. Da 15 litri di ossigeno sono passato a 4, con ossigenazione a 92, e tutti gli altri valori sono immediatamente migliorati.

Tanto da che il tampone effettuato il giorno 3 dicembre 2020 è risultato negativo.

Sul costo del farmaco io sono dubbioso. Se si è curata l’Africa infetta da Ebola, non penso non si possa salvare la popolazione dei paesi più ricchi. E poi con tanti soldi buttati al vento tra sprechi, regalie e sostegni economici a pioggia, non penso che si possa far morire la gente per spilorceria».

Tra il ricovero e la dimissione son passati solo 16 giorni, dal 22 novembre dell'attesa del ricovero, avvenuto il 23, fino al 7 dicembre 2020, data delle dimissioni.

«La mia dimissione. Purtroppo la mia dimissione come il mio ricovero è stato traumatico. Dal 3 dicembre 2020 al 7 dicembre 2020 sono stato costretto a stare da negativo in un reparto Covid. Le linee guida raccomandano il distanziamento tra coniugi, positivi e negativi, e poi le autorità permettono la promisquità negli ospedali Covid. Non è provato scientificamente il periodo di immunità, specie in presenza di carica virale forte, però in reparto per ben due volte hanno introdotto nella mia stanza pazienti di prima positività. La seconda volta, il 5 dicembre 2020 notte, addirittura, V.to T.liente di Martina Franca, poverino, egli stesso infettato in ospedale. Ho consigliato, per impedire la promisquità, l’appaiamento in stanze separate: vecchi degenti, con vecchi degenti, a minima trasmissione del virus; nuovi ricoverati con nuovi ricoverati ad alta carica virale. Risposta: problemi organizzativi. Ergo: troppo lavoro per gli addetti. Ho detto che la mia degenza non era necessaria perché potevo essere curato a casa o tramite Usca. Giusto per liberare il letto per nuove emergenze. Insomma sono stato costretto alla dimissione volontaria, da me imposta ed anticipata da giorni. L’uscita è stata procrastinata fino alle 19.30 della sera del 7 dicembre. E non voglio pensare che sia stata una sorta di ritorsione.

Positivi e negativi insieme al Giannuzzi, è normale? Lavoceassociazioneculturaleasud.it l'8 Dicembre 2020. Finalmente negativo. Antonio Giangrande, il “famoso” paziente dell’attesa di undici ore in ambulanza prima di essere ricoverato all’ospedale Giannuzzi di Manduria , è finalmente negativo. Tutto bene quel che finisce bene, direte voi. Invece no. Dopo 15 giorni di ricovero , la degenza procedeva secondo quanto auspicato, fino all’esito negativo del tampone. A questo punto ci si sarebbe aspettato uno spostamento di reparto per evitare che un negativo restasse in stanza con positivi. Ma niente. E risposta negativa è arrivata neanche alla richiesta del Giangrande di essere spostato almeno in un reparto dove i negativi non fossero “recenti ” e con altissima carica virale. Come noto, anche i negativizzati, specie chi ha avuto insufficienze respiratorie, devono rispettare le solite prescrizioni. La presenza di anticorpi neutralizzanti non d à certezza scientifica di “immunità” e, come già successo, i guariti possono essere reinfettati. Da non dimenticare la possibilità di imbattersi in un tipo di virus mutato contro cui gli anticorpi acquisiti nulla possono fare. A questo punto, data la possibilità di curare i postumi della malattia con cure ordinarie e con assistenza domiciliare, il Giangrande è stato costretto alla dimissione volontaria, per evitare di passare altri giorni da negativo in un reparto di positivi , anche nuovi, con i relativi rischi per la propria salute . Con l’assurdo che, in fase di dimissione, è stato raccomandato di non tornare a casa da coniugi o parenti positivi».

Come conclude questa intervista.

«I positivi conclamati posti alla pubblica gogna, non sono untori. Essi divenuti negativi, quindi immuni ed in un certo senso vaccinati, proprio loro devono stare attenti agli altri, che possono reinfettarli. E poi di questi tempi un contagio da Covid non si nega a nessuno, specie alla cattiva gente».

Antonio Giangrande: Non voglio sembrare un complottista, ma ho notato che l’apparizione della Xylella e della sua prolificazione è avvenuta in concomitanza di questi elementi in un dato periodo storico:

Si minava il sostegno europeo di integrazione alle imprese olivicole meridionali;

Si promuoveva da parte dell’Europa l’importazione di olive ed olio nordafricano;

Si alimentava la piantagione nelle campagne di impianti fotovoltaici, finanziata con prelievi sulla bolletta Enel di tutti gli utenti italiani. Sistemi fotovoltaici importati da terre lontane. Pannelli divenuti probabilmente vettori dell’insetto batterio killer, “Cicalina Sputacchina – Philaenus spumarius”.

Si agevolava l’invasione del vettore in zone non attinti dalla malattia attraverso il trasporto in altri luoghi degli scarti di potatura, vietato bruciarli in loco da una legge infame, così come tradizione millenaria.

Non si estirpa il problema, nonostante si trovi sempre una profilassi ad ogni malattia, anche umana. Ci si limita, solo, alle semplici buone pratiche, già adottate anzitempo dal buon contadino.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, giudicato ed informato, educato ed istruito da coglioni.

Il moralismo fasciocomunistoide ipocrita e giustizialista tende a stratificare di norme l’ordinamento giuridico dello Stato senza soluzione di continuità, nonostante cambino i Governi. L’eccesso di norme liberticide mi porta a pensare al colesterolo. Tanto più si accumula sulle pareti delle arterie, tanto aumenta il rischio di coronaropatie.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini e donne senza vergogna.

Antonio Giangrande 

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

E’ di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea.

25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985.

Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità.

Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza.

Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati.

Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia, stante la formalità del giuramento.

Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, noto antagonista del sistema giudiziario e forense del Foro di Taranto, che gli costa per 17 anni l’impedimento all’abilitazione forense. Dalle denunce penali e i ricorsi ministeriali da questo presentati, rimasti lettera morta, risulta che tutti i suoi temi all’esame di avvocato di Lecce non sono stati mai corretti dalle Commissioni presso le Corti d’Appello sorteggiate, ma dichiarati non idonei e sempre con voti e/o giudizi fotocopia. Nonostante ciò nessuno muove un dito. Inoltre il ricorso al Tar è inibito per l’indigenza procuratagli ed impedito dalla Commissione per l’accesso al gratuito patrocinio.

Tutte le sue denunce penali sono insabbiate senza conseguire accuse di calunnia.

E dire che Antonio Giangrande ha affrontato la maturità statale portando 5 anni in uno e si è laureato a Milano superando le 26 annualità in soli due anni. Buon sangue non mente.

Avv. Mirko Giangrande:

Avvocato - Mediatore Civile & Commerciale - Docente - Scrittore - Gestore Crisi da Sovraindebitamento - Funzionario Addetto all’Ufficio per il Processo

- 2002: diploma di Ragioniere, Perito commerciale e Programmatore presso l’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri "L. Einaudi" di Manduria (TA) a soli 17 anni;

- 2005: laurea in Scienze Giuridiche a soli 20 anni presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bari;

- 2007: laurea Magistrale in Giurisprudenza presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bari a soli 22 anni;

- 2010: abilitazione forense, diventato l’avvocato più giovane d’Italia a soli 25 anni. Titolare dello Studio Legale Giangrande;

- 2018: Autore della collana di libri “Corso di preparazione agli esami universitari, concorsi e per scuole superiori”;

- 2020: Master in "L'insegnamento delle materie giuridico - economiche negli istituti secondari di II grado: metodologie didattiche", presso l'Università E-Campus;

- 2021: Corso di alta formazione abilitante di Mediatore civile e commerciale;

- 2021: Corso di alta formazione abilitante di Gestore della crisi da sovraindebitamento.

VENI, VIDI, VICI. Parabiago 20/9/2022

Prova orale concorso cattedra A046

Finalmente Professore abilitato di Diritto ed Economia politica

Sono stravolto dalla stanchezza ma felicissimo.

Dedico questa soddisfazione alla mia famiglia (Antonio Giangrande Cosima Petarra, Tamara Giangrande), all’amore della mia vita Francesca Di Viggiano che mi ha sopportato in questi mesi di “agonia”, ma soprattutto lo dedico all’uomo che più mi è stato accanto, che mi ha sempre spronato, che ha creduto in me, che ogni mattina mi dava la forza di alzarmi per affrontare ore di studio post-lavoro, che mi ha fatto tirare dritto verso quest’alto obiettivo, che mi ha dato la pazienza di perdere l’intera estate dietro i libri: quell’uomo sono io...

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

Il cafone è chiassoso, esibizionista, ignorante e prepotente. I suoi sinonimi: Se vuoi chiamali terroni o polentoni, bauscia o burini, ecc..

Antonio Giangrande: Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

Antonio Giangrande:

Intervista di Antonio Giangrande alla radio tedesca ARD.

Salerno Reggio Calabria: Eterna Incompiuta.

«Attenzione, spesso si cade nei luoghi comuni. La Mafia e la Corruzione sono icone che dove non ci sono si inventano per propaganda politica o per coprire i propri fallimenti. Spesso dietro quel fenomeno si nasconde l’inefficienza tutta italiana. Il problema è che ci sono persone sbagliate (incapaci più che disoneste) a ricoprire ruoli di responsabilità. Si pensi che addirittura Antonio Di Pietro (il PM di Mani Pulite) ha avuto responsabilità nel dicastero di competenza. I politici dicono cosa fare, ma sono i burocrati che decidono come fare (in virtù delle leggi, come la Bassanini, che hanno dato potere ai dirigenti pubblici). Le leggi artificiose create dagli incapaci politici, perché non hanno fiducia dei loro cittadini, crea caos e nel caos tutto succede. Basterebbe rendere tutto più semplice e quel semplice controllarlo.

Un procedimento pur se corrotto dovrebbe comunque avere una soluzione. La Salerno-Reggio Calabria, a prescindere da mafia o corruzione in itinere, comunque non ha soluzione di continuità: ergo, vi è incapacità, più che disonestà.

E’ come quel luogo comune sugli italiani: si dà l’appuntamento per le otto circa e, se va bene, ci si incontra a mezzogiorno.

Se i politici sono nominati con elezioni truccate, questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. Se i politici nominati raccomandano i funzionari pubblici con concorsi truccati (compreso i magistrati), questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. I dirigenti nominati con concorsi truccati non hanno remore a truccare gli appalti. Alla fine, però, i lavori dovrebbero concludersi. Invece tutti se ne fottono del risultato finale, avendo per sé soddisfatto i propri bisogni. A questo punto sono tutti responsabili del fallimento: i politici, i funzionari pubblici (compreso i magistrati per omissione di controllo) e gli imprenditori che delinquono; i giornalisti che tacciono ed i cittadini che emulano.

La mia proposta come presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” attraverso il suo braccio politico “Azione Liberale” è che ogni procedimento amministrativo pubblico ha un suo responsabile che ne risponde direttamente, attraverso la perdita del posto, della buona riuscita per sé e per i suoi sottoposti da lui nominati.

Però, purtroppo, un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”».

Antonio Giangrande: Un mondo dove ci sono solo obblighi e doveri. Un mondo dove ci sono solo divieti, impedimenti e, al massimo, ci sono concessioni. Un mondo dove non ci sono diritti, ma solo privilegi per i più furbi, magari organizzati in caste e lobbies. In un mondo come questo, dove tutti ti dicono cosa puoi o devi fare; cosa puoi o devi dire; dove l’uno non conta niente, se non essere solo un mattone. In un mondo come questo che mai cambia, che cazzo di vita è.

Pink Floyd – Another Brick In The Wall. 1979

Part 1 (“Reminiscing”) ("Ricordando")

Daddy’s flown across the ocean – Papà è volato attraverso l’oceano.

Leaving just a memory – Lasciando solo un ricordo.

Snapshot in the family album – Un’istantanea nell’album di famiglia.

Daddy what else did you leave for me? – Papà cos’altro hai lasciato per me?

Daddy, what’d’ja leave behind for me?!? – Papà, cos’hai lasciato per me dietro di te?!?

All in all it was just a brick in the wall. – Tutto sommato era solo un altro mattone nel muro.

All in all it was all just bricks in the wall. – Tutto sommato erano solo mattoni nel muro.

“You! Yes, you! Stop steal money!” – “Tu! Si, Tu! Smettila di rubare i soldi!”

Part 2 (“Education”) ("Educazione")

We don’t need no education – Non abbiamo bisogno di alcuna istruzione.

We dont need no thought control – Non abbiamo bisogno di alcun controllo mentale.

No dark sarcasm in the classroom – Nessun cupo sarcasmo in aula.

Teachers, leave them kids alone – Insegnanti, lasciate in pace i bambini.

Hey! Teachers! Leave them kids alone! – Hey! Insegnanti! Lasciate in pace i bambini!

All in all it’s just another brick in the wall. – Tutto sommato è solo un altro mattone nel muro.

All in all you’re just another brick in the wall. – Tutto sommato sei soltanto un altro mattone nel muro.

We don’t need no education – Non abbiamo bisogno di alcuna istruzione.

We don’t need no thought control – Non abbiamo bisogno di alcun controllo mentale.

No dark sarcasm in the classroom – Nessun cupo sarcasmo in aula.

Teachers leave them kids alone – Insegnanti, lasciate in pace i bambini.

Hey! Teachers! Leave them kids alone! – Hey! Insegnanti! Lasciate in pace i bambini!

All in all it’s just another brick in the wall. – Tutto sommato è solo un altro mattone nel muro.

All in all you’re just another brick in the wall. – Tutto sommato sei solo un altro mattone nel muro.

“Wrong, Do it again!” – “Sbagliato, rifallo daccapo!”

“If you don’t eat yer meat, you can’t have any pudding. – “Se non mangi la tua carne, non potrai avere nessun dolce.

How can you have any pudding if you don’t eat yer meat?” – Come pensi di avere il dolce se non mangi la tua carne?

“You! Yes, you behind the bikesheds, stand still laddy!” – “Tu! Sì, tu dietro la rastrelliera delle biciclette, fermo là, ragazzo!”

Part 3 (“Drugs”) ("Droghe-Farmaci")

“The Bulls are already out there” – “I Tori sono ancora là fuori”.

“Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaarrrrrgh!” – “Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaarrrrrgh!”

“This Roman Meal bakery thought you’d like to know.” – “Questo è un piatto Romano al forno, pensavo che lo volessi sapere.”

I don’t need no arms around me – Non ho bisogno di braccia attorno a me.

And I dont need no drugs to calm me. – E non ho bisogno di droghe per calmarmi.

I have seen the writing on the wall. – Ho visto la scritta sul muro.

Don’t think I need anything at all. – Non pensare che io abbia bisogno di qualcosa.

No! Don’t think I’ll need anything at all. – No! Non pensare che io abbia bisogno di qualcosa.

All in all it was all just bricks in the wall. – Tutto sommato erano solo mattoni nel muro.

All in all you were all just bricks in the wall. – Tutto sommato eravate tutti solo mattoni nel muro.

Antonio Giangrande: Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 40 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

Antonio Giangrande: Affidati alla sinistra.

Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.

La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.

I mafiosi si inventano, non si combattono.

L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.

Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.

L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.

Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.

L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.

Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.

Antonio Giangrande: Il reddito si crea. Il reddito non si sostenta dallo Stato. Perché se nessuno produce e nessuno commercia, da chi si prendono i soldi per i consumi o mantenere una società?

Ed una società funziona se sono i capaci e competenti a farla funzionare, altrimenti si blocca.

In questa Italia cattocomunista non puoi fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato con tasse, tributi e contributi, per mantenere i parassiti nazionali ed europei.

In questa Italia cattocomunista non puoi avere nulla, perché si fotte tutto lo Stato con accuse strumentali di mafiosità e con i fallimenti truccati, per mantenere i profittatori.

In questa Italia parlano di sostegno al lavoro, ma nulla fanno per incentivarlo a crearlo, come agevolare il credito, o come detassare, o come sburocratizzare, con eliminazione di vincoli e fardelli.

I giovani in questo modo possono inventare e creare il proprio lavoro, senza essere condannati alla dipendenza di stampo socialista.

I giovani hanno bisogno di libertà d’impresa non di elemosine.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di avanspettacolo, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Sociatria: Giangrande commenta “Lo Squalo della Finanza” di Belansky. Antonio Rossello su Il Corriere Nazionale il 2 Novembre

Già intervistato dal Corriere Nazionale lo scorso 17 agosto (v. link), sempre in prima linea contro le ingiustizie sociali, questa volta il dr. Antonio Giangrande (*) commenta due tavole realizzate dall’illustratore genovese Igor Belansky, intitolate entrambe: “Lo Squalo della Finanza”. In esse, Lo Squalo della Finanza sovrasta la scena e vengono evocate immagini di poveri disgraziati, comuni cittadini dapprima vessati e, quindi, spolpati all’estremo dalle diffuse forme di speculazione messe in atto da lobbies e apparati finanziari privi di scrupoli, che oggi possono agire più che mai indisturbati. Giangrande coglie e stigmatizza questi aspetti drammatici della fase geopolitica che stiamo attraversando. Amara è la constatazione di vedere come siano attualmente spuntate le armi della vera sociatria, di come la stessa non riesca purtroppo ad andare oltre la comprensione e la denuncia civile dei mali contemporanei della società. Da qui, emerge l’accusa verso la scarsa onestà intellettuale e l’opportunismo di “professoroni”, talora sedicenti o forti di saperi infondati, i quali amano soltanto mettersi in mostra per vanagloria o tornaconto, dispensando false promesse e soluzioni insostenibili.

Le tavole di Igor Belansky 

Igor Belansky – Lo Squalo della Finanza – 1. I vessati 

Igor Belansky – Lo Squalo della Finanza – 2. Gli spolpati

La recensione del dr. Antonio Giangrande: “Le tavole del maestro Igor Belansky intitolate: lo squalo della finanza, che evocano poveri cittadini vessati e spolpati, mi ricordano i poveri cristi che incontri al supermercato a snocciolare i prezzi. Sono quei disgraziati che vivono di pensione sociale al di sotto di 500 euro o anche i pensionati minimi, se non addirittura i percettori di reddito di cittadinanza, o quelli senza alcun reddito, esclusi da cervellotiche leggi di sostegno alla povertà. Certo non quei professoroni che vanno per la maggiore sui media, che cercano di scegliersi il miglior reddito presente, per la miglior pensione futura.

Appunto, quei disgraziati che comparano il costo delle vivande necessarie prima e dopo gli aumenti di prezzo ingiustificati. Scegliendo di privarsene in tutto o in parte, per poter centellinare le spese e sopperire all’aggravio del bilancio familiare. Sapendo bene che se tutto tornasse come prima, difficilmente i prezzi di quei prodotti tornerebbero come prima.

Certo i poveri, ma non certo ignoranti, i conti li sanno fare.

Si chiedono: come mai se fluttua il prezzo del gas, aumenta tutto, anche quello che nulla ha a che fare con esso?

Si chiedono ancora: se il prezzo di acquisto di una materia prima aumenta in un tot percentuale rispetto al prezzo finale del prodotto, perché da parte delle aziende energivore si calcola l’aggravio percentuale su tutte le spese fisse e variabili che nulla hanno a che fare con la materia prima interessata?

Il commento finale è che per questo tipo di speculazione con prezzi irreversibili, sarà solo la povera gente a pagare, non avendo redditi progressibili.

Dr Antonio Giangrande ”

(*)  Antonio Giangrande, figura poliedrica, scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’”Associazione contro tutte le mafie” e di “Tele Web Italia”, è autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Igor Belansky e la Sociatria: illustrazione e mondi individuali e sociali. ANTONIO ROSSELLO su Il Corriere Nazionale il 20 agosto 2022.

La particolare prospettiva in cui muove la ricerca espressiva del noto illustratore genovese.

Igor Belansky ha letto con estremo interesse la mia recente intervista, su il Corriere Nazionale, al dr. Antonio Giangrande, figura poliedrica, scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’”Associazione contro tutte le mafie” e di “Tele Web Italia”, il quale è autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

E proprio le complesse e sofferte battaglie civili condotte da Giangrande sono state motivo di forte coinvolgimento per il noto illustratore, che ispirandosi ad esse ha realizzato la rappresentazione in anteprima. In essa emergono a tutta forza quel suo tipico tratto poco incline ai virtuosismi, lo stile crepuscolare o grottesco che trasmette dissonanze, senza incorrere nella banalità della provocazione. Vi è dunque, piuttosto, il thauma, l’angosciante stupore, la tensione dialettica tra fascino e turbamento nella destabilizzante indeterminatezza delle cose, che spiana la strada alla domanda più che alle risposte, come quando si sprofonda negli oscuri meandri che conducono fino alle più ignote regioni dell’inconscio. Da qui, la voglia di scuotere l’indifferenza, che rappresenta sempre più il male della società moderna.

Evocativo il titolo: “Potere e moltitudine“. Vi si coglie la contrapposizione tra le figure più grandi dei potenti che, con sicurezza ostentata, sovrastano una folla magmatica, disperata, in cui si scorge l’accenno alla morte. Pare la plastica raffigurazione dell’inconscio collettivo, visto come quell’invenzione di Carl Gustav Jung, prestata poi alla teoria politica e delle scienze sociali italiane tra Otto e Novecento, che è più che mai inibita, gettata nell’inazione, eterodiretta in questo tempo postmoderno. Drammatico l’interrogativo: cosa muove l’imprevedibile azione delle «masse» e quali sono le motivazioni profonde che in alcune, eccezionali stagioni spingono gli individui a compiere atti eroici completamente disinteressati o crimini efferati, all’apparenza del tutto irrazionali?

Igor Belansky – Potere e moltitudine

A parte certi, sempre più pochi ed isolati, impavidi paladini della resistenza sociale, ai nostri giorni per la stragrande maggioranza delle persone diventa sempre più difficile prendere posizione o schierarsi. Oggi si è portati ad indignarsi. A sconcertarsi. Ad esprimere giudizi sommari. Ma subito dopo si è capaci di farsi prendere dall’indifferenza. Subentra a quel punto una voluta ignoranza sui fenomeni che ci circondano. Li minimizziamo. Questo non vuole Belansky.

Non a caso, come ho già avuto modo di affermare in un articolo sul settimanale online WeeklyMagazine, nella particolare prospettiva in cui orienta la sua ricerca espressiva, in condivisione con altri esponenti emergenti delle Arti Visive, l’illustratore genovese punta infatti all’affermazione di un concetto, la «Sociatria» (ossia «la cura della società»), attraverso il quale l’Arte può generare una via di verità, alimentando la mente, rieducare o, quantomeno, scongiurare la crescente e pericolosa carenza di pensiero, oltre che tendere ad avvicinare la persona alla virtù, sino a ritrovare in senso un più ampio un rispetto dell’umanità.

Sulla stessa lunghezza d’onda, pare anche essere il sociatra americano John Fordham, che, dal suo gruppo Facebook Sociatry – for societal health., così commenta la summenzionata intervista a Giangrande:

I loved this. I gained the impression that he does what he does, because it’s his calling in life. It’s a “labor of love” which he’s driven to pursue & construct. (tr.: Mi è piaciuto molto. Ho avuto l’impressione che faccia quello che fa perché è la sua vocazione nella vita. È un “lavoro d’amore” che è spinto a perseguire e costruire).

La Sociologia Storica.

Intervista di Antonio Rossello ad Antonio Giangrande. 

1.       Dottor Giangrande, Lei nel suo recentissimo volume “ANNO 2022 LA CULTURA ED I MEDIA SECONDA PARTE” menziona l’illustratore, sempre più spesso prestato alla penna su questa ed altre testate online, Igor Belanky per via del suo articolo “Dittatura” pubblicato da Weeklymagazine il 24 Luglio 2022.  Da cosa è stato colpito? La sua comunicazione sintetica ed essenziale è più efficace delle più lunghe e forbite concioni di altri redattori?

R. In quelle frasi vi è il sunto del rapporto tra Potere e Povertà. I poveri hanno bisogno di speranza. Il Potere promette di realizzarla. Più i poveri sono ignoranti più è grande il laccio che li lega al Potere. Più i poveri rimangono tali e ignoranti più il Potere padroneggia. Per questo il Potere elemosina i poveri, non li evolve in benestanti. 

2.       Non trova che in Italia la gente non legga molto ma parli troppo, cosa poco utile quando bisogna scegliere, decide cosa fare e con chi? La colpa è della scuola, del mondo della cultura, della politica o dei media? O di una crescente indifferenza…? Questi mi pare siano gli aspetti che Lei tratta nel summenzionato volume…

R. Il principio del sostentamento dei poveri ha portato questi a pretendere diritti, non a chiedere, ed allo stesso tempo a non sottostare ai doveri. L’ignoranza porta a parlare, ad ostentare ed imporre, non a leggere ed imparare. Si studia per poter migliorare e per poter dire a chi parla: cosa dici?!?

Purtroppo, poi, se qualcuno cerca di leggere, non trova fonti per poterlo soddisfare. La Cultura ed i Media sono in mano al Potere: economico e politico. Si scrive quello che è permesso: dall’editore; dai partiti di potere composte dalle eminenze grigie di mafie, massonerie e caste e lobby. 

3.       In generale, di cosa si occupa con i suoi saggi?

R. Se Giorgio dell’Arti, con i suoi “Cinquantamila” parla dei protagonisti,

Se Wikipedia riporta la contemporaneità e la storia per argomento o protagonisti.

Se Dagospia, twnews o Msn notizie riportano la contemporaneità per cronologia.

Io con le mie ricerche giornaliere vado oltre ognuno di loro.

Parlo di storia e contemporaneità cronologica, per Tema suddiviso per Argomenti, di fatti e protagonisti.

Mi occupo di tutti gli aspetti del nostro mondo contemporaneo. Racconto il presente ed il passato per poter migliorare il futuro a colui che legge: che sa e parla. Faccio parlare i protagonisti di oggi. Uso fonti credibili ed incontestabili, rapportandoli tra loro in contraddittorio. Uso l’opera di terzi per l’imparzialità. Questo anche per aggirare la censura e le querele.   

4.       E con la Sua web tv? E’ il tentativo di offrire informazione alternativa rispetto al cosiddetto mainstream?

R.  Nei miei saggi parlo degli italiani. La mia web tv è solo rappresentazione dell’Italia, come territorio. L’Italia è bella per quello che è, tramandato dai posteri, che va distinta da chi oggi vi abita.  

5.       Ci può raccontare come è nata quella che mi pare sia la Sua passione civile?

R. Sono figlio di poveri che ha voluto emanciparsi. Volevo elevarmi socialmente. Ciò nonostante: i poveri dal basso ed il Potere dall’alto mi tirano giù. Per i miei genitori, come per tutti i poveri, non vale essere, ma avere. Ed i figli sono braccia prestati allo sfruttamento. Non mi hanno fatto studiare. A 32 anni dopo l’ennesima bocciatura ad un concorso pubblico truccato, ho deciso di studiare per migliorare. Diploma di ragioniere, da privatista 5 anni in uno presso un istituto pubblico e non privato, laurea in giurisprudenza 4 anni in due, presso la Statale di Milano, lavorando di notte per poter frequentare e studiare di giorno. 6 anni di professione forense non abilitato. Abilitazione cercata per 17 anni e mai concessa in esami farsa. La mia ragione non è stata riconosciuta nella tutela giudiziaria, nonostante ad altri nelle stesse condizioni, sì. La mia colpa? Essermi reso conto che la Giustizia non è di questo Stato e in quei 6 anni volevo porre rimedio alle ingiustizie nelle aule del Tribunale. Mi son reso conto che la mafia era dentro quelle aule e non fuori. Oggi non posso rimediare alle ingiustizie, perché non ho potere. Mi rimane solo che raccontarle ai posteri ed agli stranieri. 

6.       Qual è il bilancio della Sua attività in tal senso, presente e passata, nei vari ruoli che riveste?

R. Se parlo al presente è fallimentare. Sono un disoccupato presidente di una associazione antimafia che scrive e viene letto tantissimo in tutto il mondo, anche con le anteprime dei miei libri, ma non vende, perché sono relegato in un angolo dalla P2 culturale: ossia da quella eminenza grigia che non vuole che si cambino le cose, informando correttamente la gente e fa parlare chi sa. In ogni caso ognuno pensa per sé, per questo la gente è interessata ai suoi interessi ed a risolvere i propri problemi, anziché cambiare le sorti dei loro figli. 

7.       Ci può accennare come, dal Suo punto di vista di attento osservatore, appaiono le attuali vicende sulla scena nazionale e internazionale?

R. Da sempre l’essere umano ha sentito l’esigenza di avere la cosa altrui. O compra o ruba. Da sempre vi sono state guerre di conquista. Atti di bullismo nei confronti dei più deboli. A volte si usa l’arma del nazionalismo, altre volte è la religione ad imporre la violenza. La reazione delle forze non schierate è stata quella del menefreghismo e quella dell’utilitarismo. In questo senso tutto il mondo è Italia. Riscontro a mio giudizio delle fazioni.

Quelle che dicono: che me ne fotte a me.

Quelli che dicono: qui ci guadagno.

Pochi sono quelli che per altruismo difendono le vittime dai bulli.  

8.       Una nota metodologica o, se vuole, concetto. Sui siti internet specializzati, i suoi saggi sono quasi sempre categorizzati nel genere “sociologia”. Mi pare che Lei conduce una ricerca sociologica, per denunciare i mali intrinseci, le dissonanze della nostra società contemporanea… nelle sua formazione e nelle Sue motivazioni, forse generazionali,  vi è qualche richiamo alla Scuola di Francoforte,  alla sua Dialettica negativa, Horkheimer,  Adorno, Marcuse…

R. Il socialismo, radice unica dei regimi comunisti, nazisti e fascisti ha usato le masse per poter egemonizzare il mondo. L’uso della religione per manipolare le masse povere per fini politici è anch’esso socialismo. Lo statalismo è il loro strumento, la povertà è l’arnese.

Io credo che, invece, l’individuo deve essere padrone del proprio destino e deve essere messo in grado di decidere per il suo meglio, senza danneggiare gli altri. Tanti individui ben informati, divenuti benestanti, avranno tutto l’interesse ad intraprendere azioni per tutelare lo status quo. I loro rapporti, tra loro e loro con il Potere, saranno regolati da poche leggi. Credo che i 10 comandamenti siano sufficienti a regolare il tutto. 

9.       Ed ancora quale ritiene sia oggi lo stato dell’arte della Sociologia? E’ al corrente dell’esistenza in Italia e all’estero di approcci emergenti alle Scienze sociali, quali la Sociatria, la Sociosofia, la Sociocrazia o la Sociurgia, di cui anch’io ho parlato in precedenti articoli? Che cosa ne pensa, sono destinati a superare, o quanto meno integrare, riformare la Sociologia? Se c’è una Sua via autonoma ed innovativa, come la definirebbe o battezzerebbe con termine sintetico?

R. Io mi definisco sociologo storico: Racconto il presente ed il passato, confrontandoli tra loro per evidenziare delle differenze, ove ci fossero, o per indicare la ciclica apparizione dei difetti, ossia i corsi ed i ricorsi storici. Il tutto affinchè si migliori il futuro. L’individuo colto e correttamente informato è il perno centrale, tanti fanno una massa e ne indirizzano le mosse. Il vero senso di “uno vale uno”. Diversa è la massa pecorile o topile che viene guidata da un pastore o da un pifferaio.   

10.   Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria. Abbiamo appreso di Sue molteplici prese di posizione, in differenti occasioni e sedi, sul tema della giustizia. Può parlarcene?

R. La verità storica è quella reale ed imparziale cercata e trovata attraverso tutte le fonti poste in contraddittorio senza influenze esterne.

La verità mediatica è quella verità propinata come tale ma che è influenzata da interessi economici, politici, o di caste, lobby, mafie e massonerie deviate.

La verità giudiziaria è quella che emerge dalle aule dei tribunali, in cui le prove sono tali se permesse e dove vi è piena disparità tra accusa e difesa. I giudizi sono fonti di interesse clientelare e parentale, di colleganza, di retroguardia culturale. 

11.   Concludendo? Ha dei rimpianti o è contento di ciò che fa?

R. Rimpianti No! Per niente. Contento sì. Da 20 anni scrivo e sono ad oggi circa 350 libri tra tematici ed aggiornamenti annuali.

Da Gesù Cristo in poi, i grandi uomini, che hanno lasciato traccia di loro, non erano riconosciuti tali nella loro epoca. Tantomeno erano profeti nella loro terra.

Io ringrazio la mia famiglia che mi sostiene, affinchè tanto ignorato e osteggiato in vita, tanto sarò ricordato per le mie opere da morto. E si sa, chi si ricorda non muore mai.

Nei Concorsi Pubblici ci sono due tipi di prove scritte:

Quella con risposte uniche e motivate, la cui correzione è, spesso, lunga, farraginosa e fatta da commissioni clientelari, familistici e incompetenti che non correggono o correggono male non avendo il tempo necessario o la preparazione specifica e che promuovono secondo fortuna o raccomandazione. 

Quella con domande multiple, spesso, incoerenti con la competenza richiesta, ma che garantiscono velocità di correzione e uniformità di giudizio.

Chi è abituato all’aiutino disdegna i quiz, in cui non si può intervenire, se non conoscendoli in anticipo.

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.

Un figlio al padre: papà, perché gli artisti sono spesso comunisti?

Il padre: perché a loro piace essere mantenuti e sono molto libertini e viziosi e con poca voglia di lavorare!

ODIO OSTENTAZIONE ED IMPOSIZIONE.

Tu esisti se la tv ti considera.

La Tv esiste se tu la guardi.

I Fatti son fatti oggettivi naturali e rimangono tali.

Le Opinioni sono atti soggettivi cangianti.

Le opinioni se sono oggetto di discussione ed approfondimento, diventano testimonianze. Ergo: Fatti.

Con me le Opinioni cangianti e contrapposte diventano fatti.

Con me la Cronaca diventa Storia.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

"Io so di non sapere". Il problema è che, questo modo di essere, adesso è diventato: "Io so di non sapere e me ne vanto". Oggi essere ignoranti è qualcosa di cui vantarsi. Prima c’erano i sapienti, da cui si pendeva dalle loro labbra. Poi sono arrivati gli uomini e le donne iperspecializzate, a cui si affidava la propria incondizionata fiducia. Alla fine è arrivata la cultura “fai da te”, tratta a secondo delle proprie fonti: social o web che sia. A leggere i saggi? Sia mai!

Il valore di una vita: «Importi come questo vengono calcolati valutando parametri specifici: l’aspettativa di vita di una persona, la sua potenzialità di guadagno, la quantità e la qualità dei suoi legami affettivi. I periti assicurativi lo chiamano il capitale umano.» Da Il Capitale Umano, film di Paolo Virzì

La frase latina veritas vos liberat significa "la verità vi rende liberi". La frase viene detta da Gesù nel Vangelo di Giovanni (8, 32): "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi".

Il mondo caposotto:

Tu hai tutto e non vali niente.

Io valgo tanto e non ho niente, se non la libertà.

Non si è colti, nè ignoranti: si è nozionisti, ossia: superficiali.

Nozionista è chi studia o si informa, o, più spesso, chi insegna o informa gli altri in modo nozionistico.

Nozionista è:

chi non approfondisce e rielabora criticamente la massa di informazioni e notizie cercate o ricevute;

chi si ferma alla semplice lettura di un tweet da 280 caratteri su twitter o da un post su Facebook condiviso da pseudoamici;

chi restringe la sua lettura alla sola copertina di un libro;

chi ascolta le opinioni degli invitati nei talk show radio-televisivi partigiani;

chi si limita a guardare il titolo di una notizia riportata su un sito di un organo di informazione.

Quel mondo dell'informazione che si arroga il diritto esclusivo ad informare in virtù di un'annotazione in un albo fascista. Informazione ufficiale che si basa su news partigiane in ossequio alla linea editoriale, screditando le altre fonti avverse accusandole di fake news.

Informazione o Cultura di Regime, foraggiata da Politica e Finanza.

Opinion leaders che divulgano fake news ed omettono le notizie. Ossia praticano: disinformazione, censura ed omertà.

Nozionista è chi si abbevera esclusivamente da mass media ed opinion leaders e da questi viene influenzato e plasmato.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Popolo di Avetrana, se avete un po’ di dignità ed orgoglio, indignatevi e condividete questo post su quanto ha scritto contro gli avetranesi Nazareno Dinoi, amico dei magistrati e direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi, e non me ne spiego l'astio, e gli amministratori locali e la loro opposizione non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.

“La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più. Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.”

Il giornalista, come lui si definisce, dovrebbe sapere che i conti si fanno alla fine. Per ora omette di contare i due imputati assolti dall'accusa di favoreggiamento...o questo per omertà o censura non si può dire?

La P2 culturale.

Media prostrati al potere: politica e finanza.

La denuncia del saggista d'inchiesta Antonio Giangrande.

Il titolato è chi è stato riconosciuto meritevole di considerazione per credibilità e competenza.

Il titolo si consegue per nobiltà, per abilitazione professionale, per investitura di una funzione pubblica, per mandato politico, per conclusione di un ciclo scolastico, per assegnazione di premio letterario.

In un paese dove per avere valore sociale devi essere titolato.

In un paese dove per Costituzione i titoli vengono elargiti dal potere, quindi per appartenenza, e, spesso, non sono meritati.

In un paese dove i titoli ti danno notorietà, fama e, quindi, benessere.

Come autore indipendente, aver scritto 350 saggi sociologici su ogni materia, su ogni tema e, di questi, anche su ogni territorio, essere seguitissimo sul web, diplomato in un anno e laureato in due, basta per aver diritto ad un titolo (conquistato sul campo) e, di conseguenza, all'attenzione mediatica dei grandi gruppi editoriali di comunicazione ed informazione?

Se non per avere il titolo, almeno basta per avere l’attenzione mediatica?

E, se non ora, quando?

Post mortem? Troppo tardi; troppo comodo!

I cinquestelle, nella loro totale inesperienza ed imperizia, non aiutano i poveri con il reddito di cittadinanza.

Il loro sistema di sostegno populista aiuta i nullatenenti onesti, non i poveri, non gli emarginati.

Se, per esempio, un disoccupato riceve dai genitori in eredità un vecchio rudere, che per il fisco valuta più dei limiti di valore dai pentastellati stabiliti, non ha diritto al reddito di cittadinanza, sempre che non rinuncia all’eredità.

Non può accettarlo e cederlo. Se lo vende supera il reddito previsto o la giacenza in banca.

Che razza di Stato è quello che permette di uccidere in grembo un bimbo sano che non vuol morire e poi nega una morte dignitosa ed assistita all’adulto che vuol morire per le atroci sofferenze?  

Aborto. Sempre dalla parte del più forte.

Nati senza volerlo e morti senza volerlo. Il proprio destino in mano altrui. Quei piccoli senza nome, condannati all'oblio dall'egoismo dei grandi. Lo scandalo dei figlicidi materni sepolti dall'anonimato, per nascondere la vergogna.

Tutti dalla parte della madre che non vuol essere nominata.

Non si conoscono forma e sostanza dell'aborto in cronaca. Ma è una vergogna parteggiare per l'oblio di un figlio innominato, a cui non è stato dato nemmeno un nome, oltre che la dignità, ma certamente non ignoto, trattato come un rifiuto organico.

Discarica o cimitero dei caduti ignoti? E' la brutta sorte dei bambini non voluti e quindi uccisi.

Una Vita è Vita e va rispettata, anche quella degli altri.

Antonio Giangrande: Non dovevo nascere.

A proposito di figlicidio. Alla morte di mio padre ogni tabù è caduto. Mia madre mi ha raccontato che sono un sopravvissuto. Uno che non doveva nascere.

Mia nonna paterna era la matrona della famiglia. Era lei a decidere le sorti dei suoi otto figli: quattro maschi e quattro femmine.

Era lei a decidere anche nelle loro famiglie.

Mio padre e mia madre erano appena sposati ed era mia nonna paterna a decidere il loro destino.

Li costrinse ad emigrare per lavorare.

Ma c’era un problema: mia madre era incinta. Ed era un intoppo.

La portò dalla “mammana”, una ostetrica casalinga.

La signora chiese a mia madre: perché vuoi abortire?

Essa, ignara, rispose: cosa è l’aborto?

Era stata portata in quel posto senza sapere cosa dovesse fare. Portata dalla madre di mio padre e, sicuramente, con l’assenso di lui, perché io non ho mai saputo di questo fatto, né che ci siano state ripercussioni nei rapporti tra mio padre e sua madre.

La “mammana” chiese a mia madre: tu lo vuoi questo bambino? Sì, rispose mia madre.

La “mammana” disse a mia nonna paterna: se anziché tua nuora, fosse tua figlia, faresti fare questa cosa? No, rispose mia nonna paterna.

La “mammana” intimò a mia nonna: porta a casa sta piccina e lasciala stare.

Oggi sono qui a raccontare quest’episodio. La mia vita è stata una sofferenza perenne di uno che non doveva nascere: un inaccettato per tutta la vita, avvinghiato da povertà ed ignoranza.

Oggi mio padre è morto per tumore alla prostata. Male che si lascia in eredità.

Mio padre era uno che nulla faceva per gli altri, ma lo pretendeva per sé.

Mio padre, però, sicuramente, era uno che dava. E a me, tra le altre cose, ha dato il suo male.

 Oggi, però, sono qui a raccontare che sono un sopravvissuto che non doveva nascere. E tutto quel che è successo è tutto di guadagnato. Sicuro di aver guadagnato 60 anni di vita, pur tribolata.

Aborto: i perché di un figlicidio.

Come si fa a votare un partito che del figlicidio ne fa una bandiera.

Di Antonio Giangrande domenica 26 giugno 2022.

La Corte suprema degli Stati Uniti ha ribaltato la storica sentenza Roe contro Wade del 1973, annullando così il diritto costituzionale Usa all'aborto. In questo modo ha sentenziato che ogni Stato ha la competenza di legiferare in riferimento all'interruzione della gravidanza.

In base al dibattito che ne è scaturito sorgono delle domande spontanee.

1 Perché i media politicizzati, fomentando dibattiti e polemiche, oltre che proteste, hanno fatto passare il messaggio che la sentenza riguardasse l’abolizione dell’aborto e non la libertà di scelta di ciascuno Stato?

2 Perché nei talk show il dibattito era palesemente schierato a favore dell’aborto ed al diritto costituzionale al figlicidio, considerando la sentenza un arretramento della civiltà? Perché tutelare la vita del figlio è incivile e retrogrado?

3 Perché nel paese più civile al mondo si considerano incivili da una parte la vendita delle armi libere che causano morti e dall’altra parte la libertà di scelta di ogni Stato a vietare la morte dei nascituri?

4 Perché la sinistra fa sua la battaglia sull’aborto, confermando quel detto sui comunisti che mangiano i bambini, non foss’altro che, intanto, ne agevolano la morte?

5 Perché è primario il diritto della donna all’aborto, violando l’istinto naturale materno alla difesa dei cuccioli, rispetto al diritto alla vita del nascituro?

6 Perchè il diritto all'aborto della donna va pari passo al diritto della donna alla libera sessualità, irresponsabile degli eventi?

7 Perché è diritto della sola donna decidere sulla vita del nascituro, tenuto conto che c’è sempre un uomo che ha avuto rilevanza fondamentale alla fecondazione? E perché, se il figlio non lo si vuole per problemi economici e/o sociali, non si fa un regalo a coppie sfortunate che la gioia di un figlio non la possono avere?

8 Perché una vita deve essere sindacata in base alla cronologia dello sviluppo e non in base all’esistenza?

9 Perché un delitto viene punito in base all'evolversi del diritto politico alla morte e non al diritto naturale alla vita?

Assumono denominazioni specifiche l’uccisione del padre (parricidio), della madre (matricidio), del coniuge (uxoricidio), di bambini (infanticidio), del fratello o sorella (fratricidio), del sovrano (regicidio), di una donna (femminicidio).

Si noti bene: il politicamente corretto elude il termine figlicidio, scaturente dal reato di aborto.

La scriminante è la carta del pepe.

Si dibatte quando, l'embrione, prima, ed il feto, poi, ha valore di nascituro.

Il diritto alla vita dell'embrione e del feto nascente: futuri nascituri di fatto.

10 Perché il dispositivo dell'art. 544 bis Codice Penale prevede: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni”; mentre per l’omicidio del nascituro la sinistra si batte per l’immunità dell'omicida?

(1) Tale articolo è stato inserito dalla l. 20 luglio 2004, n. 189.

(2) La l. 20 luglio 2004, n. 189 ha previsto una serie di ipotesi in cui sussiste per presunzione la necessità sociale. Si tratta della caccia, pesca, allevamento, trasporto, macellazione, sperimentazione scientifica, giardini zoologici, etc. (art. 19ter disp.att.).

(3) Il trattamento sanzionatorio prima previsto nei limiti di tre e diciotto mesi di reclusione è stato innalzato secondo quanto previsto dall'art. 3, comma 1, lett a), della l. 4 novembre 2012, n. 201.

Ratio Legis

La norma è stata introdotta al fine di apprestare una tutela più incisiva agli animali, i quali però non ricevono copertura legislativa diretta, rimanendo ferma la tradizionale impostazione che nega un certo grado di soggettività anche agli animali. Di conseguenza risulta qui garantito il rispetto del sentimento per gli animali, inteso come sentimento di pietà.

In conclusione: perchè per gli animali si ha sentimento di pietà e per i futuri nascituri viene negata l'umana misericordia?

L'invasione dell’Ucraina. Ci sono due tipi di pacifisti.

Quelli comunisti ed eternamente antiamericani, astiosi del fatto di essergli sempre riconoscenti per la libertà conquistata dal nazifascismo e perchè ha impedito la vittoria e l’egemonia del comunismo con l’espansione dell’Unione Sovietica ad Ovest.

Quelli che…”che me ne fotte a me!” Interessati esclusivamente al loro benessere e tornaconto personale. Fa niente se il loro stato è dovuto al martirio di tanti soldati stranieri che hanno combattuto in Italia. Quelli che quando vedono una vittima di violenza o sopraffazione, non degnano attenzione e proseguono oltre.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

Il mondo è diviso in due parti. I cattivi ed i buoni.

Dipende da quale parte lo si guardi. Ogni parte si arroga il diritto di stare dalla parte giusta.

Noi occidentali, sotto giogo culturale, politico ed economico statunitense, giudichiamo tutti gli altri come regimi religiosi fondamentalisti, ovvero regimi autoritari e dispotici.

Gli altri ci considerano pericolosi perché portatori di pseudo democrazie, governate dalla dittatura delle minoranze, e infette dalle tre C: Capitalismo; Caos, Criminalità.

A ciò si aggiunge l’ateismo dilagante e, cosa fondamentale, il culto del singolo individuo e della sua personalità, o della frammentazione dei singoli Stati servi della loro politica economica.

In mano a legioni di imbecilli, diceva Umberto Eco, guidate dal gradimento di un clik.

Noi vediamo la pagliuzza negli occhi altrui, ignorando la trave nei nostri occhi.

Da noi i casi di censura sono sempre più frequenti. A definirne la pericolosità è la natura ideologica, quasi religiosa, attraversata da una spinta revisionista della propria storia e delle proprie origini. Dunque è la censura a essere figlia del politicamente corretto e non l’inverso. La retorica del politicamente corretto divide la realtà, la storia, gli individui tra bene e male, tra luce e oscurità, e queste opposizioni pretendono adesioni unanimi, omologazione, conformismo. Queste radicalizzazioni non concepiscono alcun relativismo, anzi, presentano evidenze che non possono essere negate. Ideologizzazione e sessualizzazione dell’insegnamento ai minori, fin dalle elementari, sono due problemi enormi. Tendono ad ostentare ed imporre le posizioni di infime minoranze, fino a farle sembrare maggioritarie.

Agli occhi delle altre culture sembriamo essere governati dal femminismo e dagli LGBTI. 

 La “cancel culture”, la “woke revolution” e poi sempre il “politically correct” sono termini inglesi che stanno entrando prepotentemente nel lessico italiano.

Secondo la maggior parte degli opinionisti di sinistra non esiste nulla di tutto ciò: sono solo paranoie.

Sono invece tre aspetti di una rivoluzione culturale in corso.

La definizione la traiamo da un articolo di Stefano Magni su Inside Over.

La “woke revolution” prende il nome dallo slang afro-americano. Woke vuol dire letteralmente “in allerta”.

Nelle università più costose anglosassoni sono gli studenti (molto spesso bianchi) e gli intellettuali che sentono il dovere di restare “in allerta” per scovare ogni traccia di razzismo nel discorso pubblico. Un gesto, una parola, un tono di voce, possono sembrare innocui, ma, secondo gli woke, sono minacce velate o segni di un razzismo residuo.

Il politically correct è il codice che definisce ciò che per un woke è corretto o scorretto. E il razzismo contro cui lottano non è solo quello contro i neri, ma anche contro tutti coloro che sono visti come gli oppressi di ieri e di oggi: omosessuali, donne, difetto estetico (obesità, nanismo, handicap) immigrati, membri di minoranze etniche e religiose, transgender, animali (difesi da umani, in questo caso). Ma le categorie si estendono di continuo e in modi e tempi difficilmente prevedibili, secondo le mode del momento.

La cancel culture è il modo in cui gli woke esercitano la giustizia. Ed è un eufemismo per definire la nuova forma di linciaggio online: il colpevole viene bandito, dopo una campagna di odio in rete, nelle università e in pubblica piazza, dopo il boicottaggio, il ritiro di ogni invito e infine anche il licenziamento. Se l’ingiustizia è un simbolo, come una statua, si chiede la sua rimozione. Se è un film, si chiede la sua cancellazione. Se è un testo, non deve essere più venduto. E così di seguito, fino al reset del passato.

Secondo Bari Weiss, il mostro woke è cresciuto per mancanza di coraggio di chi avrebbe dovuto opporsi: è un atteggiamento infantile a cui gli adulti, i responsabili, gli insegnanti, non hanno mai risposto con un “no”. Ma nessuno, neppure Bari Weiss o Greg Lukianoff, riesce a individuare la radice di questa rivoluzione culturale.

Se tutto ciò vi ricorda il marxismo leninismo applicato in Urss e in Cina, ma anche nei movimenti più violenti del nostro Sessantotto, forse avete ragione. La nuova sinistra non è molto distante dalla vecchia logica della lotta di classe. E se il fenomeno è cresciuto è perché negli Usa, che non sono mai stati comunisti, il marxismo è sempre più di moda nelle università, spesso filtrato attraverso lo studio di Gramsci, il filosofo italiano più influente nella cultura americana da vent’anni a questa parte.

In conclusione bisogna dire che il mondo è contro di noi occidentali perché ai loro occhi ci siamo comunistizzati, ossia siamo molli, effeminati e depravati. E questo stile di vita non vogliono che infetti il loro modo d’essere.

Naturalmente, nessuno dei due mondi scende a compromessi.

Entrambi tendono all'ostentazione ed all'imposizione dei loro difetti.

L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.

Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.

“Tutto il sistema è fatto in modo che l’uomo, senza neppure accorgersene, comincia sin da bambino a entrare in una mentalità che gli impedisce di pensare qualsiasi altra cosa. Finisce che non c’è nemmeno più bisogno della dittatura ormai, perché la dittatura è quella della scuola, della televisione, di quello che ti insegnano. Spegni la televisione e guadagni la libertà.” Tiziano Terzani

«È importante sapersi ritirare in se stessi: un eccessivo contatto con gli altri, spesso così dissimili da noi, disturba il nostro ordine interiore, riaccende passioni assopite, inasprisce tutto ciò che nell’animo vi è di debole o di non ancora perfettamente guarito. Vanno opportunamente alternate le due dimensioni della solitudine e della socialità: la prima ci fa farà provare nostalgia dei nostri simili, l’altra di noi stessi; in questo modo, l’una sarà proficuo rimedio dell’altra. La solitudine guarirà l’avversione alla folla, la folla cancellerà il tedio della solitudine.» Lucio Anneo Seneca, “De tranquillitate animi”

Seneca filosofo. Nessuno dà valore al tempo; tutti se ne servono smodatamente, come se fosse gratuito. Se il numero di anni futuri di ciascuno potesse essere visibile come quello degli anni passati, come sbigottirebbe chi ne vedesse avanzare pochi, come ne sarebbe parco! Ma è facile risparmiare ciò che è certo, per quanto esiguo; si deve serbare con più attenzione ciò che non sai quando verrà a mancare. Nessuno ti darà indietro gli anni, nessuno ti restituirà a te stesso. Il tempo della vita proseguirà lungo la sua strada e non riavvolgerà né porrà fine al proprio corso; non farà alcun rumore, non darà segno della sua velocità. Non si allungherà per decreto di un re, né per decisione popolare: corre così come ha iniziato il primo giorno, non si fermerà e non si attarderà. Che accadrà? Tu sei occupato, la vita si affretta; infine arriverà la morte, per la quale, volente o nolente, dovrai avere tempo. Lucio Anneo Seneca

Antonio Giangrande. Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.

Antonio Giangrande: La sinistra ha il buonismo ed il Politicamente Corretto su immigrazione ed LGBTI, la destra il proibizionismo ed il punizionismo moralista sul sesso e la droga. Il Giustizialismo per entrambi è per gli altri, il garantismo per se stessi.

Antonio Giangrande: LA DITTATURA DELLA CENSURA.

Gli Stati Uniti impongono la loro economia, le loro regole e la loro cultura. Tenuto conto che negli Stati Uniti la fazione LGBTI detta i comportamenti a loro congeniali, il cui contrasto lede il politicamente corretto, i pappagalli europei emulano e scimmiottano tali scelte di vita, facendoli passare per normali.

Non fa più scandalo, anzi è politicamente corretto adottare ogni comportamento deviante, ma fatto passare per normale e progressista, adottato nelle trame dei film.

Coppie gay o multietniche o relazioni poliamorose non devono mancare nelle serie televisive americane, affinchè la cultura LGBTI statunitense prenda largo oltreoceano.

Ecco perché in Italia ci sono polemiche ideologiche sulla fiera dell’ovvietà.

Ci sono cose che tutti pensano, ma che sono vietate dire.

A Crotone i giovani della Lega pubblicano un manifesto per l’8 marzo in onore della donna.

Una manifestazione di stima per la donna ed una denuncia contro i comunisti ipocriti.

I sinistri, sentendosi toccati, hanno reagito, facendo una questione di Stato. Qualcuno, addirittura, facendone questione territoriale retrograda. Sì, ma le offese ai meridionali, per i sinistri non contano.

Anche il buon Salvini, da buon comunista, ha rinnegato l’ovvietà.

Tutti rinnegano le loro idee. I comunisti, invece, rimangono sempre fedeli alla loro ideologia di potere: usando ed abusando di tutte le minoranze, assoggettandole e strumentalizzandole ai loro fini.

Quasi la totalità dei media si è parata contro il manifesto, del quale ognuno ha dato una sua personalissima interpretazione femministica, senza, peraltro, quasi nessuno di loro, aver pubblicato pari pari il volantino stesso.

Antonio Giangrande: I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. Alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.

I sinistri educandi. Tutto: divieti, sanzioni e tasse.  

Come diceva De Crescenzo "se copi da uno è plagio, da molti è ricerca..." 

Presso la Sezione Penale del Tribunale di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, al ruolo A bis, si tiene il processo n. 238/19 R.G.N.R, n. 1399/19 R.G.T. tenuto dalla D,ssa Annalisa Palamara a carico di Latino Giandomenico difeso dall’Avv. Antonino Napoli.

L’Avv. Antonino Napoli ha pensato di citare come testimone al processo il dr. Antonio Giangrande, di Avetrana, del versante orientale della provincia di Taranto, ai confini con Lecce, noto saggista e presidente nazionale dell’associazione antiracket ed antiusura denominata “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.

Il citato dr. Antonio Giangrande non conosce fatti, atti e parti del processo in corso. In udienza si scopre che è un artifizio per far rendere dichiarazioni incriminanti su un articolo pubblicato dall’imputato contenete un’inchiesta del dr Antonio Giangrande. Dossier contenete altri articoli in cui si parla di incompatibilità ambientale dei magistrati. Nello stesso foro praticano magistrati e loro familiari, in qualità di togati ed avvocati. L’indicazione erronea del nome di uno di questi ha sortito una richiesta di rettifica, effettuata. Ciononostante vi fosse prova di mancanza di dolo, è partita la querela. In questo caso si è guardato il dito e non la luna.

L’avv. Antonino Napoli cita con atto di citazione testi il dr Antonio Giangrande a presenziare per l'udienza del 28 giugno 2021 ore 12 e ss con Racc. A.R. del 04/06/2021 ricevuta il 09/06/2021.

Avviso congruo inviato 24 giorni prima e ricevuto 19 prima l’udienza.

Il Dr Antonio Giangrande in data 23 giugno 2021 con fax personale all’avvocato Antonino Napoli ed al Tribunale giustifica l’impedimento a presenziare in udienza per i postumi del Long Covid, residui di una lunga degenza in ospedale per un’infezione grave ai polmoni e ad altri organi .

Il Dr Antonio Giangrande per maggiore sicurezza fa inviare dal suo Avvocato di fiducia del Foro di Taranto, Mirko Giangrande, al Tribunale di Palmi e all’avvocato Antonino Napoli la stessa giustifica.

Mandato speciale rilasciato per quel singolo atto. Oltretutto non essendo imputato.

Giustifica accettata dal Tribunale. 

Dopodichè l’avv. Antonino Napoli rinnova la citazione testi al Dr Antonio Giangrande per l’udienza di lunedì 14 marzo 2022, ore 13:00.

Citazione testi che il dr Antonio Giangrande, teste, non ha mai ricevuto, perché inviata dall’avv. Antonino Napoli con pec nel week end, ossia sabato 12 marzo 2022, ore 13:53 all’indirizzo dell’avvocato Mirko Giangrande, non legittimato a riceverla.

Avv. Mirko Giangrande che, intanto, aveva sospeso la professione, in quanto aveva vinto il concorso ed operava come addetto all’Ufficio del Processo presso il Tribunale Penale di Parma.

Avv. Mirko Giangrande che, nel momento in cui ha ricevuto l’errata citazione, nella stessa data la contesta presso il mittente, rilevando la sua nullità. 

Da notare:

Destinatario non legittimato a ricevere la notifica, né egli è dovuto a comunicare la stessa al vero destinatario, che ad onor del vero nel week end ed a circa mille chilometri era irrintracciabile.

Termini non congrui tra la notifica e l’udienza: due giorni prima, anzi 47 ore prima, contenuti tra festivi e pre festivi. Come dire: si notifica con un fischio. Oltretutto non congrui per organizzare la trasferta di quasi mille chilometri per un covidizzato, i cui postumi sono difficoltà respiratorie e prostatite.

Si pensava fosse finita così, invece…

In data 30 maggio 2022 il dr Antonio Giangrande riceve una chiamata sul cellulare personale: erano i carabinieri di Avetrana, che sollecitavano la notifica di un atto.

Da autore di inchieste, ci si aspettava, come tutti i migliori saggisti o giornalisti, un procedimento per diffamazione a mezzo stampa.

Invece in caserma veniva presentato un accompagnamento coattivo teste emesso con ordinanza del giudice Annalisa Palamara del 14 marzo 2022, che avallava la versione dell’avvocato Antonino Napoli di regolare notifica nello stesso giorno dell’udienza citata e mai notificata, nonostante all’avvocato Antonino Napoli ed al Tribunale si fosse prodotta prova contraria per pec della mancata notifica da parte dell’avv. Mirko Giangrande.

In questo caso la nuova notifica è avvenuta il 30 maggio 2022 per l’udienza del 13 giugno 2022.

Nota bene: 14 giorni prima. In questo caso: Termini congrui.

Al giudice Annalisa Palamara bastava far rinnovare, nei termini congrui ed al legittimo destinatario, la citazione all’avvocato Antonino Napoli, ove assumesse l’onere dell’errore precedente, invece l’accompagnamento coattivo sa di punizione oltraggiosa. Essere considerato reticente è offensivo.

Da esercente la professione forense come praticante avvocato con patrocinio il dr Antonio Giangrande sa cosa significa accompagnamento coattivo e quanto sia umiliante e degradante.

Da presidente antimafia, inoltre, ci si aspettava la scorta, non gli accompagnatori coattivi per testimoniare su cose e su persone di cui nulla si è a conoscenza.

Quasi mille chilometri per andare in capo al mondo senza vie di collegamento degne di un paese civile, tanto da alleviare la trasferta: né autobus, né treni, salvo lunghe ed estenuanti attese per cambi e coincidenze.

Laddove il Maresciallo Vincenzo Caliandro, luogotenente della caserma dei carabinieri di Avetrana, mi avesse invitato a firmare una liberatoria, affinchè si esentasse l’arma dei Carabinieri ad accompagnarmi dietro l’impegno del buon esito della trasferta, la sollecitazione sarebbe stata declinata in quanto lungo il tragitto di centinaia di chilometri tutto può succedere per impedire la presenza in udienza ed ove non si fornisse prova certa e legittima di impedimento, potrebbe prospettarsi l’incriminazione di reato di rifiuto di uffici legalmente dovuti previsto nell’art. 366 c.p. . In ogni caso ai sensi dell’art. 255 cpc in caso di ulteriore mancata comparizione il giudice dispone l'accompagnamento coattivo alla stessa udienza o ad altra successiva e lo condanna ad una sanzione pecuniaria non inferiore a 200 euro e non superiore a 1.000 euro. 

Ergo:

Un accompagnamento coattivo infondato oltraggioso ed offensivo.

Un’auto obbligatoria per il teste ed un’auto dei carabinieri al seguito come accompagnamento coattivo, come capopattuglia il brigadiere Biagio Blaiotta, per controllare che l’auto che precede arrivi al Tribunale di Palmi. (In verità è avvenuto il contrario. I carabinieri a precedere tutto spiano e l’auto del testimone costretta a seguire alla stessa velocità!)

Un onere umano ed economico incalcolabile ed uno spreco enorme, per il privato e per il pubblico, oltretutto con il presente caro-carburante.

Si scongiura la denuncia querela presso l’autorità giudiziaria competente e l’esposto presso le autorità amministrative e giudiziarie di controllo, contro i responsabili del falso e dell’abuso, perché il giudice Palamara con buon senso chiede scusa, riconoscendo l’errore del suo ufficio.

Antonio Giangrande: ho scritto il libro work in progress sulla guerra Ucraina-Russia

Il pericolo del pensiero unico omologato e conformato.

La vittima, dico vittima, ha sempre ragione?

Cosa noi proviamo, guardando un film, nel vedere un criminale omicida braccato dalla polizia che si para dietro una vittima indifesa, usandola come scudo umano, e minacciata con un'arma a mo di ritorsione? Credo che molti di noi provino odio profondo.

E che dire di chi fa crollare i ponti prima che la gente possa fuggire dalle città?

Come considerare i carri armati ucraini nascosti tra i palazzi delle loro città? E come considerare i resistenti tra i civili?

Non la resa in una lotta impari, ma si pretende l'aiuto diretto delle nazioni occidentali, nonostante si preveda il loro coinvolgimento in una guerra totale con la morte di gente estranea al conflitto in corso. Quella gente sono i nostri figli o noi stessi.

Non la resa, ma la pretesa accoglienza di profughi ucraini, negata, però da loro stessi, ad afgani, siriani, ecc. ecc.

Quando qualcuno al mare, nonostante l'avviso che è pericoloso fare il bagno, chiede aiuto perchè sta affogando, tu altruista ti tuffi senza analizzare le conseguenze. Quando ti trovi al suo cospetto, la reazione dell'affogando è salvarsi a tutti i costi, aggrappandosi a te, tanto da attentare alla tua sicurezza pur di stare a galla.

I media palesemente anti Putin che per propaganda ci inondano di immagini di bambini profughi e ripetutamente ci raccontano di bambini morti e che inneggiano alla resistenza degli occupati, ci vogliono far entrare in una guerra fratricida e nazionalista non nostra?

Più che filo ucraino sono filo italiano, senza dimenticare, però, che, nelle guerre, solo per la povera gente tutto si perde e nulla si guadagna. 

Antonio Giangrande: I MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI.

Confessione falsa estorta. Quando l’interrogato è costretto a confessare.

Quando la verità su cosa ci circonda ci è suggerita dalla fiction straniera.

Centinaia di migliaia di errori giudiziari, in minima parte riconosciuti. E grazie ad Alberto Matano alcuni dei quali portati alla conoscenza del grande pubblico, con il suo programma “Sono Innocente” su Rai tre.

L’inchiesta del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul delitto di Sarah Scazzi ha scritto un libro, così come ha scritto su tutti i principali delitti andati agli onori delle cronache, specialmente a Taranto. Saggi inseriti in un contesto di malagiustizia dove ci sono inseriti esempi di confessioni estorte e di cui si può parlare senza subire ritorsioni. Uno tra tutti: Giuseppe Gullotta. Questi libri fanno parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” che si compone di decine di opere: saggi periodici di aggiornamento temporale; saggi tematici e saggi territoriali. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri. ecc.

Quasi nessuno sa, ed i media colpevolisti hanno interesse a non farlo sapere, che vi è una vera e propria strategia per chiudere in fretta i casi illuminati dalle telecamere delle tv. Strategia, oggetto di studio americana, ignorata da molti avvocati nostrani e non accessibile alla totalità degli studiosi della materia.

Tecniche di interrogatorio consapevolmente torturanti. Manipolare, distorcere le parole, convincere che la confessione è una liberazione. Spingere un uomo a confessare il falso.

Come estorcere una confessione. HOW TO FORCE A CONFESSION:

Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto. MENTAL EXHAUSTION. La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza.

La promessa di una via d’uscita. THE PROMISE OF ESCAPE. Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia.

Offrire una ricompensa. OFFER A REWARD. Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo di coinvolgimento o con la concessione a questa di uno sconto di pena.

Suggerire le parole per la confessione. FORCING LANGUAGE

Studio tratto da Bull. Stagione 1. Episodio 5: Vero o falso? Mandato in onda da Rai 2 Domenica 5 marzo 2017 ore 21,00.

Bull e la sua squadra prendono le difese del giovane Richard Fleer che ha confessato di avere ucciso la sua ricca fidanzata, messo sotto pressione dall'interrogatorio della Polizia...

Antonio Giangrande: “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato. Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».

Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?

«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».

E sull’indifferenza…

«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato senza conoscermi, nonostante la mia notorietà. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”

E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente in modo disinteressato, come ristoro delle sofferenze da lei subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?

“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.

"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".

Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...

"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»

Come commenta...

«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».

Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.

«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».

Concludendo?

«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti».

Antonio Giangrande: A proposito del Titolo di Libero sui “Terroni”.

Gli opinionisti del centro-nord Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Ergo: COGLIONE. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come prossimo passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine. 

Antonio Giangrande: Il nostro cavallo di battaglia è l’istituzione del difensore civico giudiziario che possa operare con i poteri giudiziari, contro gli abusi e le omissioni dei magistrati e degli avvocati e degli apparati ministeriali a tutela dei cittadini. Sposiamo la causa e divulghiamo l’iniziativa concreta.

Antonio Giangrande: Se questi son giornalisti...

Avviso DMCA di Google Libri [1-1127000032185]

Da Removalsatgoogle.com

04/03/2022 20:24

A presidenteatcontrotuttelemafie.it

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Testo del reclamo: L'intero articolo di corriere.it pubblicato il 27 dicembre 2019, dalla prima all'ultima parola, compare in una pagina di questo libro in questione. Questo contenuto è protetto da copyright e non abbiamo concesso tali diritti per la pubblicazione in nessun libro. Ne chiediamo la rimozione da Google Libri.

Da presidenteatcontrotuttelemafie.it

05/03/2022 08:25

A Removalsatgoogle.com

Sono autore e legittimo proprietario dei diritti di pubblicazione del contenuto. Ogni riferimento di terzi è doverosamente citato e di pubblico dominio. Le opere di terzi citate, ai sensi delle leggi nazionali italiane (artt. 65, 66, 67 e 70 della Legge n. 633/1941) ed internazionali, sono legittimamente incluse a fini didattici ed insegnamento, di critica e di discussione e ricerca e di informazione. Le mie opere non danneggiano lo sfruttamento commerciale dell’opera altrui.  Per questi motivi io posso vantare diritti esclusivi di diritto d’autore su fatti di cronaca e non violare le norme internazionali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti nazionali, europee o internazionali (DMCA).

"Confermo di astenermi dall'inviare qualsiasi contenuto per il quale non ho i diritti di pubblicazione esclusivi e che aderirò a tutti i termini delle Linee guida per i contenuti quando pubblicherò nuovi contenuti."

In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra è , pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti. Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

MAI DIRE MAFIA: IL CALVARIO DI ANTONIO GIANGRANDE.

Guerra aperta contro alcuni magistrati di Taranto: denuncia per calunnia e diffamazione alla Procura di Potenza, richiesta di ispezione ministeriale al Ministro della giustizia e richiesta di risarcimento danni per responsabilità civile dei magistrati al Presidente del Consiglio dei Ministri.

«Non meditar vendetta! Ma siedi sulla riva del fiume e aspetta di veder passare il corpo del tuo nemico! Ed io ho aspettato…..affinchè una istituzione, degna dell’onor di patria, possa non insabbiare una mia legittima ed annosa aspettativa di giustizia. Perché se questo succede a me, combattente nato, figuriamoci a chi è Don Abbondio nell’animo. Già che sono in buona compagnia. Silvio Berlusconi: "Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti" ». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Puntuale anche quest’anno è arrivato il giorno dedicato all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un appuntamento che, da tempo immemore ripropone un oramai vetusto ed urticante refrain: l’aggressione virulenta ai magistrati portata da tutti coloro che non fanno parte della casta giudiziaria. Un piagnisteo continuo. Un rito liturgico tra toghe, porpore e carabinieri in alta uniforme. Eppure qualche osservazione sulle regole che presidiano e tutelano l’Ordine giudiziario italiano dovrebbe essere fatta. Faccio mie le domande poste da L’Infiltrato Speciale su Panorama. Quale sistema prevede una “sospensione feriale” per 3 mesi filati? Quale organizzazione non prevede un controllo sul tempo effettivo trascorso in ufficio ovvero regola e norma ogni forma di…telelavoro da casa? Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso? Ma, soprattutto, può il dovere di imparzialità del giudice sposarsi con lo svolgimento di vera e propria attività politica entro le varie “correnti” interne alla magistratura? Qualcuno potrà negare che diversi esponenti di magistratura democratica abbiano rivendicato apertamente le radici nel pensiero marxista leninista della propria corrente? Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito.

Detto questo premetto che la pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca. La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art. 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza del 22 febbraio 2008, n. 4603).

Ed allora ecco alcuni brani dell’atto presentato alle varie istituzioni.»

"Si presenta, per fini di giustizia ed a tutela del prestigio della Magistratura oltre che per tutela del diritto soggettivo dell’esponente, l’istanza di accertamento della responsabilità penale ed amministrativa e richiesta di risarcimento del danno, esente da ogni onere fiscale, in quanto già ammesso al gratuito patrocinio nei procedimenti de quo. Responsabilità penale, civile ed amministrativa che si ravvisa per i magistrati nominati per azioni commesse da questi in unione e concorso con terzi con dolo e/o colpa grave. Elementi costitutivi la responsabilità civile dei magistrati di cui alla Legge 13 aprile 1988, n. 17:

a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

PER IL PRIMO FATTO

L’Avv. Nadia Cavallo presenta il 10/06/2005 una denuncia/querela nei confronti di Antonio Giangrande, sottoscritto denunciante, per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in unione e concorso con Monica Giangrande, con denuncia-querela presentata all’A.G., incolpato Cavallo Nadia Maria del reato di truffa e subornazione, pur sapendola innocente. La denuncia di Cavallo Nadia Maria è palesemente calunniosa e diffamatoria nei confronti di Antonio Giangrande in quanto la denuncia di cui si fa riferimento e totalmente estranea ad Antonio Giangrande e non è in nessun modo riconducibile ad egli.

Insomma: la denuncia a firma di Antonio Giangrande non esiste.

Pur mancando la prova della calunnia, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

La dott.ssa Pina Montanaro apre il fascicolo n. 5089/05 R.G. notizie di reato. Non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e nel procedimento Gip n. 2612/06, pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, chiede comunque in data 20 aprile 2006 il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande.

Il Dr Ciro Fiore nel procedimento Gip n. 2612/06, pur non supportato da alcuna prova di accusa in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque in data 02 ottobre 2006 il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande.

Il processo a carico di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande contraddistinto con il n. 10306/10 RGDT si apre con l’udienza del 06/02/07 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto, ma la posizione di Antonio Giangrande è stralciata per vizi di notifica.

Il Dr Pompeo Carriere il 28/04/2010 riapre il procedimento Gip n. 2612/06, dopo lo stralcio della posizione di Antonio Giangrande rispetto alla posizione di Monica Giangrande per vizi di forma della richiesta di rinvio a giudizio. Su apposita richiesta della difesa di Antonio Giangrande di emettere sentenza di non luogo a procedere per il reato di calunnia ove ritenga o accerti che ci siano degli elementi incompleti o contraddittori riguardo al fatto che l'imputato non lo ha commesso, il dr. Pompeo Carriere, il 19 luglio 2010, disattende tale richiesta e dispone nei confronti del Pubblico Ministero l’ulteriore integrazione delle indagini e l’acquisizione delle prove mancanti per sostenere l’accusa in giudizio contro Antonio Giangrande. All’udienza dell’8 novembre 2010, il Pubblico Ministero non ha svolto le indagini richieste, anche a favore dell’indagato, e non ha integrato le prove necessarie. Ciononostante in tale data il dr. Pompeo Carriere, pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande per il reato di calunnia.

Il nuovo processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10346/10 RGDT si apre con l’udienza del 01/02/11 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto. In quella sede ai diversi giudici succedutisi, in sede di contestazioni nella fase preliminare, si è segnalata la mancanza assoluta di prove che sostenessero l’accusa di calunnia.

Solo in data 23 gennaio 2014, nonostante l’assenza alla discussione con l’arringa finale dell’imputato (in segno di palese protesta contro l’ingiustizia subita) e del suo difensore di fiducia e senza curarsi delle richieste del Pubblico Ministero togato, che stranamente per questo procedimento è intervenuto di persona, non facendosi sostituire dal Pubblico Ministero onorario, ed a dispetto delle richieste dell’imperterrita presenza della costituita parte civile, l’avv. Nadia Cavallo, che ne chiedeva condanna penale e risarcimento del danno, il giudice Maria Christina De Tommasi, pur potendo dichiarare la prescrizione non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande per il reato di calunnia per non aver commesso il reato, in quanto non vi era prova della sua colpevolezza. Per la seconda accusa dello stesso procedimento penale riguardante la diffamazione, ossia per il capo B, la De Tommasi ha pronunciato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione, nonostante avesse anche qui dovuto constatare che il fatto non era stato commesso, per la mancanza di prove a carico di Antonio Giangrande, in quanto l’articolo incriminato era riconducibile a terze persone, sia come autori, che come direttori del sito web.

Declaratoria di NON AVER COMMESSO IL REATO. Dopo 8 anni, un pubblico Ministero, due Giudici per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione, sostituita dalla dr.ssa Vilma Gilli ed a sua volta sostituita da Maria Christina De Tommasi.

Rita Romano ricusata per essere stata denunciata da Antonio Giangrande proprio per la sentenza di condanna adottata nei confronti di Monica Giangrande. Sentenza del 18/12/2007 con processo iniziato il 06/02/07. Esito velocissimo tenuto conto dei tempi medi del Foro. Nel processo nato a carico di Antonio Giangrande e Monica Giangrande su denuncia di Nadia Cavallo e poi stracciato a carico di Monica Giangrande, la stessa Monica Giangrande era accusata con Antonio Giangrande di calunnia per aver accusato la Cavallo Nadia di un sinistro truffa. Monica Giangrande affermava nella sua denuncia che la stessa Avv. Nadia Cavallo accusava lei, Monica Giangrande, di essere responsabile esclusiva del sinistro. In effetti Rita Romano stracciava la posizione di Antonio Giangrande per difetto di notifica del rinvio a giudizio e dopo l’espletamento del processo a carico di Monica Giangrande condannava l’imputata. Ciononostante lo stesso giudice riconosceva nelle sue motivazioni che la stessa Giangrande Monica accusava la Nadia Cavallo sapendola colpevole, perché proprio lo stesso giudice riconosceva tal Nigro Giuseppa come responsabile di quel sinistro che si voleva far ricondurre in capo alla Giangrande Monica, la quale, giustamente negava ogni addebito. L’appello contro la sentenza a carico di Monica Giangrande è stata inspiegabilmente mai impugnata dai suoi difensori, pur sussistendone validi motivi di illogicità della motivazione.

L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente. Inoltre l’avv. Nadia Cavallo è molto apprezzata dai magistrati Tarantini e da Salvatore Cosentino, ora alla procura di Locri. In virtù della sentenza di condanna emessa contro Monica Giangrande l’avv. Nadia Maria Cavallo ha percepito alcune decine di migliaia di euro a titolo di risarcimento del danno morale e oneri di difesa. Evidentemente era suo interesse fare la stessa cosa con il dr. Antonio Giangrande, con l’aiuto dei magistrati denunciati, il quale però non era di fatto e notoriamente autore del reato di calunnia, così come era falsamente accusato. Innocenza riconosciuta ed acclarata dal giudice di merito, però, dopo anni.

PER IL SECONDO FATTO

In questo procedimento risultano esserci due querelanti e quindi due persone offese dal reato:

Dimitri Giuseppe querela in data 19/07/2004 Corigliano Renato perché si ritiene vittima di Falsa Perizia giudiziaria. Corigliano Renato controquerela Dimitri Giuseppe per calunnia e diffamazione per aver pubblicato la querela, in cui si producevano le accuse di falsa perizia contro il Corigliano ledendo il suo onore e la sua reputazione. Corigliano Renato non querela Antonio Giangrande. Dimitri Giuseppe per la diffamazione subita dal Corigliano controquerela Antonio Giangrande, pur non avendo il Dimitri Giuseppe legittimità a farlo, non essendo egli persona offesa.

Insomma: la querela di diffamazione da parte della persona offesa contro Antonio Giangrande non esiste.

Pur mancando la prova della diffamazione, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

Il Dr. Enrico Bruschi apre il fascicolo n. 3015/06 R.G. notizie di reato. Non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta egli stesso la citazione a giudizio saltando l’Udienza Preliminare.

Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10244/10 RGDT si apre con l’udienza del 05/10/2010 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto, ma la posizione di Antonio Giangrande è inviata al Giudice per le Indagini Preliminari per l’Udienza di Rito.

Il Dr Pompeo Carriere il 26/11/12 apre il procedimento Gip n. 243/12. Sostenuto dalla richiesta del PM Enrico Bruschi il dr. Pompeo Carriere, ciononostante non vi sia la querela di Corigliano Renato contro Antonio Giangrande e pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande per il reato di Diffamazione.

Il nuovo processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10403/12 RGDT si apre presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto. In quella sede ai diversi giudici succedutisi, in sede di contestazioni nella fase preliminare, si è segnalata la mancanza assoluta di prove che sostenessero l’accusa di Diffamazione.

Solo in data 18 aprile 2013 Corigliano Renato è stato sentito ed ha confermato di non aver presentato alcuna querela contro Antonio Giangrande. Corigliano Renato e Dimitri Giuseppe hanno rimesso la querela, il primo perché non l’aveva presentata e comunque non aveva alcuna volontà punitiva contro Antonio Giangrande, il secondo non aveva addirittura la legittimità a presentarla. Il giudice Giovanni Pomarico non ha potuto non acclarare il non doversi procedere nei confronti di Antonio Giangrande per remissione delle querele.

Declaratoria di NON DOVERSI PROCEDERE PER REMISSIONE DI QUERELA. Ma di fatto per difetto di legittimazione ad agire. Dopo 4 anni, un pubblico Ministero, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti ed a sua volta sostituita da Giovanni Pomarico.

L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente.

PER IL TERZO FATTO

L’avv. Santo De Prezzo, in data 06 novembre 2006, denuncia e querela il dr. Antonio Giangrande per violazione della Privacy per aver pubblicato sul sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie il suo nome, nonostante il nome dell’avv. Santo De Prezzo fosse già di dominio pubblico in quanto inserito negli elenchi telefonici, anche web, e nell’elenco degli avvocati del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi, anche web.

La dr.ssa Adele Ferraro, sostituto procuratore presso il Tribunale di Brindisi apre il proc. n. 9429/06 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., ed il 1° ottobre 2007 (un anno dopo la querela) decreta il sequestro preventivo dell’intero sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie, arrecando immane danno di immagine. Il Decreto è nullo perché non convalidato dal GIP ed emesso il 19 ottobre 2007, successivamente al sequestro. Il decreto è rinnovato il 09/11/ 2007 e non convalidato dal giudice Katia Pinto. Poi ancora rinnovato il 28/12/2007 e convalidato da Katia Pinto il 26/02/2008, ma non notificato.

La dr.ssa Katia Pinto apre il proc. n. 1004/07 RGDT e il 19/09/2008, dopo quasi un anno dal sequestro del sito web con atti illegittimi dichiara la sua incompetenza territoriale e trasmette gli atti a Taranto, ma non dissequestra il sito web.

In questo procedimento non risulta esserci il fatto penale contestato eppure si oscura un sito web di una associazione antimafia e si persegue penalmente il suo presidente, Antonio Giangrande.

Insomma: il fatto non sussiste. Pur mancando la prova della violazione della privacy, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

Il Dr. Remo Epifani sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto apre il fascicolo n. 8483/08 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta il rinvio a giudizio per ben due volte: il 23/06/2009 e difetta la notifica e il 28/09/2010, rinnovando il sequestro preventivo del sito web, mai revocato.

Il Dr. Martino Rosati, Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Taranto apre il proc. n. 6383/08 GIP e senza indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., dispone con proprio autonomo decreto il 14/10/2008 il sequestro preventivo del sito web.

Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10329/09 RGDT, si apre il 03/11/2009, ma viene chiuso per irregolarità degli atti. Il nuovo processo contraddistinto con il n. 10018/11 RGDT si apre il 01/02/2011.

Solo in data 12 luglio 2012 lo stesso Pm dr. Gioacchino Argentino chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste ed in pari data il giudice dr.ssa Frida Mazzuti non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande perché il fatto non sussiste. Il Dissequestro del sito web associazionecontrotuttelemafie.org non è mai avvenuto e l’oscuramento del sito web è ancora vigente.

Declaratoria di ASSOLUZIONE PERCHE’ IL FATTO NON SUSSISTE. Dopo 6 anni, due pubblici Ministeri, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti.

L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente.”

« Pare evidente la tricotomia della responsabilità penale: il movente, il mezzo, l’opportunità. Per questo si chiede la condanna per reati consumati, continuati, tentati, da soli o in concorso con terzi, o di altre norme penali, con le aggravanti di rito, e attivazione d’ufficio presso gli organi competenti per la violazione di norme amministrative. Altresì si chiede il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, liquidato in via equitativa dal giudice competente, per la sofferenza che si è riservata al sottoscritto ed alle persone che mi stimano per la funzione che io occupo e l’umiliazione e, soprattutto, per il dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di essere accusato di calunnie tanto ingiuste quanto infondate. Nessuna Autorità degna del mio rispetto ha tutelato la mia persona. Le mie denunce contro queste ed altre ingiustizie sono state sempre archiviate. E’ normale allora che io diventi carne da macello penale. E’ normale che io sia lì a partecipare da 16 anni all’esame forense, sempre bocciato, se poi i magistrati, commissari di esame, contro di me fanno questo ed altro.»

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Storia d’Italia.

Panorama: sessant’anni di grande giornalismo per lettori esigenti. 1962-1971 i primi 10 anni di Panorama tra politica, cultura, sport. Maurizio Belpietro e Marco Morello su Panorama il 2 Luglio 2022.

Otto minuti all’anno, otto ore in sessant’anni: questo è ciò che abbiamo guadagnato. Se nell’ottobre del 1962, per arrivare da Siracusa a Milano, in treno, un pendolare impiegava 24 ore e tre minuti, oggi un italiano che dalla Sicilia si mettesse in viaggio per il capoluogo lombardo ci metterebbe 15 ore e 53 minuti: otto ore in meno, mentre altrove, per percorrere la stessa distanza, se ne impiegano poco più della metà di quelle che noi abbiano guadagnato. Basta questo per capire come sono trascorsi lentamente gli ultimi sessant’anni, passati dal boom economico al boom del debito. È sufficiente questo per comprendere come mai, invece di andare avanti, siamo rimasti fermi o, addirittura, siamo andati indietro nella classica dei Paesi industrializzati.

Per spiegare il «Viaggio della speranza», Panorama, il periodico voluto da Arnoldo Mondadori e dal gruppo Time, nel 1962 mobilitò le sue migliori firme, tra cui quella di Ugo Zatterin, giornalista che poi diverrà famoso in Rai per le sue inchieste. Un reportage di 16 pagine per raccontare l’emigrazione da Sud a Nord, verso il sogno di un benessere che dal televisore delle poche famiglie che se lo potevano permettere (tre su dieci) si affacciava nella vita degli italiani. Ecco, Panorama era la rivista che raccontava la nuova Italia, descrivendone i cambiamenti. La democrazia dopo anni di monarchia, il terremoto in Sicilia e la difficile ricostruzione del Belice, Cosa nostra e i suoi traci, la sinistra comunista e i rapporti con l’Urss, il terrorismo, i nuovi consumi e la sessualità di coppia. Ma Panorama era anche il giornale che descriveva il mondo, aprendo una finestra su quello che succedeva in America, con Kennedy e Martin Luther King; in Cina, con Mao Tse-tung e la sua rivoluzione culturale; in Medioriente, con il già strisciante fondamentalismo islamico. E poi la guerra dei sei giorni, con il blitz di Israele nel Sinai, la guerriglia di Ho Chi-minh in Vietnam, la crisi dei missili a Cuba. Sì, a sfogliare i vecchi numeri di sessant’anni fa ci si trova di tutto, dalle analisi geopolitiche internazionali a quelle nazionali, dalla società dei consumi che conquista le famiglie, alla pillola anti gravidanza. Panorama era il settimanale di un mondo in evoluzione, nella vita politica come nei costumi e nella cultura. Lo confesso: ogni tanto, quando gli impegni me lo permettono, mi chiudo in archivio e prendo i vecchi numeri, scorrendone gli articoli. Qualche volta li ho ripubblicati così com’erano. Ricordo, per esempio, che un anno fa mi trovai a leggere un meraviglioso servizio sulle lotte sindacali e le richieste di aumenti salariali. L’autore aveva già capito tutto, ovvero che la conflittualità avrebbe innescato un aumento dell’inazione e generato la fine della crescita economica del nostro Paese. Infatti, si chiedeva chi avrebbe pagato il conto e quale sarebbe stato il saldo. A distanza di anni, possiamo dire che il conto l’hanno pagato gli italiani, con un debito pubblico e delle tasse sempre più alti, e il bilancio è in rosso. Ma tra le meraviglie che mi sono capitate tra le mani c’è anche un’inchiesta sul nuovo teatro, con una sorprendente fotografa di Dario Fo in copertina, per raccontare come le rappresentazioni si fossero trasformate da recita di un testo letterario in comizio politico. Sì, quei numeri sono un vero e proprio tesoro, uno scrigno che racchiude la storia italiana degli ultimi sessant’anni. Panorama nacque nell’ottobre del 1962 con l’intenzione di raccontare la società italiana in modo nuovo, senza conformismo, ed è a quell’impegno che a ogni nuovo numero cerchiamo di tenere fede. Soprattutto è quell’impegno che vogliamo raccontarvi nei mesi a venire, accompagnando il compleanno con numeri speciali dedicati ai migliori servizi pubblicati in sessant’anni. Un genetliaco che celebreremo a dicembre con una mostra, dedicata alle più belle copertine del passato e alle più celebri inchieste con cui il vostro settimanale vi ha accompagnato per anni.

Giochi senza Gioventù. Il 18 marzo 1971, Panorama pubblica un articolo dal titolo «Se non sono atleti non li vogliamo» dove l’allora presidente del Coni, Giulio Onesti, lamenta il disinteresse dello Stato nei confronti della formazione allo sport. A distanza di 50 anni, il seguito ce lo racconta l’attuale presidente Giovanni Malagò che, tra le altre cose, riflette sull’allarmante calo delle nascite. di Marco Morello Cinquant’anni dopo, poco o nulla sembra essere cambiato. Un insufficiente sostegno all’attività sica nelle scuole, la scarsità e le carenze negli impianti lungo la Penisola, la mancanza d’educazione al movimento di un’ampia fetta dei cittadini, rimangono punti dolenti, problemi non risolti. «Sotto alcuni aspetti, viviamo una situazione da terzo se non da quarto mondo» commenta tagliente Giovanni Malagò, il presidente del Coni. Il numero uno dello sport italiano ha letto e riletto con interesse gli articoli sul tema ripescati dall’archivio storico di Panorama. Ne è rimasto talmente colpito da citare a memoria le parole pronunciate da uno dei suoi più illustri predecessori, Giulio Onesti. L’ha fatto a Perugia, nel corso dell’ultima riunione della Giunta nazionale del Coni: «Mi sembrava giusto riprenderle e sottolinearne l’importanza» dice Malagò, seduto sulla poltrona del suo ufficio romano. Presidente, Onesti negli anni Settanta affermava: «Il compito di insegnare a essere sportivi agli italiani non spetta a noi». E oggi? Oggi è come ieri, spetta ancora a uno Stato moderno, civile, evoluto, che deve essere in grado di garantire servizi di livello e una qualità della vita migliore ai suoi cittadini. Conosciamo bene ruoli, deleghe e responsabilità, non vogliamo entrare in competizione con nessuno, come non sopportiamo le ingiustificabili ingerenze nel nostro territorio. In parallelo, sappiamo di avere supplito a tante mancanze, non ci siamo sottratti quando si è trattato di dare una mano. Anche perché non potete reputarvi spettatori disinteressati. Il successo delle vostre attività nelle varie discipline dipende dal generale stato di salute dello sport. Mi piace sempre ricordare l’esempio di un campione come Pietro Mennea. Se non avesse avuto un professore di educazione sica che ne ha notato il talento e l’ha incoraggiato, non sarebbe diventato una leggenda. Se salta un passaggio nel meccanismo, se non si insiste sulla centralità del ruolo della scuola, siamo rovinati. È semplice. La scuola è la madre di tutte le battaglie: la medaglia Olimpica è l’ultimo tassello di un percorso lunghissimo che può iniziare nella palestra di un istituto di provincia. Cosa la preoccupa di più? I dati del calo demografico. Se guardiamo alla classica delle nazioni che vincono, quelle con i numeri importanti in termini di popolazione sono tutte dentro. Noi, al contrario, non smettiamo di scendere: partiamo con un gap rispetto alla Germania, agli Stati Uniti, alla Russia, senza arrivare nemmeno a menzionare la Cina. Siamo inferiori alla Francia e alla Gran Bretagna, a cui in passato eravamo riusciti a rimanere attaccati. Dal 1995 a oggi, abbiamo perso 5 milioni di italiani tra i 18 e i 35 anni. Vantiamo splendidi record dal punto di vista della longevità, siamo messi meglio persino del Giappone, ma qualcosa di essenziale si sta sgretolando. Come provare a ricomporre i pezzi? Con politiche mirate a incentivare le nascite e a migliorare l’andamento demografico. Altrimenti non possiamo più stupirci di leggere previsioni come quelle di Elon Musk. Ha detto che se continuiamo così, tra poco non ci saranno più scuole né bambini. Non è una provocazione, è un dato di fatto. Stringendo sullo sport praticato, le statistiche sono altrettanto scoraggianti? In base a come si leggono i numeri, gli italiani tesserati oscillano tra i 12,5 e i 14,5 milioni. È una cifra fenomenale, oggetto di studio e di lode a livello globale. Il problema, l’elemento che ci fa crollare a picco, sono i 46 milioni di italiani che non praticano nessuna disciplina. Con una popolazione che invecchia, le criticità si amplificano di anno in anno, perché lo sport è un veicolo di salute. Per evitare di rimanere immobili a lamentare gli stessi problemi per chissà quanto a lungo, cosa si dovrebbe fare? L’ordine della questione è, di nuovo, di carattere politico. Serve una legislatura piena, un governo con un mandato forte che si metta al lavoro, seriamente, con un progetto sensato, come minimo per cinque anni. Se invece tutto si azzera ogni dodici mesi o poco più, se cambiano i ministri, i sottosegretari, i soggetti con delega allo Sport, per quanto siano fenomenali e preparati, non lasciano il segno. Non ne hanno il tempo e nemmeno la convenienza. Si spieghi meglio. Il politico di turno, in genere, è consapevole che i risultati di un approccio di sistema si vedono in un orizzonte di 5 o 10 anni. Troppi. Perciò, preferisce capitalizzare il suo lavoro con immediatezza. Lo stesso avviene per gli altri problemi strutturali del Paese, dal debito pubblico alla gestione dell’energia. Non basta schioccare le dita, occorre avere una missione, uno spirito di servizio. E invece? In molti tendono a mettere il cappello su cose che non sono di loro competenza, come un ciclista che vince un titolo o un atleta che porta a casa una medaglia olimpica. Anziché interessarsi dei 46 milioni di italiani che ne avrebbero bisogno, sfruttano l’onda di quei 14 milioni che hanno già consolidato una loro cittadinanza sportiva. I loghi e l’universo di valori del Coni, i campioni dell’Italia Team, rimangono un grande collante. Non sta a me dirlo, la conferma arriva dai sondaggi, dalle ricerche di mercato, dal buon senso. Il tricolore, la scritta Italia, i cinque cerchi olimpici sono tra i brand più prestigiosi in assoluto. Cementano il senso d’appartenenza, rafforzano un’identità. Possono essere un traino per coltivare la voglia di abbracciare lo sport. Si avvicina uno snodo cruciale, una manifestazione importante come le Olimpiadi di Milano e Cortina del 2026. Lei, giusto per tenere le aspettative basse, si è impegnato a organizzare i migliori Giochi di sempre. L’aspettativa è patologica, nel senso più buono possibile del termine. Fare in modo eccellente è un obiettivo e un desiderio. Come minimo dobbiamo provarci. Di sicuro, le competizioni tornano nel loro elemento naturale, nella culla dello sport, l’Europa.

Sta dicendo che si è lasciato qualcosa per strada con le edizioni precedenti? Da membro del comitato internazionale non sarò certo io a parlare male del passato, ma veniamo dalla Russia, da gare portate in una zona inventata ad hoc per spingere la classe media verso l’interno del Paese, scoraggiandola dallo spostarsi in Svizzera, Austria o Francia. Poi ci sono state la Corea e la Cina, di sicuro inaccessibili per il pubblico continentale. Per il nostro Paese, si apre un’enorme opportunità. Quale? Chi arriverà per una partita di hockey o per il pattinaggio andrà a visitare Milano, si spingerà no a Venezia o altrove. L’Italia parte in vantaggio perché mette sul piatto il grande valore aggiunto del suo patrimonio storico e artistico, oltre a una passione per lo sport che, quella sì, è indiscutibile. 

1972-1981 il secondo decennio di Panorama tra politica, cultura, sport. Maurizio Belpietro e Guido Fontanelli su Panorama il 2 agosto 2022.

Il 28 maggio 1974 avevo 16 anni e nonostante fossimo nel periodo delle proteste studentesche, con lezioni a singhiozzo accompagnate da scioperi e picchetti, no ad allora la politica mi lasciava indifferente. L’unico giornale che entrava in casa mia era un quotidiano della provincia, Il giornale di Brescia, ma le pagine nazionali le saltavo senza degnarle di uno sguardo, concentrandomi su quelle di cronaca. Però quel martedì di quasi cinquant’anni fa cambiò ogni cosa. I sindacati confederali avevano indetto una manifestazione nel centro della città e molti miei compagni di classe avevano scelto di parteciparvi. Io no: come dicevo i cortei non facevano per me. Dunque, quel giorno ero regolarmente al mio banco, in aula, ad ascoltare la lezione. Ore noiose, di cui praticamente non ricordo nulla, se non il momento in cui il professore ci informò della bomba. Era scoppiata alle 10 e 12 minuti del mattino, nascosta dentro un cestino, vicino a una colonna dei portici di piazza della Loggia, mentre il segretario della Cisl Franco Castrezzati parlava. Quel giorno pioveva e molti, invece di stare con l’ombrello al centro della piazza, si erano radunati lì, sotto la Torre dell’orologio, e lì morirono in otto, mentre 102 persone rimasero ferite. Quando a Milano scoppiò l’ordigno collocato all’interno della banca dell’Agricoltura avevo 11 anni: troppo pochi per preoccuparmi. Ma a 16 era diverso. A quell’età si ha voglia di capire, di informarsi, di scoprire il mondo, bello e brutto che sia. Fu così che cominciai a leggere i giornali. Non solo le pagine di cronaca e dello sport, ma anche quelle di politica. Con i soldi che i miei genitori mi davano iniziai a comprare i settimanali, Panorama e l’Espresso, perché mentre i quotidiani si limitavano a riportare le notizie «secche», riferendo solo i dettagli dell’attentato, i newsmagazine (così li chiamavano) ti aiutavano a capire, a inquadrare il contesto di ciò che stava succedendo. Le inchieste che descrivevano le trame nere e rosse che insanguinavano il Paese le trovavi solo sulle pagine di Panorama e dell’Espresso. Fu così che, numero dopo numero, finii per abbonarmi. E sempre così mi innamorai di questo mestiere. Un anno e mezzo dopo la strage, infatti, iniziai a scrivere per Bresciaoggi, il quotidiano nato proprio poche settimane prima che la bomba esplodesse, quando La città era già scossa dalle violenze di piazza. Se mi sono permesso di raccontare la storia che mi riguarda, è perché il numero di Panorama che avete tra le mani ripercorre quella stagione di ombre nere che si stagliarono sulla nostra fragile democrazia. Erano gli anni del golpe, preparato o solo agitato. Ma anche gli anni della «giustizia proletaria», dei cortei, degli scontri con la polizia, degli espropri e delle «gambizzazioni». Quello che attraversammo, io prima da  studente e poi da giovane cronista, fu un periodo buio, forse il peggiore della nostra vita. Un decennio passato alla storia come gli Anni di piombo, quando l’Italia sembrava sull’orlo di una rivoluzione o forse di una guerra civile. Appena quattro anni dopo la strage, ci furono il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Doveva essere una giornata come le altre e invece iniziò con un’edizione straordinaria. Il presidente del primo partito italiano era stato sequestrato e la sua scorta barbaramente assassinata. Un colpo al cuore dello Stato: uno degli uomini politici più in vista d’Italia, lo stratega dell’unità nazionale e dell’apertura a sinistra, era ostaggio di una banda chiamata Brigate rosse e insieme a lui era ostaggio anche il Paese. Quella che leggerete sfogliando le pagine che seguono, è la storia di un decennio fra i più pesanti della nostra storia. Per me fu l’inizio di tutto, ma per tutti credo sia stato il momento in cui ci si rese conto che la Repubblica era sull’orlo dell’abisso. Il rapimento Moro segnò la svolta, politica ed economica. Quella scia di sangue che ci accompagnò dalla ne degli anni Sessanta no a quella degli anni Settanta, con esplosioni di violenza anche nei primi anni Ottanta, ci costrinse a voltare pagina e a farla finita con la lotta di classe. Cominciava un nuovo decennio ed era all’insegna di una diversa parola d’ordine, che non prevedeva la lotta continua, ma il disimpegno. Dopo decine di morti, gli italiani riscoprivano la voglia di vivere. E noi di raccontarla.

E allora io quasi quasi prendo il (super) treno In un articolo degli anni Settanta, Panorama presenta progetti avveniristici, ambizioni e prospettive reali del trasporto ferroviario. A commentare quel servizio, è oggi Luigi Corradi, amministratore delegato di Trenitalia, che qui anticipa lo sviluppo dell’alta velocità verso Venezia, Bari e Reggio Calabria, e il Frecciarossa verso la Spagna. In sicurezza e senza inquinare. di Guido Fontanelli All’inizio degli anni Settanta Panorama dedicò un articolo di sei pagine al futuro del trasporto ferroviario. Sotto il titolo «In treno oltre il muro del suono», il lungo testo faceva il punto sugli studi più avveniristici sul mondo delle rotaie. Molti dei progetti descritti erano al limite della fantascienza e non sono mai stati realizzati: vagoni che viaggiano a mille chilometri orari su cuscini di aria compressa, locomotori spinti da un motore a elica, carrelli giganteschi che trasportano le auto con i loro guidatori da una città all’altra, come traghetti terrestri. Altri stanno tornando di attualità, come il treno che corre velocissimo all’interno di un tubo: nell’articolo di mezzo secolo fa ne parlava Giuseppe Foa ingegnere aeronautico e docente parlava Giuseppe Foa, ingegnere aeronautico e docente all’università americana Rensselaer di Troy, nello Stato di New York, il quale immaginava qualcosa di simile all’Hyperloop attualmente in fase di studio. Ma oltre a solleticare la fantasia dei lettori con progetti avanzatissimi e a volte poco realistici, l’articolo individuava già alcune tendenze che si sarebbero rivelate molto concrete: autostrade sempre più congestionate, città italiane inadatte per sopportare un intenso traffico veicolare, treni che superano la velocità di 200 chilometri orari e diventano concorrenti degli aerei, computer che governano le cabine dei locomotori. Un’impressione condivisa da Luigi Corradi, amministratore delegato di Trenitalia, che ha letto l’articolo e lo ha trovato sotto alcuni aspetti straordinariamente anticipatore: «È interessante vedere come già in quegli anni si intravedeva l’importanza del treno non come mezzo economico per unire il Paese, destinato a chi non poteva permettersi l’auto, ma come soluzione per soddisfare la crescente domanda di trasporto intorno ai grandi centri urbani. In quell’articolo avevano visto lungo. E si scopre anche che c’era un grande confronto di idee a livello internazionale: i cervelli italiani andavano a proporre soluzioni innovative all’estero, in particolare negli Stati Uniti che poi, in realtà, non si sono sviluppati così tanto in campo ferroviario». In Italia invece, dopo aver investito molto sull’elettrificazione e sui sistemi di consolidamento della parte elettrica, le nostre ferrovie hanno puntato sulla velocità creando icone come il Settebello, introdotto nel 1952 e capace di viaggiare a quasi 200 chilometri orari. Poi, superando difficoltà gigantesche dovute alla conformazione sica del nostro paese, è arrivata l’alta velocità con i Frecciarossa che oggi vanno a 300 chilometri orari. «L’Italia è stata tra i primi al mondo» ricorda Corradi «a capire l’importanza dei collegamenti veloci. E ha dimostrato una determinazione e una capacità ingegneristica ammirevoli, tenendo conto della complessità del territorio». Se un lettore di Panorama dei primi anni Settanta venisse trasportato con una macchina del tempo nell’Italia di oggi probabilmente sarebbe sbalordito dai risultati raggiunti dalle Ferrovie dello Stato: oggi vedrebbe un collegamento ad altissima velocità, fra 250 e 300 chilometri orari, che da Torino arriva no a Salerno passando da Milano. Vedrebbe un treno Frecciarossa che va in Francia ed entro l’anno anche in Spagna, e i lavori per la linea Tav verso Lione e per il nuovo tunnel sotto il Brennero. «Stiamo estendendo l’altissima velocità no a Venezia» aggiunge Corradi «e nel Pnrr c’è un piano molto ambizioso per portarla no a Reggio Calabria per dare un servizio Nord-Sud completo. Mentre una nuova linea ad alta velocità andrà verso Bari. In sostanza, con l’alta velocità è successo proprio quello che veniva anticipato da Panorama: la linea Milano-Roma ha avviato una rivoluzione che ha spostato traffico dall’aereo al treno». «Ora il prossimo passo di Trenitalia è cercare di convincere gli italiani a utilizzare un po’ meno le quattro ruote e di più la ferrovia» anticipa il numero uno di Trenitalia. «Otterremmo tre effetti: un trasporto collettivo al posto di uno privato con una riduzione delle emissioni di CO , una minore congestione delle strade e una maggiore sicurezza dei viaggiatori. Non vediamo una competizione con la gomma, pensiamo piuttosto che dovremo integrare meglio le ferrovie con altre forme di trasporto. Vogliamo dare al nostro cliente un servizio completo e aiutarlo ad arrivare più facilmente da casa alla stazione, soprattutto nei grandi centri urbani. Per esempio, in alcune stazioni abbiamo aree a disposizione che possono essere destinate a parcheggi riservati prioritariamente a chi prende il treno: chi acquista il biglietto ferroviario può comprare quello del parking a un prezzo irrisorio, venire tranquillamente in auto in stazione e lasciarla lì no al suo ritorno. Un’altra forma di intermodalità che sta avendo molto successo riguarda le biciclette, che possono essere lasciate in stazione o caricate sui vagoni: noi ogni giorno oriamo circa 20 mila posti per bici sui nostri treni dando la possibilità di ricaricare le batterie nel caso siano elettriche. Inoltre stiamo unendo autobus e treno con la società Busitalia che è stata inglobata nel Polo passeggeri del Gruppo FS Italiane, nato a seguito della presentazione del Piano industriale 2022-2031. Vogliamo investire nell’integrazione autobus-treno con i nuovi servizi Link: sul nostro sito si possono acquistare biglietti integrati treno più autobus o traghetto per raggiungere località turistiche che non hanno la stazione. Chi per esempio arriva alla stazione di Taormina, non vicina alla città siciliana, ha il servizio Link che lo porta in paese. Stiamo lavorando per offrire un servizio simile per le località invernali delle prossime Olimpiadi, come Cortina». Altro fronte che ha cambiato le ferrovie di oggi è stata la trasformazione delle stazioni da antri bui e tristi in luoghi accoglienti, ricchi di negozi e ristoranti. «È un punto fondamentale della rivoluzione che c’è stata e che vogliamo continuare: la stazione è la porta di ingresso al treno e noi abbiamo lavorato molto bene nelle grandi stazioni come quelle di Milano, Roma, Bologna, che oggi offrono una quantità di servizi enorme. Ora vogliamo fare la stessa cosa anche nei centri minori: le stazioni dovrebbero ritornare a essere luoghi di aggregazione sociale. Stiamo pensando per esempio di portarvi il punto di ritiro Amazon oppure lo sportello della Poste, una farmacia, un ristorante. Rivitalizzare le stazioni può riportare più facilmente le persone a prendere il treno e a viaggiare più sicuri inquinando di meno». Il futuro che immaginava Panorama 50 anni fa è già qui.

Panorama dal 1982 al 1991: chiamiamoli pure gli anni dell’edonismo Reaganiano. Maurizio Belpietro e Guido Fontanelli su Panorama il 6 Settembre 2022.

Li hanno chiamati in modi diversi, anni del riflusso nel privato o del disimpegno dalla politica. Ma forse la definizione più azzeccata è quella che si fece largo in tv, fra battute demenziali e siparietti comici: Edonismo reaganiano. Un tormentone che Roberto D’Agostino, celebre «lookologo» di Quelli della notte, programma mitologico battezzato da Renzo Arbore, ha definito il piedino di porco per penetrare nella Weltanschauung degli anni Ottanta. Ronald Reagan c’entra poco, se non che in quel decennio rappresentò l’America come 40esimo presidente degli Stati Uniti. La definizione invece, ha molto a che fare con il Sessantotto e con ciò che venne dopo come conseguenza di quella rivolta giovanile, ovvero gli Anni di piombo.

Sì, l’Edonismo reaganiano fu un modo di lasciarsi alle spalle una stagione cupa, dominata dal terrorismo e dall’antagonismo politico. Dopo un decennio a tinte fosche, eccone uno scintillante, pieno di speranze e di sogni, più attento alla vita privata che a quella pubblica, meno interessato al Noi e al collettivo e più preoccupato dell’Io e del personale. Per capire il fenomeno, basta ripensare ai titoli dei libri che in quel periodo scalarono le classifiche, a cominciare da quell’Insostenibile leggerezza dell’essere che proprio D’Agostino portò in tv, trasformandolo in un successo senza precedenti. Ma insieme al capolavoro di Milan Kundera, quelli sono gli anni del Pensiero debole di Gianni Vattimo, un’opera che si contrapponeva al pensiero forte del marxismo, e de L’Impero dell’emero di Gilles Lipovetsky, cioè della moda. All’improvviso, dalla felicità pubblica, con l’adesione a un impegno collettivo, si ritornava alla felicità privata, concentrandosi su una sfera di soddisfazione personale, dalla quale partiti e ideologie erano esclusi. Sì, gli anni Ottanta sono stati un periodo di grande trasformazione e sviluppo. Iniziati con l’installazione di 112 missili da crociera nella base militare di Comiso, in Sicilia, simbolo inquietante di un possibile conflitto nucleare, e conclusisi con la caduta del muro di Berlino e la ne dell’Unione Sovietica. Un passaggio storico, politico e militare, destinato a cambiare il mondo. Ma prima che il 9 novembre del 1989 i berlinesi accorressero armati di piccone a demolire il monumento che testimoniava l’esistenza di due blocchi separati, i segnali che qualche cosa stava cambiando nella società furono molti e per comprenderli basta sfogliare la raccolta di quei 500 numeri di Panorama che accompagnarono il decennio. Se prima le copertine erano dedicate alla politica, alle lotte sindacali, alle proteste studentesche e alle stragi, poi si affacciarono le immagini di un mondo nuovo, proiettato verso il futuro e la voglia di vivere. Chi avrebbe mai pensato che dopo anni a discutere di terrorismo, si potesse sbattere in prima pagina Gianni Versace con una modella a seno nudo? Incredibile, ma dopo la stagione dell’impegno, ecco quella del riflusso, con una donna spogliata che non suscitava le proteste delle femministe, ma il compiacimento della conquistata libertà del cosiddetto sesso debole. I titoli erano frivoli? Sì, si parlava di paradisi delle vacanze, con splendide ragazze sdraiate al sole, di erotismo, con un rapporto sulla nuova sessualità degli italiani, di canzoni e relazioni extraconiugali. La possibilità di un sorpasso del Pci sulla Dc? Al massimo meritava un piccolo strillo in copertina. E anche la crisi di governo non occupava di più. Dopo un decennio a discutere dei misteri e dei conflitti d’Italia, gli italiani avevano deciso di voltare pagina e Panorama, da sempre attento agli umori dei lettori, rappresentava così il segno del cambiamento. Per usare ancora una felice intuizione di Roberto D’Agostino, dalla rivolta si era passati a Travolta. Dal corteo in piazza alla festa in discoteca.

Il motto è: dal genoma allo scaffale A distanza di 40 anni, «Panorama» fa il punto su Bonifiche Ferraresi, oggi cuore pulsante di BF Spa, il più importante gruppo agroindustriale italiano, unico quotato in Borsa. In grado di controllare l’intera filiera: dal seme al prodotto in tavola. di Guido Fontanelli Con un articolo uscito il 16 maggio 1983, Panorama affrontò con un taglio originale il tema dell’agricoltura. Un argomento di solito poco sexy che il nostro giornale rese al contrario molto interessante: tracciò infatti una mappa della proprietà fondiaria sotto il titolo «I padroni della terra». E ne venne fuori un elenco sorprendente, capitanato dalla famiglia Ferruzzi e formato da decine di assicurazioni, società finanziarie e famiglie la cui attività agricola era sconosciuta ai più. Al secondo posto spiccava la Banca d’Italia, grazie alla maggioranza delle azioni delle Bonifiche Ferraresi detenute nel proprio portafoglio. E oggi, a quarant’anni da quell’inchiesta e dall’ormai lontano tramonto dei Ferruzzi, sono proprio le Bonifiche Ferraresi ad avere conquistato il primo posto tra i «padroni della terra» italiani. La società ha una storia lunga e complicata: fu costituita nel 1871 per la bonifica di laghi, l’acquisto di paludi e terreni nelle vicinanze di Ferrara e in altre località del Regno d’Italia e per la costruzione e l’acquisto di canali, corsi d’acqua, lavori d’irrigazione, moli, scali, ferrovie, strade e fabbricati. La proprietà fondiaria della società crebbe sino a superare, nel 1929, i 25 mila ettari. Nel 1942 la Banca d’Italia divenne il maggiore azionista di Bonifiche Ferraresi, che nel 1947 fu quotata in borsa. Dopo una serie di passaggi di proprietà, oggi Bonifiche Ferraresi con i suoi oltre 11 mila ettari è la più grande azienda agricola nazionale e il cuore di un gruppo articolato che fa capo alla holding BF spa che rappresenta il primo e unico polo agroindustriale quotato in borsa, e che vede come principali azionisti Sergio Gianfranco Dompè, l’amministratore delegato Federico Vecchioni con il suo club deal Arum e la Fondazione della Cariplo. Il gruppo BF Spa comprende molte partecipazioni in imprese italiane del settore agricolo e alimentare, tra cui Cai Consorzi Agrari d’Italia, la Società Italiana Sementi, la BF AgroIndustriale, la Società Ghigi 1870, la Progetto Benessere Italia (commercializza e produce integratori alimentari a marchio Matt), BIA (leader del couscous 100% italiano) e IBF Servizi. Utilizzando un’immagine legata al mondo agricolo, si potrebbe paragonare il gruppo BF ad un albero che affonda le radici nella terra, cresce trasformando i suoi nutrienti in frutti che ore attraverso i suoi rami. Il Gruppo BF si inserisce nei grandi cambiamenti che stanno investendo il mondo agricolo non solo nazionale ma anche internazionale. Il nuovo capitolo di BF cominciò quando, nel 2014, Vecchioni costruì una cordata di investitori italiani (finanziari e industriali) e la presenza dei consorzi agrari promossa da Coldiretti, che rilevò, sconfiggendo con coraggio e determinazione importanti investitori stranieri interessati alla terra italiana, il controllo da Banca d’Italia di Bonifiche Ferraresi al tempo controllo da Banca d Italia di Bonifiche Ferraresi, al tempo solo il ricordo per dimensioni di quell’azienda agricola di alcuni decenni prima (4.500 ettari tra l’Emilia-Romagna e la Toscana). Il progetto visionario aveva come obiettivo quello di costruire, da zero, il primo hub agroindustriale del Paese a trazione agricola, completamente integrato con un controllo dell’intera liera dal genoma allo scaffale, no alla tavola dei consumatori, capace di dare stabilità produttiva al Paese, diffondere un’agricoltura sostenibile e tecnologicamente avanzata da nord a sud, isole comprese (e in questo caso è proprio da dire), creare occupazione di qualità attraverso importanti investimenti nella formazione a tutti i livelli e che nel 2022 farà registrare un consolidato superiore al miliardo, ma che ha prospettive di crescita ancora superiori - «tutto questo 7 anni fa non era assolutamente scontato, oggi è realtà» ricorda Vecchioni. «A livello internazionale» spiega poi «negli ultimi decenni si è sviluppato un interesse strategico da parte di molti Paesi per la terra e questo fenomeno ha avuto un’evoluzione inaspettata in particolare in Africa, dove alcuni Stati sovrani hanno fatto incetta di terreni agricoli. Queste politiche non hanno fatto altro che confermare quanto siano importanti le produzioni alimentari e il bene fondiario. Del resto la terra oggi disponibile nel pianeta è di un miliardo e mezzo di ettari, di cui circa 300 milioni di ettari sono irrigui ed è tutto quello che abbiamo per sfamarci». Ma a riportare al centro dell’attenzione il terreno agricolo è anche l’importanza che i consumatori dei Paesi più avanzati attribuiscono alla qualità del prodotto e questo ha provocato una rivalutazione della produzione nazionale a scapito di quella acquistata dall’estero. Diventa così imprescindibile il capitale fondiario disponibile nel proprio Paese. In Italia rispetto alla fotografa scattata da Panorama 40 anni fa la situazione è cambiata profondamente. «Sono rimasti alcuni grandi poli di aggregazione» spiega Vecchioni, «e oggi il gruppo BF è il maggiore ed è quello che è cresciuto di più negli ultimi cinque anni per dimensione sica. Ci sono poi alcune grandi famiglie come i Benetton, alcune compagnie di assicurazione come Generali e Unipol, alcuni investitori istituzionali e il patrimonio pubblico in mano alle Regioni o ad altri enti locali, senza dimenticare i grandi nomi del settore vitivinicolo come Marchesi Antinori. La novità degli ultimi anni è stato il crescente interesse degli investitori verso il capitale fondiario grazie alle masse di liquidità a disposizione». La guerra in Ucraina non ha fatto altro che confermare la correttezza delle scelte strategiche compiute dal gruppo BF, «fondato su una solida base fondiaria nazionale e un controllo della catena del valore a partire dalla disponibilità di terra dove produciamo per le nostre filiere, no alla produzione alimentare e alla distribuzione con i nostri partner. Sotto lo slogan “dal genoma allo scaffale” , insomma, siamo perfettamente in linea con una politica di approvvigionamento alimentare che valorizzi al massimo la produzione nazionale». Il gruppo BF produce nei tre poli in Emilia-Romagna, Toscana e Sardegna frumento duro, mais, riso, soia, ortaggi, pomodori, olive, mele, pere, piante officinali. A questa attività agricola si aggiunge quella zootecnica, quella industriale e quelle della rete dei servizi per le imprese agricole rappresentate da CAI. «In una fase di estrema volatilità dei prezzi delle materie prime e di assoluta incertezza nessun progetto alimentare può essere al sicuro se non avviene con un controllo della filiera n dall’approvvigionamento del prodotto agricolo che lo alimenta. BF è presente sugli scaffali sia attraverso i prodotti sviluppate per le principali Private Label nazionali e internazionali e con un proprio brand Le Stagioni d’Italia sbarcato da pochi anni sugli scaffali dei supermercati. Il marchio Le Stagioni d’Italia sta ottenendo buoni risultati: «Siamo molto soddisfatti, la nostra specificità, la qualità e la tracciabilità dei nostri prodotti sono stati apprezzati dai consumatori: abbiamo fatto registrare un’ottima crescita con margini molto significativi in appena tre anni e mezzo». In futuro il gruppo BF intende ampliare e consolidate la base produttiva fondiaria, potenziare i poli di eccellenza nelle sementi, investire ulteriormente nella filiera alimentare e nella loro autosufficienza energetica, nella chimica verde e poi rafforzare la produzione industriale attraverso acquisizioni nel food ad alto valore aggiunto. In altre parole, acquisto di nuovi terreni e di aziende alimentari di qualità con in parallelo il rafforzamento delle infrastrutture di servizio. «Abbiamo creato un giacimento agricolo ad alta tecnologia che è in grado di trasferire know how in Italia e all’estero, per la prima volta con un unico soggetto che ha dei requisiti industriali e tecnologici senza eguali in Europa, neppure nelle multinazionali. BF oggi rappresenta un polo nazionale ad alta tecnologia applicata e continueremo ad investire in innovazione applicata al comparto agricolo ed alimentare. Perché Terra ed Innovazione sono un binomio imprescindibile per il futuro di tutti in Italia e nel mondo». A tal proposito, il gruppo vuole mantenere un forte radicamento nazionale, ma è in grado di gestire terreni all’estero, senza acquistarli, come già sta facendo in Algeria, Kazakistan, Ghana o in Congo. Insomma, un know-how tutto italiano a disposizione di altri Paesi, senza avere però intenzioni rapaci. 

1992-2001: gli avvenimenti che hanno segnato l’ultimo decennio del XX secolo. Maurizio Belpietro su Panorama il 4 ottobre 2022.

Leggere le pagine di Panorama degli ultimi 6o anni è una lezione di storia in pillole. Antonella Matarrese, collega incaricata di scavare insieme a Luca Bulli nell’archivio di Panorama per ritrovare i migliori articoli della nostra storia, ogni tanto entra nella mia stanza con lo sguardo del gatto che ha appena acchiappato il sorcio. Invece di un ratto Antonella stringe tra le mani una vecchia edizione del nostro settimanale con un servizio esclusivo, di cui però nessuno ricordava più l’esistenza. A volte si tratta del testamento di Martin Luther King prima di essere ammazzato a Memphis, nel profondo Sud dell’America. Altre volte di un’inchiesta sull’lslam, che a metà anni Sessanta già anticipava tutto ciò che poi avremmo visto, ovvero la trasformazione di una fede in una concezione integrale della vita. Oppure di un’intervista a Giorgio Armani, che per Panorama si improvvisa modello da passerella, indossando per la nostra rivista i capi da lui stesso disegnati. Sì, a forza di scavare nella miniera di oltre tremila numeri da collezione, Matarrese mi porta ogni volta una pepita d’oro e un pezzo di storia. Dalle bobine segrete registrate da Nikita Krusciov, l’uomo che succedette a Iosif Stalin nella guida dell’Unione sovietica, al colloquio con Mikhail Gorbaciov, l’uomo a cui 35 anni dopo toccherà il compito di liquidare l’Urss.

Sì, le raccolte di Panorama sono straordinarie e sfogliandole anno dopo anno si vede scorrere davanti ai propri occhi le vicende e i protagonisti che hanno segnato il mondo. Da Golda Meir, la premier israeliana che inseguì i terroristi che cinquant’anni fa fecero strage tra gli atleti di Tel Aviv a Monaco, a Fidel Castro, colui che per mezzo secolo ha rappresentato la spina comunista nel anco degli Stati Uniti. Da Padre Pio alla crisi del pudore (con una Jane Fonda nuda in copertina). Dalla pillola anticoncezionale agli allegri miliardi del calcio. Cronaca e costume, politica e vita moderna: come nessun altro giornale Panorama ha rappresentato l’evoluzione della società, da quella italiana a quella internazionale. Sfogliando le vecchie edizioni del passato che mi porge Antonella vedo anticipati giudizi che poi si dimostreranno azzeccati e lungimiranti, come ad esempio quello contenuto 22 anni fa in un servizio sulla Russia. Vladimir Putin vi appare molto più giovane. Un’immagine scialba che lo fa sembrare insignificante, ma il titolo spiega tutto quel che verrà: «Zar Vladimir e il governo del mondo». Dal conflitto nell’ex Jugoslavia al primo emirato arabo di Al Qaida, si capisce che troppe volte abbiamo sottovalutato dei fenomeni e spesso poi ne siamo stati travolti. Leggere le pagine che abbiamo raccolto è quasi una lezione di storia in pillole. Del resto, questa è la missione di un grande giornale come Panorama: spiegare i fatti senza inseguire la cronaca giorno per giorno, ma fornendo una chiave di lettura di ciò che sta accadendo.

Conad, da 60 anni pensa alle persone Il Consorzio Nazionale Dettaglianti compie 60 anni, una storia fatta di relazioni con le comunità delle varie città, di progetti per il raggiungimento di un rapporto tra qualità e prezzo che non teme confronti sul mercato, ma «soprattutto di attenzione alla sostenibilità e quindi alla salute e al benessere del cliente», come racconta l’amministratore delegato. di Loredana Tango Con un progetto di business legato alla comunità, nel 1962 alcuni commercianti fondano Conad, per riunire sotto un unico nome un gruppo di piccoli dettaglianti, desiderosi di emanciparsi dal potere dei grossisti e dell’industria di marca: nasce così il 13 maggio di quello stesso anno il Consorzio Nazionale Dettaglianti, conosciuto con l’acronimo di Conad. Al nome del marchio nel 1971 viene affiancata la Margherita, un simbolo semplice e gentile, fortemente riconoscibile da Trieste a Palermo, sinonimo di qualità dell’offerta e di convenienza nella spesa. Da quella data sono passati 60 anni e Conad è diventata l’insegna leader della distribuzione italiana che a oggi può vantare 3.839 punti vendita, inclusi concept store e aree di somministrazione, raggiungendo una quota di mercato del 15,07 per cento del totale Italia e del 23,47 nel canale dei supermercati (fonte: GNLC, II semestre 2021). «Un risultato che evidenzia quanto il Sistema Conad sia un punto di riferimento importante per gli 11,4 milioni di famiglie che ogni settimana scelgono la nostra insegna per fare la spesa» sottolinea Francesco Pugliese, a.d. di Conad. Può evidenziare le peculiarità progettuali di tale successo? Dal 2013 Conad ha adottato lo slogan «Persone Oltre le Cose», una frase ricca di senso che rappresenta il nostro modo di fare impresa. In 60 anni di storia abbiamo registrato una crescita significativa, no a conquistare la leadership di mercato in Italia grazie al nostro essere Movimento e Sistema, coniugando impegno sociale e crescita economica, e realizzando una visione ambiziosa: essere un’organizzazione di imprenditori dettaglianti indipendenti che soddisfa al meglio le aspettative dei clienti e che ha un primario ruolo economico e sociale nelle Comunità in cui opera. La parola chiave alla base della crescita è «insieme», sette lettere che racchiudono il valore imprescindibile dell’operato quotidiano del Consorzio, delle cooperative, degli oltre 2.200 soci e 72 mila collaboratori. Come sono organizzati i canali distributivi di Conad? Conad è l’unica realtà della distribuzione moderna con un’offerta che copre tutti i canali distributivi. Un sistema di insegne che punta, dal format di prossimità all’ipermercato su scala maggiore, a rispondere alle esigenze del consumatore, sia per quanto riguarda qualità dell’offerta che per convenienza e assortimento. Questo sistema multicanale è costruito su un’offerta ampia e diversificata, capace di rispondere ai bisogni e alle richieste sia delle famiglie tradizionali che dei clienti con nuovi stili di vita e diverse abitudini di spesa. È la stessa missione che si pongono i concept Conad. Distributori di benzina, dal 2005, le parafarmacie, dal 2006, gli ottici, dal 2010, i pet store, dal 2015. Forti di questi 60 anni, quali i vostri progetti e strategie per il futuro? Abbiamo in programma un piano di investimenti triennale, no al 2024, da 2,08 miliardi di euro destinati allo sviluppo di quattro pilastri strategici: quello della rete multicanale di cui abbiamo appena parlato; quello della digitalizzazione con una piattaforma per la gestione dell’e-commerce e per lo sviluppo di un’ampia gamma di servizi per alimentazione, persona, famiglia e casa; il pilastro della sostenibilità, insita da sempre nel modo di fare business di Conad che si concretizza con il progetto «Sosteniamo il Futuro», la cui strategia è stata ulteriormente amplificata dalla costituzione di Fondazione Conad ETS, per mettere a fattor comune le iniziative di sostenibilità sociale e ambientale sostenute dalle Cooperative e dai soci sui loro territori di riferimento, valorizzandole e sviluppandone di nuove con un respiro nazionale; infine, abbiamo il pilastro dei prodotti a marchio. Protagonisti di un’eccezionale performance negli ultimi 10 anni, con un fatturato più che raddoppiato: da 2,2 a 4,8 miliardi. Dal momento che avete la possibilità di monitorare il Paese reale, come vede la situazione attuale? Ci stiamo addentrando in una stagione che sarà critica e paradossale, in cui la salsa di pomodoro costerà meno della bottiglia che la contiene e della capsula che la chiude.

Sono tante e diverse le filiere in difficoltà, molte delle quali sono le cosiddette industrie energivore, a cui in questo momento non conviene lavorare. Non è un caso che la cassa integrazione sia aumentata del 45 per cento ad agosto. Anche la distribuzione è un’industria energivora, ma è un settore che non si può permettere di chiudere, e in Italia è fatto da migliaia di Pmi a bassa capitalizzazione che rischiano di non sopravvivere a questo stress. Servono interventi a sostegno immediati, perché il commercio da solo vale i due terzi del nostro Pil. Che cosa suggerirebbe? Non si può scaricare sui consumatori tutti gli aumenti, causerebbe nuova inazione, diminuendo i volumi di vendita. Una prima boccata di ossigeno potrebbe derivare da un credito di imposta per almeno il 50 per cento e generalizzato, unito alla proroga della rateazione delle bollette. Un provvedimento che avrebbe come copertura l’extra gettito Iva determinato dall’aumento dei prezzi al consumo, cui si aggiunge la tassa sugli extraprofitti del settore energetico. Ma voi cosa fate di concreto per aiutare i vostri clienti, le famiglie che non arrivano alla fine del mese? Conad assorbe parte dell’aumento dei costi per supportare i clienti e dare loro la garanzia di una spesa completa, conveniente e sicura. Lo fa con «Bassi e Fissi», un’iniziativa concreta che portiamo avanti dal 2013, offrendo nei punti vendita un paniere di prodotti indispensabili per le famiglie a prezzi ribassati con una qualità che non teme confronti. Nel 2021 sono oltre 700 i prodotti del paniere, di circa 140 categorie merceologiche, che hanno garantito un risparmio alle famiglie. L’iniziativa per noi rappresenta un piano strutturale a sostegno del potere d’acquisto delle famiglie, che rinnoviamo in un periodo in cui l’inazione sta condizionando i consumi degli italiani. Che cosa si aspetta dal nuovo governo? Ritengo che sia arrivato il momento di dare una direzione all’Italia in tema politiche energetiche. Per esempio, facendo ancora di più sulle rinnovabili, su cui siamo già tra i migliori, e lavorando per l’efficientamento energetico del Paese, risparmiando energia e allo stesso tempo trovando nuove vie di approvvigionamento per il gas. E separando il suo prezzo da quello dell’energia. Nel Paese delle rinnovabili questa connessione è infatti un controsenso.

Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 27 Settembre 2022.

Caro Aldo,

in una risposta a un lettore lei parla di «odio al Piemonte e spappolamento culturale della città». Può spiegarsi meglio? Sono d’accordo con lei che per diversi decenni Torino è stata una fucina di fervore intellettuale, politico, artistico, industriale senza eguali. Ma perché parla di odio e spappolamento culturale? Vorrebbe dire che l’attuale impoverimento culturale della città è frutto dell’odio verso i suoi abitanti?

Giancarlo Sallier de La Tour

Caro Giancarlo,

Ricorderò sempre quando Pasquale Squitieri, il regista di «Li chiamarono… briganti!», mi disse sul divano di casa Craxi ad Hammamet dove facevo il mio lavoro di cronista: «Io odio il Piemonte». Il Piemonte ha fatto l’Italia, e a lungo ha esercitato sull’Italia una certa egemonia economica, politica, militare, culturale; non sempre con buoni esiti. Ma insomma i Savoia parlavano dialetto piemontese, compreso Vittorio Emanuele III che era nato a Napoli e regnava a Roma. In dialetto piemontese si tenne il consiglio di guerra alla vigilia di Caporetto: Cadorna, Capello, Caviglia, Badoglio, Cavallero presagivano la sconfitta ma, per dirla con Badoglio, «se la davano a intendere gli uni con gli altri», illudendosi di poter fermare i tedeschi; la fine è nota. Però non è sempre finita malissimo. Erano piemontesi i capi della destra storica, i Cavour e i Quintino Sella, e pure quelli della sinistra liberale, Michele Coppino e Giovanni Giolitti, che diedero all’Italia la scuola pubblica e il suffragio universale. A Torino sono nati il cinema e la televisione italiana, l’automobile e la moda. Erano piemontesi di nascita o di formazione i capi del partito comunista: Gramsci, Togliatti, Tasca, Secchia, Terracini. Erano piemontesi i capi militari della Resistenza: il generale Raffaele Cadorna, il generale Giuseppe Perotti fucilato al poligono del Martinetto con i suoi uomini, il colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo trucidato alle Ardeatine, Ferruccio Parri «Maurizio», Luigi Longo «Gallo», Giovanni Pesce «Visone», Enrico Martini «Mauri», Edgardo Sogno «Franchi». Avevamo santi veri e santi laici, don Bosco e Piero Gobetti, don Cottolengo e Norberto Bobbio, Piergiorgio Frassati e Alessandro Galante Garrone, e poi Luigi Firpo e Augusto Del Noce, Adriano Olivetti e Vittorio Valletta, Giovanni Agnelli e Rodolfo Debenedetti, Michele Ferrero e Sergio Pininfarina, Carlo e Primo Levi, Vittorio Foa e Umberto Eco, Cesare Pavese e Giovanni Arpino, Giampaolo Pansa e Giorgio Bocca, Carol Rama e Fernanda Pivano, Rita Levi Montalcini e Natalia Ginzburg. Oggi il centro di Torino è bellissimo, il barolo è sempre più buono, e signore gozzaniane mangiano le paste nelle confetterie restaurate del centro. Ma la guerra civile che seguì al Risorgimento non fu vinta dai bersaglieri; fu vinta dai briganti amati da Squitieri. E l’Italia di oggi somiglia più a quella dei Borbone che a quella di Camillo Benso conte di Cavour.

Giovanni De Luna per "la Stampa" il 17 settembre 2022.  

I muri hanno parlato. Per tutto il '900 scrivere sui muri è stato uno dei principali strumenti per gridare idee, rabbie, speranze, desideri e frustrazioni. Sui muri venivano incollati anche i manifesti che a quelle grida davano una forma, rinchiudendole in un formato standard, 70x100 centimetri, e arricchendole con una immagine eloquente almeno quanto il testo al quale si accompagnava.  

E proprio ai manifesti politici che quei muri «facevano parlare» Edoardo Novelli ha dedicato il suo nuovo libro, Manifesti politici, storie e immagini dell'Italia repubblicana (Carocci, pp. 264, 24): sono 100 e attraversano tutta nostra storia a partire dal 1946; un percorso in cui la suggestione delle immagini cattura lo spirito del tempo, restituendoci il sapore di una politica che si lascia guardare con un velo di nostalgia. 

Ognuna delle fasi che hanno scandito la nostra storia repubblicana viene riproposta con il proprio linguaggio, in una carrellata in cui le invettive reciproche che arroventavano la Guerra fredda lasciano il posto alla fantasia sfrenata degli «anni '68» per arrivare fino agli slogan «pubblicitari» che accompagnano l'iconografia dell'Italia «da bere» degli anni 80: anticipando così la grande slavina di Tangentopoli e della crisi istituzionale che provocò lo sconquasso del biennio 1992-1994. 

Il percorso, però, propone anche impennate interpretative che rompono la crosta del puro «rispecchiamento» e, in qualche caso, sottolineano alcuni nodi storiografici raccontandoli con uno stile tanto seduttivo quanto efficace.  

È così, ad esempio, per il tema della «continuità» tra fascismo e Italia repubblicana, una questione sulla quale si è acceso un dibattito storiografico affollato da interpretazioni contrastanti: da un lato chi sottolineava nell'avvento della democrazia e del pluralismo politico i segni di una drastica rottura con il ventennio mussoliniano; dall'altro chi enfatizzava gli aspetti sociali, istituzionali e culturali di una continuità che aveva visto l'Italia ereditare dal passato strutture, quadri mentali e assetti di potere, transitati intatti attraverso il crollo del fascismo per riciclarsi senza molta fatica nel nuovo Stato repubblicano. 

Novelli ci offre un esempio folgorante della continuità, pubblicando due opere firmate da Manlio D'Ercoli, un illustratore già molto attivo durante il Ventennio: il manifesto fascista del 1942 (dedicato alla Gioventù italiana del Littorio) e quello usato dalla Democrazia cristiana nel 1946 (nella campagna elettorale per la Costituente e per il referendum Monarchia/Repubblica) sono identici, riproducono lo stesso giovane che però la propaganda democristiana ha svestito della camicia nera (diventata azzurra), sostituendo anche il fucile modello '91 che lo affiancava con i più rassicuranti simboli del lavoro contadino (la zappa e la vanga). 

Ma i manifesti proposti da Novelli non si limitano a recepire lo scontro ideologico o i temi politici che caratterizzano le varie campagne elettorali. Così colpisce, in pieno boom economico, l'irruzione, nel mondo solitamente plumbeo della propaganda del Pci, di un esplicito riferimento a «Volare», la canzone (Nel blu dipinto di blu) di Migliacci e Modugno che nel 1958 stravinse il Festival di Sanremo, mandando in soffitta definitivamente il sentimentalismo dolciastro di Nilla Pizza e Claudio Villa: il manifesto comunista affisso sui muri per le elezioni politiche proprio del 1958 («Troppo in alto, dal blu dipinto di blu facciamolo scendere giù») prende di mira Fanfani e la DC, strizzando l'occhio alla novità di una musica (rhythm and blues) molto americana. 

E colpisce ancora di più la dimensione colta del linguaggio del movimento studentesco («Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace») che si avvale di una citazione di Tacito in un manifesto pacifista che certifica le caratteristiche universitarie del suo retroterra culturale. 

L'aspetto più suggestivo della raccolta è quello che evidenzia il progressivo affievolirsi della capacità della politica di imporre il proprio linguaggio (mutuato dai programmi e dalle ideologie che ispiravano i partiti novecenteschi) insieme con la crescita costante di un mercato che - attraverso la pubblicità - è diventato sempre più invasivo, fino a sostituirsi alla politica (e siamo già alla fine del '900) nel definire i comportamenti e le scelte esistenziali degli italiani. 

In alcuni casi il collegamento pubblicità-propaganda politica è esplicito; in altri è mediato dall'uso di altri linguaggi come i fumetti (con firme di autori famosi, da Crepax a Jacovitti); in altri ancora sfrutta (la Forza Italia di Berlusconi) la seduttività degli slogan elaborati dal marketing.  

Gli ultimi esemplari ci introducono infine alla stagione populista della nostra politica che significativamente parte dai manifesti leghisti degli anni 90 («Lumbard tas»), improntati a un vittimismo in quella fase vincente, passando attraverso l'«Italia dei valori» di Di Pietro e culminato nella vertiginosa ascesa elettorale dei «5 stelle».  

Nel frattempo, però, il manifesto politico ha perso la sua tradizionale incisività e l'avvento dei social ha fatto il resto. Oggi i muri tacciono, in un silenzio rotto solo da enormi cartelloni pubblicitari fatti per essere guardati non più dai militanti e dagli elettori novecenteschi ma dai consumatori e dai frequentatori del web. Un passaggio di testimone è avvenuto.

Lucia Zampieri, che ridà un’identità ai soldati morti nella Grande Guerra: «Ho ricostruito 3.300 storie. Il più giovane aveva 15 anni». Stefano Lorenzetto su Il Corriere della Sera il 30 Agosto 2022. 

Lucia Zampieri cerca di notte i documenti d’archivio per ricostruire le storie dei morti nella Prima Guerra Mondiale: «Tra le vittime anche 34 donne» 

Nel sito allestito per il 150° anniversario di fondazione degli alpini, che sarà celebrato il 15 ottobre a Napoli, il suo nome non compare. Idem se digiti «Lucia Zampieri» nella home page dell’Ana: «Nessun risultato per la tua ricerca». Non c’è da stupirsi. 

Questa veronese di 44 anni è nota solo come «la Lucia degli alpini» o «la cacciatrice di anime». Sono due soprannomi che si è guadagnata sul campo. Una nemesi sorprendente: nessuno meglio di lei sa cercare i caduti ignoti o dimenticati della Grande Guerra, nessuno più di lei sa scovare le connessioni per ricostruire dove e come morirono. Da Lugo di Valpantena, il paese di residenza, la sua fama si è estesa a tutta Italia. Le bastano solo nome e cognome per rintracciare ruolo matricolare, dati anagrafici, estratto dai registri di morte, luogo di sepoltura. 

La vittima più giovane cui ha restituito un’identità aveva meno anni dei suoi due figli: appena 15. «Si chiamava Giulio Sangiuliani, nato a Dubino, in Valtellina, il 15 luglio 1903. Era operaio del Genio militare, Prima armata. Morì di malattia a Bosco Chiesanuova, 15 chilometri da casa mia, il 7 dicembre 1918». Fino a ieri era solo uno dei 3.989 caduti onorati dal 1935 con una lapide nel Cimitero Monumentale di Verona, nel tempio ossario che Umberto II di Savoia inaugurò 11 anni prima di diventare il Re di maggio. 

Lucia Zampieri ha già ricostruito le storie di 3.300 di loro. E non smette. Fa tutto da sola, fino alle 2 di notte, mentre marito e figli sono a dormire. Così come, sempre da sola, partecipa a tutte le adunate nazionali degli alpini.

Mai stata molestata dalle penne nere?

«No, anzi! Al raduno di Treviso del 2017 mi ero persa. Due alpini m’indicarono la strada per la cittadella militare. Il più anziano mi porse un sacchetto: “Tosa, prendi! È l’ultimo pezzo”. Era nocciolato al cioccolato bianco. Non posso accettare, replicai. “Insisto! È buono”. Ci ho ricavato un racconto che mi ha fatto vincere la prima edizione del premio letterario Michele D’Auria. Mi sarà consegnato durante le celebrazioni per la fondazione del Corpo degli alpini, nato il 15 ottobre 1872 con un regio decreto firmato da Vittorio Emanuele II a Napoli».

Suo marito non trova nulla da ridire?

«All’inizio era perplesso. Da giovane rifiutò il servizio militare, era obiettore di coscienza a Parma. Alla fine ha capito. La mattina gli dicevo: vado in trincea».

E dove andava?

«Sulle Prealpi venete. Partivo dopo aver portato i figli a scuola. Nel 2014 a malga Lessinia m’imbattei in un soldato della Grande Guerra: divisa di panno verde, cappello con la penna da alpino, fucile. Si meravigliò del mio stupore: “Non ha mai visto un soldato del ’15-’18?”».

Beh, mi sarei meravigliato anch’io.

«Era Luca Zanotti, un rievocatore del gruppo storico Sesto reggimento alpini, battaglione Verona. Aspettava una scolaresca per condurla a visitare le trincee. Chiese: “Vuole vedere il ridotto del Piocio?”. E mi accompagnò a perlustrarlo».

Si chiama così per via dei pidocchi?

«Lo pensavo anch’io. Invece si tratta di un malapropismo, una storpiatura di Pel d’occhio. Era un tratto del sistema difensivo che cominciava a Sega di Ala, in Trentino, attraversava il gruppo del Carega e arrivava alla seconda linea del fronte a Recoaro. Da lassù lo sguardo dei soldati spaziava su tutta la pianura veneta».

E così diventò «cacciatrice di anime».

«Zanotti mi fece conoscere Giorgio Sartori, coordinatore del centro studi Ana, che stava cercando notizie del nonno materno, Florindo Vedovato, nato a Camposampiero nel 1893 e disperso in guerra. Il congedo era stato ritrovato incollato sotto il comodino della camera di sua nonna, finito dal robivecchi».

Da dove muovono le sue ricerche?

«Solo da un nome e un cognome. Non c’è nient’altro sulle lapidi dei sacrari italiani. Prima della pandemia passavo intere giornate all’Archivio di Stato. Ho frequentato anche l’Ufficio storico dell’Esercito a Roma».

Ma non esiste l’albo d’oro su cadutigrandeguerra.it per questo? «Sì, però molti dati anagrafici sono sbagliati, incompleti o contraddittori. Meglio Onorcaduti del ministero della Difesa, che registra le salme sepolte nei sacrari. Serve un incrocio certosino tra fronti di guerra e dati anagrafici. Bisogna lavorare con l’intuito e la fantasia su fonti e documenti diversi».

Mi faccia un esempio.

«Giovanni Piccini. Nell’albo d’oro vi sono cinque caduti con questo nome, un alpino e quattro fanti. Mi sono concentrata sul primo. A Povoletto, nell’Udinese, dov’era nato il 30 gennaio 1888, gli hanno dedicato il gruppo Ana. Viene qualificato come soldato, morto per malattia il 30 novembre 1918 a Modena».

Invece?

«Dai documenti che ho rintracciato nell’archivio del Comune di Verona risulta che era un sergente, deceduto il 12 agosto 1916 in uno degli ospedali militari della città, e qui sepolto nel Cimitero Monumentale. Fu decorato con medaglia di bronzo al valor militare. Eppure per l’Istituto del Nastro azzurro ebbe la medaglia d’argento. La motivazione recita: “Con intelligente e sereno ardire, primo fra i primi, si slanciò all’attacco di una forte trincea, attraverso il reticolato nemico. Ferito una prima volta, persistette nel suo ostinato proposito, finché, per una seconda ferita, dovette allontanarsi”. L’eroico episodio avvenne sul monte Forno, nelle Alpi orientali, il 6 luglio 1916».

La sua famiglia è mai stata toccata dalla guerra?

«Angelo, il nonno paterno, era alpino. Durante l’ultimo conflitto mondiale stava per andare in Russia con l’Armir. Una figlia si ammalò gravemente: era in fin di vita, così il padre ottenne di rivederla. Lei guarì all’improvviso e lui si salvò dalla tragica ritirata del Don. Invece uno zio di mia madre, Enrico Zanini, morì in combattimento a Postojalyj il 22 gennaio 1943. Era nel Sesto alpini. Ho cercato invano i suoi resti. La parola “disperso” non rende l’idea. È che di lui non sappiamo più nulla. Come se non fosse mai esistito. Non c’è dolore più grande».

Serve una tomba su cui piangere.

«Ho ancora impressa nel cuore la sofferenza provata andando a intervistare il figlio di Aldo Bellamoli, a Stallavena. Suo padre era tornato vivo dal Don, a differenza dell’amico Aldo Zanini di Lughezzano, di cui non si ebbero più notizie. Bellamoli era partito per la Russia il 28 luglio 1942. Era furiere, con il triste compito di tenere il conto dei dispersi e dei caduti. A Logowje si tolse per la prima volta gli scarponcelli chiodati da alpino: insieme con le calze, vennero via anche l’unghia dell’alluce destro e brandelli di carne nerastra. Le donne russe gli furono madri e sorelle: lo accolsero nelle loro isbe, divisero con lui il fuoco e il poco cibo. Fu così che riuscì a rimettersi in cammino verso la patria lontana. Bellamoli contribuì a far recuperare parecchie salme di soldati italiani, di cui rammentava i luoghi di sepoltura. Ricordo i suoi silenzi, i suoi occhi lucidi. Da un incontro così, esci diversa».

Chi si rivolge a lei?

«I morti bussano alla mia porta nei modi più impensati. Talvolta sono vivi».

Non credo d’aver capito.

«Nel 2020, sei alpinisti ritrovarono una piastrina di carta racchiusa in un guscio metallico. Era in una baracca diroccata sul monte Cristallo, a 3.434 metri di quota, nel massiccio Ortles-Cevedale. Durante la Prima guerra mondiale, da lì passava il confine tra il Regno d’Italia e l’Impero austroungarico. Ricevetti la segnalazione da Stefano Faifer del Museo vallivo Valfurva. Il numero di matricola pareva essere 13.655, ma era semicancellato dalla neve e dal tempo. Si leggeva solo “Giuseppe, figlio di Giuditta”, niente cognome, e “1898, Castion Veronese”. Dopo due anni di ricerche, ho scoperto che apparteneva a Giuseppe Pietropolli, nato il 21 luglio 1898, partito per il fronte nel 1917 con il Sesto alpini, poi trasferito in fanteria e tornato a casa sano e salvo nel 1920, in congedo illimitato».

Le sue ricerche sono sempre coronate da successo?

«Riesco a trovare una risposta nel 90-95 per cento dei casi».

L’indagine più difficile qual è?

«Quella che fallisce. I morti senza tomba li tengo tutti in bacheca. Ci penso sempre. Avevo promesso a Teresa Scardoni, nipote di un soldato disperso, che avrei saputo dirle qualcosa. Non ci sono riuscita. Purtroppo molti militari rimasero insepolti perché magari i loro corpi furono distrutti da un’esplosione».

Non è stanca di tutto questo?

«Ci sono momenti in cui la ricerca diventa dolore. La morte di tanti minorenni ti spacca il cuore». (Si commuove). «Però non sono stanca, solo sconsolata».

Almeno le donne furono risparmiate dalla fornace della Grande Guerra. «Non è proprio così. Ho trovato le origini di Giuseppina Orlandi, infermiera volontaria. Era nata a Orvieto il 7 febbraio 1885. Morì a Verona il 7 ottobre 1918, per malattia. Nell’albo d’oro nazionale ve ne sono altre 18, come lei, decedute mentre assistevano i soldati feriti, la stessa fine di 12 infermiere professionali e 3 suore».

Che cosa sanno della guerra i suoi figli adolescenti?

«Conoscono quella dei libri di scuola. Io gli racconto un’altra storia, fatta di madri che perdevano ragazzi della loro età».

Dove sono finiti i morti in guerra?

«Io li vedo come anime vaganti, inquiete. Esseri indifesi, strappati alle famiglie. Spero che riposino in pace».

È angosciata dal conflitto in Ucraina?

«Spaventata. La guerra è diventata un’altra cosa. Oggi è tutto interconnesso: il gas, il petrolio, il grano, le terre rare, le centrali nucleari, le bombe atomiche... Temo un collasso generale. Sarebbe un’estinzione. Tutti dispersi, stavolta».

Marcantonio Bragadin, il martire di Famagosta. Marcantonio Bragadin, generale veneziano, fu l'eroe della difesa di Famagosta contro l'invasione turca nel 1571. Al termine della quale subì un drammatico martirio. Andrea Muratore l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

La riscossa cristiana nella sanguinosa battaglia navale di Lepanto del 7 ottobre 1571 ebbe il suo primo padre in Marcantonio Bragadin, martire di Famagosta. Il comandante veneziano della piazzaforte assediata e espugnata dagli ottomani difese eroicamente per quasi un anno la roccaforte della Serenissima a Cipro, facendo guadagnare tempo a Spagna, Impero austriaco e repubbliche italiane per consolidare la propria forza marittima; alla guida di forze trenta volte inferiori agli attaccanti frustrò i tentativi di penetrazione delle truppe del Gran Visir Lala Mustafa e cagionò loro perdite immense; dopo la caduta della città e la resa, fu brutalmente ucciso dagli ottomani, che ruppero il patto d'onore stipulato con i veneziani dopo la conquista di Famagosta e con la sua morte fornì all'alleanza cristiana il collante morale e politico per trovare la forza per vendicare nel mare di Lepanto le mosse del Gran Turco.

Bragadin, difensore di Famagosta

Nato nel 1523 nella città lagunare, Bragadin entrò nei ranghi militari della Serenissima poco più ventenne. Dopo una lunga gavetta sulle navi che incrociavano da e verso lo Stato da Mar, l'impero veneto d'Oltremare, acquisì una grande perizia e conoscenza della geografia e degli equilibri politici del Levante veneziano, che aveva in Cipro la sua perla. Soprattutto, e questo si sarebbe rivelato decisivo nella sua carriera, divenne esperto in artiglierie all'avanguardia e nell'arte della gestione delle fortificazioni.

Anche per questo, dopo una lunga carriera in cui non aveva mai avuto occasione di guidare truppe dal fronte, nel 1569 il Senato veneziano gli conferì la carica di governatore di Famagosta in previsione dello scontro con l'Impero ottomano del sultano Selim II.

Venezia e Turchi scendono in guerra

Tra il 13 e il 14 settembre 1569 l'arsenale di Venezia fu sconvolto da un'esplosione che per il doge Pietro Loredan e gli alti dignitari della città lagunare avrebbe avuto alla radice un sabotaggio compiuto da uomini arruolati da Josef Nassì, un ricco mercante ebreo risiedente a Istanbul di origine portoghese, nemico giurato della Repubblica di Venezia, da tempo in pressione sul sultano Selim II affinché si lanciasse alla conquista di tutte le isole dell’Egeo. Pochi mesi dopo Selim pretese da Venezia la consegna di Cipro, per preservare la cui occupazione Venezia pagava alla Sublime Porta un tributo di 8mila ducati l'anno, pena la guerra. Loredan rifiutò, mentre a Famagosta Bragadin iniziava a consolidare la piazzaforte.

Famagosta fu blindata sul modello delle fortezze costruite nella Repubblica di Venezia in aree come Palmanova; Bragadin consolidò le difese della città in previsione dello sbarco turco predisponendo spazi per incursioni a sorpresa e per permettere che ogni componente della piazzaforte potesse ricevere o dare sostegno ad almeno un'altra in caso di assedio o attacco in un settore. 10mila abitanti furono affiancati da 7mila militari della Repubblica di Venezia. Un rapporto notevole, ma decisamente inferiore allo schieramento di truppe ottomane da 200mila uomini che presto avrebbe investito l'isola di Venere. Di fronte al rifiuto veneziano di cedere Cipro, Selim passò all'uso della forza. Nell'estate 1570 Cipro fu invasa e la sua principale città, Nicosia, rapidamente conquistata. La testa del governatore, Niccolò Dandolo, fu portata a Bragadin dagli emissari turchi che si presentarono a Famagosta a inizio agosto del 1570 per chiedere la resa pacifica della città. La risposta fu un netto rifiuto. Lala Mustafa, militare bosniaco ritenuto uno dei migliori generali del Sultano, pose dunque l'assedio.

Bragadin guida la difesa di Famagosta

Per un anno i turchi dettero inutilmente l'assedio a Famagosta. La bombardarono con le artiglierie, tentarono sortite improvvise, provarono a prenderla per fame, la bloccarono dal mare per impedire l'ingresso dei rifornimenti, ma Famagosta sembrava imprendibile. Bragadin faceva e disfaceva. Dall'interno, dirigeva il fuoco di controbatteria, organizzava incursioni notturne di reparti scelti, incendi alle macchine d'assedio ottomane, attacchi ai centri di comando. L'assediante si sentiva, molto spesso, assediato, specie quando all'improvviso, fulmineamente, i cavalieri veneziani uscivano dalla roccaforte, travolgevano i reparti di giannizzeri ottomani e facevano rientro nei ranghi dopo aver seminato morte tra i nemici. Il fide braccio destro di Bragadin, Astorre Baglioni, titolare della difesa militare della piazzaforte veneziana, contribuì alla difesa gestendo la difesa delle mura, l'opera dei genieri per ricoprire le brecce, la gestione dei rifornimenti.

Bragadin era comandante valoroso sul piano militare ma non mancò di dover prendere decisioni al limite. Anche per la sua guerra personale valse la logica del controllo interno imposta ad ogni assediato. Poco prima della battaglia, metà dei civili della città furono fatti uscire: donne, bambini, anziani furono consegnati alla carità e al rispetto dei turchi, e il loro destino è ignoto. Inoltre, durante la battaglia in città fu fatto circolare un soldo di rame coniato appositamente, a basso contenuto metallifero, per permettere la consegna regolare delle paghe e evitare episodi di sciacallaggio e ruberie interne. Il futuro martire di Famagostasu questo punto di vista, fu draconiano: mantenere l'ordine interno significava permettere a Famagosta di resistere. Un decreto del governatore impose la pena di morte come punizione a chiunque si fosse rifiutato di accettare questa moneta come mezzo di pagamento.

L'esaurimento della resistenza

Nel gennaio 1571, un sostegno insperato alla città assediata venne quando l’audace comandante veneziano Marco Querini, partendo da Creta con sedici galee affrontò e forzò il blocco navale turco, entrò nella rada di Famagosta, sbarcò 1.600 uomini freschi ed evacuò civili e feriti. L'eco della resistenza di Famagosta, nel frattempo, era sfruttato in Europa da Papa Pio V che, ricorda Corrispondenza Romana, "era riuscito a costituire la sua Santa Lega, con la partecipazione dello Stato Pontificio, della Spagna e della Repubblica di Venezia".

Alla lunga fu solo la forza del numero a prevalere. Nonostante 80mila perdite, nonostante continui salassi di truppe dovuti alle incursioni e alle malattie diffuse dai veneti che avevano avvelenato i pozzi, nonostante una crisi di nervi del suo esercito, Lala Mustafà riuscì in primavera a portare a 250mila uomini il suo esercito. Durante l'inverno i Turchi avevano posizionato nuova artiglieria, portando la dotazione complessiva degli assedianti a 85 cannoni più alcuni grossi basilischi di bronzo. Per tre mesi, da aprile a luglio, Famagosta fu bombardata sistematicamente, ma ogni assalto fu rintuzzato finché, non più in grado di resistere, e la Torre Nord, perno della difesa, crollò l'ultimo giorno di luglio. I difensori, che dopo l'incursione di Querini non erano più stati supportati dall'esterno, erano ridotti a mille unità in grado di combattere e l'1 agosto Bragadin chiese la resa della piazzaforte.

Il martirio del governatore

Finì qui l'atto militare ed iniziò la storia umana di tradimento e vendetta. Furibondo per le perdite subite e il danno al prestigio, Lala Mustafà tradì il patto d'onore che prevedeva che i turchi avrebbero risparmiato la vita di tutti i membri della guarnigione veneziana e non molestato la popolazione civile superstite. Il comandante aveva promesso, con un documento firmato, di permettere ai superstiti di lasciare l’isola, imbarcandosi sulle loro navi, “a tocco di tamburo, con le insegne spiegate, artiglieria, arme et bagaglio, moglie e figli” ma il 2 agosto, quando Bragadin e Baglioni giunsero a consegnare le chiavi della città al campo turco, il clima mutò improvvisamente. I veneziani furono accusati di aver ucciso decine di prigionieri turchi, senza alcuna prova portata a riguardo, nella tregua prima della resa; Baglioni, arrestato, fu decapitato seduta stante. Al più illustre comandante, flagello delle truppe ottomane, fu riservato un destino ancora peggiore. Gli furono mozzati il naso e le orecchie e, dal 4 agosto, fu rinchiuso per 12 giorni in una gabbia sotto il sole cocente ricevendo a più riprese richieste di scegliere tra la conversione all'Islam e la morte. Bragadin rifiutò sempre.

Il 17 agosto, come riportato da Nestore Martinengo nella sua relazione, L'assedio et la presa di Famagosta, fu infine portato esanime nel centro della città, frustato, costretto a portare in spalla per le strade di Famagosta una grande cesta piena di pietre e sabbia, incatenato a una colonna e scuoiato vivo da un rinnegato genovese. Mustafa fu presente alla barbara esecuzione e derise l'avversario morente chiedendogli: "Dov'è ora il tuo Cristo? Perché non ti aiuta?". Bragadin morì quel giorno e la sua pelle fu inviata come trofeo di guerra a Istanbul: una mossa che, secondo i cronisti, suscitò la disapprovazione dello stesso sultano Selim II.

Nove anni dopo Girolamo Polidori, cittadino veneziano, l'avrebbe trafugata e riportata a Venezia, ove ora si trova nella Chiesa di San Giovanni e Paolo. Nel frattempo, l'epopea del martire di Cipro si era già diffusa in tutta Europa. E ancora oggi, pensando alla sua resistenza epocale a Famagosta, non si può non pensare che un pezzo della vittoria di Lepanto, tutt'altro che secondario, appartenga a lui. Assieme alla cruciale opportunità offerta all'Europa di invertire la marea montante dell'espansionismo ottomano che rischiava di travolgere tutta l'area del Mediterraneo.

Filippo Ceccarelli per “Robinson – la Repubblica” – 12 settembre 2020

Ebbene, che Roma trovarono i poveri "anticristi" piemontesi? Come a smentire l'anatema che i papalini gli scagliavano addosso, poche ore dopo la breccia di Porta Pia, Edmondo De Amicis, inviato al seguito delle truppe di Cadorna, incontrò alcuni soldati ritrovatisi in ginocchio attorno all'altar maggiore di San Pietro.  

Con sorvegliata meraviglia un bersagliere monferrino dovette riconoscere: «A j'è nen a dije: a l'è un bel travaj!». Più caldo un artigliere lombardo: «Madona! Alter ch'el domm de Milan!». Solo un cavalleggero di Lodi, una volta usciti, ebbe a che ridire sulla facciata della basilica: «Gonfia». 

Fra sorpresa e ingenuità, vai a sapere se il futuro autore di Cuore si rese conto che il XX settembre metteva fine al potere temporale senza nulla togliere alla religione e al Cristianesimo. Ultimo baluardo contro la modernità, il liberalismo e la democrazia, quella Roma che assomigliava a un pezzettino di Medioevo era in realtà un miserevole immondezzaio denso di grandiose memorie, «vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superavano, l'una e l'altro, la nostra immaginazione» (Goethe), e per giunta investito di una missione universale tanto rarefatta quanto ammantata di retorica.

Con il che l'Urbe, pure a entrarci a passo di corsa e con le piume sul cappello, appariva piena di pozzanghere perché non c'era sistema di raccolta delle acque piovane e dappertutto ricolma di rifiuti, con il che irresistibilmente puzzava, pare di grasso e broccoli, anche perché tutti cucinavano all'aria aperta.  

Città urbanisticamente assurda e senz'ordine, attraversata da greggi e mandrie di bufali che risalivano il Tevere, ma solare e perfino ridente pur con tutti i suoi ruderi che giganteggiavano fra orti e palazzi: uno spettacolo di rovina unico al mondo, un immenso cimitero brulicante di vita che qualche anno prima aveva fatto dire a Chateaubriand: «E bella Roma per dimenticare tutto, disprezzare tutto, e morire». 

Nel frattempo va pure detto che le donne romane erano rinomate per la loro bellezza e sensualità, mentre fieri e disincantati apparivano gli uomini, fra i quali si distinguevano parecchi bulli, di cui si trova traccia nel monumento alla plebe di Giuseppe Gioachino Belli come del resto nelle odierne story di Instagram. 

Ma soprattutto, a colpo d'occhio, colpiva a Roma il numero degli straccioni e dei mendicanti, alcuni addormentati sotto antichi archi, colonnati, portoni e pianerottoli. E di nuovo c'è da mettersi nei panni dei pretesi "anticristi" e "buzzurri" ", come pure erano denominati gli occupanti della Città Eterna, come tutti i loro predecessori destinati ad acchiapparne i peggiori vizi.  

E a maggior gloria degli equivoci risorgimentali, vale ricordare che per tanti patrioti Roma era il nome della donna da troppo tempo vagheggiata: «Piegate il ginocchio e adorate questo è Mazzini - là batte il core d'Italia». 

Sennonché, a proposito di sentimenti, la città era anche capitale dei trovatelli, i "proietti", in gran copia esposti alla ruota senza troppo preoccuparsi che poco meno della metà crepava. Il governo pontificio non era un modello di illuminata filantropia. E vero che dei 226 mila abitanti, il cinque per cento costituito da religiosi, circa un terzo viveva di sussidi, elargizioni benefiche ed elemosine; ed è vero pure che l'arcaica e paternalistica macchina amministrativa si preoccupava di mantenere una certa "pace alimentare" garantendo farina e carne sufficienti a impedire rivolte. 

Ma l'ordine sociale oltre ad escludere qualsiasi forma di potere civico e di cariche elettive, era fondato sull'autorità dei parroci, per i quali il mancato adempimento del precetto pasquale era sufficiente motivo di scomunica, a parte lo scarso valore da essi assegnato al" istruzione e alla cultura: «Li libbri num so robba da cristiani,/ fiji pe' carità nun li leggete!» (BelIi).  

Se non bastasse, il Concilio Vaticano I aveva appena proclamato il dogma dell'infallibilità papale, Non solo, ma l’andazzo politicamente retrivo aveva chiamato a Roma, soprattutto dall'ex Regno delle Due Sicilie, una certa quantità di esuli reazionari che si sentivano protetti in quell'estremo lembo di ancien régime. Contro ogni tentazione di modernità l'ascensore sociale appariva legato al mondo ecclesiastico con le sue diramazioni nepotistiche. 

Inutile dire che la religiosità era esteriorizzata, quando non oppressiva, anche se per la verità il voto di povertà ecclesiastico trovava attenuazioni e il celibato accomodamenti più o meno a tutti i livelli. Gli ebrei del Ghetto erano al tempo stesso utilizzati, dileggiati o peggio: nel 1864 l'undicenne Fortunato Con fu sottratto ai parenti e sottoposto a battesimo forzato.  

Una volta l'anno, a Carnevale, la plebe si scatenava rovesciando gerarchie e ruoli e generando per le vie di Roma un caos che è poco definire selvaggio. Le strutture produttive erano poche e quasi primitive: concerie, mulini, frantoi, qualche filanda e saponificio. Modesto il livello degli studi, se si esclude il campo dell'archeologia e dell'antiquaria. Da poco erano partite le ferrovie, con partenza e destinazione Termini, ma i capitali erano per lo più esteri o in mano a parenti di cardinali e monsignori. 

Per non saper né leggere né scrivere uno di loro, il belga De Merode, aveva fatto incetta di terreni con l'idea di aprire a Roma enormi viali sul modello parigino di Haussmann; ma al dunque prevalse l'intento speculativo - a suo discapito occorre dire che De Merode non fu né il primo né, quel che è peggio, l'ultimo autore dei tanti sacchi di Roma.  

All'ombra del potere temporale si era formato un ceto urbano, per quanto lessicalmente identificato come quello dei "mercanti di campagna". Giosuè Carducci, che non aveva troppi peli sulla lingua, designò questa gente: «Una borghesia d'affittacamere, di coronari, di antiquari che vende di tutto, coscienza, santità, erudizione, reliquie false di martiri, false reliquie di Scipioni, e donne vere».  

Secondo il Vate, anche i monsignori e gli abati, ciascun ordine «con mantelline e fogge di ogni colore», comprava e vendeva di tutto facendosi beffe "di tutti". Completava il quadretto un'aristocrazia "di guardaportoni". 

Diversi nobili romani, in effetti, reagirono al gesto di forza piemontese contro il "loro" Papa serrandosi all'interno dei palazzi in segno di lutto e riprovazione. Nel complesso 11 famiglie di antico lignaggio possedevano il 40 per cento del territorio del comune, e altre 14 si dividevano un ulteriore 10 per cento. Andavano a caccia e "magnaveno". 

Per tutti gli altri i piaceri leciti erano abbastanza limitati: il passeggio, le capanne a Ripetta, il bagno al fiume, i limonari nelle piazze, le sempiterne osterie con il vino gessoso dei Castelli. Ai "fedeloni" erano messe a disposizione tante funzioni e cerimonie religiose quante ne poteva allestire un regime a suo modo attento agli spettacoli - «ch'a sto paese, già tutto er busilli - così il solito Belli - sta in ner vive a lo scrocco e fa' orazzione». Come spesso accade in un luogo di troppo lontane memorie, a partire dal XXI settembre 1870 tutto accadde senza che nulla, più o meno, cambiasse. 

«La violenta rivoluzione della città - ha lasciato scritto il grande storico tedesco e luterano Ferdinando Gregorovius - mi appare come la metamorfosi fatta da un giocoliere. Cento cattivi giornali sono cresciuti come funghi e sono strillati in tutte le strade. Un'invasione di venditori e ciarlatani invade le piazze... Roma ha perduto il suo incanto». 

Tre mesi dopo la breccia, il 28 dicembre, il Tevere crebbe di 17 metri, ruppe i fragili argini e sommerse tragicamente un bel pezzo di città. Alcuni degli sconfitti, freschi nostalgici dello Stato pontificio, l'attribuirono a una punizione divina. Altri si adattarono.  

In un'epistola scritta in latino maccheronico da un frate a una sua amica, e scovata in occasione del centenario da Vittorio Gorresio per il suo Roma ieri e oggi (Rizzoli, 1970), si potè leggere: «Vita nostra Romae, inter nos sit dictum, non est malaccia, Per principium et officium nos strillamus, sed francamente parlando vivetur sufficienter bene cum hoc gubernio usurpatore». Amen.

Cosenza e la Calabria nella tragica parabola dei fratelli Bandiera. Il 25 luglio del 1844 i due patrioti veneziani vennero fucilati nel Vallone di Rovito in seguito alla sentenza della corte marziale del Regno delle Due Sicilie. DAVIDE SCAGLIONE su Il Quotidiano del Sud il 25 luglio 2022.

La storia dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera è legata tragicamente e indissolubilmente alla città di Cosenza e, più in generale, alla Calabria. Il 25 luglio del 1844 i due patrioti veneziani vennero fucilati nel Vallone di Rovito in seguito alla sentenza della corte marziale del Regno delle Due Sicilie.

Un capitolo importante del Risorgimento che vide protagonisti i due fratelli nella sfortunata spedizione nel capoluogo bruzio che aveva l’obiettivo di avviare il processo d’unificazione.

DISCEPOLI DI MAZZINI

Figli del barone veneziano Francesco Giulio Bandiera e di Anna Marsich, entrambi divennero ufficiali della Regia Marina austriaca. Giova ricordare che all’epoca la Serenissima era territorio austriaco. Attilio ed Emilio erano però affascinati dal pensiero di Giuseppe Mazzini e propugnavano l’unificazione nazionale individuando nell’Austria, nello Stato Pontificio e nei Borbone i nemici da combattere. Ancor prima di entrare in contatto con Mazzini fondarono la società carbonara Esperia. Il loro era un patriottismo “elitario” che, pur non disprezzandole, poco si fidava delle masse popolari. L’idea, approssimativa e azzardata, dei due fratelli era quella di sollevare il Meridione per poi risalire la penisola. D’altronde uno scontro diretto e frontale con l’Austria sarebbe stato impari e dall’esito prevedibile. Ma, come spesso accadde in quegli anni tumultuosi, il fervore patriottico era caratterizzato da improvvisazione e superficialità. E molti si accorsero, a caro prezzo, che gli ideali poco potevano fare contro le baionette e i cannoni.

LA SPEDIZIONE IN CALABRIA DEI FRATELLI BANDIERA

Da Corfù, dove erano riparati dopo aver disertato, i fratelli Bandiera appresero nel marzo del 1844 della rivolta antiborbonica scoppiata a Cosenza. Nel giugno dello stesso anno partirono per la Calabria dopo aver organizzato alla meno peggio una spedizione composta da circa 15 persone. Tra questi da segnalare la presenza del brigante calabrese Giuseppe Meluso e dell’ambiguo avventuriero corso Pietro Boccheciampe. Sbarcati in segreto in Calabria, nei pressi di Crotone, i fratelli Bandiera si resero però conto che il moto di Cosenza era stato represso nel sangue dalle truppe borboniche e il vento della rivolta aveva cessato di soffiare ormai da diverse settimane.

Ciò nonostante, il manipolo di patrioti decise di raggiungere il capoluogo bruzio per rovesciare Ferdinando II e si diresse verso la Sila dove tuttavia furono accolti con ostilità dalla popolazione locale che li scambiò per briganti.

IL TRADIMENTO

Nel frattempo Boccheciampe, appresa la notizia che non c’era alcuna sommossa a cui partecipare, si dileguò e denunciò i compagni con l’intento di trarne vantaggio (sarà in effetti condannato solo a cinque anni di reclusione). Questa versione tuttavia, in base ad alcune lettere e documenti, è stata recentemente messa in discussione e Boccheciampe potrebbe in realtà non aver tradito i compagni.

Alcune fonti riferiscono che i Bandiera furono traditi addirittura prima ancora di lasciare Corfù in seguito alla delazione del barone Domenico De Nobili.

Quel che è certo è che i patrioti furono catturati dalla polizia borbonica dopo un breve scontro a fuoco nei dintorni di San Giovanni in Fiore. I fratelli Bandiera, Meluso e altri sette compagni dopo essere stati rinchiusi nel carcere di Palazzo Arnone vennero processati davanti all’alta corte marziale e condannati a morte. Gli imputati furono difesi dagli avvocati Cesare Marino, Tommaso Ortale e Gaetano Bova.

LA FUCILAZIONE DEI FRATELLI BANDIERA

La madre dei fratelli Bandiera, Anna Maria Marsich, appresa la notizia della cattura dei figli si recò da Venezia a Cosenza e vide un’ultima volta i figli in uno struggente addio pochi minuti prima dell’esecuzione. All’alba del 25 luglio del 1844 nel Vallone di Rovito i condannati affrontarono il plotone d’esecuzione con coraggio e dignità. Lungo la strada i due fratelli cantarono alcuni versi del melodramma “Donna Caritea”.

Prima di cadere sotto il fuoco dei gendarmi, le loro ultime parole furono il grido: «Viva l’Italia!». Attilio aveva 34 anni, Emilio appena 25.

LA SEPOLTURA

Le ossa dei patrioti, che dovevano esser gettate nella fossa comune dei delinquenti, furono salvate dal prete della chiesa di Sant’Agostino. Durante la rivolta calabrese del 1848, le spoglie, tolte dal nascondiglio, furono seppellite nella cattedrale di Cosenza. Successivamente furono nuovamente esumate dalle autorità borboniche con l’ordine di essere gettate nel Neto.

Di nuovo salvate, furono nascoste in una fossa fino a quando nel 1860 Nino Bixio, giunto a Cosenza con i volontari garibaldini, dette loro nuovamente sepoltura. Finalmente, il 16 giugno 1867 i resti mortali dei Bandiera tornarono a Venezia e furono tumulati nella chiesa dei Santissimi Giovanni e Paolo.

MONUMENTI

Dal 1860 una colonna votiva nei pressi del sito della fucilazione ricorda i due eroi risorgimentali, e dal 1937 è stato dedicato un mausoleo con un altare sul quale sono incisi i nomi dei martiri cosentini e dei componenti della spedizione dei fratelli Bandiera. Il monumento nazionale ai caduti della spedizione dei fratelli Bandiera fu realizzato in località Bucchi a Crotone. La prima pietra fu posta in occasione del centenario dell’Unità d’Italia il 26 marzo 1961, e il monumento fu inaugurato dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat il 21 aprile 1966.

Mario, il punitore dei barbari che salvò Roma. Andrea Muratore il 21 Luglio 2022 su Il Giornale.

Comandante e politico, la figura di Gaio Mario è una di quelle più importanti della storia della Repubblica e in generale di Roma.

Quando si parla della fase finale della Roma repubblicana la figura di Gaio Mario emerge in forma contrastata, elogiata da un lato per il suo ruolo fondamentale come comandante militare e criticata dall'altro per aver contribuito assieme a Silla a scatenare la prima guerra civile del I secolo a.C.

Ma in un certo senso Mario fu l'anticipatore di Giulio Cesare, che peraltro era nipote di sua moglie, in quanto capace di costruire un modus operandi che avrebbe fatto scuola: lo svuotamento graduale delle priorità politiche romane ad opera delle magistrature militari si accompagnò al ricambio della classe dirigente della Res Publica in senso opposto a quello desiderato dal Senato e dalle antiche famiglie romane. Mario era un cosiddetto homo novus, cioè una figura estranea alla tradizione di potere dell'Urbe, proveniente da una famiglia italica che non era inclusa nella nobiltà romana.

Nato ad Arpino nel 156 a.C., Mario seppe fin dalla giovane età distinguersi per il valore militare. Giovane tribuno nell'Assedio di Numanzia in cui Roma sconfisse i Celtiberi nel 134 a.C., fece l'intero cursus honorum fino a diventare legato di Quinto Cecilio Metello nel 109 a.C. per poi giungere alla ribalta della vita pubblica di Roma per merito della propria competenza militare. L'oligarchia dominante fu costretta, suo malgrado, a cooptarlo nel proprio sistema di potere dopo che, peraltro, da console Mario aveva promosso la più imponente riforma del sistema di reclutamento delle forze armate romane, rompendo il vincolo tra censo e arruolamento.

Fu l'inizio del legame tra le legioni dei "Figli di Marte" e l'identità nazionale romana che preservò la Res Publica e la fece durare anche dopo la trasformazione in impero. Poi consolidato durante la sua carriera con una svolta strategica fondamentale: il ruolo decisivo giocato dall'arpinate nel guidare Roma alla difesa contro le invasioni barbariche del I secolo a.C. Su cui poi si sarebbe consolidata la retorica imperiale romana: un movimento incentrato al contempo su espansione e consolidamento. Sul governo dei limes, nella duplice accezione di "territori" e "confini", intesi come capisaldi contro la barbarie.

Quando nel 107 a.C. le popolazioni germaniche dei Cimbri e dei Teutoni invasero i territori romani, iniziò l'epopea di Gaio Mario. Invocato come salvatore della patria, fu eletto console mentre si trovava in Africa nel 105 a.C., mobilitò un esercito ricostruendo la fiducia delle legioni dopo diverse sconfitte degli anni precedenti e iniziò una serie di azioni di presidio contro i popoli stanziati ai confini dell'Italia che facevano scorribande tra Gallia e Spagna. L'obiettivo era costruire le linee logistiche per difendere l'Italia, dare morale alle truppe e convincere i popoli invasori a dividere le forze. Così fu. Per Mario fu possibile affrontare i nemici separatamente e, rintuzzati i tentativi di invasione, sfruttare l'elemento sorpresa. Alle Aquae Sextiae, attuale Aix-En-Provence, Mario sorprese 100mila guerrieri Teutoni separati dai Cimbri e li travolse sfruttando il combinato disposto tra una strategia fortemente aggressiva, volta a colpire le avanguardie degli eserciti nemici prima che si posizionassero, e lo sfruttamento favorevole del contesto geografico meglio conosciuto. I barbari erano più facilmente affrontabili in territorio amico, era il ragionamento di Mario, che alle Aquae Sextiae trionfò lasciando a terra 90mila nemici e l'anno dopo replicò, vicino all'attuale Vercelli, contro i Cimbri, uccidendo 65mila guerrieri. Fu un doppio successo decisivo. L'Italia e la Gallia meridionale furono blindate, per secoli, come avanguardie della Res Publica. Fino all'incursione dei Quadi e dei Marcomanni a fine II secolo dopo Cristo nessun popolo fece più capolino sotto le Alpi. E fino alla fine della storia dell'Urbe molti comandanti, da Ezio a Stilicone, avrebbero attratto in territorio amico gli invasori per batterli sulla scia dell'impeto, del maggior morale e della conoscenza dei terreni favorevoli.

In Giulio Cesare, si fu soliti dire nei decenni successivi, coesistevano molti Gaio Mario, tanto e tale era il valore militare a cui era associato l'homo novus diventato salvatore dell'Urbe a capo di un esercito identificato non più solo con la classe guerriera ma con lo Stato in quanto tale. Uno Stato difeso, espanso, preservato per secoli dall'opera delle legioni. Sempre più universale e proprio per questo autenticamente romano. Mario portò le masse romane nella storia, Cesare e l'epopea imperiale le avrebbero esaltate nell'era in cui il governo si accentrava su singole figure ma, proprio per questo, il peso delle armi, e dunque dei cittadini-soldati, nell'economia del potere romano aumentava. Dalla svolta di Mario che salvò Roma da Cimbri e Teutoni non si sarebbe più tornati indietro.

Facebook: Terroni di Pino Aprile.

Le regioni più industrializzate d’ Italia, prima del 1860, erano la Campania, la Calabria e la Puglia: per i livelli di industrializzazione le Due Sicilie si collocavano ai primi posti in Europa. In Calabria erano famose le acciaierie di Mongiana, con due altiforni per la ghisa, due forni Wilkinson per il ferro e sei raffinerie, occupava 2.500 operai. L’industria decentrata della seta occupava oltre 3.000 persone.

La più grande fabbrica metalmeccanica del Regno era quella di Pietrarsa, (fra Napoli e Portici), con oltre 1200 addetti: un record per l’Italia di allora. Dietro Pietrarsa c’era l’Ansaldo di Genova, con 400 operai. Lo stabilimento napoletano produceva macchine a vapore, locomotive, motori navali, precedendo di 44 anni la Breda e la Fiat.

A Castellammare di Stabia, dalla fine del XVIII secolo, operavano i cantieri navali più importanti e tecnologicamente avanzati d’Italia. L In questo cantiere fu allestita la prima nave a vapore, il Real Ferdinando, 4 anni prima della prima nave a vapore inglese. Da Castellammare di uscirono la prima nave a elica d’ Italia e la prima nave in ferro. La tecnologia era entrata anche in agricoltura, dove per la produzione dell’olio in Puglia erano usati impianti meccanici che accrebbero fortemente la produzione.

L’ Abruzzo era importante per le cartiere (forti anche quelle del Basso Lazio e della Penisola Amalfitana), la fabbricazione delle lame e le industrie tessili. La Sicilia esportava zolfo, preziosissimo allora, specie nella provincia di Caltanissetta, all’ epoca una delle città più ricche e industrializzate d’ Italia. In Sicilia c’erano porti commerciali da cui partivano navi per tutto il mondo, Stati Uniti ed Americhe specialmente. Importante, infine era l’industria chimica della Sicilia che produceva tutti i componenti e i materiali sintetici conosciuti allora, acidi, vernici, vetro.

Puglia e Basilicata erano importanti per i lanifici e le industrie tessili, molte delle quali già motorizzate. La tecnologia era entrata anche in agricoltura, dove per la produzione dell’olio in Puglia erano usati impianti meccanici che accrebbero fortemente la produzione. Le macchine agricole pugliesi erano considerate fra le migliori d’Europa. La Borsa più importante del regno era, infine, quella di Bari.

Una volta occupate le Due Sicilie, il governo di Torino iniziò lo smantellamento cinico e sistematico del tessuto industriale di quelle che erano divenute le “province meridionali”. Pietrarsa (dove nel 1862 i bersaglieri compirono un sanguinoso eccidio di operai per difendere le pretese del padrone privato cui fu affidata la fabbrica) fu condannata a un inarrestabile declino. Nei cantieri di Castellammare furono licenziati in tronco 400 operai. Le acciaierie di Mongiana furono rapidamente chiuse, mentre la Ferdinandea di Stilo (con ben 5000 ettari di boschi circostanti) fu venduta per pochi soldi a un colonnello garibaldino, giunto in Calabria al seguito dei “liberatori”. (Fonte: Regno delle Due Sicilie – La verità che non ci hanno detto).

Quel Mezzogiorno degli antichi riti che affascinò gli antropologi cancellato dal «Boom» economico. Redazione Spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Luglio 2022.

Molti antropologi, fotografi e registi raggiunsero il Sud Italia, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, per cercare di testimoniare valore e densità dei riti, delle tradizioni e dei legami che univano microcosmo e macrocosmo, al di qua e al di là dell’esistente.

Quegli studiosi hanno riportato, attraverso preziosi studi e testimonianze, realtà del Mezzogiorno che l’emigrazione e l’industrializzazione avrebbero ben presto fatto scomparire (e di questo moloto parlerà Pier Paolo Pasolini nei suoi articoli e nei suoi saggi).

Grazie ai documentari di Luigi Di Gianni – come «Magia lucana», «La possessione» e «Grazia e numeri» – , il programma con Edoardo Camurri, «I mondi di ieri», in onda oggi alle 21.10 su Rai Storia, esplora il mondo contadino della Lucania degli anni ‘60, le tradizioni religiose del Salento e le superstizioni di Napoli sulle tracce del magismo studiato dal grande antropologo e storico delle religioni italiano Ernesto De Martino.

In primo piano anche l’universo simbolico entro cui si iscrivevano pratiche di culto e riti paralleli a quelli della Chiesa cattolica e capaci di dare un senso all’esperienza di fatica e dolore del quotidiano.

In studio, con Edoardo Camurri, lo storico delle religioni Marcello Massenzio e l’antropologa Laura Faranda.

Gli studi antropologici del Mezzogiorno sono testimonianze preziose che ancora oggi risultano decisivi per comprendere l’evoluzione storica del Sud.

 "Sono le persone, anche non straordinarie, a fare la grande Storia". Luigi Mascheroni l'1 Luglio 2022 su Il Giornale.

Lo storico racconta la nascita dell’"italianità" tra ’800 e ’900 attraverso otto vite esemplari

S'intitola Otto vite italiane (Marsilio), lo ha scritto lo storico Ernesto Galli della Loggia, e racconta come a fare la differenza, nella Storia, non siano tanto o solo le idee, ma le persone. Capaci, con le loro passioni, le loro sensibilità, i loro limiti o i loro sogni, di «dare forma» al proprio tempo. Una lezione, di uomini e donne di ieri, fondamentale per l'oggi.

Professore: che persone sono quelle di cui racconta la vita? I fratelli Bandiera, Andrea Caffi, Pietro Quaroni, Edda Ciano, Filomena Nitti...

«Uomini e donne che non hanno vissuto davvero da protagonisti la grande Storia, ma hanno costeggiato episodi decisivi nel cammino dell'Italia sulla via della modernità. Le loro sono vicende che dimostrano quanto sia fondamentale il ruolo della personalità nella Storia. E per un Paese che si trova ad attraversare un momento critico, avere come guida Giuseppe Conte o Winston Churchill non è la stessa cosa... La Storia pone le persone davanti a delle scelte, e nei momenti decisivi è importante vedere come il singolo individuo che occupa un posto di rilievo sulla scena pubblica sia capace di reagire: se accetta la sfida, se si impegna a fare valere i suoi sogni e le sue idee... Personaggi come i fratelli Bandiera, rampolli dell'aristocrazia austriaca che si ribellano alla famiglia e nel 1844 muoiono fucilati, a 25 e 34 anni, nel tentativo di sollevare le popolazioni calabresi per l'unificazione nazionale, o come don Enrico Tazzoli, che viene spogliato dei paramenti sacri e fatto martire a Belfiore, nel 1852... ecco, le loro sono vite che si intrecciano con lo spirito del tempo».

Tutti vivono tra il Risorgimento e la Seconda guerra mondiale. È lì che si forma l'italianità?

«È lì che si forma l'Italia moderna, ossia il modo moderno di essere italiani. Sì: alcune caratteristiche fondamentali del carattere nazionale prendono forma in quel momento, quando l'Italia è per l'ultima volta protagonista della grande Storia. Poi ne siamo usciti, e con noi forse anche l'Europa. E, come è facile capire, è la grande Storia che chiama alle scelte decisive... Oggi il massimo che ci viene chiesto è votare per un partito o per l'altro, cosa che non fa una grande differenza. Vivere in pace e in democrazia è semplice; è quando la Storia ci viene addosso in tutta la sua tragedia, mettendoci di fronte a scelte di vita e di morte, che si vede la personalità di uomo».

Come nel Risorgimento.

«Che vide in primo piano i giovani. Lì nasce una sorta di movimento giovanile ante litteram, giovani che vivono l'impegno politico in prima persona: sono i garibaldini, i mazziniani A 40 o 50 anni non si imbraccia un fucile, a venti invece si può sbarcare in Calabria come i fratelli Bandiera, o morire come Goffredo Mameli per difendere la Repubblica Romana. La stessa cosa in qualche modo accadde col fascismo: sono i giovani i veri protagonisti del movimento fascista. Giovinezza, la canzone del Ventennio, non nasce per caso. La prima pattuglia di fascisti che entra alla Camera dei deputati nel 1921 è composta da reduci di guerra, ma la cui età media è la più bassa di quella di tutti gli altri gruppi parlamentari: attorno ai trent'anni. E allo stesso modo i giovani furono i protagonisti della Resistenza... Quando c'è da agire, ci sono i giovani. Quando c'è da amministrare il potere, i vecchi».

Il Risorgimento è caduto nel dimenticatoio. E lo stesso, Lei sostiene, accadrà al fascismo appena non servirà più ad alimentare lo scontro politico nazionale.

«Oggi il fascismo è uno spauracchio. Viene strumentalizzato. È l'arma della fine del mondo cui ricorre la sinistra per mettere fuori gioco la destra, accusandola di volere precipitare l'Italia nuovamente nel fascismo. È una fesseria, aiutata da una dissennata interpretazione storiografica di cui fu maestro Umberto Eco con la sua teorizzazione dell'Ur-fascismo: il fascismo eterno. Vogliono fare credere che il fascismo sia connaturato all'Italia, proseguendo sulla linea gobettiana del fascismo come autobiografia della nazione; e invece non è così. Il fascismo nasce da ragioni contingenti: non è la cartina di tornasole dell'anima eterna italiana».

I personaggi di cui racconta le vite incarnano alcune caratteriste «italiane»: passioni ideali, una certa «cagliostreria», un'intelligenza brillante, indolenza

«Parlare di carattere di un popolo significa generalizzare. E poi Longanesi, Montanelli e Prezzolini hanno già scritto pagine memorabili in materia. Qualcosa però, sì, possiamo azzardarlo. Gli italiani hanno una invidiabile capacità di adattarsi creativamente alle diverse situazioni. Luigi Palma di Cesnola, militare, diplomatico e archeologo che diventa il primo direttore del Metropolitan Museum of Art di New York, o Pietro Quaroni, ambasciatore in sedi cruciali nel dopoguerra, pur diversissimi fra loro, furono entrambi bravissimi ad adeguarsi con creatività a situazioni singolari in cui vennero a trovarsi. Così come Edda Ciano, una donna che fu capace di mettersi pericolosamente in gioco in una situazione tragica. O come Anna Kuliscioff, un'ebrea russa che capisce cosa deve fare per essere italiana, che accetta un rapporto sentimentale con un seduttore seriale come Andrea Costa, lo ama per la sua italianità, affascinata e addolorata, e si rassegna al fatto che i socialisti, dell'uguaglianza delle donne e del suffragio femminile non vogliono saperne. E diventa un'italiana, anzi una milanese, più italiana degli italiani I loro sono grandi insegnamenti, anche se nessuno ha più memoria di loro».

Cosa sta facendo l'Italia della sua memoria?

«Strame. La nostra Storia non ci interessa, complice anche la dissennata politica scolastica che ha ridotto le ore di insegnamento della Storia ed eliminato la Geografia... Siamo un popolo che non legge e non studia. Non sappiamo nulla, siamo un Paese ignorante, con una borghesia ignorante, non so se davvero la più ignorante d'Europa come diceva Pasolini, ma forse sì».

Cosa succede a un Paese che perde la memoria?

«Che non sa più dove andare. Non ha più la capacità di elaborare il presente e non sa immaginare né costruire un futuro. E infatti i nostri partiti politici non hanno un programma delle cose da fare. Il pensiero è mutilato e si procede per slogan, cercando solo di vincere le prossime elezioni».

Da lastampa.it il 23 giugno 2022.

La terribile eruzione del Vesuvio del 79 d.C. non avvenne fra il 24 e 25 agosto, come finora si riteneva, ma fra il 24 e il 25 ottobre. Lo indica la ricerca, a guida italiana, pubblicata sulla rivista Earth-Science Reviews, che ha ricostruito tutte le fasi dell'eruzione, che diffuse le ceneri fino alla Grecia. 

Lo studio, che fornisce gli strumenti per mitigare il rischio di eventi simili, è stato pubblicato su Earth-Science Reviews e condotto da Ingv in collaborazione con Cnr-Igag, Università di Pisa, Laboratoire Magmas et Volcans di Clermont-Ferrand e Heriot-Watt University di Edimburgo.

Il team di ricercatori pluridisciplinari ha raccolto e analizzato criticamente la vasta produzione scientifica disponibile sull'eruzione, integrandola con nuove ricerche. «Il nostro lavoro esamina con un approccio ampio e multidisciplinare diversi aspetti dell'eruzione del 79 d.C, integrando dati storici, stratigrafici, sedimentologici, petrologici, geofisici, paleoclimatici e di modellazione dei processi magmatici ed eruttivi di uno degli eventi più famosi e devastanti che hanno interessato l'area vulcanica napoletana», spiega Mauro A. Di Vito, vulcanologo dell'INGV e coordinatore dello studio.

«L'articolo parte dalla ridefinizione della data dell'eruzione, che sarebbe avvenuta nell'autunno del 79 d.C. e non il 24 agosto come si è ipotizzato in passato, e prosegue con l'analisi vulcanologica di siti in prossimità del vulcano per poi spostarsi progressivamente fino a migliaia di chilometri di distanza, dove sono state ritrovate tracce dell'eruzione sotto forma di ceneri fini». 

«Fin dal XIII secolo, la data del 24 agosto è stata oggetto di dibattito fra storici, archeologi e geologi perché incongruente con numerose evidenze», dice Biagio Giaccio, ricercatore dell'Igag-Cnr e coautore dell'articolo.

«Come, ad esempio, i ritrovamenti a Pompei di frutta tipicamente autunnale o le tuniche pesanti indossate dagli abitanti che mal si conciliavano con la data del 24-25 agosto», aggiunge Giaccio. La prova definitiva dell'inesattezza della data è però emersa solo pochi anni fa. «Un'iscrizione in carboncino sul muro di un edificio di Pompei che tradotta cita 'Il sedicesimo giorno prima delle calende di novembre, si abbandonava al cibo in modo smodato', indicando che l'eruzione avvenne certamente dopo il 17 ottobre», continua Giaccio.

La data più accreditata è, quindi, quella del 24-25 Ottobre. La ricerca è stata poi integrata dalla valutazione quantitativa dell'impatto delle singole fasi dell'eruzione sulle aree e sui siti archeologici vicini al vulcano. «Lo spirito del nostro lavoro è stato quello di comprendere come un evento del passato possa rappresentare una finestra sul futuro, aprendo nuove prospettive per lo studio di eventi simili che potranno verificarsi un domani», dice Domenico Doronzo, vulcanologo dell'INGV e coautore della ricerca.

«Questo studio, quindi, consentirà di migliorare l'applicabilità di modelli previsionali, dai fenomeni precursori all'impatto dei vari processi eruttivi e deposizionali, ma potrà anche contribuire a ridurre la vulnerabilità delle aree e delle numerose infrastrutture esposte al rischio vulcanico, non solo in prossimità del vulcano, ma - come ci insegna questo evento - anche a distanza di centinaia di chilometri da esso».

«Negli ultimi anni è diventato sempre più importante comprendere l'impatto delle eruzioni sul clima anche per poter studiare l'origine e l'impatto di alcune variazioni climatiche brevi. Tuttavia, non conosciamo ancora molto - e con la risoluzione adeguata - delle condizioni climatiche al tempo dell'eruzione del 79 d.C.», commenta Gianni Zanchetta dell'Università di Pisa e coautore della ricerca.

Chi è il vero "padre" dell'Impero. Andrea Muratore il 2 Giugno 2022 su Il Giornale.

Marco Vipsanio Agrippa fu lo stratega militare di Augusto e l'uomo decisivo per molti dei successi del primo imperatore di Roma.

Il mondo contemporaneo è anche, in un certo senso, figlio di Marco Vipsanio Agrippa. Uomo decisivo nella scalata di Ottaviano Augusto al potere nella Roma segnata dalle guerre civili seguite alla morte di Giulio Cesare, Agrippa ne fu stratega, fiancheggiatore, primo pianificatore dell'azione politica. Fu il regista della vittoria nella Battaglia di Azio (31 a.C.) che chiuse la partita nella sfida con Marco Antonio e l'Egitto di Cleopatra evitando che, con la vittoria del nemico di Ottaviano, il baricentro dell'Impero prendesse le vie di Alessandria. E, dunque, che il baricentro del Mediterraneo della Res Publica, e dunque dell'intera storia successiva, fosse spostato lontano dall'Italia.

Vista a due millenni di distanza, appare decisamente interessante il fatto che le notevoli doti di comando e strategia di Agrippa siano state, nel corso della sua vita, rivolte esclusivamente al consolidamento del potere di gruppi di interesse interni alla Res Publica e solo molto raramente espresse per il consolidamento dell'Impero. Nella fase terminale della Repubblica Agrippa stabilì il suo sodalizio con Ottaviano fin dalla tenera età che esteso a Gaio Clinio Mecenate costruì il trio che governò la transizione verso il principato: Ottaviano fu il regista politico, Mecenate il maestro della propaganda del nuovo corso dell'eredità di Cesare, Agrippa lo stratega militare, l'organizzatore. Formato nelle legioni macedoni di Cesare, plasmato dalla Battaglia di Munda in cui nel 45 a.C. si consumò lo scontro finale tra Cesare e il suo ex luogotenente Tito Labieno, definito da Cassio Dione "il più nobile dei suoi contemporanei" Agrippa supplì alle limitate capacità militari di Ottaviano in più occasioni: nell'inverno tra il 41 e il 40 a.C., vincendo a Perugia contro la ribellione di Lucio Antonio, in seguito fermando le incursioni degli Aquitani in Gallia e, soprattutto, ritrasformando in un lago romano il Mediterraneo tra il 37 e il 36 a.C.

In quest'ultima occasione Agrippa sconfisse la ribellione piratesca di Sesto Pompeo, figlio dell'ex avversario di Cesare, il quale si era impadronito della Sicilia imponendo un vero e proprio blocco navale contro il grano in arrivo a Roma, fonte di grande malcontento nell'Urbe e mina sul potere di Augusto. Nel 38 a.C. Ottaviano fu battuto in uno scontro navale da Sesto, riportando gravi perdite. Ottaviano richiamò allora dalla Gallia Agrippa, il quale si impegnò per mesi per rafforzare la flotta, operando scelte strategiche tra cui l'inaugurazione della base di Portus Iulius presso Pozzuoli-Baia, la costruzione di una nuova flotta e l'arruolamento di 20mila rematori tra gruppi di schiavi liberati. Nel 36 a.C. Sesto Pompeo venne sconfitto dalla flotta di Ottaviano in battaglia tra Milazzo e Nauloco. Fuggito in Oriente, Sesto fu catturato e giustiziato da un ufficiale di Antonio.

Agrippa fu nuovamente chiamato a prendere il comando della flotta quando scoppiò la guerra con Antonio e Cleopatra. Conquistò la città strategicamente importante di Metone a sud-ovest del Peloponneso, quindi navigò verso nord, facendo irruzione sulla costa greca e catturando Corcira (l'odierna Corfù). Ad Azio, nel 31 a.C., Agrippa giocò la mossa decisiva imponendo la rottura del fronte nemico con una fuga simulata che allungò le linee della flotta di Antonio e Cleopatra, esponendola con l'inseguimento al contrattacco delle navi di Ottaviano. La vittoria sancì il trionfo dell'erede di Cesare e la stabilizzazione di Roma come epicentro del mondo a lui coevo.

Seguì, l'anno successivo, la caduta dell'Egitto che rese Roma padrona assoluta del Mediterraneo. Il principato si installò per poi consolidarsi come impero e Ottaviano ebbe il suo trionfo. Un trionfo preparato sul piano politico da Ottaviano, ordinato propagandisticamente con l'opera di narrazione e di finanziamento di Mecenate e realizzato sul campo da Agrippa. Ultimo dei grandi romani dell'età repubblicana e vero apripista dell'Impero. Alla sua morte, nel 12 a.C., l'Impero fu, in un certo senso, vedovo e Ottaviano, divenuto Augusto, lo celebrò con tutti gli onori.

"Agrippa meritava gli onori che Augusto gli aveva riservato", ha scritto di lui lo storio Glen Bowersock, aggiungendo che "è ipotizzabile che senza Agrippa Ottaviano non sarebbe mai diventato imperatore. Roma ricorderà Agrippa", oltre che per la sua profonda capacità militare, per risultati in ambito civile, "per la sua generosità nel curare acquedotti, fogne e bagni" e per la sua prolificità nella scrittura, non priva di fini politici. Agrippa fu autore soprattutto di opere di geografia. Sotto la sua supervisione, il sogno di Giulio Cesare di avere una panoramica completa dell'Impero sotto forma di mappa fu realizzato. Agrippa costruì una carta circolare, che fu poi incisa su marmo da Augusto, e poi collocata nel colonnato fatto costruire dalla sorella Polla a Roma in suo onore: una carta che, unitamente alla standardizzazione della misura del piede romano (sulla misura dei suoi stessi piedi, curiosamente), mostrò come Agrippa fosse desideroso di fornire all'Urbe gli strumenti per meglio conoscere e studiare il mondo conosciuto. Per poterlo, in prospettiva, meglio dominare grazie al movimento di legioni, flotte, flussi umani e commerciali. Una visione moderna, "geopolitica" diremmo adesso, che non stupisce pensando all'uomo che fu il vero, meno noto, padre dell'impero.

Storia d’Italia in sette milioni di scatti. La ricostruzione. Il boom economico. La televisione. Le immagini dell’agenzia Publifoto raccontano l’Italia che cambia. Tra divi amatissimi e gente comune, festival canori e conquista della Luna.  Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso il 9 Maggio 2022.  

In due su una bicicletta: lei da un lato, lui dall’altro. Lei con i piedi sui pedali di sinistra, lui su quelli di destra. E in mezzo si immagina un sellino diviso a metà. Procedono sorridenti, in un equilibrio perfetto che non teme né il famigerato pavé né le rotaie del tram. Siamo a Milano nel 1947, e i due giovani immortalati dal fotografo dell’agenzia Publifoto su un esemplare più unico che raro di “bici-coppia” sembrano un’icona dell’Italia del boom economico: anni difficili ma pieni di speranze, con un popolo intero che riusciva in imprese apparentemente impossibili grazie all’incoscienza di chi, durante la guerra appena finita, aveva schivato rischi ben peggiori.

L'Italia e la Triplice Alleanza. Niente ambiguità, solo realismo. Francesco Perfetti il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.

Unito il Paese, non bastò "fare gli italiani" restando politicamente isolati. E nacque un accordo di pace.

Il 20 maggio 1882, alle ore 2 pomeridiane, a Vienna, in una delle sale del ministero imperiale degli Affari Esteri, venne firmato dagli ambasciatori italiano e tedesco e dal ministro degli Esteri dell'Austria-Ungheria il trattato della Triplice Alleanza che sarebbe rimasto in vigore, periodicamente rinnovato ogni cinque anni, fino allo scoppio della Grande Guerra. Durante la cerimonia per firma, l'ambasciatore tedesco, il principe Heinrich von Reuss, commentò l'evento con una battuta: «Che Dio benedica questa opera di pace!». L'ambasciatore italiano, Carlo Felice Nicolò di Robilant, pur ottimista, fu più cauto e misurato e scrisse al Segretario Generale degli Esteri, il barone Alberto Blanc, queste parole: «la nave è felicemente partita; bisogna ora saperla ben dirigere e farle evitare gli scogli».

In effetti, piaccia o non piaccia, la Triplice Alleanza vero capolavoro politico di Otto von Bismarck e coronamento di una «politica delle alleanze» che recuperava e ammodernava la «diplomazia della Restaurazione» del Congresso di Vienna del 1815 voluta dal principe Klemens von Metternich consentì un lungo periodo di pace internazionale. Le cose cambiarono soltanto dopo l'uscita di scena di Bismarck e l'ascesa al trono di Giglielmo II: questi due eventi segnarono la fine della politica di «equilibrio» e «continentale» del cancelliere tedesco basata sulle «alleanze» e determinarono, al tempo stesso, il passaggio della Germania a una politica aggressiva di sfida aperta agli equilibri internazionali per affermare la propria egemonia. Solo allora, insomma, maturò quel clima che avrebbe fatto esplodere i tanti conflitti latenti e aperto la strada alla Grande guerra.

La sottoscrizione, da parte dell'Italia, del trattato mise la parola fine alla cosiddetta «politica delle mani nette», per usare la celebre espressione di Benedetto Cairoli, che guidava il governo all'epoca del Congresso di Berlino del 1878. Quella delle «mani nette» era stata una linea che aveva trovato consensi soprattutto negli ambienti della classe dirigente della «destra storica» ma anche in certi settori della «sinistra», a cominciare proprio da Cairoli: era stata una linea che presupponeva la necessità che, «fatta l'Italia», si dovessero «fare gli italiani», e che si dovesse dare priorità alle questioni interne piuttosto che a quelle estere. Si era trattato, insomma come ha ben scritto un autorevole studioso di storia diplomatica, Enrico Serra di una politica «realistica» e «saggia» che però non aveva fatto presa «in una popolazione esaltata dal mazzinianesimo» e «affascinata dal garibaldinismo».

Tale politica di «indipendenza», tuttavia, era divenuta politica di «isolamento» perché tutte le rivendicazioni italiane erano percepite come manovre destabilizzanti. L'«isolamento», poi, aveva finito per tradursi in una minaccia alla sicurezza nazionale perché l'Italia non poteva esporsi al rischio di una aggressione sulla frontiera orientale e su quella occidentale alimentando la contemporanea ostilità nei confronti dell'Austria nell'Adriatico e della Francia nel Mediterraneo. Così, ben presto, uomini come Marco Minghetti e Sidney Sonnino sottolinearono la necessità di fare una scelta di politica estera perché l'Italia per motivi (oggi si direbbe) «geopolitici» non avrebbe potuto portare avanti una politica di indipendenza diplomatica e avrebbe dovuto necessariamente inseristi in sistemi permanenti di alleanze che ne avrebbero potenziato il ruolo.

Il momento culminante che determinò la svolta diplomatica italiana furono l'occupazione francese di Tunisi e l'imposizione del protettorato su quel territorio con il trattato del Bardo (1881) che l'Italia non volle mai riconoscere. Alla «questione tunisina», peraltro, si era aggiunto un riacutizzarsi della «questione romana» a causa dell'attivismo di Leone XIII che auspicava un intervento internazionale per il ripristino dello Stato pontificio. Tutto ciò comportò, poco alla volta, un graduale spostamento della politica estera italiana verso gli imperi centrali: uno spostamento favorito malgrado una persistente ostilità di parte del Paese per la forte tradizione irredentistica di stampo risorgimentale anche dalla visita che i sovrani italiani, Umberto e Margherita, vollero fare l'11 ottobre 1881 a Vienna all'imperatore Francesco Giuseppe e che assunse un importante valore simbolico.

Si giunse, in tal modo, alla stipula della Triplice Alleanza. Questa nacque inizialmente come alleanza militare difensiva di «garanzia» e «conservazione» per il «mantenimento della pace e della sicurezza generale, per il rafforzamento dell'ordine sociale e politico». Alcuni storici hanno sostenuto che il trattato non sarebbe stato particolarmente favorevole all'Italia perché non conteneva garanzia sulla sua integrità territoriale e neppure un cenno di riconoscimento delle aspirazioni italiane nei Balcani e in Africa. Gaetano Salvemini, per esempio, scrisse che per l'Italia la Triplice ebbe un valore «negativo» costringendola a rinunciare alla propria libertà d'azione. Le cose non stanno così. In realtà, il trattato della Triplice Alleanza, grande esempio di Realpolitik, significò per l'Italia riconoscimento internazionale e accreditamento come potenza oltre a garantirle un momentaneo controllo di possibili conflitti con potenze concorrenti, o potenzialmente ostili.

Certo, alle origini la Triplice era prevalentemente germano-centrica e garantiva l'Italia soltanto contro una potenziale aggressione da parte della Francia. Ma già in occasione del primo rinnovo (1887) tutto cambiò. Con l'introduzione idella cosiddetta «clausola dei compensi» l'Italia divenne il perno di una alleanza diversa che le assicurava lo status quo nella penisola balcanica assicurandole parità di condizioni con l'Austria-Ungheria in caso di eventuale risistemazione territoriale balcanica e, al tempo stesso, riconoscendole una sfera di influenza in Africa settentrionale, segnatamente sulla Tripolitania.

Gli eventi successivi, a cominciare dall'alleanza franco-russa (1892) e dal riavvicinamento italo-francese dopo la sconfitta di Adua (1896), portarono l'Italia ad essere meno dipendente dalla Triplice, che riacquistò così il suo originario carattere di alleanza puramente difensiva, e al tempo stesso a la resero più «possibilista» nei confronti di potenze come la Francia, la Russia, la Gran Bretagna. Non è un caso che da parte tedesca e austriaca si cominciasse a guardare con diffidenza e preoccupazione alle aperture italiane favorite anche dal nuovo sovrano Vittorio Emanuele III: sono rimaste celebri la battuta del cancelliere Bernhard von Bülow sui «giri di valzer» dell'Italia e la sua risposta alle richieste del ministro degli Esteri italiano, l'industriale Giulio Prinetti, che, in vista del rinnovo della Triplice aveva chiesto la modifica di alcune disposizioni per tener conto dei mutati rapporti italo-francese: «sint ut sunt aut non sint» (le cose stiano come stanno oppure non siano). In realtà l'atteggiamento italiano, frutto di una tradizione di realismo politico, non fu mai ambiguo.

La fine della Triplice Alleanza coincise con lo scoppio della Grande Guerra e non fu certo l'Italia a metterla in crisi. Per oltre un trentennio essa, come ha scritto Gioacchino Volpe, aveva accompagnato «la lenta ascesa, il difficile orientamento e quasi processo di acclimatazione internazionale dell'Italia» e, insieme, aveva giovato «non soltanto alla vecchia Austria degli Asburgo, ma alla nuova e giovane Germania, alla nuova e giovane Italia, ambedue bisognose, pur in diverso modo e grado, di assicurarsi libertà e tranquillità di assestamento e di sviluppo». Il che non è davvero poco. E vale la pena di ricordarla, oggi, la Triplice Alleanza come esempio di quella che Henry Kissinger ha chiamato l'«arte della diplomazia».

To leave no one behind. Il generale italiano che cerca i soldati americani dispersi 80 anni fa. Simone Baglivo su L'Inkiesta il 27 Aprile 2022.

Aldo Costigliolo è passato dalle montagne alpine ai fondali marini: dopo una carriera dove ha partecipato a operazioni militari chiave, è diventato direttore europeo di un ambizioso progetto della Difesa statunitense, quella di portare a casa le spoglie degli americani scomparsi durante la Seconda guerra mondiale

Da tre decenni alcuni volontari cercano di mantenere una promessa fatta dal governo americano nel 1945: riportare a casa gli 80.000 soldati statunitensi dispersi durante la Seconda guerra mondiale. “Keeping America’s Promise” è lo slogan di Project Recover, una ONG fondata dal medico e chimico Patrick Scannon. Trovare i resti di qualcuno scomparso da quasi 80 anni può sembrare una mission impossible, ma non sarebbe il primo caso per il Dott. Scannon: prima di diventare un consigliere per la biodifesa alla Casa Bianca, ha sviluppato per 35 anni terapie cliniche con la sua azienda biotecnologica. Oggi Project Recover opera in oltre 20 paesi contando sull’impegno di centinaia di volontari appassionati. L’imprenditore Dan Friedkin (proprietario della A.S. Roma, ndr) ne presiede il Cda, mentre il direttivo è composto da professionisti dal campo dell’aviazione, dell’archeologia, della marina, del paracadutismo, della storia. Ma anche ex agenti speciali, ex Capi di Stato Maggiore, ex astronauti e, ovviamente, ex soldati.

Grazie al supporto del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti e alla collaborazione con il College of Earth, Ocean and Environment dell’Università del Delaware e l’Istituto Internazionale di Oceanografia Scripps, i determinati ricercatori sono riusciti a individuare già 500 relitti di aerei e 3000 possibili resti umani in giro per il mondo. Fino ad ora ne hanno faticosamente restituiti 15 alle rispettive famiglie, ma il loro obiettivo è di recuperare tutte le spoglie. Il segreto del loro successo è un metodo rigido che si articola in sette fasi: ricerca storica, pianificazione, perlustrazione, documentazione, recupero, identificazione e rimpatrio. Ogni missione può richiedere diversi mesi, in alcuni casi anche anni, e gli strumenti utilizzati sono all’avanguardia. Da pochi mesi c’è un italiano a capo di tutte le attività di Project Recover in Europa: si chiama Aldo Costigliolo, ha 59 anni ed è un pluridecorato Generale di Brigata dell’Esercito Italiano, ora in riserva. Ha accettato questo nuovo incarico gratuitamente.

Nato a Genova, si è arruolato al distretto militare ligure poco dopo aver compiuto 18 anni, senza dire nulla ai genitori, ma avendo parlato a lungo con suo nonno, un ufficiale della Seconda guerra mondiale che gli ha trasmesso quella passione che avrebbe caratterizzato 40 anni della sua vita. Battezzato come artigliere nelle Truppe Alpine, ha partecipato a missioni della NATO, dell’ONU e dell’EUROFOR (EUropean Rapid Operational FORce, attiva dal 1995 al 2012, ndr). Nel nostro Paese ha seguito le operazioni terrestri, l’analisi di intelligence, il coordinamento degli interventi esteri, il comando logistico e le unità addestrative. Dal 2011 al 2013 ha comandato il 1° Reggimento Artiglieria Terrestre (Brigata Alpina Taurinense, ndr) fronteggiando l’alluvione in Liguria e l’emergenza neve in centro e sud Italia, gestendo l’operazione Strade Sicure a Genova e guidando un’importante missione in Afghanistan. Per 6 mesi, infatti, Costigliolo è stato a capo dell’Unità Provinciale di Ricostruzione ad Herat: grazie a un budget di 5 milioni di euro insieme ai suoi uomini ha costruito 13 scuole, 4 ambulatori, 1 caserma dei vigili del fuoco, chilometri di strade e fognature e diversi edifici governativi. Oggi mi descrive quel periodo come una partita a scacchi che ha però prodotto utili risultati rendendolo orgoglioso, anche se ha dovuto rispondere ad alcune minacce di cui preferisce non parlare. La sua carriera si è conclusa con la promozione a Sottocapo di Stato Maggiore, dopo aver ricevuto diverse onorificenze come Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica Italiana e Croce di bronzo al merito dell’Esercito Italiano.

Racconta di essere venuto a conoscenza di Project Recover per caso, quando nel 2018 l’organizzazione cercava un supporto logistico in vista di uno studio preliminare nel Bel paese. Ricorda di aver percepito da subito un feeling speciale, era entusiasmante toccare con mano la storia. Confessa che il primo incontro si è svolto in un luogo top secret nell’arcipelago toscano che qualche mese dopo gli avrebbe consegnato importanti scoperte grazie anche a dei vecchi pescatori locali (tra le sue migliori fonti). La successiva spedizione subacquea esplorativa avrebbe confermato i riscontri positivi: si trovava per la prima volta davanti a resti della Seconda guerra mondiale. L’anno successivo la pandemia ha fermato le operazioni, ma il team del Generale ha continuato a pianificare missioni in tutta Europa come nel resto del mondo. L’ultima missione italiana è stata nel 2021, nel nord est della penisola, in una zona gravosa che ha richiesto interventi di terra e di acqua.

I suoi progetti sono coperti da riservatezza fino al loro completamento per salvaguardarli e tutelarli, dopo che in passato sono stati oggetto di furti: «Si tratta di ladri che insultano le famiglie in attesa di quelle spoglie», aggiunge Costigliolo. Quando mi descrive il suo lavoro parla come se fosse in un cold case. Ricorre alla migliore scienza e tecnologia del XXI secolo: fotocamere, videocamere, sottomarini a comando remoto, droni, sonar, magnetometri, metal detector e rilevatori ossei. Alcuni strumenti, mi dice, valgono più di un milione di dollari. Grazie agli esperti dell’agenzia governativa DPAA (Defense POW/MIA Accounting Agency, ndr) vengono condotte analisi forensi sui resti ed estraggono campioni di DNA che poi vengono confrontati con quelli dei membri della famiglia. «Lo facciamo – spiega il Generale – perché siamo esseri umani. Investiamo energie e risorse credendo che sia importante recuperare non solamente la memoria, ma anche la giustizia e la dignità, nonostante sia passato quasi un secolo. La promessa di non lasciare indietro nessuno (To leave no one behind, in inglese, ndr) è tra le fondamenta dell’azione militare, soprattutto in America. È quindi essenziale restituire il giusto onore a una persona che ha perso la vita servendo il proprio paese. Inoltre, durante le nostre attività, consentiamo alle università che collaborano con noi di formarsi. Il gioco vale la candela, da tutti i punti di vista».

Il nostro esercito fece qualcosa di simile negli anni ’90, organizzando diverse missioni, difficili e lunghe, per recuperare le spoglie degli alpini caduti nella campagna in Russia. Quando Costigliolo si è unito al progetto era come aver seguito un fil rouge. Ci tiene a precisare che vedere commilitoni rientrare a casa avvolti in un tricolore o portare i segni di ferite subite sono episodi che non possono lasciarti indifferente. Avendo portato l’uniforme, sa bene cosa significhi il sacrificio. Oggi si reputa fortunato, rifarebbe tutto ed è soddisfatto della sua vita. Dice che gli è sempre piaciuta la parola Servitore dello Stato, l’idea di essere al servizio del tuo Paese. È felice di aver donato la sua esistenza per gli ideali in cui crede, ne va fiero. Purtroppo, la storia è ciclica e ci si dimentica troppo spesso del passato. Ed ecco che sotto la minaccia di una terza guerra mondiale, c’è ancora chi va ancora alla ricerca delle ferite insanabili dell’ultima. Di stare a casa a godersi la pensione non se ne parla: «Finché ho un fisico che me lo consente e uno spirito che mi fornisce l’energia, mi piace cercare di fare qualcosa di utile per la comunità. Egoisticamente, dico che mi fa stare bene. Mi sto godendo la pensione alla grande, tanto abbiamo un’eternità per riposare».

Quel deputato che rifiutò lo scranno… Federico Mollicone su Culturaidentita.it su Il Giornale il 29 Marzo 2022.

Il 29 marzo 1849, 228 anni fa oggi, a Roma l’Assemblea Costituente dopo la proclamazione della Repubblica Romana affidò il triumvirato a Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini e Aurelio Saffi. Ma Mazzini fu lo stesso che, eletto 13 anni dopo alla Camera dei deputati da un collegio della città di Messina, scatenò un grande dibattito sulla sua eleggibilità o meno, perché sul suo capo pendevano due condanne a morte per i moti genovesi del 1857 e per complicità in un attentato contro Napoleone III. Fu così che rifiutò lo scranno e, nonostante una successiva e definitiva convalida della sua elezione, non partecipò mai ai lavori d’aula. Vi proponiamo il brillante articolo, pubblicato sul mensile CulturaIdentità di marzo tuttora in edicola, che Federico Mollicone ha scritto per noi su quel grande politico, letterato e patriota “che fece il gran rifiuto” (Redazione)

Giuseppe Mazzini fu il deputato “mai” eletto. Il 25 febbraio del 1866, il patriota genovese fu eletto alla Camera dei deputati da un collegio della città di Messina con 446 voti, ma ci fu un grande dibattito sull’ineleggibilità di Mazzini, sul quale pendevano ben due condanne a morte, di cui una comminata dal tribunale di Genova per i moti del 1857 – il 19 novembre 1857 in primo grado, il 20 marzo 1858 in appello – ed una seconda del tribunale di Parigi per complicità in un attentato contro Napoleone III. La giunta del Regno quindi, si trovò nell’incertezza se convalidare o respingere l’elezione. Il 2 marzo Mazzini, allora, inviò a numerose testate italiane una lettera, nella quale ringraziava Messina per la coraggiosa elezione ma rifiutava cordialmente la poltrona per non dover giurare fedeltà alla monarchia italiana.

Riportiamo integralmente la lettera di Giuseppe Mazzini, così come apparse sul numero de L’Unità Cattolica del 2/3/1866:

“Cittadini! Mi avete con fermezza siciliana di volontà, alzato, eleggendomi a deputato vostro, una generosa protesta contro una sentenza, oggi non solamente iniqua, ma assurda, che mi danna nel corpo per avere, prima d’altri, assurda, perché si prolunga quando il regno sardo, che la emanò, ha cessato d’esistere. La protesta vostra ha messo, tra voi e me, un vincolo speciale d’amore, che durerà finch’io viva. Io non nacqui tra voi, né mai – e mi è dolore il pensarlo – visitai l’Isola vostra.”

Nonostante la formale rinuncia di Mazzini alla carica, il governo italiano dovette comunque esprimere parere ufficiale sull’elezione messinese e, dopo numerose riunioni intercorse a Palazzo della Signoria, su un totale di 298 dell’elettorato peloritano. Due mesi dopo, la popolazione di Messina fu richiamata alle urne per esprimere nuovamente il proprio pensiero e in barba a 60 giorni di polemiche rielesse Giuseppe Mazzini, ma in un incredibile e quanto mai inutile braccio di ferro, dopo una nuova discussione il 18 giugno 1866 la Camera annullò nuovamente l’elezione di Messina con 146 voti contro 145. Il 18 novembre Messina elesse per la terza volta Giuseppe Mazzini, con la quasi totalità dei consensi, piegando finalmente il governo italiano alle proprie decisioni ed il 21 novembre, dal Salone dei Cinquecento di Firenze, arrivò la convalida all’elezione decretata dai messinesi. Ma Mazzini non partecipò mai ai lavori d’aula, per non riconoscere la monarchia e non piegarsi, ma visse l’incredibile esperienza del governo della Repubblica Romana.

Dal suo primo discorso di arrivo a Roma nel marzo 1849: “Roma fu sempre una specie di talismano per me: giovanotto, io studiava la storia d’Italia, e trovai che mentre in tutte le altre storie tutte le nazioni nascevano, crescevano, recitavano una parte nel mondo, cadevano per non ricomparire più nella prima potenza, una sola città era privilegiata da Dio del potere di morire, e di risorgere più grande di prima ad adempiere una missione nel mondo, più grande della prima adempiuta. Io vedeva sorgere prima la Roma degl’imperatori, e colla conquista stendersi dai confini dell’Africa ai confini dell’Asia: io vedeva Roma perir cancellata dai barbari, da quelli che anche oggi il mondo chiama barbari; io la vedeva risorgere, dopo aver cacciato gli stessi barbari; ravvivando dal suo sepolcro il germe dell’incivilimento; e la vedea risorgere più grande a muovere colla conquista non delle armi, ma della parola; risorgere nel nome dei Papi, a ripetere le sue grandi missioni. Io diceva in mio cuore: è impossibile che una città, la quale ha avuto sola nel mondo due grandi vite, una più grande dell’altra, non ne abbia una terza. Dopo la Roma che operò colla conquista delle armi, dopo la Roma che operò colla conquista della parola, verrà, io diceva a me stesso, verrà la Roma che opererà colla virtù dell’esempio: dopo la Roma degl’imperatori, dopo la Roma dei papi, verrà la Roma del popolo. La Roma del popolo è sorta: io parlo a voi qui della Roma del popolo: non mi salutate di applausi: felicitiamoci assieme. Io non posso promettervi nulla da me, se non il concorso mio in tutto che voi farete pel bene della Italia, di Roma, e pel bene dell’umanità, dell’Italia.”

La condanna a morte non fu mai cancellata e quando pochi anni dopo il patriota ligure tentò di arrivare in Sicilia per abbracciare la cittadinanza che con ferreo orgoglio l’aveva eletto deputato, fu arrestato a Palermo dalla polizia.

Dopo alcuni anni d’esilio, morì sotto falsa identità a Pisa nel 1872. Mazzini è uno dei Padri della Patria di cui va superata l’icona impolverata come vate della Massoneria, un’operazione culturale che portammo avanti quando abbiamo governato la Capitale con “DiscoRisorgimento” di Edoardo Sylos Labini, tenutosi al Palazzo della Cancelleria, sede della Repubblica Romana. Lo vogliamo ricordare con una delle citazioni che meglio descrive la sua perseveranza: “A parole chiare, risposta chiara. Non cederemo. Noi siamo forti e ostinati. Abbiamo per noi l’istinto della gioventù, del popolo d’Italia”.

Le Cinque Giornate di Milano: cosa successe tra il 18 e il 22 marzo 1848, piccolo compendio di storia. Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2022.

Il 18 marzo la popolazione di Milano insorse e dopo cinque giornate di violenti combattimenti si liberò (temporaneamente) delle truppe austriache comandate dal maresciallo Radetzky. Ad agosto il ritorno austro-ungarico in città

Dal 18 al 22 marzo Milano celebra le sue «Cinque Giornate». Ma cosa successe in questi giorni nel 1848? Ecco una spiegazione sintetica.

Fra il 16 e il 17 marzo a Milano si diffuse la notizia dei moti rivoluzionari scoppiati in Francia, Austria, Ungheria, Boemia e Croazia. La città, all’epoca, era sotto dominazione asburgica. Il 18 marzo la popolazione insorse e dopo cinque giornate di violenti combattimenti contro le truppe austriache, comandate dal maresciallo Radetzky, si liberò (temporaneamente) degli occupanti. Nella terza giornata di battaglie il Consiglio di guerra milanese respinse la proposta di armistizio e si costituì in un governo provvisorio. Il giorno successivo, il 21 marzo, i milanesi conquistarono tutte le caserme e le posizioni tenute ancora dagli austriaci; in serata iniziò la ritirata delle truppe di Radetzky, che lasciarono la città. All’alba del 23 marzo, dopo aver aperto le porte, Milano accolse i primi volontari da Genova e Torino.

A quel punto il re di Sardegna Carlo Alberto emanò il proclama in cui annunciava ai popoli della Lombardia e del Veneto che stava accorrendo in sostegno agli insorti. La sfida all’Impero Austro-Ungarico era dichiarata, iniziava la Prima guerra di indipendenza. La «libertà» di Milano, però, durò poco. Il 5 agosto venne firmata la capitolazione e il 6 agosto 1848 gli austriaci erano già rientrati in città. Fu il podestà Paolo Bassi a consegnare a Radetzky le chiavi di Milano. Nello stesso giorno il feldmaresciallo assunse «fino ad ulteriore disposizione il governo militare e civile delle provincie di Lombardia», dichiarò Milano in stato d’assedio e promulgò la legge stataria (che contemplava la pena di morte anche per infrazioni lievi).

Lo stato d’assedio e la concentrazione di tutti i poteri nelle mani dei militari – Radetzky prese inizialmente la sua residenza a Palazzo Reale, accanto al Duomo – mostrarono alla città quale fossero gli obiettivi degli austriaci: venne sciolta la guardia nazionale (l’ordine pubblico sarebbe stato garantito dalle truppe di guarnigione) e il governatore austriaco «vietò gli attruppamenti per le strade e ordinò di astenersi nei luoghi pubblici da discorsi contrari all’ordine delle cose». Lo stato d’assedio strozzò la libertà di stampa e scrittori e tipografi vennero equiparati a «perturbatori della quiete pubblica». Infine, si intimò ai cittadini di consegnare le armi da fuoco, le munizioni e i coltelli (pena: la legge marziale). Nei mesi successivi furono arrestati e fucilati molti «rivoltosi» e altri milanesi vennero sottoposti alla cerimonia della «pubblica bastonatura».

Così Radetzky, pieno di debiti, diede in pegno la sua salma: gli ultimi anni del maresciallo a Milano. Piergiorgio Lucioni su Il Corriere della Sera il 20 marzo 2022.  

In un volume di Giorgio Ferrari il volto meno noto del governatore austriaco: i quattro figli illegittimi con la stiratrice, l’amore per la città dove volle tornare dopo esser stato cacciato, la passione per il gioco, il destino delle spoglie

Burbero, bonario, duro, festaiolo, spietato. Come decifrare il Radetzky di cui si celebra in questi giorni la cacciata da Milano dopo le Cinque Giornate e che poi, tornato in città, vi rimase fino alla morte ultranovantenne? Città dove si divise tra due amori inossidabili: Milano appunto e quella Giuditta Meregalli, stiratrice di Sesto San Giovanni dalla quale ebbe quattro figli. Passioni, paure, durezze, vizi del governatore del Lombardo-Veneto sono stati messi in fila e depurati dalle scorie della passione da Giorgio Ferrari nel volume Gli ultimi giorni di Radetzky (Edizioni La Vita Felice) che ripercorre la storia di un militare tanto diverso dall’immaginario: tarchiato, basso di statura, pingue e amante del buon cibo e del buon vino, del gioco, della guerra quanto della bella vita. Un soldato dal genio indiscutibile inebriato di una città che lo affascinava.

«Gli piaceva il Duomo — scrive Ferrari — e la Scala, l’Arco del Cagnola sulla via del Sempione, i confortevoli alberghi cittadini, i caffè». E poi «le venditrici di fragole, i commercianti di uccelli, gli aggiusta ombrelli, i lampionai». Gli piacevano i milanesi semplici ma diffidava dei nobili salottieri nostalgici del vento di libertà e nazionalismo portato da Napoleone. E la Milano dinamica e ricca, prima contribuente alle finanze dell’impero, sopportava questo soldato non disdegnando — al netto di malumori e insofferenze— l’azione in taluni casi meritoria dell’Aquila bicipite. Quel vento di libertà che accese le gloriose Cinque Giornate e che obbligarono Radetzky a fuggire su una carrozza mimetizzata da carro da fieno con la tetra voglia di rivalsa ma pure con un rigurgito di rispetto per la città che lo aveva abbagliato.

Non potendo la sua cavalleria agire nelle strette vie, la strategia imponeva l’uso dei cannoni contro i rivoltosi. Non lo fece: risparmiò macerie e lutti alla città e preparò la riconquista avvenuta con la vittoria sui piemontesi e il ritorno tra la folla disillusa al grido di: hinn stàa i sciuri. Sono stati i signori a organizzare la rivolta. Non bastò. Il feldmaresciallo divenne più repressivo e diffidente avviando con Milano una convivenza fatta di sospetto, stima, oppressione che lo portarono a trascorrere gli ultimi anni nello splendore del Palazzo Reale (occupando solo poche stanze), nell’assiduità con la stiratrice madre dei suoi figli nel focolare di via Borgospesso, nel sospetto — con arresti ed esecuzioni — di nuove rivolte.

Alla sua morte, all’età di 91 anni, i milanesi non lo degnarono di riguardi: deserto il percorso della salma, deserti i posti per autorità in Duomo. «Per molti — scrive Ferrari —, la maggioranza forse, era un vegliardo tollerato ma sostanzialmente poco amato». Da parte sua Radetzky — che vendette in vita la sua salma a Joseph Gottfried Pargfrieder in cambio del pagamento degli ingenti debiti di gioco che da sempre lo assillavano, oltre a quelli della moglie e degli sciagurati figli in patria — lasciò 300 fiorini per i poveri e 200 per le messe in Duomo prima di finire sul colle degli eroi a Klein Wetzdorf, in Austria, come da volontà del nuovo proprietario delle sue spoglie imbalsamate. Così Milano accantonò un grande soldato, un ottimo stratega, un governatore accigliato e duro la cui storia, però non si è mai conclusa. 

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 novembre 2022.

Caro Dago, la tumulazione del milite ignoto all’Altare della Patria di Piazza Venezia avvenne il 4 novembre del 1921, a tre anni dalla vittoria italiana nella Prima Guerra mondiale. Molto toccante il film di Francesco Miccichè - “La scelta di Maria” - andato in onda ieri sera su Rai 3 e dedicato a come ci si arrivò a quella che è stata la più importante manifestazione italiana nel ricordare la tragedia della Prima guerra mondiale, nel commemorare quelli dei nostri che erano caduti in una guerra fatta di uomini, di volti concreti, di gesti che restarono nella memoria dei sopravvissuti.

Erano dei sopravvissuti quelli che avevano visto cadere il figlio di Maria Bergamas, la donna triestina che venne scelta ad essere lei quella che, messa di fronte a undici bare che contenevano tutte i resti di soldati italiani non identificati, doveva indicare la bara da tumulare all’Altare della Patria e magari in quella bara poteva esserci suo figlio. Il quale era partito da volontario oltre che da triestino il quale se catturato dagli austriaci sarebbe stato impiccato perché disertore.

I suoi compagni d’arme ricordavano che lui andò all’ultimo assalto ancora da volontario, sostituendo un altro soldato italiano che aveva moglie e figli. Dopo di che di lui non si seppe più nulla. Magnifica l’interpretazione di Sonia Bergamasco nel rendere l’inane sofferenza di Maria Bergamas. I testimoni racconteranno che nello scegliere la bara lei ebbe come un brivido, come se per un attimo fosse stata sicura che la bara che aveva scelto era quella che conteneva le spoglie del figlio.

Sia detto tra parentesi in un primo momento i socialisti e i comunisti italiani del tempo non videro di buon occhio quella sontuosa manifestazione. Che ai loro occhi appariva come un’esaltazione della guerra e dunque delle sue bestialità. Non capivano che era tutto il contrario, che quella manifestazione esaltava la memoria dolorante della tragedia e dunque la speranza che mai più dovesse ripetersi. I sopravvissuti raccontavano per filo e per segno i momenti in cui erano andati all’assalto, i compagni d’arme che cadevano a mucchi, quelli che si davano a tagliare i reticolati che proteggevano le trincee austriache per poi essere colpiti a loro volta e morire avvinghiati al filo spinato.

Erano visibili i loro corpi, i loro gesti, i loro volti, le loro urla mentre morivano. Il fratello di mio nonno, un ufficiale medico, avanzò nella terra di nessuno per andare a proteggere dei feriti. Venne colpito alla schiena e rimase paralizzato per oltre trent’anni. Io ragazzino lo incontrai una volta e ancora mi vergogno di non aver saputo dirgli nulla. Lo incontrassi per come sono oggi, mi inginocchierei innanzi a lui. Era stata una guerra a misura d’uomo che non aveva niente a che vedere con le immagini e le tragedie dell’odierna Ucraina, dove arrivano missili che polverizzano tutto quello che incontrano.

I soldati bruciano vivi nei carri armati, altro che cadere morti sul filo spinato dove li vedevano i loro compagni che continuavano l’assalto. Altro che gesti da ricordare e volti nel momento in cui vengono straziati e cadaveri riconoscibili. Premi un pulsante e ad alcune decine di chilometri cadono giù pezzi di mondo. Un’intera nazione è in corso di distruzione, intere città rase al suolo. Orrore orrore orrore. Quando finirà?

"Era fascista". Ora la sinistra attacca la "madre" del Milite Ignoto. Francesco Boezi il 13 Marzo 2022 su Il Giornale.

I giallorossi che amministrano Guidonia non vogliono intitolare una strada a Maria Bergamas, mamma del Milite Ignoto. Ira del centrodestra. E si chiede pure l'intervento di Mattarella.

I giallorossi esistono ancora ed a Guidonia si oppongono all'intitolazione di una strada a Maria Bergamas, la "mamma" del Milite Ignoto. L'amministrazione comunale della cittadina in provincia di Roma, che come il Conte bis è a guida Pd-5Stelle, non ne vuole sapere di dedicare una via ad uno dei simboli della vittoria italiana nella Prima guerra mondiale.

In sintesi, è il presidente della commissione Toponomastica, il pentastellato Maurizio Celani, ad essere contrariato rispetto alla proposta d'intitolazione: questo è quello che si legge sulle agenzie e che è stato riportato dal Il Messaggero. Ma è tutta la maggioranza, stando a quanto apprendiamo, a sostenere la linea di Celani.

Il centrodestra è così costretto a combattere per ottenere un risultato che, in relazione alla storia del Belpaese, dovrebbe non comportare divisioni ideologiche. Ma il patriottismo non è di casa a sinistra, mentre le motivazioni che vengono accampate per giustificare il "no" dimostrano come non a tutti stia a cuore la pacificazione nazionale.

I giallorossi eccepiscono infatti la presunta natura "fascista" e l'altrettanto presunta adesione al ventennio mussoliniano della figura della Bergamas che è morta a Trieste nel 1963 e che, come sono costretti a ricordare gli esponenti della coalizione formata da Forza Italia, Lega e Fratelli d'Italia, è nota alla storia per aver scelto la bara tra le tante contenteni soldati morti durante la Grande guerra.

Tra i primi a prendere posizione sul caso, il sottosegretario alla Difesa ed esponente di Forza Italia Giorgio Mulè: "La storia e la memoria di una Nazione non possono essere sporcate dalla malapianta dell'ignoranza che va estirpata senza indugio - ha detto il forzista, così come ripercorso dall'Adnkronos - . Per questo si resta interdetti davanti a ciò che sta accadendo a Guidonia dove il Comune si rifiuta di intitolare una strada a Maria Bergamas, la 'madre d'Italià del soldato Antonio che rappresenta il milite ignoto, per una inesistente quanto ridicola sua adesione al fascismo".

Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera dei deputati, ha chiesto al presidente Sergio Mattarella d'intervenire: "Se confermato l'oltraggio a questa donna, sarebbe l'ennesima inaccettabile ipocrisia della sinistra. Intervenga il Presidente della Repubblica Mattarella per risolvere con la sua autorevolezza questa vergognosa vicenda e rendere giustizia alla "Madre" del Nostro Milite Ignoto", ha tuonato il parlamentare del partito guidato da Giorgia Meloni, così come approfondito dall'Agi.

Anche il simbolo dell'unità nazionale per eccellenza diviene così un argomento buono per spacchettare in rivoli ideologici la storia patria. Il corpo che oggi è sepolto a Roma, presso l'Altare della patria, venne selezionato tra tanti dalla Bergamas nel lontano 1921. Ogni anno la politica tutta commemora quella salma: questo però ai giallorossi non basta.

Da Tag43.it il 6 marzo 2022.

Il repertorio delle invenzioni messe a punto dagli antichi romani non si limita agli acquedotti, alla rete stradale, al diritto o alla lingua. Esiste, infatti, un panorama variegato di abitudini e di oggetti che sperimentati a Roma, sono arrivati, pur modificati dal tempo, fino a noi. 

Nella sua ultima opera, Ahir Roma, avui nosaltres, uscita di recente in libreria e, per il momento, disponibile solo in catalano, la professoressa Isabel Rodà ha provato a elencare le più sorprendenti, dal bikini alle isole pedonali, passando per gli allevamenti ittici, i fast food e lo spogliarello, allora conosciuto come nudatio mimarium.

Ponendosi l’obiettivo di esaltare il valore dell’eredità romana per l’uomo contemporaneo, la studiosa si è addentrata nei meandri più nascosti della cultura, scoprendo aneddoti e dettagli davvero affascinanti. A partire dall’approccio ante litteram che i Romani ebbero con il concetto di usa e getta, ricorrendo ad anfore che, una volta importate in città dai mercati vicini e adoperate per il trasporto di viveri e liquidi, venivano distrutte e depositate in una discarica creata ad hoc. E che, oggi, ha dato vita a quello che i più conoscono come Monte Testaccio, un’altura artificiale di oltre 50 metri nata, sostanzialmente, da resti di ceramica.

Tra le storie più curiose spicca, senza dubbio, quella del costume a due pezzi. A giudicare dalle immagini delle donne ritratte nei mosaici delle ville come quella Imperiale di Piazza Armerina e dal ritrovamento della parte inferiore di una sorta di bikini in pelle in uno scavo di Londra, si trattava di un capo di abbigliamento diffuso e con un design non così lontano da quello a cui siamo abituati. 

Nei capitoli dedicati all’urbanistica e all’organizzazione della città, invece, il focus è tutto sulla storia dei vigili del fuoco e delle vasche create artificialmente per allevare i pesci d’acqua dolce e salata. Per quanto possa sembrare strano, infatti, ai tempi di Augusto, esistevano squadre di pompieri che nulla avevano da invidiare a quelli moderni, soprattutto in fatto di tecniche e metodi per domare il fuoco.

E i commercianti ittici, spesso, ricreavano in mare vere e proprie piscine per curare con attenzione gli animali da vendere. Un particolare che si allinea perfettamente alla loro inaspettata preparazione in fatto di ecologia e ambiente: «Come dimostrano Marco Terenzio Varrone e Lucio Iunio Columella, conoscevano i rischi dell’inquinamento e dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, della deforestazione e dell’estinzione di piante come il cedro, abbattute per ricavarne prodotti da vendere oltre i confini dell’impero», ha spiegato la professoressa Rodà. 

I Romani si sono dimostrati all’avanguardia anche nella gestione del traffico: nelle piazze, infatti, non potevano circolare carri trainati da animali e, per questo, nelle città come Pompei erano stati predisposti ostacoli simili agli attuali dissuasori per regolamentare la circolazione. Ultimo particolare, ma non per importanza, il ricorso all’architettura prefabbricata: per velocizzare la costruzione degli edifici, si facevano inviare colonne e capitelli già pronti e realizzati negli atelier e nelle officine dei fabbri vicine alle cave di marmo.

Ovviamente, non poteva mancare una sezione dedicata ai legami tra l’Urbe e le tradizioni catalane, nella quale la divulgatrice segnala come alcuni costumi siano da attribuirsi proprio agli antenati latini. Tra questi, la barretina, il tipico cappellino rosso, deriverebbe direttamente dal berretto frigio e la cipolla tenera, cotta alla brace col metodo della calçotada, non sarebbe altro che l’erede del porrus capitatus, diffuso e consumato in Pannonia a cavallo del III secolo.

I fatti di Paganica 1848 – 1852: il libro di Fernando Rossi. I fatti di Paganica 1848 – 1852: gli eventi antiborbonici negli atti del processo, in un libro di Fernando Rossi. Goffredo Palmerini su La-notizia.net il 27 Febbraio 2022.

Non sarà mai adeguato l’apprezzamento del lavoro prezioso che Fernando Rossi fa, arricchendo con le sue ricerche la conoscenza della storia civica, in particolare riguardante Paganica, paese dove è nato e vive. Che dire allora di questo suo nuovo volume “1848-1852 I fatti di Paganica”, fresco di stampa? Anzitutto che il libro mi ha intrigato sin dalle prime pagine, come può intrigare una storia di fatti prodromici del Risorgimento. Si tratta appunto dei primi moti in un paese dell’aquilano, nel Regno delle due Sicilie: il conflitto politico tra “realisti” e rivoluzionari di tendenze repubblicane – definiti con un termine assai colorito “riscaldati” e talvolta “sovversivi” -, fino a sfociare in campo giudiziario, con le indagini condotte dal Procuratore del Regno, quindi nel processo presso la Gran Corte Criminale dell’Aquila.

Non entrerò nel dettaglio delle vicende. Sarà bene lo faccia il lettore seguendo la linearità della narrazione, corredata dalla puntale citazione documentale che l’autore ha espunto dai preziosi fondi dell’Archivio di Stato dell’Aquila, faldone della Gran Corte Criminale “I fatti di Paganica”. Mi limiterò ad osservazioni di ordine generale – peraltro espresse in Prefazione al volume accanto all’interessante contributo di Giustino Parisse – prima di tutto sul valore e sulla forza inoppugnabile del “documento” nella trattazione di vicende storiche. Una forza, quella dei documenti, capace di controvertere supposizioni finora ritenute affidabili, come quella di ritenere che i moti risorgimentali fossero fenomeni riservati particolarmente alle élites intellettuali e ad una borghesia professionale evoluta, dove le classi popolari – braccianti, contadini, artigiani – avevano presenza, peso e ruolo del tutto marginali.

Questa storia, sebbene nella sua dimensione locale, consegna invece una verità del tutto diversa, laddove dei 62 imputati nel procedimento giudiziario almeno 44 sono di estrazione popolare, 4 sono sacerdoti, gli altri sono proprietari terrieri, borghesia professionale e 4-5 di antiche famiglie blasonate o quasi (Dragonetti, Antonelli, Volpe, Vicentini). Dunque quasi due terzi degli attori di quelle vicende, iniziate nel 1848 e approdate nel luglio 1849 in un procedimento giudiziario dagli aspetti talvolta singolari, sono provenienti da classi popolari e, in entità davvero sorprendente dal clero, con ben 4 sacerdoti – e un Don Marco Arpea, parroco di Paganica, davvero focoso – quando solitamente si è portati a ritenere i preti, specie a quel tempo, con tendenze politiche conservatrici e piuttosto schierati con il potere costituito.  

Molto mi ha colpito la figura dell’imputato Ludovico Iovenitti, un popolano, sarto di mestiere, che già si era fatti diversi anni di reclusione, per fatti insurrezionali precedenti, nel terribile carcere di Ventotene, da dove un paio di condannati nel suo stesso processo non sarebbero usciti vivi. In tutta questa vicenda Ludovico Iovenitti risalta per dignità e linearità di comportamento processuale. Lo voglio citare come una figura esemplare. Contrariamente ad altri comportamenti di taluni imputati e ancor più di tutti coloro – “realisti” accusatori e talvolta di testimoni – che quelle vicende contrassegnarono con delazioni, esposti e contro-esposti, insinuazioni squallide e quanto di peggio può uscire da una comunità fortemente divisa e contrapposta, lacerata dall’odio e dal rancore, malata di invidie e gelosie, ottenebrata dalla cattiveria. Uno squallore che non poteva trarre ragione dalla differenza di visione politica, tra i lealisti ai regnanti borbonici e chi invece aspirava ad una monarchia veramente costituzionale o meglio ad una repubblica, così come Mazzini la preconizzava.

Lascio alla lettura dell’interessante volume la scoperta del procedimento d’indagine, assai lacunoso in verità, almeno all’inizio, con il rinvio a giudizio, il 7 aprile 1851, per 25 imputati, accusati dalla Gran Corte di reati politici riferiti alle rivolte del 1848-49. Quindi l’inizio del dibattimento, il 25 aprile 1851, l’arringa del Procuratore generale del Re tenuta il 30 aprile e la sentenza della Corte, con condanne che vanno dai 9 anni di detenzione (Giovanni Antonelli, Rodrigo De Paulis),  8 anni (Camillo Visca), 7 anni (Ascanio Vicentini, Isidoro Strina, Raffaele De Vecchis), tutti poi reclusi a Ventotene, ai 3 anni di prigionia (Achille Pieri, Giuseppantonio Tarquini, Nicola Visca, Natale Evangelista, Vincenzo Iovenitti, Giosuè Tarquini, Giacomo Mastracci, Francesco Piccirilli) e ad un anno di prigionia (Gioacchino Volpe, Isaia Tarquini, Domenico De Paulis, Giuseppe Perazza, Fabiano Crosta).

Assolti e rimessi in libertà Domenico Iovenitti, Giovanni Petricca, Cesare De Paulis, Luigi Cirilli e Tommaso Facchinei, mentre Ludovico Iovenitti restava recluso nel Carcere di San Domenico per consentire un supplemento d’istruttoria perché le testimonianze a suo carico e a suo discarico erano tali da far permanere il dubbio sulla sua colpevolezza. Sarà poi assolto.

Resta, per quanto ne ho tratto, un giudizio impietoso su quegli anni a Paganica. Non solo per quel che portò sul piano giudiziario, quanto per il comportamento sociale e morale della comunità paganichese latamente intesa. In fin dei conti non si viveva un buon clima in quegli anni a Paganica, anzi il clima era decisamente pessimo. Ai nostri occhi appare tutta la devastazione di una comunità che non avremmo mai immaginato, se non avessimo potuto averne contezza attraverso queste pagine illuminanti. Un clima che conoscerà qualcosa di simile, rispetto ai comportamenti sociali e morali, solo durante gli anni del regime fascista. Vanno giudicate con severità queste vicende, certamente, ma è la nostra storia, la storia di quegli anni della comunità paganichese. Una storia che dovrebbe – mutatis mutandis – anche oggi ammaestrare sul danno che comportano alla comunità le divisioni alimentate da sentimenti “altri” rispetto al sano confronto politico, anche contrassegnato dalla durezza. Una democrazia matura, però, dovrebbe sempre saper ricercare una sintesi per il bene comune. Ma questa è storia controversa anche ai giorni nostri, purtroppo!

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Matteo Collura per "il Messaggero" il 23 febbraio 2022.

Di Camillo Benso, conte di Cavour, fin dai tempi di scuola ne abbiamo un ricordo obbligato, quello di un uomo che posa accigliato davanti ai suoi ritrattisti, impaziente di tornare al tavolo di lavoro, dove lo aspettano importanti documenti da firmare e lettere da inviare in giro per l'Europa. Gli occhialini da miope ad accentuare il suo aspetto di ammirato statista. 

Insomma, uno dei nostri laici santi protettori, Cavour, forse il più autorevole, e soprattutto colui il quale politicamente seppe creare l'Unità d'Italia. Un ritratto non bugiardo, questo, ma che appartiene a una fase della sua breve vita, quella che lo vide impegnato negli ideali del Risorgimento.  

Nulla a che vedere, questa fase, con la precedente, quella in cui lo si scopre un bel giovanotto (lo dimostrano i ritratti che riguardano quella sua stagione), dedito agli amori al tempo suo più pericolosi, quelli vissuti con donne sposate, e giovane imprenditore capace di far fruttare proprietà terriere che sembravano condannate a vivacchiare tra gli stenti. 

Un piemontese dal carattere forte e dalle idee innovative, Camillo Benso, conte di Cavour, specialmente nel campo imprenditoriale, dove seppe trasformare terre tenute scarsamente produttive dall'antica prudenza contadina, in moderne e prosperose aziende agricole. Del resto, ancora oggi, basta fare un giro nelle Langhe, dalle parti del castello di Grinzane, per rendersene conto. 

Così come anche dalle parti di Vercelli, nelle proprietà che furono della sua famiglia. Ma si diceva degli amori del giovane Camillo Benso, e si stenta a credere che una donna, bella e ricca, e purtroppo ammogliata, finì suicida per amor suo. Si chiamava Anna Giustiniani, detta Nina, questa nobildonna, la quale non ancora trentacinquenne si tolse la vita lanciandosi da una finestra del suo palazzo di Genova, dove abitava con la famiglia. 

Dobbiamo questo insospettabile ritratto del primo presidente del Consiglio dei ministri del neonato Stato italiano, a un libro appena pubblicato da Franca Porciani per le Edizioni Rubbettino, Cavour prima di Cavour La giovinezza fra studi, amori e agricoltura, prefazione di Nerio Nesi, presidente onorario della Fondazione intitolata al grande statista. 

L'autrice ha letto tutto quanto c'era da leggere sulla vita di Cavour e ne ha estratto momenti esemplari, ricavandone un racconto agile e di gradevole lettura. Biografi, storici, testimoni, eccoli uno dopo l'altro restituirci brani di un'esistenza che soltanto in quegli anni e in quel secolo in cui visse, Camillo Benso poté esprimere in tutta la sua eccezionalità.  

«Il racconto della vita di Cavour di questo libro», avverte l'autrice nell'introduzione, «termina dove inizia l'avventura politica del grande statista, vicenda raccontata da tanti autorevoli storici; noi ci siamo dedicati al giovane imprenditore, vitale, curioso e ambizioso, e all'amante libertino». 

Libertino e geniale imprenditore, Camillo Benso, conte di Cavour. «E lo fu», annota Franca Porciani, «perché il suo destino era quello del figlio cadetto e come tale nullatenente (le regole dell'epoca imponevano che tutto il patrimonio andasse al primogenito, il fratello Gustavo), un destino che lo avrebbe costretto a diventare il parassita del fratello, ospite in casa propria».  

Restava così al giovane Camillo Benso, come unica alternativa, la carriera militare, che lui rifiutò. Scrive in proposito Franca Porciani, «per la sua insofferenza nei confronti della monarchia sabauda conservatrice e bigotta cui si ribellava già da ragazzino». Dunque, Cavour rinunciò alla carriera militare quando aveva poco più di vent' anni. E questo segnò la svolta fondamentale nella sua vita. 

Egli, annota ancora l'autrice, «aveva molte frecce nel suo arco: grazie ai parenti della madre, ginevrina, aveva respirato fin dall'infanzia un'atmosfera culturale estremamente liberale e stimolante, ben diversa da quella ristretta e provinciale di Torino». Fu così che Cavour divenne Cavour.

L'altra storia del Sud. E' proibito studiare la storia dell'Occidente? Il Sudonline il 25 febbraio 2021. I libri di Rodney Stark, americano del Texas, sociologo della Religione e docente di Scienze sociali, nonché storico, sono “politicamente scorretti”, come si usa ormai dire. Il motivo? Perchè si permettono di celebrare la Civiltà Occidentale. Pertanto sono passibili di contestazione o di diventare magari “prede” dei pacifici Black Lives Matter. Da troppo tempo i valori dell'Occidente non sono più di moda, non solo ora che sono ampiamente contestati, ostracizzati e perfino odiati. Tanto che i corsi di sulla civiltà occidentale sono stati eliminati dalla maggior parte delle università americane...

BREVE STORIA DELLE FINANZE NAPOLETANE DA SCIALOJA A EINAUDI. Michele Eugenio Di Carlo su Il Sudonline il 25 febbraio 2021. Dopo l’attentato del dicembre 1856 alla vita di Ferdinando II di Borbone, a produrre una robusta detonazione nel clima politico e sociale napoletano era stato Antonio Scialoja con un opuscolo che metteva a confronto i bilanci napoletani con quelli torinesi, sostenendo la superiorità delle politiche economiche piemontesi rispetto a quelle napoletane. Scialoja, ritenuto uno dei migliori economisti italiani, aveva nel 1840 pubblicato ad appena 23 anni “I Principi di economia sociale esposti in ordine ideologico” 2 , nel 1846 insegnava Politica economica all’Università di Torino. Tornato a Napoli nel 1848 veniva nominato ministro dell’Agricoltura e del Commercio nel governo costituzionale di Carlo Troja. Nel 1852 tornava da esule a Torino, riprendendo il suo incaricato di docente all’Università e veniva aggregato al Ministero delle Finanze per indirizzare la politica economica-finanziaria sabauda in strettissima collaborazione con Camillo Cavour, perfettamente allineato alle sue idee liberali e patriottiche 3 . Tra l’altro, unitamente agli esuli Pasquale Stanislao Mancini e Giuseppe Pisanelli, scriveva il “Commentario del codice di procedura civile per gli Stati sardi”. Nell’opuscolo Scialoja criticava il regime doganale teso a proteggere i prodotti industriali del Regno delle Due Sicilie e, in merito al bilancio napoletano, polemizzava contro la propensione delle politiche finanziarie a non indebitarsi, mentre invece il bilancio di Torino era in deficit a causa di investimenti che stavano producendo – a suo dire – sviluppo e ricchezza. L’opuscolo era stato accolto dal sovrano e dai suoi ministri come «un colpo di fulmine», considerato che Scialoja chiudeva con un confronto impietoso tra «l’alta posizione morale e politica del Piemonte, e il grado d’inferiorità, in cui era il Regno di Napoli». Tra le pieghe, peraltro, era del tutto evidente l’affondo ad un sistema ritenuto corrotto che il governo napoletano consentiva. Sull’opuscolo di Scialoja, lo storico Raffaele De Cesare, a fine Ottocento, non andava oltre una semplice difesa d’ufficio di Ferdinando II, riconoscendo che «era onesto, personalmente, e parsimoniosa la famiglia reale, forse più che non conveniva al suo grado». Come era del tutto prevedibile, il napoletano Scialoja fu accusato di denigrare la propria patria e ben nove studiosi, con poca fortuna, pensarono di confutare le sue tesi, alcuni noti come Tommaso Michele Salzano, teologo e giurista, Agostino Magliani alto funzionario del Ministero delle Finanze, Niccola Rocco, giurista di fama, Francesco Del Re, altri meno conosciuti come Francesco Durelli , Girolamo Scalamandrè, Ciro Scotti, Alfonso de Niquesa, Pasquale Caruso. Era fin troppo chiaro che Scialoja, stretto consulente di Cavour, aveva innanzitutto l’interesse politico di portare alla ribalta l’arretratezza del Mezzogiorno facendo un confronto con quella che riteneva una superiore gestione politica, economica e, persino morale del Regno di Sardegna. L’amministrazione finanziaria napoletana era stata efficacemente regolata con una legge risalente in buona parte all’impostazione organica del Decennio francese, invece Scialoja preferiva trarne riferimenti critici dalla legislazione che aveva preceduto di alcuni secoli quella post Restaurazione. Il cilentano Magliani, nel suo opuscolo di confutazione delle tesi di Scialoja, obiettava che i bilanci napoletani, dopo essere redatti dai ministri dei vari dicasteri, venivano trasmessi al Ministro delle Finanze e dovevano superare il vaglio del Consiglio dei Ministri e del Consiglio di Stato. Si trattava, secondo Magliani, di una procedura rigorosa che assicurava ampie garanzie di correttezza . Agostino Magliani (Laurino, 1824 – Roma 1891) Raffaele De Cesare riferisce anche dei rapporti personali che intercorsero tra Scialoja e Magliani a unificazione d’Italia acquisita, quando l’esule napoletano, tornato a Napoli, viene nominato da Giuseppe Garibaldi ministro delle Finanze del governo dittatoriale. In un periodo di epurazione dei funzionari borbonici, Magliani si rivolge a Carlo De Cesare, zio dello scrittore di Spinazzola, direttore del ministero delle Finanze, pregandolo di sostenerlo con il nuovo ministro per evitare il licenziamento: «Magliani pregò mio zio d’intercedere presso Scialoja, assicurandolo che egli aveva pubblicato il noto opuscolo, non perché dividesse le idee, ma perché aveva dovuto ubbidire agli ordini del Re». Scialoja e Magliani si incontrarono e divennero amici 14 . D’altra parte Federico Del Re, nella sua “Analisi dell’opuscolo”, sicuro che il vero fine di Scialoja era stato quello di screditare il governo napoletano contestava l’affermazione che Napoli era l’unica in Europa a non rendere pubblici i bilanci: «gli stati discussi […] si comunicano e diramano, senza alcuna riserva, a tutte le officine della tesoreria, alla Gran Corte dei Conti e alle amministrazioni […] tutti possono consultarli». Luigi Einaudi, l’economista secondo presidente della Repubblica Italiana dal 1948 al 1955, in un saggio del 1953 sulla controversia tra Scialoja e Magliani, ricorda che il funzionario delle Finanze, superate le difficoltà iniziali dell’unificazione, «fu in seguito ripetutamente ministro delle finanze nel regno d’Italia, dal 26 dicembre 1877 al 24 marzo 1878 e dal 19 dicembre 1878 al 14 luglio 1879 con De Pretis, dal 25 novembre 1879 al 29 luglio 1887 in successivi gabinetti Cairoli e De Pretis, e di nuovo, per breve tempo, dopo il 7 agosto 1887 con Crispi, tenendo a lungo altresì la reggenza del ministero del tesoro» . Melfi, paese natale di F.S. Nitti (Melfi, 1868 – Roma, 1953) Einaudi, esaminata la controversia tra Scialoja e Magliani, annota che nel 1890, al profilarsi di un nuovo ritorno di Magliani al ministero delle Finanze nel secondo gabinetto di Francesco Crispi, veniva ripubblicata la replica 17 dell’economista cilentano a Scialoja. Il testo conteneva una prefazione avente il preciso fine di denigrare il più volte ministro delle Finanze, accusandolo di aver attaccato Scialoja ministro del governo costituzionale del 1848 a Napoli, deridendo «la libertà costituzionale, i vantaggi di uno statuto, la cospirazione in pro’ dell’indipendenza nazionale, la guerra che la Lombardia muoveva all’Austria». E, cosa ancor più grave, e probabilmente imperdonabile per quei tempi, «oggi Agostino Magliani, in Napoli, parla della situazione finanziaria dell’Italia, paragonabile per tanti versi a quella del Piemonte di allora. E, criticando il fin qui fatto, in cui egli ebbe tanta parte e dubitando della patria, dà prova dello stesso accorgimento politico con cui nel 1858 giudicava salda e sicura la monarchia di Ferdinando II proprio alla vigilia della sua rovina» 18 . In pratica, nel tentativo di ostacolare la via di un nuovo incarico ministeriale a Magliani, lo si riconsegnava alla storia in veste di strenuo difensore della monarchia borbonica. Tra l’altro, era quasi inevitabile che Magliani, vista la catastrofica condizione economica e sociale in cui le politiche sabaude avevano fatto precipitare il Mezzogiorno, cominciasse a criticare quegli indirizzi politici che nel tentativo di apportare linfa vitale all’industrializzazione del nord del Paese stavano continuando a drenare, ininterrottamente dal 1860, enormi risorse materiali e umane dal Mezzogiorno, impoverendolo e rendendolo sempre più arretrato e meno competitivo. Riguardo al gravoso sistema fiscale piemontese, Einaudi sembra propendere decisamente per le tesi di Scialoja condividendo che «le imposte gravano sui popoli solo quando sono estorte da governi oppressori ritornati sulla punta delle baionette straniere, come era il governo borbonico; laddove, se sono esatte da governi nazionali e volte a beneficio universale, benchè le nude cifre paiono dure, in effetto quelle imposte crescono ricchezza e potenza ai popoli medesimi» 19 . Una ricchezza e una potenza di cui certamente il Mezzogiorno non aveva potuto godere, nonostante il grande contributo che aveva dato all’unificazione nazionale; unificazione avvenuta «sulla punta delle baionette» inglesi, circostanza che forse allora Einaudi ignorava del tutto. Lo stesso Einaudi, tornando alla controversia, la definitiva «memorabile non tanto per la analisi concreta delle entrate e spese borboniche confrontate a quelle sarde, quanto per i problemi fondamentali che furono allora posti». Ancora nel 1853, anno in cui moriva a Roma Francesco Saverio Nitti, Einaudi scriveva, stupendosi per l’ignoranza quasi generale degli studiosi sui documenti contabili preunitari contenuti negli archivi napoletani, che «sarebbe in verità tempo che, senza rifar processi, fossero studiate accuratamente le finanze borboniche dal 1815 al 1860, meglio di quel che oggi possa farsi sulle monche e contrastanti notizie che si leggono […]» 20. Dimenticava, forse, il piemontese Einaudi, che mezzo secolo prima il collega Nitti aveva già reso noto i suoi studi sulle finanze degli Stati italiani preunitari, concludendo che «senza l’unificazione dei vari Stati, il regno di Sardegna per l’abuso delle spese e per la povertà delle risorse era necessariamente condannato al fallimento» 21 . In altre parole, le finanze piemontesi si erano salvate dal fallimento grazie all’annessione violenta del Regno delle Due Sicilie.

Che cosa ci insegna la storia del Partito d'Azione. Simonetta Fiori su La Repubblica il 10 aprile 2021. La formazione politica erede della Resistenza visse una breve stagione. Ma si batté per la scelta di una classe dirigente forte contro la crisi. Come è necessario fare oggi. Parla lo storico Giovanni De Luna, mentre esce la nuova edizione del suo saggio. Quando uscì il libro, quarant'anni fa, il nodo storiografico era perché il Partito d'Azione fosse finito nell'arco di un quinquennio. Oggi la domanda è perché l'azionismo sia durato così a lungo, tanto da riuscire a dirci qualcosa ancora oggi". Giovanni De Luna scioglie il paradosso di una tradizione politica scaturita dall'innesto di correnti ideali diverse - liberaldemocratica, socialista liberale, Giustizia e Libertà - , sopravvissuta nella forma di partito solo dal 1942 al 1947, ma destinata a permeare la cultura novecentesca e il primo quarto del XXI secolo. L'occasione è la riedizione del volume che rappresentò una pietra miliare negli studi sul PdA, Storia del Partito d'Azione 1942-1947, riproposto ora da Utet con il nuovo titolo Il partito della Resistenza. "Ricordo le presentazioni di allora, con tutti i protagonisti ancora vivi. Norberto Bobbio. Vittorio Foa. Alessandro Galante Garrone. Leo Valiani. Dopo i primi cinque minuti di rituale elogio dell'autore, riprendevano ad accapigliarsi come se fossimo ancora al congresso fiorentino della scissione. Credo che il libro abbia rappresentato per loro una sorta di liberazione. Sottrasse il partito ai ricordi e glielo riconsegnò come storia. Non erano più costretti a difendere le posizioni d'un tempo, ma diventavano attori di una vicenda con la quale potevano misurarsi serenamente".

Come si spiegava allora il sostanziale fallimento dell'avventura politica?

"L'opinione prevalente era che il partito fosse destinato a soccombere per la sua intrinseca contraddittorietà. Troppi ossimori in una stessa formazione: liberalsocialismo, comunismo libertario, il binomio giustizia e libertà per il quale Benedetto Croce aveva evocato l'immagine di un ircocervo. Secondo questa interpretazione, fu l'eccesso di discordanze a segnarne l'epilogo".

E lei la condivideva?

"No, al contrario. Trattandosi di un partito novecentesco, ero convinto che fosse stato il mancato radicamento nei ceti medi a decretarne la sconfitta. Gli ossimori invece ne rappresentavano la ricchezza: più che il segno della disgregazione, mostravano quello della ricerca e della fantasia progettuale".

È quindi nelle contraddizioni la chiave della prolungata fortuna?

"Sì, la pluralità di anime e la ricerca inesausta di possibili soluzioni fecero fatica a coagularsi in un'esperienza partitica, ma crearono le condizioni perché l'azionismo agisse come un fiume carsico nel corso della storia repubblicana, capace di affiorare nei momenti di crisi e transizione. Luglio del 1960, il Sessantotto, la fine degli anni Settanta, l'inizio dei Novanta: tutte le volte in cui occorreva inventare un nuovo progetto, l'azionismo è apparso il paradigma politico più efficace. È nella sua dimensione incompiuta che va cercato il segreto della tenuta".

Se il partito d'azione ha resistito per pochi anni, gli azionisti hanno dominato la scena culturale per oltre un secolo.

"Gli azionisti, le loro irripetibili personalità, sono l'altra chiave del successo di una tradizione culturale. Indipendentemente dall'approdo politico successivo - il partito repubblicano per Ugo La Malfa, quello socialista per Emilio Lussu e Francesco De Martino, il Psiup e la Cgil per Foa, la militanza culturale e non partitica per Bobbio, Galante Garrone, Nuto Revelli - erano profondamente legati da una forte identità che discendeva anche da un dato esistenziale: tutti, ma proprio tutti, riconoscevano nella Resistenza il punto più alto della loro biografia. Anche La Malfa ricordava come momento fondamentale della sua formazione aver seminato i chiodi a tre punte per impedire ai tedeschi di proseguire l'azione di guerriglia. La lotta partigiana fu l'appuntamento con la storia".

Per questo ha cambiato il titolo del libro in "Il partito della Resistenza"?

"Il riferimento non è solo all'esperienza storica vissuta contro i nazifascisti. In quel passaggio mostrarono uno slancio ideale che sarebbe stata la cifra del loro riformismo militante. Seppero dare alla gradualità del riformismo quella dimensione messianica che il riformismo socialista di Turati non aveva. I loro morti nelle fasce medie e alte del partigianato furono molto superiori a quelli dei comunisti. E questo accadeva perché avevano una concezione quasi sacra della lotta politica. Riferendosi al loro sacrificio, Piero Calamandrei parlò espressamente di "religione". Gli azionisti furono capaci di costruire un piccolo pantheon della religione civile degli italiani in cui ancora ci riconosciamo. E la Carta costituzionale recepì molto del loro afflato religioso".

È la ragione per cui negli anni Novanta, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, furono oggetto di una violenta polemica.

"Furono ritratti come voltagabbana, cacciatori di prebende, utili idioti al servizio dei comunisti. Venivano colpiti personalmente, ricordo ancora il dolore di Bobbio per la pubblicazione della sua lettera giovanile a Mussolini. Venivano attaccati perché rappresentavano l'unica tradizione decente e pulita della sinistra italiana. Dopo il crollo del Muro di Berlino, i comunisti avevano buttato a mare anche ciò che di buono avevano fatto, scomparendo dall'arena dell'uso pubblico della storia. E l'azionismo sopravviveva come il solo filone culturale che potesse fare da scudo all'antifascismo".

Il bersaglio era l'antifascismo. E "azionista!" divenne quasi un insulto.

"L'antifascismo era il paradigma di fondazione della prima Repubblica che andava cancellato per far posto alla seconda. Su questo ci fu una piena concordanza tra Lega, Forza Italia e una larga parte dei mezzi di comunicazione di massa, tra giornali e Tv. La Resistenza fu rappresentata come un'orgia di sangue, i partigiani come macellai. Il 25 aprile una festa da liquidare".

Colpisce che la tradizione culturale dell'azionismo sia presente nella scena politica del nuovo secolo: ancora oggi ci si richiama ai valori del socialismo liberale.

"Io credo che l'attualità dell'azionismo debba essere trovata nella capacità dei suoi protagonisti di selezionare una classe dirigente. Guido Dorso e Manlio Rossi Doria, due grandi azionisti meridionalisti, riflettevano sulla possibilità di trovare "i cento uomini d'acciaio". Chi sono gli uomini di acciaio? Sono personalità adeguate all'emergenza, capaci di esprimere il meglio del paese. Gli azionisti non puntarono alla rivoluzione sociale o alla dittatura del proletariato, ma alla costruzione di un ceto politico all'altezza della sfida del tempo. Seppero trasformarsi da intellettuali a combattenti, e poi furono capaci di guidare la ricostruzione".

Grazie anche all'aiuto delle altre forze democratiche, riuscirono a risollevare il Paese in poco tempo.

"I verbali del governo Parri raccontano un Paese distrutto. In Italia non c'erano più le case né i trasporti, solo macerie materiali e morali. Nell'arco di tre anni, dal 1945 al 1948, gli indici della produzione industriale tornarono ai livelli di dieci anni prima. E intanto fu scritta la Carta Costituzionale. Il miracolo non è una categoria storiografica e quindi tutto ciò può essere spiegato solo con la forza e la competenza di quelle classi dirigenti. È questo il principale lascito dell'azionismo, soprattutto in un momento di confusione come il nostro: la capacità di scegliere gli uomini all'altezza della sfida".

La selezione era avvenuta allora in piena emergenza, negli anni di guerra.

"Ma questo rende ancora più attuale una tradizione culturale che ha rivendicato l'occasione storica del disastro: allora era il tempo del ferro e del fuoco, oggi è la pandemia con la grave crisi economica e sociale. Per ricominciare bisogna dotarsi di quello slancio progettuale, senza avere paura degli ossimori".

Storia d’Italia, il 1946: dal fascismo ai coriandoli la nascita della Repubblica. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Luglio 2020. Volete capire davvero cosa sta succedendo? Perché siamo a questo punto e a che punto siamo? Volete sapere chi siete, o chi potevate essere, o chi non sarete mai, e chi erano i vostri genitori? Non ci riuscirete se non ripassate la storia. Se non studiate il passato, le radici. E allora abbiamo chiesto a Paolo Guzzanti di raccontarci la storia della Repubblica. Da quel gennaio del ‘46, quando la Repubblica nasceva e lui doveva ancora compiere sei anni, fino ad oggi, che la Repubblica è diventata seconda o terza o quarta, e lui è arrivato a ottanta. Lo farà con un articolo a settimana, per settanta settimane, correndo sul filo della sua memoria, e degli studi che ha fatto, e della sua attività di giornalista. Lo farà con la sua penna e le sue idee. Buona lettura.

Il 1946 fu l’anno in cui nacque la Repubblica. Infatti, per imitare l’inizio di Pinocchio, cominceremo col chiedere: “C’era una volta?”. “Una repubblica! “ diranno i piccoli lettori. No, cari ragazzi, avete sbagliato: c’era una volta un re. Ma molto piccolo. Lo chiamavano “Sciaboletta” e per lui avevano dovuto abbassare di parecchi centimetri l’altezza minima alla visita di leva. Era stato lui a chiamare al governo Benito Mussolini nel 1922 quando molti gli consigliavano invece di farlo arrestare ed era stato sempre lui a farlo arrestare una settimana dopo il primo bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 organizzando un colpetto di Stato perfettamente costituzionale. Il fascismo è stata l’unica dittatura della Storia abbattuta con un voto di sfiducia dopo “ampio e approfondito dibattito” nel Gran Consiglio del Fascismo che era un organo costituzionale.

Quando, all’alba del 25 luglio, il Duce tornò a Villa Torlonia la moglie Rachele era sulla soglia in ansia e gli chiese: «Mo’ Ben, com’è andata?». E lui: «Mi hanno messo in minoranza e hanno ridato i poteri al re». Rachele si infuriò: «Ma avresti dovuto fare come Hitler, ti portavi un po’ delle tue camicie nere e li facevi fuori tutti». Mussolini era ancora ottimista: «Oggi vado dal re e sistemo tutto» rispose esausto. Invece era stato il re a sistemare tutto: arrivato a Villa Savoia con le ghette e il cappello, Mussolini fu fatto accomodare nel salottino, il suo autista e la scorta furono arrestati, il re gli disse che l’aveva sostituito con il maresciallo Pietro Badoglio ma che non doveva preoccuparsi per la sua incolumità. Poi lo accompagnò all’ambulanza che lo aspettava piena di carabinieri che però non sapevano che Mussolini era agli arresti.

Ne seguì una peregrinazione comica finché il capo del fascismo fu sistemato in albergo isolato di Campo Imperatore dove fu tentato dall’idea del suicidio con la piccola pistola che gli avevano lasciato e fu liberato da un commando di nazisti forsennati guidati da Otto Skorzeny al comando di alcuni alianti. Quel piccolo re aveva visto che per lui e casa Savoia tirava un’aria pessima, ci sarebbe stato un referendum e preferì andare in esilio lasciando suo figlio Umberto che fu re per un solo mese e detto “Il Re di Maggio”. Fu indetto il referendum per il 2 giugno del 1946 e con il referendum gli italiani e per la prima volta le italiane che non avevano mai votato ai tempi del Regno furono chiamati ad eleggere il primo Parlamento come Assemblea Costituente e dire se volevano restare un regno o diventare una Repubblica. Le forze maggiori – socialisti (che erano più numerosi dei comunisti) i comunisti, larga parte dei cattolici molti fascisti che votavano Uomo Qualunque o altre formazioni minori – erano repubblicane. Ma quando cominciò lo spoglio delle schede al ministero degli Interni si accorsero che i voti per il re superavano di gran lunga quelli per la Repubblica e scoppiò il panico. Il ministro Romita decise di non dir nulla finché lo spoglio non fosse finito e fu una faccenda lunghissima e controversa. Il Sud aveva votato in massa per il re e il Nord in massa per la Repubblica. Ci furono accuse di brogli e ancora oggi se ne parla anche perché qualcuno ebbe la discutibile idea di bruciare le schede votate sicché non si poté fare una riconta. Il presidente della Cassazione anziché annunciare la vittoria della Repubblica disse che si sarebbero prima discussi i ricorsi e si rischiò la guerra civile. Il nuovo re-luogotenente Umberto Secondo, ad urne aperte, scoprì di essere ancora il re e fece sapere che se non si fosse risolta la questione immediatamente avrebbe nominato un suo governo, mentre era presidente del consiglio Alcide De Gasperi, il leader democristiano trentino che per anni era stato un deputato dell’Imperial Regio Governo a Vienna. La minaccia era seria: se il “Re di maggio” faceva un governo formalmente legittimo ci sarebbero stati due governi e probabilmente la guerra civile. De Gasperi prese una decisione molto audace: si proclamò Capo provvisorio dello Stato al posto del Re luogotenente che preferì salire su un piccolo aereo e partire dopo aver sventolato il suo cappello con aria mesta davanti a una folla di monarchici piangenti. Casa Savoia aveva tentato di giocare a carta americana: Real Casa chiese alla Casa Bianca di essere sostenuta contro il “pericolo sovietico”. Ma avevano sbagliato i conti: alla Casa Bianca, dove Harry Truman era succeduto a Franklin Delano Roosevelt, erano tutti repubblicani, odiavano tutti i re e specialmente quelli italiani. Chi era molto seccato per l’esito del referendum fu Winston Churchill che seguitava a sognare un mondo di imperi e di teste coronate.

La massa degli elettori italiani aveva votato per i tre grandi partiti: la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi con più di otto milioni di voti, il Partito socialista di unità proletaria di Pietro Nenni con quattro milioni e 758 mila voti e il Partito comunista di Palmiro Togliatti (sotto il 20 per cento, superato dai socialisti quasi al 21) con poco meno di quattro milioni e mezzo. I tre quarti degli italiani avevano votato i grandi partiti e fra questi c’era una forte maggioranza di sinistra perché socialisti e comunisti formavano ancora una unione “socialcomunista” e si parlava spesso di una possibile fusione. I democristiani avevano la maggioranza nelle aree che oggi sono della Lega, i comunisti nelle regioni “rosse” (che durante il fascismo erano state nerissime) e i socialisti con uno spettro un po’ più largo. Che Italia era? Posso dire quel che ricordo da bambino: una sovreccitazione frenetica nelle strade, tutti correvano in bicicletta, urlavano, formavano crocicchi, sembra la celebrazione del “Free Speach” dei parchi londinesi. Preti assatanati contro i comunisti, rivoluzionari, casalinghe, operai, professori, tutti trovavano una cassetta della verdura su cui salire e parlare al popolo. Ma pochi sanno che durante il Regno d’Italia e fino alla fine della Grande Guerra nel 1918, la democrazia italiana era riservata per censo a una parte della borghesia: soltanto chi paga le tasse ha diritto di rappresentanza per decidere come spenderle. Con la fine della Grande Guerra fu concesso benignamente il voto a tutti gli uomini senza distinzione di censo.

E così il Parlamento si riempì di un caleidoscopio di partitini che contribuirono allo spappolamento della vecchia democrazia paternalistica. Nessuno usava il deodorante, non esisteva lo shampoo e i capelli erano lavati con saponi e bicarbonato. Tutti bevevano quantità insensate di pessimo vino a tavola, bambini compresi, e infuriava una dieta della pasta e dell’ingrassamento dopo gli stenti della guerra. Si aspettava ancora il ritorno di molti prigionieri di guerra che non sarebbero più tornati e mio padre vedeva in sogno il suo compagno di banco inghiottito dalle nevi della Russia. Era un’Italia a coriandoli: non votarono quelli dell’Alto Adige ancora sotto controllo alleato, ma votarono le città di Tenda e Oneglia che diventarono francesi. Roma era piena di soldati e la polizia vestiva con l’elmetto e viaggiava su jeep con la cappotta e si chiamava “la celere”, antisommossa perché le sommosse erano sempre nell’aria. Era ancora l’Italia del Cln (Comitato di liberazione nazionale di tutti gli antifascisti) ma era già l’Italia spaccata dalla guerra fredda. Tuttavia, si sapeva che l’Italia, come la Grecia, era stata assegnata all’Occidente e Stalin non gradiva colpi di mano. Erano gli anni di “Napoli milionaria” di Eduardo e della “Tammurriata Nera”, le molte nascite di bambini colorati presi in custodia da suore terribili come quelle di Fellini.

Era fatta: la guerra era finita davvero, la democrazia era cominciata davvero, i conti sarebbero stati regolati nel 1948 con le vere elezioni e tutto andava avanti con molta “borsa nera” (il mercato parallelo e l’arte di arrangiarsi, che era già nel Dna. Entusiasmi e disperazioni si affacciavano in ogni famiglia e paese, il mondo si spaccava e gli ultimi nazisti tedeschi avevano scelto l’Argentina come nuova patria provvisoria. Dall’America Latina un napoletano scrive “Munastero ‘e Santa Chiara” che descriveva il crollo morale ma tutti dicevano che bisogna guardare avanti, girare pagina, perché ormai chi ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato. Il che non era vero.

Storia d’Italia, il 1947: l’anno in cui tutta Europa ci odiava. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Luglio 2020. Fu l’anno che determinò il futuro. Nel 1947 tutti furono obbligati a mettere le carte in tavola e dire da che parte stavano. La guerra fredda era scoppiata e nessuno, ma proprio nessuno, sapeva che non sarebbe diventata calda. Al contrario: ricordo che nel 1947 mia madre affettava e metteva sotto sale un prosciutto di campagna da cui saltavano fuori dei vermi. non esisteva lo schifo. Tutto era buono. scatolette, tonno, fagioli, si faceva il sapone in casa con una puzza orrenda di pentoloni pieni di grasso animale. Un tappeto di patate sotto il letto. Taniche di petrolio per i lumi bellissimi pieni di nappe, nastrini e vetri colorati che mio padre aveva comperato perché la corrente saltava. Cocomero e burro sotto un filo d’acqua nel lavello di marmo della cucina. Estati torride senza un filo di vento. Freddo invernale con i geloni alle dita, lo scaldino nel letto con la brace, io mi portavo sotto le coperte di contrabbando il nostro gattone nero chiamato Fascista perché aveva una specie di M bianca sul petto. L’aveva portato un ingegnere amico di mio padre che frequentava il papa sostenendo che il micio era figlio della gatta di Pio XII, Pacelli, quello che aveva dischiuso le ali sulle macerie del bombardamento del 19 luglio al Tiburtino. Il fratello di mia madre era diventato comunista e girava in bici e con mio padre discutevano per ore sulla porta di casa, il secchio dell’immondizia foderato di carta di giornale. Le voci alla radio erano gracchianti perché il tono ufficiale era molto mussoliniano, a destra come a sinistra. Passato Capodanno, il giornale radio avvertì che il presidente del Consiglio stava volando verso gli Stati Uniti ed era la prima volta che De Gasperi usciva dall’Italia. L’espressione “Presidente del consiglio dei ministri” era stata scelta e usata solo in Italia al posto di primo ministro o capo del governo, per scongiurare l’arrivo dell’uomo forte. Il 1947 era l’anno in cui sarebbe stata votata la nuova Costituzione e quello in cui l’Italia avrebbe firmato il trattato di pace con le potenze vincitrici perdendo l’Istria con tutti gli istriani, fuggiti o infoibati, di cui nessuno voleva più sentir parlare. Trieste era tagliata in due, mezza americana e mezza comunista, Zona A, Zona B, e la faccenda sarebbe andata avanti per un pezzo. E poi sarebbe stato l’anno del Piano Marshall, dal nome del Segretario di Stato americano George Marshall, annunciato con un discorso all’Università di Harvard. L’America capovolgeva le tradizioni: i vincitori avrebbero rimesso in piedi i vinti a proprie spese, per evitare quel che era accaduto fra le due guerre mondiali. Ricordo, da ragazzino, un mondo di gente molto confusa, piena di ira e di frustrazione e tutti avevano voglia di mettere le mani addosso a qualcun altro. De Gasperi non era stato invitato dalla Casa Bianca ma dalla rivista Time. L’Italia non era popolare: era un Paese vinto e detestato. I francesi ci odiavano per averli “pugnalati come Maramaldo”. Gli inglesi ci odiavano per la guerra e ci odiavano i greci, gli slavi, i tedeschi e i russi perché avevamo mandato corpi di spedizione in casa loro. La guerra franco-prussiana del 1870 aveva lasciato i semi avvelenati della Prima Guerra Mondiale e la pace di Versailles aveva fatto schiudere le uova di serpente della seconda. Ora ci trovavamo all’inizio di una Terza Guerra: l’Occidente a guida americana e capitalista contro l’Oriente a guida russa e comunista. Scompariva l’Impero britannico, collassato per decisione americana. Roosevelt aveva avvertito gli inglesi: vi aiutiamo, ma voi dovete smontare tutta la baracca imperiale. E il disfacimento partì dall’India. Da un punto di vista esistenziale – l’esistenzialismo fioriva a Parigi – eravamo senza identità e temevamo la morte atomica, l’ultima novità prodotta a Hiroshima. Si seppe in quell’anno del diario di Anna Frank: la dimensione della Shoà era ancora non chiara. L’America accettava di riceverci, ma senza trombe e tappeti rossi. Quelli sarebbero venuti dopo. La delegazione che arrivò a Washington comprendeva il direttore della Banca d’Itala Domenico Menichella, Guido Carli direttore dell’Ufficio Cambi, il ministro del Commercio con l’Estero Pietro Campilli, su un affaticato quadrimotore Skymaster, tutti imbragati con i paracadute, salvo Menichella che era afflitto da un’enorme pancia. Due giorni di volo. De Gasperi si era affidato all’ambasciatore Alberto Tarchiani che conosceva bene l’America e che lo portò dal nuovo presidente Truman e che era diventato il mastino della guerra fredda. C’era stato il discorso di Winston Churchill all’università americana di Fulton in cui per la prima volta era stata inaugurata l’espressione iron courtain la “cortina di ferro” di ferro, che tagliava anche Trieste, città contesa agli jugoslavi del maresciallo Tito. Gli americani dettero a De Gasperi un assegno da cinquanta milioni di dollari come ringraziamento per l’aiuto ricevuto dall’Italia durante la guerra. Ma una cosa doveva esser chiara: i comunisti, dovevano andare fuori dal governo. Era scoppiato il caso greco. I comunisti greci, contro il divieto di Stalin, avevano cominciato una rivoluzione destinata ad essere repressa dagli inglesi senza che i sovietici muovessero un dito. Durante la visita di De Gasperi, il segretario di Stato James Byrnes si dimise perché non condivideva la nuova politica antisovietica. Lo sostituiva George Marshall, esperto mediatore fra comunisti e nazionalisti cinesi, l’uomo che avrebbe legato il suo nome al famoso “Piano”. L’Italia ottenne un finanziamento ulteriore di 100 milioni di dollari dalla Export Import Bank subito dopo il rientro di De Gasperi. Pietro Nenni, ministro degli Esteri e capo dei socialisti che era andato ad accoglierlo all’aeroporto, annotò sul suo diario che De Gasperi era «totalmente cambiato». Dietro il successo di quel primo incontro aveva lavorato come tessitore Francis Spellman, di 47 anni, che era stato creato cardinale l’anno prima da Pio XII. Francis Joseph Spellman, nato nel 1889 in Massachusetts, aveva fatto la spola fra l’ambasciata americana e lo studio del papa, per poi finire le sue serate nelle osterie di Frascati con il suo autista Francesco Lamonaca, che era il mio prozio di Forio d’Ischia. Questo mitico Zio Ciccio, leggendario narratore della Prima guerra mondiale vista con occhi napoletani, era diventato l’autista dell’ambasciata americana e del cardinale che lui chiamava Spellmànne e che gli raccontava nei dettagli, dopo aver raggiunto il necessario livello etilico, delle istruzioni ricevute dal papa per l’incontro alla Casa Bianca di De Gasperi. Il viaggio fu un successo. Ma fu subito chiaro che l’Alcide, era deciso a sbattere fuori i comunisti e i loro alleati. i comunisti devono uscire dai governi di coalizione in Occidente. E così fu. Pochi giorni dopo, Nenni si dimise da ministro degli Esteri e il suo partito si spaccava per la la scissione socialista di Palazzo Barberini, quando Giuseppe Saragat (futuro presidente della Repubblica anche lui come Spellman molto amante del vino) ruppe con il Psiup, fondando il Psli, poi Psdi, partito socialdemocratico italiano, pronto a governare con una Dc filoamericana e antisovietica. Fra gli scissionisti, a sorpresa, anche Anna Kuliscioff, rivoluzionaria comunista ebrea ucraina che in Italia aveva diretto il quotidiano socialista Avanti! con Benito Mussolini (di cui fu brevemente l’amante) e che poi era scappata in Unione Sovietica entrando nel gruppo dirigente leninista. Da cui poi era fuggita orripilata. E arrivò il Piano Marshall. Poiché tutti convenivano che l’avvento di Hitler fosse stato provocato dalle disumane condizioni in cui il popolo tedesco fu tenuto dai vincitori della Grande Guerra, gli americani decisero non di chiedere riparazioni e danni, ma al contrario di pagare di tasca loro il finanziamento economico della rinascita dell’intera Europa, Est ed Ovest. Qualcosa di inimmaginabilmente grande, perché comprendeva anche l’Unione Sovietica dei Paesi dell’Est, non ancora sotto dittatura comunista, come la Cecoslovacchia. Ma Stalin non ne volle sapere ed ordino a tutti gli Stati e partiti comunisti di opporsi al piano Marshall, malgrado le proteste di alcuni governi. In Italia il Pci si allineò con Mosca. Gli inglesi, seccati con gli americani che giocavano da padroni, resero noto il loro ritiro dalla Grecia in piena guerra civile e Truman accolse la notizia come un dato di fatti: nasceva la “dottrina Truman”, che delegava il comando all’imperatore d’occidente in Pennsylvania Avenue. Stalin era furioso: voleva che la Germania pagasse le riparazioni dovute, ma Molotov (“Martello”, il ministro degli Esteri di Stalin, lo stesso che aveva firmato con i nazisti il patto del 1939) fu sconfitto. Truman mise mano al portafoglio e sborsò 250 milioni per la Grecia e 150 per la Turchia, da proteggere da sovietici. In Italia Togliatti, con un colpaccio a sorpresa, ruppe l’unità delle sinistre e votò alla Costituente a favore dell’articolo 7 della Costituzione che avallava i patti fra Mussolini e Vaticano, per far breccia nei cattolici. Il primo maggio, la strage del bandito Salvatore Giuliano a Portella Della Ginestra. I manifestanti accolti dal fuoco delle mitragliatrici che falciano la folla con 800 colpi: 11 morti e 71 feriti. Giuliano ha da poco ricevuto i gradi di colonnello e la bandiera di combattimento dal congresso segreto dei separatisti che dicono di voler portare la Sicilia nella Confederazione degli Stati Uniti. Sarà una vicenda loschissima, che finirà con Giuliano ammazzato da suo cognato Gaspare Pisciotta in un finto conflitto a fuoco e con Pisciotta ammazzato con un caffè corretto, che produrrà il noto sketch “Venga a prendere un caffè da noi”. In Italia una crisi di governo a freddo estromette i comunisti, così come accade in Francia. A luglio il Comitato centrale del Pci dichiara impossibile proseguire nella “democrazia progressiva” ma Togliatti promette un atteggiamento moderato per non rompere l’unità nazionale antifascista. Il 7 settembre in un comizio a Parma Palmiro Togliatti allude a una forza armata del Pci di 30 mila uomini e il discorso viene interpretato come una minaccia al governo e improvvisamente scoppia una sorta di crisi insurrezionale alimentata dal maresciallo Tito e a settembre l’ambasciatore italiano a Washington Tarchiani si fa ricevere dall’assistente del segretario di Stato per avvertirlo della possibilità di una insurrezione sostenuta dall’Urss. Comincia così la vera guerra fredda italiana. Ad ottobre nasce la Cia che è succeduta all’Oss: giudica le forze armate italiane sufficienti per controllare una insurrezione, ma non per far fronte a un intervento jugoslavo. Monsignor Montini, il futuro Paolo VI e che sotto Pio XII fu un eccellente spy-master confermò al rappresentante diplomatico americano del presidente Truman l’appoggio morale della Santa Sede a un eventuale contro i comunisti. Il 27 novembre arriva al Viminale l’uomo duro dell’anticomunismo: Mario Scelba, in sostituzione del prefetto di Milano Ettore Troilo ex partigiano accreditato a sinistra. Gian Carlo Pajetta alla testa di un corteo partigiano occupò la prefettura e altri edifici pubblici milanesi. Togliatti e De Gasperi sdrammatizzarono la crisi e la disinnescarono. Era nato di fatto un primo compromesso storico fra la Dcfiloamericane e il Pci filosovietico. Una guerra fredda fatta di molte parole e larvate minacce sarebbe stata tollerata e considerata accettabile, dai tempi. Ma nessuno voleva sfracelli.

Storia d’Italia, il 1948: la “guerra” tra Togliatti e De Gasperi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Agosto 2020. Quando si dice “successe un Quarantotto”, si pensa a quello del 1800. Catastrofe rivoluzionaria, la Storia mise le macchine all’indietro tornando alle parrucche incipriate. Un secolo dopo, nel nostro 1948, finiva per sempre la finzione dell’unità antifascista. Fu l’anno delle elezioni vinte dai democristiani e perse dai comunisti, l’anno dell’attentato a Togliatti che – gravemente ferito – pensava soltanto a calmare gli spiriti e quando si risvegliò dall’anestesia chiese: che cosa ha fatto Bartali? Bartali aveva ricevuto un messaggio da Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, che lo supplicava di vincere la tappa del Giro di Francia di quel giorno. Bartali era molto indietro in classifica. Aveva 20 minuti di distacco dalla maglia gialla. Speranze di rimonta zero. E invece quel giorno Gino, che era ormai vecchio, dette l’anima e vinse la tappa di Briancon dando quasi un quarto d’ora di distacco al campione francese Louison Bobet che pensava ormai di aver già vinto il Tour. Una impresa impensabile. Il giorno seguente vinse di nuovo sul traguardo di Aix les Bains, prese altri cinque minuti a Bobet e conquistò la testa della classifica. Che tenne fino alla fine: il 24 luglio vinse il Tour e gli scontri di piazza, in Italia, cessarono quasi per miracolo. La pace era salva. Gli italiani dimenticarono le revolverate a Togliatti esplose dallo studente Pallante e tutto finì bene. Un giornale satirico titolò: “Pallante ( cioè l’attentatore, ndr) condannato a venti anni di tiro a segno”. I comunisti, cacciati dal governo su richiesta americana e in base alle decisioni di Yalta, si lasciarono mettere da parte protestando solo il minimo sindacale. La Grecia che aveva voluto fare la rivoluzione era finita schiacciata dagli inglesi. Nel 1948 partirono la Costituzione e la vera guerra fredda, sia in Italia che nel mondo ma specialmente a Berlino. La città si trovava nella zona della Germania sotto il controllo sovietico (la Germania Est, cioè la Rdt) ed era a sua volta suddivisa in quattro zone: una ai russi, una ai francesi, una agli inglesi e una agli americani. Stalin tentò di bloccare il settore occidentale frutto della fusione delle aree americana, inglese e francese, scintillante di luci e vetrine aperte che adesso, cinta d’assedio, rischiava di soffocare. Fu allora che gli americani compirono una delle più vittoriose smargiassate celebrata con francobolli e musei: il ponte aereo. Centinaia, migliaia, decine di migliaia di aerei portavano o atterravano a Berlino Ovest per portare tutto quel che serviva all’intera città: latte e medicinali, vestiti e macchinari senza rallentare mai, senza far mancare un paio di scarpe. Stalin tentò di minacciare azioni aree militari ma lo zio Tom lasciò vedere le sue Colt alla cintura e Stalin che non era un giocatore d’azzardo, si ritirò. In Italia il Fronte Popolare di comunisti e socialisti perse le elezioni. Il fronte aveva come simbolo la faccia di Garibaldi, ma ne girava una versione di cui se capovolgevi Garibaldi vedevi Stalin. Io avevo otto anni e ricordo tutto. Era una guerra di fumetti, di cartelli, urla, carta, altoparlanti, gente che correva con pacchi di giornali e vendeva testate oggi scomparse. Qualche rissa, qualche revolverata, poca roba. Il Fronte perse. I democristiani stravinsero. Il cantore della sinistra Ivan della Mea, quanlche anno dopo mormorava alla chitarra: “Vi ricordaste del diciotto aprile, che avé votà democristiani senza pensare all’indomani, senza pensare alla gioventù”. I miei cugini comunisti erano “Pionieri” del partito e portavano il fazzoletto rosso al collo. Io quello dell’Asci cattolica, cioè i “Boy Scout”.. Loro leggevano il Pioniere di Gianni Rodari che odiavo perché era tutta una pippa simbolistica con Pomodorone grasso capitalista e c’era sempre un furbettino comunista che lo metteva in culo a tutti. Noi feroci anticomunisti leggevamo sul “Corrierino” capitan Cocoricò e il signor Bonaventura ricco ormai da far paura. Tirava anche un brutto vento da guerra religiosa: il papa per non sbagliarsi aveva scomunicato i comunisti e molti di loro, essendo cattolici, andavano a piazza San Pietro a urlare che loro credevano in Dio, ma anche a Baffone, un punto teologico molto controverso. A Piazza San Pantaleo, alla messa dei ricchi con la pelliccia come i ricchi di Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, una ipertiroidea isterica e passionale vestita di rosso brandendo il foglio del partito urlava, “L’Uità! L’Unità! Ahò, v’avesse da fa’ male un pochetto de marchesismo-leninismo, sa? V’avesse da fa’ male”. Era come ai tempi delle vere guerre di religione quando valeva il principio secondo cui “cuius regio, eius et religio” e cioè: ti becchi la religione del tuo re, e zitto. Io ero di reame stracattolico anticomunista e mia nonna e mia zia e mia madre, tutte maestre, a luce di candela di sego fatta in casa, scrivevamo, con penne ad inchiostro col pennino e la carta assorbente, i risultati che diceva la radio su un quadernone ordinatissimo. Si sentiva che quelle elezioni erano per la vita e per la morte. Se venivano i comunisti, dicevano, sarebbero arrivati i russi e ti avrebbero impiccato papà e mamma, è questo che vuoi figliolo? No, padre, non lo voglio. E allora recita cinque pater ave e gloria, figliolo. Sì, padre. Facevo le elementari davanti al Pantheon, alla Palombella e con la stessa maestra Agnese Marcucci che era stata anche l’insegnante di Albero Ronchey: una rossa fiammeggiante con un seno prorompente, papista fascista nazista colonialista carducciana anticomunista. In classe avevamo il compagno Bartoloni, figlio di carbonaro comunista che ogni giorno si avvicinava alla cattedra e diceva: “Ha detto così mi’ padre che appena vincemo lui te viè a piantà ‘a bandiera rossa sulla cattedra e tu devi pià ‘a tessera der partito communista”. Agnese ci prendeva giusto: “Ahm, sì? E allora dì a tu’ padre che si s’azzarda a entrà co la bandiera rossa, lo faccio arestà da le guardie”. E continuavano per ore. Ogni giorno il mio compagno di Banco Alberto Limentani (erano più della metà ebrei di ghetto i miei compagni di scuola sfuggiti alla razzia del 16 ottobre del 1943) ogni mattina mi dava a bere di essere appena rientrato da Israele dove col suo piccolo aereo combatteva la guerra d’indipendenza e faceva volare il suo caccia con una matita incastrata fra mignolo e indice e sparava e io sparavo con lui e morivo d’invidia perché lui diceva parole straniere molto strane e forti. Infatti, le Nazioni Unite avevano autorizzato due Stati, uno ebraico e uno palestinese, ma la Legione Araba aveva vietato lo Stato ebraico e decise di distruggere la cittadella ebraica dove i combattenti erano ragazzini dell’Haganà che venivano dal ghetto di Varsavia. Stalin a quell’epoca sosteneva gli ebrei, ma secondo modalità molto particolari e veramente staliniane: a gennaio aveva fatto eliminare l’attore yiddish Solomon Mikkeli presidente del Comitato ebraico antifascista organizzato dal capo della polizia segreta Berija. Era stato il sottile Suslov, il futuro ideologo a convincere Stalin della slealtà del Comitato che aveva il progetto di dar vita ad una Repubblica ebraica di Crimea. La guerra arabo- israeliana si svolse quasi a mani nude e il segretario della Lega Araba, generale Azzam Pascià proclamò la “Jihad”, o Guerra Santa “come ai tempi delle invasioni mongole o delle crociate”. Il Muftì di Gerusalemme, Haj Amin Al Husseini, invocò lo sterminio: “Fratelli musulmani, uccidete gli ebrei! Uccideteli dal primo all’ultimo”. A maggio, gli eserciti della Giordania, Egitto, Siria, Iraq, Arabia Saudita, Libano, Sudan attaccarono Israele. Combatteva anche un contin­gente palestinese. Cominciò quella che gli israeliani chiameranno “Guerra d’indipendenza” ebraica. Più di 500 mila palestinesi fuggirono dalla Palestina cercando rifugio negli stati arabi vi­cini, nella speranza che la guerra contro gli “in­vasori” fosse rapida e definitiva. Gli eserciti arabi furono però inaspettatamente battuti ad uno ad uno dal nuovo esercito israeliano figlio di anni di clandestinità e di alta capa­cità tecnica appresa durante la Seconda guerra mondiale e degli ufficiali ebrei che avevano combattuto nell’esercito britannico e nella resi­stenza europea. Resisteva parzialmente, senza subire una vera disfatta, sol­tanto la Legione Araba dell’emiro Abdullah (o Abd-Allah), alleato ed armato dagli inglesi, guidato da Glubb Pascià, alias generale John Bagot Glubb, ufficiale di carriera inglese, pluridecorato della Prima guerra mondiale, noto come Abu Henek (“mento storto”, a causa di una ferita di guerra). La Legione occupò la Cisgiordania e una parte di Gerusalemme. Con questi nuovi frammenti territoriali lo sceicco Abdullah cambierà poco dopo nome al suo paese chiamandolo Giordania ed assumerà il titolo di re. Nel giugno del 1948 il leader dei comunisti cecoslovacchi Slànsky e il segretario del Partito comunista israeliano Shamuel Mikunis ottennero da Stalin l’autorizzazione a reclutare ebrei per combattere in Israele, ma poi il dittatore cambiò idea e li fece far fuori, compreso Slànsky. A dare il la sarà Ilja Ehrenburg con un articolo sulla Pravda in cui sostenne che gli ebrei sfuggiti all’Olocausto che non avevano scelto Israele erano ormai ansiosi di assimilarsi e aderire con zelo agli emergenti partiti comunisti staliniani”. Scrisse Mastny: “ furono spesso gli uomini preferiti da Stalin per lavori particolarmente sporchi, ma erano anche i più vulnerabili alle purghe una volta esaurito il loro compito”. Il 18 giugno del ’49 fu creato nella Cia, nata l’anno precedente e ancora piena di intellettuali dell’Oss ed ex combattenti antifascisti del “Lincoln Bataillon” della guerra di Spagna, l’Office of Special Projects “per pianificare e condurre operazioni clandestine, in coordinamento con il Joint Chiefs of Staff. Per motivi di sicurezza e di flessibilità operativa, e per ottenere il massimo grado di efficienza, l’ufficio progetti speciali opererà indipendentemente dagli altri componenti della CIA”. Le operazioni “Stay Behind” sono accorpate con le esistenti organizzazioni occidentali per la guerra psicologica e i gruppi di guerra clandestina inglesi e francesi. Usa Gb e Francia sono le sole potenze che nella Nato hanno accesso al “North Atlantic Military Committee Standing Group”, creato per coordinare “Stay Behind”. Questa operazione verrà poi esposta pubblicamente da Giulio Andreotti nel 1990 con il nome di codice italiano di “Gladio” e sarà al centro di un grande scandalo spionistico e politico. Chi adesso pagava veramente era la povera Cecoslovacchia, con un governo democratico legittimo, sottoposta alle cure del colpo di Stato Comunista. Stalin non scherza, l’America non scherza. In Italia c’è il grosso problema delle armi nascoste del Pci e la paventata capacità di mobilitazione. Molti partigiani si comportano come gli americani dopo la rivoluzione quando fu approvato il secondo emendamento: abbiamo diritto di portare le armi per difendere la democrazia, nessuno ci può disarmare. Questo fu il primo serio compromesso storico. La Dc in particolare accettava una smilitarizzazione graduale del Pci che mandava in bestia americani e inglesi. Esistevano convenzioni politiche e regole non dette. Togliatti garantiva che non ci sarebbero state insurrezioni, il ministero degli Interni in cambio non faceva troppi rastrellamenti. Dare tempo al tempo, era la massima. Ma intervennero molto fatti nuovi. La Costituzione entrò in vigore, e questo fu un fatto stabilizzante. Socialisti e comunisti si ritrovarono all’opposizione, e questo fu destabilizzante anche se previsto e poi ci fu l’attentato a Togliatti, segretario del PCI, ex numero due del Comintern a Mosca, ex responsabile sovietico nella guerra di Spagna dove si era occupato di far fuori trotskisti e anarchici, più che fascisti e franchisti e recuperare il tesoro spagnolo con cui farsi pagare gli armamenti sovietici. Dalla Spagna Togliatti era stato richiamato per firmare le condanne a morte del gruppo comunista dirigente polacco liquidato per spianare la strada della spartizione della Polonia tra nazional socialist tedeschi e comunisti russi. Davide Lajolo, direttore dell’Unità, ricordò: “Quando gli chiesi perché firmò quelle condanne ingiuste, rispose: se non l’avessi fatto, mi avrebbero ucciso e avrebbero comunque eseguito le condanne. A che cosa sarebbe stata utile la mia morte?”. Togliatti nel 1943, spinto a tornare da Mosca in Italia per ordine perentorio e notturno di Dimitrov, il numero uno dell Comintern, su ordine di Stalin, gli disse che occorreva in Italia un partito nuovo, largo, accomodante, aperto a tutti, non settario e che smussasse tutti gli angoli che rallentavano l’ultimo sforzo bellico contro Berlino: e fu il” partito nuovo” della volta di Salerno. Ma nel 1948 era cambiato tutto davvero e per sempre. Ovest contro Est, due patti militari opposti. La guerra perenne in Medio Oriente. La certezza che una prossima guerra fosse questione di anni, forse mesi. E che saremmo probabilmente stato inghiottiti nel sistema sovietico che non sembrava poi così allettante. Ma Stalin era popolarissimo, era l’angelo vendicatore, era la mano della giustizia, era un duro dalla parte dei poveri e dei derelitti. Non importava se fosse il più grande serial killer della storia (cosa che si sarebbe saputo soltanto con il XX Congresso del PCUS del 1956) e tutti erano gli uni contro gli altri armati: famiglie, regioni, credenti e miscredenti, c’era voglia di delazione e voglia di mangiare senza fondo. L’obesità dilagava. Non era praticata alcuna forma di rispetto reciproco. La guerra mentale era quanto di meglio potesse sostituire la guerra fisica. I prigionieri di guerra non si rivedevano. La gente scherzava e rideva e aveva voglia di dimenticare, di essere sguaiata, di fare sesso, di chiudere finalmente tutte le partite del dolore, ma quando queste cicatrici copriranno le ferite, nessuno se ne ricorderà più perché quella generazione stava già morendo e non lo sapeva.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1948

1 gennaio. Entra in vigore la Costituzione Repubblicana.

30 gennaio. Un estremista uccide a revolverate Gandhi, l’uomo che ha conquistato l’indipendenza dell’India dagli inglesi e il leader mondiale della nonviolenza.

22 febbraio. Golpe in Cecoslovacchia. Il partito comunista assume il potere.

18 aprile. Si vota in Italia. Lo scontro è tra la Democrazia Cristiana di De Gasperi e il Fronte Popolare che unisce i comunisti di Togliatti e i socialisti di Nenni. Vince la Dc ottenendo quasi il 49 per cento dei voti (mai nessun partito, da solo, arriverà a questo successo record); il Fronte Popolare si ferma al 31 per cento.

1 maggio. In Grecia vengono fucilati 213 partigiani comunisti.

11 maggio. Luigi Einaudi, liberale, ministro del Bilancio e governatore della Banca d’Italia, viene eletto Presidente della Repubblica. Il suo nome viene scelto da De Gasperi dopo che il candidato ufficiale del partito, Carlo Sforza, era stato azzoppato dai franchi tiratori della sinistra Dc. Einaudi riunisce la Dc, ottiene il voto di liberali e socialdemocratici e sconfigge Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre.

14 maggio. Nasce lo stato di Israele.

5 giugno. Si apre il processo contro Rodolfo Graziani, capo delle forze armate nella Repubblica di Salò. Viene condannato a 19 anni di prigione, dei quali 17 condonati.

24 giugno. Le autorità filosovietiche della Germania Orientale proclamano il blocco di Berlino.

14 luglio. Uno studente di 24 anni, Antonio Pallante, spara cinque colpi di pistola a Togliatti ma non lo uccide. Disordini, incidenti, proteste violente in tutt’Italia. Togliatti, prima di entrare in Camera operatoria, raccomanda al suo partito di mantenere la calma.

30 settembre. Esce nelle edicole il fumetto Tex.

2 novembre. Rovesciando i sondaggi Henry Truman, democratico, viene rieletto presidente degli Stati Uniti, sconfiggendo il repubblicano Thomas Dewey.

10 dicembre. Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo.

Storia d’Italia, 1949: l’anno in cui diventammo il paese cerniera della Guerra Fredda. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Ricordo me stesso nel 1949 spaventato all’uscita di scuola perché non sapevo come digerire la notizia: la squadra del Torino, tutta quanta, era morta. Precipitati in aereo sulla collina di Superga. Era una notizia eccessiva come la guerra e non potevo separarmi dalle immagini delle figurine di quei giocatori e dal fatto che fossero morti. Gli anni, quegli anni, diventavano giorno dopo giorno più terribili. Poi, dopo, a decenni di distanza tutti avrebbero usato queste parole insignificanti come ricostruzione, pacificazione, democrazia, miracolo economico. Non c’era ancora nulla, nel 1949. La società che ricordo era mentalmente settaria e violenta, tutti molto aggressivi e ognuno con un suo conto da regolare, politico o umano.Tutte le famiglie o quasi erano uscite distrutte dalla guerra e la spaccatura della guerra fredda ci passava per le ossa. nelle famiglie, a tavola. Mia nonna si vantava di aver sfilato di tasca a suo figlio una copia de l’Unità. ma quell’anno, il 1949, fu un annus terribilissimus perché la guerra, quella prossima, era nell’aria e sembrava cosa fatta. L’America aveva rotto con la Russia e così la Francia e l’Inghilterra. Noi italiani non contavamo nulla, ma quando i grandi dell’Occidente decisero di formare un’alleanza anti-sovietica che si sarebbe chiamata “Alleanza Atlantica”, il governo De Gasperi chiese e anzi supplicò di accettarci fra i soci fondatori. Scoppiò la rivoluzione. A sinistra. I comunisti si indignarono: questa nuova roba atlantica altro non era che l’ennesima crociata contro i comunisti che hanno salvato il mondo dai nazisti: è un tradimento, una mascalzonata, un attentato contro la pace, la democrazia eccetera. Le cose non stavano proprio così: tutta l’Europa dell’Est, che Stalin aveva prima trattato con Hitler nelle clausole segrete del Patto di Non Aggressione dell’agosto del 1939 e che poi si era fatto riconfermare da Churchill e da Roosevelt, era stata sì assegnata come “zona d’influenza” all’Unione Sovietica, ma a condizione che la democrazia rappresentativa e le libertà fondamentali fossero state garantite. Invece nel 1948 un colpaccio di Stato aveva instaurato la dittatura del partito a Praga e lo stesso era successo in tutti gli Stati che da allora in poi furono chiamati “satelliti”. Inoltre, lo scisma del maresciallo Tito aveva sottratto all’impero sovietico la grande Jugoslavia che restava un Paese comunista, sì, ma “diverso”: molto legato agli inglesi, aperto al turismo occidentale, ma più che altro con l’arma al piede, se a Stalin fosse saltato in mente un colpo di mano: gli jugoslavi erano stati i soli, sia pure con un potente aiuto inglese (un figlio di Churchill collaborava strettamente con Tito) a vedersela con i tedeschi. Il fatto che Tito fosse ora l’uomo nero per Mosca e per tutti i comunisti ortodossi permise a Palmiro Togliatti di reclamare a gran voce il ritorno di Trieste all’Italia. Intanto, l’Italia – Paese che non era per nulla ben visto in Occidente – fece nel 1949 una pessima e maleodorante figura: un’inchiesta americana sul modo in cui venivano spesi dai Paesi beneficiari i soldi del piano Marshall, rivelò che l’Italia li stava sperperando in regalie per gli amici, giochi di potere e correnti, nulla di strutturale ma anzi di molto personale e vagamente mafioso. Fu uno scandalo internazionale che mise in grandissimo imbarazzo il nostro governo che balbettò, promise, face la faccia feroce e cercò di recuperare ancora una volta l’onore perduto. Ma nel frattempo avevamo, come Paese, guadagnato una posizione nuova e invidiabile che ci avrebbe reso moltissimo per mezzo secolo sotto ogni punto di vista, in particolare perché ci avrebbe permesso di giocare, secondo le circostanze con il piede in due staffe. Eravamo diventati il Paese cerniera e questo ci avrebbe dato molti vantaggi. Il fatto di avere il più grande partito comunista dell’Occidente, per di più un partito influente a Mosca e composto da un gruppo dirigente disciplinato in cui non prevalevano le teste calde che avrebbero voluto passare dalla Resistenza alla rivoluzione, era un fattore d’interesse anche per gli alleati. Interesse e pericolo allo stesso tempo. Il Papa, il principe romano Eugenio Pacelli, era un anticomunista oltranzista. Fece un pubblico discorso in cui dichiarò che santa Romana Chiesa Cattolica Apostolica Romana era perfettamente d’accordo sull’Alleanza Atlantica che avrebbe tenuto a distanza i comunisti russi, considerati come il maggior pericolo per il genere umano. Gran parte del Partito socialista guidato da Pietro Nenni (allora molto stalinista che poi avrebbe capovolto la sua posizione restituendo il Premio Stalin che aveva ricevuto) si infuriò contro il Patto Atlantico e in molti gridarono in Parlamento che un’alleanza contro l’Unione Sovietica era da considerare come uno schiaffo al Paese che più di tutti aveva contribuito alla sconfitta del nazismo e ne nacquero molti tafferugli in aula. L’anno precedente erano stati infatti ritrovati a Berlino nella Wilhelmstrasse i documenti originari del cosiddetto “Trattato di non aggressione” fra Terzo Reich nazista e Unione Sovietica, contenenti le clausole segrete che prevedevano l’immediato intervento russo nell’invasione della Polonia (come accadde il 17 settembre del 1939) e l’attribuzione all’Urss dei tre Paesi baltici, Bessarabia, Romania e mano libera in Finlandia. I sovietici negavano ad alta voce e soltanto Michail Gorbaciov nel 1989 confermò che le clausole erano autentiche e che dunque l’Urss aveva tecnicamente iniziato la seconda guerra mondiale dalla parte tedesca. Nel 1949 nessuno era appassionato alla scoperta della verità, ma tutti avevano il coltello fra i denti, per cui il clima politico e nelle strade e nelle famiglie diventò violento, con tafferugli. In Parlamento l’ambiente era rovente, i discorsi erano tutti retorici e minacciosi, ma i numeri erano numeri e alla fine il Patto Atlantico passò e l’Italia entrò in quella che poi si chiamerà la Nato (Trattato dell’organizzazione del Nord Atlantico, benché fossimo nel Sud mediterraneo). L’Italia era diventata anche la terra delle spie perché Paese di frontiera fra Est ed Ovest e perché eravamo anche nel pieno crocevia del Medio Oriente. Abbiamo già raccontato quel che era accaduto nel 1948, quando le Nazioni Unite dettero mandato per la nascita di due nuovi Stati, uno ebraico e uno arabo palestinese, ma che quest’ultimo fu respinto con sdegno dalla Lega Araba che cercò distruggere il focolaio ebraico con tutti gli eserciti disponibili, restando alla fine battuta dal giovane Stato israeliano pieno di giovani che si erano battuti in Europa contro i nazisti. Era appena terminato l’esodo arabo dal nuovo Stato di Israele da cui erano fuggiti in 720 mila arabi che vivevano nelle regioni bibliche della Giudea e Samaria.In Israele i nuovi dirigenti Ben Gurion e Golda Meir tentarono di convincere gli arabi a restare rendendosi conto che si stava aprendo una piaga che non si sarebbe più riemarginata. Soltanto frange terroriste ebraiche spingevano verso la cacciata degli arabi, seguendo una linea di condotta sanguinaria che si era già mostrata con l’eccidio di Yeir Dassin. Gli arabi che accettarono di restare ottennero una cittadinanza pari a quella dei cittadini ebrei, con alcune limitazioni, come il non obbligo di prestare il servizio militare. Ma fino ad oggi gli arabi musulmani anti-israeliani cittadini dello Stato di Israele sono gli unici arabi musulmani con diritto di voto attivo e passivo, diritto di formare partiti, pubblicare e leggere quel che vogliono. I palestinesi dell’esodo che avevano lasciato i luoghi in cui nasceva Israele furono accolti con profonda ostilità dagli Stati arabi e furono costretti a concentrarsi in campi profughi dove diventarono di fatto il più potente strumento di pressione per ogni trattativa con Israele, strumento per pressioni reciproche e per i combattimenti contro gli israeliani. Intanto, centinaia di migliaia di ebrei che vivevano (anche da duemila e cinquecento anni) nei Paesi arabi, si spostano in Israele. Si registrano attacchi alle comunità ebraiche ad Aden, in Egitto, Libia, Siria e Iraq, dove il “sionismo” diventò un reato punito con la pena capitale. Il bilancio del primo rientro ebraico nei confini palestinesi fu di circa seicentomila persone che sostituirono, più o meno, gli arabi fuggiti. Seguirono degli armistizi di cui solo alcuni si trasformarono in trattati di pace, con l’Egitto, il Libano e la Giordania che si annesse la Giudea e la Samaria con il consenso dell’Inghilterra e del Pakistan, quest’ultimo un nuovo Paese di religione musulmana emerso dall’indipendenza dell’India dall’impero britannico. L’Italia si trovava a far parte di uno scacchiere che prevedeva uno stato di guerra più o meno permanente tra Israele e gli Stati arabi, con un nuovo elemento: il petrolio. L’Italia stava per liquidare una vecchia azienda di Stato che risaliva all’epoca fascista per uso agricolo, l’Ente nazionale Idrocarburi, l’Eni, quando furono trovati giacimenti di gas e petrolio in Italia e il nuovo capo dell’ente, Enrico Mattei, si improvvisò manager di una azienda che avrebbe combattuto da parti a pari con le “Sette sorelle” del petrolio mondiale e che avrebbe avuto un ruolo nuovo ed essenziale nella politica estera italiana, tutta volta allo sfruttamento delle risorse di gas e petrolio sullo scacchiere mediorientale. L’Italia aveva appena scoperto di aver posseduto con la Libia, ormai indipendente, il più grande lago di petrolio del mondo, ma si stava rifacendo con una politica molto sfrontata, aggressiva, quasi del tutto indipendente dallo stesso governo italiano. Nel mese di agosto arrivò la sorpresa tanto temuta: gli Stati Uniti perdevano ufficialmente il primato di unica potenzia atomica del mondo, perché l’Unione Sovietica faceva esplodere la sua prima bomba. L’Occidente non ne fu poi così scioccato. Si sapeva da anni che i sovietici seguivano gli americani a poca distanza e gli esperti statunitensi affermarono che il contributo spionistico offerto dai coniugi Rosenberg e di altri circa duecento agenti aveva accelerato il processo. Questa novità benché attesa e temuta strappava agli Stati Uniti un potere implicito anche se mai dichiarato: quello di poter inferire il primo colpo, senza dover attendere una risposta di parti intensità. Gli americani avevano dalla loro un buon nucleo di scienziati tedeschi portati negli Stati Uniti, capeggiati da Von Braun che era stato l’inventore dei missili “V2” con cui la Germania aveva bombardato Londra e che guiderà la ricerca spaziale americana fino alla conquista della Luna. Fra russi e americani circolava la battuta “i nostri scienziati tedeschi sono migliori dei vostri”. Intanto, un evento di portata mondiale e millenaria, se è ancora lecito usare aggettivi tanto pomposi, si concluse quell’anno: la Cina, questo enorme Paese eternamente malato, eternamente conquistato, frazionato, povero, dominato da dinastie e da stranieri (anche l’Italia aveva a Shangai la sua rappresentanza militare come ogni Paese occidentale coloniale) era stata conquistata dall’esercito popolare di Mao Zedong che proclamò la Repubblica Popolare Cinese. Il secondo Stato comunista del mondo diventato tale per una sua evoluzione e rivoluzione interna, dopo l’Unione Sovietica. La vittoria di Mao fu salutata come il più grande evento del dopoguerra da tutte le sinistre mondiali, anche in considerazione del fatto che sia Mao che gli uomini del suo Stato maggiore, fra cui Ciu Enlai (suo potente e coltissimo ministro degli esteri) venivano da una covata intellettuale che si era sviluppata in Francia, alla università della Sorbonne e persino negli Stati Uniti, dove un altro leader, il futuro presidente del Vietnam Ho-Chi-Minh, aveva lavorato per anni come cameriere studiando l’opera di Lincoln. La Cina era stata invasa dal Giappone negli anni Trenta che aveva creato uno stato cinese fantoccio in Manciuria, ai confini con la Siberia sovietica, dove proprio alla vigilia della seconda guerra mondiale si registrarono feroci scontri tra giapponesi e sovietici. Si formarono così due eserciti cinesi di resistenza contro il Giappone: quello di Mao e quello nazionalista filoccidentale del maresciallo Chang-Kaishek che combatterono insieme contro gli invasori nipponici e poi si scontrarono fra loro e il vincitore fu il comunista Mao, al termine della sua “lunga marcia” durata ben nove anni spesi arruolando contadini. Il maresciallo sconfitto si ritirò nell’isola di Taiwan, che ancora veniva indicata con il nome coloniale di Formosa. Lì Chang governò mantenendo in piedi un esercito con cui sognava di tornare sul continente e riconquistare Pechino. Dopo la sua morte, Taiwan diventò un protettorato americano, ma dal punto di vista del diritto internazionale nessuno obiettò che l’isola apparteneva alla Cina che proprio oggi la rivendica con grande energia, come ha fatto per l’ex colonia britannica Hong Kong. Taiwan, insieme a Singapore, Hong Kong, la Cambogia e il Vietnam (per non dire dell’Australia) costituisce la più lacerante ferita nel fianco del regime di Pechino. Quando ero un giovane giornalista nel 1963 nella redazione de l’Avanti! ci davamo appuntamento ogni mercoledì e venerdì davanti alle telescriventi intorno alle 15 perché a quell’ora ogni settimana dell’anno, le batterie costiere cinesi bombardavano i disabitati scogli di Quemoy e Matsu, i più vicini a Taiwan, in segno di “grave avvertimento” del popolo e dell’esercito della Repubblica cinese. Ricordo che a quell’epoca era d’uso festeggiare l’evento brindando con pessimo spumante a temperatura ambiente.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1949

25 gennaio – Ben Gurion è eletto primo ministro di Israele.

3 febbraio – Inizia il processo a Budapest al cardinale Jozsef Mindszenty. Accusato di spionaggio. Ergastolo.

5 febbraio – Negli Stati Uniti viene pubblicatoil rapporto Hoffman. L’Italia è accusata di aver sperperato i fondi dle piano Marshall. In particolare è sotto accusa la decisione di Fanfani di dare alcuni miliardi all’Ina Casa per costruire case popolari.

5 marzo – L’ex procuratore generale dell’Urss Andrej Vysinskij diventa ministro degli esteri al posto del mitico Molotov. Anche Vysinskij è mitico: è il Pm che ha fatto condnanare a morte decine di alti dirigenti del partito, compreso Bucharin.

11-20 marzo – L’Italia aderisce al patto atlantico (NATO). Contrarie le sinistre. Dissensi nella Dc. Votano contro due nomi eccellenti: Luigi Gui e Giuseppe Dossetti.

4 Maggio – L’aereo sul quale viaggia la squadra di calcio del Torino – quella di Valentino Mazzola – si schianta sulla collina di Superga. Muoiono tutti: giocatori accompagnatori, giornalisti.

14 maggio – Riammessi al lavoro i dipendenti statali ex fascisti.

23 maggio –  Nasce la Repubblica Federale tedesca.

14 giugno – A Cortemaggiore, in provincia di Piacenza, viene scoperto un gigantesco giacimento petrolifero. All’Eni inizia l’era Mattei.

29 agosto – L’Urss annuncia di aver costruito la bomba atomica.

1 ottobre- Mao Tse Tung annuncia la nascita della Repubblica popolare cinese.

16 ottobre – Finisce la guerra civile in Grecia. I comunisti sono sconfitti.

6 dicembre – Nasce il quotidiano Paese Sera.

Storia d’Italia, 1950: quando le Madonne piangevano e si cantava Bandiera rossa. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 20 Agosto 2020. Il 1950 lo ricordo per un fiasco. Un fiasco tutto di vetro, senza la paglia esterna, perché era di vetro anche quella. Sul collo del fiasco c’erano in rilievo quattro basiliche. Credo fosse l’anno mariano, o il giubileo, qualcosa di molto importante. Avevo dieci anni. E fu quell’anno in cui mia madre e sua madre, mia nonna Amelia dai capelli rossi come i miei (e di mio padre), mi avvisarono con tono grave e ufficiale che non potevo più essere considerato un bambino, ma un “fanciullo”. Propri così dissero: fanciullo. Parola che nel frattempo è morta. Godi fanciullo, stagion lieta è codesta. O i due fanciulli del Pascoli che se le davano di santa ragione nella pace d’oro dell’ombroso parco con “parole grandi più di loro”. Era l’anno di tante cose, la più terribile fu l’inizio della guerra di Corea che tutti percepirono come il ritorno della Seconda guerra mondiale. Ma colgo l’occasione per dare un’idea di che mondo fosse, perché ho imparato da anziano che se non ci capisce il contesto, non si capisce niente. I bambini erano per la metà figli di contadini con i pidocchi i capelli rasato, le orecchie a sventola e gli occhi bassi per rispetto verso i signori. Tuttavia nel 1950 ci furono sommosse contadine in Calabria per l’occupazione delle terre. Voi non avete idea delle sommosse contadine e per l’occupazione delle terre. I signori calabresi, in genere baroni, se la godevano a Napoli come intellettuali campando di rendita per gli sterminati ettari di sterpaglie da cui il contado doveva tirar fuori pane e companatico per sé e i baroni con villa sopra Posillipo. C’erano i contadini in rivolta e la polizia che interveniva con le camionette. L’ultima volta nel Lazio, ero presente qualche anno dopo, quando vidi uno squadrone di carabinieri a cavallo caricare a sciabola piatta i contadini che avevano occupato le terre incolte. Non ci scapparono morti, ma era un’altra Italia oggi estinta. E l’Italia del 1950 era cattolicissima, ateissima, comunistissima, tutto col superlativo. C’erano molti fascistissimi che si sentivano ancora in divisa e a scuola i compagni di classe figli di un padre soldato o ufficiale facevano il saluto al duce e poi si accapigliavano con quelli che cantavano bandiera rossa. Baffone – Josep Stalin – era ancora il più grande santo di tutte le icone e mezzo Paese contava sul suo avvento, una specie di santa invasione come quella di Mehemet Alì che invase Costantinopoli e tagliò la testa a tutti i cristiani che si erano rifugiati in Santa Sofia. Lo aspettavano a piazza San Pietro dove i cosacchi avrebbero – sceondo la vulgata più accreditata – fatto abbeverare i cavalli nelle fontane del colonnato del Bernini. Ancora non si cantava Bella Ciao, ma solo Bandiera Rossa e L’inno dei lavoratori che diceva: su fratelli, su compagni, accorrete in fitta schiera, sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir. C’era una meravigliosa iconografia. La chiesa era tutta in latino, incenso, e apparivano ovunque le Madonne e tutti si davano la voce che c’era un a nuova Madonna alle quattro fontane e tutti andavano di notte coi fari e la vedevano piangere ma poi non risultava sulle fotografie. Mi capitavano degli arruolamenti per servire messa e seguire il baldacchino del Santissimo a San Carlo ai Catinari, che è una chiesa con la più grande collezione di teschi in marmo scolpiti ovunque e dovevi stare attento a dove mettevi i piedi cantando oremus domine non sum dignus orate fratres ideo precor beatam Mariam semper virginem e si andava così con un latino pasticcione e popolaresco che tutti recitavano, anche gli atei e i comunisti perché le iconografie erano vitali tutte, con enormi falci e martello, i rimasugli fascisti, le croci e le madonne. A scuola ci sommergevano di versi di Giovani Pascoli e Giosuè Carducci. Tutto a memoria. Mia madre, seriamente, per il mio compleanno e pensando di riempire un vuoto nella mia cultura e nella sua biblioteca, mi regalò in edizione di pelle e oro zecchino, le “Prose” di Carducci di cui non fregava niente a nessuno, quando invece avevo supplicato di avere un piccolo canotto gonfiabile per il mare. Non esistevano le pinne e ancora neppure la maschera col boccaglio, di cui giravano i primi esemplari fra le scorte dei soldati americani, gomma nera, vetro pesante, tubo di rame e tappo di sughero chiodato. D’altra parte, nel loro conservatorismo i miei mi mandavano in giro – unico e solo – con i pantaloni alla zuava (stretti alla caviglia) perché non avevo ancora l’età adulta del pantalone lungo e nei boyscout chiesero a lungo perché non fosse ripristinata la mantella blu dei tempi della Prima guerra mondiale. La mia maestra delle elementari, che ho già citato e che era una fascistona patriottica rossa anche lei e che fu la maestra anche di Alberto Ronchey con cui poi ce la litigammo nelle memorie, un giorno venne in classe tutta impettita, ci disse di aprire i quaderni, salì sulla cattedra e illuminata dal sole della finestra che dava sul Panteon, annunciò come se avessimo vinto una guerra: “Oggi le Nazioni Unite hanno affidato all’Italia un mandato speciale per l’amministrazione dell’ex colonia della Somalia”. Prendemmo nota con la penna di legno laccato e il pennino cambiabile che si ripuliva con lo straccetto e si intingeva nel calamaio in un buco del pesantissimo banco di quercia massiccia. L’anno prima i miei mi avevano portato a visitare Londra, viaggio in treno, ed ero rimasto sbalordito dal fatto che gli inglesi, che avevano vinto la guerra contro di noi, erano poverissimi dietro le trincee di sacchetti di sabbia, le donne guidavano il tram e per colazione ti davano le aringhe che, con mia sorpresa, trovai adorabili. Da noi si mangiava a quattro palmenti e ci era andata di lusso. Il bandito Salvatore Giuliano, che aspirava sui lavoratori a Portella della Ginestra con la mitragliatrice convinto di servire alti poteri anticomunisti e di potersi far accettare dagli americani, viene fatto fuori a Castelvetrano dal cognato Gaspare Pisciotta e la sua morte è sceneggiata in modo da sembrare l’esito di un conflitto a fuoco con i carabinieri. Cesare Pavese, poeta e scrittore comunista, l’uomo di un Piemonte immerso in virtuoso silenzio protetto dal mare d’acqua, si uccide con i barbiturici e tutti si chiedono quanto ci sia di politico e quanto di personal eo di ideologico. Dall’America arrivava mensilmente la rivista Selezione dal Reader’s Digest, uno dei più formidabili strumenti di propaganda editoriale che penetra nella società italiana con storie che costruiscono nei lettori una disposizione nostalgica verso l’American way of life, così come faranno i fumetti di Disney firmati da Barker, senza contare il successo mondiale del cartone animato Cenerentola che riprende la lunga interruzione dal primo cartone a colori “Biancaneve” del 1937 di cui notoriamente era pazzo Adolf Hitler. Dall’America arrivavano i primi ritmi di un genere di musica evoluta dal boogie-boogie che poi sarà il Rock’n Roll, ancora in uno stato primitivo, elaborato dalle truppe sui fronti di guerra europei. La guerra di Corea, che non è ancora stata chiusa, fu un evento tremendo. Pochi erano persino al corrente dell’esistenza della Corea, così come più o meno tutti ignorarono l’esistenza della colonia francese del Vietnam che era già in grande agitazione indipendentista. La Corea era stata tagliata in due sul 38mo parallelo in attesa di elezioni generali ma il governo Nord, sotto gestione comunista filocinese, ruppe l’accordo e invase il Sud. Gli Stati Uniti promossero una coalizione dell’Onu guidata da loro con il leggendario generale McArthur che fumava una pipa di canna di mais, il quale riconquistò il Nord ma si trovò contro l’esercito popolare della neonata Cina comunista di Mao Zedong. Fu una guerra atroce e trermenda che l’America non vinse e nella quale morirono non meno di due milioni di soldati, prevalentemente cinesi. Il generale americano chiese il permesso alla Casa Bianca di usare l’atomica e conquistare Pechino., e fu licenziato in tronco. Nel frattempo, il generalissimo Chang Kai-shek, battuto dai comunisti, si imbarcò con tutta la sua armata per Taiwan che conservava il nome coloniale di Formosa, dove costituì una repubblica cinese anticomunista che ancora esiste e che Pechino o rivendica in queste ore come parte integrante della Cina. Lo fa sulla base degli accordi presi con gli americani nel 1978 dopo la rappacificazione avviata dal presidente Nixon con Mao, per mettere i bastoni fra le ruote dell’Unione Sovietica. Avevano tutti una paura dannata della bomba atomica e le dispense si riempivano di scatolette di carne e piselli. In compenso la gente si appassionava ai grandi processi criminali con le paginate sui giornali quotidiani. Il primo fu quello a Rina Fort, accusata di aver soppresso la moglie e i tre figli del suo amante. Un processone in cui furono pronunciate le più ottuse bestialità sulle donne e che comunque si concluse con un ergastolo per l’assassina. La guerra fredda conobbe un nuovo giro di vite: gli Stati Uniti inaugurarono ufficialmente la stagione che prende nome dal senatore Joseph McCarthy della Virginia, secondo il quale l’intera amministrazione statale è infiltrata dai comunisti, che agiscono come se fossero veri americani, ma che in realtà sono la quintessenza del non-americanismo. Bisogna ricordare che in America esiste l’aggettivo unamerican che non vuol dire antiamericano, ma semplicemente non americano. Ciò che suona falso come americano. Escono film su alieni che sembrano perfettamente umani (e americani) ma che hanno un microchip dietro la nuca che li fa agire secondo gli ordini di un mondo che vuole conquistare la Terra e che probabilmente ha la sua centrale a Mosca. Comiunciano i processi contro la maggior parte della gente del cinema e della letteratura, tutta più o meno di sinistra e che aveva vissuto la Seconda guerra mondiale anche come una crociata contro il nazifascismo sentendosi legittimamente alleata con l’Unione Sovietica. Tutti erano stato d’accordo nel deporre un pietoso velo sulla prima alleanza fra Hitler e Stalin dal settembre del 1939 al giugno del 1941, ma il comune sentire era ancora fortemente incline a vedere nella Russia sovietica un grande alleato, che stava trasformandosi in un nemico da arginare e forse da combattere con le armi. Tutti i comics, i réportage giornalistici e una parte del cinema si dedicarono alle malvagità che emergevano dai numerosi orrori che accadevano oltre la “Cortina di ferro” fra i paesi “satelliti” e l’Unione Sovietica. Questa nuova guerra raggiunse rapidamente punte di furore isterico, simmetrico a quello della controparte filosovietica anche in campi apparentemente neutrali come l’arte, la letteratura e l’urbanistica. Il nostro era un Paese cattolico e madonnaro strutturato sulle sezioni territoriali della Democrazia Cristiana, del partito socialista, di quello comunista, le stazioni dei carabinieri e le parrocchie, come nei racconti di Don Camillo di Peppino Guareschi. L’Italia di destra e di sinistra erano riunite in una comune diffidenza verso gli americani perché era chiarissimo che costoro non portavano soltanto pancake, popcorn, coccola, dentifrici, caramelle col buco e vitamine. Gli americani portavano una irresistibile ventata di libertà sessuale, di franchezza sessuale, sempre più esplicita e totalmente estranea alle tradizioni di un Paese come l’Italia che in materia di sesso era ancora totalmente bigotto. La resistenza all’innocente ed esplicito libertinaggio degli americani trovava un fronte curiosamente unito fra estrema destra ed estrema sinistra in Italia, dove Fanfani imponeva alle ballerine della Rai di indossare sulle gambe dei monacali “body” grigi.

Togliatti e i suoi angeli custodi. Maurizio Caprara su Il Corriere della Sera il 23 agosto 2020. Uno dei rimproveri era rivolto a Giuseppe Di Vittorio, in quel momento segretario generale della Cgil, la Confederazione generale italiana del lavoro, già perseguitato dal regime fascista, incarcerato, confinato e più avanti eletto all’Assemblea Costituente. Il rilievo mosso nei suoi confronti era: «Il compagno Di Vittorio abbastanza spesso quando deve intraprendere un viaggio in treno preferirebbe partire senza accompagnatore, accusandoci perfino di “dilapidare il danaro della classe operaia” (sic) acquistando biglietti per il compagno che ha l’incarico di seguirlo. Quando egli parte in macchina, specialmente alla volta di Cerignola, se i posti sono occupati da familiari egli lascia a terra l’accompagnatore». Il termine desueto che oggi può far sorridere — accompagnatore — era usato nel 1950 per indicare un militante del Partito comunista addetto alla scorta. Una guardia del corpo, compagnia della quale avrebbero fatto volentieri a meno anche altri dirigenti del Pci. Per esempio Gian Carlo Pajetta, che aveva vissuto in carcere circa tredici anni perché antifascista, e Umberto Terracini, che ne aveva scontati quasi dodici, inoltre sei di confino e poi aveva presieduto la Costituente. «Il compagno Pajetta più volte di sera è uscito senza accompagnatore (...). Spesso il compagno Terracini trova strano che il suo accompagnatore lo segua a teatro e ci va da solo», veniva riepilogato con disappunto. Morale ricavata dalle descrizioni: «Una seria vigilanza mai potrà realizzarsi se i compagni dirigenti considerano i compagni della vigilanza come “nemici”, o come dei poliziotti ai quali bisogna far perdere le tracce».

La relazione di Antonello Trombadori. Contrassegnata dalla dicitura «Riservata», la relazione che contiene queste frasi è datata 25 agosto 1950. Riguarda l’incidente di auto che, tre giorni prima, aveva causato al segretario Palmiro Togliatti un’incrinatura dell’osso frontale e la frattura di una vertebra. Evento con echi internazionali, l’infortunio del 22 agosto di settant’anni fa. Non un banale fatto di cronaca sulla statale tra Ivrea e Pont-Saint-Martin, lungo la quale era finita fuori strada l’Aprilia che portava verso le vacanze in Valle d’Aosta Togliatti, Nilde Iotti e la figlia adottiva Marisa. Che un camion, all’improvviso, avesse deviato il percorso dell’auto era una spiegazione insufficiente per Botteghe Oscure. Quali precauzioni non erano state adottate? Quali errori intralciavano la protezione dei dirigenti? Ne era derivata un’inchiesta, della quale il documento che abbiamo rintracciato nell’archivio del Pci conservato dalla Fondazione Gramsci era parte. A scrivere le otto cartelle fu Antonello Trombadori, responsabile della Commissione di Vigilanza. Le indirizzò alla «Segreteria del Partito». Per coglierne il senso va tenuto presente che due anni prima il Pci aveva due milioni e 99 mila iscritti, era il più grande partito comunista dell’Occidente e il 14 luglio 1948 il suo segretario era stato ferito a colpi di pistola da un attentatore. Il Partito comunista sovietico si era definito «contristato del fatto che gli amici del compagno Togliatti non siano riusciti a difenderlo dal vile attacco». Nella ritrosia di alcuni verso l’essere scortati contava il sospetto che certi accompagnatori raccogliessero informazioni sui dirigenti per il vicesegretario del Pci Pietro Secchia e per Mosca invece di lavorare per Trombadori. Analizzato subito da molti, dal ministro dell’Interno all’ambasciata americana in Italia, l’incidente di auto riproponeva una questione simile. Era per dimostrare impegno nel garantire l’incolumità del segretario che la direzione del Pci, dopo l’attentato, aveva istituito la Commissione di Vigilanza. E la sicurezza mancata all’Aprilia sarebbe stata tra gli argomenti impiegati da Stalin, a fine 1950, per motivare la sua proposta di mandare Togliatti a Praga per guidare il Cominform, la struttura erede dell’Internazionale comunista. Un’offerta respinta dall’interessato. Già partigiano nei «Gruppi di azione patriottica», tanto colto quanto incline a romanesco sarcasmo, Trombadori nella relazione ricorse ai toni richiesti dalle circostanze. Seri. Alla segreteria consigliò: «Quale che sia la versione ufficiale che si preferisce dare alle cause del sinistro noi dobbiamo, in sede di lavoro, guardare in faccia alla realtà e riconoscere che soltanto l’elevata velocità (oltre i cento all’ora) e la sottovalutazione dell’ostacolo potevano provocare quanto è accaduto». L’incidente veniva addebitato a «inammissibile leggerezza dell’autista compagno Aldo Zaia». Con un’aggiunta indicativa di quanto i segretari di partito del tempo fossero potenti eppure non indiscussi, tuttavia, Trombadori metteva agli atti di aver chiesto in precedenza la sostituzione di Zaia e che era stata rinviata tra l’altro «perché il compagno Togliatti non riteneva pienamente giustificata la misura». Nessuno sapeva, allora, che in ottobre il segretario sarebbe entrato in coma e sarebbe stato salvato da un’operazione chirurgica al cervello. Tanti testi possono far conoscere che cosa sono stati i partiti di massa della cosiddetta «Prima Repubblica», interventi pubblici, resoconti di riunioni e così via. Ma uno spaccato eloquente è in questa relazione. Nella quale si osservava: «Soltanto apparentemente il compito di accompagnatore di Togliatti può essere simile a quello di una sentinella, in realtà quello che conta molto è la capacità che quest’uomo ha per far vivere insieme senza attriti i due autisti, i guardiani della casa, ecc, e lo spirito di iniziativa (...)». In altre parole, occorrevano capacità politiche. Anche per essere «accompagnatori».  

Marta Cartabia: «De Gasperi, riparatore di brecce e restauratore di case in rovina…». su Il Dubbio il 20 agosto 2020. Pubblichiamo una parte della Lectio degasperiana 2020 “Costituzione e ricostruzione” che la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ha tenuto a Pieve Tesino lo scorso 18 agosto. Pubblichiamo una parte della Lectio degasperiana 2020 “Costituzione e ricostruzione” che la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ha tenuto a Pieve Tesino lo scorso 18 agosto. «Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi». Questo splendido passo di Isaia (Is 58,12), a me molto caro, ci introduce al tema scelto con grande lungimiranza dagli organizzatori per la Lectio degasperiana di quest’anno: «Ricostruzione e Costituzione». La parola ricostruzione risuona da mesi nella riflessione pubblica ed è risuonata nel corso di questa estate, specie nelle ultime settimane, in occasione della cerimonia di inaugurazione del nuovo ponte di Genova, ricostruito, appunto, dopo la tragedia del crollo di due anni fa. In quella occasione, l’architetto Renzo Piano, che ha donato il progetto del nuovo ponte, nel suo intervento di saluto, ha espresso, con parole bellissime, pensieri profondi da cui desidero prendere le mosse per la nostra riflessione odierna. Anzitutto, ha osservato, la ricostruzione è sempre figlia di una tragedia, di una frattura che non si cancella e non si dimentica; una ferita che non si rimargina – come ha sottolineato il Presidente della Repubblica nella medesima occasione – e diventa l’essenza stessa di quello che saremo. La ricostruzione incorpora, dunque, un passato che non si può ripristinare così come era, ma richiede un rinnovamento. Per ricostruire occorrono un’idea e un cantiere, prosegue l’illustre architetto e senatore. Un’idea, per dare forma a ciò che non l’ha più. Un cantiere, per realizzare quell’idea attraverso il lavoro, l’opera instancabile e tenace di una comunità di persone. 2 Similmente, la ricostruzione dell’Italia dopo la catastrofe alla fine della Seconda guerra mondiale, ha richiesto un ideale – che ha la stessa radice etimologica di idea – e un lavoro nato dal coinvolgimento di un popolo. In quella ricostruzione Alcide De Gasperi svolse un ruolo preminente, come uomo di pensiero e di azione. Anche allora c’erano tragedie, fratture, macerie e ferite non rimarginabili; anche allora fu necessaria un’idea per ridare forma nuova alla convivenza civile di un popolo disorientato; anche allora fu necessario un grande cantiere per ricostruire su solide fondamenta la casa comune. Oggi, come allora, – superate le fasi più acute dell’emergenza innescata dalla pandemia – siamo alle prese con una ricostruzione, avviata quando si è incominciato a pensare al “dopo”. A un “dopo” che difficilmente potrà assumere la forma di un semplice ritorno al “prima”, sia pure dopo una parentesi lunga, dolorosa e straniante, ma pur sempre una parentesi. In questo frangente, è più che mai fecondo riandare alle fonti della storia. (…).In questa prospettiva, ricco di spunti di riflessione anche per il nostro oggi è il percorso di un uomo, qual è Alcide De Gasperi, che ha fatto della ricostruzione una delle sue principali preoccupazioni e, soprattutto, il metodo della sua azione politica; un uomo che, non a caso, ha operato da protagonista sulla scena pubblica proprio in quel decennio della storia d’Italia che viene usualmente denominato «periodo della ricostruzione» dopo le guerre e il fascismo. Significativo è che il documento più organico in cui si possono rintracciare le linee di pensiero e di azione di Alcide De Gasperi rechi il titolo «Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana» del 1943. Egli contribuì alla ricostruzione con pensiero e azione: idee e cantieri, per riprendere ancora la felice immagine usata da Renzo Piano. Il contributo di De Gasperi alla ricostruzione non può essere compreso disgiungendo questi due aspetti, che in lui furono sempre uniti. Il primo è quello più propriamente di pensiero, che egli ebbe modo di elaborare in particolare durante il periodo dell’“esilio” in Vaticano e del lavoro condiviso con gli esponenti del Partito Popolare e con i giovani che avevano preso a riunirsi dall’inizio del 1940 a casa di Sergio Paronetto. Qui si era incominciato a ragionare seriamente di ricostruzione. Tra le personalità che partecipavano a questi incontri, che sarebbero poi scaturiti nella redazione del Codice di Camaldoli del 1943, vi erano oltre allo stesso De Gasperi, anche Guido Gonella, Giuseppe Spataro, Mario Scelba, Pasquale Saraceno, Mario Ferrari Aggradi e infine anche Giulio Andreotti. (…)La sua azione ricostruttiva, dunque, si muoveva contestualmente su una pluralità di piani e rispondeva a una «visione integrale» dei bisogni che urgevano. Tutt’altro che secondaria per lui fu altresì la componente morale e culturale. Il suo imponente “cantiere ricostruttivo” portò a risultati tangibili, da più parti qualificati come prodigiosi nella storia d’Italia e d’Europa, perché egli non trascurò mai il “fattore umano” nella sua integralità, convinto che «più che i programmi contano gli uomini che sono chiamati ad attuarli». (…)Veniamo più da vicino al tema della nostra riflessione che è «Ricostruzione e Costituzione»: ed è sul terreno costituzionale, a me più familiare, che intendo rimanere saldamente ancorata. È bene però sin da subito sottolineare che per comprendere il contributo così ricco e articolato, come quello che offrì De Gasperi alla ricostruzione costituzionale, occorre affrancarsi da una nozione meramente testualistica di Costituzione per abbracciarne una più ampia e ricca, che include la prima, ma non si esaurisce in essa. Le costituzioni nascono dalla storia e vivono nella storia. Il momento della scrittura di una costituzione è un momento epico nella vita di un popolo; eppure, solo con la scrittura, la Costituzione non può garantire se stessa. Occorrono soggetti sociali, politici e istituzionali che siano in grado di conferire alle scelte costituzionali solide fondamenta e radici robuste, capaci di reggere all’urto delle intemperie. Per questo rimane attuale l’intuizione fondamentale di Costantino Mortati che ci ha consegnato una nozione complessa di costituzione, risultante tanto dal testo scritto – la Costituzione formale – quanto dai rapporti tra le forze sociali e politiche – la Costituzione materiale. Ed è proprio su questo piano che si può apprezzare il lascito di De Gasperi. Infatti, chi si basasse solo sul processo di scrittura della nuova carta costituzionale, cioè si affidasse solo lettura dei lavori dell’Assemblea costituente, ne trarrebbe l’impressione di una assenza o di una presenza assai parsimoniosa: fatto salvo un intervento importante al momento dell’approvazione del futuro articolo 7 della Costituzione sui rapporti con la Chiesa cattolica, si annoverano altri due brevi interventi, all’inizio e alla fine dei lavori, e niente più. Se paragonato al contributo degli altri cattolici eletti in Assemblea costituente – Dossetti, La Pira, Moro, solo per citare alcuni nomi eminenti – l’apporto diretto di De Gasperi alla scrittura della carta costituzionale appare assai contenuto. Eppure, non errano quegli osservatori italiani e stranieri che attribuiscono un ruolo di spicco allo statista trentino in tutta la fase costituente. In anni recenti, un autorevolissimo osservatore esterno al dibattito politico italiano non esita a definire De Gasperi come vero e proprio leader carismatico della svolta costituzionale italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si tratta di Bruce Ackerman, eminente costituzionalista dell’Università di Yale, che nella sua più recente opera che indaga sulle origini e sulla legittimazione delle Costituzioni contemporanee riserva un ampio spazio alla nascita della Costituzione (…)La sua fu un’opera di “coibentazione” e consolidamento delle istituzioni repubblicane e della nascente democrazia, attraverso un’azione di politica interna ed estera che si svolse parallelamente ai lavori dell’Assemblea costituente, per assicurarne la permanenza al di là del mutare dei governi. De Gasperi aveva visto in prima persona cadere sotto i colpi del fascismo non solo il costituzionalismo italiano, ma anche la Costituzione di Weimar del 1919, avanzatissima nei suoi principi, ma fragilissima nella sua struttura, in cui non si era riusciti a trasferire al nuovo sistema politico la lealtà degli apparati del vecchio: un fallimento, quello di Weimar, che spianò la strada al nazionalsocialismo e all’ascesa di Hitler in Germania. (…)«Il Governo ora, fatta la Costituzione, ha l’obbligo di attuarla e di farla applicare: ne prendiamo solenne impegno. Noi tutti però sappiamo, egregi colleghi, che le leggi non sono applicabili se, accanto alla forza strumentale che è in mano al Governo, non vi è la coscienza morale praticata nel costume». De Gasperi veniva da lontano e guardava lontano: per questo vedeva nella stabilizzazione nazionale, europea e internazionale il necessario complemento all’operazione costituente, che egli perseguiva con la sua azione di governo, distinta ma parallela ai lavori della Costituente. Collocato in questo contesto di più ampio respiro, il numero limitato dei suoi interventi diretti ai lavori dell’Assemblea costituente è, dunque, un indicatore scarsamente significativo per valutare la reale incidenza che il pensiero e l’azione di De Gasperi spiegarono sulla configurazione del nuovo ordine costituzionale. Al contrario, la fase costituente fu segnata profondamente dalla sua azione. Tra l’altro, egli contribuì con un apporto decisivo ad alcune fondamentali scelte di metodo che agevolarono la transizione, permettendo che la Carta costituzionale fosse scritta in tempi relativamente brevi e soprattutto in un clima pacifico e collaborativo fra tutte le forze politiche antifasciste, anche nei momenti più critici e di maggior tensione. Si possono evidenziare tre punti: anzitutto la scelta per la Costituente in luogo del metodo insurrezionale; in secondo luogo la decisione a favore del referendum istituzionale; infine, la delimitazione dei poteri dell’assemblea costituente, escludendo dal suo campo di intervento l’azione di governo e la legislazione ordinaria. Sul primo fronte, occorre osservare che sin dall’epoca delle discussioni in sede di CNL si fece fautore dell’idea di una Assemblea costituente in opposizione all’ipotesi insurrezionale avanzata dai socialisti. Famose sono le dichiarazioni che egli pronunciò in sede di CNL: «Non temo la parola rivoluzione, ma ne ho fastidio dopo venti anni che il fascismo, richiamandosi ai diritti della rivoluzione, ha commesso tante soperchierie e violato i diritti dei cittadini. Ad ogni modo la vera rivoluzione è la Costituente». La vera rivoluzione è la Costituente. De Gasperi è lapidario. Le sue parole lasciano intendere che sullo sfondo si svolgeva una discussione condizionata dalla dicotomia restaurazione–rivoluzione, come se l’alternativa che si poneva alla fine del fascismo fosse un aut-aut: o un ritorno al passato, o un sovvertimento radicale, una palingenesi sociale da imporsi con il metodo insurrezionale. De Gasperi non si fa intrappolare nell’alternativa tra nostalgie e utopie. Dal punto di vista metodologico egli prediligeva la strada della ricostruzione, una terza via alternativa tanto alla mera restaurazione quanto alla radicalità della rivoluzione. E tale via passava attraverso una Costituente, democraticamente eletta. Il suo obiettivo era di assicurare alla nascente democrazia una prospettiva stabile e proiettata a lungo nel futuro, ben oltre il momento epico della fase costituente, cosa che la rivoluzione non era in grado di assicurare: «noi siamo preoccupati soprattutto di salvare nel futuro lo Stato democratico noi desideriamo il metodo permanente della democrazia, che è l’antirivoluzione». Altrettanto netta è la sua posizione quanto al metodo per risolvere la questione istituzionale, nella scelta cruciale tra monarchia e repubblica. Questa alternativa era fortemente lacerante sul piano politico, lungo vari crinali che dividevano il paese. Per questo, la sua proposta fu sempre chiara nel voler sottrarre questo compito gravoso all’Assemblea costituente. Il nodo tra monarchia o repubblica doveva essere sciolto con un voto diretto da parte del popolo. (…)Il favore di De Gasperi per il referendum istituzionale era mossa anche dall’obiettivo di evitare che l’ombra della discussione su un punto così controverso, si proiettasse sui lavori dell’Assemblea costituente, avvelenandone il clima. (…). Egli non volle mai caricare l’Assemblea costituente delle funzioni di legislazione ordinaria, che vennero portate in capo all’esecutivo. Le uniche eccezioni erano costituite dalla legislazione elettorale e quella di ratifica dei trattati internazionali 9 Ciò si rivelò provvidenziale giacché permise di mantenere il clima di collaborazione fra tutte le forze politiche all’interno dell’Assemblea costituente anche nel corso del ’47, quando il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti portò a un progressivo inasprimento dei rapporti con i comunisti, culminato, nel maggio del medesimo anno, con la loro esclusione dal governo. Erano i mesi decisivi per la conclusione del Trattato di pace e, allo stesso tempo, per il perfezionamento del testo costituzionale. Le tensioni di quel momento sono impresse nella memoria di tutti per la forza delle parole con cui prese l’abbrivio il suo famoso discorso a Parigi al Palazzo del Lussemburgo, di fronte ai delegati delle potenze vincitrici: «Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me. ho il dovere di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista ». A Parigi, come già a Londra, si trovò in un ambiente di freddezza e di sospetto. Ma parlò con nobiltà, come rappresentante dell’Italia, ma dell’Italia democratica; come uno che per la libertà aveva patito. (…)Questi tre interventi – l’Assemblea costituente, il referendum istituzionale e la distinzione dell’azione di governo da quella propriamente costituzionale – permisero di «gettare un ponte sull’abisso» e di giungere al più grande rivolgimento della storia politica moderna d’Italia nella 10 concordia, mentre altrove furono guerra civile, terrore e massacri, come egli stesso osservò nel suo discorso all’Assemblea costituente il 25 giugno 1946. C’è da chiedersi da dove De Gasperi attingesse una tale chiarezza di giudizio, una tale tenacia nell’azione e una tale creatività nell’individuazione di soluzioni praticabili e condivisibili, in un periodo così confuso e convulso, eppure così decisivo, della storia di Italia e d’Europa. Lascio a chi meglio di me conosce la sua storia personale individuare le sue risorse più profonde, che forse più adeguatamente possono rispondere a questo interrogativo. (…) La sua linea politica è orientata alla continua ricerca del centro, in modo da ricomporre le inevitabili polarità, guardando anzitutto ai fatti: di qui l’idea di ricostruzione che, come si è detto, non è restaurazione, ma neppure rivoluzione: «Il ricostruttore non s’indugerà in discussioni ideologiche alla ricerca dello Stato ideale né, d’altro canto, si lascerà turbare dai miti di una palingenesi rivoluzionaria», si legge nel Testamento politico che prosegue, richiamando ironicamente una battuta del politico belga Félix de Mérode: «Quando ordino un paio di scarpe il calzolaio prende le misure sul piede mio e non su quello di Apollo». La ricostruzione che egli propone è un metodo che parte dal dato di realtà, confida nella forza dei fatti e segue le tracce presenti nella storia così com’è. Tra tante, spicca una qualità della sua azione politica che, mi pare, derivi proprio dalla sua caratteristica di uomo di confine, sempre chiamato a camminare su un crinale, a muovere i suoi passi in ambienti impervi, insidiosi e severi: la qualità è quella di un realismo lungimirante. Certo, si potrebbe obiettare, c’è un realismo prigioniero della realtà stessa, che si risolve in un immobilismo, in pura fatalistica conservazione. Ma non è questo il realismo che caratterizza l’azione e, oserei dire, la vita di De Gasperi: la traccia che egli ha lasciato nella storia d’Italia e d’Europa è quella di un rinnovamento che pesca nell’esistente e ha un respiro di lungo periodo. La sua è una politica che pone le basi di alcuni orientamenti di fondo, alcuni dei quali si realizzano subito e altri matureranno nel tempo. Il suo è un realismo lungimirante, perché animato da grandi ideali, «impregnato di idealità», come ebbe già a scrivere nel 1922 su «Il Nuovo Trentino»; un realismo che lo accomuna ai fondatori dell’unificazione europea espresso nella famosissima dichiarazione del 1950 di Robert Schuman, anch’egli significativamente, uomo di confine. (…).In una lettera del 7 luglio 1928, scritta dal carcere mentre la sua famiglia si trovava in montagna per il periodo estivo, De Gasperi scrive: «Anche io sto preparandomi per una scalata di roccia sai dove sto esercitandomi? Nelle Malebolge dell’inferno dantesco, con Virgilio che dirige la scalata, senza corda e senza piccozza (per il pericolo del fulmine). Ma intanto (prosegue la lettera, introducendo una splendida citazione dantesca): Così, levando me su ver la cima D’un ronchione, avvisava un’altra scheggia, Dicendo: Sopra quella poi t’aggrappa; ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia. Non era via da vestito di cappa». 13 Il metodo di De Gasperi è tutto qui. Il cammino sicuro del montanaro, dal passo fermo che arriva senza dubbio alla vetta: «uno stile di concretezza, di rigore, di realismo, animato da una grande tensione ideale: è De Gasperi», come ricordava Pietro Scoppola qualche anno fa in questa medesima occasione, nella prima Lectio del 2004. Non è l’assenza delle avversità a permettere la ricostruzione e la rinascita, ma il saper discernere una strada percorribile che le attraversa e le supera, di un superamento che innova, di un’innovazione che non rinnega il passato, che non si arresta mai neppure di fronte a un ponte crollato, come nelle Malebolge dantesche: levando me su in ver la cima. Una via percorribile, indicata da una guida sicura; percorribile per quanto scomoda e impervia – non era via da vestito di cappa – erta, esposta e disagevole, lungo la quale il ruolo di chi conduce sta tutto nell’avvistare, passo dopo passo, un appiglio – avvisava un’altra scheggia – per potersi aggrappare e procedere nell’ascesa. E come l’alpinista sa bene, occorre sempre verificare che l’appiglio sia tal ch’ella ti reggia, che sia in grado di sostenerti, pena la rovina. Questo splendido passo della Commedia che egli regala alla moglie in uno dei momenti più bui della sua esistenza racchiude tutta la sua personalità e il segreto del suo “carisma”: un uomo con i piedi saldamente ancorati a terra e con lo sguardo rivolto in alto e lontano. 

Storia d’Italia, 1951: quando dalla radio uscì fuori il mondo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 27 Agosto 2020. Nella scuola Emanuele Gianturco, al lato del Pantheon, erano venuti quella mattina gli ispettori speciali del ministero. Perché era un evento speciale di cui non capivamo niente ma ci faceva ridere perché l’evento era la Ceca, sigla che stava per Comunità europea del carbone e dell’acciaio, e potete immaginare degli scolari piegati sul foglio a scrivere pensieri dementi sulla Ceca. Ma ci inflissero un preambolotto teorico con cui trasmetterci lo spirito di Ventotene di cui non sapevamo nulla, ma capimmo che si trattava di grande evento perché per la prima volta i Paesi europei invece di prendersi a cannonate si mettevano insieme per produrre carbone e acciaio. «Questo – ci disse l’austera signora del Ministero – è solo il primo passo di una cosa molto più grande che un giorno si farà e si chiamerà Europa». Ma non si chiama già Europa? chiese uno. «Sarà l’Europa unita, senza più guerre e un giorno si chiamerà gli Stati Uniti d’Europa». Bella idea e scrivemmo colonne e colonne di fogli protocollo riempiti di ridondanti ed enfatiche banalità. Però era successo qualcosa. Poi, c’era sempre questa guerra di Corea che adesso sembrava sotto casa. Era peggio della Prima guerra mondiale, dicevano, perché milioni di soldati si sparavano nelle trincee scavate nella neve ed era tutto sangue, urla dei feriti e morte. E cinesi, si diceva, che arrivavano a ondate. Non come uomini singoli, ma come masse liquide prive di individui distinguibili. Tutti uguali, i cinesi. E più le forze dell’Onu sparavano, più quelli tornavano. Era una guerra di cui arrivavano notizie militari e minacce pesanti alla nostra vita privata. La guerra che avevamo vissuto era finita solo da sei anni, e adesso parlavano di una nuova generazione di bombe atomiche che potevano far sparire un continente. Il tasso di rancore nella guerra fredda saliva in casa e nelle strade. Avevo undici anni ma ricordo perfettamente quanto quella guerra fosse globale. E poi la radio. La radio era tutto. Si aspettava quel segnale dell’uccellino della radio che preparava – un fischietto meccanico come un telegrafo che scandiva il tempo – all’ora esatta cui seguiva immediatamente la voce di uno speaker che si annunciava dicendo: «Giornale Radio». Non era un giornalista, uno di passaggio. Era come la voce della Bbc in Inghilterra. Era una voce solo maschile, grave, profonda, dall’ortoepia – cioè la pronuncia – corretta al punto tale che nessuna parlata regionale, neanche toscana, poteva eguagliarla per perfezione. Il Giornale Radio era pieno di ministri e di dichiarazioni, compilato sulle agenzie di stampa governative con pochissime interviste a personalità ufficiali, campioni sportivi o attori. Il trionfo della radio fu a novembre di quell’anno. Il 14 novembre il Po andò fuori dagli argini e sommerse il Polesine. Nessuno aveva memoria di una sciagura talmente grande, per di più vissuta in diretta, ventiquattro ore al giorno, comprensibile a tutti: fu la prima catastrofe naturale globalizzata d’Italia. Era l’Italia in cui la gente viveva attaccata alla terra come gli insetti e nella provincia di Rovigo fu un disastro perché quasi duecentomila persone furono cacciate di casa dalle acque e ci furono più di cento morti e parlavano tutti, il papa e i ministri i leader politici e si facevano sottoscrizioni che venivano annunciate alla radio vaglia per vaglia, lira per lira. Oggi siamo abituati alla televisione e a quel che succede con i terremoti, altre sottoscrizioni e racconti penosi. Ma la radio era una scatola di legno color noce o radica con un vetro su cui si leggevano i nomi di tutti i paesi e le città del mondo fra cui cercarti la stazione fra gli scrosci statici e sibili. Quando arrivò in casa una radio monumentale potentissima in cui bastava premere un tasto per avere la Rai o il grammofono incorporato, era qualcosa come Wi-Fi moltiplicato Netflix e potevi girovagare fra lingue mai sentite. Inoltre, la radio forniva sceneggiati fantastici pieni di cigolii sinistri, urla dal pozzo della vertigine, tutto il mondo di Edgar Allan Poe in particolare e le voci di comici surreali come il misterioso Alberto Sordi che ancora non aveva un volto. I gatti erano più frequenti dei cani negli appartamenti infestati dai topi e il nostro ne ha avuti almeno tre, tutti amatissimi. Questa faccenda della guerra alle porte era molto angosciosa. Gli Stati Uniti stavano preparando una bomba più potente di quella di Hiroshima che sarebbe stata all’idrogeno e anche i sovietici erano al lavoro fervente con i loro ordigni. In Italia le carriere degli iscritti al Pci e al Psi erano molto ostacolate, per non dire boicottate. Cresceva lo spionaggio e questo era un fenomeno comune all’Est e all’Ovest. La gente di destra o comunque anticomunista era sicura che da un momento all’altro arrivassero i cosacchi di Stalin per abbeverarsi nelle fontane di piazza San Pietro e permaneva nell’aria una vaga ipotesi insurrezionale. Togliatti e i dirigenti del Partito comunista scoraggiavano le fantasie di presa del potere con le famose armi nascoste e ben oliate (a intervalli regolari polizia o carabinieri trovavano qualche deposito di mitra Sten e qualche bomba) e una quantità di bambini saltava in aria sulle bombe inesplose della guerra. Era un bollettino quotidiano terribile di mutilazioni e morti. C’era grande fermento nell’agricoltura e in Parlamento era finalmente passata una riforma agraria molto più moderata di quanto avesse voluto la Cgil, ma comunque era davvero cominciata la fine del feudalesimo. Nel senso proprio: era stato deciso per legge che i retaggi feudali andassero rimossi, il che significava che da una parte cresceva una classe di ex servi della gleba che dicevano sissignore e mandavano i guadagni al padrone, dall’altra era l’inizio della fine di questa classe parassitaria e felice dei grandi proprietari agrari che delle loro terre se ne erano sempre fregati con un’entrata comunque garantita senza far niente. Sempre meno, ma erano comunque troppi. Stava cambiando proprio la composizione della materia italiana: la metà che era ancora terrosa e largamente analfabeta insieme alla borghesia più giovane che non vedeva ancora le prospettive che si sarebbero aperte con la grande ricostruzione, aveva già cominciato ad emigrare non solo negli Stati Uniti, ma nell’Argentina di Perón e dei suoi descamisados, particolarmente amati anche dai nostalgici fascisti e dai fuggiaschi del Terzo Reich tedesco. Anche il Brasile si riempiva di italiani, come l’Australia e- in Europa – la Francia dei rital (come venivano spregiatamente chiamati gli emigrati dal Paese che era stato loro nemico er poi occupante durante la guerra) e poi in Belgio, nel buio delle miniere e delle stragi nelle gallerie. Non era ancora l’Italia della Seicento e dell’Autostrada del Sole e tutte le aziende del nord cercavano di convertirsi nel tessile e proprio nel Polesine e nel Veneto, le donne e i bambini lavoravano giorno e notte intorno alla macchine da cucire per confezionare calze che poi i loro uomini con la valigia di cartone andranno a vendere in treno oltre le frontiere. Era arrivata la penna biro, o a sfera. Quella classica che gira ancora oggi di plastica trasparente con dentro la cannula con la sfera rotante. Fu una rivoluzione millenaria: non più inchiostro, non più macchie e per qualche tempo la scuola resistette all’ “americanata” della penna che poi si butta e c’era questa resistenza visibile verso il nuovo e il moderno. Le donne seguivano la moda sulle riviste della moda che puntavano tutte sulla moda elegante e sul bon ton, mentre dall’America arrivava una ventata di femminismo pratico: la donna come è, come vorrebbe essere, seducente e pratica. Il New Look veniva dalla Francia di Christian Dior e gli stilisti italiani, benché in erba, erano già determinati a competere e si gettavano in una mischia che avrebbe prodotto dall’anno successivo Palazzo Pitti. La moda era un’arte totalmente rinnovata che già aveva la forza di fare da volano per un mondo da inventare, o meglio di un mercato che già esisteva ma che non sapeva bene che cosa desiderare. Dai miei appunti di ragazzino romano vedo i pianerottoli delle case perbene carichi di materiali imprevisti: motori per auto, gomme per autotreni, scatole di medicinali. Erano arrivati gli antibiotici, già si moriva di meno con la penicillina che certamente a me aveva salvato la pelle almeno due volte. Ma ricordo una borghesia appena uscita dalle botte che cercava di fare affari, comprava e vendeva, modificava, viaggiava e – con grandissimo scandalo di mia madre che pure era una giovane bella donna – faceva sesso. La Chiesa era occhiutissima, le organizzazioni cattoliche erano fortemente sessuofobiche e quando maschi e femmine imboccavano la via dello sviluppo e dell’adolescenza, una rete di precauzioni era già pronta ad accoglierli separandoli per genere e spingendoli nel migliore dei casi a fare sport. Sport come antidoto del peccato. I giovani non facevano molto sesso. C’erano i casini ma non credo che fossero usati da una grande popolazione. C’erano amanti e mantenute (vari gradi della degradazione femminile) ma le ragazze avevano una paura fottuta. Portavano imbragature di reggicalze, calze, gancetti da spezzarti le unghie e poi erano terrorizzate da tutto: gravidanza, deflorazione, genitori, persino i fratelli e la sessualità era una faccenda del tutto sotterranea e leggendaria, se non catacombale. Il massimo che poteva accadere – con le dovute precauzioni – era il bacio o pomiciare (a Roma) o limonare ma si favoleggiava del petting (mani addosso per arpeggi improvvisati (i maschi avevano delle femmine una conoscenza pari a zero, non giravano foto anatomiche, la pubblicazione dei seni era vietata e si andava in galera, bisognerà arrivare ad un’esplosione non meditata di Cesare Zavattini vent’anni più tardi quando di colpo disse “cazzo” alla radio e l’evento fu festeggiato come se fosse comparsa la madonna. Ma le parolacce erano per solo uso maschile e le femmine concedevano poca promiscuità e sempre sul filo dell’infarto. Le donne erano uscite dal tunnel della moglie fascista cittadina o massaia o mungitrice e un anno prima del disastro del Polesine dalle risaie erano già uscite le gambe di Silvana Mangano e grandi fantasie erotiche sulle mondine di Riso Amaro di De Santis. Erano uscite fuori le gambe e la donna che lavora e che, essendo sola e bella e immersa nella melma, sa trattare alla pari gli uomini esattamente come nella letteratura afroamericana facevano le donne nelle piantagioni: “Sciùr parùn dalle belle braghe bianche, dame le palanche che andemo a ca’” era una canzone sia del lavoro che dell’indipendenza femminile e tutto ciò arrivava a sferzate, non faceva parte del mondo di prima, non faceva parte del mondo delle ginnaste, delle Giovani italiane e degli stereotipi, come invece succedeva – e i giornali ne erano pieni – nel mondo sovietico, dove le lavoratrici e i lavoratori somigliavano nel realismo socialista ai quadri italiani (e fascisti) di Sironi, in cui il corpo dei maschi e delle femmine appariva interamente dedicato alla costruzione della società ideale. Un’Italia che aveva voglia di divertirsi. Repressa, tante cerimonie religiose che non potete neanche immaginare, mesi mariani e novene, processioni e confessioni, per non dire del puritanesimo del Partito comunista in diretta concorrenza con quello democristiano. Lì, i socialisti cominciarono un po’ a fare razza a parte: aria libertaria, anche un po’ sporcacciona, parlavano sfrontatamente di contraccettivi, di aborto e amore libero anche per smarcarsi dai comunisti che già allora si ispiravano più a santa Maria Goretti che a Sophia Loren che aveva diciassette anni e si dava da fare con particine gloriose che di lì a poco l’avrebbero portata al contratto con la Paramount.

Storia d’Italia, 1952: quando Scelba bloccò la ricostituzione del partito fascista. Paolo Guzzanti de Il Riformista il  2 Settembre 2020. Per me (ma sono fatti miei, e però fatti che ancora mi segnano) il 1952 fu un anno terribile perché morì in casa la mia amata nonna Amelia, rossa come me, vedova di un giornalista assassinato, una combattente di ferro che amavo in modo incontenibile. Quando fu chiaro che stava morendo di cancro ai polmoni, lei che non aveva mai fumato, io lavorai con martelli e seghe per crearle un letto confortevole, con molti cuscini, posizioni, basi per bicchieri, e un bicchiere da usare come campana da far tintinnare. Poi, approssimandosi la sua morte non ebbi più la forza di guardarla e l’abbandonai. In un ultimo sospiro mi disse “Da te non me lo sarei mai aspettato” e io fuggii a Villa Borghese dove capitanavo una banda di ragazzini in guerra con altri ragazzini e il giorno della sua morte, quando tutte le rondini di Roma si levarono in un urlo nel momento finale, io rimasi stordito e non mi accorsi che la banda di Nasone aveva preparato un’imboscata dietro le palme dell’Orologio ad acqua, così persi la guerra e tornai a casa dove avevano spruzzato del cloroformio per preservare il cadavere di Amelia finché non la impacchettarono e portarono via. Tutto ciò è davvero personalissimo e non interessante, ma ognuno ha le sue giornate e i suoi anniversari, accadde sessantotto anni fa. Amelia, dopo la morte seguitò per qualche tempo a far tintinnare il suo bicchiere costringendomi a correre al suo letto smontato e apprezzai i suoi segnali, benché non creda a queste cose: in famiglia si decise tacitamente di non farne mai menzione per nessun motivo. Era dunque il 1952 e due furono i fatti oltre i fatti: una ragazzina adorabile diventò regina d’Inghilterra e la televisione cominciò a trasmettere il Telegiornale col mappamondo e una sigla che faceva parapappà-parapapà. Se non l’avete mai vista com’era, andate sui documentari per rendervi conto com’era fatta la ragazzina Elisabetta, a cui volavano le vesti come a Marylin, con la sorella Margaret, mentre fanno impazzire i marinai sulla tolda della nave da guerra che nel 1946 aveva portato la famiglia reale al lungo viaggio di ringraziamento in Africa. Questo ringraziamento dei reali era per tutto l’impero che aveva combattuto con tutti i colori della pelle e dei costumi, delle uniformi e i turbanti, i costumi e le insegne, nella Seconda guerra mondiale. Oggi non ne abbiamo più memoria: guardiamo l’Inghilterra e pensiamo alla Brexit, a Boris Johnson che si becca il Covid come Briatore e ai ragazzi nei pub. Ma, sapete, c’era una volta un impero. Lo dico perché lo ricordo: prendete un mappamondo e provare a immaginare che cosa fosse l’impero britannico che Churchill pronunciava – come ogni buon conservatore – “thi Empaaahh”. L’impero andava dal Canada ai Caraibi, dall’Egitto al Sud Africa, all’India col Pakistan, dall’Australia alla Nuova Zelanda, quelle terre che oggi fanno parte dei “Fine Eyes” i cinque occhi, che comprendono gli Stati Uniti, ma non il Sudafrica. Re Giorgio, il vecchio Bernie che aveva sempre balbettato (“The King’s Speech”, se ricordate il film) e che era stato costretto a fare il re al posto del fratello amato dalle folle, che volle sposare la divorziata americana Wally Simpson e che poi andò a fare la corte ad Hitler a Berlino, tanto che Hitler contava di rimetterlo un giorno di nuovo sul trono. Elizabeth era una ragazzina ciclista e volenterosa e si era innamorata di quello strafico greco che è il principe Filippo (per accudire il quale ha deciso di non esercitare quasi più i suoi uffici regali) sul quale gravava però l’ipoteca del Duca di Mountbatten, il king maker che finì sbriciolato sulla sua barca da una bomba islandese negli anni Settanta. Quando il re morì, Elisabetta viveva felice a Malta con suo marito Filippo, di cui era pazza, e lui faceva la carriera militare nella Royal Navy. La morte del padre era prematura e fece saltare tutti i piani: Filippo dovette lasciare la carriera e trasformarsi in una specie di cameriere consorte; lei smise di correre in bicicletta o guidare da scavezzacollo la sua jeep a Malta e tornò a fare la regina di una Piccola Bretagna che non era più l’impero più grande del mondo. Era successo all’Inghilterra qualcosa di simile a quel che era accaduto con la Prima guerra mondiale all’Austria, che da grande impero centrale fu ridotta a quella piccola nazione che è ancora oggi. Il mondo cambiava radicalmente. Comandavano ormai soltanto Stati Uniti e Urss: Churchill sapeva bene che quello era il prezzo richiesto dagli americani per pagare la salvezza della Gran Bretagna assediata da Hitler: noi vi salveremo, ma voi lascerete l’impero perché noi americani non ammettiamo imperi. Si potrà dire naturalmente che gli americani hanno il loro impero, ma mai tecnicamente: dalla guerra con la Spagna all’inizio del Novecento avevano trattenuto come colonia le Filippine fino alla fine della Seconda guerra mondiale, ma decisero che dovevano a quel popolo la libertà senza condizioni, anche per ricompensare il contributo filippino alla guerra contro i giapponesi. La Francia stava cominciando a perdere i suoi pezzi in Estremo Oriente, cioè nel Sud Est asiatico, le antiche colone del Tonchino del Vietnam, Cambogia e Laos con le loro città edificate imitando Parigi. I rivoluzionari comunisti che avevano combattuto contro i giapponesi avevano studiato tutti alla Sorbonne a Parigi, erano degli intellò cresciuti sotto la protezione del partito comunista francese e la Francia stava per andare incontro alla disfatta militare di Diem Bien-Phu. Il mondo stava cambiando molto radicalmente: non più imperi, re e regine (salvo Elizabeth), molta guerriglia nelle colonie dei Paesi europei che ne avevano ancora, come il Congo belga e le colonie britanniche, stava cominciando quella separazione del mondo fra americani, russi e terzomondisti. E da noi? La televisione. Ne avrete letto tanto e visto e molti di voi c’erano. Ma ricordate che cos’era un televisore? Un marziano tondeggiante in mezzo al salotto con tutte righine dentro che si distorcevano e potevate passare ore a regolare quelle righine lungo tutta la scala dei grigi. Poi, il telegiornale. C’era il martedì pomeriggio un telefilm western per i ragazzi. Qualche cartone animato, non voglio fare la storia della televisione, ma ricordare un’emozione. Io mi emoziono facilmente: dopo l’arrivo del colore non riuscii per anni a separarmi dallo stupore per il fatto che le immagini fossero a colori. E ricordo benissimo proprio l’incoronazione di Elisabetta seconda in diretta, in Mondovisione, una visione tutta distorta, da far schifo, ma era una diretta. Intanto il vecchio Winnie, Winston Churchill, era tornato ad essere primo ministro e annunciò con tono distratto che il suo Paese stava preparando la bomba all’idrogeno. Non se ne poteva fare a meno: russi e americani si erano già portato avanti, i francesi seguivano. Noi italiani non eravamo nessuno. Ancora ci odiavano per il fascismo e anche per aver cambiato fronte quando i tedeschi erano ormai sconfitti. Proprio nel 1952 l’Unione Sovietica mise il veto al nostro ingresso all’Onu, così come fece con il Giappone. Non ci volevano. Ma fummo arruolati nella comunità della difesa europea, cioè l’embrione poi abortito di un esercito europeo che non si è mai fatto e che avrebbe dovuto essere sottoposto al comando anglo-francese. Accadevano fatti dall’esito ignoto: un oscuro generale cubano, Fulgencio Batista, fece un colpo di Stato all’Avana per conto dei grandi casinò americani e prese il potere. I fratelli Castro e altri futuri ribelli studiavano dai gesuiti, In Italia Mario Scelba, il ministro degli interni di ferro, l’anticomunista intransigente (che io conobbi e intervistai sul letto di morte molti anni dopo) decise di varare una legge che mettesse al bando i fascisti vietando la ricostituzione del partito fascista sotto qualsiasi forma. I fascisti dichiarati a quell’epoca erano milioni, per non dire dei monarchici che conquistavano il municipio di Napoli con il sindaco Achille Lauro, di cui si dice che regalasse una scarpa prima e una dopo il voto ai suoi elettori. Ma ricordo perfettamente questa Napoli del 1952 imbandierata con le croci Savoia, il nodo Savoia e tutti quei principi, duchi, e popolani monarchici. E poi, appunto, i fascisti che si organizzavano, celebravano, marciavano e menavano. Gli studenti fascisti passavano a vie di fatto – cioè menavano a pugni e con bastoni – nelle scuole e nelle università. La polizia picchiava e manganellava. Gli inglesi, persino, che amministravano una parte di Trieste, caricavano selvaggiamente i triestini che quell’anno manifestavano per il ritorno all’Italia sulle note di “Trieste mia” e “Vola colomba”, canzoni patriottiche da Sanremo, di un nazionalismo timido. Fu persino necessario bloccare il fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, perché voleva formare alleanze con i neofascisti: Alcide De Gasperi e Giulio Andreotti (suo numero due) si opposero e l’Italia cominciò a prendere una forma più definita: l’anticomunismo non impediva un radicale antifascismo, anche se cresceva la violenza sia verbale che fisica nella vita quotidiana. Agli americani però importava soltanto l’atteggiamento di chiusura e ostilità nei confronti dei comunisti e il Sifar, il nostro servizio segreto al centro di una serie di scandali futuri, seguiva le direttive americane per un maccartismo sempre più energico contro tutti i comunisti e anche i socialisti loro alleati. Lo stesso accadeva in Francia dove il Pcf, riemerso dalle ceneri della vergogna per aver appoggiato con trepidante entusiasmo l’alleanza militare fra Urss e Germania dal settembre 1939 al giugno del 1941, era diventato una forza politica potente e totalmente allineata sulle posizioni sovietiche, molto di più di quanto non lo fosse il partito comunista italiano di Palmiro Togliatti, che trovava sempre un modo sottile per evitare giudizi negativi su Stalin. La Francia, inoltre, era ogni giorno di più un obiettivo sensibile per le sue colonie, non soltanto in estremo oriente, ma specialmente in Nord Africa e in Algeria, dove si profilava uno scontro titanico prima della inevitabile rinuncia all’impero coloniale (benché ancora oggi la Francia sia un Paese europeo con colonie). Una visita del generale americano Ridgway a Parigi provocò moti di piazza repressi nel sangue, con scioperi generali e scontri. Era la guerra fredda nella sua versione quasi calda che provocava fiammate nel momento e nei luoghi più diversi. La Repubblica Democratica tedesca, cioè la Germania Orientale comunista, si fece il suo esercito integrato con quello sovietico, diventando la forza armata più temibile del nascente Patto di Varsavia, ancora non ufficiale, ma che sarà l’alleanza anti-Nato dell’Europa sotto controllo sovietico. Il mondo si spacca sempre di più, si contrappone, la caccia è aperta nei paesi delle ex colonie e ovunque si combattono guerra non dichiarate, insurrezioni popolari non tutte spontanee e gli eserciti occidentali costruiscono reparti antiguerriglia da usare in Africa, Asia e America Latina. Ma il colpo più potente lo sferra Mosca, sostenendo il colpo di Stato in Egitto di quattro ufficiali, fra cui l’astro nascente Nasser, che nazionalizzerà il canale di Suez e l’ingegnere egiziano Yasser Arafat, che fonda il nucleo dirigente del futuro fronte della liberazione della Palestina. Israele nel frattempo crea il più sofisticato e moderno servizio segreto del mondo, con regole e compiti che non condivide con altri. Il Mossad inizia la sua vita operativa dando la caccia nel mondo a tutti i gerarchi nazisti che l’hanno fatta franca. Gli Stati Uniti, dopo Harry Truman, eleggono il vecchio e saggio generale Dwight Eisenhower come presidente degli Stati Uniti, cioè colui che ha guidato gli eserciti alleati alla vittoria contro i nazisti. Una volta alla Casa Bianca, Eisenhower diventa un presidente bipartisan, non ossessionato dall’anticomunismo maccartista, ma piuttosto dai rischi di un eccessivo potere dell’apparato industriale-militare nato dalla concorrenza tecnologica con l’Urss nella guerra fredda. Il mondo sa di essere in bilico fra due blocchi, anzi tre. Nulla è certo, ma tutto è molto scuro e soverchiante. L’esistenzialismo come atteggiamento filosofico si sparge dalla Francia all’Europa e all’Italia, fino a sfiorare New York. Le canzoni esprimono venature angosciose e l’amore è ancora contaminato dall’idea di morte. Charles Aznavour canta “L’amour et la guerre” e i teatri si affollano per le commedie del nonsenso. Anche l’umorismo appare enigmatico o simbolico, come quello del rarefatto Renato Rascel.

25 gennaio – L’Unione sovietica, insieme ad altri quattordici paesi, pose il veto all’ingresso dell’Italia fra i paesi membri dell’Onu. Il nostro Paese entrò poi il 14 dicembre del 1955.

6 febbraio – A soli venticinque anni Elisabetta II diventa regina del Regno Unito e succede al padre re Giorgio VI. La sovrana è da allora alla guida della Gran Bretagna, al quarto posto nella classifica dei regni più lunghi della storia.

10 marzo – L’Esercito Nazionale di Cuba, guidato dal generale Fulgencio Batista, mise in atto un vero e proprio colpo di stato, stabilendo una dittatura militare nel paese.

24 aprile – Alcide de Gasperi e Giulio Andreotti impedirono a don Luigi Luigi Sturzo, in occasione delle elezioni amministrative, di formare liste civiche con il Movimento Sociale Italiano e monarchici in funzione anticomunista.

27 maggio – Italia, Francia, Germania Ovest, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo aderiscono al trattato Ced (Comunità Europea di Difesa) condividendo un unico esercito, la Forza Atlantica.

16 giugno – Il generale statunitense Matter Bunker Ridgway è in visita a Parigi e nella capitale francese: si verificano scontri molto violenti fra manifestanti e forze dell’ordine.

23 luglio – Entra in vigore il trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, la Ceca.

A cura di Chiara Viti

Storia d’Italia, 1953: lo Stivale spaccato da guerre di religione. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 10 Settembre 2020. Avevo dodici anni e, mentre camminavo verso il Senato, gli strilloni dei giornali (esistevamo gli strilloni che vendevano le copie sul braccio) gridarono: «È morto Stalin! È morto Baffone! I comunisti di tutto il mondo in lutto!». Era vero: era proprio morto Stalin. Non che lo conoscessi molto, ma da anni si parlava sempre soltanto di lui, che ci guardava dai manifesti. Ora descritto come belva, ora il buon vecchio Uncle Joe, come lo chiamavano gli americani, ma anche l’uomo nelle cui fauci milioni di persone erano sparite. Era ancora un’Italia da guerre di religione e la religione era un tema politico perché il Papa Pio XII era un anticomunista militante e proprio in quell’anno dagli Usa mandarono a Roma come ambasciatrice Clara Boothe Luce, una anticomunista ossessiva, sicura che i russi avessero avvelenato gli affreschi della sua camera da letto per ucciderla. Clara pretendeva di impartire al Papa lezioni di anticomunismo ed Eugenio Pacelli un giorno esplose: «Signora, le disse: la prego di credere: sono cattolico anch’io». Per fortuna, in quel 1953 si chiuse la sanguinosissima guerra di Corea con armistizio al 38mo parallelo, ancor oggi il confine che Trump ha varcato per stringere la mano al grasso ragazzo che «sparava razzi». Gli americani avevano avuto un altro bagno di sangue, più simile a quello della Prima guerra mondiale delle trincee che a quello della seconda. La Cina aveva perso quasi due milioni di soldati in Corea, mentre intanto il generalissimo Chiang Kai-shek (che con Mao aveva combattuto contro i giapponesi prima della resa dei conti) si era ritirato nell’isola di Taiwan con tutta la sua armata sconfitta. Chiang ricevette dagli americani armi sufficienti per una lunga resistenza e quella resistenza dura fino ad oggi, mentre si addensano su quell’isola e quei mari nuovi venti di guerra nel Mare del Sud della Cina e nello stretto di Formosa dove si sono radunate la flotta americana, quella australiana, l’indiana, la giapponese e perfino la Vietnamita, perché il Vietnam di oggi – scherzi della Storia – è alleato militarmente degli americani contro i cinesi. Il mondo del 1953 lasciò uova di serpente che ancora devono schiudersi. Intanto a Taiwan hanno varato una democrazia pacifista ecologica che attragga gli ecologisti in un fronte anticinese, mentre la Cina cerca di arrestare l’emorragia delle aziende come Samsung e Apple che fuggono dal suo territorio, provocando disoccupazione. Sempre nel 1953 a Bruxelles i sette nani della finanza e dell’industria cercano di trasformare la Comunità del carbone e dell’acciaio in un embrione di Europa. L’idea era caldeggiata dagli americani per un solo motivo: bisognava impedire che per la terza volta dopo il 1870, il 1914 e il 1939 il mondo finisse nell’apocalisse per la faida infinita tra Francia e Germania. Certo, il Manifesto di Ventotene con Altiero Spinelli e i padri fondatori, contava. Ma alla base della concreta idea d’Europa c’era il desiderio di riconoscere alla Germania la supremazia industriale purché rinunciasse ad avere un peso militare: le veniva assegnato solo il minimo sindacale per stare nella Nato, ma la sua fortuna sarebbe consistita nel rinunciare ai carri armati per produrre Mercedes e Audi, lasciando agli Usa il compito e la spesa della sicurezza, posizione che oggi Trump ricusa, tirandosi indietro dagli impegni del secolo scorso. Ci fu un grandioso e appassionante delitto nel 1953: il primo dei grandi delitti italiani e che passò alla storia come “caso Montesi”. Ne parlai con Gabriel Garcia Marquez, dopo aver scoperto che il grande scrittore era stato all’epoca inviato a Roma da Bogotà e aveva scritto tutto sul caso Montesi. Il caso consisteva nel ritrovamento del cadavere di una povera ragazza, Wilma Montesi, nuda e morta sulla riva del mare a Torvaianica. Di che cosa era morta? Non si sa. Dunque, tutte le ipotesi erano buone. Perché non cocaina? Feste fra ricchi potenti che divorano ragazze innocenti? Boss democristiani? E perché no. Non emerse nulla, ma il ministro Piccioni ebbe la carriera stroncata benché innocente. L’opinione pubblica chiedeva che si trovassero i colpevoli fra gli alti papaveri della Dc: era uscita la canzone Papaveri e papere cantata da Nilla Pizzi e per “alti papaveri” si intendeva gli intoccabili, viziosi politici nei cui festini si sacrificavano le sventurate ragazze del popolo. Tutto molto enfatico, con il quotidiano modernissimo Paese Sera (comunista) e Momento Sera (centrista) che uscivano con più edizioni al giorno, i reporter tutti usciti da un romanzo di Chandler, tutti a imitare gli americani, specialmente i comunisti. L’aria da guerra fredda soffiava sempre più greve. Intanto, sempre a proposito di guerra fredda, Charlot, ovvero il popolare comico inglese Charlie Chaplin si vide incriminato dagli americani come sospetto comunista e non tornò più in America fino al 1971 quando ricevette l’Oscar alla carriera. Intanto, sempre in quell’anno, coniugi Julius ed Ethel Rosenberg furono portati nella stanza della morte di Sing Sing di New York (oggi è un museo), legati alla sedia elettrica e – come dicono gli americani – “fritti”. Sembra non ci siano dubbi sul fatto i due – più probabilmente Julius – passarono i segreti atomici ai russi, Ma a mandarli sulla sedia c’era di sicuro il desiderio di vendicarsi contro i commies che avevano superato gli americani nella qualità delle bombe, essendo arrivati a quella al plutonio. L’esecuzione fu atroce, penosa, con le luci gialle che s’abbassavano quando la leva che dirottava l’energia era abbassata e i corpi tremavano davanti ai giornalisti seduti sulle sedie a distanza di sicurezza. Furono fatti friggere a lungo col fumo che usciva dalla calotta avvitata sul loro cranio, finché non morirono. D’altra parte, ancora si fucilavano reduci nazisti, anche con qualche irreparabile errore giudiziario. Le elezioni non fecero scattare la legge truffa, ma furono comunque vinte dal centro e dunque proseguirono i governi democristiani di coalizione, con socialisti di Nenni e comunisti di Togliatti all’opposizione. L’Italia cominciava a riprendersi industrialmente e i consumi crescevano. La moda italiana cominciava a imporsi su quella francese e le auto italiane godevano di buon prestigio. Anche l’alfabetizzazione procedeva, gli analfabeti diminuivano e la televisione era diventata il nuovo dizionario, teatro, maestro di scuola, amico, padre spirituale, scatola dei sogni. Nei paesi capitava che attori come Alberto Lupo, che recitavano il ruolo del cattivo, fossero inseguiti coi forconi. I lettori di telegiornali erano spesso applauditi o insultati per le notizie che davano. Il calcio e il ciclismo dominavano le fantasie dei ragazzi, specialmente maschi e costituivano la valvola di sfogo contro le frustrazioni collettive. Gli sport di massa funzionavano come antidepressivi e come eccitanti. E pochi fecero caso a una notizia che avrebbe cambiato la prospettiva della vita: la scoperta del Dna, l’acido desossiribonucleico sul quale sono scritte in lingua proteica tutte le nostre caratteristiche personali e di specie. La Chiesa non era molto contenta degli eccessivi progressi della scienza. Ma tutti furono felici quando a Roma si inaugurò lo Stadio Olimpico ospitando il match Italia-Ungheria. E nell’Est? Che fanno quelli dell’Est sovietico, adesso che Baffone è morto? Se ne sapeva poco. Si disse che gli ebrei avevano tirato un sospiro di sollievo perché Stalin stava per lanciare una purga contro i medici “cosmopoliti”, cioè ebrei, per fare un repulisti antisemita in tutto il partito. Qualcuno disse che gli avevano fatto la pelle. Quanto meno, nessuno aveva soccorso Stalin crollato a terra. Dopo un periodo di incertezza, in cui sembrava che avesse vinto l’obeso Malenkov, alla fine emerse il nuovo vero leader Nikita Kruscev, contadino e soldato che aveva lavorato a fianco di Stalin e di cui denuncerà le criminali malefatte al XX congresso del 1956. Per ora Nikita è un novizio che conta meno di Palmiro Togliatti e del leader cinese Mao Zedong. Quando gli operai di Berlino Est scioperano per orario di lavoro e salario, il partito dei lavoratori da Mosca gli manda i carri armati. È la prima strage, cui seguiranno quelle di Budapest e di Praga. Il cubano Fidel Castro, appena laureato, raduna in montagna un gruppo di rivoluzionari e decide di assaltare la caserma Moncada. Li prendono tutti e li mettono sottochiave, ma “l’assalto alla Moncada” diventerà l’inizio della rivoluzione. Gli americani si preoccupano: ma questo Fidel Castro, non sarà comunista per caso? Gli americani prendono la guerra fredda molto sul serio: e alla General Electric licenziano i sospetti comunisti. Ma dall’America arrivano anche nuovi oggetti e stili di vita, dalla caramella col buco ai cosmetici a basso costo e i dentifrici per un alito da drago alla menta, e svanisce il sentore delle ascelle e dei piedi in un Paese che era abituato a un bagno in bagnarola settimanale e qualche pediluvio nel bagnapiedi di zinco. Non si usava molto la carta igienica, sostituita da quella di giornale con cui si foderava anche il secchio dell’immondizia che gli immondezzai prelevavano dietro la porta di casa con dei grandi sacchi di juta. I preti erano vestiti come don Camillo e non trovavi un gay neanche col lanternino. I padri e le madri mollavano schiaffoni senza risparmio e i figli se li prendevano zitti, con le orecchie rosse e la testa bassa.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1953

5 marzo. Muore Stalin.

31 marzo. Approvata dal Parlamento italiano la nuova legge elettorale, che le opposizioni chiamano la “legge truffa”. Assegna il 65% dei seggi alla coalizione di liste che raggiungeranno il 50 per cento dei voti.

11 aprile. Una ragazza di 24 anni, Wilma Montesi, viene trovata morta nella spiaggia di Torvaianica. L’inchiesta diventa un giallo politico. Finisce sotto accusa un gruppo di ragazzi della Roma bene che avevano tenuto un festino in una villa lì vicino. Uno di questi ragazzi è Piero Piccioni, figlio di Attilio, probabile successore di De Gasperi alla guida della Dc. La carriera politica di Attilio è travolta. E anche la vita del giovane Piero, che risulterà poi del tutto innocente.

17 aprile. Il grande attore e regista Charlie Chaplin annuncia che non tornerà più negli Stati Uniti dove è stato messo sotto accusa dai maccartisti che sostengono che sia comunista.

17 maggio. A Roma viene inaugurato lo stadio Olimpico con la partita di calcio tra Italia e Ungheria (l’Ungheria, in quegli anni, è considerata la più forte nazionale del mondo).

29 maggio. Un alpinista neozelandese e uno del Nepal conquistano l’Everest, cioè la vetta più alta del mondo.

2 giugno. Elisabetta è incoronata regina d’Inghilterra.

7-8 giugno. Si svolgono le elezioni politiche in Italia, la legge elettorale non scatta perché nessuna coalizione raggiunge il 50 per cento dei voti. La coalizione centrista (Dc, Psdi, Pri e Pli) candidata a ottenere la maggioranza assoluta, si ferma al 49,85 per cento.

19 giugno. A New York vengono uccisi con la sedia elettrica i fisici Julius ed Ethel Rosenberg, marito e moglie, con due figli piccoli, accusati di avere passato segreti militari ai sovietici per costruire la bomba atomica. In tutto il mondo clamorose proteste antiamericane.

26 luglio. Fidel Castro dà l’assalto alla caserma Moncada. Militarmente è un fallimento ma di fatto inizia la rivoluzione cubana.

28 luglio. De Gasperi si presenta alla Camera per avere la fiducia sostenuto solo dal suo partito e dai monarchici. Non ottiene la fiducia. Finisce la carriera di De Gasperi che morirà l’anno dopo, Anche la famosa legge truffa viene cancellata dal Parlamento. Il nuovo presidente del consiglio è Giuseppe Pella.

7 settembre. Il comitato centrale del Pcus elegge Nikita Krusciov segretario generale del partito. Krusciov è il commissario politico che guidò la resistenza di Stalingrado. È lui il successore di Stalin.

Storia d’Italia, 1954: dalla nascita della Tv al caso Montesi che stroncò la carriera di Piccioni. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Gli americani avevano già portato il dentifricio Colgate, la caramella col buco Life Saver, il tostapane e il burro di arachidi ma nel 1954 ci scaricarono il Rapporto Kinsey: tutto sul sesso. Nell’Italia d’allora il sesso era interdetto – come argomento – alla maniera di un paese islamico, o anche cattolico e perfino comunista. Un po’ tutta l’Europa era così. Gli inglesi dicevano che di due cose non si deve parlare esplicitamente: dei servizi segreti e di quel che succede in camera da letto, perché tutti sappiamo di che si tratta e non è proprio il caso di parlarne. invece il Rapporto Kinsey frutto di anni di studio, interviste, filmati, tutto pubblicato sul settimanale italiano Oggi. Uno shock, uno scandalo, una avidità repressa e anche un grande senso di liberazione. Dunque, a quanto pare, tutti in tutto il mondo, uomini donne e gay, copulano, si accoppiano, ma diciamolo pure, scopano. O se preferite si accoppiano, mettetela come vi pare. Si parlava anche di masturbazione con dettagli da far svenire le madamine per bene, e – senza un velo di riguardo, nemmeno allusivo – di rapporti anali. La Chiesa la prese malissimo ma la gente non parlava d’altro. Non per questo si può dire che il 1954 fosse un anno felice. Tutti nodi seguitavano a venire al pettine: il caso Montesi si ingigantiva benché non uscisse fuori nulla e il ministro Attilio Piccioni dovette dimettersi per il coinvolgimento di suo figlio nelle serate con Wilma Montesi, la giovane morta trovata sulla spiaggia. La storia di Trieste finalmente arrivava a una fine anche diplomatica col passaggio definitivo all’Italia. La Germania smetteva di essere la nazione punita ai margini della comunità – come era accaduto dopo la fine della Prima guerra mondiale, con vessazioni che spianarono la strada ad Hitler– e già esistevano in natura, colpivano paesi e investivano dighe quelle che oggi con orgoglio neolinguistico chiamiamo “bombe d’acqua”. Il 13 gennaio in Austria una bomba d’acqua spianò il villaggio di Blons e uccise duecento abitanti. Nessuno le chiamava così perché i feroci acquazzoni con frane morti e dispersi erano all’ordine del giorno. Era finita l’epopea di Alcide de Gasperi, aveva tentato Amintore Fanfani e fallì, sicché ci provò il ministro di polizia Mario Scelba, l’uomo della “celere” col manganello, ma anche quello che aveva messo al bando ogni possibile riedizione del partito fascista. L’Unione Sovietica perfezionava la sua penetrazione in Egitto appoggiando il nuovo rais Gamal el-Nasser il quale pretenderà da Mosca la gigantesca diga di Assuan, un nuovo esercito fiammante in grado di distruggere Israele e un esercito di istruttori capaci di far funzionare il Paese. Marilyn Monroe non era ancora considerata la bimba del sesso che diventerà fra poco, ma intanto sposa Joe Di Maggio, un super-palestrato italo-americano eroe nazionale di Baseball. Prossimo talamo, Arthur Miller, intellettuale e commediografo. Si chiude anche, con l’eliminazione di Gaspare Pisciotta (il cognato killer per conto dei carabinieri) la faccenda del bandito Giuliano, chiudendo molte bocche che non potranno mai più raccontare la pazzesca avventura dell’esercito separatista, su cui avevano contato in molti prima di liberarsene per sempre. La Dc palermitana resta turbata e spaccata e molti anni più tardi il “resident” del KGB a Roma venne nella Commissione d’inchiesta che presiedevo per raccontarci una serie di spregiudicate operazioni fra americani e russi, condotte in Sicilia e su cui è difficile fare la tara.

I guai grossi cominciano però in Vietnam, una delle colonie francesi nel sud-est asiatico che durante la guerra patriottica contro gli invasori giapponesi si era battuta con valore e che dopo la guerra non aveva alcuna voglia di tornare sotto Parigi. I francesi non si resero minimamente conto di quel che li aspettava e pensarono di avere di fronte dei guerriglieri “Viet-minh” (che gli americani si chiamarono Vietcong”) e invece si scontrarono con uno dei più poderosi eserciti in uniforme del mondo, armato sia dall’Unione Sovietica che dalla Cina comunista e ben diviso in divisioni, reggimenti e compagnie con un’artiglieria di prim’ordine e per di più affiancato da un esercito partigiano di sostegno in larga parte femminile che aveva portato a spalla su per le montagne, ben smontate, tutte le armi necessarie per la battaglia finale che si combatté sull’altopiano di Dien Bien Phu. La stampa francese criticò in modo sprezzante lo Stato maggiore per l’invio di un vero esercito in Indocina, con quella che sembrava una smisurata potenza di fuoco che aveva spedito in Vietnam per combattere quattro straccioni di guerriglieri nascosti nella giungla. Capirono troppo tardi di trovarsi nel mezzo di una battaglia campale più simile a quella combattuta fra americani e tedeschi nelle Ardenne che a una scaramuccia coloniale. L’esercito francese vide emergere dall’altissima vegetazione grandi pezzi di artiglieria pesante di fabbricazione russa e cinese. Per l’opinione pubblica francese e poi europea e infine mondiale fu un grande shock. A primi del 1900 una potenza asiatica, il Giappone, aveva vinto e umiliato una potenza europea come la Russia zarista. In Corea gli americani erano stati costretti ad arretrare fino al 38mo parallelo da cui erano partiti, e adesso stava accadendo di nuovo: il più forte esercito continentale europeo era tenuto in scacco in mezzo alla giungla da un esercito modernissimo portato sotto le gallerie ed emerso dal nulla. di cui non avevano idea. La battaglia fu lunga e sanguinosa, ma alla fine i francesi dovettero arrendersi e umiliarsi, chiedere e firmare la propria resa. La cosa più interessante, nel corso di questa guerra, fu il ruolo americano: gli americani che avevano sostenuto lo smantellamento dell’impero britannico e l’indipendenza dell’India e dell’Egitto, adesso parteggiavano più o meno apertamente per i vietnamiti e i cambogiani che smontavano l’impero francese. Occorreranno quasi dieci anni prima che gli americani decidano, cotto Kennedy, di sostituirsi ai francesi e perdere, dopo altri dieci anni, un’altra guerra sanguinosissima che terminerà con la fuga degli americani da Saigon aggrappati agli elicotteri che decollavano dalla terrazza dell’ambasciata. Ma nel 1954 gli eroi della guerra antifrancese, Ho Chi Minh, Giap e i cinesi Mao e Chu En Lai erano per lo più grandi ammiratori dell’America che aveva vinto la Seconda guerra mondiale, che aveva sostenuto la Cina. Inoltre, il personale politico delle forze anticolonialiste parlava francese e inglese avendo studiato a Parigi ed essendosi formato sul modello del partito comunista francese. Nello sport il ’54 fu l’anno dell’epico scontro calcistico per la finale dei Mondiali fra Germania Occidentale e Ungheria giocata a Berna il 4 luglio. La Germania vinse 3-2 ma l’eroe celebrato da tutti gli spettatori fu il capitano ungherese Puskas (che fuori dal campo era arrivato al grado militare di colonnello), che segnò tutti i gol della sua squadra, più l’ultimo annullato. E accadde in quel giorno, quasi dieci anni dopo la fine della guerra, qualcosa che dal 1939 non si era più vista: una bandiera tedesca, della Germania occidentale chiamata RFT, salì sul pennone di uno stadio di calcio, accompagnata dalle note dell’inno tedesco. Ciò fece molto piacere ai tedeschi, anche se non entusiasmò il resto del mondo. Ma in Germania già cresceva una nuova generazione che chiedeva rispetto: noi non siamo i nostri padri, siamo innocenti e non vogliamo portare sulle spalle il peso del passato altrui. Del resto, gli ungheresi di Puskas erano allora i maghi del football per eleganza, intelligenza e capacità di sorprendere. Tutti i ragazzini europei giocavano a calcetto nelle strade minacciandosi il mitico “tiro ungherese”. Puskas dopo Berna tornò in patria come un eroe nazionale, ma quando due anni dopo si trovò in Spagna mentre i carri sovietici entravano a Budapest per schiacciare la rivoluzione antirussa, se ne resterà prudentemente in Spagna per diventare una delle stelle del Real Madrid. Il mondo si stava consolidando, Nikita Krusciov era ancora un oggetto sconosciuto, con quella sua faccia da buon contadino, di cui molti conoscevano il passato di ottimo ufficiale e di uomo fedele a Stalin anche negli anni del terrore. L’idea che l’Europa possa costituire da sola un proprio esercito unito e indipendente da quello americano e russo, fallisce bocciata dal Parlamento francese che non aveva alcuna intenzione di sciogliere la Francia nel resto dell’Europa. La Francia, come l’Inghilterra vuole la sua propria bomba atomica e la sua indipendenza di manovra, essendo ancora una delle potenze coloniali e per di più subito dopo aver perso una grande colonia in una umiliante sconfitta coloniale, cosa che stava causando un ritorno del nazionalismo e dell’isolazionismo francese, che aveva serpeggiato anche durante l’umiliante occupazione e collaborazione con i tedeschi. Intanto Achille Compagnoni e Lino Lacedelli scalano il K2 con Walter Bonatti guidati da Ardito Desio e tutto il mondo ne parla e sugli schermi del pidocchietto (cinematografi da quattro soldi, generalmente dei preti) tutti vanno a vedere il cinegiornale dell’impresa. Certo, anche la tv ne parla, ma per vedere la tv bisogna ancora stare tutti accatastati in cucina intorno all’enorme tubo catodico, o nei bar dove te lo appendevano sotto il soffitto. Così, quando l’immagine scarrucolava, qualcuno doveva salire sui tavoli e perché non esisteva il telecomando. A fine estate, dopo aver risolto la questione di Trieste tornata all’Italia, dopo aver riammesso la Germania nel salotto buono con la partita contro l’Ungheria e la sua ammissione nella Nato, quando insomma tutti sognavano un autunno mite e glorioso, ecco che arriva la bomba d’acqua. Di quelle catastrofiche fece franare la Costiera Amalfitana da Cava dei Tirreni a Vietri, Maiori, Minori fino a Salerno, causando più di trecento morti e seimila senzatetto. L’Italia del fango e dello smottamento si conferma la vera frontiera italiana. Il Paese non si regge e si inginocchia sotto i mutamenti climatici, ma anche sotto i temporali. Ma va peggio alla Francia, che non ha ancora digerito la sconfitta indocinese e si trova di nuovo in guerra con la più amata e francesizzata delle sue colonie: l’Algeria, guidata dal Front de Libération National, che alla fine la Francia perderà per referendum e che causerà la più grande trasmigrazione di residenti africani, arabi e coloni, i cosiddetti “Pieds Noirs” sul suolo francese. Ma sarà una lunga e terribile guerra che contorcerà tutta la politica europea e mondiale. È cominciata una nuova era: quella delle guerre non dichiarate, ma guerre di fatto. Le insurrezioni anticoloniali guidano questa nuova tendenza che farà delle guerre e degli eserciti repressivi la nuova costante del futuro mezzo secolo, man mano che tutti i territori coloniali raggiungeranno, almeno nominalmente, l’indipendenza passando per lo più da un regime colonialista a uno dittatoriale.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1954

3 gennaio – Nasce la Tv in Italia.

14 gennaio – Marilyn Monroe sposa il campione di baseball Joe Di Maggio.

9 febbraio – Gaspare Pisciotta, il luogotenente del bandito Giuliano, viene ucciso con un caffè avvelenato nel carcere dell’Ucciardone.

Si porta nella tomba il segreto sui mandanti della strage di Portella della Ginestra.

23 febbraio – Nasce il primo vaccino contro la poliomielite.

13 marzo – L’esercito vietnamita guidato dal generale Giap sconfigge i francesi nella battaglia di Dien Bien Phu. I francesi son costretti a lasciare il Vietnam.

18 aprile – In Egitto prende il potere Nasser.

4 maggio – Golpe in Uruguay. Prende il potere Alfredo Stroessner che lo manterrà per più di 35 anni.

17 maggio – La corte suprema americana dichiara illegale la segregazione razziale.

4 luglio – Finale dei campionati mondiali di calcio. La grande Ungheria di Puskas viene sconfitta dalla Germania federale. Strascico infinito di polemiche: i tedeschi erano drogati? L’arbitraggio fu pilotato?

31 luglio – Lino Lacedelli, alpinista ampezzano, conquista il K2, cioè la vetta più difficile dell’Himalaya.

18 settembre – Il caso Montesi porta alle dimissioni del ministro degli esteri Attilio Piccioni, perché suo figlio è sospettato di essere stato coinvolto nella morte della giovane trovata senza vita sulla battigia di Torvaianica. Il figlio di Piccioni in realtà non c’entra niente ma gli equilibri nella Dc cambiano per sempre.

Storia d’Italia, 1955: in Tv arriva Mike Bongiorno e la Fiat lancia la 600. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Settembre 2020. Quando sono nato, l’Italia entrava in guerra con vergogna: attaccando la Francia già arresa ai tedeschi e i francesi ci chiamarono Maramaldi. Inoltre, i francesi all’inizio sulle alpi liguri ci fecero neri e rievocare i primi anni di questa storia e della mia vita è stato poco coinvolgente. Ma con il 1955 la faccenda cambia. Come tutti i quindicenni ero sempre innamorato. Non si andava a vere feste, non parliamo di dormire a casa di amici e quanto alle femmine il loro atteggiamento d’ordinanza era lo stupore. Noi non avevamo coraggio e loro avevano una paura dannata di tutto: della verginità, della gravidanza, malattie, reazioni paterne, matrimoni forzati, non c’era la pillola e non tutte usavano l’assorbente restando sotto il controllo ciclico matriarcale. Ma c’erano i Platters. C’era Pat Bone. C’era il primo Modugno. Noi balli sulla mattonella, si concentravano le digressioni negli angoli strategici di casa. Il giradischi e il Juke-box, la magica scatola luminosa dove i dischi scendevano e le ragazze si stringevano al collo e fra un bacio e una lacrima saliva una disperazione. Era arrivata la Seicento e dunque il sesso in macchina era finalmente possibile, se solo riuscivi a non far partecipare la leva del cambio. Nel 1955 esplose la libertà: arrivò il Rock’n Roll e l’indumento che non sarebbe mai più tramontato: il blue-jeans nella sua versione scorticante, colore unico e tessuto unico, risvolti alti fini, cuciture rosse enormi. Il Rock’n Roll esplose nei cinema quando la gente abbandonava le scomode poltroncine di legno e si metteva a ballare nei corridoi. La chiesa di sua santità Eugenio Pacelli era preoccupatissima: l’americanismo ormai entrava da tutte le fessure della vita tradizionale e della fina modestia italiana, i manifesti mostravano baci prossimi all’orgasmo e ballavamo per strada e con le donne potevi persino accennare al problema sessuale senza beccarti un ceffone e nasceva dopo la Vespa anche la Lambretta e si scriveva con la Olivetti che era il sogno di ogni studente, a rate, mille lire al mese. Gli inglesi si lamentano: noi abbiamo inventato lo scooter e gli italiani se ne sono appropriati. Gli italiani si appropriavano di tutto, inventavano tutto, erano dei draghi, non lamentosi come oggi. Nasceva l’auto Bianchi con la Bianchina, la nostra risposta alla Deux Cheveaux Citroen, meno adatta all’amore, ti saluto la posizione del missionario. Ma con la Seicento parte l’intera famiglia sui primi tratti dell’Autostrada del Sole, vanno a ruba i tavoli da picnic e si sfornano lasagne domenicali. In compenso, chiude la produzione della Cinquecento giardinetta, minuscola imitazione del caravan americano, in cui entravano anche sei persone, purché due nel bagagliaio. Il primo Rock’n Roll era un’estensione del boogie-woogie, e provocò una reazione conservatrice di tutte le Nille Pizzi e i Cinico Angelini, con la riscossa terrificante di “Son tutte belle le mamme del mondo quando il lor bimbo stringono al cuor” e poi milioni di canzoncine innocue, ma rimate, dall’arietta innocente, orecchiabili e cretine fra strazi gioiosi come Piripicchio e Pitricicchio e l’infernale barca che tornò sola come la cavallina storna, perché tre fratelli avevano dato la loro vita per salvare una bella bionda. La poetica italiana per italiani è da asilo infantile, da asilo senile, da allegro convento, e intanto si inaugura a cavolo un frammento della metropolitana di Roma. In politica, si manda al Quirinale il bell’uomo Giovanni Gronchi, democristiano di sinistra con i voti dei neofascisti, ciò che avrà conseguenze nel 1960. Viene emesso un francobollo sbagliato, il famoso “Gronchi Rosa” che pochi fortunati si contenderanno. Si avverte nell’aria l’impressione che l’Italia “vada a sinistra” perché Gronchi è di sinistra insieme al fido Fernando Tambroni, uno che provocherà un disastro nel luglio del 1960. Il festival di Sanremo si trasmette, ma in differita: dopo il varietà “Un due e tre” di Vianello e Tognazzi che perderanno presto il posto per aver fatto della satira. È il momento del trionfo di Claudio Villa che stravince con Buongiorno tristezza sia pure cantando in playback per una laringite. Villa è l’antimoderno per eccellenza, il Francisco Franco della canzone italiana che ha sempre puntato sulle melodie che piacciono a napoletani e romani. I francesi sono irrequieti: hanno perso il Vietnam, stanno affrontando la ribellione dell’Algeria. La classe media scende in piazza con le casseruole dietro a Pierre Poujade. Tira un’aria indecifrabile di casseruole sbattute, il vecchio mondo imperiale tira le cuoia e Francia e Gran Bretagna sono preoccupatissime per l’egiziano Gamal Nasser che parla di nazionalizzare il canale di Suez. Nasser vuole anche strozzare Israele impedendo alla Stato ebraico l’accesso al petrolio. Da tutto l’Est sovietico arrivano storie di sofferenza, specialmente dall’Ungheria. Se la nuova Repubblica Federale Tedesca è ammessa nella Nato e autorizzata ad avere un suo esercito sotto il comando militare integrato, l’Est sovietico risponde formando la sua “Nato dell’Est” che si chiamerà “Patto di Varsavia” e vi partecipano con l’Urss, la Germania Est, la Polonia, la Cecoslovacchia, Bulgaria, Ungheria, Romania e Albania. La Repubblica Democratica Tedesca veste i propri soldati con uniformi della tradizione tedesca e non all’americana come quelli occidentali. Persino la lingua tedesca è accuratamente preservata, nell’Est comunista, dalle influenze occidentali. Ogni anno il Patto di Varsavia programmerà un’unica esercitazione che prevede un attacco improvviso delle forze imperialiste, alle quali le forze del patto socialista, dopo aver respinto l’assalto si spingeranno in un travolgente contrattacco fino a chiudere tutti i porti atlantici impedendo così uno sbarco americano. In Argentina finisce la parabola di Peron, deposto da un colpo di Stato mentre in Italia fa passi avanti la Ceca col mercato comune. Gli Inglesi non sono attratti dall’Unione europea che considerano una vicenda interna tra francesi e tedeschi. Ma sono invece preoccupati con i francesi per il progressivo crollo dei due imperi: quello britannico e quello francese che stava franando nelle rivolte arabe dell’Africa del Nord. Winston Churchill che era tornato brevemente al governo, si dimette definitivamente. L’India è indipendente per colpa dei “cugini” americani che non tollerano alcun impero. A Londra Ruth Ellis di ventinove anni, è impiccata per aver ucciso il suo amante. È l’ultima impiccagione del Regno Unito. La sua storia sarà raccontata in Ballando con uno sconosciuto: un film terribile su una ragazza abusata e perseguitata da un uomo e che, quando lei finalmente si ribella e lo uccide, viene giustiziata. Un’altra epoca finisce: il boia di Londra con la sua scienza di pesi con cui spezzare la terza vertebra e causare una morte istantanea. Antonio Segni sardo democristiano conservatore diventa primo ministro e sarà il futuro presidente della Repubblica. Nasce il Terzo Mondo. Organizzato dal principio: né con l’America né con l’Unione Sovietica. Nasce un nuovo gruppo di Stati, guidato dall’indonesiano Sukarno, che non voleva schierarsi né con gli Usa né con l’Urss. Ma esplodono in tutto il mondo, Africa e Asia in particolare, guerre di decolonizzazione contro i vecchi padroni europei. Gli americani non soccorrono gli europei. Io a quindici anni mi trovavo con mio padre in Austria e vidi partire sia i sovietici che gli americani da Vienna che era stata occupata come Berlino. La partenza delle truppe russe fu guardata dalle finestre in modo torvo e una breve cerimonia per inaugurare la statua al milite ignoto sovietico andò deserta. Furono le mie prime fotografie. L’Est e l’Ovest non sembravano affatto attirati dalla convivenza pacifica ma solo dalla necessità di evitare una guerra per sbaglio. Quanto al resto, si odiano. La guerra non esplose, salvo che in Asia, ma in Europa la vivevamo con una forma d’angoscia particolare che spingeva all’edonismo e al tanto peggio, tanto meglio. Cominciarono i primi “Summit”: gli incontri fra i grandi della terra per assicurarsi che nessuno avrebbe tirato per primo il grilletto. Ce ne fu uno con il presidente russo Nikolai Bulganin (nessuno lo ricorda: aveva il pizzetto e un’aria saggia), il presidente americano Eisenhower, il francese Faure e Anthony Eden per il Regno unito. Si incontrano a Ginevra e rilasciano comunicati cauti. L’unico significato era: non siamo ancora sull’orlo della guerra. Poi si vedrà. Ma la frattura politica fra chi sta con i comunisti e chi è contro i comunisti si faceva nevrotica. Poiché in Italia si parlava di un governo con i socialisti ancora alleati dei comunisti, insorse il cardinal Ruffini di Palermo per battere il pugno sul tavolo: l’alleanza non s’ha da fare. Ma in compenso la televisione italiana manda in onda Mike Bongiorno col suo “Lascia o raddoppia” e gli italiani impazziscono, le ragazze si innamorano di Mike e del suo accento, i bar sono zeppi di spettatori perché solo pochi hanno un televisore a casa. I radicali si separano dal Partito radicale e formano la prima pattuglia di matti libertari. E infine, siamo ammessi alle Nazioni Unite dove non ci voleva nessuno. La Cia, su proposta del Dipartimento di Stato, comincia delle trattative con la sinistra italiana. Prima con i socialisti e poi con i comunisti: separatevi da Mosca e vi manderemo al governo. Io che ero socialista di sinistra, ricordo i primi dibattiti indignati “per l’odiosa interferenza dell’imperialismo americano”. Però, se ne parlava. I socialisti avevano ormai sviluppato una forte corrente autonomista che non ne voleva sapere del matrimonio con i comunisti. Nella Democrazia cristiana si sviluppava parallelamente una sinistra sindacale pronta a fare il governo con chiunque venisse dalla sinistra. Era cominciata una lunga marcia, lunga e contorta. Furoreggiava “La donna ricca non la voglio no perché ogni riccio nasconde ‘nu caporiccio” ed era morto l’idolo James Dean fracassandosi contro un albero ubriaco fradicio. Il Partito comunista, per ordine di Togliatti, metteva all’indice la pittura astratta sponsorizzata dalla Cia che cercava di imporre Pollock e Rothko. Guttuso, che si era dato all’astrattismo, fu preso severamente per le orecchie: “Picasseggia, quando non devesi picasseggiare” aveva commentato sarcastico Nello Ajello. Il vero Picasso picasseggiava poco e tornava realista puntando specialmente sul suo nuovo brand: la colomba ì, simbolo della pace dei popoli amanti della pace (quelli comunisti) contro i popoli amanti della guerra che minacciano l’umanità. La guerra ideologica corre nelle gallerie e nelle pagine della cultura. Togliatti firma un feroce editoriale contro l’arte astratta su Rinascita intitolato “Scarabocchi”. Chi vuol capire, capisce.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1955

19 gennaio – Il presidente americano Dwight D. Eisenhower tiene la prima conferenza stampa trasmessa in tv.

9 febbraio – Dopo 13 anni di lavori viene inaugurata a Roma la prima linea della metropolitana (la tratta Termini-Laurentina che oggi è la metro B).

9 marzo – Al salone dell’auto di Ginevra viene presentata la Fiat 600. Nei successivi 14 anni di produzione verranno vendute 5 milioni di auto di questo modello.

5 aprile – Winston Churchill, dopo anni di sofferenze fisiche e difficoltà politiche nella fase post-bellica, decide di dimettersi. Gli succederà Anthony Eden.

29 aprile – Giovanni Gronchi, esponente della Dc, diventa il terzo Presidente della Repubblica della storia d’Italia. Viene eletto al quarto scrutinio con i voti delle maggiori forze politiche del tempo, compreso il Pci e l’Msi.

15 maggio – Viene firmato a Vienna il Trattato di Stato austriaco che ristabilisce la sovranità e la libertà della nuova Austria democratica.

16 settembre – In Argentina un colpo di Stato militare destituisce il presidente Juan Domingo Peròn.

30 settembre – L’attore James Dean muore a soli ventiquattro anni in un incidente stradale a bordo della sua Porsche Spyder.

19 novembre – In Italia va in onda la prima puntata dell’iconico quiz televisivo Lascia o raddoppia?, condotto da Mike Bongiorno.

11 dicembre – In un convegno a Roma, al cinema Cola di Rienzo, dopo la scissione della sinistra del Partito Liberale Italiano, nasce il Partito Radicale.

14 dicembre – Sulla base di una mozione canadese l’Italia entra ufficialmente a far parte della Nato.

Storia d’Italia, 1956: dalle Olimpiadi di Cortina alla tragedia Marcinelle passando per il naufragio dell’Andrea Doria. Paolo Guzzanti Il Riformista l'8 Ottobre 2020. Quando ho iniziato a scrivere questa serie di articoli dedicati agli anni della nostra storia repubblicana, sapevo che mi aspettava un momentaccio: raccontare il 1956 e renderlo per quanto possibile palpabile, comprensibile a chi non c’era e a chi fosse nato anche mezzo secolo dopo. Per me il 1956 è ieri. Tutto il film è da allora nella mia mente. Mia e dei miei coetanei o di quelli che avevano venti, trent’anni o poco più e che non ci sono più perché così va il tempo e va la storia. Tutti gli anni sono memorabili ma il 1956, ad undici anni dalla fine della guerra, fu quello più feroce. Non soltanto per quel che accadde in Ungheria e nel Medio Oriente, ma per il fatto che per la prima volta lo vedemmo – in bianco e nero sfarfallante – sullo schermo di quel nuovo coso che era il televisore, finalmente installato in tutte le case italiane: un aggeggio tondeggiante, pesante, su cui si accendeva per ore un disegno grafico chiamato Monoscopio. Su questo passavamo ore per regolare uno schermo con oltre seicento righine grigie. Fu lì, su quello schermo, che vedemmo accadere per la prima volta i fatti più gravi, oltre a Mike Bongiorno che trasmetteva Lascia o Raddoppia?. L’altro aggeggio entrato ormai in ogni casa era il frigorifero: non più burro tenuto in fresco nel lavandino, ma tonnellate di ghiaccio e ghiaccioli. E tramontava il gusto per l’arrendamento borghese detto “Rinascimento” (buffet e contro-buffet da una tonnellata con specchi e zampe di leone dappertutto) per cedere ad un nuovo stile razionale “svedese”, lineare e senza fronzoli. Il Paese cresceva molto, l’industria andava a tutta birra, le famiglie mettevano al mondo figli, i nonni restavano in casa come vice genitori e lì morivano. La disciplina era ancora di ferro e volavano schiaffoni e punizioni. I vigili urbani, le “guardie” (cioè i poliziotti e i carabinieri) non erano amichevoli e andavano a spiare le coppie che amoreggiavano in luoghi di fortuna. Era vietato parlare di sesso salvo che nelle surreali barzellette degli adolescenti brufolosi impacchettati nei blue jeans ancora rigidi come lamiere. Ma le donne si vestivano sempre meglio, così come le figlie adolescenti, chi aveva pochi soldi aveva in genere una zia armata di macchina da cucire per confezionare tailleur sui modelli pubblicati dai settimanali femminili. Il genio italiano emergeva, in modo sparpagliato ma anche disciplinato perché le scuole, specialmente pubbliche, erano severissime, con insegnanti dai vestiti un po’ logori, ma temutissimi. Il Paese leggeva i giornali della sera e guardava le notizie al cinema, dove ogni film era preceduto dalla Settimana Incom che era un telegiornale pieno di ministri che tagliavano nastri. Ma quell’anno fu il teatro di avvenimento importanti, sanguinosi, alcuni chiusero un’epoca, anche se non tutti se ne accorgevano. Fu l’anno del rapporto segreto al Ventesimo congresso del Partito comunista sovietico in cui il successore di Stalin, Nikita Krusciov, rivelò un po’ più della metà dei delitti compiuti da Stalin, ma benevolmente classificati come «errori» da imputare non al sistema comunista, ma ad un imprevisto eccesso di narcisismo assassino, chiamato «culto della personalità». Di conseguenza, molti seguaci di quel culto nei vari paesi soggetti all’Unione Sovietica furono eliminati. Per afferrare l’enormità di quel che veniva rivelato – ma tutto si sapeva molto bene – bisognerebbe rendersi conto della natura quasi divina del “compagno Stalin”, che sopravviveva dopo la sua morte avvenuta due anni prima in circostanze tuttora non chiare. Il rapporto era segreto, ma fu fatto trapelare per brani alla stampa occidentale che lo diffuse e pian piano lo ricostruì. Era come se il Papa avesse annunciato che Dio non esiste. I comunisti occidentali e in particolare Palmiro Togliatti, la presero malissimo anche perché molti di loro avevano partecipato ai fasti dello stalinismo. E poi le stragi di Budapest, pudicamente chiamate «i fatti di Ungheria». Quei morti in quasi diretta televisiva per la prima volta nel mondo: la rivolta di operai, studenti e intellettuali anche comunisti, contro i carri armati sovietici. Cittadini in bianco e nero. Sparavano e morivano davanti all’occhio televisivo del mondo. Chi non morì subito – circa cinquantamila uomini – fu poi fatto eliminare da Janos Kadar, che aveva partecipato alla rivolta e poi era passato ai russi che lo mantennero sul trono fino alla morte. E la neve. Le inarrestabili nevicate del 1956 da gennaio alla metà aprile con le città del centro e del Sud paralizzate, con una ondata di una micidiale influenza che ne ammazzava più del Covid. Gli alberi di Roma che crollavano. Infine, l’ultimo guizzo, il colpo di coda coloniale dei francesi e degli inglesi che reagiscono come ai tempi delle cannoniere alla nazionalizzazione del Canale di Suez proclamata da Nasser, il nuovo raìs egiziano e leader del mondo arabo. Ma non è più stagione di cannoniere e accade un fatto nuovissimo e – per i tempi – scioccante: americani e russi sembrano pronti a bombardare Londra e Parigi se non schiodano da Suez. Da dove partire? Certamente da tutti quegli operai e studenti ungheresi che indossavano un trench alla Humphrey Bogart: una cicca nell’angolo della bocca e un mitra in mano. Impassibili, un caricatore dopo l’altro. Le ragazze che riempiono i contenitori di pallottole. Avevo sedici anni e ricordo i profughi ungheresi miei coetanei arrivati a Roma prima di Natale e che accompagnavamo alle bancarelle di piazza Navona. Loro ci mostravano le mani bruciate dall’uso della mitragliatrice. Ragazzi, anzi ragazzini. E i miei amati parenti comunisti che friggevano nel dolore e nella spossatezza di non poter parlare ma piangevano più che altro per le sorti della squadra di calcio ungherese, un mito e una leggenda. Ricordo una manifestazione a Roma da piazza del Popolo a piazza Venezia furiosa e apocalittica piena sia di gente democratica che di molti fascisti: tutto l’anticomunismo della recente guerra tornava proponendo corpi di spedizione, arruolamenti, cose di pura propaganda. E poi Suez. Che cosa era successo a Suez? Il canale costruito dagli europei e di proprietà anglo-francese fu sequestrato, anzi nazionalizzato, da quel colonnello arabo che parlava alle folle senza gridare e dicendo cose mai udite prima: «In questo momento, mentre pronuncio queste parole, le nostre forze armate stanno prendendo possesso del Canale di Suez. Coloro che lavorano al Canale stiano calmi, nessuno li toccherà ma da questo momento il canale è solo egiziano». Delirio. Anthony Eden, primo ministro britannico, bello ed elegante, so british, non credeva ai suoi occhi ed orecchie. Ma come si permette questo beduino, o quel che è? Telefonate con Parigi: bisogna agire, siamo noi le potenze coloniali europee e siamo noi ad avere costruito il canale. Tel Aviv vede che gli arabi vogliono la morte di Israele prendendoli per fame e avverte: noi ci stiamo. Colpo di mano. Sbarchi, paracadutisti, navi: le potenze coloniali europee vanno a dare una lezione ai ribelli. Ma qualcosa di imprevisto ed imprevedibile accade: gli Stati Uniti con il loro presidente-soldato Eisenhower, insieme alla Russia sovietica di Nikita Krusciov sbarrarono a mano armata il passo ad inglesi e francesi: Foster Dulles, il segretario di Stato americano, il creatore della Cia guidata da suo fratello Allan, prese il microfono all’Onu e disse: «E’ per me un momento terribile dovermi opporre agli alleati storici e fratelli inglesi e francesi per dir loro no. Dovete ritirarvi immediatamente. L’epoca degli imperi è finita, l’America non permetterà a nessuno di agire come nell’Ottocento. Lasciate Suez o sarà la guerra». Da Mosca Krusciov disse: «O ve ne andate o io mando i miei bombardieri con le bombe atomiche sopra Londra e Parigi». Per molto tempo tutti fecero finta che non accadesse nulla, ma dovettero sloggiare. Ma l’Unione Sovietica aveva già occupato l’Ungheria con i carri armati: Imre Nagy, il mite capo dei ribelli, con i suoi baffetti arricciati, occhialini e il gilet, fu giustiziato alla maniera di Cesare Battisti: gli fecero salire tre gradini e lo misero di schiena contro una tavola. Un boia gli stringeva il cappio al collo per poi strangolarlo con la forza delle sue mani, facendo a lungo scalciare Nagy al quale erano caduti gli occhialini di mano. Ma la cosa più grave fu che quell’invasione dell’Ungheria e quella repressione che portò a oltre centomila morti in combattimento e quasi altrettanti in vario modo giustiziati o fatti sparire, avvenne per pressione e decisione di Palmiro Togliatti e del gruppo dirigente del Pci e del leader comunista cinese Mao Zedong. Giorgio Napolitano ha raccontato in modo particolarmente addolorato e onesto la tragedia di quella decisione. Allora tutto il partito fu compatto nell’applaudire l’intervento sovietico, salvo una dozzina di intellettuali fra cui Lucio Colletti, Paolo Spriano, Antonio Giolitti che era figlio di Giovanni e che Togliatti esibiva come nome di prestigio e pochi altri. Piero Melograni ha raccontato che ai tempi della rivoluzione ungherese – che il Pci declassò col titolo “Fatti di Budapest” – nella sede del Pci non esisteva un televisore perché il partito era contrario alla diffusione delle immagini che contrastavano il potere dei documenti politici. La realtà fu che tutti, per la prima volta nella storia, vedemmo giorno dopo giorno quel che accadeva a Budapest dove i carri sovietici abbattevano caseggiati per colpire un ribelle, e la città era ridotta un carnaio infernale. I socialisti italiani del Psi si spaccarono fra “carristi” (quelli che approvavano l’intervento dei carri armati) e autonomisti che non volevano più condividere l’alleanza con un partito comunista. Ma non successe nulla di grave e di definitivo. Le ferite, specialmente quella della memoria, si rimarginarono rapidamente. Io ricordo me stesso, sedicenne, molto agitato e disperato per quello che avevo visto. E per la prima volta nella mia vita del giornalista che ancora non ero, fui preso dalla febbre di sapere, essere informato, capire tutto: perché era successo, che cosa era accaduto prima, che fine avevano fatto tutti quegli esseri umani, quei ragazzi, quei vecchi, quelle donne che attraversavano la strada fra i colpi di cannone e di cui non si parlava più? Quella gente che fino a ieri avevo visto viva e piena di un calmo coraggio mentre sparava nello stesso modo e con la stessa epica partigiana con cui i resistenti parigini sparavano ai nazisti. La guerra era finita soltanto undici anni prima ed era già stata dimenticata e superata dalle nuove angosce, ma l’Italia era già uno splendido Paese nuovo e moderno, elegante e pieno di charme, con l’industria che produceva automobili ed elettrodomestici come quelli americani e con la moda e gli stilisti che stavano già rendendoci diversi, brillanti, con quel talento in più, quell’anomalia geniale che è l’unico e solo patrimonio italiano, oltre la storia e la geografia.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1956

26 gennaio – A Cortina iniziano le Olimpiadi invernali. Zeno Colò vince la discesa libera.

3 febbraio – Grande gelo in tutta Europa. Roma per 15 giorni è sommersa dalla neve.

25 febbraio – Krusciov parla al congresso del Pcus e rivela i crimini di Stalin. Il suo rapporto dovrebbe restare segreto ma viene pubblicato dal New York Times.

20 marzo – La Francia concede l’indipendenza alla Tunisia.

19 aprile – L’attrice Grace Kelly abbandona il cinema e sposa Ranieri, principe di Monaco.

21 aprile – Nasce il Giorno, giornale dell’Eni di Enrico Mattei che già pensa al centrosinistra.

19 maggio – Iniziano i lavori per la costruzione dell’autostrada del Sole. Ci vorranno otto anni per inaugurarla.

29 giugno – Marilyn Monroe sposa lo scrittore Arthur Miller.

25 luglio – Affonda il transatlantico italiano Andrea Doria, speronato da una nave norvegese. Ci sono decine di morti, ma oltre 700 superstiti grazie alle operazioni di salvataggio coordinate dal comandante Piero Calamai e ad una eccezionale manovra di una nave francese accorsa in soccorso. Calamai non vuole scendere dalla Andrea Doria, ma i suoi ufficiali lo costringono.

26 luglio – Il Presidente egiziano Nasser nazionalizza il canale di Suez. Francia e Gran Bretagna furiose. Tensione internazionale alle stelle.

8 agosto – A Marcinelle, in Belgio, crolla una miniera. Muoiono, sepolti 262 minatori dei quali 136 italiani. È la più grave tragedia sul lavoro del secolo.

23 ottobre – Inizia la rivolta d’Ungheria contro l’Unione sovietica.

28 ottobre – Centouno intellettuali comunisti italiani firmano un documento contro l’Urss. La direzione del Pci li condanna severeamente.

Tra le firme quelle di Lucio Colletti, Asor Rosa, Carlo Muscetta, Fabrizio Onofri, Paolo Spriano.

29 ottobre – Inizia la guerra arabo-israeliana.

4 novembre – L’Armata rossa entra a Budapest.

6 novembre – Dwight Eisenhower, repubblicano, ex capo dell’esercito americano durante la guerra, viene eletto per la seconda volta presidente degli Stati Uniti. Sconfigge il democratico Stevenson.

27 dicembre – In Italia le donne vengono ammesse nelle giurie popolari.

Storia d’Italia, 1956: quando a Marcinelle morirono centinaia di "fottuti italiani". Paolo Guzzanti su Il Riformista il 13 Ottobre 2020. Il terribile 1956, oltre ai “fatti d’Ungheria”, oltre all’elenco parziale ma ufficiale (però a due anni dalla morte) dei delitti di Stalin, e alla guerra del canale di Suez (di cui ricorderò un retroscena cinematografico legato al sogno americano), fu anche l’anno di due terribili disastri. Entrambi angosciosi e collettivi, dal momento che la televisione ormai era entrata nella nostra vita, funzionava, e tutti potevamo vedere quel che accadeva nel mondo. La prima tremenda tragedia fu a Marcinelle in Belgio, dove 136 minatori italiani immigrati morirono gasati dai fumi in una galleria in cui una scintilla elettrica incendiò un serbatoio di combustibile. Non morirono solo loro: i morti in tutto furono 262, ma più della metà erano nostri concittadini del Sud che vivevano nelle periferie delle località minerarie come Bois du Cazier. Erano tremende immagini in bianco e nero: cadaveri – non si vedevano ancora i cadaveri in televisione – e pianto di vedove, pianto di figli impietriti. Era l’Italia che emigrava, che raggranellava franchi, marchi e dollari. Era la stessa Italia che dal Sud andava nella Milano su cui Visconti avrebbe girato Rocco e i suoi fratelli. Fu allora che ci rendemmo conto, tutti, che il miracolo economico che cominciava a dividere nettamente i ricchi dai poveri, non era lo stesso per tutti. E che mezza Italia aveva la valigia di cartone pronta con lo spago, pronta a prendere treni eterni in cui spargere l’odore delle arance e del cacio, della salsiccia e della pasta al sugo. Era la stessa Italia che ora si trovava in ginocchio impietrita a Marcinelle in mezzo alle bare. L’Italia immigrava e lo faceva in modo umile e modesto. In Francia e in Belgio gli immigrati italiani li chiamavano “les ritails” ed era un termine offensivo. Come in America i “Dagos” (chissà perché). Parole intraducibili. Semplicemente volevano dire “fottuti italiani”. La seconda disgrazia fu l’Andrea Doria. In realtà l’affondamento dell’Andrea Doria avvenne un mese prima di Marcinelle, ma nella catena dei ricordi Marcinelle viene per prima. Era una nave bellissima, la più bella nave italiana dopo il Rex di Fellini. Era la nave dei sogni modesti delle lettrici di rotocalchi. Fu speronata e morirono in cinquantuno. Una strage in mezzo al mare per ragioni incomprensibili. Fu speronata dal mercantile svedese Stockholm della Swedish American Line, al largo degli Stati Uniti. Il disastro del Titanic del 1912 aveva imposto nuovi standard di sicurezza sui transatlantici e sembra che questi standard abbiano impedito una strage più grave, visto che erano a bordo mille e duecento quarantuno passeggeri e centinaia di uomini dell’equipaggio. Si piegò su un fianco, l’Andrea Doria, e restò così a galla, fotografata dagli aerei e dalle altre navi che vennero al soccorso, prima di affondare. Era estate piena, io ero a Ostia con i miei perché a quei tempi Ostia era un meraviglioso quartiere romano sul mare, liberty e gentile e la sera si prendeva il gelato in centro e oppure i krapfen che arrivavano dalla cucina con un siluro d’acciaio su una fune. Gli strilloni gridarono: “Paese sera! Edizione straordinaria! È affondata l’Andrea Doria con centinaia di morti”. I morti non erano centinaia ma la notizia era adatta all’estate dei capannelli e dei caffè. Tutti accesero i televisori e i bar erano allora molto forniti di questi grossi oggetti luminosi. Era bello restare ammutoliti davanti alle immagini e scuotere la testa. Il naufragio in sé era un fatto mondano, più che nautico. La guerra aveva lasciato una scia di memorie, racconti e storie tutte più o meno terrificanti e in fondo la triste fine di quella bella nave diventò un argomento di passione nazionalista e di grande sdegno per gli svedesi che ci avevano affondato la più bella barca di casa. E arriviamo alla guerra di Suez, che fu un grand’evento di cui però allora pochi, anzi nessuno, capì le conseguenze. Immagino che non molti lettori abbiano ben presente, per motivi d’età, chi fosse Gamal Abd el-Nasser: fu il campione del mondo arabo che si ribella agli europei. In realtà si era trattato di una colonizzazione breve, visto che il mondo arabo aveva fatto parte dell’impero Ottomano che fu smantellato nel 1918, insieme all’impero tedesco in Africa e a quello austro-ungarico. L’Egitto era da tempo un protettorato di sua maestà britannica, il cui governo aveva installato un playboy – re Faruk- sul trono del Cairo. Faruk fu mandato a giocare le sue ultime carte al Casinò di Montecarlo da una rivolta di giovani ufficiali cresciuti nel culto del sistema britannico e con una buona preparazione militare. Fu un colpo di Stato poco cruento e fra i giovani ufficiali prevalse Nasser, che era atletico, anzi bello, intelligente, ottimo oratore e discretamente colto. Soltanto recentemente sono stati resi accessibili documenti riservati del Dipartimento di Stato, da cui si è appreso che il giovane Nasser odiava, sì, gli usurpatori inglesi che insieme ai francesi facevano soldi a palate, facendo pagare il transito sul canale di Suez su cui passavano le petroliere che portavano energia in Gran Bretagna, Francia e nell’intera Europa. Ma amava l’America. Questa è la scoperta. Nasser aveva il suo personale American Dream e questo sogno americano era legato ad un film di Frank Capra: It’s a wonderful life del 1946, in cui un giovane James Stewart interpreta il cittadino George Balley, il bravo ragazzo costretto a difendere sé stesso e la sua famiglia dalle grinfie di un malvagio riccone e che Iddio strappa al suicidio mandandogli un angelo custode senza ali perché in punizione. Nasser era convinto che in quel film abitasse l’intero inconscio dei suoi desideri: la vittoria del bene sul male, la fede in Dio e il misterioso fascino dell’America che alla fine soccorre sempre i deboli e costringe i malvagi ad arretrare. Gli americani, sia durante che dopo la guerra, segretamente detestavano gli inglesi, amorevolmente ricambiati. Gli americani avevano costretto la Gran Bretagna a mollare l’India ed erano decisi a sbatterli fuori anche dall’Egitto. Quando l’ambasciata americana rese nota la passione del nuovo “raìs” per il sogno americano del film di Capra, fu immediatamente inviata una copia speciale del film a Nasser, sottotitolata in arabo, benché Nasser parlasse un discreto inglese. Non si sa se gli americani abbiano attivamente spinto Nasser a impossessarsi del Canale di Suez con un colpo di mano e dopo aver costretto la guarnigione inglese ad andarsene. Nasser pronunciò un discorso alla radio e in questo discorso introdusse una parola chiave che era il segnale per i suoi: quando la pronunciò alcuni commandos egiziani penetrarono negli uffici della compagnia del canale e ne presero possesso. Quel che accadde dopo lo abbiamo ricordato nell’articolo precedente. Parigi e Londra decisero di intervenire militarmente, ma avevano bisogno di un pretesto e si rivolsero a Tel Aviv proponendo un accordo: voi israeliani occupate il Sinai e certamente l’esercito egiziano vi attaccherà. A quel punto noi – francesi e inglesi – annunciamo al mondo di aver mandato un corpo di peace keeper, ovvero alcune migliaia di uomini, come forza di interposizione. E lo fecero, sbarcando un vero esercito. Nasser fece per radio un discorso di chiamata alle armi copiato dal celebre discorso di Churchill “We shall fight on the hills… we’ll never surrender” e disse che gli egiziani avrebbero combattuto sui campi e sulle spiagge e mai si sarebbero arresi. Il popolo egiziano sembrò impazzito, in un delirio di patriottismo nazionalista. Fu a quel punto che Nikita Krusciov, il successore di Stalin noto per andare per le spicce, annunciò che avrebbe bombardato con le sue atomiche Londra e Parigi se i loro soldati non si fossero ritirati immediatamente. Anthony Eden, il premier britannico che era stato il ministro degli Esteri di Winston Churchill, cercò di giocare la carta americana rivolgendosi al presidente Eisenhower per chiedergli aiuto. Il vecchio soldato rispose con parole di gelo, più che di fuoco: “Non siamo mai stati informati di questa operazione che disapproviamo totalmente”. Eisenhower criticò Krusciov per aver minacciato di usare le atomiche e malgrado la guerra fredda, malgrado la situazione drammatica in Ungheria, le due superpotenze si trovavano d’accordo nel costringere i colonialisti europei ad andarsene. Nasser vinse, ma perse il senso delle proporzioni. In preda all’enfasi bellica cominciò prima a dire e poi a credere di aver vinto sul campo di battaglia l’Inghilterra, la Francia e anche Israele che odiava per la sconfitta subita nel 1948. E questa fu la sua rovina. Nasser voleva armi per combattere Israele e gli sembrò naturale chiederle a Washington, a causa del suo sogno americano ispirato da Frank Capra. Ma Washington rispose a brutto muso di non avere alcuna intenzione di dare armi all’Egitto e a quel punto Nasser, un anticomunista islamico molto radicale, compì il gesto impensabile: chiese a Mosca un esercito e finanziamenti per la diga di Assuan. Ottenne entrambi provocando una crisi di nervi a Washington. Il regolamento dei conti avvenne dodici anni dopo quando Nasser, sicuro di aver messo in piedi la crociata contro Israele con una gigantesca coalizione araba, fu di nuovo battuto sul campo nella guerra dei 6 giorni dall’esercito israeliano e dal generale Moshe Dayan, quello con un occhio bendato, che travolse gli egiziani; e dovettero fermarlo prima che arrivasse al Cairo. Dodici anni dopo. La stella di Nasser smise di brillare e il suo grande sogno americano si dissolse sulle sabbie del Sinai.

Dopo l'anno nero 1956 era impossibile illudersi sul comunismo. Il centenario della nascita del Pci si avvicina. La nostalgia sembra già farsi strada. Purtroppo. Giuseppe Bedeschi, Venerdì 18/12/2020 su Il Giornale.  Si avvicina il centenario della fondazione del Pci, il 21 gennaio 1920, escono libri e articoli sui giornali. Vorrei portare anch'io una piccola testimonianza personale a proposito della storia comunista, una testimonianza relativa a un anno fatidico, il 1956: che fu l'anno del rapporto segreto di Krusciov al XX congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, e l'anno della rivoluzione popolare ungherese. Stalin era morto solo tre anni prima. I partiti comunisti di tutto il mondo l'avevano osannato in modo delirante. Ma il 25 febbraio 1956 accadde una cosa stupefacente e sconvolgente. In un lungo discorso a porte chiuse (riservato cioè ai soli congressisti, senza la presenza delle delegazioni dei partiti fratelli e senza i giornalisti), Krusciov fece letteralmente a pezzi la figura di Stalin: il quale aveva governato l'Urss in maniera dispotica e terroristica, e aveva commesso innumerevoli delitti contro esponenti del partito e dell'esercito. Krusciov raccontò cose atroci e rivelò che l'uso delle bastonature e della tortura era diventato prassi corrente contro i supposti dissidenti. I dati forniti da Krusciov erano terrificanti: per esempio, dei 139 membri del Comitato centrale del partito al XVII congresso, il 70% era stato arrestato e fucilato. La stessa sorte toccò alla maggioranza dei delegati a tale congresso: su 1966 delegati, 1108 vennero arrestati e poi fucilati. Purghe altrettanto feroci furono scatenate contro l'esercito, con centinaia di vittime, sicché l'Armata Rossa si trovò in uno stato confusionale di fronte all'aggressione hitleriana. Prima di ripartire da Mosca, Togliatti ricevette dai capi del Cremlino una copia del rapporto segreto. La situazione nella quale il leader comunista veniva a trovarsi era assai sgradevole e imbarazzante. Il Pci, infatti, aveva tributato a Stalin un culto sconfinato. I comunisti italiani lo avevano sempre considerato il capo più amato, lo avevano esaltato in forme ditirambiche e morbose: Stalin era l'uomo che aveva realizzato il socialismo nell'Unione Sovietica, che aveva costruito dighe e deviato il corso dei fiumi, che aveva abolito lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, che aveva battuto gli eserciti hitleriani col suo genio politico e militare. Quando Stalin morì, i comunisti italiani lo piansero come si piange un padre. Il giorno in cui fu annunziata la sua fine, l'Unità uscì listata a lutto. «L'anima è oppressa dall'angoscia dichiarò Togliatti alla Camera dei deputati per la scomparsa dell'uomo più che tutti gli altri venerato e amato, per la perdita del maestro, del compagno, dell'amico». In tutta Italia i comunisti organizzarono centinaia di manifestazioni, con enorme partecipazione di popolo, per commemorare il genio che si collocava accanto a Marx e a Lenin. Togliatti rientrò in Italia da Mosca il 6 marzo, e non fece cenno alle denunce kruscioviane contro Stalin. Una settimana dopo, egli tenne una lunga relazione al Comitato centrale del Pci, in cui affrontò anche la questione Stalin. Dopo aver tracciato un quadro grandioso della società sovietica e dei suoi straordinari progressi economici, sociali e civili, egli parlò delle critiche che Krusciov aveva rivolto alla figura di Stalin. Togliatti disse: «Il compagno Stalin ha avuto una grande parte, una parte positiva, nella lotta che ebbe luogo subito dopo la morte di Lenin, per difendere il patrimonio leninista contro i trotzkisti, i destri, i nazionalisti borghesi, per riuscire a prendere la strada giusta di costruzione di una società socialista. Se questa lotta non fosse stata condotta e non fosse stata vinta, l'Unione Sovietica non avrebbe riportato i successi che ha riportato, e oggi forse nell'Unione Sovietica non esisterebbero una economia e una società socialiste. Nel corso di questa lotta Stalin si acquistò prestigio e autorità. Il suo errore successivo fu di mettersi, a poco a poco, al di sopra degli organi dirigenti del partito, sostituendo a una direzione collegiale una direzione personale. Si venne così creando quel culto della persona che è contrario allo spirito del partito e che non poteva non arrecare danni». Nessun accenno, da parte di Togliatti, al rapporto segreto di Krusciov, che però venne pubblicato dal New York Times il 4 giugno, e poi fu riprodotto dai grandi quotidiani italiani. Naturalmente, enorme fu il disagio che si diffuse fra i comunisti. Le rivelazioni di Krusciov erano ben più drammatiche dei toni edulcorati di Togliatti. Si imponeva subito una domanda: il testo del rapporto segreto pubblicato in occidente era vero o no, era autentico o no? L'Unità parlava del «cosiddetto rapporto segreto». Il mistero fu presto sfatato. In un giorno di settembre del 1956, nella mia città (Ravenna) e in molte altre città italiane, fu convocata dalla Federazione del Pci una riunione (che si tenne in un'ampia sala di una sezione comunista), riservata ai dirigenti di Ravenna e provincia: il Comitato federale, il direttivo della gioventù comunista (di cui io facevo parte: avevo 17 anni), i sindaci e gli assessori comunisti, ecc. Questa riunione (alla quale parteciparono alcune decine di persone) fu presieduta da un autorevole esponente della Direzione del Pci, il senatore Arturo Colombi. Il quale fece una lunga introduzione, e a un certo punto disse: «e ora, compagni, veniamo al rapporto segreto di Krusciov pubblicato dai giornali: è vero o non è vero, è autentico o no? Certo, compagni, che è vero, certo che è autentico». Dalla sala si levò un accorato e struggente «ohhh! ohhh!», che durò per parecchi secondi. Colombi reagì con rabbia: «compagni, non dovete dire ohhh, non dovete scandalizzarvi, perché il nostro partito ha un suo costume rigoroso: se non ha sconfessato il rapporto segreto, ciò significa che esso è autentico!». I partecipanti a quella riunione uscirono sconvolti, e molti di essi erano ormai convinti di una verità elementare ma tremenda: che il mito dell'Urss e il mito della società comunista erano morti per sempre.

Storia d’Italia, 1957: dall’Euratom all’omicidio di Albert Anastasia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Ottobre 2020. Fu a Roma che avvenne il fattaccio. O se preferite il fatto meraviglioso. A me, anche allora che uscivo dall’adolescenza selvaggia, sembrava un fatto enormemente burocratico: i grandi della Terra, con le loro rispettabili Signore, segretari, parrucchieri, team ed équipe, si calarono su Roma con ogni aereo, treno di lusso e limousine e il 25 marzo del 1957 fondarono l’Europa. Attenzione: non gli “Stati Uniti d’Europa” come allora tutti speravamo, ma un’altra cosa, più pratica, di tono minore, senza tanti mescolamenti perché moglie e buoi meglio se dei paesi tuoi. Sempre Europa era, ma così doganale da sembrare dozzinale, tutta d’acciaio e carbone da non sapere dove parcheggiarla, con il suo possente reparto economico che trascinava un treno di casseforti su rotelle, e poi l’energia atomica. Ma ci crederete? C’era, con l’Europa, l’Euratom, cioè la forza atomica energetica europea. Non sto a rifare tutta la storia (per adesso) dei referendum che cancellarono la possibilità dell’energia nucleare dal suolo italiano, ma ogni volta che accendo la luce non dimentico che l’energia nella mia lampadina viene dalle centrali nucleari francesi e che alla Francia io come tutti pago la carissima bolletta e quanto ai rischi che possa accadere una sciagura alle centrali francesi, condividiamo anche quel privilegio: di beccarci sia la bolletta alta che il possibile rischio. Come è potuto accadere? Un sussurro, ma non dire nulla intorno a voi, political correctness: le centrali nucleari sono brutte e cattive, tutti gli altri ce l’hanno e noi no perché siamo furbi. Allora l’Europa che vedevamo nascere nel 1957 non emozionava, non aveva ancora una moneta (la più quotata era lo “Scudo”) né bandiere, non aveva un’anima ma dovevamo tutti battere insieme le manine perché si stava realizzando davvero un grande miracolo: Germania, Francia, Benelux, Italia e Austria erano state finalmente denudate, legate e messe nello stesso sacco. Almeno in apparenza. In realtà, Francia e Germania si assumevano la leadership dell’Europa e gli altri sudditi avrebbero fatto finta di essere pari. Già si vedeva e sapeva. Ragion per cui quando si parlava d’Inghilterra, tutti scuotevano la testa: ma figurati, gli inglesi in Europa. Specialmente le prime due, per scongiurare la prossima guerra. Era una scemenza. La Storia non si ripete mai specialmente sotto forma di farsa e a garantire la pace non sarebbe stata l’Unione Europea ma l’arsenale atomico di Usa e Urss, più i sub-arsenali di Francia, Gran Bretagna e Israele, India e poi Cina. Farsi la guerra alla vecchia maniera? Improbabile: se tu mi ammazzi, io prima di morire spingo il bottone rosso e da un sottomarino sotto il Polo Nord e faccio partire un missile che ti farà sparire dal pianeta Terra. Vale la pena soffermarsi un attimo su questo punto ingiustamente trascurato: da che mondo è mondo, gli uomini si sono solo fatti guerre in tutte le generazioni e luoghi. Ci fu una breve pax Romana, ma durò poco. Ciò che durò fu l’intervallo fra la guerra franco prussiana del 1870 alla quale dobbiamo la cattura della Roma papale da parte dell’Italia sabauda, e i colpi di pistola di Sarajevo che innescarono la vera unica guerra mondiale, il cui seguito dal 1939 non fu che la prosecuzione con conseguenze che esposero la malvagità umana oltre i limiti conosciuti. C’era stata dunque la Belle époque, con il can-can, i pittori, le automobili, qualche guerricciola coloniale con periferici bagni di sangue solo indigeno, ma i caffè di Londra, Parigi, Berlino, Vienna, Roma, Zurigo e Madrid avevano seguitato a servire sontuosi caffè. A Mosca meno, perché Lenin ci insegnò che le rivoluzioni non sono dei pranzi di gala e poi tutto finì nel sangue, nel disonore, nelle uova già dischiuse di guerra fredda, ma pronta a diventare calda. Il gruppo di Altiero Spinelli e dei suoi patriottici sodali a Ventotene aveva lanciato il manifesto ideale degli Stati Uniti d’Europa e tutti avevano sognato questo giorno magnifico in cui francesi, inglesi, tedeschi, italiani, spagnoli, danesi e norvegesi senza trascurare olandesi e austriaci, si sarebbero abbracciati nelle varie lingue dando vita a una federazione come quella americana che unisce cinquanta Stati sovrani.  Nulla di tutto questo. I sacri Trattati di Roma, da allora invocati ed evocati come le leggi che Abramo ricevette da Dio in persona, erano montagne di carte, allegati, traduzioni in dodici lingue e insomma l’idea di base era ancora quella di una zona di libero scambio senza dogane che permettesse ad un gruppo di Paesi ricchi di compensarsi a vicenda per le perdite di denaro alle frontiere e una certa velocità nel trovare soluzioni condivise. Non molto più di questo Sottinteso: così, almeno, Francia e Germania la pianteranno di farsi la guerra. Infatti, Francia e Germania si dichiararono impero carolingio redivivo, la Germania che ne aveva combinate troppe fu caricata di tutti i sensi di colpa di tutti gli altri e invitata a non farsi più un esercito, cosa che Konrad Adenauer prese bene: noi tedeschi dobbiamo smetterla di usare le armi per conquistare ciò che possiamo ottenere attraverso la nostra economia a rullo compressore. Era nato dunque un mercato comune senza dazi e molte sagge istituzioni che accantonavano dentro per coloro che si fossero trovati in stato di necessità. Cambiare bandiera? Ma quando mai. Di qui a un anno la Francia, spappolata dalle termiti della quarta repubblica, sarebbe crollata in ginocchio per andare in pellegrinaggio a Colombay Les Deux Eglises per supplicare le general Charles de Gaulle, eroe della Resistenza non solo ai tedeschi ma anche agli americani, francesi e anglofoni in generale, di prendere le redini de la République. Ma nel 1957 quella crisi non era ancora matura e la Francia stava al gioco. L’Italia era una potenza energetica, nucleare e petroliera, le sue aziende andavano come treni, la Fiat si era impossessata della fabbrica francese Seat che costruiva su licenza le nostre Seicento e Cinquecento. Gli americani erano un po’ contenti ma anche un po’ rosi dall’invidia perché l’America ha tutti i motivi per temere l’Europa e già allora a Washington Adlai Stevenson disse che alla fine la terza guerra mondiale l’aveva vinta la Germania che avrebbe avuto lo stesso bottino che cercava Hitler, ma senza sparare un colpo. In Italia intanto si era stabilito, senza tanto fracasso ma soltanto con qualche acceso discorso, che il nostro Paese avrebbe fatto tesoro del più importante partito comunista occidentale in eccellenti rapporti con l’Unione Sovietica, per un trattamento commerciale di riguardo con il gigante russo, le cui commissioni sarebbero state automaticamente riconosciute al Pci. In cambio, il Pci prometteva di lasciar dormire sepolte e ben oliate le armi conquistate durante la Resistenza, scoraggiando qualsiasi eventuale colpo di mano di frange estremiste. Togliatti in questo senso aveva già dato prova di saggezza quando, malamente ferito in un attentato, aveva fatto di tutto per placare gli animi e spegnere le tentazioni insurrezionali. Il Pci non poteva formalmente approvare l’Unione Europea perché a Mosca quel rilancio della Germania economica non piaceva, seguendo l’eterno filo paranoico secondo cui qualsiasi rafforzamento europeo si sarebbe tradotto in aggressione contro l’Urss. L’Unione Sovietica, così come aveva risposto alla Nato occidentale creando il Patto di Varsavia, con un criterio simile avrebbe rafforzato il già esistente Comecon per confederare le risorse dei paesi satelliti con quelle della casa madre. I comunisti italiani non condividevano granché, circolavano molte tesi eretiche di valutazione positiva, ma per il momento dovevano esprimere sdegno e disprezzo per il trattato di Roma. Il mio adorato professore di filosofia, comunistissimo e anche ragionevolissimo, ci spiegò che questa comunità europea altro non era che la riedizione dello Zollverein fra Paesi di lingua tedesca per una unione doganale poi fallita. Nessuno avrebbe potuto immaginare una cosa come la Brexit, o l’Euro, o “andare a battere i pugni a Bruxelles”. Allora si firmarono ben due Trattati e i soci fondatori erano soltanto Francia Germania Belgio Germania (Ovest) e Italia. Questo per la parte politica: economicamente veniva al mondo anche il gemello dell’Unione e cioè la Cee, comunità economica europea. I nostri Padri della patria firmatari erano Antonio Segni capo del governo con il suo ministro degli esteri il liberale Gaetano de Martino. Per il Belgio c’era il volitivo e ben pasciuto Paul-Henri Spaak, padre della ben più amata Catherine Spaak. Konrad Adenauer, il cancelliere tedesco era l’uomo più ossuto e magro e alto del mondo e i suoi zigomi con la sua fronte infossavano gli occhi che sembravano avere uno sguardo inclemente. Belle ragazze che sembravano disegnate da Disney indossarono gonne lunghe multicolori con le bandiere degli Stati e quello fu l’unico aperto riconoscimento alle donne in uno scenario di tavolate chilometriche con decine di camerieri, salviette, calici, brindisi, affreschi, discorsi formali e informali, deposizioni di corone all’altare della Patria e insomma un’orgia di formalità senza molto senso dell’umorismo, che però avevano una forma e una ragione. Significavano non solo che la guerra era finita ormai da più di un decennio, ma che l’Europa distrutta dai combattimenti e ricostruita col piano Marshall era di nuovo competitiva, in prima linea, con questa novità assoluta dei francesi e dei tedeschi che si tenevano per mano dopo essersene date per settantacinque anni, salvo la pausa della Belle époque. Ma nel 1957 un altro grande attore internazionale prese nuove forme e ne parleremo nel prossimo articolo: la mafia. Non Cosa Nostra, ma la grande organizzazione transatlantica che aveva dettato e seguitava a dettare condizioni in America e in Italia. Erano i tempi in cui don Vito Genovese, “il Padrino” diventa il capo della mafia americana. Joe Valachi, racconterà più tardi che le famiglie che contavano nel 1957 erano quelle di don Vito Genovese, Gaetano Lucchese, Giuseppe Magliocco, Joseph Bonanno (alias Joe Bonanno, o Joe Bananas o Joe Bonanni) padrino di Joe Valachi di Castellammare del Golfo e dei Gambino al cui capo, Albert Anastasia fu tagliata la gola sulla poltrona del barbiere come risultato della sentenza decretata dalle famiglie riunite nel summit di Palermo all’Hotel et des Palmes. Grande storia.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1957.

17 gennaio – Cuba: i barbudos castristi attaccano una guarnigione di polizia nella Sierra Maestra. È la prima vittoria militare della guerriglia che poi sconfiggerà Batista.

6 febbraio – Italia: al congresso del Partito Socialista Italiano, il segretario Pietro Nenni annuncia l’avvicinamento al Psdi di Giuseppe Saragat e la fine della collaborazione con il Pci di Palmiro Togliatti.

6 marzo – il Ghana è il primo stato dell’Africa occidentale ad ottenere l’indipendenza.

25 marzo – Sei paesi europei firmano il Trattato di Roma, istitutivo delle Comunità economica europea (Cee) e Comunità europea dell’energia atomica (Euratom): Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo.

Giugno – Urss: fallisce il tentativo di destituire il segretario del Pcus Nikita Kruscev. Egitto: l’Unione Sovietica invia sommergibili nel Canale di Suez.

4 luglio – Italia: esordisce sul mercato automobilistico la Fiat 500.

25 luglio – Tunisia: abolizione della monarchia e proclamazione della Repubblica. Habib Bourguiba diventa il primo Presidente della Repubblica.

12 settembre – Enrico Mattei conclude con lo scià Mohammad Reza Pahlavi un accordo per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi iraniani.

24 settembre – Little Rock, Arkansas: una folla di cittadini respinge nove bambini neri da una scuola pubblica. Il presidente Eisenhower invia mille paracadutisti sul posto per far rispettare la legge.

24 settembre – Algeria: truppe francesi catturano Saadi Yacef, uno dei leader del Front de Libération Nationale.

25 ottobre – New York: Albert Anastasia, gangster italoamericano, viene assassinato mentre è seduto sulla poltrona del barbiere. La decisione è stata presa a Palermo in una storica riunione mafiosa all’hotel et des palmes.

3 novembre – Unione Sovietica: lancio nello spazio dello Sputnik 2, con a bordo la cagnetta Laika, che muore 7 ore dopo il lancio.

19 dicembre – La Nato decide di installare basi missilistiche in Europa.

Storia d’Italia, 1958: dall’affermazione della Dc alla morte di Papa Pacelli. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'11 Novembre 2020. Non vorrei che pensaste che il 1958 fosse un anno da buttar via. Ci furono tsunami mai visti con onde alte mezzo chilometro, stragi, catastrofi naturali e innaturali, ma più che altro l’Italia ebbe il suo nuovo e vero inno: Volare. Senza offesa, io detesto il festival di Sanremo e spero mi perdonerete. Detesto il festival, il suo mondo, il 99 per cento della sua musica e del suo parolaio imbecille, soffro per chi ne gode e per chi lo aspetta con trepidazione come il miracolo ligure di san Gennaro, ma con più sorprese. Ciò dipende soltanto dalla mia natura malvagia che ho tentato inutilmente di riparare. Ma Nel blu dipinto del blu fu uno shock benefico benché arrivasse da San Remo del 1958 perché dopo tante barche che tornavano sole, mamme di cui (pure) ce n’è una sola benché in gioventù fosse rimasta avvinta come l’edera fra personaggi psichiatrici sull’orlo del suicidio – “per me è finita” gridava Claudio Villa davanti a un innocente binario- ecco che ti arriva questo Domenico Modugno con un testo e una voce e una postura fra il futurista e il quadro di Chagall. Niente famiglia, niente storia, niente realtà, soltanto un sogno monocromatico blu. Non suona il violino su un tetto come un ebreo notturno che guarda una mucca galleggiante, ma una creatura quantistica e puerile che infila le mani in una poltiglia azzurrastra e se la sparge sulla faccia ciò che gli permette di decollare in verticale e volare nel cielo infinito, oh-oh. Eravamo tutti per strada a cantarla: il fratello di mia madre, un serissimo intellettuale comunista fu trovato di notte a cantare nel blu dipinto di blu sui marciapiedi deserti e subito radiato (non espulso) dal Partito. In America chiesero il significato di quelle parole e poi sussurrarono: “oooh! is he flying in the sky in a deep blu immersion?”. E diventammo ciascuno di noi italiani Mister Volare. Modugno era l’uomo dio di un’Italia più inaspettata che nuova, riscattata perché surreale e lo rimase per anni anche perché responsabile di altri capolavori come Vecchio Frac. A me in quell’anno capitò la ventura di compiere inutilmente 18 anni in un mondo che non prevedeva, la passione, l’amore, meno che mai le coppie. Ce ne stavamo torvi e pieni di ormoni, acne e trasalimenti a ogni zaffata primaverile e ci saremmo innamorati di uno scoiattolo o di una rondine. Invece mi rimandarono in latino e greco sicché la mia austera famiglia mi mandò “a dozzena”, ovvero a pensione, a casa del più grande latinista del tempo, il professore Attilio Fantinati di Ferrara, che preparava le versioni di latino e greco per gli esami di maturità. Si mangiava una zuppa detta “la minestra imminestrata” e poi mi trascinava lungo il Po per ripetere ad alta voce e imparavo a tradurre dal latino in greco antico e viceversa con i discorsi sulla prima decade di Tito Livio del Machiavelli, dove imperversavano parole come “perciossiacosaché” che registravo su un robusto quaderno nero con il filo in rosso con grafia da frate amanuense, Come conseguenza, credo, diventai comunista sovietico leninista intransigente nemico della civiltà occidentale, dogmatico, tassativo, antiamericano, ateo furioso (l’ateismo era una rigorosa religione) e dunque quando il presidente americano Dwight Eisenhower fece sbarcare in Libano, boots on the ground, alcuni reggimenti di marines, restai scioccato dalla potenza delle foto che pubblicò allora l’Espresso in cui si vedevano questi soldati statunitensi calmi e potenti, affardellati e lievemente tristi, su un terra straniera di cui non sapevano nulla e che poi avrei frequentato moltissimo come giornalista, poco manca che ci lasciassi la pelle. Queste mie convulsioni ideali e ideologiche dettero vita a un infuocato carteggio fra me e mio padre a Roma con cui duellavo apertamente e che duellava a sua volta con logica e rabbia, cosa che mi fu molto utile. Fine dei ricordi troppo personali. Quanto all’anno, l’Europa si consolidava ma in realtà si spaccava perché la Francia, dilaniata dalle guerre coloniali e dai numerosi generali e colonnelli pronti al colpo di Stato, era lì-lì per consegnarsi al padre della patria Charles De Gaulle, di cui ieri abbiamo ricordato i cinquant’anni dalla morte. Imperversava la guerra coloniale in Algeria, il Fronte di liberazione nazionale colpiva militarmente e i francesi facevano saltare le case con la gente dentro, ciò che Gillo Pontecorvo raccontò nel suo magnifico film La battaglia d’Algeri. Il sesso era ancora proibito ed era di pessimo gusto parlarne o alluderne, seguendo lo stesso destino dei servizi segreti secondo le buone norme dell’aristocrazia britannica, ma Vladimir Nabokov pubblicò lo spudorato capolavoro erotico Lolita, storia di una dodicenne e di un quarantenne scritto da uno che era scappato a gambe levate dalla Russia sovietica: bestseller, oggi quella storia arderebbe sul rogo nel fuoco perenne perché racconta l’eros e l’istinto, la finzione delle barriere d’età, tanto che se ne impossessò Stanley Kubrick. Mentre nel cosmo esplodeva il primo satellite umano e sovietico Sputnik, nascevano il microchip e il pacemaker e la senatrice socialista Merlin riuscì a far approvare la legge che chiudeva le case chiuse – che sembra un controsenso e lo è – ma chiudeva l’azienda di Stato magnaccia, restava lo Stato spacciatore di alcolici e tabacchi cancerogeni, ma le signorine a settimana furono spedite a cercarsi alloggio altrove. Tralascio la retorica della letteratura dei bordelli perché non fa parte della mia generazione e l’ho trovata sempre un po’ attaccaticcia e retorica. Restarono in voga espressioni come “fare melina”, “ragazzi in camera”, “marchette” e altre di un mondo che era già morto. Bella rapina moderna di stile americano a Milano in via Osoppo con oltre cento milioni di bottino, e promozione dell’Italia al rango di grande paese evoluto anche dal punto di vista criminale. In Sicilia la mafia seguitava a mettere in bocca al morto un sasso o un pesce o, in casi particolari, i suoi propri genitali usati in maniera sconsiderata. Ah, e la pala di ficu d’Igna. Al Sud eravamo ancora arretrati col delitto d’onore, ma anche al Nord, specie da quando partivano i treni delle valigie di cartone che portavano gli ex contadini calabresi, siciliani, pugliesi e campani nelle case di ringhiera di Milano e Torino, trattati come negri in Alabama e famosi per usare le vasche da bagno come pollaio o orto per la cicoria. Ma esce anche il grande capolavoro di Tomasi di Lampedusa – di una famiglia che quando comprava camicie si trasferiva a Londra – il Gattopardo la cui morale ben nota è che tutto deve cambiare affinché possa restare come prima, segue film magnifico di Luchino Visconti con Alain Delon, Burt Lancaster e Claudia Cardinale, uno dei pochissimi film sul nostro Risorgimento. Del resto, Visconti si era già esibito in Senso, dove una perversa aristocratica italiana manda alla fucilazione il suo infedele amante austriaco. A metà giugno sui gradini di legno della forca salgono sul patibolo i due eroi comunisti della rivoluzione antisovietica ungherese Imre Nagy e Pal Malèter. Ma non li impiccano alla maniera londinese con botola e morte istantanea, sono strozzati in piedi legati a una tavola da un boia che stringe loro il collo, con un attrezzo che somiglia più alla garrota spagnola usata da Francisco Franco che alla forca nostrana. Fra tante canzoncine, canzonacce e magnifiche canzoni emerge una diciottenne sconosciuta e pressoché angelica, ma terrestre: Mina. Successo immediato e quasi magico su cui nessuno ha nulla da ridire, neppure io che sono una bestia. Ma c’è di più: Borís Pasternàk, l’autore sovietico dissidente del Dottor Zivago riceve dal comitato della Corona svedese il premio Nobel per la letteratura ed è costretto dalle sue adorabili autorità moscovite a rinunciare. I comunisti occidentali borbottano, disquisiscono, la prendono alla larga, ma leggono tutti il romanzo comprato e pubblicato da un loro editore, Giangiacomo Feltrinelli, che salterà poi in aria a Segrate mentre cercava di sistemare una bomba. E muore Papa Pacelli, Pio XII, l’anticomunista magro, alto e conservatore che aveva combattuto il comunismo come un crociato, ma anche quello che aveva dispiegato le sue bianche ali sulle macerie di Roma dopo il bombardamento del 19 luglio del 1943, quello che causò le dimissioni e l’arresto di Mussolini. Anche la Chiesa volta pagina. E così Santa Romana chiesa elegge un uomo che sembra semplice e anzi semplicione: il patriarca di Venezia Angelo Roncalli che riesuma un antico nome papale: Giovanni. Ed è Giovanni XXIII. Era stato un grande diplomatico sotto papa Pacelli, un uomo erudito e scaltro, ma estremamente onesto. Viene accreditato di una presunta “apertura a sinistra” che manda in bestia i cattolici conservatori italiani. Ma tira proprio aria di apertura a sinistra, senza i comunisti – ancora – ma a sinistra. I socialisti di Pietro Nenni cominciano a prepararsi e a compilare liste sia di occupazione che di proscrizione in quella che il leader socialista chiama la “sala dei bottoni”. Siamo agli albori di una nuova era laica, in cui gli anticomunisti socialisti come Riccardo Lombardi sono però dei radicali di sinistra in fatto di economia e comincia a circolare una parola proibita: nazionalizzazione di banche, enti, elettricità specialmente e si apre un fronte di guerra interno sempre più violento. L’anno volge al termine e se tornate sulle tracce del Padrino, il film, ricorderete che approssimandosi la fine dell’anno, il generale Fulgencio Batista sente che i colpi di mitra di Fidel Castro e dei suoi barbudos si fanno troppo vicini e chiede agli amici americani di trasferirlo in Florida. Fidel è giovane, Ernesto “Che” Guevara è giovane e bello, a Cuba si comincia ad andare al “paradòn” cioè al muro perché i guerriglieri fucilano volentieri ma rassicurano gli americani: non siamo e non saremo mai comunisti, non preoccupatevi. Ma il generale e presidente Eisenhower si preoccupava e lasciò mano libera a chi gli consigliava, in caso di vittoria di Castro, di organizzare uno sbarco di esuli per riconquistare Cuba, ma questa è un’altra storia e bisognerà attendere qualche anno prima di scoprire che Castro aveva un informatore nella Cia, sicché quando lo sbarco avvenne si risolse in un disastro.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1958

1° gennaio – Entra in vigore il Trattato di Roma, istitutivo della Comunità Economica Europea (CEE) e della Comunità Europea dell’Energia Atomica (EURATOM), firmato da: Italia, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi.

31 gennaio –  Gli USA lanciano nello spazio il loro primo satellite artificiale, Explorer 1.

6 febbraio –  All’aeroporto di Monaco di Baviera un aereo di linea, a bordo del quale viaggia la squadra di calcio del Manchester United, si schianta. Di rientro dal match contro la Stella Rossa, muoiono così 23 persone, fra cui otto giocatori e otto giornalisti. Di quella formazione si salverà, tra gli altri, un ventenne Bobby Charlton, diventato in seguito una leggenda del calcio mondiale: vincerà Pallone d’oro, Mondiali e Coppa dei Campioni, la prima nella storia dei Red Devils.

20 febbraio – Viene approvata la legge Merlin che dichiara illegittime le case di tolleranza.

25 maggio – Alle elezioni politiche si afferma la Democrazia Cristiana.

29 giugno – Ai mondiali di calcio in Svezia, la nazionale di calcio del Brasile vince il titolo per la prima volta.

9 luglio – In Alaska un terremoto di 7.9 gradi sulla scala Richter genera una frana in mare, la quale conseguentemente provoca una colossale onda di 525 metri che travolge l’intera Lituya Bay.

14 luglio – Colpo di Stato militare in Iraq: alla guida del paese viene nominato il generale Abdul Karim Kassem.

29 luglio – Il presidente Dwight D. Eisenhower costituisce la NASA.

28 settembre. In Francia viene approvata con un referendum la nuova Costituzione. Nel paese è istituita la Repubblica presidenziale.

9 ottobre – A Castel Gandolfo, provincia di Roma, muore Papa Pio XII.

23 ottobre – Lo scrittore sovietico Borís Pasternàk vince il premio Nobel per la letteratura. Sarà costretto dalle autorità politiche del suo paese a rinunciarvi.

28 ottobre – Viene eletto a sorpresa come neo pontefice il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, già Patriarca di Venezia, il quale assume il nome di Giovanni XXIII.

7 dicembre – Viene inaugurato il primo tratto dell’Autostrada del Sole, da Milano a Parma.

Storia d’Italia, 1959: quando non si parlava della mafia che cresceva. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Novembre 2020. L’anno che venne dopo, il 1960, sarebbe stato un Annus terribilis ma anche fulminante, tra i “fatti di luglio” e “La dolce vita” di Fellini (biglietto a mille lire, mai visto prima). Il 1959 fu uno di quegli anni che somigliano alla prima fase di una partita di scacchi: quando si dispongono i pezzi da usare per piani segreti. La terza guerra mondiale, che non c’è mai stata, fu in quel biennio sempre più incombente e imminente. Il nuovo dittatore sovietico, il contadinesco ma abilissimo, e in guerra anche eroico, Nikita Kruscev, fece organizzare una visita ufficiale in Albania, all’epoca ancora un dominio sovietico, per pronunciare un violentissimo discorso proprio contro di noi: “Se l’Italia si azzarderà ad autorizzare l’installazione di missili americani, sappia che siamo pronti a farla sparire dalla faccia della terra”. Un po’ di chiasso, ma neanche tanto. Era normale. Le minacce militari nonché gli schieramenti di missili erano all’ordine del giorno. In America era ancora presidente l’ex comandante supremo degli eserciti alleati in Europa e Africa, Dwight Eisenhower, un presidente eccellente e calmo, tuttavia bersaglio di tutti gli imitatori e attori satirici per la scheletrica ovvietà dei suoi discorsi. A gennaio Fidel Castro con i suoi barbudos (soltanto i guerriglieri che avevano combattuto alla macchia nella Sierra erano autorizzati a non radersi come prova degli anni passati lì) si insediò formalmente al governo di Cuba, riconosciuto da tutti i grandi Paesi fra cui gli Usa che avevano per quell’isola un amore particolare e piuttosto invadente, poiché era stata anche fino ai primi del Novecento l’ultima colonia spagnola in America. Per quest’ultima motivazione, Cuba era particolarmente curata, specialmente riguardo sanità e istruzione (che diventarono poi due cavalli di battaglia del castrismo) così tutti si chiedevano da che parte stesse. Il vicepresidente di Eisenhower era Richard Nixon, brillantissimo avvocato che poi diventerà presidente e finì dimissionario nel 1972 per lo scandalo Watergate (microspie nel quartier generale del Partito democratico) reso noto da due giornalisti considerati mitici – Carl Bernstein e Bob Woodrow – che ricevevano misteriosi pizzini da uno sconosciuto e diabolico personaggio che nelle intercettazioni era chiamato “gola profonda”. Da allora, ogni volta che si parla di un ispiratore segreto, in inglese oggi si usa il termine “whisteblower”, ossia uno che spiffera ma come agente sotto copertura. La storia è popolata dalle gole profonde e dai whisteblower che agiscono come oscure divinità olimpiche, determinando il destino delle nazioni attraverso intermediari ambiziosi che fanno carriera grazie alle soffiate, capaci di determinare la linea politica e giudiziaria dei loro giornali, appesi alla speranza dello scoop, come in Italia molti anni dopo imparammo da inchieste extraterrestri come Mani Pulite, la vicenda Lockheed e molti dritti e rovesci sulla mafia. Nel 1959, ad esempio, il primo dei grandi pentiti (che poi, trent’anni dopo, fu gestito personalmente da Giovanni Falcone), e cioè Tommaso Buscetta, fu arrestato a Palermo per faccende di piccola criminalità: contrabbando di sigarette, associazione per delinquere e altre piccole immondizie. Aveva 30 anni. Arrestato, ma subito liberato grazie al suo santo in paradiso che era un deputato democristiano. A suo tempo vedremo come questo personaggio diventò un protagonista di quel mondo occulto, costretto alla fuga e riacciuffato in Brasile per essere messo sottochiave da Falcone – siamo ancora lontani da quei tempi, che però maturavano come nelle complesse aperture di una buona partita di scacchi. Le vicende cubane e quelle della mafia siciliana erano procedute per anni in un intreccio che vedeva gli investimenti nella Cuba di Fulgencio Batista e della sua rete di casinò, nel giardino di casa degli americani che la consideravano un Paese accessorio, se non conquistato, a causa della guerra di liberazione dalla Spagna che portò nell’orbita americana anche tutti gli altri territori coloniali spagnoli, fra cui le Filippine che diventarono e sono tuttora un pezzo importantissimo della politica in estremo oriente. Dunque, Fidel Castro era ancora un fanciullone che aveva giocato con le armi e le romantiche notti di agguati e sparatorie sotto le mura della Caserma Moncada, e ancora nessuno poteva immaginare che sarebbe diventato il pezzo più importante della politica sovietica e poi la causa della crisi dei missili per cui il mondo tremò per alcuni giorni, ma soltanto alcuni anni dopo. Allora Fidel era un personaggio elementare e carismatico, non un genio, ma popolarissimo. Eisenhower chiese al suo vice Nixon di capire da che parte stava e Nixon invitò Fidel Castro a Washington per discutere la richiesta cubana di fondi con cui finanziare la ripresa economica dell’isola dove i rivoluzionari avevano distrutto il tessuto di case da gioco, bordelli, poker e scommesse in cui sguazzavano anche le grandi famiglie siciliane. Qualche mese prima, Albert Anastasia, il mammasantissima degli italoamericani, aveva avuto la gola tagliata a New York sulla sedia del suo barbiere, in seguito agli accordi presi dalle grandi famiglie nella riunione del 26 ottobre del 1957 nei saloni splendidi e decadenti dell’Hotel Le Palme di Palermo. Lì, dove si fermava anche Frank Sinatra, un divo stellare i cui rapporti con Cosa nostra erano noti quanto quelli con la sua eterna fidanzata e poi ex moglie Mia Farrow che poi sposò Woody Allen, con tutto il frastuono che ne seguì per le accuse da caccia alle streghe scatenate contro il geniale regista, colpevole di essersi innamorato e poi di aver sposato una delle figlie adottive della ex moglie. Quest’ultima nel frattempo gli aveva donato, come unico suo figlio naturale, un pupo oggi famoso giornalista e femminista che è il ritratto sputato di Frank Sinatra, detto anche “The Voice”, la più calda e passionale voce d’America. Ma, ricordiamolo ancora una volta, tutti questi brandelli di storia che nel 1959 vediamo dispiegarsi sulla scacchiera del mondo, daranno luogo a grandiosi e tragici finali di partita di cui allora ancora nessuno sapeva niente. E così, Richard Nixon accolse Fidel Castro a Washington e passò un paio di giorni con lui per capire che tipo fosse questo guerrigliero che giurava di non essere comunista ma lo sembrava. Poi ne riferì a Eisenhower: “È un tipo che trascina le folle. Ha idee un po’ rozze ma sembra un ragazzo in buona fede. Vorrebbe il nostro aiuto finanziario, ma non intende concedere risarcimenti per le imprese americane che ha nazionalizzato. Dice che è nostro interesse aiutarlo, altrimenti sarà costretto a rivolgersi altrove”. Dove l’avevamo già sentito questo ragionamento? Ma sì, Gamal Nasser il nuovo bellissimo rais dell’Egitto, il quale pensava che gli inglesi o gli americani avrebbero dovuto finanziare i suoi sogni un po’ faraonici come la diga di Assuan e che poi quando si vide sbattere la porta in faccia si rivolse a Mosca. Il gioco, visto oggi a ritroso, era abbastanza semplice, ma allora pochi capivano in che modo girasse il mondo. L’occidente americano era anticomunista e anche in Europa tiravano venti bipolari, nel senso che tutti i gruppi ex fascisti o neofascisti pensavano che fosse giunta la loro ora per tornare al comando. Al Comune di Roma si facevano le prove per giunte anticomuniste col sostegno missino. Ciò spingeva comunisti e socialisti a una radicalizzazione che poi, l’anno successivo, con il governo del democristiano Tambroni (formalmente di sinistra ma che si alleò con i neofascisti del Msi per avere la maggioranza) diventò un’insurrezione popolare con decine di morti e feriti. Quasi una rivoluzione, che Palmiro Togliatti riuscì a contenere e frenare ma che sconvolse il Paese creando premesse per altre inaspettate conseguenze. La situazione internazionale e specialmente cubana portò a riassetti drammatici nella mafia siciliana: il capo dei capi, l’idolatrato e indiscusso signore di tutte le cosche, il medico ma anche assassino nonché capo dei corleonesi Michele Navarra, fu fatto fuori sulla strada statale 118 in località San Isidoro. Si disse subito che a premere il grilletto era stato l’astro nascente del momento, e cioè Luciano Leggio detto – non si sa perché – Liggio. Si sparò per un paio di mesi col bilancio finale di nove morti ammazzati e uno strascico giudiziario eterno che vide alla fine tutti assolti, e stiamo parlando di nomi non ancora famosissimi, ma del calibro dei Provenzano, Liggio, Riina e Bagarella. Di mafia a quei tempi si parlava poco e di malavoglia anche nei tribunali. Il nome di Cosa Nostra diventerà un valore aggiunto portato da Buscetta, che diede a Falcone tutte le password necessarie per leggere il grande libro nero. Nei tribunali e nelle sentenze si parlava con distacco di criminalità organizzata. Ma la grande rete siciliana – quella della calabrese ‘ndrangheta era ancora un fritto misto di piccole ‘ndrine locali, tributarie della mafia siciliana e allora di poco conto – aveva santi in tutti i paradisi: servizi segreti italiani e stranieri, politica locale e nazionale, gerarchie ecclesiastiche, corpi di polizia e giornalismo. In quel coacervo ancora indistinto ed esplosivo come il Big Bang spiccava un personaggio di assoluto rilievo: Michele Sindona, che un quarto di secolo più tardi dopo finirà – come Gaspare Pisciotta, il cognato assassino di Salvatore Giuliano – avvelenato in carcere con una tazzina di caffè corretto. Sindona era un uomo spregiudicato e dinamico, si sentiva con le spalle coperte ed era capace di combattere mediaticamente. Viveva a Milano dove i siciliani di New York avevano una delle loro basi migliori in quegli anni, e nella capitale lombarda entrò nel giro d’affari della mafia ameri­cana attraverso Joe Adonis (al secolo, Giuseppe Antonio Doto, nato a Montemerano, presso Napoli, nel 1902 e che fino al 1972 ebbe lo stesso potere nazionale e internazionale di Lucky Luciano, di cui fu allievo fedelis­simo). Luciano durante la guerra aveva lavorato per la marina militare americana, costituendo un fronte del porto di New York contro le spie tedesche che trasmettevano ai sottomarini U-Boat della marina hitleriana le rotte dei convogli destinati alla Gran Bretagna perché fossero silurati e affondati. Il lavoro di questi mafiosi di New York a caccia di nazisti però fu poco più che una messinscena, utile soltanto per regolamenti di conti nella criminalità di Manhattan. Ma finché la guerra non finì, Lucky – che vuol dire “fortunato” – Luciano ebbe un trattamento carcerario principesco, con puttane, cuochi e camerieri, quadri d’autore e liquori, ma sempre chiuso dentro le turrite mura di Sing-Sing, oggi museo nazionale e curiosità storica. Quando la guerra si concluse, sperò di avere se non una medaglia al valore almeno un perdono per meriti patriottici. Ma non tirava più aria per tipi come lui e gli americani lo espulsero come indesiderato perché era arrivato clandestinamente da bambino senza mai procurarsi uno straccio di certificato che lo rendesse un cittadino americano. Così, fu scaricato all’alba da un bastimento nel porto di Napoli con bauli di vestiario, alla continua ricerca di giornalisti e cineasti con cui sperava di raccontare la propria storia e leggenda. Erano personaggi grandiosi, odiosi e terribili, questi mafiosi di New York, come don Vito Genovese, Carlo Gambino o il bandito finanziere Louis “Lepke” Buchalter che sapeva riciclare i proventi del crimine in fiorenti attività lecite. Adonis fu, come Luciano, uno dei gangster rispediti in Italia dagli Stati Uniti perché, come Luciano, ignoto all’anagrafe. Ma in Italia diventò presto famoso per la sua catena di ristoranti “Joe’s Italian Kitchen” dove riceveva americani di un certo livello cui faceva recapitare dai suoi camerieri armati buste piene di dollari. Questo, anche, era il giro in cui si ritrovò Michele Sindona, il quale entrò fin troppo nello spirito di questa società che sarebbe riduttivo definire semplicemente mafiosa. Fu attraverso i mille canali di affari, ricatti, guadagni, minacce e regolamenti di conti che Tommaso Buscetta trovò la sua strada per levarsi di dosso i fastidi di due accuse di omicidio, mettendosi agli ordini di un altro straordinario e quasi leggendario personaggio di questo mondo infernale: quel Salvatore Greco detto “Chicchiteddu” o anche “Ciaschiteddu”, ovvero l’uccellino, lo scricciolo, che con quella sua aria da passerotto comandava le truppe e le retrovie di Ciaculli e che bisognava sempre citarlo con i soprannomi per non confonderlo con altri e omonimi galantuomini, a loro volta distinguibili per soprannomi come “l’Ingegnere”, “il Lungo”, “il Senatore” o il fratello Michele Greco detto “u’ Papa”. Tutti personaggi con cui entrò in familiarità Buscetta arrivando fino a Lucky Luciano. Al governo nazionale si succedevano i democristiani di valore come Segni, Fanfani e Moro che però fra loro erano in ostile antagonismo, ognuno alla ricerca della formula magica per governare contro i comunisti, senza inimicarseli troppo e con l’aiuto dei fascisti, senza amicarseli troppo. Un gioco pericolosissimo che nel breve giro di un anno portò a tragiche conseguenze cui ancora prolungano i loro effetti.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1959

1° gennaio – Il dittatore Fulgencio Batista abbandona l’Avana e fugge da Cuba. Fidel Castro entra nella capitale del Paese in testa alle sue truppe.

8 gennaio – Al Palazzo dell’Eliseo in Francia, René Coty, ultimo presidente della Quarta Repubblica, passa le consegne a Charles de Gaulle, primo presidente della nuova Costituzione.

26 gennaio – Nel nostro Paese cade il secondo governo Fanfani. Il politico abbandonerà anche la carica di segretario della Democrazia Cristiana.

3 febbraio –  In un incidente aereo perdono la vita i giovani musicisti Richie Valens, Buddy Holly e J.P. “The Big Bopper” Richardson. È ricordato come il giorno in cui muore la musica.

15 febbraio – Il nuovo Governo italiano è presieduto da Antonio Segni.

9 marzo – Viene venduta la prima Barbie, bambola destinata ad avere un enorme successo commerciale.

14 marzo – Aldo Moro è il nuovo segretario politico della Democrazia Cristiana.

17 marzo – Dopo violenti scontri con gli occupanti cinesi, il XIV Dalai Lama fugge dal Tibet alla volta dell’India.

8 maggio – Viene festeggiata ufficialmente per la prima volta in Italia la festa della mamma.

17 maggio – Fidel Castro annuncia alla radio l’approvazione della legge per la riforma agraria. I terreni dei possedimenti americani sono espropriati.

31 luglio – In Spagna viene fondata l’ETA, un’organizzazione armata terroristica basco-nazionalista d’ispirazione marxista-leninista, il cui scopo è l’indipendenza del popolo basco.

24 settembre –  Inizia su Raiuno lo Zecchino d’Oro.

25 settembre – Si incontrano a Camp David il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower e il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Khruscev, dando avvio a una prima fase di distensione delle relazioni internazionali.

7 ottobre – La sonda russa “Luna 3” fotografa per la prima volta la faccia nascosta del nostro satellite.

21 ottobre – Viene inaugurato a New York il Guggenheim Museum, realizzato dall’architetto Frank Lloyd Wright.

29 ottobre – Esce in Francia sul periodico Pilote la prima storia a fumetti di Asterix.

1° dicembre – Firma del Trattato antartico.

2 dicembre – Nel Fréjus crolla la diga di Malpasset e l’inondazione che ne segue provoca 421 vittime. È il più grande disastro nella storia francese.

Storia d’Italia, 1960: l’anno delle Olimpiadi di Roma che trasformarono la città in un cantiere. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 26 Novembre 2020. Fu un anno di sangue e gioia, il 1960 con quell’aria così tonda, nitida, da anno-design. Eppure fu un anno anche terribile, oltre che pieno di vittorie e stupore, perché senza quasi preavviso scoppiò una mezza guerra civile antifascista con molti morti e feriti, anche l’avvenimento più grandioso, indimenticabile e pacifico fu quello delle Olimpiadi di Roma con Giovanni Berruti (un ragazzino, un anno più grande di me) che prese l’oro sui duecento metri e il grande Cassius Clay (che poi scelse il nome islamico Mohamed Alì) che conquistò il titolo di campione del mondo nei pesi massimi. Da allora la boxe è stata messa al bando in Europa e pochi possono ricordare le emozioni televisive in bianco e nero del combattimento di un uomo contro un uomo. Le Olimpiadi furono un evento fantastico, urbanistico, televisivo, di costruzioni gigantesche, quartieri interi che sorgevano per gli atleti – il Villaggio Olimpico – poi destinati a edilizia popolare. Ma fino all’inizio ufficiale dei giochi la città sembrava devastata da un terremoto di fango e invasioni aliene di macchinari scintillanti e giganteschi che ci davano la sensazione di essere primi al mondo nel trasformare una città antichissima in una Olimpiade per lo sport. Nacque così la “la Via Olimpica”, oggi tangenziale, che fece scoprire ai romani quanto si potesse correre su quella piccola autostrada che precorreva i raccordi anulari, con l’uso di due gallerie che erano state scavate per caso, un’iniziativa del ministro socialdemocratico Romita, per dar lavoro ai disoccupati messi senza avere idea di come avrebbero potuto essere utilizzate. E furono utilizzate. Ma mentre gli studenti soffrivano agli esami finali della maturità, giornali e telegiornali esplosero con titoli da guerra civile per i drammatici e inattesi “fatti di luglio” con scontri violentissimi fra operai, studenti e polizia che si conclusero col bilancio di una ventina di morti fra Reggio Emilia, Palermo, Genova e altre città italiane. Si trattò di una vera insurrezione, motivata da una mobilitazione antifascista per impedire che i neofascisti del Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante rientrassero nel gioco politico del governo e celebrassero il loro congresso nella città di Genova, medaglia d’oro della Resistenza. Tutto scoppiò a giugno quando i portuali di Genova – i “camalli”- che usavano un grosso uncino di ferro come strumento di lavoro per scaricare le balle dalle navi, ma anche un’arma leggendaria durante i combattimenti per strada, si radunarono e decisero di impedire ai neofascisti del Msi di fare il loro congresso e scorrazzare a loro piacimento per la città. La guerra era davvero finita? Assolutamente no, secondo una parte del Partito comunista che, ad anni dalla fine della guerra seguiva ancora la linea dell’antifascismo militante, militare e pronto alle armi. Niente fascisti, niente allarme antifascista. Ma le cose andarono subito lontano; l’organizzazione dei portuali e del partito a Genova se ne infischia dei divieti della prefettura e raduna gli iscritti e gli ex partigiani che vengono caricati dalla polizia, come previsto. Il partito, o almeno larga parte di esso, ha deciso di rispondere ai divieti di legge con una mobilitazione che nessuno avrebbe potuto pensare di sciogliere e così fu. La Genova rossa dei camalli, dei lavoratori puri e duri nell’unica città italiana in cui la Resistenza – guidata dal democristiano Paolo Emilio Taviani – ottenne la resa armata delle forze tedesche prima che gli americani arrivassero, dette alla capitale ligure un potere mai eguagliato da altre città. E la Genova rossa vince, La Cgil convoca i suoi iscritti, la Cisl lascia libertà di aderire, la Uil socialdemocratica è contro lo sciopero ma tutti sentono che la massa scesa in piazza non potrà esser respinta con la forza e così gli scontri si prolungano fino al 2 luglio quando il prefetto, cioè il ministero degli Interni, si arrende: il congresso del Msi che avrebbe dovuto celebrare il ritorno di un partito neofascista al centro, viene vietato. Ottenuta la vittoria il gruppo dirigente comunista della Cgil incassa la vittoria e da ordine di sospendere lo sciopero, cosa che fece autonomamente senza neanche dirlo ai socialisti. Pietro Nenni che era stato anche uno dei grandi leader della Resistenza commentò: «Com’era facile prevedere, la vittoria antifascista di Genova viene usata dai comunisti in termini di frontismo, di ginnastica rivoluzionaria, di vittoria della piazza, tutto il bagaglio estremista che pagammo caro nel 1919». Poi disse ai suoi di avere provato la stessa sensazione di quando piombò la notizia-bomba che il Partito comunista aveva dato ordine di fucilare Mussolini, senza consultarsi con gli alleati. Anche quella volta Nenni aveva masticato amaro, si era infuriato e poi però aveva subito dettato il titolo d’apertura del giornale socialista Avanti!: “Giustizia è fatta”. L’antefatto l’abbiamo accennato negli articoli precedenti: sedeva al Quirinale il presidente democristiano Giovanni Gronchi della sinistra Dc – un uomo che veniva dai popolari e che aveva combattuto la prima fase del fascismo e nel Quirinale era diventato famoso per la sua vita galante oltre che per un francobollo con la sua immagine stampata in un lezioso color rosa che fu prontamente ritirato dalla zecca dello Stato ma che diventò un carissimo pezzo per collezionisti: il famoso “Gronchi Rosa”. Gronchi aveva dato subito la sensazione di voler sdoganare i missini per poterli usare nel gioco parlamentare, tirandoli fuori dal cosiddetto “arco costituzionale” che li chiudeva in una sorta di ghetto da cui poi li tirò fuori Cossiga, il quale volle imporre come presidente del Consiglio incaricato e contro il parere del suo partito, un suo uomo, Fernando Tambroni che era anch’esso di sinistra – ricordo mio padre, un ingegnere conservatore, fuori dai gangheri per questa imposizione “di sinistra” del capo dello Stato – ma la Dc non voleva concedere al capo dello Stato un diritto che non gli competeva: quello di scegliere autonomamente il primo ministro, per lo più tra la cerchia dei suoi fidi, ignorando il partito democristiano con tutte le sue complicatissime regole e bilanciamenti interni. A Giorgio Almirante non parve vero di poter tornare in prima linea giocando d’azzardo offrendo a Tambroni la copertura parlamentare per sostenere il governo se i democristiani avessero abbandonato Tambroni. L’effetto fu esplosivo: i neofascisti erano davvero rientrati nel gioco politico da protagonisti e per suggellare la promozione chiesero e ottennero l’impensabile: celebrare il loro congresso a Genova, la città più antifascista d’Italia. Almirante abilmente giocò sia la questione di principio – siamo tutti legittimi rappresentanti – che avrebbe dovuto consentire lo sdoganamento del Msi la cui sigla sintetizzava il nome di Mussolini e che aveva per simbolo il feretro del duce da cui usciva una macabra fiamma ardente. A Botteghe oscure Togliatti era preoccupatissimo perché la frazione di sinistra guidata da Secchia ed altri erano favorevoli a qualsiasi forma di pressione popolare che rimettesse in discussione la posizione internazionale dell’Italia. Togliatti sapeva che questo doveva essere assolutamente evitato e che non avrebbe avuto neppure in caso di successo l’appoggio armato sovietico, così com’era successo nel 1947 quando una parte del partito comunista greco aveva deciso di insorgere per la conquista del potere ad Atene (assegnata all’Occidente) e Stalin non mosse un dito finché gli inglesi, occupanti in Grecia, non sterminarono gli insorti ridotti. Togliatti era stato spedito in fretta e furia da Stalin che lo fece svegliare dal numero uno del Comintern, Dimitrov, il quale trasmise ad “Ercoli” (nome di battaglia di Togliatti) l’ordine di tornare in Italia e far uscire il partito comunista dalla condizione di minuscolo partito militarizzato intransigente, per farne un partito aperto a tutte le alleanze, fino ai liberali, ai monarchici, certamente ai cattolici, purché uniti nel fronte antifascista. Fu quella che poi Togliatti elaborò nella famosa “Svolta di Salerno” con un ampio respiro, ma che comunque significava che i comunisti italiani avrebbero mantenuto la loro posizione in Occidente senza cedere alle forti pulsioni rivoluzionarie. Quelli che poi vennero furono i “fatti di luglio”. E quest’uso della parola apparentemente neutrale “fatti” veniva usata quando si dovevano denominare eventi controversi ma violenti con scontri, morti, occupazioni militari come era avvenuto ini Ungheria e accadrà in Cecoslovacchia. A Roma io mi trovai con altri studenti a Porta San Paolo dove fummo caricati a sciabola piatta dalla cavalleria dei carabinieri guidati dai capitani D’Inzeo, campioni olimpionici di equitazione e posso giurare che una carica di cavalleria è qualcosa di terribile e perduto, potente e inarrestabile perché i cavalli non hanno freni e neanche gli uomini che li cavalcano e ricordo benissimo questi ufficiali che sembravano usciti dal Regno di Umberto primo, con il busto proteso in avanti e la lama scintillante, che lanciavano fra loro parole inaudibili, brevi, militari e l’’apertura a ventaglio dei destrieri puntava nella nostra direzione. Noi fuggivamo come conigli davanti ai cani da caccia mentre quello squadrone di cavalleria cresceva di andatura per arrivare a noi come una forza invincibile per massa e velocità, preparata a travolgere, calpestare e se occorre ad uccidere. Niente a che fare con le camionette della Celere che per quanto brutali temevano i marciapiedi. Fu brutta e fantastica, fu terribile e incredibile. Indimenticabile, quei due fratelli e quell’odore dei cavalli, che avevamo perduto nella memoria. L’otto novembre di quel 1960 gli americani elessero John Fitzgerald Kennedy, giovane e amato miliardario democratico cattolico (il primo presidente cattolico, il secondo credo sia Biden, se non ha cambiato per strada) dopo il primo celeberrimo duello televisivo con Richard Nixon, l’ex vice di Eisenhower che si batté bene, ma vinse il bello e nuovo Kennedy, anche se suo padre era un noto trafficante di alcool che aveva usato il suo ruolo di ambasciatore a Londra per questo commercio illegale con gli Stati Uniti e dove peraltro, essendo irlandese, tifò in un primo tempo per i tedeschi. Si disse anche, con parecchie prove, che l’elezione di John avvenne perchè suo fratello Robert, procuratore, accettò di dare tregua al capo del sindacato mafioso Tom Giancana, che offrì i voti operai in cambio del favore. Ma allora nessuno conosceva questi ed altri dettagli. Il giovane Presidente sembrava perfetto e sarebbe entrato nella White House nel gennaio del 1961 per essere poi assassinato nel 1963 con un delitto di cui non si venne mai a capo. Era uscito anche un filmino divertentissimo con Peter Sellers che si chiamava Il ruggito del topo, e fu durante quel film al cinema Ritz che baciai la mia fidanzata, cosa che non era ancora così scontata. I fatti di luglio preoccuparono moltissimo gli alleati che videro l’Italia come un Paese in balia dei comunisti che prima avevano scatenato la protesta e poi l’avevano disciplinatamente riassorbita. Quanto era potente il Pci e quanto fragile il governo democratico? Questa domanda cominciò a diventare nella Nato una questione di tremenda importanza che avrà molte conseguenze nel 1964. quando il mese di luglio rivelò altri fatti e altri pretesi o veri complotti. “La Dolce Vita” diventò subito un’espressione internazionale coma “paparazzi” usata da Fellini. Anita Ekberg (“Anitona” da allora per tutti i romani che la desideravano come una Venere e l’adoravano come una Madonna) faceva il bagno nella Fontana di Trevi, Marcello Mastroianni arrostiva nell’eros le adolescenti del tempo, accadeva anche che qualche intellettuale si suicidasse e che la vita apparisse di colpo tanto dolce quanto insensata, elegante e inutile, banale e lussuosa. Tutto il mondo guardava all’Italia come un Paese eternamente artistico, vagamente corrotto, terribilmente sexy. Malgrado tutto.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1960

1° gennaio – Il Camerun proclama l’indipendenza. In Africa, nei mesi successivi sarà la volta anche di Senegal, Congo, Somalia (dall’Italia), Burkina Faso, Costa d’Avorio, Repubblica del Congo, Gabon, Nigeria e Mauritania.

3 febbraio – Esce nelle sale cinematografiche La dolce vita, uno dei capolavori di Fellini e tra i più celebri film della storia del cinema a livello mondiale. La Chiesa cattolica e la destra chiedono invano l’intervento della censura.

18 febbraio – A Squaw Valley in California iniziano gli VIII Giochi olimpici invernali.

29 febbraio – Un terremoto in Marocco uccide un terzo della popolazione di Agadir.

23 marzo – Antonio Segni si dimette da Presidente del Consiglio italiano.

8 aprile – Il nuovo Governo guidato da Fernando Tambroni ottiene la fiducia alla Camera dei deputati grazie ai voti della Dc, del MSI e di quattro ex deputati monarchici.

16 maggio – Il fisico statunitense Theodore Maiman inventa il primo laser.

22 maggio – Con magnitudo 9.5, si abbatte in Cile il terremoto più forte mai registrato. Il maremoto generato dalla scossa tellurica, oltre a distruggere tutti i villaggi lungo 800 km di costa, percorre 17.000 km e arriva fino in Giappone, dall’altra parte dell’Oceano Pacifico.

23 maggio – Il Governo israeliano annuncia l’avvenuta cattura in Argentina del criminale nazista Adolf Eichmann.

7 luglio – A Reggio Emilia durante gli scontri tra forze dell’ordine e lavoratori perdono la vita cinque operai. L’evento sarà noto come la Strage di Reggio Emilia.

10 luglio – L’Unione Sovietica si aggiudica la prima edizione del Campionato europeo di calcio, battendo in finale la Jugoslavia.

21 luglio – Nello Sri Lanka, Sirimavo Bandaranaike è eletta Primo ministro. È la prima donna al mondo a ricoprire tale carica.

20 agosto. Viene inaugurato a Fiumicino il nuovo aeroporto “Leonardo da Vinci”.

25 agosto – A Roma si aprono le XVII Olimpiadi. L’Italia grazie a 13 ori giungerà terza nel medagliere, alle spalle di Unione Sovietica e USA.

8 novembre – John Fitzgerald Kennedy vince le elezioni sconfiggendo il candidato repubblicano Richard Nixon e diventando così il 35° Presidente degli Stati Uniti.

13 novembre – Sammy Davis Jr. sposa May Britt. Il matrimonio tra l’artista di colore e l’attrice svedese desta scalpore, perché le unioni interrazziali sono all’epoca vietate in 31 dei 50 Stati degli USA.

25 novembre – Tre delle quattro sorelle Mirabal, attiviste politiche dominicane, vengono assassinate per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo. In loro memoria, questa data verrà ricordata come la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Storia d’Italia, 1961: la nascita del muro di Berlino che divise il mondo a metà. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 9 Dicembre 2020. Tirarono su il Muro di Berlino, nell’agosto del 1961, fra la gente che urlava vedendo che non sarebbe potuta tornare a casa. Gli innamorati furono divisi, i genitori dai figli, i vecchi restarono alla finestra a guardare mentre i “Vopo” (Volken polizei, polizia del popolo) della Repubblica Democratica tedesca costruivano in fretta e furia barriere di cemento per sbarrare la strada ai berlinesi impazziti per la disperazione, che cercavano di fuggire o tornare a casa. Per capire questa storia bisogna ricordare quel che era accaduto dopo la sconfitta del 1945 ai tedeschi vinti. La Germania era stata suddivisa in due Stati: uno sotto il controllo sovietico e l’altro integrato nel sistema occidentale. Berlino, che si trovava all’interno della Germania comunista, era a sua volta divisa in due zone: quella occidentale, governata con libere elezioni e uno stile di vita europeo, e quello sovietico. I tedeschi della Rdt da anni fuggivano in massa dalla zona comunista e Nikita Krusciov, il successore di Stalin, decise di metter fine a questa emorragia con un muro, dividendo secondo le linee della suddivisione militare i cortili e le strade, senza preavviso né pietà. Quel muro restò in piedi per ventotto anni, fin quando l’ultimo Segretario generale del Partito comunista sovietico Michail Gorbaciov decise di metter fine alla vergogna di quella barriera, che fu demolita come tutti sappiamo a furor di popolo. Ma nel 1961 nessuno aveva mai sentito parlare di muraglie che dividessero città, separando le famiglie, benché esistessero allora come oggi due Coree e due Vietnam, oltre alle due Germanie. L’Unione Sovietica era all’apice della sua potenza e anche del suo prestigio. Nel 1961 l’Urss spedì il primo uomo nello spazio: le foto di Jurij Gagarin con la sua avveniristica tuta da esploratore spaziale con i simboli della falce e martello, dominarono le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Si ripeté lo straordinario fenomeno di stupore, timore e ammirazione già visto con il lancio del primo satellite artificiale sovietico Sputnik. I russi sembravano largamente avanti rispetto agli americani e le loro imprese spaziali erano interpretate ovunque come il prodotto di un sistema culturale, scolastico e anche economico, vincente. Possiamo azzardare forse oggi un paragone con ciò che accade in Cina, dove la tecnologia sembra essere più sviluppata di quella americana e la potenzialità cinese, oltre che la sua reale attuale potenza, sembra avere prospettive ineguagliabili. Il mondo si stava abituando al fatto che tre personalità si stavano affermando come autentici leader: il segretario sovietico Nikita Krusciov, il Presidente americano John Kennedy e Papa Roncalli che aveva assunto l’inconsueto nome di Giovanni XXIII. Tutti si rendevano conto che il mondo era sempre sul ciglio del baratro, che una guerra nucleare era sempre più probabile, e che tuttavia si poteva lavorare molto sullo stato delle cose per impedire che la catastrofe arrivasse. E così, miracolosamente, accadde. La catastrofe non ci fu e noi siamo ancora qui a raccontarla. Gli Stati Uniti stavano attraversando una brusca crisi interna per la questione dei diritti civili degli afroamericani che erano ancora sottoposti nel Sud alle cosiddette “Leggi di Jim Crow”. Queste consistevano nell’apartheid delle persone di colore come in Sud Africa. I neri erano liberi da circa un secolo, ma segregati. Avevano combattuto per il loro Paese in due guerre mondiali, si erano imposti nella musica e nello sport, nella letteratura, ma negli Stati governati dai democratici – oggi sembra un paradosso, ma è così – vivevano vite separate e umilianti rispetto alla società dei bianchi. John Kennedy, il primo presidente cattolico e dunque non “Wasp” (sigla che sta per bianco, anglosassone e protestante) era deciso a distruggere il sistema della segregazione a costo di mandare l’esercito a scortare i bambini neri a scuola insieme ai bianchi, cosa che poi realmente avvenne anche se a realizzarla fino in fondo fu il suo successore e allora vice Lyndon Johnson, dal momento che Kennedy fu assassinato a Dallas alla fine del ‘63. L’era kennediana era cominciata sotto una cattiva stella perché proprio nel 1961 fu tentata la fallimentare invasione di Cuba degli esuli anticastristi armati ma non protetti dagli americani. Il piano era stato approvato dal presidente Eisenhower, quando l’America si era sentita provocata e scioccata dalla decisione di Fidel Castro di imboccare una via rivoluzionaria vicina a quella sovietica e antiamericana. In realtà Fidel aveva tentato in tutti i modi di ottenere dagli Stati Uniti prestiti sostanziosi per far decollare l’economia cubana, sottratta al giro delle case da gioco e dei bordelli che aveva prosperato sotto la presidenza di Fulgencio Batista e dei suoi amici legati alla mafia italiana. Così, Kennedy non seppe o non volle dire di no al tentativo degli esuli anticastristi, ma proibì qualsiasi appoggio militare americano. Fu in questo modo che l’avventura si concluse in un disastro: gli esuli cubani sbarcarono alla Baia dei Porci dove trovarono ad attenderli le truppe regolari cubane che li uccisero o catturarono tutti. Quello fu l’ultimo atto di una politica sciagurata che poi ebbe come conseguenza mozzafiato la crisi dei missili e la più grave crisi che portò il mondo a un passo dalla guerra. Proprio in queste settimane Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura ed ex Presidente peruviano, anticomunista e liberale, ha scritto un romanzo – Tiempos recios (Tempi duri) – in cui racconta i mille tragici e deplorevoli errori commessi dagli Stati Uniti nell’America Centrale e nei Caraibi, a partire da un inutile golpe nel 1954 in Guatemala. Quegli errori furono certamente una delle cause della conversione di Fidel Castro da libertario a comunista sempre più ortodosso, fino a consentire che sul suolo cubano i sovietici creassero basi di lancio per missili che minacciavano gli Stati Uniti a un passo dalla Florida. In Italia si parla (e si urla, ci si insulta con profonda ira) su un tema che sta maturando: il centrosinistra. Ovvero, l’ingresso dei socialisti del Psi di Pietro Nenni (che fino ad allora erano stati chiamati “socialcomunisti”) nella vagheggiata “stanza dei bottoni” (definizione di Nenni) aprendo a sinistra, sulla scia dell’enciclica papale “De rerum Novarum”. Amintore Fanfani e Aldo Moro, detti anche “i cavalli di razza della Dc” si inseguivano nella competizione per conquistare la mano dei socialisti. Negli anni successivi sarebbe accaduto il grande evento, ma già nel 1961 era un tema rovente. E lo era perché non si sapeva come l’avrebbero presa gli americani. E come l’avrebbero presa i russi. E il Pci di Palmiro Togliatti (che la vedeva malissimo). A quell’epoca nessuno ancora sapeva che la grande decisione di accogliere i socialisti nenniani (con falce e martello sovrapposti al vecchio simbolo del sole che sorge su un libro aperto) stava maturando proprio alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato e alla Cia, come poi molti documenti pubblici e pubblicati hanno dimostrato, cosa che in Italia era vietato dire e persino supporre. Io personalmente ho vissuto quell’avventura proprio nel nodo di congiunzione segreto, o meglio coperto, tra Italia e Stati Uniti. Ero uno studente e collaboravo con varie pubblicazioni per raggranellare un po’ di sostentamento e proprio attraverso il Partito socialista cui ero iscritto arrivai a uno straordinario settimanale che si chiamava Il Punto della Settimana, diretto da Vittorio Calef e cui collaboravano fra gli altri, Robert Kennedy fratello del presidente John, Pietro Nenni, Francois Fejto, pezzi del giornalismo comunista dissidente fra cui Alberto Jacoviello e una foresta di grandi firme. Quella rivista e alcune altre simili costituivano i lavori di preparazione di questo avvenimento incredibile: i socialisti italiani, alleati storici dei comunisti, stavano trattando per entrare nel Governo insieme a democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali. La Cia a quell’epoca era un’agenzia che oltre allo spionaggio vero e proprio usava l’arma culturale come strumento di penetrazione e di scontro con i sovietici. In quell’anno e nei successivi si svolgeva in Italia uno scontro violento nella cultura di sinistra e specialmente nelle arti figurative, tra modernisti favorevoli all’astrattismo e ortodossi di sinistra dediti al realismo socialista. La Cia sponsorizzava proprio nel 1961 e poi negli anni seguenti la promozione dei grandi pittori dell’astrattismo americano quali Jackson Pollock, Mark Rothko e gli altri di quella magnifica e controversa filiera. In Italia tutti gli artisti che erano stati fascisti dichiarati durante il Ventennio – praticamente tutti se si esclude Carlo Levi e, dopo le leggi razziali, Mario Mafai che aveva sposato una geniale artista ebrea lituana – guidati da Antonello Trombadori che era sia pittore che comandante partigiano e dirigente comunista, fecero atto di contrizione per le tentazioni astratte e si schierò con il realismo socialista imposto da Palmiro Togliatti. Ma non si trattava evidentemente di sciocche diatribe sull’arte. La Cia aveva intrapreso da tempo un’operazione di contrasto intellettuale in Europa e specialmente sulla Biennale di Venezia e sul mercato artistico. L’apertura a sinistra in Italia era un tema che coinvolgeva tutto: economia, letteratura, politica, ideologia, religione (“Ma per caso, questo Papa è comunista?”). Il kennedismo stava portando i suoi primi frutti e tutto l’asse politico ruotava allora intorno al privilegio che aveva il nostro Paese, considerato la “frontiera e cerniera” fra Est ed Ovest, con i comunisti più intelligenti e gli anticomunisti incoraggiati dai nuovi americani che sembravano gente brillante. Del resto definivano se stessi come “egghead” ovvero “teste d’uovo”, calve forse ma con molto cervello.

CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1961

3 gennaio – Il Presidente americano Eisenhower annuncia la rottura delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba.

17 gennaio – A Elisabethville viene assassinato l’ex Primo ministro congolese Patrice Lumumba.

20 gennaio – John F. Kennedy presta giuramento come 35° Presidente degli Stati Uniti d’America.

11 aprile – Bob Dylan debutta a New York.

12 aprile – Jurij Gagarin è il primo uomo nello spazio.

17 aprile – Esuli cubani, addestrati in Guatemala dalla Cia, invadono Cuba ma vengono respinti nella Baia dei Porci dalle Forze armate rivoluzionarie di Fidel Castro.

29 aprile – Viene fondato in Svizzera il Wwf.

15 maggio – Papa Giovanni XXIII promulga l’enciclica Mater et Magistra.

25 maggio – Kennedy annuncia l’inizio del Programma Apollo, finalizzato allo sbarco sulla Luna.

28 maggio – Peter Benenson lancia un appello a favore dell’amnistia per due giovani arrestati a Lisbona durante la dittatura di Antonio Salazar. La campagna di sensibilizzazione attrae migliaia di sostenitori e sfocia due mesi più tardi nella costituzione di un movimento per i diritti umani: Amnesty International.

31 maggio – Leonard Kleinrock, ricercatore del Mit, pubblica il primo articolo sulla commutazione di pacchetto, la tecnologia che sarà alla base di internet.

12 giugno – Un gruppo di terroristi compie in Alto Adige una serie di attentati dinamitardi. È la cosiddetta Notte dei fuochi.

2 luglio – Lo scrittore Ernest Hemingway si uccide con un colpo di fucile a Sun Valley, Idaho.

13 agosto – L’esercito della Repubblica Democratica tedesca inizia la costruzione del Muro di Berlino.

7 ottobre – A Parigi, un’imponente manifestazione pacifica, sostenuta da circa 30.000 algerini, viene repressa nel sangue dalla polizia su ordine dell’allora prefetto Maurice Papon. Le fonti ufficiali cercheranno di minimizzare l’evento e, ad oggi, non è ancora conosciuto il numero effettivo di morti, centinaia, e dispersi, migliaia.

25 ottobre – A Berlino, il dispiegamento di carri armati statunitensi e russi, da una parte e dall’altra del Muro, surriscalda una situazione già estremamente tesa.

30 ottobre – L’Unione Sovietica porta a compimento il lancio della Bomba Zar, avvenuto sull’isola di Novaja Zemlja, a nord del Circolo polare artico. È la più potente esplosione nucleare di tutti i tempi, circa 3.000 volte superiore a quella di Hiroshima.

11 dicembre – Gli Usa intervengono nella guerra del Vietnam.

15 dicembre – Viene emessa a Gerusalemme la sentenza di condanna a morte per il criminale nazista Adolf Eichmann.

Storia d’Italia, 1962: la morte di Marilyn e la nascita dei Beatles. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 17 Dicembre 2020. La rivoluzione dei favolosi e neanche ingiustamente famosi anni Sessanta comincia nel 1962: decolla il mito dei Beatles e dei Rolling Stones, la stella delle stelle sexy del cinema, Marilyn Monroe muore suicida o assassinata o per overdose, ma muore. L’America kennediana fa tutte le mosse d’apertura per andare alla guerra con i russi che hanno impiantato un prato di missili nel giardino di Cuba e il mondo trattiene il fiato: giorni di blocco navale facce da poker con dialogo minaccioso: o voi portate via quei missili o vi butteremo fuori noi a mano armata. Noi non ce ne andiamo se voi non toglierete i vostri missili dalla Turchia che sono alla stessa distanza dei nostri a Cuba. Possiamo parlarne, ma intanto sappiate che vi considereremo responsabili di ogni mossa di Fidel Castro. Fidel Castro esaltato, offeso, felice, furioso, apocalittico. Kennedy lo tratta da burattino dei russi e lui lo minaccia personalmente. Poi fu Kennedy a prendersi una pallottola nel cranio, ma quella sarà una puntata successiva. Finì a male parole ma le armi tacquero e la guerra non scoppiò. Il giovane presidente Kennedy vinse il suo duello con i sovietici e Krusciov, il successore di Stalin pagò cara la sua resa perché quella faccenda lo portò rapidamente alla caduta dal trono di segretario generale del Pcus, equivalente al trono di Presidente degli Stati Uniti. Mentre ripercorrevo i materiali di quell’anno, mi sono imbattuto nella versione Rai di Napoli milionaria di Eduardo, che andò in onda quell’anno e che potete rivedere per scoprire le radici del mondo recente, un mondo di borsa nera e di ipocrisia feroce. Dire capolavoro è poco, regalatevi due ore di ritorno al passato. Il Pil italiano volava come oggi quello cinese: un razzo, come era un razzo quello tedesco. I due Paesi che avevano perso la guerra andavano fortissimo, il Regno Unito che l’aveva vinta era alla povertà e alla disperazione, con i conservatori in crisi e i laburisti sempre più socialisti e repubblicani. L’Africa smetteva – in particolare quell’anno – di essere una collezione di colonie europee e diventò un nuovo continente pieno di nuovi Stati. Non per questo gli europei se ne andarono dall’Africa, ma cercarono a tutti i costi di restare nel continente ricco di materie prime. In fondo noi italiani possiamo dirci davvero fortunati ad aver perso la guerra mondiale ed essere rimasti senza colonie: pensate se negli anni Sessanta avessimo dovuto – come capitò alla Francia, all’Inghilterra, al Belgio – invischiarci nelle guerriglie coloniali tutte destinate alla sconfitta nel dolore e nel disonore. La Francia perde definitivamente l’Algeria, un trauma enorme perché l’Algeria aveva il rango di “territorio metropolitano” e non di colonia. Milioni di francesi che vivevano in Africa tumultuano, rientrano in patria portandosi dietro una gran quantità di arabi musulmani che poi diventeranno il substrato di quei sei milioni di francesi islamici della cui integrazione ancora si discute dopo due generazioni di radicamento in Francia. L’Inghilterra si riempie di pakistani, poiché il Pakistan si è separato dall’India. La febbre francese raggiunge punti caldissimi e si registra il primo attentato alla vita del generale e presidente Charles de Gaulle, il quale reagisce mettendo in azione i corpi speciali dei “barbouzes”, le barbe finte con licenza di uccidere, come è ben spiegato nel bellissimo film Nikita. L’Italia marcia spavalda e specialmente al Nord fa tonnellate di soldi. Tutti si indebitano perché si sentono garantiti da uno sviluppo senza limiti, anche grazie a una posizione internazionale di rispetto. Sul piano energetico, poi, era una temuta potenza. E infatti, proprio nel 1962 Enrico Mattei, un ex partigiano cattolico che aveva trasformato l’Eni in un competitore delle maggiori compagnie petrolifere, ci lascia la pelle per un incidente aereo causato da un cacciavite dimenticato nel motore del suo jet. Amen. Intanto la Democrazia Cristiana va avanti nel suo progetto di incamerare i socialisti di Nenni, staccandoli per sempre da comunisti che però non sono scemi e introducono tutte le loro forze per contendere loro spazio. Nel Psi si formano le frazioni di sinistra di Lelio Basso e Tullio Vecchietti che non ne vogliono sapere. I socialdemocratici premono per avere il Quirinale e cercano di imporre il loro leader Giuseppe Saragat mentre il presidente uscente Giovanni Gronchi recalcitra perché pretende di fare un secondo settennato, cosa che finora non è riuscita a nessun presidente, benché la Costituzione non lo vieti. I democristiani mandano a quel paese Gronchi che aveva messo nei guai il partito formando il suo “governo del presidente” che aveva affidato lo scettro a Fernando Tambroni, cosa che aveva provocato nel 1960 insurrezioni con gravi scontri e molti morti quando i neofascisti del Msi – che garantivano la maggioranza a Tambroni, aveva chiesto di svolgere il loro congresso a Genova, città partigiana dominata dal democristiano Paolo Emilio Taviani. Tirava di nuovo una brutta aria, ma la Dc riuscì a respingere le fantasie presidenzialiste di Gronchi e a far cadere la candidatura di Giuseppe Saragat, riuscendo a far prevalere per pochi voti uno dei suoi padri nobili: il professor Antonio Segni, un conservatore sardo con scarse simpatie per il nascente centrosinistra. Intanto, il nuovo papa Giovanni XXII che nelle intenzioni del concistoro avrebbe dovuto essere per motivi d’età un papa di transizione che rendesse meno spigolosa l’ascesa al trono di Giovan Battista Montini, un intellettuale e diplomatico che aveva svolto il ruolo di ministro degli esteri di Pio XII. Papa Roncalli passava per il “Papa buono” per il suo aspetto gioviale e il suo accento rurale lombardo, ma anche lui veniva da un ceppo vaticano di diplomatici e politici di rango. Roncalli non aspettò di essere sostituito da un intellettuale magro e introverso come Montini che sarà il suo successore, e compì un gesto veramente rivoluzionario convocando il Concilio Vaticano Secondo, che sconvolse usi e tradizioni della Chiesa cattolica apostolica romana, a cominciare dalla messa al bando del latino come lingua ecclesiale, come anche di tutti gli abiti che avevano obbligatoriamente distinto il clero dal resto della popolazione. Fra grandi meraviglie, sorprese, applausi e disperazioni, nasceva il clergyman, il prete in giacca e pantaloni e le suore in severi tailleur. Ma cominciava, oltre questi aspetti formali, un ripensamento globale della Chiesa cattolica su sé stessa, cui parteciparono tutte le famiglie del cattolicesimo mondiale su un proscenio teatrale di grandissimo impatto emotivo. I tradizionalisti di tutto il mondo erano infuriati, i rinnovatori erano felici. Dunque, l’economia tirava, l’aria di guerra fredda si faceva di tanto in tanto molto calda, ma l’Italia prosperava così come prosperava la commedia all’italiana, con Alberto Sordi, Gino Bramieri, i fratelli De Filippo, Totò, le battute sessuali erano pesanti, andavano ancora le “maggiorate fisiche”, correvano le Vespe e le Lambrette, le Seicento e ormai anche la Cinquecento per guidare la quale dovevi imparare a fare la “doppietta”, cioè cambiare marcia senza usare la frizione ma solo sentendo ad orecchio il numero di giri dal ronzio del motore. Le gonne si raccorciavano pericolosamente, si marciava ormai verso la minigonna che avrebbe messo in mostra tutto ciò che prima era proibito mostrare, mentre la libertà sessuale che cresceva spontaneamente insieme alla nuova evoluzione imponeva i nuovi impensabili traguardi del controllo delle nascite. L’uso libero dei contracettivi, e poi la pillola e i consultori con l’impegno di pionieri come Luigi De Marchi ed altri leader liberali e radicali rivoluzionari, invisi sia ai cattolici che ai comunisti i quali non gradivano lo scardinamento della famiglia tradizionale. Palmiro Togliatti era stato guardato malissimo nel suo stesso partito per la sua relazione con Nilde Jotti benché avesse una moglie e un figlio a Mosca, sicché nella vita sociale italiana era molto più facile mettere d’accordo Peppone (il comunista emiliano ortodosso inventato da Giovannino Guareschi) con Don Camillo (suo antagonista prete, ma in fondo fratello bonario) piuttosto che quella frangia di mangiapreti non ortodossi fautori e difensori della libertà sessuale, che formeranno la spina dorsale del partito radicale, nato da una costola del Partito liberale. La Francia ci precedeva con una cinematografia sfrontata e delicata che fu chiamata “nouvelle vague”, la nuova ondata di una estetica drammatica e sessualmente limpida con opere come Jules et Jim di Francois Truffaut. Ma in Italia era anche l’anno del Sorpasso di Dino Risi mentre gli inglesi scendevano in campo con Peter O’ Toole nei panni arabi di Thomas Edmund Lawrence, più noto come Lawrence d’Arabia. E poi Stanley Kubrick osava ciò che oggi sarebbe inosabile, filmando Lolita, ovvero la storia erotica di un uomo adulto con una tredicenne. Ma il colpo dei colpi, l’autentico shock della rivoluzione cinematografica fu il primo, inaudito 007, licenza di uccidere, con Sean Connery e Ursula Andress. Noi che lo vedemmo allora eccitati e sbalorditi provammo una emozione ambigua erotica e cinica che consisteva nel parteggiare per un eroe che uccideva senza provare emozioni e seduceva le donne più belle anche mentre quelle cercavano di assassinarlo, ma mai prima di aver avuto il loro meritato orgasmo. James Bond (“Il mio nome è Bond: James Bond”) era molto schizzinoso e intollerante sulla ricetta del Martini cocktail: mescolato o shakerato? Questo il problema. Impallidivano dunque gli eroi enfatici per lasciar spazio agli eroi spietati, le donne non erano ancora femministe ma guardavano a Carnaby Street dove Mary Quant tagliava altri centimetri di gonna fino all’inguine, come vessillo di una libertà che da noi era tutta da conquistare con lenta e dolorosa fatica. Da noi, l’adulterio era ancora reato penale ma in galera andavano soltanto le donne perché trionfava ancora il motto secondo cui “peccato di pantalone, pronta assoluzione”, il che spiega bene come mai il tema più arato della allegra cinematografia italiana di quegli anni fossero le corna, in tutte le variazioni e sfumature, ma sempre corna.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1962

3 gennaio – Papa Giovanni XXIII scomunica Fidel Castro.

2 marzo – Wilt Chamberlain realizza 100 punti nella partita di Nba tra Philadelphia Warriors e New York Knicks.

18 marzo – Firma dell’accordo tra Francia e Fronte di Liberazione Nazionale per il riconoscimento dell’indipendenza dell’Algeria.

6 maggio – Al nono scrutinio, Antonio Segni è eletto Presidente della Repubblica Italiana.

31 maggio – Adolf Eichmann, uno dei principali responsabili della Shoah, viene giustiziato nel carcere Ramleh di Tel Aviv.

2 giugno – L’Armata Rossa uccide decine di persone durante una manifestazione di protesta in una città sovietica, l’evento prenderà il nome di Massacro di Novočerkassk.

3 giugno – Un Boeing si schianta durante il decollo dall’Aeroporto di Orly a Parigi. Su 132 persone, sopravvivono due membri dell’equipaggio seduti nella poppa dell’aereo.

11 giugno – Frank Morris e i fratelli John e Clarence Anglin evadono dalla prigione di Alcatraz. Dichiarati affogati nella baia di San Francisco, i loro corpi non verranno mai ritrovati.

5 agosto – L’attrice Marilyn Monroe viene trovata morta nella sua casa a Brentwood, Los Angeles. In Sudafrica, Nelson Mandela è arrestato e incriminato per incitamento alla ribellione.

15 agosto – Negli Stati Uniti esce il numero 15 della testata Amazing Fantasy, in cui debutta L’Uomo Ragno.

17 agosto – Peter Fechter viene ucciso per aver provato a passare da Berlino Est a Berlino Ovest.

18 agosto – Va in scena il primo concerto dei Beatles.

26 settembre – Esplode la guerra civile in Yemen.

27 settembre – Un’inondazione a Barcellona uccide più di 440 persone.

1° ottobre – James Howard Meredith è il primo nero a iscriversi all’Università del Mississippi.

5 ottobre – Esce in Inghilterra il primo film di James Bond.

11 ottobre – Si apre a Roma il Concilio Ecumenico Vaticano II.

16 ottobre – Scoppia la Crisi dei missili di Cuba.

27 ottobre – In circostanze misteriose precipita a Bascapè (Pavia) l’aereo di Enrico Mattei.

28 ottobre – Fine della Crisi dei missili di Cuba. Il leader sovietico Krusciov annuncia di aver ordinato la rimozione della base missilistica a Cuba. In un accordo segreto, anche Kennedy accetta di smantellare una base americana in Turchia.

1° novembre – Esce in edicola il primo numero del fumetto Diabolik.

6 novembre – L’Assemblea generale delle Nazioni Unite condanna l’Apartheid sudafricana.

7 novembre – L’Urss lancia nello spazio la prima sonda diretta verso Marte, ma questa si perderà a 106 milioni di chilometri dalla Terra.

Storia d’Italia, 1963: il sogno di Luther King e quello spezzato di JFK. Paolo Guzzanti su su Il Riformista il 30 Dicembre 2020. Perdonatemi la libertà di ricordare l’anno, il 1963, a partire da un fatto privato: il 25 luglio (venti anni dopo quello della caduta del fascismo) nacque la mia prima figlia Sabina in una notte di urgano di fine luglio. Spesi quella notte per aggredire gli scassatissimi telefoni pubblici, in panne per quella che oggi si chiamerebbe una bomba d’acqua e che era soltanto un acquazzone, per dare al mondo la notizia. Poi presi in braccio Sabina che mi stupì per l’aria serena sicché millantai che mi avesse detto: poi mi spiegherai tutto, vero? Dalla finestra della clinica si vedeva la basilica di Santa Sabina da cui scegliemmo quel bel nome romano che poi, a causa di un film di Audrey Hepburn, tutti hanno storpiato in Sabrina, con una “erre”. Pazienza. Ma il vero evento che sconvolse la vita e la fantasia di tutto il pianeta alla fine di novembre fu l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, leader del mondo occidentale, quello che aveva detto: «Non chiedere al tuo Paese ciò che tu vuoi, ma dì al tuo Paese che cosa sei pronto a dare». Bella frase. Una fucilata secca dalla finestra di una biblioteca scolastica gli fece volare via una scheggia di cranio. La moglie, sbalordita cercò di rimettergliela a posto. Pochi mesi prima, questo americano eroe di guerra, era salito su un palco eretto contro il terribile muro che aveva diviso le famiglie dell’ex capitale tedesca e disse: “Ich bin ein Berliner”, io sono un berlinese. Delirio della folla e del mondo. Da chi partì l’ordine di uccidere il Presidente, non si è mai saputo malgrado anni di inchiesta. Lee Harvey Oswald, il giovane che lo aveva ucciso con un fucile italiano Carcano modificato, era tornato dall’Unione Sovietica con una moglie russa e fu ammazzato durante un trasferimento in manette davanti alle telecamere con una revolverata sparata da un certo Jack Ruby, malato terminale di cancro. Fidel Castro pronunciò parole beffarde lasciando intendere che Kennedy se l’era cercata. Si disse che il complotto fosse stato ordito dai democratici del Sud di cui il vicepresidente Lyndon Johnson – che successe il giorno stesso a Kennedy giurando su una bibbia sgualcita – era considerato il garante. Secondo questa teoria i razzisti avrebbero eliminato Kennedy per bloccare l’integrazione prevista dal rivoluzionario programma della “nuova frontiera” che avrebbe fatto degli afroamericani dei cittadini con pari diritti in tutti gli Stati, anche nel Sud. Ma se questo fosse stato il movente, si rivelò sbagliato: Johnson usò il pugno di ferro come avrebbe fatto Kennedy per imporre l’integrazione nelle scuole, nei mezzi pubblici e nei posti di lavoro negli Stati guidati da democratici razzisti appoggiati dal Ku Klux Klan. Contrariamente a quel che molti credono, i repubblicani guidati da Abraham Lincoln furono quelli che scelsero la guerra civile contro i democratici affinché “tutti gli uomini fossero uguali come li ha creati Dio”. Tutti ricordano dove si trovavano quando arrivò la notizia della morte di Kennedy. Io ero a Torino per il mio primo servizio a un convegno di politica internazionale in un consesso di ambasciatori, cattedratici, analisti ed esperti che rimpiangevano la candidatura di Adlai Stevenson, un’autentica “testa d’uovo” famoso per aver detto ai sovietici: «Smetteremo di dire la verità su di voi quando voi smetterete di dire bugie su di noi». Le fucilate dalla biblioteca comunale di Dallas cambiarono sia il corso della storia, che quella immaginaria di ciascuno. Capimmo quanta attenzione meritasse l’America. Jacqueline Kennedy indossò per due giorni il vestito rosa macchiato di sangue e fu per questo molto biasimata. Ebbe inizio il più grande romanzo popolare collettivo di ogni tempo: un romanzo senza finale ma con infiniti colpi di scena. Qualcosa di simile capiterà a noi italiani sei anni dopo con la strage di piazza Fontana del 12 dicembre del 1969, la morte dell’anarchico Pinelli precipitato dalla finestra della Questura, la teoria della “Strage di Stato”, con una mente già allenata dai delitti e dai complotti americani, con i servizi segreti deviati e gruppi eversivi dati genericamente per “fascisti” anche quando erano legati alla rete del KGB sovietico non meno potente della Cia. Il mondo, con l’America, aveva vissuto la morte del Presidente, poi di suo fratello Bob, quella di Martin Luther King che nel 1963 aveva pronunciato il suo spettacolare e storico discorso «I have a dream: ho sognato che questo Paese potrà mettere in pratica i suoi principi di eguaglianza visto che tutti gli uomini sono stati creati uguali». Fucilato. Come Malcolm X. L’Unione Sovietica nel 1963 confermò il suo primato spaziale spedendo in orbita la prima donna in tuta da astronauta: Valentina Tereshkova. Ma fu anche l’anno in cui Kennedy, prima di morire, decise di impegnare gli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, poi persa dopo anni di divisioni interne che portarono il mondo ad una crisi di coscienza e l’Occidente a un confronto sempre più rude con l’Unione Sovietica e la Cina. Ciò che Kennedy e poi Johnson non capirono, fu l’identità del nemico: pensavano a un guerrigliero nella foresta e si trovarono di fronte un potente esercito convenzionale armato di tutto punto da russi e cinesi, composto da divisioni, reggimenti, plotoni e una partecipazione popolare di donne che nessuno immaginava Quella guerra precipitò anno dopo anno la società americana in un inferno con canzoni, film, marijuana, droghe sintetiche e psichedeliche. crisi di coscienza collettive, il trionfo delle canzoni di Joan Baez e di Bob Dylan. La condanna della guerra era unanime: in Europa la capeggiava il filosofo Bertrand Russell, ma Johnson la intensificò portando i bombardamenti a livelli distruttivi mai conosciuti, furioso con gli inglesi che avevano lasciati soli i cugini americani. Fu così che la regina Elisabetta dovette spedire la sua disinvolta sorella Margaret a chiedere un cospicuo prestito alla Casa Bianca, che ottenne dopo una nottata di ubriachezza e una gara di strofette oscene con Johnson, pazzo di lei. Finì il suo tempo nel 1963 anche Papa Giovanni XXIII, marchiato come “il Papa buono” benché fosse anche un eccellente politico, un anticomunista con simpatie per i socialisti. La sua morte commosse i non credenti che corsero a piazza San Pietro per rendere omaggio a un uomo che ha fatto di tutto per evitare la guerra: si chiudeva l’epoca delle tre icone “buone”: Kennedy, Krusciov e Papa Giovanni. Gli successe Giovan Battista Montini come Paolo VI, un intellettuale onesto, non sostenuto, si diceva, da una fede ferrea: toccò a lui tenere le redini della Chiesa fino all’uccisione di Aldo Moro nel 1978, quindici anni dopo. Ma ancora nel 1963 noi maschi portavamo capelli corti e niente barbe. Le ragazze avevano scoperto il diritto a fare sesso senza necessariamente spacciarlo per amore, come i maschi. Alcuni di noi maschi di frontiera avevamo letto la psicoanalisi francese sulla femminilità e discutevamo astrattamente della nuova paternità: essere «dalla parte delle bambine e delle donne. cominciando a non dire stai composta chiudi quelle gambe. Forse ai maschi si dice “chiudi quelle gambe e stai composto?» Il mondo delle tradizioni era profondamente inquieto. Le nonne brontolavano, il clero conservatore era furioso contro questi nuovi papi bizzarri e in chiesa e col latino spariva anche il prete in palandrane ricamate circondato da chierici che facevano pendolare dei bracieri d’incenso. Ora la Chiesa diventava una fucina di intellettualità in conflitto fra conservatori e rivoluzionari e dall’America Latina arrivavano le notizie dei “curas” (parroci) che portavano sia il crocefisso che il mitra, seguendo più o meno la “teologia della liberazione” mentre arrivava il primo album dei Beatles. Io facevo parte di quelli che cantavano le canzoni della guerra di Spagna e quelle d’amore francese. Prendeva vita sugli schermi televisivi il lamentoso pulcino Calimero e tutti attendevano il programma pubblicitario Carosello per dichiarare aperta la serata e l’ora di cena la serata. Eravamo in ebollizione e la lira girava molto perché tutti fabbricavano o intraprendevano qualcosa. Ma la disgrazia arrivò a causa di una diga. Il 9 ottobre del 1963 fu il giorno dell’immane sciagura del Vajont quando gli abitanti di Longarone erano a cena a guardare Carosello e così furono presi dalle acque, furono affogati come topi e di loro non rimase neppure l’urlo, ma solo una sostanza limacciosa. Il generale De Gaulle, Presidente della Francia non trascurava occasione per esprimere il suo disprezzo per gli inglesi e scommetteva che l’Inghilterra non sarebbe mai davvero entrata in Europa. L’Inghilterra intanto faceva la corte all’America di Re Artù, ovvero la Casa Bianca di John e Jacqueline Kennedy che ancora nel 1963 viaggiavano dominando il mondo con il loro charme. E benché l’elegantissima Jackie considerasse la regina Elisabetta una sciatta donnetta costretta a vivere in una casa orrenda, a quattr’occhi le rivelò le pene del suo matrimonio di facciata con il bel Presidente, violento e donnaiolo. Elisabetta ascoltò e dopo un attento silenzio disse soltanto: “Oh!”. L’Inghilterra perdeva pezzo dopo pezzo l’impero più grande del mondo e di tutti i tempi che aveva compreso Canada, Regno Unito, India, Australia e Nuova Zelanda e tutta l’Africa orientale dall’Egitto a Città del Capo. Il mitico “Empire” per cui si era battuto Winston Churchill cedeva alla profetica filastrocca sulla triste fine di un re uovo sodo, Humpty Dumpty, che si fracassò senza che più nessuno riuscisse a rimetterlo insieme. Inoltre, gli irlandesi stavano per riprendere la guerra civile per la definitiva indipendenza raggiunta dopo decenni di morti, esecuzioni, bombe come quella che farà saltare in aria il duca di Mountbatten zio del marito di Elisabetta. In Italia intanto la svolta a sinistra marciava a tappe forzate: i socialisti erano spaccati e riuniti da secessioni e unificazioni, divisi sulla politica delle nazionalizzazioni teorizzate Riccardo Lombardi, seguendo la moda anche dei laburisti inglesi. Ma nasceva anche la questione della Rai, che era stata sempre un dominio democristiano, ma aperto a tutti specialmente ai comunisti. Adesso i socialisti volevano il loro presidio e dopo qualche anno avrebbero ottenuto la loro rete. Tutto era ancora in bianco e nero e persino i film al cinema non erano tutti a colori. I cinema si dividevano in prima, seconda e terza visione, cui si aggiungevano le sale parrocchiali che incassavano soldi a palate con i filmetti comici popolari che ancora nessuno aveva considerato capolavori con il repertorio di Totò e Aldo Fabrizi, mentre cresceva nei teatri l’umorismo surreale di Renato Rascel che passeggiava sul palcoscenico dicendo: “Vedono? Loro, sono sempre lì che vedono?”. E tutti ridevano per l’effetto liberatorio dell’incomprensibile.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1963

11 febbraio. Si suicida Sylvia Plath.

21 marzo. Chiusura del penitenziario di Alcatraz.

8 aprile. Il film Lawrence d’Arabia vince sette premi Oscar.

11 aprile. Papa Giovanni XXIII pubblica l’enciclica Pacem in Terris.

2 maggio. A Birmingham, in Alabama, migliaia di neri sono arrestati mentre protestano contro la segregazione.

7 maggio. Nasce la casa automobilistica Lamborghini.

27 maggio. Esce l’album “The Freewheelin’ Bob Dylan”.

3 giugno. Muore a Roma papa Giovanni XXIII.

16 giugno. Valentina Tereshkova è la prima donna cosmonauta.

21 giugno. Il cardinale Giovanni Battista Montini viene eletto papa con il nome di Paolo VI.

30 giugno. In un attentato effettuato da Cosa Nostra perdono la vita sette uomini delle Forze dell’ordine: è la Strage di Ciaculli.

11 luglio. In Sudafrica, Nelson Mandela viene accusato di sabotaggio.

8 agosto. Assalto al treno postale Glasgow-Londra: una banda di quindici rapinatori ruba 2,6 milioni di sterline in banconote.

28 agosto. Martin Luther King tiene il discorso “I have a dream” davanti al Lincoln Memorial di Washington.

10 settembre. Bernardo Provenzano è incriminato. Il mafioso inizierà una latitanza lunga 43 anni.

29 settembre. Si apre la seconda parte del Concilio Vaticano II.

4 ottobre. L’uragano Flora si abbatte su Cuba e Hispaniola uccidendo quasi 7.000 persone.

8 ottobre. In Louisiana, Sam Cooke e la sua band vengono arrestati per aver cercato di registrare una canzone in un hotel riservato ai bianchi.

9 ottobre. Una frana si stacca dal monte Toc e precipita in un bacino artificiale al confine tra Friuli e Veneto, provocando un’onda che travolge e distrugge il paese di Longarone. L’evento, in cui muoiono quasi 2.000 persone, assumerà il nome di Disastro del Vajont.

10 ottobre. Muore Édith Piaf.

10 novembre. Malcolm X pronuncia uno storico discorso a Detroit.

22 novembre. A Dallas, in Texas, una serie di colpi d’arma da fuoco raggiunge e uccide John F. Kennedy mentre sta transitando con il corteo presidenziale. Lyndon B. Johnson giura come suo successore.

24 novembre. Lee Harvey Oswald, ufficialmente unico colpevole dell’omicidio Kennedy, viene ucciso nei sotterranei della polizia di Dallas da Jack Ruby.

25 novembre. Si svolgono a Washington i funerali di Kennedy alla presenza di oltre 90 capi di Stato e una folla di 300.000 persone.

8 dicembre. Frank Sinatra Jr. viene rapito.

10 dicembre. Giulio Natta riceve il premio Nobel per la chimica.

Storia d’Italia, 1964: dalla morte di Togliatti al Piano Solo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Gennaio 2021. È possibile che non esista un anno, del passato così come del presente e futuro, che sia un anno normale? In cui non sia accaduto nulla di speciale e che non abbia seminato uova di serpente che si sarebbero poi schiuse più tardi, molto più tardi? Questo reportage settimanale sugli anni passati che sto rimettendo insieme per il Riformista a partire dal 1945 quando ancora si combatteva e che arriverà – al Covid piacendo – fino ai nostri giorni non è esattamente un’opera storica, me neppure soltanto un esercizio della memoria. Nel 1964, io ero un giornalista di giorno, lavoravo la notte come correttore di bozze, avevo una figlia e raccoglievo, allora come oggi, appunti e infiniti ritagli di giornali con cui per anni ho invaso le case che ho abitato di spazzatura, superato dalle miracolose tecnologie di oggi. Ma gli strumenti che uso sono sempre e solo due: la mia memoria personale (con tutti i suoi limiti, ma anche con un certo ordine) e gli annuari che chiunque può consultare e che anzi raccomando ai lettori perché anno per anno si trovano gallerie fotografiche magnifiche. Ma anche in questa puntata mi trovo di fronte a un anno terribilmente importante perché accaddero cose di grandissima portata per il futuro, ma di cui – lo ricordo bene – nessuno si rendeva conto. Il mondo era ben diviso fra i due blocchi e i comunisti occidentali erano più o meno solidali con quelli sovietici, ma con alcune insofferenze e capricci. Tutti sapevano in Occidente come se la passavano nel blocco sovietico ma si preferiva non parlarne. In quell’anno, il 1964, ci fu un cambio della guardia epocale in Unione Sovietica con Leonid Breznev dalle cespugliose sopracciglia e un’espressione da sfinge che nel tempo sarebbe apparsa sempre più simile a quella di una mummia, e ci fu un cambio della guardia negli Stati Uniti dove il “presidente per caso” Lyndon Johnson (lo diventò nel momento in cui una fucilata esplosa da Lee Harvey Oswald fece saltare il cranio del presidente Kennedy, come abbiamo ricordato nella precedente puntata) vinse le elezioni di novembre e mandò avanti sia l’inutile e devastante guerra nel Vietnam che la storica decisione di integrare nei diritti civili tutti i cittadini americani e dunque anche i discendenti degli ex schiavi trattati come cittadini privi di diritti civili e segregati dai bianchi. Contemporaneamente, un altro Stato stava compiendo il cammino esattamente contrario ed era il Sud Africa, già perla dell’Impero britannico, che si distaccava dalla madrepatria inglese per diventare uno Stato razzista e segregazionista in cui l’apartheid avrebbe funzionato come campo di concentramento. L’impero britannico crollava pezzo per pezzo e di tanto in tanto dava segni di reazione muovendo le sue truppe o i suoi aerei come accadde quando fu bombardata Aden, nella riprovazione generale. Gli Stati Uniti erano ormai la superpotenza totale insieme all’Unione Sovietica, ma l’Impero colpiva ancora e avrebbe avuto il suo ultimo sussulto con la crisi di Suez di tre anni dopo. Ma l’Africa era in rivolta anche per la protezione che l’Urss e la Cina di Mao offrivano a tutti i movimenti indipendentisti, sicché si andava formando quel gruppo di Paesi cui sarebbe stato dato l’ambiguo nome di “Terzo Mondo”, né capitalisti alleati degli Usa, né comunisti alleati dell’Urss, per lo più ex coloniali come l’India dove, proprio in quell’anno morì il successore di Gandhi, Jawahaelai Nehru. Gli Stati Uniti, benché allo scontro frontale con Russia e Cina, tendenzialmente solidarizzavano con i Paesi ex coloniali, cosa che gli inglesi non perdonavano ai “cugini americani”, rifiutandosi di mandare truppe britanniche in Vietnam, cosa che provocò una profonda frattura fra le due nazioni di lingua inglese. In Italia morì Palmiro Togliatti e con lui non solo i comunisti italiani, ma la comunità internazionale dei comunisti perse uno dei massimi leader. Non è possibile liquidare qui in poche righe la figura di Togliatti, perché è stata una delle più complicate e terribili della storia. Ricorderemo soltanto che sotto il nome di Ercoli fu l’agente di Stalin nella guerra civile di Spagna dove si occupò prevalentemente di far fuori trotzkisti e anarchici e di curare il pagamento delle armi vendute dall’Unione Sovietica ai repubblicani in guerra contro le truppe golpiste di Francisco Franco e i suoi alleati italiani e tedeschi. Togliatti sottoscrisse la condanna a morte dei dirigenti comunisti polacchi nel 1937 decisa da Stalin per non avere imbarazzi quando avrebbe regolato i conti con Varsavia, sottoscrisse le esecuzioni di una moltitudine di comunisti italiani emigrati in Urss durante il fascismo ma più che altro Togliatti è stato centrale per aver imposto al Pci la strategia che prese il nome di “Svolta di Salerno”, al suo rientro in Italia ordinatogli da Stalin (fu il suo superiore Dimitrov a raccontarlo nei suoi diari) grazie alla quale trasformò un piccolo partito settario in un grande partito di massa aperto specialmente ai cattolici e agli ex fascisti, cosa che ottenne con atti sorprendenti come l’amnistia, il richiamo degli intellettuali fascisti sotto le bandiere del Pci e poi votando l’articolo 7 della Costituzione che legittimava e includeva i “Patti Lateranensi” firmati da Mussolini col Vaticano, che chiudevano per sempre il conflitto fra la Chiesa e lo Stato Unitario. Questi pochi elementi sono assolutamente insufficienti per dare un’idea dell’uomo a chi non lo ha studiato o conosciuto, ma certamente la sua morte avvenuta per ictus durante le vacanze estive in Crimea decapitò il Partito comunista italiano dalla sua miglior mente direttiva e gli succedette il comandante partigiano Luigi Longo. La cotonatura dei capelli delle donne raggiunse nel 1964 delle forme surreali e scultoree mentre le gonne si accorciavano, i capelli dei maschi adolescenti crescevano con le basette secondo la moda inglese portata dal gruppo dei Beatles, mentre in America un giovanissimo e solitario Bob Dylan accordava la chitarra sulla tragedia della guerra del Vietnam. Ma la capitale dell’impero inglese perdeva ogni anno e pezzo dopo pezzo i suoi domini, ancora stremata dalla guerra vinta vent’anni prima, in preda alle proteste e sommosse sindacali, con un partito laburista sempre più incline al socialismo e per questo sospettato di vicinanza con i servizi segreti sovietici e un partito conservatore che dopo Churchill non sapeva trovare un suo centro e una sua tradizione, affidandosi all’ambizioso Anthony Eden. L’Africa era teatro di rivolte anticoloniali e nazionaliste e Nelson Mandela, che diventerà molto più tardi il primo presidente nero del Sud Africa, è condannato a una lunga pena detentiva mentre i patiboli sudafricani lavorano come macellerie, procedendo a impiccagioni di massa di chiunque fosse sospetto di ribellismo. In Italia, il presidente della Repubblica Antonio Segni fu colto da ictus e dopo lenti giorni di agonia morì. Ma quella morte e il clima generale in Italia produssero un evento sul quale ho indagato anche io sia come giornalista che come presidente dei una Commissione d’inchiesta parlamentare e che – verro, falso o esagerato che fosse – produsse grandi conseguenze. Si tratta del cosiddetto “colpo di Stato” minacciato o vagheggiato, che non ci fu ma che avrebbe nelle intenzioni dovuto piegare le resistenze dei socialisti sulle condizioni del loro ingresso nel governo, cui il presidente Segni era decisamente contrario, in contrasto con il leader democristiano Aldo Moro e con quello socialdemocratico Giuseppe Saragat, che sarebbe poi diventato presidente della Repubblica. Le notizie sul preteso golpe uscirono tre anni più tardi sul settimanale l’Espresso per la penna di Lino Jannuzzi che ne ebbe notizia da varie fonti. Anche questo tema è troppo importante per essere liquidato in poche righe, ma il comandante generale dei carabinieri De Lorenzo fu accusato di aver predisposto un piano di arresti e campi di concentramenti in Sardegna che avrebbero spezzato le organizzazioni di sinistra e specialmente il Partito comunista. Poiché quel piano avrebbe dovuto essere attuato “solo” dall’arma dei Carabinieri, fu per questo detto “Piano Solo”. Ne seguirono processi ai giornalisti Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari che furono condannati in primo grado e che per questo furono messi in salvo – come allora era possibile grazie alle immunità – dal segretario socialista Giacomo Mancini che li mise in lista: il primo per il Senato a Sapri e il secondo per la Camera a Milano. Quel che è certo, e lo accenno appena qui rinviando a una successiva puntata uno sguardo più attento, è che i fatti di luglio del 1960 avevano spinto gli alleati della Nato a imporre al governo italiano un piano preventivo con cui far fronte ad altre eventuali “insurrezioni comuniste” e per questo fu selezionata l’arma dei Carabinieri che costituirono. Novità assoluta per la loro tradizione di polizia e polizia militare, una brigata corazzata. Si sa che Pietro Nenni, segretario del Partito socialista, non volle enfatizzare quella tensione anche se ammise di aver udito “un tinnar di sciabole”. Si disse che il presidente Segni fosse stato colto da malore in seguito a una lite accesissima con Saragat o con Moro, ma questi dettagli non sono mai stati confermati. Mentre in Africa le cose non volgono al meglio, in America si combatte una lotta senza quartiere tra il presidente Johnson succeduto a Kennedy ma non ancora rieletto col voto popolare e gli Stati del Sud che cercano di impedire l’integrazione razziale. Occorre ricordare brevemente come stavano le cose: gli schiavi africani nelle colonie americane furono introdotti da tutte le nazioni europee che avevano possedimenti in quel continente: e dunque portoghesi e spagnoli, inglesi, francesi e olandesi accusarono nel corso di due secoli sui mercati degli schiavi gestiti dagli arabi in Africa circa un milione di esseri umani. Quando le tredici colonie che formarono gli Stati Uniti si ribellarono alla madre patria inglese, dichiararono che tutti gli uomini nascono uguali, ma si limitarono a vietare l’introduzione di nuovi schiavi senza liberare quelli che lavoravano nelle piantagioni. La guerra civile dei primi anni Sessanta del XIX vinta dal primo presidente repubblicano Abraham Lincoln (che fu poi assassinato in pubblico) liberò tutti gli afroamericani ma senza equipararli ai cittadini bianchi. Gli Stati del Sud segregarono i neri vietando loro le stesse scuole, posti di lavoro, trasporti e luoghi di intrattenimento dei bianchi e fu varato un sistema di leggi razziali – dette “Leggi di Jim Crow” – in forza delle quali un cittadino nero valeva più o meno due terzi di un bianco per calcolare i collegi elettorali, ma non potevano votare. Quelle leggi furono negli anni Trenta studiate e applicate nella Germania nazista per creare basi giuridiche della privazione di alcuni cittadini dei loro diritti su base razziale, fondati su un precedente storico e gli Stati Uniti senza averlo previsto fornirono quel precedente. Dopo aver combattuto due guerre mondiali i neri chiedevano con continue rivolte che fossero garantiti i loro diritti e questo spiega la popolarità mondiale del campione dei paesi massimi, il nero Cassius Clay che abbracciò l’Islam con il nome di Muhammad Ali e che nel 1964 compì un viaggio trionfale in Africa. Il presidente Johnson ebbe un grande merito e un grande difetto. Il difetto fu di impantanarsi sempre di più nella guerra del Vietnam aperta da John Kennedy in un processo di escalation senza fine che poi porterà alla prima sconfitta militare degli Stati Uniti, accettata dal suo successore repubblicano. Richard Nixon. Il suo grande pregio fu quello di imporre col pugno di ferro e l’uso anche della guardia nazionale, l’integrazione razziale città per città, scuola per scuola, università per università. I tumulti e le manifestazioni si succedevano senza sosta. Era l’anno delle elezioni che avrebbe consacrato Johnson come presidente eletto, vincendo sul repubblicano Wallace. In Unione Sovietica, come abbiamo detto, Nikita Krusciov successore di Stalin, fa licenziato in tronco dall’apparato del partito dopo un estenuante processo a porte chiuse per aver condotto malissimo, lo scontro con gli americani sulla questione dei missili a Cuba e – cosa ancora più grave e disonorevole, per essersi tolto le scarpe e averle sbattute sul podio delle Nazioni Unite per esprimere scherno contro gli americani.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1964

12 gennaio: contraria alla collaborazione con la Democrazia Cristiana, la componente marxista del Partito Socialista Italiano dà vita al Psiup

29 gennaio: iniziano i Giochi Olimpici invernali presso Innsbruck, Austria

1 febbraio: a Sanremo, nella quattordicesima edizione del Festival, trionfa Gigliola Cinquetti con Non ho l’età (per amarti)

9 febbraio: i Beatles debuttano al Ed Sullivan Show,facendo 73 milioni di telespettatori

25 febbraio: Cassius Clay (Muhammad Alì) sconfigge Sonny Liston a Miami e si laurea campione del mondo dei pesi massimi

6 marzo: in Grecia Costantino II diviene Re della Grecia, dopo la morte di suo padre Paolo

29 marzo: da una nave ancorata al di fuori delle acque territoriali britanniche prende vita Radio Caroline, la prima stazione radio “libera” d’Europa

31 marzo: in Brasile il colpo di Stato militare sancisce l’inizio della dittatura

1 aprile: sempre in Brasile il Congresso elegge Humberto Castelo Branco come presidente

6 aprile: in Buthan, Jigme Palden Dorji, premier bhutanese, viene assassinato da uno sconosciuto

8 aprile: viene lanciato Gemini 1, il primo veicolo spaziale senza equipaggio dell’omonima serie

20 aprile: il presidente degli Usa Lyndon Johnson e quello dell’Urss Nikita Krushchev si accordano per un reciproco taglio alla produzione di materiale nucleare

14 maggio: a Corleone viene arrestato dai carabinieri il capo di cosa nostra, Luciano Liggio, latitante da 16 anni

28 maggio: a Gerusalemme viene fondata l’Olp

12 giugno: Nelson Mandela e altre sette persone vengono condannate al carcere a vita

26 giugno: cade il primo governo Moro, che non ottiene il voto di fiducia sull’approvazione di una legge a favore delle scuole private. La crisi politica apre la strada a un tentativo di golpe ordito dal generale Giovanni De Lorenzo, il Piano Solo

21 agosto: muore il segretario del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti a Yalta, Unione Sovietica

14 settembre: inizia la terza fase del Concilio Vaticano Secondo

18 settembre: il papa Paolo VI riceve la visita di Martin Luther King

24 settembre: la Commissione Warren pubblica il rapporto sull’attentato a John Fitzgerald Kennedy. L’unico colpevole è Lee Harvey Oswald

15 dicembre: viene lanciato il primo satellite italiano, il San Marco 1 dal poligono di Wallops Island, Virginia

28 dicembre: Giuseppe Saragat è eletto presidente della Repubblica al 21º scrutinio

Mario Segni nel nome del padre: «Il Piano Solo e il Quirinale? Fake news diventata storia» Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 10/4/2021. Il libro — in uscita da Rubbettino — si intitola Il colpo di Stato del 1964. La madre di tutte le fake news. Ma potrebbe intitolarsi come un grande film con Daniel Day Lewis: Nel nome del padre. Mario Segni ha impiegato tre anni a scriverlo; ma lo pensa e lo prepara da tempo, almeno da quando sul padre Antonio — eletto presidente della Repubblica nel maggio 1962, costretto a dimettersi nel dicembre 1964 per le conseguenze di una trombosi — si è allungata l’ombra del «piano Solo», del «colpo di Stato» per mettere fuori gioco i riformisti e depotenziare il centrosinistra. Racconta Segni che la spinta a scrivere gli venne dal quarantennale dell’assassinio di Aldo Moro. «Comparvero molti articoli, anche di giornalisti di area moderata, che a proposito della crisi del luglio 1964 riprendevano il vecchio racconto del golpe: un atto eversivo — minaccia o pressione militare — per imporre una svolta moderata. Credevo che alcuni articoli importanti, come quelli di Paolo Mieli e altri pubblicati dal Sette diretto da Pier Luigi Vercesi, avessero modificato la linea storiografica. Vidi con stupore che era rimasta immutata. Un po’ tutti sostenevano che lo sviluppo del centrosinistra era stato interrotto da un traumatico intervento eversivo, attribuito all’arma dei carabinieri del generale De Lorenzo, e ispirato o diretto dal presidente Segni. Decisi allora di dedicarmi allo studio di quegli anni. Scoprii una cosa, prima con sorpresa, poi con rabbia: l’interpretazione passata alla storia, che ormai ricorreva anche nelle opere più recenti come quella di Miguel Gotor, non corrispondeva a un’interpretazione tendenziosa o a una forzatura. Si trattava di qualcosa di diverso: un cumulo di autentiche fandonie e falsità. Una mistificazione della realtà». Il libro parte dall’inchiesta di Lino Jannuzzi, pubblicata il 10 maggio 1967 sull’Espresso diretto da Eugenio Scalfari. Titolo: «Complotto al Quirinale. Segni e De Lorenzo preparavano un colpo di Stato». Sostiene il figlio del presidente: «In tre pagine viene raccontata nel dettaglio la riunione tra De Lorenzo e lo stato maggiore al comando generale di Viale Romania, il 14 luglio 1964. De Lorenzo avrebbe ricevuto da mio padre la richiesta di garantire l’ordine pubblico. Consegna quindi ai generali il piano: stato d’allarme; sorveglianza delle persone ritenute pericolose in attesa dell’arresto e della deportazione in Sardegna; prosecuzione delle esercitazioni e dello spostamento verso Roma in atto. Il racconto è dettagliatissimo e impressionante. Posso dire sin da adesso che nulla di questo racconto, assolutamente nulla è vero: la riunione non si fece né quel giorno né mai, il discorso di De Lorenzo non fu mai tenuto, non fu decretato né l’allarme né la minima misura precauzionale. Non a caso, Saragat e Moro smentiscono nettamente. A quel punto, Scalfari chiede un intervento a Nenni. E qui si apre una delle vicende più significative. Perché Nenni, al quale viene attribuita la celebre frase sul “tintinnar di sciabole” (anche se non risulta se e dove l’abbia pronunciata), per decenni è stato fatto passare come colui che per primo aveva avvertito il pericolo. Ebbene, Nenni ha sempre negato che vi fosse stata alcuna forma di intervento o pressione armata, e l’ha ripetuto in tutte le sedi: articoli, interventi al tribunale e commissione di inchiesta, diario. Con straordinaria abilità si è fatto credere il contrario, al punto che oggi gli storici, compreso Paul Ginsborg, lo riportano tra i colpevolisti». Nel novembre 1967 inizia il processo Scalfari-De Lorenzo, che Mario Segni definisce «l’episodio più clamoroso e probabilmente quello che contiene più materiale interpretativo. Testimoniarono due ministri, un ex premier, sedici generali e sette colonelli. Si concluse con la condanna di Scalfari e Jannuzzi a pene vicine a quelle massime per la diffamazione (17 mesi di reclusione e 250 mila lire di multa per il primo, 16 mesi e 220 mila per il secondo). Per giustificare la sconfitta, la difesa iniziò la lunga polemica sugli omissis, sostenendo che era stato precluso ai giudici di indagare. Oggi che il governo ha desecretato tutto, sfido chiunque a trovare in quel vastissimo materiale qualcosa che avrebbe potuto influire sul processo. Nonostante l’esito inequivocabile, la campagna continuò martellante. Il fatto è che i tempi della giustizia non coincidono con i bisogni dell’informazione. Fatto sta che quando la motivazione uscì, sei mesi dopo, passò inosservata». Compreso il passaggio centrale: «L’attenta minuziosa verifica di tutte le risultanze processuali impone una sola conclusione, e cioè che non una delle affermazioni contenute negli articoli degli imputati ha mai avuto concreto fondamento di verità, e in sostanza che sotto il profilo della verità reale... Tutte le tesi formulate da Jannuzzi e da Scalfari nel giornale e nel dibattimento si sono dimostrate irrimediabilmente false». Due anni dopo, però, vi fu un altro processo per diffamazione contro il successore di Scalfari, Gianni Corbi; e il tribunale assolse. Sostiene Segni: «L’Espresso affermò che la vicenda giudiziaria si era quindi chiusa in parità, ma non è cosi. Il tribunale diede una diversa interpretazione giudica alla preparazione del piano da parte di De Lorenzo (irregolare in quanto fatta senza ordine del ministro), ma ricostruì nello steso identico modo il fatto centrale: affermò cioè che il piano aveva mere intenzioni difensive di tutela dell’ordine pubblico, e non esistevano prove che fosse stato usato in altro modo. Vi sono quindi due sentenze che hanno negato l’esistenza di un piano e di un comportamento eversivo. C’è poi un episodio che da solo fa crollare il castello accusatorio. Due anni dopo la crisi si deve nominare il nuovo capo di stato maggiore dell’esercito. Mio padre si è dimesso, Moro e Nenni sono rimasti premier e vice, Saragat è il nuovo presidente della Repubblica. Al vertice dello Stato vi sono i tre uomini contro i quali, secondo la vulgata della sinistra, si sarebbe sviluppata la azione golpista di De Lorenzo. Eppure Moro, con l’appoggio di Nenni e Saragat e dei comunisti (Andreotti è contrario), nomina De Lorenzo. Ma come è pensabile che tre statisti designino alla più alta carica dell’esercito l’uomo che due anni prima con azioni eversive li avrebbe minacciati e offesi?». «La verità — conclude Segni — è che la sinistra italiana è stata incapace di affrontare la realtà e ammettere i propri errori, che dopo due anni di governo stavano affossando il centrosinistra. Molto più facile evocare un complotto e un Grande Vecchio, e attribuire loro la sconfitta. Ma così facendo si è ritardata di anni la maturazione dei riformisti, e si è costruito un tassello del mostro che stava per nascere, il terrorismo rosso. L’idea della violenza di Stato ha costituito per molti un alibi e una spinta al terrorismo. Allo Stato violento si risponde con la violenza». Sta dicendo che c’è un nesso tra il piano Solo e la strategia della tensione? «Storicamente no; appartengono a due mondi diversi. Ma il nesso è strettissimo nel modo in cui la strategia colpevolista ha raccontato la crisi del ’64. Non c’è opera della narrazione colpevolista che non indichi la crisi del ’64 come la prima vera pietra della strategia stragistica. E vi è un motivo ben preciso. La Dc e il suo mondo sono stati accusati di avere coperto o addirittura ispirato gli attentati. Ma se il partito è colpevole, mai nessuna persona viene accusata. E infatti accusare un partito è facile, accusare una persona è impossibile: servono prove, e servono accusati credibili. Per questa corrente di pensiero, il caso del ’64 è perfetto: accusati sono nientemeno che il presidente della Repubblica e l’arma dei carabinieri. Il racconto allora si completa, e deve essere sostenuto tutto. Ma se le cose stanno così, siamo in presenza di un’unica, gigantesca costruzione mediatica che ha raccontato in modo totalmente distorto due decenni di storia. Non è azzardato dire che si tratta della più grande fake news della storia repubblicana».

Tutta la verità sul golpe (mancato) che cambiò la storia d’Italia. Un generale che progetta un colpo di Stato. Le liste di oltre 700 oppositori politici da imprigionare. I dossier illegali dei servizi segreti. Un presidente allarmato. Questo fu il Piano Solo svelato da L’Espresso nel 1967. Una pagina esemplare di giornalismo. Che dà ancora fastidio a molti. Paolo Biondani su L'Espresso il 19 aprile 2021.

Roma, 2 giugno 1964. Il presidente della Repubblica Antonio Segni con Giulio Andreotti, all'epoca ministro della Difesa. Nel romanzo fantapolitico di George Orwell, “1984”, le notizie sgradite vengono vaporizzate: cancellate, rimosse dalla storia, come se non fossero mai esistite. «Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato», è lo slogan del regime. Nell’Italia smemorata di oggi il revisionismo di stampo orwelliano si arricchisce di un nuovo contributo: un libro di Mario Segni sul Piano Solo, che liquida quel progetto golpista del 1964 come una montatura giornalistica, accusando l’Espresso di aver inventato «la madre di tutte le fake news». Parole gravi, ma scollegate dalla realtà dei fatti, documentata da migliaia di atti parlamentari, dettagliati studi storici, fondamentali testimonianze mai smentite e definitive sentenze giudiziarie, tutte favorevoli all’Espresso. L’autore dell’opera non è in una posizione di assoluta imparzialità: è figlio di Antonio Segni, il politico democristiano che era Presidente della Repubblica all’epoca del Piano Solo, dimessosi dalla carica nel dicembre 1964 per malattia, poi accusato da mezzo Parlamento, compresi importanti ministri del suo stesso partito, di aver quantomeno tollerato le «deviazioni autoritarie» del Sifar, il servizio segreto militare allora dominato dal generale Giovanni De Lorenzo. L’ex presidente Segni, morto nel 1972, non ha mai querelato l’Espresso, che svelò il Piano Solo con una serie di articoli pubblicati a partire dal maggio 1967. Oggi però suo figlio proclama che il processo intentato da De Lorenzo a Roma contro il fondatore e direttore dell’Espresso, Eugenio Scalfari, e il giornalista Lino Jannuzzi, si sarebbe «concluso con la condanna a pene vicine a quelle massime per la diffamazione». Nelle interviste che pubblicizzano il libro, Mario Segni dimentica di precisare che quello era solo il verdetto di primo grado. E la sentenza finale? Vaporizzata. Eppure è pubblicata integralmente nel documentatissimo libro di Mimmo Franzinelli sul Piano Solo: Scalfari e Jannuzzi sono stati prosciolti dalla Corte d’Appello. Che non ha dovuto nemmeno riaprire il caso. Lo stesso De Lorenzo ha infatti ritirato le sue accuse, dopo aver visto assolvere già in primo grado, in un processo parallelo, altri due giornalisti dell’Espresso, Gianni Corbi e Carlo Gregoretti. Nell’atto di «remissione» di entrambe le querele, datato 18 ottobre 1972, il generale riconosce di non avere «nulla a pretendere» dall’Espresso, che non ha sborsato alcun risarcimento. Scalfari e Jannuzzi hanno respinto pure l’invito di De Lorenzo a firmare anche solo «una lettera cordiale». L’assoluzione dell’Espresso è una verità giudiziaria, che si può criticare, ma non ignorare. Nessun revisionista è mai arrivato, ad esempio, a riscrivere la storia del processo a Enzo Tortora, parlando solo della condanna in primo grado e non dell’assoluzione in appello. A spiegare la ritirata strategica di De Lorenzo, oltre alla debolezza delle motivazioni della condanna poi annullata, è la forza probatoria di una requisitoria, poi recepita in molte importanti sentenze successive, firmata da un grande magistrato, Vittorio Occorsio, ucciso nel 1976 da un terrorista di destra. Chiamato a rappresentare l’accusa in primo grado, il pm ha chiesto invece l’assoluzione, confermando «la verità dei fatti» rivelati da Scalfari e Jannuzzi. La sua requisitoria è trascritta fin dal 1968 nel libro di Roberto Martinelli sul Sifar. Occorsio premette che lui stesso, all’inizio, pensava che «il colpo di Stato fosse una favola», ma si è ricreduto interrogando in aula «sei parlamentari, dodici generali, otto colonnelli», per concludere che «le cronache dell’Espresso sono vere, i fatti materiali sono stati provati». Con quella requisitoria il processo ai giornalisti si ritorce contro il generale. Occorsio parte dagli articoli dell’Espresso sulle «schedature illecite» di politici e attivisti di sinistra: «Cosa faceva il Sifar nel 1964? Spiava!», tuona il magistrato: «Che il Sifar avesse deviato dai suoi compiti, lo dimostra il fatto che il ministero della Difesa ha comunicato di aver distrutto 34 mila fascicoli che nulla avevano a che fare con la sicurezza dello Stato... Prima di De Lorenzo, mai il Sifar aveva spiato la vita privata di uomini politici». Alla base del Piano Solo, così chiamato perché coinvolgeva solo ufficiali dei carabinieri, c’era proprio quel dossieraggio: il piano prevedeva di «arrestare illegalmente» persone già schedate e spiate da anni. Occorsio sottolinea che le «liste dei politici da concentrare nelle caserme» furono discusse da De Lorenzo con almeno sei generali e colonnelli dei carabinieri, tra cui Carlo Alberto Dalla Chiesa, che al processo l’hanno testimoniato «con molta lealtà». Per fermare lo scandalo, il governo presieduto da Aldo Moro impose il segreto di Stato sulle relazioni d’inchiesta firmate da altri due generali, Manes e Beolchini, che per 24 anni sono rimaste coperte da «omissis». Il segreto è stato tolto solo nel 1991. Secondo Mario Segni, gli omissis non nascondevano alcuna prova di «pressioni militari sul governo» e l’intero Piano Solo sarebbe «un cumulo di falsità». La sua opinione contrasta però con montagne di documenti non trascurabili. Come le sentenze di condanna per le stragi neofasciste: caduti i segreti di Stato, tutti i giudici, da Brescia a Bologna, concordano nel definire il Piano Solo, testualmente, «un progetto eversivo, golpista», che segnò «l’inizio della strategia della tensione». In questi anni l’accusa non si è indebolita, ma arricchita di nuove testimonianze autorevoli. Il generale Nicolò Bozzo, ad esempio, ha dichiarato sotto giuramento di aver ricevuto personalmente una lista di vittime «da deportare dall’aeroporto di Linate in Sardegna», per rinchiudere in una base segreta di Gladio. I nuovi atti confermano che erano previsti 731 arresti «illegali», con «occupazione militare della Rai-Tv e delle prefetture». Nel processo all’Espresso, Jannuzzi riconobbe di non aver trovato prove certe del coinvolgimento del presidente Segni. Il pm Occorsio osserva però che a parlarne al giornalista furono tre parlamentari molto attendibili, tra cui Ferruccio Parri, che hanno giurato in aula di aver ricevuto quelle notizie dallo stesso De Lorenzo. Il ruolo del presidente non è mai stato chiarito: varie fonti ipotizzano che lui stesso fosse vittima delle manovre del generale. Mario Segni però non si accontenta di proclamare l’estraneità del padre: bolla come falso tutto il Piano Solo. Di certo racconta la versione di papà. Che però non coincide nemmeno con la testimonianza di altri leader storici della Dc, come Paolo Emilio Taviani, il tutore politico di Gladio, che fu ministro dell’Interno anche nel fatidico 1964. Sentito nelle indagini sul terrorismo nero, Taviani definisce il Piano Solo «una crisi drammatica», da inserire nei «precedenti lontani delle stragi». E descrive così la posizione del presidente: «I miei contrasti con Antonio Segni iniziarono il 22 febbraio 1964, al suo ritorno da un viaggio in Francia. Era rimasto fortemente impressionato dall’organizzazione anti-stalinista dei francesi. Mi chiese più volte cosa avessimo previsto in caso di insurrezione armata dei comunisti. Gli risposi che dopo la sconfitta dei secchiani né io, né i capi della polizia e dei carabinieri avevamo preoccupazioni del genere... Lo stesso Segni mi confidava però che altri alimentavano le sue preoccupazioni per la nostra apertura a sinistra». Dopo aver rinunciato al piano golpista, tenuto segreto, De Lorenzo fu promosso capo di Stato maggiore e silurato solo nel 1967, quando esplose lo scandalo dei dossier del Sifar. Tutti i fascicoli, dichiarati illegali, furono poi distrutti «con il fuoco» per ordine di Giulio Andreotti. 

Il piano Solo e la libertà di stampa. Miguel Gotor su La Repubblica l'11 aprile 2021. L'ex presidente della Repubblica Antonio Segni è raccontato in un libro del figlio Mario che tenta di smontare il presunto tentativo di golpe del 1964 denunciato dall’Espresso. Ma i documenti lo smentiscono. Il figlio dell'ex presidente della Repubblica Antonio Segni - morto nel 1972 e capo dello Stato dal 1962 al 1964 - , ha scritto un libro sul ruolo svolto dal padre nel corso della crisi dell'estate 1964, una delle più drammatiche della storia repubblicana (Il colpo di Stato del 1964, Rubbettino). Non si tratta propriamente di un instant book, essendo ormai trascorsi 57 anni dai fatti, ma l'autorevolezza di Mario Segni e la perentorietà delle sue tesi ("si tratta della più grande fake news della storia repubblicana") appaiono meritevoli di alcune puntualizzazioni. La vicenda, tenuta nascosta all'opinione pubblica, emerse soltanto il 14 maggio 1967, grazie alle rivelazioni del settimanale L'Espresso, allora diretto da Eugenio Scalfari, uscito con un'inchiesta a cura di Lino Jannuzzi intitolata Complotto al Quirinale. Segni e De Lorenzo preparavano un colpo di Stato. Le inchieste giudiziarie successive dimostrarono l'esistenza del cosiddetto Piano Solo, così denominato perché doveva vedere in azione unicamente i carabinieri. In base a questo "piano di contingenza", se fossero sorti dei disordini di piazza, i militari dell'Arma avrebbero dovuto prendere il controllo dei principali centri strategici del Paese. Il piano era stato elaborato, a partire dal marzo 1964, dal generale Giovanni De Lorenzo, responsabile dei servizi segreti militari (Sifar) dal 1955 al 1962, che il 26 giugno 1964 lo comunicò in un incontro coi vertici dell'Arma. In quella circostanza egli aggiornò anche la lista dei cosiddetti "enucleandi", già presistente, ossia l'elenco di 732 militanti della sinistra azionista, socialista e comunista del mondo politico, sindacale e culturale dei quali era previsto l'internamento nel caso in cui fosse scattata l'emergenza. Secondo le memorie postume dell'ex ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani il piano prevedeva la loro deportazione anche in Sardegna, a Capo Marrargiu per l'esattezza, ove, nel 1990, si sarebbe scoperto che era stata stabilita, sin dall'ottobre 1956, la base di addestramento di Stay-Bhind, il cui atto istitutivo era stato seguito, sul piano militare, dal generale De Lorenzo e, su quello politico, da Taviani, quando Segni era presidente del Consiglio. Le rivelazioni dell'Espresso ebbero l'effetto paradossale di trasformare De Lorenzo, che aveva partecipato alla Resistenza, nel prototipo del generale neofascista col "monocolo". In realtà egli funzionò da parafulmine e da capro espiatorio per sfumare le responsabilità istituzionali, coraggiosamente denunciate dall'inchiesta del settimanale, che investivano anche il presidente della Repubblica Segni. Sia chiaro: in base alla documentazione nota e a quella superstite, il capo dello Stato, nel corso della crisi dell'estate 1964, non avallò mai un golpe ma alimentò il progetto di una "intentona", ossia un tentativo di esercitare una pressione di tipo militare capace di condizionare gli equilibri politici e di frenare la spinta riformatrice del governo di centrosinistra guidato da Aldo Moro. Oggi sappiamo che, in quei frangenti, il dipartimento di Stato americano si oppose al progetto potenzialmente eversivo, preferendo puntare su un centrosinistra moderato in funzione anticomunista. Una scelta oculata in base alla quale, però, non si escluse che delle strutture della Nato potessero essere messe a disposizione dei carabinieri, nel caso in cui fosse scattata l'emergenza. Di certo, l'apposizione del segreto e di numerosi omissis da parte del presidente del Consiglio Moro ai documenti relativi alla crisi di quella estate o la loro deliberata distruzione e sparizione ostacolarono le indagini della magistratura e della successiva Commissione d'inchiesta parlamentare. Ad esempio, nel diario storico del Quirinale, a suo tempo vanamente richiesto dalla magistratura, non c'è traccia dell'incontro del 16 luglio 1964 tra Segni e De Lorenzo (questa è la data corretta, attestata dalle agende del generale e non quella del 14 luglio che comparve nell'articolo, peraltro assai informato, di Jannuzzi). Così anche dal telegramma inviato il 26 giugno 1964 dalla base militare Usa da Verona per l'Europa meridionale risultava che gli statunitensi erano al corrente dell'esistenza di un piano che riguardava i carabinieri e che lo stesso presidente Segni ne era a conoscenza ("President Segni aware this plan"). Ma la frase in questione per lungo tempo è stata coperta dagli omissis americani ed è stata pubblicata nel 2012 nel volume Il riformismo alla prova, a cura di Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone (Fondazione Feltrinelli, pagg. 456), che Mario Segni non parrebbe conoscere. La gestione della crisi del 1964 raggiunse gli effetti minimi sperati perché è indubbio che il centrosinistra, nei mesi e negli anni successivi, subì un processo di progressiva normalizzazione trasformandosi in una sorta di centrismo aggiornato sicché l'asse della politica italiana subì di nuovo una correzione verso destra. In ogni caso la vicenda è significativa anche per un secondo motivo in quanto rimanda al nodo della libertà di stampa in questo Paese e del ruolo svolto dal giornalismo di inchiesta nella sua storia. Scalfari e Jannuzzi vennero condannati per il loro lavoro in un processo dove le forze erano impari perché la controparte era rappresentata da un ex capo di Stato ancora vivo e dai vertici delle Forze armate e dei servizi nazionali. In quei mesi, però, scrissero una pagina gloriosa sul diritto di informazione che spiace notare come oggi non sia considerata un patrimonio comune del giornalismo italiano. Il 7 agosto 1964 un ictus colpì Segni impedendogli l'esercizio delle funzioni presidenziali. L'incidente accadde a seguito di un acceso diverbio durante un colloquio con Moro e Saragat che il primo riferì nell'immediatezza degli eventi al suo collaboratore Corrado Guerzoni. Nella circostanza Saragat avrebbe accusato il presidente della Repubblica di avere "tramato" con i carabinieri in occasione del Piano Solo come lo stesso Guerzoni ha raccontato in un libro su Aldo Moro (Aldo Moro, Sellerio, pagg. 94-95) e sostenuto, con dovizia di particolari, in un'intervista registrata concessa al principale studioso del Piano Solo in Italia Mimmo Franzinelli. Rispetto a questa ricostruzione, suscettibile come tutti i tentativi di interpretazione storica di essere oggetto di una costante revisione critica, cosa apporta di nuovo il libro del figlio di Segni? È una testimonianza interessante, riprova di un tenerissimo amore filiale di cui sarebbe sbagliato non tenere conto in un Paese pieno di buoni sentimenti come il nostro. A questo proposito non è inutile ricordare una frase di Francesco Cossiga, che sono certo il suo padrino politico Antonio Segni avrebbe apprezzato: "La grandezza politica dell'uomo non è necessariamente legata alla sua statura morale. Conoscere il male per averlo frequentato: è questa la caratteristica dei grandi leader politici così come dei santi".

La verità su Segni, il "Piano Solo" e il golpe. Mario Segni il Il libro del figlio dell'allora capo dello Stato: documenti e carte lo dimostrano. Negli anni Sessanta una formidabile campagna mediatica aperta dall'Espresso di Eugenio Scalfari accusò il presidente della Repubblica dell'epoca, Antonio Segni, e il Comandante dell'Arma dei Carabinieri, Giovanni De Lorenzo, di avere organizzato durante la crisi di governo del 1964, un colpo di Stato. Il progetto con cui doveva realizzarsi fu denominato piano Solo. Di fronte alla evidente constatazione che non era successo niente la campagna arretrò dicendo che si era trattato di una minaccia armata che aveva costretto il Partito socialista a rinunciare alle riforme progettate, e aveva determinato una svolta a destra della politica italiana. L'accusa ebbe uno straordinario successo di opinione e di stampa. Su di essa si innestò, negli anni 70, un’altrettanto formidabile campagna contro la Democrazia cristiana, dipinta come partito golpista, responsabile di coprire, o addirittura di ideare i drammatici attentati (spesso di matrice fascista) che insanguinarono l'Italia in quegli anni. In realtà vi erano molti argomenti che indicavano la assoluta inconsistenza delle accuse. Per due volte della questione fu investito il Tribunale di Roma. Nella prima sentenza i giornalisti dell'Espresso furono condannati per diffamazione, nella seconda assolti: ma in ambedue i casi il Tribunale escluse l'esistenza di un disegno eversivo. La stessa conclusione fu raggiunta dalla relazione di maggioranza della Commissione di inchiesta parlamentare e di una commissione del ministero della Difesa. Nonostante questo la campagna ebbe un grande successo. Gran parte della pubblicistica e dei libri di storia la hanno accolta, lasciando in gran parte della pubblica opinione l'idea che in quella estate era successo comunque qualcosa di eversivo. Lo si deve molto al grande appoggio politico ricevuto da gran parte della sinistra, che la democrazia era stata in pericolo. Come rileva Agostino Giovagnoli, uno dei più importanti storici di questo periodo, si rivela qui «un problema della sinistra italiana durante la prima Repubblica: la difficoltà di fare i conti con i problemi reali, compresi i propri limiti e i propri errori». Ho lavorato per alcuni anni sull'enorme materiale documentario di tutta la vicenda per difendere la memoria di mio padre, accusato di qualcosa che un uomo, uscito da venti anni di antifascismo e protagonista nella costruzione della democrazia italiana e nel miracolo economico, non avrebbe potuto nemmeno immaginare. Con una angoscia e una rabbia crescente ho toccato con mano la assoluta inconsistenza del castello accusatorio, e la totale falsità di tante delle affermazioni riportate. Il caso più eclatante è quello di Pietro Nenni, citato da una lunga pubblicistica come colui che avrebbe denunciato il complotto, ma nella realtà sostenitore esplicito della assoluta inesistenza di ogni disegno eversivo. Due anni dopo il presunto golpe il generale De Lorenzo fu promosso capo di stato maggiore dell'Esercito da quegli stessi uomini (Saragat presidente della Repubblica, Moro presidente del Consiglio e Nenni vice premier) che secondo il racconto sarebbero state le vittime della minaccia armata e del progetto golpista. Come è credibile che tre statisti nominino alla carica più importante dell'esercito un uomo che due anni prima aveva organizzato contro di loro un terribile disegno golpista? Ho raccontato tutto questo in un libro che è da pochi giorni nelle librerie, Il colpo di Stato del 1964. È giusto che gli italiani sappiano che mai la democrazia italiana è stata in pericolo. Chi ha costruito un racconto inesistente ha veramente realizzato la più grande fake news della storia repubblicana.

La storia del 1965, l’anno di Malcom X, Cassius Clay e della guerra in Vietnam. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. Ecco un anno, il 1965, in cui la Storia si raggomitolò come una molla e nessuno era davvero in grado di capire quanta e quale energia si stesse accumulando sotto il vulcano e come sarebbe venuta fuori e con quali terremoti. Al terremoto mancavano ancora tre anni, più o meno, e il mondo sembrava ancora banalmente sferico, stabile, diviso nei due poli americano e russo, con la destra e la sinistra ben opposte con alcuni margini grigi, ma le cose andavano, l’economia trottava, i cinema erano affollati, si fumava in sala e sullo schermo passavano decine di film astuti, commerciali e divertenti intessuti di allusioni sessuali grevi ma timorate di Dio. Era l’epoca in cui andavano di moda le maggiorate fisiche come Gina Lollobrigida e Sophia Loren ed erano donne dai seni prorompenti, glutei da esposizione, vita da vespa e gambe lunghissime. Gli uomini si inondavano di dopobarba perché si radevano tutti e l’uso del deodorante era considerato ancora una americanata decadente. Nessuno osava dire “cazzo” in pubblico e i comunisti non erano meno pudichi dei cattolici e nelle famiglie giravano ancora molti ceffoni, l’educazione era autoritaria anche se ben servita nelle scuole specialmente pubbliche, esistevano ancora molti contadini che però si inurbavano a decine di migliaia e aspiravano ad entrare nelle fabbriche e poi a mandare i figli a scuola e all’università e si sentiva che il vecchio mondo era morto e che quello nuovo sembrava davvero attraente. Dai paesi di lingua inglese arrivavano fiumi di musica, le canzoni dei Beatles e dei Rolling Stones furoreggiavano e da noi furoreggiava il genere melodico pieno di mamme che piangono, gondole sulla televisione e centrini ricamati in un’orgia eclettica che comprendeva orologi a cucù in stile arabo-svizzero oltre che frequenti abbondanti gondole veneziane, mentre declinavano i mobili Rinascimento con i suoi buffet e contro-buffet e specchiera, zampe di leone, e camere matrimoniali di quercia per coppie di stabilità sacramentale. L’America era in guerra, sia dentro sé stessa che fuori, nel lontano Vietnam dove adesso sbarcavano i primi tremila marines combattenti. I bombardamenti sulle foreste non servivano a nulla, il regime del Vietnam del Sud aveva ambizioni muscolari e il presidente Johnson con il suo Stato maggiore non aveva capito che di fronte all’armata americana non c’erano dei guerriglieri della foresta, ma uno degli eserciti convenzionali più forti del mondo, armato sia dalla Cina di Mao Zedong che dall’Unione Sovietica. In Italia si svolgeva la storia minore e non eccitante della prima Repubblica con la scacchiera dei partiti di governo – la Democrazia Cristiana, i socialisti, i socialdemocratici e i repubblicani – e le due opposizioni con diversi ranghi: a sinistra il grande e potente Partito comunista con cui era d’obbligo un dialogo continuo, laborioso ed estenuante per battersi su una terreno di trattative e compensazioni perché il Pci si supponeva dovesse essere tenuto fuori dalla stanza dei bottoni a causa della guerra fredda. Tutti dialogavano e trattavano con i comunisti, la cui classe dirigente era osservata con preoccupazione e ammirazione dagli analisti occidentali che, tentavano di dialogare con i comunisti italiani, – più evoluti e laici – che con quelli francesi, meno flessibili mentre in quel partito si rilevavano tenui segnali di critica e di insofferenza nei confronti dell’Unione Sovietica. Girava questa barzelletta: «L’Unità ha indetto un concorso a premi per i compagni più attivi. Primo premio: una settimana in Unione Sovietica. Secondo premio: due settimane in Unione Sovietica, Terzo premio…». Ma l’Urss era ancora considerata una potenza mondiale d’avanguardia e con tutti i difetti e – ammettiamolo – gli errori e i crimini del compagno Stalin era ancora la punta avanzata del più grande esperimento socialista. La corsa nello spazio era ancora un primato sovietico ma proprio nel 1965 gli americani si impegnarono e misero in orbita i loro astronauti che si muovevano nelle passeggiate spaziali spruzzando una specie di spray. Ma la guerra nel Vietnam stava diventando l’evento monstre da cui si generava tutta la comunicazione: musica, cinema, manifestazioni di protesta, cannabis. Gli americani che tornavano dal fronte vietnamita erano quasi tutti strafatti di marijuana e, seguendo l’esempio dei loro predecessori francesi, anche di oppio, eroina, Lsd. Cominciavano le fughe verso il Canada per evitare la coscrizione e il Canada tornò a essere un nemico interno per il governo americano, così come lo era stato dai tempi della rivoluzione, perché aveva sempre protetto e ospitato i lealisti realisti, come era accaduto nella Vandea della Rivoluzione francese. Inoltre, gli americani erano profondamente offesi dal mancato aiuto degli inglesi che non avevano dimenticato il tradimento americano del 1956 quando il primo ministro Anthony Eden aveva invaso l’Egitto del rais Nasser per impedire la nazionalizzazione del canale di Suez. Il grande gelo fra i due popoli di lingua inglese continuava. L’America era isolata e al suo interno si stava combattendo una vera guerra civile: gli afroamericani, liberati dalla schiavitù con la guerra civile del secolo precedente, non avevano diritto di voto, né di sedere negli stessi autobus e usare le stesse scuole dei bianchi e adesso il governo federale faceva applicare l’integrazione con l’uso della Guardia Nazionale e dunque la turbolenta nazione non cessava, come non cessa oggi di stupirsi, indignarsi, scontrarsi. Per il Vietnam partivano preferibilmente giovani neri, per lo più volontari alla ricerca di un lavoro e quello del soldato è un lavoro. Nel Vietnam avrebbero avuto non solo il battesimo del fuoco ma avrebbero imparato a costruire una nuova identità, quella del soldato americano nero che era comparso già nel 1918 con un corpo di volontari (i neri erano ritenuti inadatti alla disciplina militare e anche a praticare gli sport maggiori), poi durante la Seconda guerra mondiale con reggimenti e squadroni di aerei pilotati da neri e adesso in Vietnam sperimentavano la scomodità di sentirsi invasori che sottomettono, sentendosi a loro volta sottomessi. Malcolm X, il più geniale e colto intellettuale afroamericano, parlava come un dio mentre lo aspettava la morte, e il gigante Cassius Clay con il nome di Mohammad, metteva KO sia bianchi che neri quando la boxe era ancora un meraviglioso spettacolo. Migliaia di soldati dal nome italiano, i tanti Capoto, Rossi, Macrì, con tutti i cognomi in “ucci”” o “ini” dei toscani e quelli che finiscono per “O” di origine campana, combattevano e morivano a decine, come si può vedere dallo straziante Memorial del Vietnam a Washington in cui si cammina fra alte mura di marmo sulle quali sono intarsiati i nomi dei caduti uno dopo l’altro. In Italia la mafia andava benissimo e faceva affari molto grassi mentre Tommaso Buscetta – che diventerà il primo grande pentito nelle mani di Giovanni Falcone che lo andò a recuperare in Brasile – si era rifatto la faccia da Indio in Messico sperando di sfuggire alla fazione che aveva sterminato tutta la sua parentela, facendosi chiamare Manuel Lopez Cadena. Il centro sinistra era diventato una formula di governo istituzionale e i socialisti perdevano mordente e voti, ma i rapporti con la Dc erano stabili perché quest’ultima aveva trovato la sua formula magica che ne spiegava l’enorme consenso: conteneva al suo interno un clone di ogni altro partito, ma in versione cattolica: c’era una gagliarda componente sindacale, i filocomunisti e i filofascisti, non molti veri liberali come Aldo Moro e Francesco Cossiga, ma aveva personaggi clamorosi come Amintore Fanfani, un professore accademico che era stato fascistissimo ma che ora rappresentava la sinistra dialogante: chiunque volesse dialogare con i socialisti o i comunisti, doveva passare sotto lo sguardo scrutatore di Fanfani. Giulio Andreotti era già il divo Giulio sornione e molto preso dalle frequentazioni mondane ed era storicamente il deputato più votato d’Italia perché, si diceva, tutte le monache hanno l’ordine di votare per lui, come se le suore fossero milioni. L’Italia riceveva l’Oscar delle monete per la tenuta della nostra Lira e bisogna dire che il Paese faceva la sua porca figura sia nella produzione industriale e automobilistica, negli elettrodomestici e nell’editoria, nel cinema e nella musica e con la sua smodata, impertinente, indisciplinata e caciarona voglia di vivere. Allora come oggi, la retorica furoreggiava. Dopo il malore che aveva portato via dal Quirinale Antonio Segni, gli era succeduto il candidato delle sinistre Giuseppe Saragat, una volta odiatissimo per il suo anticomunismo che lo aveva portato alla scissione del 1948 a Palazzo Barberini, ma poi diventato l’incarnazione dell’antifascismo in esilio e anche della passione per il vino. Di lui si diceva che facesse l’alzabandiera mattutino con bianco, rosso e del Verdicchio e l’aneddotica lo dava sempre un po’ alticcio. E implacabile nell’invio di abbondanti telegrammi di congratulazioni, condoglianze, partecipazione, testimonianza, memoria o anche di compleanno. I suoi telegrammi erano letti con voce compunta dagli speaker della Rai e quando Enzo Jannacci scrisse una delle sue canzoni più delicate e geniali, Giovanni telegrafista, girò voce – pensate che tempi e quale pudore – che probabilmente Jannacci come personaggio non aveva in mente il telegrafista Giovanni, ma l’altro telegrafista, Peppino, inquilino del Quirinale. Era un’Italia delicata e amabile, in cui con geniale effetto sorpresa uscì la rivista di fumetti Linus il cui primo numero andò in edicola lo stesso giorno di maggio in cui nacque mio figlio Corrado, che volle subito sapere che cosa Umberto Eco pensasse di Charlie Brown.

La Storia del 1966, dall’alluvione di Firenze alla scomparsa di Walt Disney. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Era il 27 aprile del 1966 e fu quello il giorno in cui cominciò il Sessantotto. Fu con i primi scontri fisici e il primo morto: Paolo Rossi era uno studente che perse la vita durante un assalto dei neofascisti di “Caravella” alla Facoltà di Lettere e Filosofia dove si tenevano le elezioni universitarie. Io ero lì nella calca e avevo in collo mia figlia di appena tre anni, l’avevo portata con me perché era una bella giornata di primavera e questi fascisti erano un genere umano oggi scomparso, magari sostituiti da altri generi di squadristi, ma allora il nostro mondo era fatto così: quelli di sinistra si vantavano di non saper e voler picchiare, o anche andare in palestra e avere una cura atletica del proprio corpo. Tutti dibattiti e ideologia, parole, milioni di parole. I fascisti invece si agganciavano alla memoria storica del fascismo perché era viva la generazione che era stata davvero fascista e dunque erano proprio “nostalgici” come venivano chiamati: nostalgici. Noi eravamo distribuiti su tutte le gradazioni del rosso. Non c’era ancora alcuna idea di femminismo e a sinistra il maschio alfa era quello con più libri. A destra quello con l’atteggiamento più sfrontato, i muscoli e la voglia di menare. Quando c’erano le elezioni universitarie che eleggevano un parlamentino che aveva sede nella Casermetta dell’Orur (tutti i leader erano partiti da lì) finiva a botte. Quel giorno, per la prima volta ci scappò il morto che fu questo povero ragazzo che cercava di calmare gli animi, era socialista, prese dei pugni, ebbe un malore e forse cadde dal muretto o forse fu spinto, fatto sta che lo portarono via con l’ambulanza e dopo una lunga agonia morì. Le facoltà furono occupate, la rivolta investì il magnifico rettore Papi che era il bersaglio del nascente movimento studentesco, la Celere – i reparti antisommossa della polizia di quel tempo – entravano con le camionette o le jeep nella Città universitaria della Sapienza, fu dichiarata l’assemblea permanente. Io ero un cronista dell’Avanti, il quotidiano socialista che aveva sede a vicolo della Guardiola a venti passi da Montecitorio e stampavamo con la rotativa che i tedeschi avevano cercato di portare in Germania e che era la stessa di prima del fascismo, sferragliante come un treno, ogni notte, le nostri notte sporche di inchiostro e di bozze e di urla. Così cominciò la lunga stagione delle battaglie nelle università cui si sarebbe aggiunta subito la Statale di Milano e poi le altre. A Milano gli studenti del liceo Parini misero in crisi l’Italia perbene pubblicando un giornalino, La Zanzara con una inchiesta sulla sessualità delle ragazze. Domande e risposte, Uno scandalo enorme: la Chiesa, i partiti, le istituzioni, la magistratura, la buona borghesia, la cattiva borghesia, non potreste oggi nemmeno immaginare. Ci fu un processo contro gli studenti e le mamme erano tutte agitate per la verginità delle loro figlie, insidiate da questi atei che giravano adesso impunemente, senza una morale, senza rispetto per i sacri tabù della sessualità. Ancora non si usavano gli assorbenti, o molto poco, e le madri avevano un controllo diretto su ogni ritardo e il terrore correva sui flirt, gli amori appassionati. E comunque quella fu una scintilla che diventò un incendio perché apparve fin troppo chiaro alla buona società che in quelle facoltà occupate dove gli studenti dormivano – dicevano di dormire! – non potete immaginare che cosa succedesse. Anzi, lo potete immaginare benissimo. La nuova Chiesa di papa Montini, Paolo Sesto, a febbraio aveva abolito l’istituzione dell’inquisizione detto “Indice”, ovvero l’elenco sempre occhiutamente aggiornato dei libri proibiti ai cattolici. Peccato mortale in libreria. I giornali e i settimanali dovevano stare attenti con le foto delle attrici perché se si vedevano, o si fosse solo intuito un capezzolo, bàng: sequestro, rogo, ordine di cattura e galera. Amintore Fanfani, molto basso di statura ma molto autoritario per natura, aveva fatto imporre alla Rai l’uso di body di lana che le ballerine portavano sulle gambe e i glutei. I comunisti non erano meno sessuofobici dei cattolici e però cominciava a fermentare un’area di libertari rompicoglioni e provocatori fra i quali si sosteneva il diritto agli anticoncezionali, nascevano i centri Aied consultori per le donne che inserivano la spirale e spiegavano senza vergogna alle ragazze come far usare il preservativo ai loro fidanzati. Le occupazioni universitarie furono un terreno di coltura fiorente per la prima ondata di liberazione sessuale che sarebbe arrivata di lì a due anni con il famoso Sessantotto. In fondo, dall’impresa di Fiume di D’Annunzio al 1968 erano passati sessant’anni, quanti ne sono passati (più tre) dal ’68 ad oggi, come ricordò Giordano Bruno Guerri che è il miglior studioso delle cose fiumane e dannunziane. L’intervallo di tempo fra il 1918 e il 1968 scandì due rivoluzioni sessuali: finché il “Soviet” di Fiume non fu sloggiato dalla Regia marina a suon di cannonate, tutte le ragazze fuggirono dai collegi per correre all’avventura nella città libera e libertaria, un po’ prefascista e un po’ bolscevica, e così fecero tutti gli omosessuali e i transgender di ogni sfumatura. Nel 1966 era ancora presto, ma già tirava l’aria. L’Arno andò fuori dagli argini il quattro novembre e fu l’alluvione di Firenze. Un disastro che non ha mai avuto l’uguale. Migliaia di opere d’arte devastate, manoscritti impappati, fango ovunque e morti come per la guerra. La gente che si trovava in strada affogò e alcuni si aggrappavano ai mobili che galleggiavano. Secondo Vanna Vannuccini, grande giornalista ed amica, chi stava alla finestra somministrava consigli a chi lottava nei gorghi: “La batta i piedi!”, incitavano gli spettatori all’asciutto. Il disastro fu mondiale, corsero e migliaia a Firenze per salvare la città e anche in quella occasione si formò un movimento spontaneo di volontari detti “gli angeli del fango” e si capì che non esisteva nulla di ciò che noi oggi chiamiamo protezione civile e consideriamo un pubblico servizio. Non esisteva nulla, fango, pompieri e volontari e nottate di discussioni e anche d’amore nel fango. Il governo erogava mezzo milione di lire ai commercianti, ma il Crocefisso di Cimabue era perduto, salvo frammenti. Fu allora uno dei primi grandi eventi unificanti nella disgrazia, del nostro Paese, come lo saranno alcuni terremoti negli anni a venire. Fuori dall’Italia. Le guerre andavano bene: quella fredda era sempre minacciosa ma tranquilla e quella rovente del Vietnam era in preda all’escalation decisa dal presidente Lyndon Johnson inghiottito da un gorgo di rabbia che oggi gli storici spiegano col fatto che gli americani non avevano la più pallida idea di che genere di guerra stessero combattendo e perdendo, mentre arrivavano continue notizie di esecuzioni di massa che provocavano in America impennate di ribellione nelle coscienze. John Lennon intanto dal Regno Unito sosteneva pubblicamente che i Beatles erano «più popolari di Gesù Cristo» e in Unione Sovietica Leonid Breznev diventò segretario generale del Partito comunista sovietico e avrebbe dominato la scena mondiale per molti anni con la sua corporatura sgraziata, le sopracciglia cespugliose e la più scrupolosa assenza di senso dell’humor, uno stile massiccio e sgraziato che sarebbe passato alla storia come “breznevismo”: immobilismo senza speranza e senza afflato di alcun genere alla guida di uno stato di polizia, e di superpotenza. Il generale De Gaulle, presidente francese molto ostile ad americani e inglesi, decise di proporre ai russi un sogno europeo comune “dall’Atlantico agli Urali” e fece uscire la Francia dalla Nato, dopo aver avviato una discreta produzione di bombe atomiche e nucleari che emettevano i loro funghi ovunque, a quei tempi. I test nucleari erano all’ordine del giorno ed eravamo abituati anche a questo. Ancora nessuno parlava di ecologia e di ambiente, inquinamento e plastica, tutti fumavano. Fumavamo come turchi e tutti buttavano bottigliette vuote in giro e sporcavano e le strade erano coperte di cicche e nei cinematografi non respiravi. Ma a suo modo era anche bello: faceva atmosfera quando andavi a vedere i film francesi in bianco e nero nel fumo azzurrino. Negli Usa partì la saga di Star Trek ma a metà dicembre moriva il più grande creatore di fiabe dopo Esopo, La Fontaine e i Fratelli Grimm, e cioè il creatore di Mickey Mouse e Donald Duck, due versioni dell’americano medio, ma anche di tutti gli esseri umani nella loro piccolezza comica e perdente. Walt Disney aveva avviato un impero con la sua matita e io feci in tempo a vederlo dal vivo poco prima, quando a Torino lo incontrai nell’ascensore. Solo nell’ascensore. Rimasi paralizzato e lui sorrise con quei baffetti alla Clark Gable e poi non lo vidi più e morì. Ma nella Cina di Mao avevano, intanto stampato l’infernale Libretto Rosso che diventò l’ossessione di tutti quelli di sinistra. Ne furono fatte varie versioni replicate, ma il vero “libretto rosso”, quello prezioso e autentico doveva avere il marchio del partito comunista cinese di Pechino su carta riso e una stampa nitida con tutte le massime rivoluzionarie simili a quelle di Chance il giardiniere del film Oltre il Giardino con Peter Sellers di cui abbiamo detto nella precedente puntata. Io ne ottenni una copia da amici calabresi di origine albanese perché l’Albania di Enver Hoxha aveva appena abbandonato il campo dell’Urss per passare dalla parte della Cina di Mao (fra le superpotenze comuniste tirava aria di guerra) e dunque gli arbëreshë (albanesi di Calabria e Sicilia) ebbero dal console di Tirana speciali tirature del sacro libretto, insieme forniture di autentici berretti maoisti, come quello che Andy Warhol dipinse mille volte con il faccione di Mao Zedong, alternandolo con quello sexy e sognante di Marilyn Monroe, oltre al barattolo della zuppa Campbell.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1966:

2 gennaio-  viene liberata Franca Viola, la prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore

9 gennaio – a Madrid si disputa la prima edizione della Coppa Intercontinentale di pallacanestro conquistata dalla squadra italiana della Ignis Varese

13 gennaio – Robert Weaver diventa il primo ministro afroamericano nella storia degli Stati Uniti

4 febbraio – viene abolito l’“Indice dei libri proibiti”

14 febbraio – a Milano, sul giornalino studentesco “La Zanzara” del liceo Parini, viene pubblicata un’inchiesta sul ruolo e sulla sessualità della donna: scoppia uno scandalo di dimensioni nazionali

4 marzo – John Lennon rilascia la famosa dichiarazione all’Evening Standard: «Siamo più popolari di Gesù Cristo»

8 aprile – Leonìd Il’ìč Brèžnev diventa segretario dell’Unione Sovietica

13 aprile – l’elicottero che trasporta il presidente dell’Iraq Abd al-Salam Arif, cade provocando la sua morte e quella di dieci persone

21 aprile – primo impianto di cuore artificiale in un organismo umano

30 luglio – l’Inghilterra batte la Germania Ovest 4 a 2 vincendo la coppa del mondo

13 agosto – disastroso terremoto in Turchia. 2.394 morti e circa 10.000 feriti

21 agosto – ultima esibizione dei The Doors al leggendario Whisky a Go Go

29 agosto – ultima esibizione in pubblico dei Beatles al Candlestick Park

28 novembre – in Burundi un colpo di Stato militare abbatte la monarchia proclamando la repubblica

6 dicembre – massacro di Bình Hòa nella Guerra del Vietnam.

Storia del 1967, dall’uccisione di Che Guevara alla Guerra dei Sei giorni. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. Evento dell’anno, inatteso ma temuto – la guerra dei Sei Giorni, del mese di giugno con il nuovo Giulio Cesare israeliano: Moshe Dayan, calmo e invincibile con una romantica benda nera su un occhio. La morte più segreta e triste, quella di Luigi Tenco che aveva portato autenticità e poesia nella canzone italiana. E poi le continue e ostinate disfatte dell’esercito americano in Vietnam, cosa che oggi appare incredibile per un evento, una situazione che è sotto i nostri occhi anche se non siamo in grado di vederla con gli occhi di ieri. Chi ha meno di sessanta anni, infatti, non può ricordare il valore emotivo della guerra del Vietnam che seminò veleno in politica, nella letteratura e nel cinema con le canzoni travolgenti di Joan Baez e Bob Dylan che accendevano scontri di piazza in America ed Europa. Ciò che oggi sembra incredibile è che mentre leggete queste righe, proprio adesso, gli Stati Uniti e il Vietnam sono alleati militarmente contro la Cina comunista e schierano insieme le loro flotte nel Mare del Sud della Cina dove le motovedette vietnamite (gentilmente concesse dal Giappone) sono schierate con la flotta americana, australiana, giapponese, indonesiana, la più tecnologica portaerei inglese Queen Elizabeth e navi da guerra francesi, mentre è in corso uno dei più pericolosi “stand off” dei nostri giorni che potrebbe portare a una guerra. Prova ne sia che ieri, nel suo discorso ben soppesato in Parlamento, il nuovo capo del governo Mario Draghi ha dedicato un minuto a quella situazione per dire che l’Italia è schierata dalla parte dell’Occidente ed è consapevole di quel che accade adesso. Ecco perché uno schieramento del genere sembra incredibile ricordando ciò che accadeva nel 1967, quando la Cina comunista di Mao Zedong concesse al Vietnam un enorme prestito per acquistare le sue stesse armi. Le armi usate dal Vietnam per battere l’America. Ma la Cina poi rivolle indietro ogni centesimo, tentando di sottomettere lo stesso Vietnam che aveva resistito ai francesi e agli americani. Nascevano le scarpe da palestra Nike. Morivano gli astronauti americani nel rogo dell’ “Apollo 1” e papa Paolo VI era furioso per l’imminente introduzione del divorzio in Italia. Ma si schiudeva un altro uovo di serpente: con le rivelazioni di Lino Jannuzzi sull’Espresso, secondo cui tre anni prima, nel 1964, l’Italia era sfuggita a un colpo di Stato orchestrato dai servizi segreti italiani e stranieri con un ambiguo intervento del presidente della Repubblica Antonio Segni che – secondo questa ricostruzione – sarebbe stato stroncato da un ictus nel corso di un violento alterco con Giuseppe Saragat (che fu il suo successore) mentre Pietro Nenni, leader dei socialisti, ammetteva di aver udito “un tintinnar di sciabole”, come dire una presenza eccessiva dei militari sui politici. Nella violenta polemica che ne seguì, il direttore dell’Espresso Eugenio Scalfari attaccò frontalmente il leader democristiano Aldo Moro che aveva imposto degli “omissis” su documenti che avrebbero potuto confermare l’esistenza di un tentativo di golpe e si sviluppò una polemica violentissima di cui fui testimone quando partecipai alla nascita di Repubblica e gli anni a seguire. Quando poi finalmente gli “omissis” furono resi disponibili, si vide che non nascondevano alcun segreto. Ho personalmente cercato di andare più a fondo nella vicenda durante l’inchiesta parlamentare sugli agenti sovietici in Italia e vedemmo confermata l’origine sovietica delle indiscrezioni. Ma qualcosa di vero c’era: Ferruccio Parri, il leader della formazione Giustizia e Libertà nella Resistenza e poi brevemente presidente del Consiglio, rivelò che esisteva un lungo elenco di personalità della sinistra e dei sindacati che avrebbero dovuto essere arrestati e trasferiti in un campo di concentramento in Sardegna per un piano della Nato che fu imposto all’Italia dopo i fatti di luglio del 1960 quando una insurrezione diffusa e non coordinata rivelò quanto inconsistenti fossero le capacità di informazione e di risposta da parte dello Stato. Per questo fu imposta, e in Italia accettata, la formazione di una speciale brigata corazzata dei Carabinieri, con il compito di fronteggiare con le armi un’eventuale rivolta che si supponeva diretta da una parte del Pci su cui l’Unione Sovietica aveva più influenza. In realtà non accadde nulla di nulla. Gli elenchi erano veri e provocarono una grave crisi istituzionale, ma non ci fu alcun tentativo di colpo di Stato, ma semmai una forte propaganda reazionaria contro la sinistra del Psi al governo che reclamava – alla maniera dei laburisti britannici – nazionalizzazioni delle industrie più importanti e dirigismo statale. Lo scontro fu giornalistico e poi politico e portò a un processo in cui Scalfari e Jannuzzi furono condannati in primo grado e poi per questo messi in salvo dal segretario socialista Giacomo Mancini nelle liste elettorali del Psi dell’anno successivo, che portarono Scalfari deputato a Milano e Jannuzzi senatore di Sapri, celebre per la sventurata impresa risorgimentale di Carlo Pisacane e dei suoi trecento “giovani e forti” che nel 1857 furono in gran parte massacrati sulla spiaggia dello sbarco dai contadini e dalla gendarmeria borbonica. Quella vicenda, curiosamente, fu la premessa per la nascita del quotidiano la Repubblica perché quando Scalfari, terminato il mandato parlamentare nel 1973 non fu rieletto per una lite con un vigile urbano a Milano, si trovò la porta sbarrata alla direzione dell’Espresso e decise di mettere in cantiere un quotidiano tabloid di formato e contenuti nuovissimi in Italia, che fu appunto La Repubblica. La sindrome del colpo di Stato stava diventando una malattia nazionale e i complotti, non tutti inventati, erano continui. Il 21 aprile di quell’anno un colpo di Stato ad Atene aveva instaurato la dittatura di una giunta militare che aveva esiliato il re (che non tornò più) e instaurato una dittatura anticomunista. Di conseguenza, una massa di fuggiaschi greci dalla dittatura si riversò in Italia per organizzare la resistenza contro il regime di Atene, il quale a sua volta inondò l’Italia di agenti e spioni, per lo più sotto forma di falsi studenti universitari che controllavano gli studenti greci in esilio. La Grecia aveva subito anni di guerra civile per l’ostinazione di una frazione del suo partito comunista deciso a compiere una rivoluzione malgrado il netto no di Stalin da Mosca, che riconosceva la Grecia come parte dell’Occidente secondo gli accordi di Yalta. Il mondo del 1967 era ancora un mondo con l’arma al piede, che stava forzatamente e spietatamente alle regole del gioco. L’anno successivo, nel 1968, i sovietici metteranno fine all’esperimento del “socialismo dal volto umano” del comunista Dubcek a Praga e nessuno muoverà un dito in Occidente, compresi i comunisti italiani che emisero pochi sussurri e proteste. La guerra dei sei giorni in Medio Oriente fu la replica di quella del 1948 quando le potenze arabe rifiutarono il doppio Stato ebraico e palestinese e scelsero la guerra totale a Israele e la persero nella maniera più umiliante. Nel 1967 Egitto, Siria, Giordania e tutti gli Stati arabi formarono una coalizione perfettamente armata dalle più recenti armi sovietiche, mentre gli israeliani perfezionarono la loro strategia fondata sulle unità individuali mobili e l’uso di una aviazione fulminea nel distruggere gli aerei nemici ancora sulle piste di volo, mentre i carri armati conquistavano il Sinai, la striscia di Gaza egiziana e le alture di Golan strappate alla Siria, oltre a Gerusalemme Est e altri territori. L’Egitto si rese conto con Anwar Sadat succeduto a Nasser che era preferibile trovare la via della pace con lo Stato ebraico, ma il resto del mondo arabo appoggiò la nascita e l’azione armata dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dall’ingegnere egiziano Yasser Arafat che per puro caso spese con me la sua ultima notte in Europa per una lunga intervista prima di tornare al suo compound da cui non uscì vivo. La guerra dei sei giorni di giugno di quell’anno spaccò la sinistra: l’ala filoebraica con intellettuali come Bruno Zevi si schierarono con Israele mentre la sinistra ortodossa si schierò con gli arabi. Avvenne così di fatto una mutazione nella sinistra, specialmente quella comunista che già in passato, sotto Stalin, era stata percorsa da occulti sussulti antiebraici. Il 9 ottobre Che Guevara sale ferito dopo uno scontro a fuoco su un treno a La Higuera in Bolivia. Lo riconoscono, lo arrestano e dopo un paio di giorni in una casa dei servizi segreti boliviani el Che è fucilato. Nello stesso mese lo Scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi è incoronato Re dei re e nessuno pensava a quei tempi che la Persia sarebbe diventata l’Iran degli ayatollah: Pahlavi era un monarca assoluto con un servizio segreto crudele e sospettoso, ma le donne iraniane portavano la minigonna e lavoravano come in Occidente. Il divo dell’anno fu il fascinoso dottor Christian Barnard. Un sudafricano che fece il primo trapianto di cuore umano. Fu un avvenimento gigantesco e il suo primo paziente pur sapendo di aver potuto prolungare la sua vita solo di qualche mese perché mancavano ancora le terapie antirigetto, si faceva fotografare felice per il miracolo che lo manteneva ancora vivo. Un uomo non altrettanto simpatico saliva intanto al potere in Romania: Nicolae Ceausescu che creò un comunismo nazionalista detestato dai sovietici. Ceausescu adorava la canzone My Way (A modo mio) cantata da Frank Sinatra, perché si vantava di praticare le teorie marxiste a modo suo. Quando caddero i regimi comunisti dopo la caduta del Muro di Berlino, fu barbaramente trucidato con la moglie Elena dopo un processo farsa in una scuola elementare. Le manifestazioni negli Stati Uniti contro la guerra nel Vietnam dilagano: Martin Luther King prende ufficialmente posizione contro la guerra e Cassius Clay – con il nuovo nome di Muhammad Alì – rifiuta il servizio militare e subisce una degradazione non molto diversa da quella che moltissimi anni prima aveva subito il capitano Alfred Dreyfus in Francia. Dreyfus era stato spogliato pubblicamente delle sue mostrine, gradi e medaglie militari. A Muhammad Ali fu tolto il titolo di campione ed escluso dal ring per i successivi tre anni. Intanto, la Spagna del caudillo Francisco Franco, la Cecoslovacchia della nascente primavera di Praga e la Francia della quarta Repubblica erano percorse da profonde fratture e segnali di imminente catastrofe e forse imminente rinascita. Un testo fondamentale – allora – stava scavando sotto le fondamenta degli Stati occidentali, anche se oggi è un testo privo di qualsiasi interesse: L’uomo a una Dimensione di Herbert Marcuse era dal 1964 il più aggiornato compendio dei mali del capitalismo e nel suo nome crescevano ovunque gruppi di dissidenti e rivoluzionari. Non solo il Sessantotto era alle porte, ma l’Europa e l’America covavano la grave crisi degli anni Settanta che sconvolse il mondo e di cui portiamo ancora i segni.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1967

8 gennaio- in Vietnam l’esercito Usa scatena un’offensiva sul delta del Mekong che si rivelerà fallimentare

25 gennaio- Philip Knight e Bill Bowerman fondano l’azienda produttrice di abbigliamento sportivo Nike

11 marzo- a Londra i Pink Floyd pubblicano il primo singolo: Arnold Layne/Candy and a Currant Bun

28 aprile- a Montréal, in Canada si apre l’Expo 67, esposizione mondiale di architettura, design, tecnologia, cultura. Fu l’esposizione di maggior successo della storia, con più di 50 milioni di visitatori

29 maggio- in Nigeria, a seguito della dichiarazione di indipendenza, scoppia la guerra del Biafra

1° giugno- i Beatles pubblicano Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, uno degli album-simbolo della musica rock

5-10 giugno- Guerra dei sei giorni tra Israele e Egitto, Siria e Giordania. Le forze israeliane, guidate dal ministro della difesa Moshe Dayan, occupano la penisola del Sinai, la striscia di Gaza, il settore arabo di Gerusalemme, la Cisgiordania e le alture siriane del Golan

11 giugno- Felice Gimondi vince il cinquantesimo Giro d’Italia

25 luglio- a Città del Capo il chirurgo Christian Barnard esegue il primo trapianto di cuore

7 agosto- la Repubblica Popolare Cinese invia aiuti economici al Vietnam del Nord sotto forma di prestito

9 ottobre- Che Guevara, ferito e catturato in un’imboscata delle forze governative in Bolivia, viene fucilato

19 ottobre- la sonda Mariner 5 viene lanciata verso Venere

8 novembre- viene lanciata la prima Emittente radiofonica della BBC

Storia del 1968, quando il mondo impazzì e cambiò tutto in poche settimane. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 4 Marzo 2021. Ero in un piccolo corridoio scalcinato con una decina di telescriventi, macchine di ferro che battevano testi fra pause ronzanti e ripartite tartassanti su rotoli di carta che si dipanava in un serpente e che bisognava tagliare con le forbici e mettere nelle cassette per i diversi servizi del giornale: esteri, interni, politico, cultura, cronaca. E sport. Anche lo sport era in subbuglio. C’erano le agenzie italiane, Ansa, Italia e AdnKronos, e le agenzie internazionali inglesi e francesi, la Reuter, AP, France Presse e naturalmente la Tass sovietica in cirillico per i non rari compagni che avevano avuto frequentazioni. Il luogo del quale sto parlando era la redazione dell’Avanti! organo del Partito socialista con la galleria delle foto di tutti i direttori, salvo quella di Mussolini, che fu cacciato quando si dichiarò a favore dell’intervento nella Prima guerra mondiale. L’Avanti! era un giornale antico, la sua sede aveva vagato in giro per Roma e per Milano ma allora era a vicolo della Guardiola, a un passo dalla gelateria Giolitti dove prendevo il caffè con Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir (cosa di cui mi vantavo moltissimo, anche se avevamo conversato solo sulle differenze del caffè romano e parigino). Esisteva e ruggiva ogni notte la vecchia rotativa che dall’inizio del secolo sfornava copie che si sventolavano nei tumulti e poi anche – più composto – nei consigli del ministri da quando i socialisti erano entrati nella stanza dei bottoni. Nella sala delle telescriventi stava accadendo un prodigio: le macchine fracassavano l’aria e Peppone, il fattorino che tagliava il serpente di carta e lo divideva in notizie separate, con la sua maglietta a righe bianche e blu con l’ombelico scoperto, era sbalordito: “Ma questi se so’ impazziti”, disse. “Chi?” chiesi io, conoscendo la riposta. “Tutti: ma non lo vedi?”. Stava accadendo una sorta di congiunzione astrale planetaria: a Madrid, nella Spagna del regime militare di Francisco Franco, gli studenti erano in piazza e facevano a botte con la Guardia Civil, quelli con la lanterna, una specie di feluca grigia. In Spagna ancora si garrotavano gli anarchici: il boia li legava alla sedia e poi gli stringeva un nastro di ferro alla gola, sempre più stretto fino all’ultimo respiro. Avevo partecipato a un assalto all’ambasciata spagnola presso la Santa Sede in piazza di Spagna, cinque anni prima, quando strozzarono l’anarchico Julian Grimau. La telescrivente accanto mitragliava notizie da Praga. Il regime comunista “dal volto umano” di Dubcek aveva le ore contate perché sarebbero arrivati i carri armati sovietici e tedesco orientali ad agosto, e gli studenti avevano fretta e paura. Avrebbe raccontato tutto Milan Kundera nella “Insostenibile leggerezza dell’essere”. E poi Parigi: era la rivoluzione. I francesi erano stati all’inizio inerti. La rivoluzione veniva dagli Stati Uniti: il campus di Berkeley era stato il vero teatro. La guerra del Vietnam, i sit-in, le canzoni di Joan Baetz e Bob Dylan, i pestaggi della polizia, i fiori nei cannoni, le prime garbate avvisaglie di femminismo che però non aveva ancora le idee chiare. Girava un manifesto in cui una sventola bionda, in minigonna di pelle western con le frange, faceva pipì contro il muro insieme a una fila di maschi. L’ho detto: avvisaglie ancora imprecise. Ma i francesi sembravano indifferenti perché aspettavano il tepore di maggio, le joli Mai, quando Jacques Brel cantava Le Moribond in cui diceva que c’est triste de mourir au printamps, tu sais, è triste morire a primavera e tu lo sai. Barbarà cantava l’amore di maggio quando c’est si joli de parler d’amour dans le rues de Paris a maggio – e quel giorno, nella stanza delle telescriventi, era maggio e Parigi esplose e sembrò che fosse la fine del generale De Gaulle, un tiranno democratico lungo due metri, dinoccolato e pieno di rinvigorente narcisismo che volle sfidare se stesso e i ragazzi del maggio sciogliendo le camere e convocando le elezioni anticipate. Disse: vediamo chi ha la maggioranza, in Francia. Stravinse. Però pure lui esagerò. L’anno dopo varò una riforma costituzionale e un referendum per ratificarla. E dopo il trionfo del 68 ci fu la sconfitta del ‘69: de Gaulle perse il referendum e se ne tornò a Colombay-Les-Deux-Eglises, il paese natale, sbattendo la porta della storia et allez-vous ve faire voir par le Grecs, vatti a far fottere o patria ingrata. Aveva già respinto con riluttanza il programma di fucilare tutti gli imbecilli perché era “un vaste programme”. Mentre gli studenti francesi , guidati da un ragazzino di 20 anni che si chiamava Daniel Cohn Bendit, e aveva i capelli rossi, e oggi è un leader della socialdemocrazia tedesca, sfasciavano Parigi, altri ragazzi sfasciavano Praga. E Madrid. E Roma e Milano e Bologna. E Berlino: la città divisa in due dal muro col suo magico e maledetto Check-Point Charlie, dove passavi dal mondo dell’Ovest a quello dell’Est come nella macchina del tempo. Ero appena tornato da Berlino ed ero vittima del suo fascino perverso e grigio. Una città prussiana in cui i nuovi comandanti avevano notificato agli ex militari della Wermacht di Hitler che da oggi siamo tutti comunisti, e quelli – Jawohl! – marciando allo stesso passo dell’oca, facevano le stesse facce da Stasi o Gestapo, fino al 1989 che poi sarebbe appena trent’anni fa. Nel Sessantotto era ancora vivo e vegeto, un po’ ingrigito, il mondo di coloro che avevano fatto la guerra. Vittime e carnefici sempre di fronte, i conti sempre aperti. E poi c’erano – novità dell’anno precedente – i greci dopo il colpo di Stato dei colonnelli di Atene del 21 aprile del 1967. Migliaia di studenti in fuga, migliaia di studenti di destra a caccia di studenti di sinistra, i loro servizi segreti, era un mondo complicato e anche in Libia tirava un’ariaccia per il re Idris e si sapeva che i nostri servizi segreti avevano in mente qualcosa e quel qualcosa lo vedemmo di lì a poco, era Gheddafi, con altre iniezioni di violenza incontrollabile in casa e fuori casa. Cambiavano le regole e cambiava “the narrative” o narrazione come diciamo oggi, la verità era sempre più polverizzata. Esuli e spie, a tonnellate. Si odiavano, si ammazzavano, cercavano solidarietà, li nascondevamo in casa quando c’era bisogno così come nascondevamo gli ultimi relitti della guerra civile spagnola che ancora cantavano “mamita mia”, “El Quinto regimiento” e la canzone del fronte di “Guadalajara”, dove gli italiani delle brigate internazionali batterono militarmente gli italiani in camicia nera mandati da Mussolini e ne catturarono più di cinquecento. Erano vivi carnefici e vittime, fascisti e partigiani, rossi e neri. Ma con molte, moltissime complicazioni. E a Mosca: mai visti tumulti a Mosca. Il Kgb impazzito sulla strada Arbeit, gli artisti dalla barba caprina strillavano libertà: ma siamo impazziti? E i tumulti in Kazakhistan, in Polonia, nel decadente impero britannico, in Cina dove l’astutissimo Mao Zedong (ma allora si diceva Mao Tze-tung aveva dichiarato lui la rivoluzione nella rivoluzione, ovvero la rivoluzione permanente con le guardie rosse che arrestavano i padri e i padri che arrestavano i figli e tutti in campo di rieducazione, concentramento, esposti al pubblico ludibrio, il libretto di Mai era già nato).

Poi il sesso, non dimentichiamo il sesso. Le ragazze si erano già messe la minigonna inguinale, vedere le mutandine bianche di cotone delle compagne femmine non era più una novità, si cominciava a parlare di corpo umano, dei suoi odori naturali, dell’orgasmo, della rivoluzione sessuale, della coppia aperta, guai a dire che volevi la coppia chiusa, cominciavamo ad avvitarci in una ipocrisia permanente, pseudorivoluzionaria, scandita da slogan, frasi fatte, si diceva “a monte e a valle”, se uno avesse detto “far trovare la quadra” gli avrebbero sparato alla tempia. E nelle scuole era arrivata l’ora della contestazione ai vecchi professori in cattedra, il voto politico, l’assemblea permanente, la puzza di ascelle e di piedi, non c’era grande igiene durante la rivoluzione e le botte. La sinistra scoprì che poteva menare le mani. Poteva sparare e non solo prenderle dai fascisti – sempre militarizzati, sempre in palestra, sempre stracciafemmine – e adesso c’era questa novità per cui i ragazzi di sinistra, per tradizione secchioni pallidi e macilenti o appena un po’ obesi con gli occhiali e una mazzetta di almeno venti giornali sotto il braccio e che finora avevano preso solo schiaffoni e cazzotti, gli venne come una voglia di pistola e di Che Guevara e di Olp palestinese che cominciava ad essere una novità anche quella di moda: con quella kefia, lo straccio intorno al collo e la faccia da onesto musulmano scacciato dalla belva imperialista. Stava diventando una moda, anzi un modo d’essere. Una categoria politica. Ci mancava. Adesso c’era. L’Olp era nata l’anno precedente, dopo la Guerra dei Sei giorni di giugno del ‘67 e ne era nata la resistenza palestinese, molto pro-sovietica, e accadde questo fenomeno oggi rimosso: i nazisti si fecero maoisti e nacque un vero movimento nazi-maoista e tornava l’aria del patto fra Stalin e Hitler, tutti uniti contro il capitalismo, la borghesia giudea e massonica, proletari di tutto il mondo uniamoci sotto le congiunte insegne, guardate che dicevano sul serio e ci fu davvero un grande abbraccio. Principio comune: siamo tutti antiamericani e adesso che Israele è diventata una potenza imperialista possiamo (i nazisti di allora ma anche di oggi) recuperare il nostro antisemitismo razzista spacciandolo per antisionismo. Gli ebrei nel Sessantotto erano spaccati (per fare una cosa nuova) fra fedeli alla patria e ebrei di sinistra. In Italia Umberto Terracini, antifascista fondatore del Pci e padre costituente comunista ed ebreo, fu messo all’angolo nel partito perché sospetto di sionismo. (E non era la prima volta che lo mettevano all’angolo). E poi Oreste. Oreste Scalzone, intendo. Dove sei finito vecchia onesta canaglia? Ecco Oreste con l’ingessatura e la “minerva” che cammina nell’Università La Sapienza dopo che gli hanno tirato sulla schiena un armadio dalla finestra e lui non è affatto morto. Sembrava averlo rinvigorito. “Mi presti cinquecento lire per un taxi, domani te le ridò”. Non era una domanda, era una disposizione. Glieli diedi. Sparito, fuggito per sempre a Parigi e ancora vive lì, precariamente come sempre a 75 anni. Con lui la battaglia di Valle Giulia, studenti contro poliziotti, per la prima volta gli studenti caricano la Celere e la polizia le prende, arretra e fugge. Pierpaolo Pasolini incazzato nero scrisse un’ode in cui si schierava dalla parte dei poliziotti, i veri proletari figli di proletari che si scontravano contro i rimasugli nevrotici della piccola borghesia in fregola rivoluzionaria, tutti figli di papà che non hanno dovuto arruolarsi in polizia per mettere insieme il pranzo con la cena e adesso i ragazzi nella divisa grigia della celere si prendevano a randellate con i liceali e universitari che scandivano slogan sui gradini della Galleria d’Arte moderna (io ero là con la mia scolaresca di un istituto privato di recupero anni perduti dove insegnavo storia e filosofia, ma anche francese italiano e quel che capitava e li portavo alla rivoluzione, vedrete ci divertiremo). Ancora non si usava l’aggettivo squalificativo “sessantottino” per indicare quelli che hanno distrutto la meritocrazia – i primi dell’uno vale uno applicato agli esami universitari – e poi del “sei politico”, degli esami di gruppo come l’amore di gruppo, in tempi in cui si parlava seriamente di “socialismo su un solo pianerottolo” (allusione allo stalinismo del socialismo in un solo stato contro il trotzchismo della rivoluzione permanente e internazionale) della propria comune e delle prime fumerie di canne di marijuana, sotto gli occhi tutt’altro che compiaciuti dei vecchi compagni del Pci e anche del Psi che si contorcevano in Italia su un solo tema: che cavolo fare di fronte al “movimento”? Ammazzarli o assorbirli? Denigrali come provocatori e agenti dell’imperialismo (o del Kgb sovietico o dei cecoslovacchi molto abili come agenti). Fu allora, in quell’anno e come racconteremo nella prossima puntata, che si formarono le commistioni rosso-nere: Giulio Caradonna del Movimento sociale neofascista, dichiarava al Corriere della Sera: “C’è un terreno comune tra destra e sinistra extraparlamentari. Anche se quando si incontrano si basto­nano, la cosa importante per me resta questa: nessuna delle due vuole difendere l’ordine costituito. Se la violenza ha una funzione morale, non mi ripugna certamente”. I gruppi ideologici nero-rossi si uniscono ai gruppi dell’ideologo Franco Freda che diventerà uno dei protagonisti delle “piste nere”, le inchieste sulla strage di piazza Fontana che avverrà il 12 dicembre dell’anno successivo e che metterà l’Italia, moralmente in ginocchio per almeno un ventennio. I maoisti d’Albania giravano fra noi e gli studenti. Il Sessantotto fu il trionfo del libro del filosofo tedesco Herbert Marcuse, “L’uomo a una dimensione” e un effetto della geniale Scuola di Francoforte, e in particolare di Theodor Ludwig Wiesegrund Adorno, che morì un anno dopo. I suoi “Minima Moralia” avevano perforato la muraglia con il loro laser, ma scopriremo che quel meraviglioso libro era stato censurato. Era ancora possibile. Funzionava l’Indice di Santa Romana Chiesa, l’indice della Cia (la cui sezione artistica e intellettuale era attivissima) e l’indice del Kgb sovietico. Il “deep State” era una cosa seria. Polizie, servizi segreti, agents-provocateurs, falsi filosofi e profeti, rivoluzionari al soldo della repressione e repressori pentiti. Cominciavano a pentirsi anche alcuni mafiosi, lunga storia per le prossime puntate, macchiata di molto sangue e ancor più dalle menzogne e dalle fabbricazioni col doppio fondo. Anche triplo.

Storia del 1968, quando i figli ribelli chiusero la bocca ai loro padri. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 14 Marzo 2021. Primavera. Claudio Orsi, presidente di Giovane Europa, impone al Congresso di Napoli lo scioglimento dell’organizzazione per fondare a Ferrara una “Italia-Cina”. Si tratta di una delle tante manovre “nazi-maoiste” dei gruppi legati a Franco Freda. Troppi cliché, luoghi comuni e frasi fatte sul Sessantotto e i suoi misteriosi sessantottini. Sicuramente fu l’anno in cui due continenti alla deriva si misero in collisione provocando maremoti e crolli. I due mondi erano, banalmente, il prima e il dopo. Il prima – sempre nel tentativo abusivo e frettoloso di tagliare la storia a fette – era il mondo autoritario. Quello dei padri che dicono ai figli: si fa così e così e anche tu farai come tutti hanno sempre fatto. L’altro mondo era quello dei figli che disserro: non avete nulla da insegnarci perché il vostro mondo è cambiato e non sapete interpretarlo, noi siamo ancora puliti e vogliamo prendere tutto e subito, cacciarvi, chiudervi la bocca, per sempre. Questa fu certamente la novità più estrema e unificante. In Israele i bambini insegnavano ai genitori a leggere e scrivere, nel mondo occidentale le macchine erano sempre più complesse e gli anziani troppo conservatori da capire che cosa implicasse la conquista dello spazio o la rivoluzione maoista in Cina. Nelle università saltarono le baronie che poi tornarono con nuove dinastie: decapitati i re di Francia, poi arriva Napoleone con tutta la sua famiglia. La liberazione sessuale arrivò con la liberazione della donna dall’incubo della gravidanza involontaria: spirali, pillola, l’avvio della legalizzazione dell’aborto, la negazione dell’autorità paterna e materna. Le coppie diventarono spesso avide di esperienze e di feroci inflizioni, l’instabilità cominciò a medicarsi con l’uso di droghe di massa che derivavano dalla guerra del Vietnam che aveva portato prima negli Stati Uniti e poi in Europa tonnellate di hashish, erba, Lsd, funghi allucinogeni e con questo materiale entrarono in campo visioni filosofiche mistiche e allucinate oltre che allucinogene, per cui se da una parte il Sessantotto prese la forma di una rivoluzione politica contro i governi, dall’altro prese la forma di una rivoluzione contro le strutture interne della società e della famiglia. Emerse la tossicità della famiglia, l’autoritarismo familiare e scolastico, la voracità indomabile di prendere subito tutto e senza esitazioni. Non si può fare una generalizzazione amalgamata del Sessantotto (e degli anni che ne seguirono, fino agli Ottanta) perché ogni popolo e ogni genere e ogni razza e ogni età prese le armi contro l’oppressore vero o immaginario che fosse, spesso figlio soltanto di fantasmi, luoghi comuni, parole d’ordine ripetute nella babele linguistica che accompagnava e che era il Sessantotto. Il vento di Praga, dove il regime comunista era in crisi con l’arrivo del garbato Dubcek, portava odore di primavera. Tutto ciò che arrivava dalla Russia sovietica appariva prima di tutto decrepito, stantio, immobile, ottuso, come nei peggiori imperi e imperialismi della storia. Il mondo di allora – chi è giovane oggi stenterà a comprenderne le conseguenze. era pieno zeppo di spie. I sovietici si agitavano molto perché temevano che i regimi dei Paesi satelliti non reggessero. E guardavano alla Cecoslovacchia come al nuovo grande malato, dopo l’Ungheria del ‘56, e si apprestavano a somministrarle la stessa cura: una buona iniezione di carri armati. La Polonia era già in subbuglio: non era ancora arrivato il papa polacco che provocherà lui il vero crollo del sistema, prima del decantato crollo del muro di Berlino. In Polonia, dove sono andato parecchie volte in quegli anni, trovavi questo Paese cattolico così diverso dall’Italia cattolica: gli operai andavano ogni giorno a fare la comunione tornati dalle fabbriche e dalle miniere e i loro sindacati erano cattolici e pieni di preti e i monsignori sedevano al caffè ricevendo i loro amici per discutere sotto gli occhi della polizia segreta e non era proprio come prendere un caffè ai Deux Magots con gli antisistema di Parigi. Ciò che accadde di straordinario, fu la simultaneità. L’ho raccontato nel precedente articolo; ero davanti alle telescriventi che mitragliavano notizie dagli Stati Uniti, la Cecoslovacchia, la Spagna franchista, la Francia gollista, il Messico, la Jugoslavia, la Germania occidentale (in quella dell’Est, cupezza grigia e assoluta), in Giappone, persino in Uruguay e in Africa. La Cina Maoista si auto-divorava in una rivoluzione che mangiava la rivoluzione, ma lo strumento che unificava tutti era la musica, prevalentemente americana e di massa, i concerti, le comuni emozioni, le manifestazioni mano nella mano cantando We shall overcome, one day, ce la faremo, vedrete, e si spargeva quest’ottimismo del tutto folle e dissennato perché sembrava che nulla mai, potesse tornare come prima. I carri armati sovietici di un giorno d’estate a Praga fecero capire a tutti che finché si scherza, si scherza. I ragazzi di Praga correvano sui carri russi e tedeschi per parlare con i soldati, le ragazze offrivano fiori ai carristi dagli occhi kirghisi o mongoli, che non capivano e urlavano e qualcuno nella furia e nella frustrazione sparava e uccideva e restavano quei corpi di ragazzi morti sulle strade di Praga. In Italia si sparse il sangue, in scontri che ricordavano l’Ottocento, anziché l’epoca moderna. Ad Avola, fine novembre, tremila braccianti in sciopero affrontarono la polizia che sparò nel mucchio. Due uccisi, una bambina di tre anni ferita, quarantotto persone in ospedale per ferite da arma da fuoco. Questo incidente gravissimo e figlio di un’altra epoca causerà i fatti di Battipaglia dell’anno successivo e i sindacati non riuscivano più a contenere la furia che cresceva dal basso. Tutto ciò che era vecchio, tremava come un pollo alla vigilia di Natale. A Parigi, dove l’altezzoso Partito comunista francese aveva definito “gruppuscoli” i giovani di sinistra che contestavano il partito, si svolse una manifestazione gigantesca con oltre centomila dimostranti che passarono sotto le finestre del partito scandendo lo slogan “Nous sommes les gruppuscules”, noi siamo i gruppuscoli. Nella Chiesa cattolica erano nati i preti operai, in America Latina molti preti passavano alla rivoluzione guevarista mettendo le basi della cosiddetta “teologia della liberazione”: se devi scegliere se avere accanto un crocefisso o un mitra, scegli il mitra, tanto Cristo ti guarda e ti ama lo stesso. In Italia l’estrema destra era impazzita: vedeva questa rivoluzione di sinistra che però era antisistema, e ne andava pazza. Di invidia. Di qui tutti i tentativi di mettere insieme pezzi di nazi-maoismo, sotto gli occhi molto comprensivi e interessati del Kgb sovietico e in parte anche dalla Cia che cercavano in ogni modo di introdurre infiltrati, avere il comando dei gruppuscoli, portare i loro uomini a inserirsi e fare una campagna acquisti. Il principe Junio Valerio Borghese che aveva guidato un corpo speciale della marina durante la guerra e che godeva delle simpatie americane e inglesi fondò un Fronte Nazionale a favore della scheda bianca “da schiacciare in faccia ai partiti” e cominciarono a scoppiare bombe. Piccole bombe. Dimostrative. Alle stazioni di servizio a novembre, poi davanti alle scuole, e tutti sentivano una particolare puzza di servizi segreti, di operazioni occulte, reclutamenti. Anche la mafia siciliana – ancora non si diceva con certezza “Cosa nostra” come si farà dopo l’interrogatorio di Falcone al pentito Buscetta – era in fermento fra il vecchio e nuovo, non certo perché fosse scossa da vibrazioni morali, ma diventava semmai sempre più complicato individuare il potere con cui trattare. Era allora a capo dell’organizzazione Luciano Leggio, detto – chissà perché – Liggio e tutti dicevano che era protetto dalla Procura di Palermo, guidata da Pietro Scaglione. Contro questa apparente impunità insorse l’intera sinistra, da Umberto Terracini a Emanuele Macaluso, da Girolamo Li Causi a Sandro Pertini e dal presidente dell’Antimafia Francesco Cattanei. Liggio, malato di tubercolosi ossea, girava per le cliniche italiane nell’indifferenza delle autorità di polizia. Il procuratore Pietro Scaglione fu scagionato dal ministro degli Interni Franco Restivo e poco dopo si celebrò un processone contro i capi della mafia a Catanzaro da cui uscirono con pochissimi danni alcuni fra i più bei nomi della cupola fra cui lo stesso Liggio, Gaetano Badalamenti, Angelo La Barbera e Totò Greco. Scaglione sarà assassinato tre anni dopo e più tardi ancora il pentito Buscetta, fornitore di prima mano di notizie a Giovanni Falcone, dirà che Scaglione non era un giudice mafioso e che lo avevano incastrato. Stava cominciando una nuova terribile partita in Italia, di cui quelli erano gli albori quasi inosservati fra le fiamme e le esplosioni del Sessantotto dei giovani insorti. L’anno successivo sarà degli operai e poi l’anno della terribile strage di piazza Fontana, il nuovo mostro. Molte uova di serpente erano state deposte e avrebbero cominciato a schiudersi una dopo l’altra.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1968:

5 gennaio: Alexander Dubček sale al potere. In Cecoslovacchia comincia la Primavera di Praga

15 gennaio: il Terremoto del Belice causa la morte di 370 persone

12 febbraio: massacro di Phong Nhi e Phong Nhàt (Guerra del Vietnam)

1º marzo: di fronte alla facoltà di architettura dell’Università di Roma a Valle Giulia, si verificano violentissimi scontri tra gli studenti e la polizia. L’accaduto dà il via a una serie di occupazioni in numerose università italiane

27 marzo: lutto nazionale in Unione Sovietica per la scomparsa di Jurij Gagarin in un incidente aereo

4 aprile: a Memphis, negli Stati Uniti, Martin Luther King viene assassinato a colpi di pistola sparati da James Earl Ray

11 aprile: a Berlino un uomo ferisce gravemente a colpi di pistola il leader degli studenti Rudi Dutschke, che morì a causa delle lesioni nel 1979

1º maggio: l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa dichiara l’indipendenza dell’Isola delle Rose

10 e 11 maggio: nel quartiere latino di Parigi scoppiano gravi incidenti tra la polizia e gli studenti delle università di Nanterre e della Sorbona. È l’apice del Maggio francese

3 giugno: Valerie Solanas spara a Andy Warhol all’entrata dello studio dell’artista

5 giugno: a Los Angeles viene assassinato il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti Robert Kennedy, fratello di John

8 giugno: James Earl Ray viene arrestato per l’omicidio di Martin Luther King

10 giugno: la nazionale italiana di calcio vince i Campionati europei battendo la Jugoslavia.

20 agosto: le truppe del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia mettendo fine alla Primavera di Praga

24 agosto: la Francia fa detonare la sua prima bomba all’idrogeno

1º settembre: Vittorio Adorni conquista sul circuito del Santerno a Imola il titolo di Campione del Mondo di ciclismo su strada

11 settembre: il generale francese René Cogny e altre 94 persone muoiono nell’incidente dell’Air France Caravelle, nei pressi di Nizza, nel Mediterraneo

23 settembre: muore il frate cappuccino Padre Pio nella città di San Giovanni Rotondo

3 novembre: una devastante alluvione colpisce il Piemonte e in particolare la zona di Biella, causando oltre cento morti

5 novembre: il repubblicano Richard Nixon viene eletto presidente degli Stati Uniti

2 dicembre: la polizia spara sui braccianti durante uno sciopero. Muoiono due manifestanti, i feriti sono decine (Eccidio di Avola)

Cosa è successo nel 1969, dall’uomo sulla Luna alla strage di Piazza Fontana. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Marzo 2021. Un evento dominò su tutti gli altri: la strage di piazza Fontana, alla fine del 1969, un anno torbido e denso di presagi: il primo in cui le bombe fossero usate per fini terroristici (ne scoppiò una a Ferragosto davanti al portone del Senato) cominciarono ad esplodere, come se avessero dovuto introdurre un nuovo elemento drammatico e anzi criminale in un mondo politico che si faceva sempre più torbido. Non erano all’inizio grandi bombe – fino a quella della strage pomeridiana in una filiale della Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana – ma pacchi di esplosivo che mostravano la volontà di far capire qualcosa. Ma che cosa? Verrà creato un termine che ebbe una fortuna: “Strategia della tensione”. Quel termine aveva e ha il limite di partire da una conclusione, anziché da un inizio. E la conclusione non ha potuto essere confermata, neanche in via ipotetica. Avrebbe dovuto essere quella di un colpo di Stato, o almeno dell’instaurazione di un regime autoritario. Nota lessicale: ancora non si usava la parola spagnola “golpe” che verrà soltanto con il colpo di Stato in Cile contro Salvador Allende, qualche anno dopo. Fu dato alla fine per scontato che qualcuno, forse un Grande Vecchio, comunque qualcuno dotato sia di “manone” che di “manine” (questi erano alcuni dei termini che il complottismo dei tempi man mano suggeriva), avesse orchestrato tutto come una partitura d’orchestra. Un piano che doveva innescare una finta rivoluzione che giustificasse un vero colpo di Stato. Il termine si fece Storia senza che la storia lo avesse mai confermato. Di fatto, non ci fu mai alcun colpo di Stato e neanche un credibile tentativo di realizzarlo, salvo una buffa mascherata nell’anno successivo per il cosiddetto “Colpo dell’Annunziata”, essendo avvenuto nel buio degli scantinati del Viminale, l’otto dicembre del 1970. Ma qualcosa era nell’aria. Io ero un giornalista molto intercettato al telefono. Avevo un mio amico tenente colonnello dei Carabinieri che poi sarebbe morto misteriosamente su un tavolo operatorio, che mi informava di quanto risultava all’Arma sul fronte delle intercettazioni. Gli attori erano tanti, troppi. È vero, c’era la Cia. Ma la Cia di quell’epoca apparteneva all’amministrazione di Richard Nixon appena eletto presidente degli Stati Uniti. Sentirete e leggerete soltanto cose orrende su quest’uomo, che però fu – a mio solitario parere – un grande presidente anche se finì malissimo – dimissionario per l’affare Watergate – e forse finì male perché fu un grande Presidente cinico e realista: chiuse la guerra del Vietnam iniziata da John Fitzgerald Kennedy e proseguita dal democratico Lyndon Johnson e aprì alla Cina di Mao Zedong. Ma questo accadrà più tardi. Nel 1969 si cominciò a parlare di uno sganciamento americano dalla tremenda trappola vietnamita. Gli americani erano ossessionati dall’Unione Sovietica e quest’ultima era ossessionata dagli americani. Ma in quell’anno l’Urss portò a termine alcune imprese spaziali formidabili: mandò una sonda verso Venere e poi scagliò in orbita prima una Soyuz e poi un’altra. Poi le fece agganciare in cielo e gli equipaggi passarono dall’una all’altra astronave. Fantastico, mai vista una cosa del genere. Ma stavolta gli americani non restarono più a guardare con invidia quel che facevano i maledetti “commies” (plurale di “Communist”): stavolta gli americani sbarcarono l’uomo sulla Luna. L’uomo sulla Luna si chiamava Neil Armstrong. Il secondo uomo che scese sulla Luna si chiamava Buzz Eldrin e poi Michael Collins. Chi c’era ricorda. Che cosa facevi tu quando gli americani sbarcarono sulla Luna? Alle nostre latitudini non era difficile rispondere: o stavi nel tuo letto perché erano le tre di notte o stavi come tutti incollato a un grosso televisore in bianco e nero, fitto di righine grigie orizzontali che rendevano l’immagine imperfetta e miracolosa. Mentre da noi un grande cronista come Tito Stagno dava il meglio di sé per raccontare l’impresa. I terrapiattisti più tardi sostennero che le ombre delle bandiere piantate sulla Luna erano sbagliate e che l’intero sbarco lunare fu una messinscena della Cia e della Nasa per far credere a tutto il mondo che gli americani fossero davvero andati sulla Luna, da cui riportarono indietro comunque sassi e minerali che sulla Terra non si trovano. Spettacolare la reazione emotiva di Filippo d’Edimburgo, marito (ora agonizzante in ospedale quasi centenario) della regina Elisabetta il quale volle assolutamente un colloquio provato con gli astronauti americani invitati a Londra per strappare dalle loro memorie tutte le emozioni provate durante la loro impresa. I quattro andarono a Londra in trionfo e quando si ritrovarono con Filippo che li interrogava – che cosa avete provato? di che colore era cielo? quali emozioni provavate? – non seppero che rispondere: «Vostra altezza, per noi era soltanto un lavoro, ogni nostro secondo di tempo era impegnato dai protocolli che dovevamo seguire, premevamo dei tasti, giravamo viti e non avevano tempo per provare emozioni». Non fu una cosa da poco, anzi oggi se ne è persa la memoria. Finì con quell’impresa americana l’antico rapporto fra uomo e cielo, l’uomo e il suo cielo stellato, azzurro e tempestato di diamanti. Ora il cosmo appariva come era: una discarica di sassi in fuga circolare secondo orbite ed ellissi, fango e polvere, tutto grigio, immerso nel silenzio cosmico, luce abbagliante o nero assoluto. Il mondo occidentale e filoamericano che aveva molto sofferto a denti stretti per il travolgente successo spaziale sovietico fin dal lancio del primo satellite Sputnik, tirò un sospiro di sollievo per grazia ricevuta: chi, se non gli americani con la bandiera americana, potevano vantare i diritti televisivi, cinematografici e fantastici della scoperta della Luna, che poteva avere come pari soltanto quella di Cristoforo Colombo che volle a tutti i costi scoprire l’America? I sovietici, infatti, incassarono il colpo propagandistico e anche in Europa i giornali comunisti fecero un certo sforzo per non apparire tanto superficiali da non apprezzare il successo americano, purché si ammettesse che sulla Luna non erano atterrati i russi soltanto perché quell’impresa aveva solo un valore propagandistico. La Spagna era ancora un Paese sotto il tacco della dittatura franchista e il caudillo generalissimo Francisco Franco ritenne fosse arrivato il momento di tirar fuori dalla naftalina il giovane principe di Borbone Juan Carlos per investirlo del titolo di “futuro capo dello Stato” alla sua morte. Juan Carlos era allora un giovane vitellone che aveva speso il suo esilio dorato prevalentemente a Roma. Al cinema si dava Easy Rider di Dennis Hopper con Peter Fonda, Jack Nicholson, una svolta libertaria on the bike, in motocicletta mentre Dustin Hoffman e Jon Voight, americani, si facevano dirigere dall’inglese John Schlesinger in Un uomo da marciapiede. In Italia l’estate fu torrida ma tutti temevano l’autunno che sarebbe stato certamente molto caldo, a causa della scadenza dei contratti dei lavoratori più organizzati e sindacalizzati, come i metalmeccanici. I sindacati erano in ebollizione, il Sessantotto studentesco aveva riversato le sue radiazioni sul mondo operaio che era diventato effervescente, scontento, contestatore e in aperta rivolta contro sindacati e partiti. Ci furono scioperi e scontri per quello che era stato già battezzato come “l’Autunno caldo” e fu caldo davvero. A Milano per la prima volta era morto un agente di polizia: Antonio Annarumma, mentre era impegnato nei tafferugli con i dimostranti del movimento studentesco. La manifestazione era stata indetta sia dal Pci che dal movimento studentesco. L’agente Annarumma, a quanto pare, era andato a sbattere contro una impalcatura di ferro. I sindacati di polizia ribollirono, la tensione saliva perché tutta la stampa conservatrice chiedeva azioni draconiane a un governo, guidato dal placido Mariano Rumor, considerato imbelle di fronte alle manifestazioni sempre più minacciose, con il risultato mai visto dalla fine della guerra di avere in terra un agente ucciso. Le voci di un intervento di militari decisi a ripristinare l’ordine costituito. Venerdì 12 dicembre 1969 pioveva sia a Roma dove ero in redazione, che a Milano. Qualcuno gridò: “A Milano sembra che sia esplosa una caldaia e ci sono dei morti”. Non era una stufa ma una bomba e i morti furono 13, con 87 feriti. Era insolito che la sede della banca dell’Agricoltura di piazza Fontana fosse ancora aperta alle 16,37 e si dirà in seguito che coloro che avevano deposto la bomba non avevano intenzione di uccidere ma solo di compiere un atto dimostrativo. Non ci fu solo quella bomba: un ordigno inesploso fu trovato nei locali della Commerciale in piazza della Scala e una terza a Roma a via Veneto nel sotterraneo che collegava due sedi della Bnl di via Veneto e di San Basilio. Anarchici, si disse. Sono gruppuscoli anarchici. L’opinione pubblica era agitata ed esaltata. Anche la sinistra voleva indagini rapide e l’arresto dei terroristi, specialmente se fossero gente del sottomondo pseudo rivoluzionario di sinistra. Nelle redazioni la notizia fu sussurrata: sembra che siano degli anarchici milanesi del Ponte della Ghisolfa. Chi li aveva mai sentiti. Uno in particolare, sembra sia il loro capo: Giuseppe Pinelli, detto Pino. Le retate si susseguivano e tutti gli anarchici reperibili furono portati in questura. Poi si scoprirà che le indagini erano state dirottate verso gli anarchici dall’Ufficio Affari Riservati, agli ordini del direttore Federico Umberto d’Amato, uno dei più sottili e ambigui uomini dell’intelligence italiana. Quell’“Ufficio affari riservati” sarà in seguito chiuso e con una riforma dei servizi fu incorporato nel Sisde. L’anarchico Pinelli si è suicidato. La notizia suonò subito poco credibile: in Questura, dopo tre giorni di estenuanti interrogatori il principale indiziato Giuseppe Pinelli detto Pino si è buttato dalla finestra morendo sul colpo. Il commissario Luigi Calabresi, che non era presente al momento del suicidio, fu subito indicato come il malvagio poliziotto che dopo aver torchiato il sospetto lo aveva o defenestrato, oppure messo in condizioni di desiderare la morte. Si disse che a Pinelli furono mostrate prove false del coinvolgimento dei suoi compagni anarchici e che di fronte a quelle (false) prove avesse avuto una reazione disperata: preferisco morire – riferirono che avesse detto, ma non fu provato – che sottopormi a questa vergogna. Ma non si sa. Non si saprà mai. Il commissario Calabresi era totalmente innocente, ma pagherà egualmente con la vita, giustiziato sotto la propria casa da due killer davanti ai suoi due bambini che stava come ogni mattina accompagnando a scuola. Intanto un altro nome saltò fuori dal mazzo. Quello dell’anarchico Pietro Valpreda, un ballerino che viveva fabbricando paralumi liberty in compagnia della vecchia nonna, con cui ebbi il tempo di diventare amico. La saga di Valpreda sarà impressionante, per toglierlo di galera il Parlamento arriverà a votare una legge che lo rendesse idoneo a essere candidato, ma non sarà eletto. L’anno si chiuse in uno strazio di urla, pianti, sospetti, odore di cordite, lamenti di genitori che avevano perso il figlio e figli che avevano perso un padre, l’aria era mefitica in Italia alla fine di quell’anno che era la prosecuzione diretta del dorato Sessantotto, finito in gloria ma che adesso si rivelava un cluster di uova di serpente destinate a schiudersi una dopo l’altra. Eravamo appena all’inizio di una delle pagine più buie della nostra storia che poi diventò ancora più buia con una serie di altri attentati terroristici e poi con l’altro tipo di terrorismo: quello ad personam delle Brigate rosse prima e poi dei Nar fascisti. L’Italia studentesca e riottosa che aveva cantato inni alla libertà, cominciava a macchiarsi di sangue e a intossicarsi di menzogne, dubbi e paura. Paura del peggio. Maurizio Costanzo cominciava a chiedersi e a chiedere con aria sorniona: “Che cosa c’è dietro l’angolo?”.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1969

3 gennaio: nasce il pilota Michael Schumacher

16 gennaio: a Praga, per protestare contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, Jan Palach si dà fuoco; morirà tre giorni dopo

4 febbraio: in Egitto, Yasser Arafat è eletto leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina presso il Congresso nazionale palestinese

11 febbraio: la Marina italiana prende possesso dell’Isola delle Rose e la distrugge

3 marzo: Sirhan Sirhan ammette di aver ucciso il candidato alla presidenza Bob Kennedy

4 marzo: Jim Morrison viene arrestato per atti osceni in luogo pubblico

10 marzo: viene pubblicato il romanzo Il Padrino di Mario Puzo

28 aprile: in Francia, a seguito dei risultati del referendum sulla riforma del senato e la regionalizzazione, Charles De Gaulle si dimette da presidente

30 maggio: l’Italia, con la legge 153, introduce la pensione sociale, erogata dall’Inps ai cittadini ultrasessantacinquenni con reddito insufficiente

5 giugno: inizia la conferenza internazionale dei comunisti a Mosca

15 giugno: Georges Pompidou viene eletto presidente della Francia

19 giugno: inizio dell’occupazione non violenta della località di Pratobello a Orgosolo

23 giugno: esce il primo numero della rivista Il manifesto

3 luglio: Brian Jones, celebre componente dei Rolling Stones, viene trovato morto sul fondo della piscina della sua villa, a causa di una overdose di eroina

21 luglio: Neil Armstrong e Buzz Aldrin, sono i primi uomini a camminare sul suolo lunare

9 agosto: nella villa di Roman Polański si compie un efferato massacro, di cui saranno riconosciuti responsabili Charles Manson e alcuni affiliati alla sua setta: perdono la vita 5 persone

15-17 agosto: si tiene a Bethel, nello stato di New York, il festival di Woodstock, che raduna circa 500 000 spettatori

2 settembre: al rientro dalle ferie estive la Fiat sospende dal lavoro 25000 operai. È l’inizio dell’Autunno caldo

4 dicembre: i membri delle Pantere Nere, Fred Hampton e Mark Clark, vengono uccisi nel sonno durante un’incursione compiuta da 14 poliziotti di Chicago

12 dicembre: in Italia scoppiano cinque bombe in meno di un’ora: la prima è a Milano, quella che verrà ricordata come Strage di piazza Fontana in cui muoiono 17 persone, la seconda nel sottopassaggio nei pressi di via Veneto a Roma che causa 13 feriti. Altre due bombe esplodono sempre a Roma davanti all’Altare della Patria (4 feriti). L’ultima, alla Banca Comit di Milano, non esplode

15 dicembre: Pietro Valpreda viene accusato della strage di Piazza Fontana e arrestato. Verso la mezzanotte l’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato e trattenuto in questura, “cade” dal quarto piano dove era in corso il suo interrogatorio.

 Cosa è successo nel 1970: dalle bombe di Milano alla rivolta di Reggio Calabria. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 28 Marzo 2021. L’inizio degli anni Settanta è un calvario. La fine di quel boom rustico, impari ma gioioso del primo miracolo economico e la fine delle illusioni. La guerra fredda fra russi e americani si fece glaciale, con punte di fuoco e in Italia si partì dalla prima grande strage, consumata sullo scadere dell’ultimo degli anni Sessanta: quel dodici dicembre di piazza Fontana che distrusse per avvelenamento l’anima del nostro Paese. Ammazzamenti, tanti. Ma stragi, non se ne erano mai viste fin da quella del cinema Diana a Milano del 23 marzo del 1921 con ventuno morti e ottanta feriti. La bomba tra la folla. Ancora erano sconosciute le stragi islamiche e però tirava ovunque un’aria da guerra imminente, anche in casa, in famiglia, nelle coppie, fra genitori e figli, in un ufficio, in fabbrica, nelle campagne. Stava scomparendo il proletariato rurale dei contadini rapati con i figli dalle orecchie a sventola, tutti andavano a scuola e tutti volevano fare più o meno la rivoluzione. Mao dalla Cina ancora emanava bagliori, la guerra del Vietnam avrebbe impiegato ancora qualche anno per spegnersi, cominciava ad arrivare la droga, mai vista prima. Canne, naturalmente, qualche allucinogeno e un po’ di cocaina che però c’era sempre stata per via dei signori che – si sapeva – usavano quella strana polvere perché erano ricchi e viziosi – ma le altre stavano spuntando da un nuovo nulla: l’eroina, la figura del junk, il drogato irrecuperabile, la parlata strascinata e i balordi, quelli pronti a tutto senza sapere perché e -come sempre – spioni, spioni ovunque. Oggi ci siamo (quasi) abituati al Trojan che ti attivano nel telefonino, ma allora gli spioni ti seguivano e nell’immaginario generale spiccava la figura dell’appuntato dei carabinieri che ascoltava e registrava su grosse bobine che poi sparivano, per riapparire a comando ma con pezzi mancanti, erano strumenti di ricatto e di minaccia. “Il valzer delle bobine” era un titolo ricorrente ed equivaleva più o meno ad un odierno caso Palamara, ma con una differenza. A quei tempi, all’inizio del decennio, la magistratura italiana non era ancora divisa brutalmente in legioni correnti ideologie cordate, come quelle descritte oggi nel “Sistema” di Palamara e Sallusti. La strage di piazza Fontana fu la chiave di volta, l’evento monstre che seguitava a generare nuovi mostri, come matrioske ma matrioske crescenti, non più piccole. Soltanto in tempi recentissimi – mezzo secolo dopo – i giudici hanno certificato che la strage fu opera di un gruppo di eversori fascisti ma anche collegati con una strana sinistra nazi-maoista a sua volta collegata ad ambienti di varie o presunte intelligence. Per quanto: del KGB sovietico non si parlava mai. Era – nell’immaginario – tutto Cia e fascisti, fascisti e Cia, servizi segreti per loro natura deviati e stava per aggiungersi la massoneria delle logge segrete. Ma posso dire, col senno – e i documenti – di poi, che il KGB sovietico mai era stato così attivo in Italia come in quei dannati anni Settanta, come raccontò al Parlamento italiano il dirigente della sezione romana di quella nobile istituzione. Nel frattempo sono morti tutti, o quasi. Ma l’effetto politico di quella prima strage si sviluppò secondo una lunga parabola: all’inizio la strage e il suo retroscena furono descritti come imprese criminali di anarchici balordi di sinistra fra cui quel ballerino anarchico, Pietro Valpreda, danzatore a Milano nonché creatore di lumi liberty da tavolo, e il gruppetto del Ponte della Ghisolfa. Ci fu la morte per caduta dalla finestra della questura dell’anarchico Giuseppe “Pino” Pinelli e l’accusa al commissario Luigi Calabresi – totalmente innocente – di averlo buttato o fatto buttare già morto, forse già morto o forse agonizzante. Il commissario fu poi assassinato da due giustizieri di Lotta Continua due anni e mezzo dopo, e questa è una brutta storia che vedremo più in là. Di Valpreda, di cui diventai amico come quasi tutti i cronisti di quell’epoca, ricordo la nonna che si porta dietro, e la volta che ci fece gelare il sangue mentre eravamo seduti insieme in una trattoria – per fare il cretino – esclamò “Qui se non mi portano da mangiare faccio la seconda strage”. Un gruppo di controinformazione guidato dal giornalista Marco Ligini – mio compagno di liceo – fece un’indagine sul delitto di piazza Fontana e portò prove convincenti del fatto che l’inchiesta ufficiale fosse una montatura e che a mettere la bomba fossero stati dei fascisti. Nacque così la feconda stagione delle “piste nere”. I giornalisti – me compreso ma non fra i primissimi – che si occupavano di questa direzione d’inchiesta furono battezzati pistaroli neri perché il nero portava ai numerosi gruppi neofascisti anche greci, tedeschi, ustascia croati e ad altre ampie costellazioni di gruppuscoli che ancora riverberavano i fuochi fatui del terzo Reich. Valpreda andò in galera e ci restò a lungo e nacque l’idea di tirarlo fuori a suon di voti facendolo candidare alle elezioni del 1972. Lui si candidò con una lista di estrema sinistra sostenuta dal “manifesto” e da “Lotta Continua”, ma la lista non raggiunse il quorum e dunque non elesse nessun parlamentare: Valpreda restò in cella. Per questo, dopo una furibonda battaglia politica delle sinistre contro le destre e parte della Democrazia cristiana, fu approvata una “Legge Valpreda” che consentiva anche a un detenuto in attesa di giudizio per strage di uscire di galera per scadenza dei termini. L’idea di evitare il carcere con le elezioni in Parlamento in quell’poca andava per la maggiore. Fece la fortuna di due imputati notissimi ed eccellenti giornalisti, Eugenio Scalfari direttore dell’Espresso e Lino Jannuzzi suo collega e grande cronista e scrittore, e permise loro di sfuggire al probabile arresto dopo esser stati condannati in primo grado per il processo che subirono per aver descritto un tentativo di colpo di Stato che probabilmente non c’era mai stato ma che sembrava egualmente possibile, nel 1967 (il possibile golpe che loro raccontavano era dell’estate 1964). Condannati, furono candidati nel 1968 per il partito socialista dal segretario Giacomo Mancini che portò Scalfari a Milano e Lino Jannuzzi senatore a Sapri, sicché assunse subito il soprannome di Carlo Pisacane. Quando poi i due su ripresentarono nelle stessa liste socialiste alle successive elezioni, nel 72, furono sconfitti, cosa che generò un effetto di non poco conto perché Scalfari, dopo aver trovato sbarrate le porte per un suo ritorno alla direzione dell’Espresso, molto seccato contro i colleghi allora chiamati “la banda dei quattro”, si mise a lavorare sul progetto di un giornale di formato tabloid mai visto in Italia che uscirà nel gennaio 1976 e sarà “la Repubblica”. Io c’ero, ma questa anche è un’altra storia dei più tardi anni Settanta, quando era ormai in corso una guerra civile a bassa intensità ed alto numero di assassinati, che fu romanticamente chiamata la guerra degli anni di piombo. Ma già nel 1970 quasi tutte le uova di serpente erano state deposte, un po’ come avviene quando inizia una partita a scacchi e ciascuno dispone i propri pezzi. A quel tempo non si conoscevano i pezzi, si ignorava la posta della partita e anche le regole erano segrete. Come se non bastasse, scoppiarono i fatti di Reggio Calabria perché il 1970 fu l’anno delle prime elezioni regionali e la più estrema regione della penisola scoprì che – diversamente da quanto avvertivano i sussidiari scolastici – la città dello Stretto non era il capoluogo, perché tale titolo spettava invece alla citta di Catanzaro perché sede della Corte d’Appello. La Calabria saltò in aria, scoppiarono tumulti, ci furono morti e sparatorie, scoppiarono bombe ci furono manifestazioni di massa e stavolta la novità assoluta fu che il popolo in strada, gli scamiciati e i balordi, gli intellettuali e i capipopolo erano fascisti. Per la verità il fascismo calabrese non aveva mai avuto nulla a che fare con quello romano o romagnolo o lombardo o emiliano. Neanche durante il ventennio. I fascisti calabresi erano i vecchi baroni con la camicia di un colore diverso e un pugno di gente di mano. Ma sulle barricate di Reggio Calabria insorta, dove tutti noi giornalisti di sinistra ci precipitammo avidi di teorie, complotti, retroscena e zeppi di pregiudizi, scoprimmo questo fatto del tutto inaspettato: era davvero una sommossa rivoluzionaria, aveva le sue ragioni anche sociali meridionalistiche immaginabili, era guidata da grandi proprietari agrari terrieri fra cui spiccava il marchese Zorzi, bell’uomo a cavallo in sahariana nera; scese con alcuni manipoli e milizie personali Junio Valerio Borghese principe romano che aveva combattuto una seconda guerra mondiale tutta sua con dei sottomarini suoi e delle imprese tutte sue vincendo la sua piccola guerra con gli inglesi e gli americani di cui poi diventò amico, spuntava un masaniello di nome Francesco “Ciccio” Franco che poi diventò senatore del Msi ma che fu famoso per aver lanciato lo slogan “Boja chi molla” su tutti i muri, e poi si vedevano e si leggevano tanti intellettuali di sinistra stupiti e affascinati perché lì a Reggio, nel 1970, sembrava di essere un po’ in Nicaragua e un po’ nella guerra di Spagna, ma a parti invertite. E poi scesero i calibri massimi del giornalismo da Giorgio Bocca a Gianpaolo Pansa e qui mi fermo non potendoli nominare tutti anche perché ho scoperto con un certo doloroso ribrezzo di essere oggi l’ultimo e unico superstite di quella congrega attendata (lussuosamente peraltro) nel Grand Hotel Excelsior di Reggio, diventato l’avamposto, la sala stampa, il luogo di incontri e di malincontri, I reggini erano furibondi con i socialisti perché il loro leader Giacomo Mancini aveva concluso un patto con i democristiani in base al quale la Calabria avrebbe avuto una università, un’autostrada, un centro siderurgico, un giornale, industrie chimiche e una modernizzazione di cui aveva gran bisogno. Ma la spartizione prevedeva che il capoluogo fosse Catanzaro e non Reggio, da cui la furia dei reggini contro il democristiano Riccardo Misasi di Crotone e il socialista Giacomo Mancini di Cosenza, di cui si bruciavano le foto nelle piazze. E io ero inviato a Reggio per il quotidiano socialista Avanti!, cioè rappresentavo quanto di più odiato dai rivoltosi reggini. Cercarono di tendermi delle trappole un paio di volte e riuscii a rifugiarmi a Messina. Ma spesso dovevo cercare un passaggio su qualche macchina che si avventurasse oltre i piloni distrutti, i fuochi e le barricate. Per fortuna non esistevano i social, si era felicemente anonimi e quasi nessuno mi poteva riconoscere. Però ricordo un viaggio particolarmente raggelante perché il conducente che mi ospitava seguitava a chiedermi: “Ma voi, questo grandissimo stronzo figlio di puttana e cornuto di Paolo Guzzanti, lo conoscete? Perché ci vorrei spaccare le corna personalmente con le mie mani. Glielo potete dire se lo incontrate?”. Giuravo di non conoscermi e di non potermi incontrare e feci in un certo modo amicizia con il mio potenziale carnefice che mi aveva in simpatia soltanto perché intravedeva attraverso di me (gli avevo detto di lavorare per una agenzia di stampa) l’opportunità di rompere personalmente le corna a quel grandissimo cornutissimo figlio di grandissima puttana di questo Paolo Guzzanti. Non mancherò, dicevo con tono rassicurante. Se ne capita l’occasione, ne stia pur certo.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1970:

4 gennaio: nello Yunnan, in Cina, un terremoto di 7.7 gradi della scala Richter causa oltre quindicimila vittime

21 febbraio: a Istanbul prima posa per la costruzione del Ponte sul Bosforo, che verrà terminato nel 1973

5 marzo: entra in vigore il trattato di non proliferazione nucleare accettato da circa 100 nazioni. Non vi aderiscono Francia, India, Israele, Cina e Brasile

15 marzo: ad Osaka, in Giappone, viene inaugurato l’Expo ’70

10 aprile: si scioglie il gruppo musicale dei Beatles

31 maggio: in Perù un forte terremoto colpisce la città di Yungay, provocando 70.000 vittime

11 giugno: Anna Mae Hays diventa la prima donna ad essere nominata generale degli Stati Uniti d’America

17 giugno: si disputa la partita del secolo tra Italia e Germania Ovest ai mondiali messicani. Vince l’Italia 4 a 3

11 luglio: inaugurato il primo tunnel nei Pirenei che unisce i paesi francesi di Aragnouet e quello spagnolo di Bielsa

3-6 settembre: le forze israeliane si scontrano con i guerriglieri palestinesi nel Libano del sud

9 settembre: lo Stato africano della Guinea riconosce la Germania Est

18 settembre: viene ritrovato a Londra il cadavere di Jimi Hendrix

28 settembre: muore il presidente egiziano Nasser; sale al potere il suo vice, Anwar Sadat

25 novembre: Lo scrittore giapponese Yukio Mishima si suicida in diretta televisiva.

12 dicembre: a Milano, durante una manifestazione studentesca per commemorare l’anniversario della strage di piazza Fontana, Saverio Saltarelli, un giovane studente, viene ucciso a colpi d’arma da fuoco durante violenti scontri con la polizia.

Cosa è successo nel 1970: l’anno dei colpi di Stato veri, falsi e minacciati. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Fu l’anno delle uova di serpente. Ne furono deposte molte, un po’ roba russa, un po’ americana, un po’ mafiosa, un po’ nostrana, oggi non è facile sminare il passato per ricostruire i sentieri dei nidi dei rettili perché le tracce più importanti sono state fatte sparire. Visto che mentre scriviamo il capo del governo italiano è di ritorno dalla Libia, partiamo da questa amara ex colonia, che l’Italia strappò alla Turchia con una guerra nel corso della quale il sovversivo Mussolini Benito, pacifista e per questo ricercato, insieme a Pietro Nenni faceva stendere le donne sulle traversine dei binari che portavano le tradotte dei soldati all’imbarco per l’Africa. Giovanni Pascoli -viceversa – il poeta intimista e socialista aveva scritto che “la grande proletaria – l’Italia – si è mossa”. Soltanto molti anni dopo, una volta che furono perse la Seconda guerra mondiale e le colonie, si scoprì che la Libia era un serbatoio di petrolio. Per la verità, l’Italia aveva inventato la Libia recuperando la “Lybia” romana, mettendo insieme Cirenaica e Tripolitana che erano e sono nazioni lontane, nemiche e diverse. Il colonnello Muammar Gheddafi nell’estate 1969 aveva fatto il suo colpo di Stato con l’aiuto del Sid (servizio segreto militare italiano) instaurando una dittatura dagli atteggiamenti contorti e altalenanti verso l’Italia, sul cui suolo comunque il colonnello considerava un suo diritto spedire agenti militari a lui fedeli per liquidare i dissidenti. Questo fu uno sporco compromesso che gli fu concesso in cambio di una politica petrolifera amichevole. All’inizio del 1970 il nostro Servizio segreto sventò un primo tentativo di colpo di Stato contro Gheddafi consegnando gli insorti al capo della polizia segreta libica, maggiore El Houni: si trattava di un gruppo di mercenari ingaggiati dal “principe Nero” Abdullah Ben Abdid nipote dello spodestato re Idris: presi ap­pena sbarcano in Libia, su informa­zione del ministero degli esteri italiano, oltre che del Sid. Nel frattempo, Hafez Assad attua il suo colpo di Stato in Siria, che vive di sovvenzioni del Kuwait e dell’Arabia Saudita. Il colpo di Stato è uno sport molto diffuso in quegli anni e anche in Italia ne viene agitato lo spettro come un salvaschermo, ma anche con molte operazioni di intossicazione e propaganda, visto che si prepara una specie di mascherata che nella notte dell’8 dicembre farà scattare una specie di opera comica con il cosiddetto “Golpe Borghese”, in cui i congiurati radunati negli scantinati del ministero degli Interni, dopo alcune ore di attesa inutile se ne tornano a casa infreddoliti. Ma si parlava molto, a sinistra, del “cattivo amerikano” col kappa, che effettivamente era molto preoccupato per l’atteggiamento tentennante sul piano delle alleanze militari sia dei comunisti che dei socialisti al governo. James Clavio, addetto militare dell’ambasciata Usa a Roma, diplo­matico di origine abruzzese come Carmel Offie e Volpe, secondo quanto dirà depo­nendo Orlandini al processo per lo strano colpo di Stato, diranno che gli americani attraverso il loro ambasciatore sondavano la disponibilità di ufficiali italiani all’ipotesi di un colpo di Stato militare. C’era agitazione anche in Jugoslavia – un altro dei Paesi oggi scomparsi – e infatti l’ambasciatore jugoslavo a Stoccolma, generale Vladimir Rolovic, fu ucciso da due ustascia accusati dal regime di Tito di aver promosso gli scioperi del dicembre 1969. Quest’aria di colpo di Stato, minacce militari e intrighi fu percepita anche da un uomo della sinistra socialista con la testa sulle spalle come Riccardo Lombardi, che disse di aver notizia di un “protocollo segreto” norvegese sottoscritto dai 15 ministri degli Esteri della Nato che prevedeva un intervento eccezionale per operazioni di grande rilievo militare su autorizzazione del comandante delle truppe Usa in Europa. Oggi sappiamo che lo scontro militare fra Usa e Urss stava raggiungendo punte particolarmente pericolose perché entrambe le superpotenze si accusavano di piani aggressivi reciproci e giuocavano sulla scacchiera europea dell’Est e dell’Ovest con tutte le risorse, specialmente quelle propagandistiche in cui bisogna ammettere che i russi erano i più scaltri ed efficaci, perché sapevano inondare la stampa occidentale di una quantità di disinformazione di cui la controparte era semplicemente incapace. Certamente qualcuno stava preparando una operazione golpista, in Italia, prevista per quel mese di dicembre e poi abortita. Fu battezzata col nome in codice “Tora-Tora” (nome rubato ai giapponesi che così chiamarono l’operazione dell’attacco alla base americana di Pearl Harbor nel dicembre 1941 che scatenò la guerra nel Pacifico). Il nome probabilmente fu ispirato da un film che uscì proprio quell’anno e che raccontava l’attacco giapponese. Ma l’intero mondo era in subbuglio. Dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967 il Fronte di Liberazione della Palestina di Yasser Arafat era diventato una potenza politica e militare, in particolare con il gruppo “Forza 17” che era la sua ala militare. Cominciò la stagione dei dirottamenti aerei e di una forma di terrorismo del tutto nuova per il mondo occidentale. Fin ad allora si entrava negli aerei senza passare alcun controllo con i metal detector e si poteva persino fumare dopo il decollo. Per la verità ancora tutti fumavamo come turchi e ogni casa o quasi puzzava di fumo. In quell’anno, oltre il femminismo, ci fu una vera New Entry che covava sotto la cenere del 1968: la questione ecologica. Si cominciò a parlare, e a scrivere, di plastica, di rifiuti, di ambiente inquinato e l’inquinamento diventò subito una faccenda politica. L’Est sovietico inquinava come un’unica ciminiera velenosa perché mandava avanti tutte le sue fabbriche a carbone, senza la minima protezione. Da noi la situazione non era migliore, ma si cominciava a guardare all’energia nucleare come a una cosa buona, pulita, molto redditizia e sicura. Erano ancora da venire i tempi di Chernobyl e della politica antinucleare. Ma torniamo al terrorismo e alla tragedia in Medioriente. In un solo giorno di settembre, il 6, le cronache registrano quattro dirottamenti aerei nella Germania oc­cidentale, Svizzera e Olanda con una odissea sulle prime pagine, i teleschermi e i volti dei passeggeri terrorizzati . Tutto si concluse il 15 settembre con il massacro di settemila palestinesi da parte dell’esercito giordano. Questa data sarà ri­cordata come il “Settembre nero”. I palestinesi superstiti, espulsi dalla Giordania, si tra­sferiscono nel Libano dove si organizzarono per costruire uno Stato nello Stato libanese, con una supremazia economica e militare su gran parte delle frazioni etniche e politiche in cui è diviso il Libano. Anche la mafia si sta riorganizzando e le guerre che alimentano questa riorganizzazione ebbero un momento di massimo clamore verso la fine dell’anno, il 10 dicembre, quando un commando di una de­cina di persone, alcune travestite da carabinieri, entra negli uffici del co­struttore Salvatore Moncada e uccide Michele Cavataio, pezzo da novanta durante la prima guerra di mafia. Con questo delitto termina la grande guerra degli anni Sessanta che si conclude con l’insediamento di un quadrumvirato composto da Salvatore “Totò” Riina che agisce per conto di Luciano Liggio, Stefano Bontade, Gaetano Badalamenti e Bernardo Provenzano. Stava preparandosi una nuova fase, nuove uova di serpente e nuovi serpenti, nuove alleanze con collegamenti internazionali. Tommaso Buscetta – l’uomo che Giovanni Falcone interrogò personalmente ricostruendo tutte le relazioni della rete mafiosa, fu espulso dagli Stati Uniti per iniziativa del Narcotici Bureau che lo considerava il re della cocaina. Buscetta fu un personaggio tragico e centrale nella storia della mafia ma più ancora nella storia di Giovanni Falcone. Quando ci incontrammo per una intervista televisiva, Falcone mi regalò le fotocopie – che ho fatto rilegare e che occupano un bello spazio nella zona Mafia della mia libreria – delle pagine manoscritte in cui lui stesso, Falcone, verbalizzava a mano ogni parola di Buscetta perché non voleva cancellieri intorno, nessuno che in qualsiasi modo potesse interferire nel suo rapporto personale con il trafficante di droga più ricercato e allo stesso tempo più perseguitato dalle cosche. Prima di essere arrestato, Buscetta aveva partecipato al vertice di Cosa Nostra che si era svolto a Zurigo il 14 luglio per varare una stagione di rapimenti e riscatti, prima di tornare in Usa dove però fu arrestato e poi rilasciato insieme al figlio su cauzione di 75 mila dollari riuscendo a fuggire in Brasile dove cambiò nome e mise su una nuova famiglia. E dove i servizi segreti italiani lo scoveranno, lo inviteranno a trattare per ottenere un ritorno blindato in cambio della verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Non c’era da fidarsi, ma il tutore del patrimonio di informazioni venute da Buscetta sarebbe stato un siciliano di ferro: il procuratore Giovanni Falcone. Torniamo ora al ‘70. Il 16 settembre sparisce il giornalista dell’Ora di Palermo, Mauro De Mauro. Sulla sua scomparsa fiorì una letteratura. Posso dire quel che accadde quando la Commissione bicamerale d’inchiesta sul Dossier Mitrokhin, da me presieduta, interrogò l’ex capo della “residentura” romana del Kgb sovietico a Roma, il colonnello Leonid Kolosov, il quale disse molte cose scioccanti, salvo il fatto che non poteva esibire alcuna altra prova se non la sua personale conoscenza. Kolosov parlava un eccellente italiano, disse che davanti al suo ufficio nell’ambasciata di via Gaeta a Roma “c’era la fila degli italiani che volevano collaborare con il Kgb”, disse che non accettò mai la collaborazione di comunisti iscritti al partito ma solo di socialisti e democristiani che non potevano essere compromessi, disse che il famoso “colpo di Stato del generale De Lorenzo” per cui erano stati processati e condannati (e poi assolti) i giornalisti dell’Espresso Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, non era mai esistito e che la diffusione delle notizie su De Lorenzo erano state create ad arte per screditare il capo dei servizi segreti italiani e poi parlò di Mauro De Mauro: «De Mauro – disse davanti all’intera Commissione – era un giornalista italiano e un nostro agente. Ha servito il Kgb per molti anni e fu fatto sparire dagli americani. Una nostra inchiesta si concluse con il ritrovamento del luogo in cui gli agenti della Cia l’avevano fatto sparire: un pilone di cemento sotto un’autostrada». L’audizione in cui Kolosov raccontò questa e molte altre storie avvenne in due giorni di giugno del 2003 nei locali della Commissione in via San Macuto. L’otto dicembre avvenne l’“operazione Tora Tora”, ovvero l’abortito golpe del principe Junio Valerio Borghese che era stato un fascista molto particolare. Non ci fu alcun golpe ma qualcuno aprì gli armadi negli scantinati del Viminale per prendere alcuni fucili automatici che poi furono rimessi a posto e nessuno seppe nulla. L’Italia era ormai entrata in uno dei suoi tunnel più neri e Sergio Zavoli intitolerà la sua inchiesta accurata e drammatica per la Rai, “La notte della Repubblica”.

L’Italia negli anni Settanta: il saggio di Miguel Gotor. Storia di ALDO CAZZULLO su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2022.

Il fulcro del libro è, com’era naturale, il caso Moro, che l’autore ha studiato a lungo. Ma non soltanto Miguel Gotor racconta dettagli illuminanti sull’assassinio del presidente Dc; supera la lettura tradizionale, secondo cui la morte di Moro chiude gli anni Settanta e l’era democristiana.

È vero il contrario. Giustamente Gotor colloca la fine del decennio nel 1982, con la vittoria dei Mondiali di calcio in Spagna. È allora che l’Italia cambia umore. Finisce la politica di strada e di piazza, che tanti guai aveva fatto, ma aveva chiamato una generazione alla vita pubblica. E inizia il riflusso, la ritirata nel privato, il disimpegno. L’età dei paninari. Della discomusic, della gioia di vivere, del consumismo, del «rampantismo» come scrive l’autore, e anche della ripresa economica. Con la fine di quella mimesi di guerra civile durata per più di un decennio.

Quanto alla Dc, sopravvivrà senza troppi patemi all’assassinio di uno dei suoi «cavalli di razza». Gotor ricorda non solo che la Democrazia cristiana governerà il Paese fino al 1992 (sia pure cedendo provvisoriamente Palazzo Chigi tra l’81 e l’87, sempre mantenendo però il ministero degli Interni), ma che i protagonisti del caso Moro avranno tutti un futuro luminoso. Il ministro dell’Interno Francesco Cossiga si dimette dopo il ritrovamento del corpo in via Caetani, plastico simbolo del fallimento del Viminale e dello Stato; ma poco più di un anno dopo lo ritroviamo presidente del Consiglio, poi presidente del Senato, quindi presidente della Repubblica. Bettino Craxi, fautore della trattativa, ha davanti a sé i suoi anni più luminosi, prima del declino brusco e della fine drammatica. Quanto a Giulio Andreotti, l’uomo della linea dura e della velina — falsa — sulle «vedove di via Fani pronte a darsi fuoco», sarà proprio lui l’ultimo capo di governo della Democrazia cristiana.

(Einaudi) ha il pregio di farci vedere il decennio definito spesso come «di piombo» da diversi punti di vista. Ad esempio da quello dell’evoluzione sociale: Statuto dei lavoratori, legge sul divorzio confermata dal referendum del 1974, riforma del diritto di famiglia con l’abolizione della potestà maritale e l’uguaglianza tra uomo e donna, depenalizzazione dell’aborto, apertura della scuola ai rappresentanti delle famiglie.

Ovviamente c’è il racconto della violenza politica. Severo su entrambi i fronti: il terrorismo rosso, feroce nel suo accanimento su magistrati, carabinieri, poliziotti, riformisti, capisquadra, financo operai; e il terrorismo nero, di cui si ricordano nei dettagli le stragi, con i successivi depistaggi che non si possono attribuire ai consueti «settori deviati dei servizi segreti», perché a volte furono responsabilità proprio dei capi dei servizi segreti. Ma l’aspetto forse più interessante del libro è legato all’evoluzione del costume italiano.

Non a caso il lavoro di Gotor si apre sulla scena musicale e cinematografica. L’Italia uscita dal boom economico è percorsa da tensioni che emergono in modo esplicito in film come I pugni in tasca di Marco Bellocchio e Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci, ma anche in modo più sfumato in canzoni come Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli — «Ognuno ha il diritto di vivere come può» — e C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones di Gianni Morandi.

Da questi segni dei tempi Gotor deduce che «la voglia di esserci e di contare si mescolava con un’ansia incerta ma pungente di ribellione, che contestava i valori perbenisti e i modelli di vita borghesi respirati fino a quel momento in famiglia, a scuola, all’università, nei rapporti con la religione e l’autorità costituita». La reazione preparava già la sua risposta: è del 1965 il convegno all’Hotel Parco dei Principi di Roma dedicato alla «Guerra rivoluzionaria», ispirato all’idea che il comunismo fosse all’offensiva in tutto il mondo, Italia compresa, e quindi occorresse una manovra di intelligence, aperta alla manovalanza neofascista ma guidata da menti filoatlantiche, in grado di provocare una svolta autoritaria. È l’inizio della strategia della tensione, che insanguinerà la prima metà degli anni Settanta (con il colpo di coda della strage della stazione di Bologna); mentre nella seconda metà del decennio imperverserà il terrorismo rosso.

Sullo sfondo, un’Italia piccolo borghese, spaventata dalle novità, incredula di fronte alla violenza, pronta a rifugiarsi dietro lo scudo democristiano ma nello stesso tempo insoddisfatta del presente. Un’Italia che acutamente Gotor mette in scena sin dalle prime pagine, attraverso le lettere a Gigliola Cinquetti, giovanissima vincitrice del festival di Sanremo del 1964 con una canzone rassicurante fin dal titolo, Non ho l’età. Molti scrivono alla «candida Gigliola» sovrapponendo «di sovente l’esile figura della cantante bambina alla Madonna», ma anche alla Lucia dei Promessi Sposi. Una ragazza di Novara spiega di identificarsi in lei e di essere «un tipo un po’ all’antica, che non indosserebbe mai una minigonna e non si innamorerebbe mai di un capellone». Una tredicenne di Nuoro si raccomanda di «non fare come Rita Paone ( sic) e Mina». Un anziano signore di Roma celebra la sua vittoria «contro la degenerazione dell’arte musicale e canora imperante in questo avvilente dopoguerra» e contro le «molteplici aberrazioni dell’odierna squinternata gioventù». Ma ancora più significativa la lettera di Lena da Boves, provincia di Cuneo, che apprezza la grazia di Gigliola e la sua «buona educazione», «cose molto rare in questi tempi di dinamismo».

Attorno a quella allocuzione e al paradossale significato che Lena da Boves le attribuisce — «dinamismo» come disvalore — Gotor costruisce la sua avvincente narrazione, che dura 450 pagine senza annoiare mai proprio perché ancorata a questo concetto chiave: l’Italia degli Anni Settanta appare spaventata da sé stessa, dai cambiamenti troppo repentini, dai rischi di guerra civile, dallo sviluppo impetuoso dell’era industriale con le sue conseguenze drammatiche — lo sradicamento dei giovani meridionali, le nubi tossiche, la conflittualità sociale, la tentazione del partito armato —; eppure quell’Italia seppe evitare il peggio, salvando la democrazia, la libertà, e anche un’idea — per quanto confusa e contraddittoria — di progresso.

Il libro e l’autore

Il saggio di Miguel Gotor Generazione Settanta(Einaudi, pagine 450, euro 34) analizza le vicende che segnarono il nostro Paese tra il 1966, anno dell’alluvione di Firenze, e il 1982, anno della vittoria dell’Italia al Mondiale di calcio. Nato a Roma nel 1971, Gotor è docente di Storia moderna presso l’Università di Roma Tor Vergata e ricopre la carica di assessore alla Cultura del comune di Roma. Tra i suoi libri: L’Italia del Novecento (Einaudi, 2019); Il memoriale della Repubblica (Einaudi, 2011). Sempre per Einaudi ha curato le Lettere dalla prigionia di Aldo Moro (2008)

Cosa è successo nel 1971: la mafia uccide Scaglione, Indirà Gandhi fa la guerra. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Aprile 2021. Fu l’anno in cui in Italia una legge permise di fabbricare pubblicizzare e vendere i preservativi che erano fino a quel momento merce satanica clandestina e immorale, e fu anche l’anno in cui una delle grandi leader donna, la premier indiana Indira Gandhi, lanciò e vinse una guerra fondata su ragioni etiche contro il Pakistan che stava procedendo al genocidio sistematico della sua popolazione dell’Est. Questa guerra durò due settimane e si svolse nel mese di dicembre dopo il perdurante e feroce tentativo dell’esercito pakistano di sterminare quello che oggi è il Bangladesh. Fu una guerra breve, condotta in modo determinato, vittorioso per buoni motivi, come capita quando a fare la guerra sono donne alla guida degli Stati: così agirà l’israeliana Golda Meir per proteggere Israele dall’attacco egiziano e siriano dello Yom Kippur; e la britannica Margaret Thatcher quando risponderà all’occupazione delle isole Falkland dalle truppe dei generali golpisti del calabro-piemontese generale Galtieri di Buenos Aires, riconquistando le isole e facendo cadere la dittatura argentina. Il femminismo della prima ondata stava appena attecchendo, ma era una novità assoluta dopo gli anni in cui anche le donne rivoluzionarie e più intraprendenti della sinistra finivano col diventare “angeli del ciclostile”, cioè più o meno le segretarie dei leader maschi. Non esistevano ancora leader femmine in Italia, salvo austere signore democristiane e comuniste che avevano combattuto nella Resistenza. La guerra nel Vietnam andava avanti in modo brutale perché gli Stati Uniti invasero il Laos insieme all’alleato Vietnam del Sud, nel tentativo di spezzare la catena dei rifornimenti che arrivavano alla guerriglia Vietcong dal Nord Vietnam di Hanoi, il cui leader Ho Chi Minh era un austero e carismatico uomo che per anni aveva servito come cameriere sulle navi occidentali, aveva vissuto in America crescendo nel mito di Abraham Lincoln, prima di adottare l’indipendentismo rivoluzionario sotto le bandiere comuniste. Il Vietnam sarà liberato dalla presenza degli americani pochi anni dopo, ma da allora il Vietnam si trovò in continuo conflitto armato proprio con la Cina comunista, il fin troppo grande fratello. Il mondo ribolliva di evoluzioni e rivoluzioni che seguivano la morte del colonialismo ma che erano ben monitorate e spesso “eterodirette” (memorizziamo questa ostile parola che vuol dire pilotate dall’esterno) e la penisola italiana era allora come oggi il primo luogo di sbarco, insediamento e rifugio. Il Regno Unito era di nuovo in guerra radicale contro l’Ira, l’esercito repubblicano irlandese che anche ai nostri giorni sta dando segni di ritorno alle armi a causa della situazione di frontiera irlandese che si è creata dopo la Brexit e che allora era una delle più organizzate e disciplinate fazioni armate, guidata da militari regolari che avevano combattuto nell’esercito britannico durante la guerra e in collegamento con i Baschi dell’Eta che era sia una organizzazione antifranchista che una organizzazione nazionalista in guerra con Madrid. Entrambe ebbero certamente rapporti con i vari gruppi rivoluzionari italiani e su tutte queste sigle vegliavano, monitoravano, infiltravano e agivano attraverso lo spionaggio, tutte le maggiori agenzie del mondo, dallo Sdec francese all’Mi6 britannico, dal nostro Sid al Bnd tedesco occidentale e la frenetica Stasi tedesco orientale che aveva conservato gli stili e la sfrontatezza della Gestapo nazista. Infine, il Kgb più attivo esperto e spregiudicato, una Cia più tecnologica eternamente distratta dall’America Latina dove si sentiva minacciata dal castrismo cubano in Cile e in Colombia. Fu in un clima così nebbioso e su una scena teatrale tanto densa che si svolse a Firenze una prima riunione di organizzazioni rivoluzionarie, di guerriglia e di opposizione armata a regimi dittatoriali con delegati dell’Ira irlandese, dell’Eta basco, dell’Erp, dell’Olp e altri dodici gruppi. I servizi segreti israeliani e tedeschi erano particolarmente allarmati perché vedevano nella nascente potenza libica di Gheddafi la voglia e i mezzi per svolgere un ruolo di infiltrazione e di coordinamento. Così come le continue scoperte di sconosciute artiste dei secoli passati che avevano dipinto sotto la copertura di falsi nomi maschili. La liberazione sessuale procedeva come procedono le rivoluzioni: massimalismi e restaurazioni, pogrom di autocoscienza nel corso dei quali era abitudine catacombale processarsi con autocritiche sempre più ridicole, ma di fatto il sistema dei matrimoni stabili temperati dall’adulterio vietato ma consentito, cominciarono a vacillare sotto i colpi della libertà minima garantita. In Italia la società intera si stava spacchettando e riorganizzando intorno e contro i due partiti leader, quello comunista e quello dei cattolici nella Democrazia Cristiana. La dissidenza sembrava la parola d’ordine e nascevano come funghi movimenti, associazioni, fronti, con una festosa mescolanza di sigle di destra e di sinistra, spesso col dichiarato proposito di chiudere la vecchia partita ideologica dei fascisti e dei comunisti, specialmente ora che era in crescita il modello rivoluzionario della Cina, sicché tutte queste divisioni si reverberavano sulla Chiesa, l’arte, gli stili di vita, l’alimentazione, e più di tutto la libertà sessuale. La guerra contro i tabù stava diventando armata, la corsa verso l’ultimo e definitivo livello della provocazione e dello scandalo nel senso piccolo borghese di coppia aperta o coppia chiusa era un tema di ogni giorno; le cosiddette “comuni” nate a imitazione di quelle hippy californiane dei “figli dei fiori” formavano comunità oscillanti fra comportamenti basati sul fumo e gli allucinogeni psichedelici e gli accampamenti rivoluzionari ispirati alle guerriglie latinoamericane. Nel complesso, prevalse il modello rivoluzionario politico figlio e proseguimento di ciò che era stato seminato nel 1968, ma era anche un arcipelago di entità varie e fra loro impermeabili che lentamente si stava spaccando e spacchettando. La parte politica e teorica si schierava ai bordi del partito comunista sotto forma di dissidenza latente, il gruppo del manifesto passò dalla rivista al quotidiano e la sinistra intera – compresi i socialisti che per metà erano filogovernativi e per metà rimpiangevano l’alleanza con i compagni comunisti. Cominciò la guerra contro il fumo e i fumatori: vietata la pubblicità delle sigarette. Si poteva fumare ovunque, cinema e teatri compresi, bus e aerei, ma non si doveva pubblicizzarlo. Gli studi sul cancro avanzavano, l’inquinamento stava diventando un tema quotidiano e già tendeva a diventare un cliché. La guerra fredda in Europa andava verso una stabilizzazione: i leader delle due Germanie, la Rft occidentale e la Ddr orientale cominciarono a scambiarsi timidi segni di dialogo e il 12 agosto avvenne un fatto importante e cupamente evocativo: Unione Sovietica e Germania occidentale firmarono un accordo in cui si promettevano di rinunciare all’uso della forza. Dove l’avevano già sentita? Un patto di non aggressione? Ma certo: il precedente fui nell’agosto del 1939, a poche settimane dall’inizio delle operazioni tedesche in Polonia che tutti consideriamo come l’inizio della Seconda guerra mondiale, precedute dalla firma di un “Patto di non aggressione” fra la Germania di Hitler e l’Urss di Stalin. Quel patto di 32 anni prima prevedeva alcune clausole che furono rivelate soltanto a guerra conclusa, secondo cui l’Urss avrebbe a sua volta invaso la Polonia di cui avrebbe incamerato il 51 per cento, ottenendo anche mano libera per aggredire – come fece – la Finlandia e poi le Repubbliche baltiche, tutti punti effettivamente realizzati, fino al capovolgimento del fronte nel giugno del 1941 quando Hitler attaccò l’ex alleato, firmando la sua stessa fine. Ora tutto era diverso, naturalmente, di Germanie ce n’erano due – cosa che piaceva molto a Giulio Andreotti che ironizzava sul suo amore per i tedeschi che si sarebbe saziato solo con almeno due Germanie – ma stava avvenendo un riallineamento promettente. Nel mese di maggio Pietro Nenni va in visita in Israele e porta con sé la figlia Giuliana e Bettino Craxi. E annota sul suo diario: “Sono da oggi in Israele. Mi accompagnano Giuliana e Craxi”. Craxi è rapito dal fascino di Israele e dei suoi capi laburisti. Il 19 maggio pianta un albero nella foresta dei Martiri a 25 chilometri da Gerusalemme. Bettino Craxi è infatti ancora il delfino di Nenni, considerato un assoluto ammiratore di Israele e ostile alle organizzazioni indipendentiste e terroriste arabe. Avrebbe presto cambiato idea e posizione diventando un amico dell’Olp e un amico più che fraterno di Bourghiba, dittatore socialista della Tunisia, dove poi si rifugiò fino al giorno della sua morte. In Italia fu rivelato ufficialmente il goffo tentativo di colpo di Stato nella notte dell’Annunziata del 1970, attribuito a Junio Valerio Borghese, il principe nero che era già stato sulle barricate di Reggio Calabria. A farlo è il ministro degli Interni Franco Restivo. La notizia esplode con fragore sui giornali e Junio Valerio Borghese scappa in Spagna. Secondo i racconti del pentito Tommaso Buscetta, Borghese avrebbe proposto un’alleanza politica a Cosa Nostra. Intanto, in Libia, i servizi segreti italiani salvano Gheddafi per la seconda volta, dopo averlo portato al potere. Gli agenti del Sid assaltano nel porto di Trieste la nave “Conquistador 13” in procinto di salpare e arrestano un gruppo di 25 persone che nell’attesa dell’imbarco erano alloggiate all’hotel Savoy. Si trattava di una spedizione di cospiratori libici guidati da Umar El Shalhi, ex consigliere di re Idriss, il quale sperava di portare a termine la cosiddetta “Operazione Hilton”: cioè un attacco, previsto per il 31 marzo, alla fortezza-prigione di Tripoli (ironicamente chiamata “hôtel Hilton”). Gheddafi fece fare la pelle ai congiurati ma non ripagò l’Italia con maggior occhio di riguardo in commesse petrolifere ma pretese e ottenne rifornimenti di armi, munizioni, istruttori, e consiglieri militari forniti attraverso la sezione Controspionaggio del servizio segreto militare italiano. In patria, lo shock di un preteso colpo di Stato fascista abortito riaccende gli animi di un conflitto fra lo Stato repubblicano e i nostalgici del regime, e nel dibattito interviene Mario Scelba, il ministro degli Interni che aveva introdotto la “Legge Scelba” con cui si metteva al bando ogni forma anche solo simbolica di espressione o di organizzazione fascista, per dichiarare che non esiste alcun pericolo fascista. A Tripoli l’ambasciatore italiano Enrico Guascone Belcredi riceve dal capo di Stato Maggiore libico, colonnello Yunis la richiesta di cingolati, obici, cannoni, missili e apparati elettronici. Si parla. di una commessa di 25 miliardi di lire intestata a Oto Melara, Snia Viscosa e Fiat. L’incontro con l’ambasciatore Belcredi, stando a una successiva ricostruzione dell’Espresso, è il risultato “di una lunga, complessa operazione patrocinata dal colonnello Roberto Jucci, più tardi promosso a capo del servizio informazioni dell’Esercito e poi generale di divisione”. Il generale Jucci diventerà nel 1985, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri. Il successivo 17 dicembre quattro alti ufficiali libici vennero a visitare in Italia la Snia Viscosa, la Oto Melara e la Fiat per acquistare armi ma la trattativa fu bloccata dagli americani: le armi in questione avevano il brevetto americano e non potevano essere concesse senza licenza americana. Fu deciso di vendere ai libici una versione riadattata di missili anticarro americani “Tow” in cambio della fornitura all’ente petrolifero italiano di dieci milioni di tonnellate di greggio a prezzi stracciati. Su questo sconto si intreccia una rete di interessi tra uomini d’affari, politici, industriali, militari, servizi segreti e giornalisti che formano una lobby nota come “partito libico” che sembra aver trovato la sua copertura finanziaria. La vicenda ebbe alti e bassi perché Gheddafi accusò gli italiani di non mantenere i patti e ritardare la consegna delle armi, finché l’anno successivo il nuovo governo Andreotti risistemò tutto facendo imbarcare nel porto di La Spezia armi e mezzi italiani su navi riverniciate con i colori libici e con bandiera libica fabbricata in Liguria. In Sicilia Cosa Nostra uccide l’otto maggio il Procuratore della Repubblica Pietro Scaglione e il suo autista Antonino Lo Russo. Nell’intervista concessa dopo la morte di Borsellino a Enzo Biagi (Panorama, 2 agosto 1992), Buscetta sosterrà che Scaglione fu la prima vittima fra quanti tentarono di opporsi all’ascesa dei Corleonesi. A uccidere il magistrato – disse Buscetta – sarebbe stato Luciano Liggio che era stato a lungo protetto dallo stesso Scaglione, o almeno questo è ciò che dissero in Parlamento alcuni membri della Commissione Cattani antimafia. Buscetta insistette nel dire che Cosa Nostra tramava politicamente per un colpo di Stato e che anche l’uccisione del giornalista Mauro De Mauro fu decisa per dare un segno di forte capacità terroristica. Come ho riferito nel precedente articolo, il capo della “residentura” sovietica del Kgb a Roma, interrogato dalla Commissione parlamentare Mitrokhin da me presieduta affermò – senza portare alcuna prova se non le sue stesse parole – che Mauro De Mauro era un suo agente e che fu soppresso dagli americani in modo tale da farlo apparire vittima della mafia. Il suolo della Repubblica italiana diventa il terreno di residenza e azione di molte organizzazioni e bande armate. Nell’ottobre di quell’anno si svolge a Firenze una prima riunione di organizzazioni rivoluzionarie, di guerriglia e di opposizione armata a regimi dittatoriali. Sono presenti delegati dell’Ira irlandese, dell’Eta basco, dell’Erp, dell’Olp e altri dodici gruppi. I servizi segreti israeliani e tedeschi e tutti riconoscono alla Libia di Gheddafi un ruolo di sostegno e coordinamento. Ricordo queste numerose uova di serpente perché in seguito ebbero funzioni determinanti in quel che accadde quando diverse forme di terrorismo e guerriglia cercarono e trovarono sostegni reciproci. Il più attivo benché ancora molto giovane era il venezuelano Ilich Ramirez Sanchez (che sta morendo all’ergastolo a Parigi) noto come “Carlos the Jackal”, che ebbe in Italia un ruolo fondamentale e misterioso su quel che avvenne qualche anno dopo, man mano che le uova si schiudevano.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1971

2 gennaio: disastro dell’Ibrox. Mentre sta finendo il derby tra Rangers e Celtic e i tifosi di casa stanno iniziando a lasciare gli spalti, per ragioni mai del tutto chiarite si produce una calca nella quale muoiono 66 persone e ne restano ferite oltre 200

7 febbraio: un Referendum popolare in Svizzera approva la concessione del diritto di voto alle donne

13 febbraio: durante la guerra del Vietnam le truppe del Vietnam del sud, appoggiate dall’artiglieria e dagli aerei americani, invadono il Laos

26-28 febbraio: moti dell’Aquila

10 marzo: la Corte Costituzionale italiana abroga l’articolo 553 del codice penale che vieta la produzione, il commercio e la pubblicità degli anticoncezionali

26 marzo: dichiarazione di indipendenza del Bangladesh dal Pakistan

15 aprile: Richard Nixon mette fine alla convertibilità del dollaro in oro e ai patti di Bretton Woods del 1944

28 aprile: Il manifesto da mensile diventa quotidiano. Il direttore è Luigi Pintor

5 maggio: a Palermo, il procuratore della repubblica Pietro Scaglione e l’autista Antonio Lo Russo vengono uccisi per ordine dei corleonesi di Totò Riina, questo omicidio è il primo della guerra allo stato operata dai corleonesi, che si protrarrà fino alle stragi di Capaci e di via D’Amelio

14 giugno: viene aperto il primo Hard Rock Cafe a Londra

3 luglio: Jim Morrison viene trovato morto nella vasca da bagno della sua abitazione di Parigi

4 luglio: Michael Hart copia in digitale la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti. È questa la data di nascita dell’eBook e del Progetto Gutenberg

16 luglio: muore di infarto a Milano Cornelio Rolandi, unico testimone contro Pietro Valpreda nel processo legato alla Strage di Piazza Fontana

1º agosto: lo psichiatra Franco Basaglia diventa direttore del manicomio di Trieste

21 agosto: nel cortile del carcere di San Quintino, a San Francisco, un secondino uccide George Jackson, tra i fondatori delle Black Panthers

7 settembre: l’IVA (Imposta sul valore aggiunto) sostituisce l’IGE (Imposta Generale sulle Entrate)

11 ottobre: viene pubblicato il brano di Jonn Lennon “Imagine”

15 novembre: Intel realizza Intel 4004, primo microprocessore su singolo chip e primo microprocessore commerciale in assoluto

20 dicembre: viene fondata a Parigi Medici Senza Frontiere

24 dicembre: Il democristiano Giovanni Leone, viene eletto sesto presidente della Repubblica Italiana al 23º scrutinio, succedendo a Giuseppe Saragat.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Il 15 agosto 1971 un discorso di Nixon cambiò l’economia mondiale. Stefano Magni su Inside Over il 14 agosto 2021. Il 15 agosto 1971, esattamente mezzo secolo fa, mentre il mondo era in vacanza, l’allora presidente degli Usa Richard Nixon annunciava in televisione una nuova politica economica che avrebbe rivoluzionato il sistema monetario mondiale. Pochi se ne accorsero allora e il 15 agosto è un anniversario celebrato solo da chi si occupa professionalmente di finanza. Eppure ha cambiato anche il nostro stile di vita. Cosa annunciò Nixon, in quello che ora è passato alla storia come “Nixon shock”? Sospese “temporaneamente” la convertibilità del dollaro in oro. Da allora la moneta cessò di essere un sistema di scambio basato sull’oro, come era sempre stato, ma una nota di credito il cui valore è interamente basato sulla politica monetaria degli Stati e delle banche centrali. E, in ultima istanza, nella fiducia che tutti noi riponiamo in queste istituzioni. Allora erano in vigore, dal 1945, gli accordi di Bretton Woods, un sistema detto di “gold exchange standard”. Non era più un “gold standard” puro in cui la moneta poteva essere emessa solo in proporzione alle riserve auree possedute dallo Stato ed era convertibile in ogni momento da qualsiasi portatore. Già nella Prima Guerra Mondiale gli Stati belligeranti avevano dovuto emettere molta più moneta rispetto alle riserve auree effettivamente possedute e il gold standard era in declino. La novità del gold exchange standard, negoziato nel 1944 a Bretton Woods, nel New Hampshire (in piena Seconda Guerra Mondiale) ed entrato in vigore nel dicembre 1945 (a guerra appena conclusa) era la dollarizzazione. La valuta di riferimento divenne il dollaro, le altre valute erano legate al dollaro da un sistema di cambi fissi e il dollaro stesso poteva essere emesso in base alle riserve auree disponibili. Solo il dollaro, dunque, poteva essere convertito in oro e solo le banche centrali potevano compiere questa operazione. La “sospensione temporanea” della convertibilità del dollaro fu decisa da Nixon durante la guerra del Vietnam. I costi del lungo conflitto (iniziato nel 1959 ed entrato nella sua fase culminante, con l’intervento militare diretto americano, nel 1965) e, contemporaneamente, la spesa sociale aumentata a causa del programma della Great Society del presidente Johnson, avevano costretto la Federal Reserve (la banca centrale statunitense) a emettere molta più moneta rispetto alle riserve auree, come nelle due guerre mondiali. Il dollaro, inflazionato, stava perdendo valore ed era sempre più soggetto alla speculazione internazionale. Per motivi che oggi chiameremmo “sovranisti”, il presidente Nixon, un Repubblicano, decise di prendere il controllo della politica monetaria in modo più diretto. Nel suo storico annuncio televisivo Nixon fu cautamente ottimista sulla prossima conclusione del lungo conflitto in Vietnam e lanciò un programma economico per una “nuova prosperità” nella pace che ne sarebbe seguita. Per aumentare l’occupazione, tagliò le tasse che gravavano sul lavoro, per combattere l’inflazione impose dei controlli per congelare i prezzi, per proteggere la produzione americana introdusse dei dazi e, infine, per stabilizzare il dollaro e proteggerlo “dagli speculatori”, che a suo dire erano gli unici che stavano guadagnando dalla crisi, sganciò il dollaro dall’oro. Non ci volle più di un anno prima che il sistema nato a Bretton Woods nel 1944 collassasse in tutto il mondo. A cinquant’anni di distanza, gli effetti a lungo termine dello “choc” nixoniano sono ancora oggetto di dibattito. Le banche centrali e gli Stati sono molto più liberi di controllare l’emissione della moneta. Per sostenere la crescita e l’occupazione è ormai prassi consolidata aumentare la liquidità. Così ha fatto Alan Greenspan (che pure era “nato” come sostenitore del gold standard) dopo  l’11 settembre 2001, così come Ben Bernanke dopo la Grande Recessione del 2008 e infine Jerome Powell, attuale presidente della Fed nell’America che sostiene il disastro economico causato dalla pandemia di Covid-19. Il discorso di Mario Draghi del 2012, in piena crisi dei debiti sovrani, passato alla storia per l’espressione “Whatever it takes” e alla base delle iniezioni di liquidità della Banca centrale europea, è possibile solo in un sistema monetario completamente sganciato dall’oro. Questo è l’aspetto che gli economisti neo-keynesiani, monetaristi e anche teorici di scuole minoritarie, come la MMT (Modern Monetary Theory, nuova versione del vecchio “cartalismo”) ritengono comunque uno sviluppo positivo. Anche se si dividono su quanta liquidità immettere nel sistema e sull’opportunità di mantenere o meno l’indipendenza della banca centrale, piuttosto che sottoporla al controllo diretto del governo, concordano sul fatto che la moneta sia fiduciaria (“fiat money”) e non vincolata a una “commodity” fisica, come l’oro. I risultati diretti di queste politiche sono eclatanti. La liquidità globale, M2 (moneta, più i depositi in conto corrente, più tutte le attività ad elevata liquidità e valore certo), è cresciuta di 5 volte in un quarto di secolo, da 20mila a 100mila miliardi di dollari statunitensi. Soprattutto negli ultimi 20 anni, iniezioni di liquidità senza precedenti in occasione della Grande Recessione e della crisi dovuta alla pandemia, hanno portato ad un vero e proprio cambiamento di sistema. Assieme all’iper-liquidità è anche esploso il debito pubblico mondiale che, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, attualmente ammonterebbe a 277mila miliardi di dollari Usa, pari al 365% del Prodotto Interno Lordo mondiale. È sostenibile un sistema così indebitato? Secondo una scuola economica di minoranza, la Scuola Austriaca di Economia, corriamo rischi inaccettabili. Oltre ai parametri macro-economici, i cinquant’anni che ci separano dal discorso di Nixon hanno portato ad un peggioramento del tenore di vita generale e a un aumento sensibile delle disuguaglianze fra ricchi e poveri. Questo processo non va inteso in senso assoluto: salvo rari casi, quasi mai abbiamo assistito a un impoverimento generale della società. Semmai, si è sempre meno ricchi di quel che avremmo potuto essere, se si fosse mantenuto il sistema precedente. Secondo i calcoli dell’Economic Policy Institute, la produttività negli Usa è cresciuta del 246% dal 1948 al 2017, i salari del 115%. Ma mentre, fino al 1971 salari e produttività crescevano di pari passo (in alcuni momenti, nei primi anni ’50, i salari sono cresciuti più rapidamente rispetto alla produttività), il divario diventa sempre più grande dopo il 1971. Altro indicatore utile è la disuguaglianza. Secondo i calcoli di un economista marxista, Thomas Piketty, dal 1971 al 2010 la quota di reddito nazionale lordo detenuta dal decile più ricco è passata dal 35 al 45-50%. Piketty attribuisce l’aumento della disuguaglianza alle politiche “neoliberiste”, ma è curioso che invece coincidano con il cambiamento del sistema monetario americano (e mondiale). In un sistema in cui la Banca centrale ha il pieno controllo sulla moneta, chi è più “vicino” al sistema finanziario e allo Stato tende ad arricchirsi di più rispetto agli altri produttori. Terzo: i dati dell’inflazione cumulativa negli Usa, mostrano come sia rimasta sostanzialmente stabile fino al 1971 (salvo alcuni picchi dovuti alle guerre), ma in crescita costante dopo il 1971. Se è cresciuta dal 98% al 306% dal 1920 al 1970, dal 1971 al 2015 è cresciuta dal 306% al 2326,6%. L’inflazione funziona come una tassazione invisibile: riducendo il potere di acquisto, erode i risparmi. Infine, ma non da ultimo, i fenomeni di iperinflazione sono enormemente aumentati dopo l’introduzione del nuovo sistema. Ce n’erano stati sei dal 1916 al 1921, fra cui la famosa iperinflazione tedesca, cinque dal 1941 al 1946, in occasione della Seconda Guerra Mondiale. Ma dopo il 1971 se ne contano ben 28 dal 1971 al 1996 e altri due (Zimbabwe e Venezuela) dopo il 2000. Uno storico non può fare a meno di notare che l’instabilità monetaria sia enormemente aumentata dopo lo “shock” nixoniano.

Nel 1971 la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Accordi di Bretton Woods, 50 anni dopo la stabilità del sistema monetario è ancora lontana. Angelo De Mattia su Il Riformista il 18 Agosto 2021. Nell’agosto del 1971, l’amministrazione Usa decretò la sospensione della convertibilità del dollaro in oro (35 dollari l’oncia). La grande quantità di richieste di conversione del biglietto verde indussero Nixon alla decisione di sospensione della convertibilità che poi divenne definitiva. Ma era maturato, prima negli studiosi, poi tra i politici l’intento di svincolare la moneta dal legame con il metallo giallo e di renderne più agile e discrezionale la manovra con la politica monetaria. Keynes aveva definito il legame con l’oro «barbarous relic». Comunque, il 15 agosto del ‘71 veniva meno il sistema monetario internazionale, poggiato sull’àncora dollaro a sua volta legato all’oro, delineato a Bretton Woods alla fine della seconda guerra mondiale, anche se diverso da come lo avrebbe voluto lo stesso Keynes. ma ciò accadeva quando si annunciavano le pesanti restrizioni in Italia e in molti Paesi europei con il primo shock petrolifero, le domeniche a piedi, la sopravveniente austerity. Ne sarebbero seguite misure drastiche sulle banche fino ad arrivare alla chiusura del mercato dei cambi per oltre un mese. Intanto si ingrossavano gli introiti dei Paesi produttori di petrolio e si denominava questa rendita crescente come la “tassa dello sceicco” che diede modo a Guido Carli, allora Governatore della Banca d’Italia, di elaborare un progetto per il reimpiego dei petrodollari incassati dai predetti Paesi che intanto circolavano e venivano denominati come xenovalute. Da quel 15 agosto il sistema monetario a livello internazionale – se di sistema si può parlare – non ha trovato una sua disciplina. Hanno agito gli organismi finanziari internazionali, il Fondo monetario, la Banca mondiale, più di recente lo Stability Board, con poteri settoriali; hanno svolto un qualche ruolo il G7, il G8 e il G20 e altri summit informali. Specifici coordinamenti si realizzano per la regolamentazione delle banche, in particolare presso la Banca dei regolamenti internazionali. Ma una funzione fondamentale è stata assolta dalle principali Banche centrali, innanzitutto dalla Federal Reserve e dalla Bce (nell’ultimo ventennio) nel coordinare, e non sempre, informalmente le rispettive politiche. Questi istituti, tuttavia, hanno curato, “in primis”, come del resto è naturale, gli interessi delle rispettive aree. Fare del Fondo monetario internazionale una sorta di Banca centrale mondiale, una specie di nuova àncora come forse l’avrebbe voluto Keynes – il quale aveva progettato una moneta globale, il “bancor” – preposta all’analisi e al controllo della liquidità internazionale è stata l’idea di alcuni personaggi autorevoli, tra cui Antonio Fazio, che tuttavia per ora non ha compiuto i pur possibili passi in tale direzione. In occasione del Giubileo del 2000 e, poi del G20 di Londra del 2009, fu rilanciata la proposta di istituzionalizzare la categoria dei “beni pubblici globali” ( l’acqua, il cibo, le medicine), ma si tratta di un’aspirazione rimasta tale, come quella, forse utopistica, di definire un nuovo diritto internazionale pubblico, un nuovo “ ius gentium”. La crisi del 2008 dei subprime, poi dei debiti sovrani e quella ancora stringente del covid-19 dimostrano la necessità di far progredire l’analisi e le proposte se non altro per coordinare e integrare le manovre monetarie a livello internazionale. D’altro canto, se si pensa alle difficoltà che si incontrano nell’integrazione europea che si vorrebbe attuare disconoscendo “in toto” il principio di sussidiarietà, cioè le autonomie dei singoli partner comunitari benché si tratti di un principio posto a base dei Trattati di Roma, si può dedurre come sia più difficile un processo di raccordo a livello internazionale. Eppure, anche per prevenire, fin dove possibile, le crisi finanziarie internazionali, la via dei raccordi più stretti appare inevitabile. La riacquistata libertà, a suo tempo, nei confronti dell’oro carica ancor più di responsabilità coloro che reggono la cosa pubblica. Dopo cinquanta anni è ancora la deduzione che si deve trarre. Angelo De Mattia

Cosa è successo nel 1972, dalla morte di Giangiacomo Feltrinelli alla strage delle Olimpiadi di Monaco. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Giangiacomo Feltrinelli – editore ed erede di uno dei più grandi patrimoni dell’Europa centrale – saltò su un traliccio a Segrate mentre stava innescando una bomba. Questa la versione accreditata: il ricco intellettuale rivoluzionario rimase ucciso da un innesco terrorista e maldestro. Sarà vero? I dubbi restano. Personalmente seguito a dubitare. Si seppe che i nostri servizi segreti erano stati allertati in anticipo ma in modo vago, che c’era stato uno strano movimento di spie, ma siamo sempre in quell’area terribilmente grigia della politica e della storia e delle mancate rivoluzioni e insurrezioni. L’incredibile fatto avvenne mentre Enrico Berlinguer veniva eletto segretario generale del Partito comunista italiano, succedendo a Luigi Longo, il comandante partigiano cupo disciplinato duro e puro. Enrico Berlinguer era da anni in dirittura d’arrivo con un cursus honorum esemplare, giovane militante perfetto e senza ombre, era la speranza del partito. La vecchia guardia che aveva fatto la Resistenza se ne andava e insediava il sottile intellettuale di famiglia aristocratica sarda, cugino di Francesco Cossiga di cui diceva che “con i cugini al massimo a Pasqua ci si mangia l’agnello”. Enrico era di ottima famiglia, figlio di un vecchio e prestigioso socialista, sposo fedele e padre esemplare, come piaceva al partito che aveva digerito con difficoltà l’irregolarità maritale di Palmiro Togliatti che era sposato con Rita Montagnana ma si unì alla staffetta partigiana Nilde Jotti. Personalmente ho sempre pensato che la santificazione della signora Jotti, persona ovviamente impeccabile, sia stata dettata anche dalla necessità di soddisfare le forme più pedanti della morale comunista di quel partito totalmente oscurantista sul piano della vita privata. Enrico aveva un piano, che poi andò in porto in piccola parte ma che segnò fortemente la storia: un piano che maturò gradualmente ma che era già un germoglio quando prese le redini delle Botteghe Oscure e che non era ignoto al vertice. Lo scopo era quasi impronunciabile, ma veniva sussurrato: sganciare con estrema cautela il Partito dai legami con l’Unione Sovietica a cominciare dai finanziamenti, procedendo per gradi e con il fine di trovare un aggancio in Occidente, ma senza comportarsi come certi socialisti e socialdemocratici che si erano dai all’anticomunismo sguaiato più indecoroso. Berlinguer non amava i socialisti. Apparteneva alla tradizione comunista secondo cui anche con i socialisti, come con i cugini, si può al massimo mangiare l’agnello per Pasqua, ma poco più di questo. Quando nel Psi emergerà la leadership di un altro uomo di sinistra alla ricerca della sua strada originale ed anticomunista come Bettino Craxi, fra i due scoppierà un duello che poi diventerà una guerra letale. Bisognerà aspettare il colpo di Stato in Cile per avere lo spunto che innescò i famosi articoli che Berlinguer pubblicò su “Rinascita”, il settimanale ufficiale del partito, per capire che cosa aveva in mente. Un rilancio del compromesso fra comunisti e cattolici democristiani, che in fondo era nel solco della tradizione della “svolta di Salerno” con cui Palmiro Togliatti, che era a Mosca come numero due del Comintern, si sentì ordinare dal numero uno Georgi Dimitrov per disposizione del compagno Stalin, di tornare in Italia e fare del piccolo Partito comunista puro, settario e militarizzato, un partito largo, aperto, persino magnanimo con i vinti (tanto da irritare socialisti e azionisti) e anche non intransigente con la monarchia. E poi, fraterno con i borghesi purché sostenessero un fronte antifascista che aveva ancora un senso nello schieramento militare dell’ultimo squarcio della guerra. Di lì, Togliatti – che inizialmente non era stato molto contento delle disposizioni staliniane dettate esclusivamente dalle necessità strategiche dell’Urss – sviluppò, con l’uso audacissimo delle cultura, un partito “di tipo nuovo” che scavalcò i socialisti nel consenso popolare e si accreditò come partito ragionevole. Ragionevole al punto di votare l’inclusione nella Costituzione dei Patti Lateranensi firmati da Mussolini per tranquillizzare i cattolici. Fu così che dette forma a un soggetto politico organizzato e riconosciuto da tutti come interlocutore rispettabile. Berlinguer -trent’anni più giovane di Togliatti – era minuto, elegante, sarcastico, tenero in famiglia, ma un piccolo uomo d’acciaio quanto al resto, e dunque iniziò la sua avventura nata da una investitura per cooptazione, come in tutti i partiti comunisti. Gli anziani, il comitato centrale, ma più che altro il vecchio leader che aveva fatto da reggente fra Togliatti e il dopo, e cioè Luigi Longo, lo scelsero come il miglior figlio. Si perpetuava la tradizione per cui il leader comunista doveva appartenere all’area ligure sardo-piemontese. Savoia. Gente di poche parole e fatti di ferro. Il popolo comunista scandì subito nelle strade i nomi dell’albero genealogico appena arricchito dalla new entry e suonava bene: “Viva Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”. Fu l’inizio di una traversata, come scriveva allora Eugenio Scalfari, che avrebbe dovuto portare il partito al di là del guado consumando fino alla fine il famoso “strappo” dall’Unione sovietica che però non ci fu, anche perché si era fatto tardi e il comunismo mondiale stava collassando da solo. La strategia di Berlinguer coinvolse Aldo Moro e il suo destino tragico, come vedremo quando arriverà l’anno. Intanto questo 1972 si dipanò fra sanguinosi colpi di scena in luoghi diversi e uno dei più tremendi fu l’omicidio del commissario Luigi Calabresi a Milano il 17 maggio. Un delitto per il quale furono processati e condannati Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani (che proprio ieri è stato arrestato in Francia, 49 anni dopo l’omicidio che gli viene imputato), Ovidio Bompressi e Leonardo Marino, quest’ultimo il pentito più volte messo in discussione. L’esecuzione avvenne in strada, sotto l’abitazione del commissario che fu abbattuto dalle revolverate di due assassini in motorino , mentre stava salendo a bordo della sua Fiat 500 per andare in Questura. Il delitto fu considerato la vendetta – anzi l’esecuzione di una sentenza popolare auspicata da Lotta Continua – per la morte di Giuseppe Pinelli, l’anarchico ingiustamente accusato per la strage di piazza Fontana che morì precipitando da una finestra della questura in cui era interrogato. Ma non alla presenza di Calabresi. Il quale fu additato da una feroce campagna di stampa come l’assassino dell’anarchico buono, e definito “commissario torturatore” in un appello agli intellettuali pubblicato dal settimanale L’Espresso, firmato da 757 sottoscrittori fra cui Umberto Eco, Norberto Bobbio, Federico Fellini e tanti altri che in seguito provarono profondo imbarazzo o dissero, come Domenico Porzio, “Eravamo giovani e scatenati”. Erano tempi di spaccatura verticale, peggio di oggi. La strage c’era stata, il morto volato dalla finestra anche. La tensione era altissima e tutti si dedicavano alla propria “teoria della cospirazione” così com’era accaduto in America con l’omicidio Kennedy e le infinite indagini che non approdarono mai a nulla. Intanto i tribunali di Milano, Roma e Catanzaro si rimandavano la palla del processo per la bomba di piazza Fontana. Si parlava sempre più di terrorismo neofascista, anzi neonazista con interventi dei servizi tedeschi mentre in Medio Oriente si costruiva una sorta di internazionale. A Baddawi in Libano si riunisce nel mese di maggio per iniziativa del Fronte popolare di liberazione della Palestina un summit cui partecipano gruppi guerriglieri sudamericani, l’Ira irlandese, sciiti iraniani, i movimenti Eta basco, Jar, Tpla ed elementi che si danno per collegati alle future brigate rosse con esponenti della Baader Meinhof tedesca e il numero due di Yasser Arafat, Abu Ayad capo del gruppo “Al Wicab” il quale emergerà come l’organizzatore ed ideatore della strage di Monaco, che è l’altro atroce fatto di sangue di quell’anno. A Monaco di Baviera, durante le olimpiadi estive, una squadra di killer guidati da Abu Ayad uccise fra il cinque e il sei settembre, undici atleti israeliani. Morirono anche cinque terroristi e un agente di polizia. Per la Germania era il primo grande evento olimpionico organizzato sul suo territorio dalla fine della guerra, e per la prima volta un team di sportivi ebrei dello Stato di Israele andava a partecipare ai giochi organizzati nel Paese in cui sei milioni di ebrei erano stati uccisi. Dal punto di vista simbolico il messaggio era chiaro: nel luogo della Shoà, noi seguitiamo ad uccidere ebrei. L’organizzazione Al Wicab era nota al mondo come Settembre Nero, nome che ricordava la carneficina di palestinesi avvenuta nel 1970 in Giordania per decisione delle autori giordane che intendevano espellere i rifugiati palestinesi dai territori occupati dopo la guerra dei Sei Giorni da Israele e che avevano costituito in Giordania uno Stato nello Stato. Il cancelliere della Repubblica Federale tedesca era allora Willy Brandt, l’ex eroico sindaco di Berlino ai tempi della resistenza contro il blocco voluto dai sovietici. Toccò a Brandt chiamare il primo ministro israeliano Golda Meir mentre era in corso una trattativa fra i terroristi e le autorità tedesche. Golda disse a Willy di non cedere: “Non trattate, sono nostri figli, ne portiano noi la responsabilità”. Dopo il massacro, il Mossad ricevette l’ordine dal Primo Ministro israeliano di identificare tutti i componenti della banda degli assassini, i loro complici, coloro che avevano assicurato la logistica ed ogni tipo di aiuto ed ucciderli tutti. Con calma, con certezza, senza sbagliare un colpo. Come avvenne. Ma prima della strage di Monaco, in tarda primavera, era avvenuto un inspiegabile eccidio a Peteano, in provincia di Gorizia, dove una bomba fece saltare in aria e uccise tre carabinieri ferendone gravemente altri due. Non si era mai visto un delitto del genere. Un delitto simbolico con sacrificio umano di alcuni giovani che indossavano la divisa dei carabinieri e soltanto a causa della loro appartenenza all’Arma. Anche questo delitto schiuderà un buio passaggio attraverso le tenebre del nuovo terrorismo cui l’Italia non era abituata. Dodici anni dopo, nel 1984, si dichiarò responsabile un neofascista friulano, Vincenzo Vinciguerra, militante di Ordine nuovo. Oggi fatichiamo a ricordare queste sigle, quei fatti, quel clima e anzi la maggior parte di noi, di voi, non ne ha mai sentito parlare, ma è bene essere pronti: gli anni Settanta in Italia furono anni di morte, menzogna sangue ostaggi, dei comunicati, dei ricatti, delle false piste, dei killer ideologici e di quelli a pagamento. In fondo al tunnel ci aspetteranno i chiassosi e fatui anni Ottanta, di cui molto male si dirà per la loro sconsiderata fatuità. Ma ancora devono passare otto anni di inferno e li ripercorreremo insieme.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1972

14 gennaio: muore Federico IX, re di Danimarca. Gli succede la figlia Margrethe

27 gennaio: a Parigi il quotidiano Paris Jour cessa le pubblicazioni

21-28 febbraio: il presidente degli Stati Uniti d’America Richard Nixon si reca in visita ufficiale in Cina. L’incontro vale al paese asiatico il riconoscimento ufficiale di “grande potenza” e rappresenta il preludio al ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Cina e Stati Uniti

23 febbraio: si apre a Roma il processo per la strage di piazza Fontana, nel quale sono imputati Pietro Valpreda e Mario Merlino. Dopo pochi giorni il processo viene spostato a Milano per incompetenza territoriale

26 febbraio: Nicola Di Bari vince la 22ª edizione del Festival di Sanremo con la canzone I giorni dell’arcobaleno

15 marzo: viene trovato il corpo dell’editore Giangiacomo Feltrinelli, fondatore dei Gruppi d’Azione Partigiana, morto il giorno precedente a causa dell’esplosione dell’ordigno con il quale cercava di minare un traliccio dell’alta tensione

11 aprile: Vittorio De Sica vince il suo quarto Oscar con il film Il giardino dei Finzi Contini, tratto dal romanzo di Giorgio Bassani

30 aprile: a Renato Guttuso viene assegnato il Premio Lenin per la pace

21 maggio: la Pietà di Michelangelo viene deturpata a martellate dall’australiano di origini ungheresi László Tóth

17 giugno: l’atleta Pietro Mennea è primatista europeo dei 100 metri piani

4 luglio: Pier Paolo Pasolini vince l’Orso d’oro con il film I racconti di Canterbury

13 luglio: a Roma si tiene il IV congresso del Psiup: è deciso lo scioglimento del partito e la fusione nel Pci; una minoranza del partito aderisce al Psi

26 agosto: a Monaco di Baviera si aprono con una fastosa cerimonia i ventesimi Giochi olimpici

21 settembre: viene presentato nelle sale cinematografiche delle maggiori città italiane il film Il padrino diretto da Francis Ford Coppola e interpretato, fra gli altri, da Marlon Brando. Il film tratto dal romanzo di Mario Puzo, narra le vicende del boss mafioso Vito Corleone e della sua banda

10 ottobre: la Fiat 500 F cessa di essere prodotta: ne sono stati venduti più di due milioni e mezzo di esemplari. La Fiat presenta la nuova 500 R (rinnovata) e una nuova utilitaria, la 126

13 ottobre: Disastro aereo delle Ande

7 novembre: Richard Nixon viene rieletto a presidente degli Stati Uniti d’America con il 65% dei voti

3 dicembre: viene arrestato il boss mafioso Tommaso Buscetta. Estradato dal Brasile, dovrà scontare 14 anni di carcere.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1972: dal Watergate a Peron. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Maggio 2021. Alcuni anni guardati a distanza sono sterili come rami secchi, altri non cessano di spurgare conseguenze, e il 1972 di cui abbiamo già ricordato gli eventi più drammatici– omicidio Calabresi, Feltrinelli che salta in aria, la strage di Monaco dei palestinesi di Settembre Nero – seguita ad agire sulla memoria come un buco nero. I buchi neri hanno questa capacità che incanta e ossessiona i fisici: fermano il tempo. Chi si avvicina a uno di questi mostri dello spazio galattico, rallenta fino a zero il ticchettio del suo orologio storico, fino a scomparire nel nulla. Alcuni anni del nostro passato recente hanno agito come mostri. A Buenos Aires torna Juan Peron, il descamisado. Suppongo che gran parte dei lettori sotto i cinquanta sappiano poco di questo bellimbusto della storia, uno di quei rivoluzionari che non sai bene se considerarlo di estrema destra o di estrema sinistra, come purtroppo è capitato spesso nel secolo passato. Juan Peron era riuscito a mettere insieme senza troppo sforzo quel che restava del fascismo sociale italiano, alimentato da centinaia di migliaia di rifugiati italiani in Argentina, con le nascenti teorie rivoluzionarie sudamericane ispirate al marxismo e influenzate dalla vittoria di Castro a Cuba. Alla fine dell’avventura, di Peron restò un grumo di guerriglia nel gruppo dei Tupamaros. Peron distrusse con la furia demagogica sorretta da altrettanto furore popolare e demagogico l’Argentina che era il grande Stato emergente e paradisiaco del Sud America, opulento e aperto alla conquista, stremandolo fino alla miseria da cui ancora oggi non si risolleva tra un sussulto e l’altro di antiamericanismo. Sua moglie Evita creò l’icona da musical, una creatura visionaria e follemente generosa col denaro altrui, che donava case ai poveri attingendole dalle casse dello Stato dimenticando di rifornirle. Peron era stato per diciassette anni in esilio nella Spagna di Francisco Franco, decrepito ma ancora in sella, e tornò a Buenos Aires come se avesse vinto la guerra. Quel ritorno, quella catastrofe e le illusioni connesse, furono causa di una catena di catastrofi letali, ma pervase di romanticismo. L’Argentina che prometteva di essere ricca come gli Stati Uniti della corsa verso l’Ovest diventò succube del cliché secondo cui i malvagi yankee vampirizzavano la ricchezza dei popoli. A Parigi, intanto, ancora si tagliava la testa con la ghigliottina, nel 1972, quattro anni dopo il ’68 rivoluzionario, “le joli May” delle barricate libertarie: zàc, due condanne per omicidio finiscono sullo stesso veloce patibolo macchinale, in un cortile all’alba. I socialisti italiani cambiano strada: la segreteria di Giacomo Mancini, intellettuale calabrese molto vicino ai radicali, anticomunista non isterico ma autonomista, viene detronizzato con un colpo di mano al Congresso di Genova del Psi dove vince il professor Francesco De Martino. Cominciò quell’era napoletano-brezneviana del socialismo italiano che porterà all’incupimento del partito socialista, diventato ideologicamente subalterno al Pci che aveva mal digerito Mancini e che rigetterà il successore di De Martino, Craxi. E qui una nota dolorosa, a margine, sperando di risolvere un equivoco. Come ho ricordato di sfuggita in queste rievocazioni del tempo passato, io ho presieduto fra il 2002 e il 2006 una commissione bicamerale d’inchiesta sulle infiltrazioni sovietiche in Italia durante la guerra fredda. Quelle infiltrazioni non riguardavano, se non marginalmente, lo spionaggio. Lo spionaggio è un lavoro dei manovali del mestiere che trasferiscono informazioni protette da segreto a entità straniere. Ma le infiltrazioni di uno Stato in un altro riguardavano solo marginalmente lo spionaggio. Il vero oggetto del desiderio e del segreto non sono le spie ma i cosiddetti “agenti di influenza”. Che possono essere tali persino a loro insaputa. Il dossier Mitrokhin (dal nome di un vecchio archivista morente di cancro che donò la sua copia delle schede del Kgb agli inglesi) conteneva molti nomi di agenti di influenza e tra questi c’era anche il nome del professor De Martino, che io conoscevo benissimo, che andavo a trovare nella sua casa sul Vomero piena di ninnoli e canarini e che era un socialista certamente molto ossequiente verso l’Unione Sovietica e in ottimi rapporti col Pci. Quando si diffuse la notizia di questo e altri nomi contenuti nelle schede che il servizio segreto inglese aveva consegnato a quello italiano nel corso di alcuni anni, ci furono molte dimostrazioni di sdegno. Come si poteva permettere che si desse credito a quel che riferiva un archivista russo infangando l’onorabilità di esimi protagonisti della politica italiana? L’unica risposta era: chiedetelo ai russi. De Martino non era di sicuro un “agente” di chicchessia, ma era considerata utile la virata impressa ai suoi socialisti verso il grigio-notte e il Psi cominciò a morire nell’emorragia di identità e seguitò a calare nei consensi fino al capitombolo nelle successive elezioni che provocarono la “rivolta contro il padre” dei demartiniani all’hotel Midas di Roma nel 1976, che incoronerà il giovane nenniano rampante Bettino Craxi. Ma allora, nel 1972, al Congresso di Genova si assistette alla fine dell’impennata libertaria che aveva visto lo scontro tra socialisti e servizi segreti. Intanto, entrava in vigore una delle leggi volute dai socialisti: quella che riconosceva l’obiezione di coscienza per rifiutare il servizio militare obbligatorio. Terminava quell’anno l’epopea Fiat delle piccolissime utilitarie: dalla piccolissima alla media borghesia il Paese cresceva e la vecchia gloriosa Cinquecento degli amori difficili a causa della leva del cambio, andò in pensione. L’America era nel frattempo entrata in una delle sue cicliche contorsioni, che secondo il politologo George Friedman costituiscono il convulso motore rivoluzionario della straordinaria crescita americana, sia civile che industriale. Secondo questo analista e molti think-tank, la unicità americana rispetto alle altre nazioni di lingua inglese, starebbe nelle drammatiche crisi di crescenza: dalla rivoluzione indipendentista alla guerra civile, dalla dorata supremazia aristocratica dei Kennedy al Watergate, lo scandalo che travolse Richard Nixon e che cominciò proprio nel 1972 quando questo repubblicano che aveva fatto da vice ad Eisenhower e aveva perso il primo round con Kennedy, conquistò le urne e venne poi rieletto in una votazione intossicata dallo scandalo delle microspie nell’hotel Watergate dove si era installato lo stato maggiore del comitato elettorale democratico. D’altra parte, a Bonn si installava un altro campione della leadership occidentale: l’eroe berlinese Willy Brandt, il sindaco che aveva guidato la cittadella occidentale durante l’assedio con cui i sovietici avevano tentato di soffocare l’enclave democratica contenuta nel territorio della Repubblica democratica tedesca. Il blocco era stato sconfitto grazie al ponte aereo americano che aveva rifornito la città anche col pane, il latte e il carburante, ma a quella prima stretta ostile era seguito un lungo periodo di vero assedio economico e psicologico a Berlino Ovest e Willy Brandt, leader socialista, aveva conquistato la sua corona di campione dell’Occidente. Ma anche la cancelleria Brandt conteneva il suo uovo di serpente. Con un nome: quello di Gunter Guillaume, suo braccio destro, autore dei suoi discorsi, consigliere speciale e numero due, che era in realtà un agente della Stasi della Germania dell’Est e che quando sarà scoperto, processato e messo in galera con una condanna a tredici anni, trascinerà con se nella sua rovina anche il cancelliere più amato, che sarà costretto alle dimissioni. Fu anche l’anno in cui fu rintracciato il famoso – come figura retorica poi abituale – “ultimo giapponese”: il sergente Shoichi Yokoi che viveva la sua personale e patriottica resistenza eremitica agli americani nel folto della foresta dell’isola di Guam, ignorando che la guerra era finita. Altre code di guerra: Gheddafi scopre che le tombe degli italiani ingombrano il terreno libico ed espelle le ossa dei colonialisti. L’Italia vota. In anticipo per una crisi che attanaglia la Democrazia Cristiana e che spinge il partito di maggioranza a giocarsi la carta della conta elettorale, con netto successo: la Dc è al trentotto per cento, il Partito comunista al 27, 1, il Psi sotto il dieci e l’estrema sinistra divora e disperde voti tra Psiup, Manifesto e Movimento Politico dei Lavoratori. Sinistra in crisi, sinistra divisa, sinistra senza direzione né verso, sarà il ritornello di quella battaglia elettorale in cui si vedeva in atto lo stesso genere di crisi di sempre: la sinistra di governo dilaniata dalla sinistra d’opposizione, con in più un Partito comunista che si trova nella scomoda condizione di avere troppi nemici a sinistra, e relativamente pochi a destra. Berlinguer si è appena insediato. La sua svolta chiamerà il partito a tentare la nuova carta dell’indipendenza e dell’Eurocomunismo, che ancora era una vaga forma che si presentava nella nebbia di un’Europa in cui le tensioni della guerra fredda e quelle create dalle influenze dei grandi giocatori internazionali provocavano misteriosi contraccolpi ed ebbe esiti tragici e misteriosi. Si parlava ormai, e fin troppo vagamente, delle famose “piste”, ovvero le oscure tracce dei nuovi attori neri e rossi che agivano penetrando movimenti e bande, con quello che ancora si stentava a chiamare terrorismo. E che infatti era qualcosa di più complicato e inestricabile. Tanto inestricabile che ancora oggi la maggior parte dei fatti di quegli anni, e anzi proprio di quell’anno di doppiezze, uova di serpente ed effetti speciali che fu il 1972, si ripercuotono nel tempo presente.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1973: fine della guerra in Vietnam e golpe in Cile. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 27 Maggio 2021. Che sensazione amara e lontana tornare a frugare nel 1973, un anno che, come tanti altri può meritare il titolo di anno fatidico della grande svolta. Non fu una sola svolta. Ma molte di più. Fondamentalmente per due eventi e le loro conseguenze. Nel 1973 si chiuse con la catastrofe dei diplomatici in fuga con gli elicotteri da Saigon la guerra del Vietnam con la sconfitta militare americana. Una dura e amara lezione che gli americani hanno capito e digerito con qualche decennio di ritardo e, bisogna dire, con una capacità autocritica di cui noi non abbiamo la più pallida idea. Il secondo evento fu il Cile con il colpo di Stato con bombardieri sul palazzo presidenziale che rovesciò il governo del presidente Salvador Allende per instaurare un regime militare feroce come quello della Junta argentina degli anni successivi, e che sarà abbattuto dalla fermezza di Margaret Thatcher nella guerra delle Falkland. Quel colpo di Stato fece da innesco ad una svolta fondamentale anche se destinata al fallimento: Enrico Berlinguer, segretario del Pci, trarrà da quella disavventura che mostrava la realistica logica brutalità della guerra fredda tra superpotenze, la ragione logica e politica per rilanciare qualcosa di simile alla svolta di Salerno che Palmiro Togliatti portò in Italia abbandonando la sua residenza all’hotel Lux di Mosca. E quell’oggetto misterioso diventò subito popolare con il nome di Compromesso Storico. La storia del compromesso storico di Enrico Berlinguer è ancora oggetto di molte interpretazioni tra le quali io inclino per quella suggerita dalla raccolta dei documenti della Cia che fu pubblicata in Italia. Ciò che ho imparato come giornalista e poi come parlamentare presidente di una Commissione d’inchiesta sulla vicenda del dossier Mitrokhin è che la “guerra fredda” non fu affatto un conflitto tra ideologie, ma il mascheramento di un vero conflitto militare latente, non poi così freddo. La guerra del Vietnam provocò quasi due milioni di morti e si svolse nella zona calda della guerra fredda, come lo era stata la guerra di Corea nel 1950 quando la Cina scatenò un attacco per impadronirsi della Corea oltrepassando il trentottesimo parallelo. E poi la guerra si manifestava all’improvviso in altri teatri, come l’attacco alla Casa Rosada in cui Salvador Allende si difese fino all’ultimo colpo dell’arma che gli aveva portato in regalo da Cuba Fidel Castro L’ultimo colpo lo riservò a sè stesso. Anche quella fu guerra fredda. Come lo era stato il colpo sovietico a Praga nel 1968. Il golpe in Cile di Pinochet fu la risposta brutale organizzata dalla Cia contro la crescente presenza sovietica in Sud America alla maniera con cui il regime egiziano di Abdel Fattah el-Sisi è stata la risposta brutale contro la jihad dei Fratelli Musulmani. Sono stato molte volte nel Cile di Pinochet come inviato di Repubblica e mi è capitato di alternare le mie permanenze in Cile a quelle nella Polonia in cui il generale Jaruzelski aveva instaurato un’auto colpo di Stato per impedire che al suo Paese capitasse quel che era già successo prima all’Ungheria nel 1956 e poi alla Cecoslovacchia. A Santiago durante la dittatura militare le librerie erano piene zeppe di testi marxisti e castristi non perché il regime fosse liberale, ma perché ignorava la cultura non essendo una questione militare. Al regime non importava quel che pensava la gente. Il mio spagnolo migliorava e mi permise il lusso di leggere davanti alla finestra sulla piazza del palazzo che era stato di Allende, il capolavoro di Gabriel Garcia Marquez El amor en los tiempos del còlera in un’edizione con la copertina gialla ormai corrosa dalle riletture. Sulla piazza i generali avevano trasformato in monumento un’automobile esplosa che avrebbe dovuto colpirli con un’azione della “Izquierda Unida”. E scoprii con incredulità che nella Santiago del regime di Pinochet esisteva un quartiere periferico in cui era arroccata la resistenza della sinistra unita con il suo pueblo di campesinos e che si entrava e si usciva da quella cittadella come attraverso il “checkpoint Charlie” che divideva le due Berlino. Era mai possibile che il regime militare di Pinochet consentisse l’esistenza di un intero quartiere di legno sui cui spalti sventolavano le bandiere rosse con la falce e il martello? La paradossale risposta è sì, perché ai colonnelli cileni non importava nulla delle ideologie ma servivano soltanto uno scopo militare. Scoprii nei miei viaggi successivi al golpe (fu allora che la parola spagnola “golpe” entrò nel nostro vocabolario sostituendo “colpo di Stato”) che in Cile viveva una intera nazione tedesca in una enorme area che si chiamava “Colonia Dignidad” in cui si parlava ancora un tedesco ottocentesco. I cileni avevano pascoli con mucche bavaresi e indossavano calzoni di pelle e penne sul cappello. Da quella parte del Cile venivano i quadri dell’amministrazione e militari. Dall’altra parte, a Varsavia qualche anno più tardi, in un negozio potevi trovare fra tante mensole vuote un unico colbacco malconcio e pagarlo una fortuna. A Varsavia lo Stato era attento alle librerie: letteratura cattolica sì, letteratura comunista castrista, no. Avevo un amico, Cristoph, un buon comunista intellettuale che pretendeva di condire la pasta col ketchup e quando gli spiegavo che nella Santiago di Pinochet si poteva comprare la letteratura castrista che non trovavo nelle librerie di Varsavia, mi guardava come se fossi un agente provocatore. Penso oggi di avere avuto un’enorme fortuna nel fare il mestiere che ho fatto specialmente a Repubblica perché Eugenio Scalfari mi fece partire per ogni angolo del mondo per scoprire frammenti di realtà che facevano a pugni con le versioni accreditate dal politicamente corretto, sia di destra che di sinistra. Berlinguer lo sapeva benissimo essendo stato cooptato dal gruppo dirigente della vecchia guardia togliattiana. E aveva capito che se voleva ottenere i due risultati più ambiti – tagliare il cordone ombelicale con l’Unione Sovietica e portare il suo partito al governo – avrebbe dovuto passare attraverso le forche caudine di un compromesso. Storico, ma non inedito: il Pci di Togliatti aveva già votato l’articolo 7 della Costituzione che convalidava i patti di Mussolini col Vaticano, perché per lui l’obiettivo di conquistare le “masse cattoliche” (tutto si divideva in “masse” a quei tempi) organizzate dalla democrazia cristiana, un partitone con dentro venti partitini, pronto ad adattarsi a qualsiasi politica realistica. Il colpo di Stato in Cile fu una iniezione di realtà e gli articoli di Enrico Berlinguer furono pubblicati non sull’Unità ma su Rinascita, un settimanale meraviglioso perché realista su cui potevi trovare la descrizione dello stato dei fatti quando ancora il partito prendeva sul serio la separazione tra politica e propaganda e rispettava la lezione marxista secondo cui la verità è la premessa per la rivoluzione e non il suo ostacolo. L’Europa intesa come progetto di unione era ancora uno sfrontato cartello di paesi che si erano accordati per impedire la concorrenza e il libero mercato delle materie energetiche e dell’acciaio: il contrario del liberismo, senza alcun rispetto della concorrenza ma anzi l’instaurazione del monopolio come basamento su cui costruire un’Europa politica che per ora non si è vista. L’Italia intanto era sbranata da una vera libidine di guerra civile. Esisteva allora un partito neofascista guidato da un uomo intelligente e di grande qualità come Giorgio Almirante (cosa che mi stupì quando lo andai a intervistare nel suo ufficio) ma l’interdizione nei confronti dei neofascisti costituiva una sorta di riserva energetica per quella parte della sinistra che cercava di ostacolare il compromesso storico attraverso scorciatoie più o meno manesche o da guerra di religione. Tirava un’aria da Brigate Rosse nascenti e c’era stato il primo sequestro del sindacalista Labate che era stato picchiato selvaggiamente, rapato come un collaborazionista e quindi rilasciato con un comunicato in cui si diceva che aveva avuto il suo giusto processo. Emergevano dalla cronaca aree che miravano a soluzioni di forza alimentate da altre aree indistinguibili come matrioske dentro matrioske, perché si diffondeva sempre più la commistione nazi-maoista che accoglieva i cosiddetti “cameragni” (fusione ironica di camerati e di compagni). Il terreno di coltura di questa geografia spezzettata e pretestuosa stava nella imminenza di una guerra europea che tuttavia non sarebbe mai scoppiata: una guerra militare, non ideologica. Da parte occidentale la guerra consisteva nel contenimento dell’espansione sovietica, mentre a Mosca il think-tank del Kgb di Yuri Andropov (che non era solo un servizio segreto ma una scuola di pensiero) puntava a un risultato politico da raggiungere con qualsiasi mezzo, anche militare: una Unione Europea che includesse l’Unione Sovietica (la “Eurss” secondo il titolo di un saggio di Vladimir Bukowski) che corrispondeva al progetto del generale de Gaulle di un’Europa “dall’Atlantico agli Urali”. Il significato geopolitico di allora resta attuale anche nelle vicende russe, bielorusse ed ucraine di oggi: accoppiare la capacità tecnologica dell’Europa con le risorse naturali e la potenza militare russa. A quel tempo non eravamo nelle condizioni di decifrare. Certo è che la presenza di servizi segreti, gente di mano, agenti provocatori e infiltrati di ogni razza agiva da innesco per eventi truci e imprevedibili: bombe che uccidevano chi le stava deponendo, una famiglia di fascisti del Msi arsa viva in casa con i cadaveri carbonizzati dei ragazzi affacciati alla finestra e morti e aggressioni e bastonature e attentati. Era impossibile trovare un filo conduttore. La scelta di Berlinguer avvenne non soltanto come conseguenza del colpo di Stato cileno, ma anche per la presa d’atto di una nuova guerra civile latente in Paese dilaniato da continui scioperi e scontri con la polizia di cui approfittavano frange che puntavano a impedire qualsiasi compromesso. Quel caos ben organizzato rispecchiava gli echi del duello dei titani. La strada che aveva preso Berlinguer non piaceva all’Unione Sovietica perché l’avrebbe privata di uno strumento con cui contrastare le iniziative militari della Nato. Berlinguer aveva aperto un gioco rischiosissimo cercando di mantenere i piedi in entrambe le staffe, quella della scelta occidentale sotto “l’ombrello della Nato” (come dirà a Giampaolo Pansa del Corriere) e quella di fatto filo-sovietica di contrasto all’installazione dei missili di media gittata opposti ai missili sovietici installati sui Balcani. La Democrazia Cristiana con le sue molteplici anime e antenne vedeva e accompagnava processi fra di loro diversi e persino opposti, ma al suo interno sempre di più si confermava la leadership di Aldo Moro, il più attrezzato per capire e appoggiare la proposta di Berlinguer. Appena letti gli articoli sul colpo di Stato in Cile, Moro con cautela snervante ma anche con realismo entrò nella prospettiva di un compromesso storico in cui avrebbe svolto lui il ruolo più rischioso e che probabilmente gli costò la vita: quello del garante per il mondo occidentale, più per gli inglesi e i tedeschi che per gli americani. Ne parleremo quando arriverà all’anno giusto, ma avverto il lettore che nella permanente diatriba sull’origine dell’operazione che portò al rapimento, interrogatorio ed esecuzione di Aldo Moro, ho maturato sui fatti una convinzione che vedo poco contrastata dal comune sentire. Questa convinzione si formò indagando sul caso Moro e in particolare nel corso di una Rogatoria Internazionale da me presieduta a Budapest nel palazzo della Procura generale dell’Ungheria in stile assiro-babilo-sovietico, dove i procuratori magiari ci mostrarono una quantità di rapporti e documenti riservati che ci furono mostrati e poi negati per un intervento della diplomazia russa, con le prove dell’ingaggio di un certo numero di membri delle Brigate Rosse (ricordo di sfuggita Antonio Savasta) arruolati della Stasi delle “vite degli altri” e del Kgb ai tempi in cui a Budapest alloggiava la banda del venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, noto come Carlos lo Sciacallo, il quale portò a termine un centinaio di attentati e omicidi, in particolare in Francia (dove sconta due ergastoli) e in Italia. Quei documenti, con mia parziale sorpresa, nessuno poi li ha più voluti cercare, benché la loro esistenza sia formalmente certificata da atti del Parlamento della Repubblica. È strano perché quelle carte esibite e poi non concesse documenterebbero, anzi documentano, la cosiddetta etero-direzione di una parte delle Brigate Rosse gestite dalla “fiera dell’est”, come del resto anche la logica suggerisce pose fine al tentativo del compromesso eliminando il garante democristiano con la più spettacolare, ardita e mai perfettamente ricostruita operazione di commando in un paese occidentale. Ne parleremo a suo tempo ma voglio ricordare che tutti i colpi sparati contro gli uomini della scorta di Moro in via Fani provenivano da un’unica arma nelle mani di un uomo che a detta di una testimone parlava una lingua straniera incomprensibile dando ordini. Siamo sempre al discorso delle uova di serpente in cui si tenta di cogliere il momento in cui vengono deposte e il meccanismo a tempo che dovrebbe farle poi schiudere portando i suoi frutti crudeli.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1973:

14 gennaio: viene trasmesso il concerto di Elvis Presley Aloha from Hawaii. È il primo concerto della storia della tv ad essere trasmesso in tutto il mondo via satellite

17 gennaio: Ferdinand Marcos diventa presidente a vita delle Filippine

27 gennaio: gli accordi di pace di Parigi pongono ufficialmente fine alla Guerra del Vietnam

8 febbraio: creazione della Confederazione Europea dei Sindacati

17 marzo: Elisabetta II inaugura il moderno London Bridge

24 marzo: viene pubblicato dai Pink Floyd per l’etichetta Emi l’album The dark side of the moon che resterà quasi due anni nelle classifiche di vendita americane

27 marzo: Il Padrino vince l’Oscar come miglior film

4 aprile: viene inaugurato il complesso World Trade Center a New York. Le due Torri Gemelle vengono aperte al pubblico

7 maggio: durante una cerimonia davanti alla Questura di Milano in memoria del commissario Luigi Calabresi ucciso un anno prima, l’anarchico Gianfranco Bertoli lancia una bomba a mano sulla folla per colpire l’allora ministro dell’Interno Mariano Rumor. L’attentato provocò quattro vittime e quarantacinque feriti

18 maggio: a Washington, in seguito alle rivelazioni di due giornalisti del Washington Post, viene aperta un’inchiesta sullo scandalo Watergate, ovvero lo spionaggio subito dai Democratici nel corso dell’ultima campagna elettorale presidenziale. Nell’inchiesta è coinvolto anche il presidente degli Usa, Richard Nixon

1º giugno: in Grecia un referendum abolisce la monarchia e istituisce la repubblica. Il colonnello Geōrgios Papadopoulos, già al potere dal golpe militare del 1967, diventa presidente

10 luglio: viene rapito a Roma Paul Getty III, nipote dell’uomo più ricco del mondo. Per sollecitare il pagamento, i sequestratori tagliano un orecchio al ragazzo. La liberazione avverrà cinque mesi dopo, a fronte di un riscatto miliardario

23 agosto: a Stoccolma un tentativo di rapina alla Sveriges Kredit Bank si trasforma in un sequestro di persona: è l’evento da cui nacque l’espressione “Sindrome di Stoccolma”

29 agosto: a Bari, Napoli, Palermo, Cagliari, Barcellona ed altre città del Mediterraneo scoppia un’epidemia di colera causata da una partita di mitili provenienti dalla Tunisia

23 settembre: Juan Domingo Perón è eletto presidente dell’Argentina

24 settembre: Nasce il gruppo musicale Kiss

28 settembre: in un saggio su “Rinascita” intitolato Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, il segretario del Pci Enrico Berlinguer lancia la proposta del compromesso storico con la Dc.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1973: Guerra del Kippur e prima crisi petrolifera. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 6 Giugno 2021. Abbiamo parlato nella scorsa puntata del 1973 senza accennare all’evento più drammatico, imprevisto e carico di conseguenze che allora sembrarono catastrofiche e inguaribili. La guerra di Yom Kippur. Quell’anno la festività ebraica di Yom Kippur, la più importante, quella che raduna la stessa tavola dopo lunghissima preparazione tutte le famiglie religiose e laiche del popolo di Israele, coincise con il mese di digiuno e di pace musulmano del Ramadan. Onestamente, proprio nessuno aveva immaginato che potesse accadere una cosa del genere, nemmeno in Israele dove i servizi segreti e le antenne erano irte e sintonizzate da sempre su tutti i segnali provenienti dal mondo nemico di Israele. Fu una guerra tremenda e improvvisa in cui l’Egitto alleato della Siria dell’Iraq attaccò lo stato di Israele nel tentativo di ribaltare le sorti della guerra di sei anni prima, quella del 1967 che in soli sei giorni si era risolta in una disfatta totale delle forze arabe che avevano lungamente pianto per quella sconfitta cocente e disonorevole. Israele non se l’aspettava. Nessuno al mondo se lo aspettava. Fu un grande colpo dell’intelligence sovietica perché la guerra di Yom Kippur fu una guerra sovietica in cui specialmente l’Egitto ricevette dall’Urss le armi più moderne e anche l’addestramento si dimostrò accurato e perfettamente efficiente sul campo di battaglia. L’ artiglieria funzionava e si batteva con quella israeliana il cui personale era stato colto nel sonno e scaraventato alle sue postazioni. All’inizio fu un trauma da formicaio: man mano che la notizia dell’attacco raggiungeva le case, tutti i cittadini, maschi e femmine, vecchi e giovani, si ritrovarono all’istante soldati rispondendo alle chiamate già prestabilite nei punti convenuti. Ma l’effetto sorpresa fu devastante. La notizia arrivò in Occidente e in Oriente come un colpo di fulmine e – in breve – tutti coloro che odiavano gli ebrei gioirono, tutti coloro che provavano pena e senso di protezione per loro e non soltanto per gli israeliani, caddero in uno stato di profonda depressione finché Tsahal (l’esercito) e l’IDF nel suo complesso si riorganizzarono. Quando andai a intervistare Mohachem Begin, qualche anno dopo, gli chiesi quale fosse stato stata la causa della faticosa ripresa e poi della vittoria, e mi rispose: “Gli egiziani fanno come gli inglesi: raccolgono i loro ufficiali nell’alta borghesia e nell’aristocrazia politica. Mettono al comando i figli dei potenti. I nostri sono selezionati tra gli adolescenti più audaci, nelle strade, e così abbiamo un personale militare pronto a combattere senza arrendersi. Noi odiamo la guerra e non possiamo permetterci il lusso della sconfitta. In questo – mi disse ancora Begin – consiste la differenza fra noi israeliani e gli arabi: loro possono perdere tutte le guerre ma essere ancora pronti a cancellarci dalla faccia della terra, mentre noi possiamo vincere tutte le guerre ma sappiamo che se perderemo la prossima perderemo vita, figli e patria”. Tutti dissero allora: questa sarà la più grave crisi energetica della storia. Chiuderanno i pozzi petroliferi. La benzina andrà alle stelle. Il mondo diventerà povero perché non potrà più trasportare cibi al mercato. È l’inizio della fine della civiltà. Parlavano soltanto dei disastri che la guerra mediorientale avrebbe causato al prezzo del petrolio, non ricordando che quando sale il prezzo del petrolio in Medioriente, quello russo fa affari d’oro. La guerra cominciò il 6 ottobre 1973 con un attacco simultaneo e preparato con segretezza militarmente encomiabile dalla Siria, dall’Egitto, e poi dagli altri paesi arabi della coalizione. Ma fu prima di tutto la vendetta egiziana. Gli egiziani erano stati malamente umiliati nel 1956 quando Nasser nazionalizzò il canale di Suez che apparteneva ad una compagnia privata franco-inglese abilitata ad operare sul territorio nazionale egiziano, e Anthony Eden, già ministro degli Esteri di Winston Churchill, affamato di una guerra che riaffermasse l’esistenza dell’impero britannico, si mise a urlare che Nasser era come Mussolini e che andava trattato come Mussolini e sconfitto come Mussolini. Non che Nasser fosse troppo dissimile da Mussolini, ma era, come quasi tutti gli egiziani, filo-inglese, sentendosi debitore dell’impero per tutte le innovazioni di cui la sua patria aveva fatto uso per diventare una nazione relativamente moderna. Nel ‘56 gli israeliani si accodarono all’attacco franco-inglese mentre americani e sovietici – per la prima volta uniti dopo la seconda guerra mondiale – intimarono l’alt alle operazioni che avrebbero dovuto concludersi con la conquista del Sinai da che lo avevano invaso seguendo un piano secondo cui il Regno Unito avrebbe ottenuto un mandato dell’Onu come peace-keeper per rinsaldare la propria potenza. Nel 1956, sotto la frusta di Mosca e di Washington, inglesi e francesi tornarono alle loro case abbattuti umiliati e gli israeliani semplicemente, si ritirarono. Poi ci fu la grande vittoria israeliana del 1967, i sei giorni. L’esercito di Zahal guidato dal generale Moshe Dyan con una teatrale benda nera, sull’occhio perduto in guerra, travolse l’esercito egiziano con un blitz krieg all’israeliana in cui i soldati combattevano come gruppi di pirati collegati via radio. Stavolta invece le cose andavano per le lunghe: in Siria si era appena installato Hafez al Assad il padre dell’attuale Bashar al Assad, un uomo del partito Baath nazionalsocialista antisemita, a suo tempo alleato dei nazisti tedeschi. Inoltre era un leader laico, anzi ateo e quindi malvisto dei religiosi sunniti che gli negavano il pieno appoggio di una popolazione sensibile quasi soltanto al richiamo dei muezzin. Lo sbandamento israeliano durò sette giorni durante i quali egiziani e siriani penetrarono profondamente in Israele. Ma fu presto chiaro che la loro strategia militare, di scuola tradizionale sovietica, era vecchia anche se bene organizzata. Lo shock nel comando operativo israeliano fu molto duro ma l’analisi che ne seguì dette i suoi frutti. Fu deciso infatti di suddividere le formazioni di carri israeliani in piccoli gruppi di due o tre fra loro dotati di una eccellente comunicazione radiofonica di cui le forze armate sovietiche non erano ancora provviste. I carri israeliani riuscirono così a penetrare attraverso le linee egiziane e con una serie di operazioni di ingegneria molto ardite le avanguardie della fanteria israeliana riuscirono a varcare il canale di Suez su passerelle gettate su pontoni galleggianti dai genieri e su quelle passarono poco dopo gli stessi carri armati israeliani ormai in Africa sulle piste che conducevano al Cairo: alla loro testa era un generale che per questa operazione diventò famoso, Ariel Sharon, che sarà il primo ministro e molti anni dopo decise di donare la striscia di Gaza strappata agli egiziani, personalmente a Yasser Arafat sperando così di chiudere una partita sanguinosa. (Ma Sharon fece questo regalo senza calcolare la forza e la potenza di Hamas, nemica sia dei palestinesi che degli israeliani). Allora i combattimenti furono sanguinosi anche perché i soldati egiziani e siriani si batterono con disciplina e coraggio e morirono in grandi quantità. In tre settimane i morti nel complesso furono 15.000 di cui solo 2000 israeliani. Fu allora che Anwar el Sadat, il presidente egiziano che si era giocato la vita con la guerra, capì che era arrivato il momento di arrivare a far pace con gli israeliani e di mandare al diavolo i russi. Fu a causa di quella guerra del 1973 che l’Egitto decise di normalizzare le relazioni con lo Stato ebraico, di sfidare le forze che si opponevano al suo interno, e furono proprio quelle forze che qualche anno dopo presentarono il conto con un attentato letale che uccise Sadat mentre assisteva alla parata delle sue forze armate. L’Egitto pagò la propria decisione di far pace con Israele, nel ‘73, con l’espulsione immediata dalla Lega araba, un organismo oggi scomparso, bellicoso, militaresco, e che durò finché durò la guerra fredda cioè fino alla caduta di Berlino nel 1989. La guerra per tentare di sopprimere Israele e che Israele invece aveva vinto, divise la destra dalla sinistra in Italia e nel mondo. In breve, quasi tutta la gente di sinistra sia pur tra qualche se e qualche ma, fece il tifo per una operazione che non avrebbe dovuto soltanto correggere confini ma avrebbe dovuto cancellare lo Stato ebraico che le Nazioni Unite avevano ordinato che nascesse insieme ad uno stato palestinese. Dal 6 all’ 11 ottobre del 1973 era durata l’illusione della vittoria ma già all’alba del 12 si vide che la realtà era diversa. La Siria perdeva definitivamente le alture del Golan, su cui aveva piazzato la sua artiglieria per battere Israele. Mentre ancora duravano i combattimenti, gli Stati Uniti si offrirono come mediatori per un cessate il fuoco. Ma Mosca si oppose finché eserciti arabi sembrava vincessero. Nell’ultima fase, gli americani decisero di rifornire massicciamente e senza alcun sotterfugio le forze israeliane che seguitarono a combattere dopo il cessate il fuoco ordinato dall’Onu. Fu quello uno dei momenti di massimo attrito tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Henry Kissinger, segretario di Stato di Nixon, volò a Mosca per chiedere ai sovietici che intenzioni avessero, perché il suo paese – disse – non avrebbe più tollerato l’uso della guerra per annientare Israele. I russi, a parti invertite, furono costretti loro a chiedere agli americani di imporre all’esercito israeliano di cessare la sua avanzata sul Cairo e di deporre le armi. La guerra di Yom Kippur sconvolse i prezzi del petrolio su cui prese il comando l’Opec, l’organizzazione dei paesi produttori, imponendo valori fittizi e cominciò una trattativa che spaccò l’occidente: gli americani erano furiosi con gli europei perché non avevano mosso un dito per soccorrere Israele o anche semplicemente per dire chiaramente da che parte stavano. L’Europa sentiva l’America come una potenza non amica le cui azioni avrebbero potuto compromettere gli interessi europei determinati dal prezzo del petrolio e quindi la guerra di Yom Kippur fu considerata l’evento che mise fine alla perenne amicizia dell’Europa debitrice nei confronti degli Stati Uniti è sua alleata. L’America repubblicana rispose a brutto muso che avrebbe fatto da sola, esattamente come poi accadrà con Donald Trump. Anche l’America si spaccò. La fazione filoeuropea, allora come oggi, cancellò la sua tradizione, che era quella di stare dalla parte degli israeliani, cambiò campo benché il nerbo dell’elettorato democratico americano fosse costituito allora come oggi da ebrei di sinistra. Questo evento gigantesco determinò uno scossone brutale in tutte le agenzie dei servizi segreti europei e americani, un capovolgimento della politica sovietica nei confronti dei paesi arabi, una revisione radicale delle questioni energetiche e dei problemi dei prezzi del petrolio e una risposta conseguente ed immediata di quella guerra fu la vampata del terrorismo sotto le bandiere filopalestinesi e filolibiche pur di creare uno schieramento anti-americano che permettesse la collusione della destra con la sinistra. In Italia subito dopo nacquero le Brigate Rosse cui si sarebbero aggiunte le sedicenti brigate nere dei Nar neofascisti con le stesse modalità e armamenti e sloganistica, di quelle ispirate al mondo sovietico. Cominciava così un lungo decennio in cui si svolse una guerra a bassa intensità coperta da strati di retorica. Le conseguenze più sdolcinate furono quelle delle domeniche ecologiche in bicicletta che tanti ricordano come un’età felice molto simile alle giornate naturalistiche di oggi in cui tutti ci precipitavamo con le bici, i bambini sul collo o in canna, le merende sul portapacchi e le borse a penzolare dal manubrio per raduni in luoghi pieni di zanzare in cui con grande spirito di adattamento ci dichiaravamo ci dichiaravamo tutti più o meno fieri di esser parte di una grande coalizione anticapitalista.

CRONOLOGIA DI VENTI ANNI

1956: Il Presidente egiziano Nasser nazionalizza la Compagnia del Canale di Suez. Fallisce l’attacco Anglo-Francese all’Egitto.

1958: Scoppia la rivoluzione in Iraq. Gli Stati Uniti intervengono in Libano. Viene proclamata la Repubblica Araba Unita fra Egitto e Siria.

1960: Nasce l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC).

1965: Prima azione di resistenza armata da parte dei Feddayn di Yasser Arafat.

5/11 giugno 1967: Guerra dei sei giorni, Israele occupa la parte orientale di Gerusalemme, la Cisgiordania, la striscia di Gaza, la penisola del Sinai e l’altopiano del Golan, che si annetterà del dicembre del 1981.

22 novembre 1967: Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite chiede all’unanimità il ritiro di Israele dai territori occupati.

1970: Muore il Presidente Egiziano Nasser. I Palestinesi vengono espulsi dalla Cisgiordania.

1972: Un gruppo di Palestinesi sequestra gli atleti Israeliani alle Olimpiadi di Monaco, l’azione si conclude in una strage.

1973: Guerra del Kippur e prima crisi petrolifera.

1974: Arafat pronuncia il discorso del mitra e dell’ulivo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

1975-1976: In Libano è guerra civile, la Siria e Israele invadono il paese.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1974: salta Fanfani, riprendono le stragi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Quell’anno è riassunto in una famosa vignetta di Giorgio Forattini, allora genio del quotidiano comunista romano “Paese sera” – e che diventerà l’editorialista grafico della prima pagina di “Repubblica” quando nascerà nel 1976 anche se poi Giorgio e la sinistra divorziarono clamorosamente. La vignetta era quella di una bottiglia di champagne da cui salta il tappo con la faccia di Amintore Fanfani. Sono passati troppi anni perché tutti possano capire e ricordare, la maggior parte di chi legge probabilmente non c’era o era troppo piccola e quindi va ricordato che il divorzio istituito in Italia del 1970 fu frontalmente minacciato da un referendum abrogativo voluto a tutti i costi dal leader democristiano Amintore Fanfani che era un uomo molto complesso è molto basso. La sua statura lo aveva messo in imbarazzo più volte come quando i fotografi lo colsero su un podio da cui parlava sostenuto da pile di libri per farlo arrivare al microfono. Amintore era un uomo determinatissimo, colto, ai tempi del fascismo fascistissimo e poi anticomunistissimo, tanto da voler rappresentare lui da solo la sinistra della DC, con il proposito di occupare tutto lo spazio disponibile a sinistra per chiuderlo ai socialisti e non parliamo dei comunisti. Per una casuale circostanza mi capitò di conoscerlo poco tempo prima che morisse e per misteri della chimica umana diventammo amici all’istante e mi raccontò molto della sua vita chiamandomi, lui aretino, “Oh barbarossa! Vieni che ti voglio raccontare del divorzio”. E raccontava di se stesso come se parlasse di qualcun altro, con inaspettata ironia. Aveva combattuto una guerra da don Chisciotte, disse, e lo sapeva “ma qualcuno la doveva pur fare e io l’ho fatta,” era la sua spiegazione. Imparai così che era un uomo non solo tosto ma anche molto spiritoso, raffinato e determinato come pochissimi. Per questo da sinistra era anche visto come un fascista, visto che la sua biografia del resto autorizzava perfettamente una tale definizione che peraltro calzava a pennello con quasi tutti i politici italiani che non provenissero direttamente dalla Resistenza. Amintore Fanfani, dunque, si era messo in testa di cancellare dall’Italia cattolica la vergogna sciagurata del divorzio voluto dai nemici della Chiesa e dell’ordine costituito da nostro signore portando soltanto promiscuità, tradimenti, distruzione del nucleo familiare. Andava contro la storia, contro la logica e contro la comune legislazione dei paesi occidentali, avvicinandosi più alla Spagna del dittatore Francisco Franco che alla Francia dei “Lumi” o all’ Inghilterra della Common Law. Si incaponì e scatenò una vera guerra di religione che diventò una guerra di parole violentissime fra destra e sinistra, benché il divorzio all’inizio non fosse gradito ai comunisti che per anni ne avevano visto l’insidiosità sociale esattamente come i cattolici, che del resto aveva sostenuto già nel 1947 con l’’approvazione dell’articolo 7 della Costituzione che riconosceva i Patti Lateranensi fra Mussolini e il Vaticano. Il divorzio avrebbe distrutto la struttura tradizionale delle famiglie e avrebbe scatenato l’epidemia della libertà sessuale già visibile dall’inarrestabile diffusione della pillola anticoncezionale, grazie alla quale ogni donna avrebbe potuto disporre del suo corpo senza rischiare sgradite gravidanze. Andreotti, d’accordo col Vaticano, aveva tentato una mediazione: potranno divorziare tutti coloro che hanno contratto matrimoni civili ma non quelli religiosi. Ma non ebbe fortuna. Gli italiani andarono alle urne il 12 e il 13 maggio del 1974 e il risultato fu nettissimo: per il divorzio (e quindi contro la sua abolizione) votò quasi il sessanta per cento degli italiani. Il Sud “borbonico” ma non la Sicilia, votarono contro il divorzio, come votò anche il Veneto che allora era una regione “bianca” cioè cattolica prima di tutto e democristiana, quando ancora la Liga Veneta era lontana. Ma i trentini e gli altoatesini furono divorzisti. Oggi è quasi impossibile riprodurre il ricordo di quell’epoca e quegli umori, che furono straordinari, eccitatissimi, e dividevano sia credenti e atei che gente di destra e di sinistra, perché la frontalità di quello scontro fu così apocalittica da sembrare quasi un match sportivo. E il tappo, Amintore Fanfani, l’uomo più basso d’Italia, e più ostinato, saltò. Il referendum fu bocciato. Gli italiani volevano divorziare e se ne infischiavano delle direttive di Santa madre chiesa così come se ne sarebbero infischiati al momento in cui confermarono la libertà di aborto sei anni più tardi. Dal punto di vista politico fu un momento magico perché si ritrovarono insieme a sinistra tutte le anime laiche compresi molti fascisti, tra l’esultanza in particolare dei socialisti che erano stati i veri promotori della legge sul divorzio, e di Marco Pannella e dei radicali che l’ avevano a tutti i costi adottata come loro bandiera. Fanfani, che aveva condotto la sua crociata come segretario della DC confessò (anche a me nei nostri strampalati colloqui, peraltro molto divertenti) di aver generato quella catastrofe con l’intenzione di arginare i comunisti: secondo lui il Pci aveva rotto il suo isolamento abbracciando una bandiera che non era la sua, quella del divorzio, per creare le premesse di un sorpasso e un collante che avrebbe messo insieme un comune sentire di sinistra che includeva anche le ordinate bandiere del partito comunista. E le cose andarono proprio come lui temeva. Il Pci si saldò con i laici e le quotazioni di Fanfani cominciarono a calare dentro il partito di maggioranza relativa. L’anno successivo, Fanfani avrebbe dovuto cedere la segreteria a Benigno Zaccagnini, della sinistra interna, che si insedierà con l’inquietante nomignolo di “onesto Zac”, un preludio della futura questione morale già innescata da Enrico Berlinguer. La festa per la vittoria del divorzio fu eccitata e grandiosa. L’Italia usciva da una prova molto difficile in cui si era formata una maggioranza di sinistra e laica che arrivava fino ai liberali di Giovanni Malagodi molto forte e tuttavia era un paese che doveva ancora attendersi una quantità di traumi violenti e inspiegabili a meno che non si accetti sempre l’etichetta della strategia della tensione che serviva per mettere insieme tutti quegli atti di terrorismo e violenza che sembravano privi di una spiegazione semplicemente logica. Dopo la vittoria del divorzio venne infatti la strage di piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio alle 10 del mattino, nel corso di un comizio sindacale, quando un ordigno nascosto in un cassonetto esplose uccidendo 5 giovani insegnanti, due operai e un pensionato e ferendo più di 100 persone. Era chiaramente un atto terroristico contro gli antifascisti e dunque palesemente una aggressione di forze oscure di estrema destra quel era a quei tempi il movimento Ordine nuovo che era stato fondato nel 1963 da personale militare e con la presenza di uomini che provenivano dai servizi segreti. Quella strage e le indagini che ne seguirono furono un altro dei grandi tormenti della Repubblica, cominciati con la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Soltanto nel febbraio del 2014, con una sentenza della Cassazione, alcuni degli imputati furono riconosciuti definitivamente colpevoli benché manchi ancora un frammento di verità coperto dal segreto di Stato che Matteo Renzi aveva abolito con una direttiva del suo governo ma senza che questa direttiva diventasse, a quanto pare, efficace. Il 4 agosto, altra strage. Stavolta in treno: l’ Italicus. All’una di notte sulla carrozza 5 dell’espresso Roma-Monaco di Baviera, l’Italicus, scoppiò una bomba molto potente che provocò morti e feriti. Anche stavolta l’attentato fu riconosciuto di matrice fascista e il paese nel suo complesso avvertiva presenze sempre più minacciose e incontrollate che agivano, provocando moti di paura e di sfiducia (è esattamente questo lo scopo del terrorismo) oltre a generale i meccanismi virtuosi o perversi di tutte le teorie complottistiche che trovavano radici sia nella guerra fredda che nella storia italiana durante il fascismo e la guerra. A Milano nasce il giornale di Indro Montanelli. Nasce come giornale della maggioranza silenziosa borghese laboriosa e anticomunista che fino a quel momento si era sentita sottomessa al mobbing sindacale intellettuale e politico della sinistra. Quella di Indro Montanelli fu una parabola molto curiosa perché partita con un tono radicalmente anticomunista si concluse vent’anni dopo nell’antiberlusconismo militante, fino alla fatidica presentazione di Serena Dandini che lo annunciò sugli schermi televisivi di RaiTre con le fatidiche parole: “Signore e signori, il compagno Indro Montanelli”. Montanelli era stato un grande laico anche fascista ma molto meno fascista di tanti altri, inviato principe del “Corriere della Sera” che Mussolini personalmente aveva spedito a raccontare la guerra che Stalin mosse alla Finlandia nel dicembre del 1939 subito dopo l’invasione della Polonia e che era parte del pacchetto stabilito con i trattati tra Ribbentrop e Molotov. Ma Mussolini era gelosissimo di quell’alleanza, e quando Stalin attaccò la Finlandia e i tedeschi facevano il tifo per Mosca, il duce tentò di far avere ai finlandesi degli aerei spediti per ferrovia che i tedeschi si rifiutarono di far passare. Il miglior giornalista italiano si trovava già ad Helsinki per caso e quando i sovietici attaccarono i finlandesi, il “Corriere” ebbe il permesso di pubblicare le magnifiche corrispondenze sulla resistenza e l’eroismo del piccolo esercito finlandese. Come ha raccontato meglio di tutti Curzio Malaparte, il capo del fascismo più che censore si riteneva redattore capo di tutti i giornali italiani e spostava o ritirava corrispondenti e inviati secondo i suoi gusti. Malaparte scrisse che Mussolini essendo molto geloso di lui, lo spediva ora al confino o per qualche grande reportage. Montanelli era stato usato anche per dar fastidio ai tedeschi e per poco non ci lasciò la pelle. Dopo la guerra diventò il campione dell’anticomunismo, specialmente quando raccontò con la sua piccola Olivetti sulle ginocchia la sventurata rivoluzione degli studenti e operai ungheresi contro i carri armati sovietici nel 1956. Nel 1974 lasciò il “Corriere della Sera” – ormai nettamente orientato a sinistra con l’arrivo di Piero Ottone e se ne andò con alcuni fra i migliori giornalisti e inviati. Si disse allora che Montanelli aveva portato via dal “Corriere” l’argenteria. E cominciò l’avventura di un giornale anticonformista di destra, ma assolutamente non fascista, per il quale Indro pagò il suo pedaggio, gambizzato dalle Brigate Rosse.

CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1974:

4 gennaio: a Washington il presidente Richard Nixon rifiuta di consegnare il materiale richiesto dal comitato di indagine del Senato sullo scandalo Watergate

15 gennaio: debutta sulla rete televisiva americana Abc la serie Happy Days

13 febbraio: l’Unione Sovietica espelle il dissidente Aleksandr Solženicyn, accusato di aver svolto attività antisovietiche

24 febbraio: protesta dei detenuti del carcere di Firenze “Le Murate” che chiedono l’attuazione della riforma carceraria. Il detenuto Giancarlo Del Padrone, 20 anni, muore falciato da una raffica di mitra esplosa da un agente di custodia

9 marzo: Iva Zanicchi vince con Ciao cara come stai? la XXIV edizione del Festival di Sanremo

18 marzo: dopo due trasferimenti di sede, ha inizio il processo a Catanzaro per la strage di Piazza Fontana a carico di Pietro Valpreda e Mario Merlino. Nel giro di qualche settimana il procedimento si arresta per il coinvolgimento come imputati di Franco Freda e Giovanni Ventura

9-17 aprile: Camera e Senato approvano la legge 195 sul finanziamento pubblico dei partiti

18 aprile: le Brigate Rosse rapiscono il magistrato Mario Sossi, pubblico ministero nel processo contro il gruppo XXII Ottobre; Il 5 maggio le BR propongono lo scambio dell’ostaggio con gli imputati

9 maggio: una rivolta nel carcere di Alessandria provoca sette morti a seguito dell’intervento dei carabinieri

16 maggio: viene arrestato Luciano Liggio

23 maggio: le Brigate Rosse procedono alla liberazione di Mario Sossi in cambio di quella dei membri del Gruppo XXII Ottobre

28 maggio: esplode una bomba in piazza della Loggia a Brescia durante una manifestazione sindacale provocando 8 morti e 101 feriti

25 giugno: Indro Montanelli fonda Il Giornale Nuovo

12 luglio: l’editore Rizzoli acquista le quote azionarie del Corriere della Sera

4 agosto: “strage dell’Italicus” a San Benedetto Val di Sambro. Una bomba esplode nella carrozza 5 dell’espresso Roma-Monaco mentre sta uscendo dalla galleria dell’Appennino. L’attentato, che causa 12 morti e 44 feriti, è rivendicato dal gruppo neofascista Ordine Nero come vendetta per la morte del militante Giancarlo Degli Esposti

9 agosto: Richard Nixon si dimette dalla carica di presidente degli Stati Uniti; subentra alla carica il suo vice Gerald Ford

2 ottobre: la FIAT mette in cassa integrazione 65.000 operai a causa della crisi del settore automobilistico

23 novembre: nasce il IV governo Moro, composto da DC e PRI con l’appoggio esterno di PSDI e PSI

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Watergate, cosa è lo scandalo che portò alla caduta di Nixon. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Giugno 2021. Chissà se chi è nato dopo può avere una pallida idea di ciò che Richard Nixon ha rappresentato nella generazione mondiale che visse come una tragedia collettiva la guerra del Vietnam? Naturalmente tutti sanno che ci fu uno scandalo detto Watergate e che da allora tutti gli scandali pubblici ricevono un nomignolo che finisce per “gate” in memoria di quello scandalo che fu se non un capostipite, almeno un modello di comunicazione utilizzabile in politica. E certo basta andare su Wikipedia per trovare la descrizione e la cronologia di quel che successe. Ciononostante quella cronaca non significa molto e penso che ciò dipenda dal fatto che si è persa la memoria di ciò che è stato per noi, anche noi italiani, la guerra del Vietnam per la quale Gianni Morandi cantava una canzone di tristi soldati costretti a sparare con un fucile che faceva ta-rat-a- tta-tattà. La guerra nel Vietnam, come abbiamo già ricordato in questi appunti sul passato, non fu una guerra voluta da Nixon, che pure cercò all’inizio di combattere e vincere, ma fu la guerra che Nixon chiuse senza farsi prendere da tentazioni di rivincita. Fu una guerra di John Kennedy e dei suoi successori – in particolare del suo vice Lyndon Johnson che gli succedette giurando sulla Bibbia davanti al suo cadavere ancora caldo e davanti alla vedova Jacqueline che seguitava, dopo l’assassinio del marito e come una Lady Macbeth, a indossare lo stesso vestito sporco del sangue di John, cui Lee Harvey Oswald aveva fatto saltare il cranio con una fucilata esplosa dalla finestra di una biblioteca a Dallas, Texas. Era il 22 novembre del 1963. Kennedy aveva inviato i primi Green Berrets in Laos e in Vietnam, le antiche colonie francesi del Tonchino che i giapponesi avevano conquistato durante la Seconda guerra mondiale e che poi si erano ribellate al ritorno dei francesi. Nixon aveva una personalità geniale e arrogante allo stesso tempo. Pochi sanno che molti anni dopo il Watergate, e da privato cittadino, l’ex Presidente Nixon diventò un ospite fisso del neo eletto Bill Clinton il quale lo faceva entrare da un passaggio sotterraneo nel suo appartamento privato, e Nixon scrisse nelle sue memorie che secondo lui Bill era un bravo ragazzo, disse, ma secondo lui quella Hillary che si era sposato era semplicemente una strega. Richard era un bravissimo avvocato e il suo primo successo politico fu ottenere la vicepresidenza con Dwight Eisenhower che era stato il comandante in capo di tutte le forze alleate nell’ultima parte della guerra, organizzando lo sbarco in Normandia dal suolo inglese, con grande irritazione di Winston Churchill che detestava quell’operazione perché avrebbe voluto risalire tutta l’Europa dall’Italia per ripristinare la rete dell’impero. Era un’epoca di cui pochi ricordano la micidiale rivalità fra inglesi e americani, del tutto mascherata dalla propaganda. Chi ne volesse sapere di più può vedersi la serie di una sola stagione “Traitors” che è di grande accuratezza e piena di soprese. Eisenower, il generale vittorioso e più amato, si presentò candidato vincente per il partito repubblicano, nel 1952, dopo la presidenza di Harry Truman che era succeduto a Franklin Delano Roosevelt prima che la guerra finisse e poi era stato rieletto nel 1948. Nixon era politico scaltro tanto quanto “Ike” Eisenhower era un patriota dall’eloquio scialbo, ma un paziente e vincente programmatore militare, una di quelle persone che sanno usare risorse umane e materiali vincendo le guerre senza ricorrere alla retorica. Nixon, finito il doppio mandato da vicepresidente, volle correre per la Casa Bianca ed ebbe il famoso scontro televisivo col giovane rampollo dei cattolici bostoniani, John Fitzgerald Kennedy: fu allora che gli americani e il mondo impararono che la politica può diventare un match sportivo come un incontro di box, e quella prima volta fu vinta dall’angelico Kennedy, che mise al tappeto Nixon per abilità retorica. Novembre 1960. Lo scandalo Watergate finì nel 1974 con le dimissioni di Nixon che abbandonò la Casa Bianca, ma era scoppiato nel 1972, durante la campagna elettorale per il secondo mandato di Nixon (campagna stravinta con oltre il 60 per cento dei consensi) quando qualcuno scoprì che il quartier generale del Partito Democratico, alloggiato nell’ edificio Watergate, era spiato dai microfoni e dai registratori nascosti degli uomini di Nixon del “Comitato per la rielezione” del Presidente. Nixon fu bravissimo a negare, mentire, e ancora negare le menzogne dette e cambiare versione con una faccia tosta senza uguali, conquistando così il nomignolo di Dicky “Tricky” Dixy, dove “tricky” sta per imbroglione. A quel tempo ancora non si usava con la frequenza di oggi la parola “dick” per indicare sia il pene come sostantivo che in senso di stronzo”, o “mascalzone” come aggettivo. Naturalmente la versione eroica e politicamente corretta dello scandalo Watergate ricorda che due intrepidi giornalisti, Bob Woodward e Carl Bernstein, ricomposero con paziente diligenza il puzzle degli intrighi del potere servendo così alla democrazia e al giornalismo una lezione esemplare che costrinse il potere ad arrendersi. Ma i due avevano un informatore allora segreto e per questo chiamato “gola profonda” che serviva loro le tracce necessarie per far fuori il Presidente. Il colpo riuscì grazie al passaggio dalla parte dei nemici del presidente, del suo uomo più fidato, John Dean che ebbe uno scontro con Nixon in seguito al quale accettò, per mettersi in salvo, di testimoniare contro di lui decretandone la fine politica. Ma nel frattempo Nixon aveva segnato alcuni punti molto importanti nella politica estera americana: aveva approfittato della crescente rivalità tra i due massini Paesi comunisti, Unione Sovietica e Cina di Mao Zedong, per aprire le porte alla Cina e iniziare quella collaborazione cino-americana che ancora dura malgrado le tensioni. La Cina d’altra parte era stata profondamente filoamericana durante la guerra perché aveva combattuto la stessa guerra contro i giapponesi. Dunque fu una svolta storica anche se toccò a Nixon chiudere con un atto di resa la guerra del Vietnam. O per meglio dire: visto che la guerra era impantanata e sempre più impopolare, dopo estenuanti colloqui con il Nord Vietnam a Parigi, Nixon decise di abbandonare la repubblica del Vietnam del Sud, alleata degli Usa, al suo destino. Lo fece in modo cinico e crudele perché lasciò agli ex alleati sud-vietnamiti un apparato militare regalato come se fosse stato un giocattolo, ma senza rifornimenti né pezzi di ricambio. Il Sud Vietnam resistette poco alla spinta dell’armatissimo Nord Vietnam che poteva contare sulle linnee di rifornimento sia cinesi che sovietiche. E agli ultimi americani rimasti toccò fuggire dal terrazzo dell’ambasciata di Saigon, il 30 aprile del 1975, sugli elicotteri su cui cercarono di salire vanamente decine di uomini del regime anticomunista, compromessi quanto bastava per sapere che la loro vita non valeva più un soldo. Nixon chiuse quella guerra e ripeté in tutte le occasioni che soltanto lo smodato narcisismo di Kennedy aveva potuto causare quella insana impresa militare che non aveva alcuna probabilità di successo. La sconfitta americana in Vietnam fu un evento di importanza enorme, perché pochi si aspettavano che la più grande potenza del mondo si sarebbe arresa. Le manifestazioni di destra in America inalberavano cartelli che invocavano “la bomba” (atomica) su Hanoi, capitale della Repubblica popolare del Vietnam. Richard Nixon aveva conquistato la Casa Bianca nel 1968, lo stesso anno in cui il generale De Gaulle mollava per stizza il potere in Francia. Era stato un anticomunista di ferro in un’epoca in cui il comunismo era soltanto un sinonimo di Unione Sovietica. Ma fu un presidente quasi di sinistra dal punto di vista dei diritti civili, difesa ambientale e sgravi fiscali per i più poveri. Furono molti a dire più tardi che quell’uomo era stato in fondo uno dei migliori Presidenti e non il peggiore in assoluto come la vulgata sosteneva. La politica italiana fu in parte influenzata dagli eventi americani del 1974. Il Pci di Enrico Berlinguer scoprì che gli Stati Uniti potevano essere sconfitti, ma soltanto pagando prezzi altissimi. E che però anche l’Unione Sovietica doveva fare i conti con una realtà geopolitica in cui non aveva potere di intervento. Ciò fu una delle cause determinanti per l’esperimento dell’“Eurocomunismo” che avrebbe cercato di varare una politica comunista occidentale autonoma dall’Urss dei partiti comunisti italiano francese, portoghese e spagnolo. La lezione del colpo di Stato in Cile, che aveva eliminato il presidente Salvador Allende sostenuto dalle sinistre, confermava che la nuova guerra fredda – spesso rovente, come in Vietnam e prima ancora in Corea – aveva disegnato delle frontiere invalicabili che somigliavano alle vecchie “aree di influenza”. Gli Stati Uniti non avrebbero più permesso regimi filosovietici nel loro “cortile di casa” e non ci sarebbe più stato spazio coloniale in estremo oriente, dominato dalla presenza cinese, ora legata ad un patto di reciproca tolleranza con gli Stati Uniti. Il mondo sembrò più definito nelle sue frontiere armate, e anche più crudele, mentre in Europa la ricaduta della guerra del Vietnam copriva tutto il fronte dell’arte, della musica rock, delle nuove droghe allucinogene di gran moda, insieme a un ritorno delle filosofie e dei costumi orientali grazie anche al favore che i buddisti vietnamiti avevano conquistato in occidente dopo il suicidio col fuoco di alcuni monaci in segno di protesta per la presenza americana. Cominciò quell’anno in Europa una fase nuova anche se incerta e la società nel suo complesso si ritrovò più laica e di sinistra, ma anche molto ferita dal terrorismo interno e internazionale, di cui diremo di più nei prossimi articoli.

LE TAPPE DEL WATERGATE:

1 luglio 1971: David Young ed Egil “Bud” Krogh gettano le basi di quelli che in seguito divennero i “White House Plumbers” (un’unità segreta di investigazioni speciali della Casa Bianca istituita per evitare fughe di notizie)

3 settembre 1971: i “White House Plumbers” irrompono negli uffici dello psichiatra di Daniel Ellsberg, alla ricerca di materiale che potrebbe screditarlo, Questa fu la prima grande operazione degli idraulici

17 giugno 1972: i “Plumbers” vengono arrestati alle 2:30 del mattino accusati di furto con scasso e installazioni di microspie negli uffici del Comitato nazionale democratico -che organizza la campagna elettorale in vista delle elezioni di novembre – presso il Watergate Building Complex

23 giugno 1972: nello Studio Ovale, HR Haldeman cerca di convincere il presidente Nixon di chiudere l’indagine dell’Fbi sull’irruzione del Watergate tramite i vertici della Cia. Nixon dà l’ordine, ma tutte le conversazioni vengono registrate

15 settembre 1972: i “Plumbers” accusati dell’irruzione al Watergate vengono incriminati da un gran giurì federale

28 febbraio 1973: iniziano le udienze per la conferma di L. Patrick Gray come direttore permanente dell’Fbi. Durante queste udienze, Gray rivela di aver rispettato un ordine di John Dean (consulente legale della Casa Bianca) di fornire aggiornamenti quotidiani sull’indagine del Watergate

17 marzo 1973: un condannato, McCord, scrive una lettera al giudice John Sirica, sostenendo che parte della sua testimonianza fu falsata sotto pressioni terze e che il furto al Watergate fu ordinato dai funzionari del governo, portando così l’indagine alla Casa Bianca

6 aprile 1973: il consigliere della Casa Bianca John Dean inizia a collaborare con i pubblici ministeri federali del Watergate

30 aprile 1973: gli alti funzionari dell’amministrazione della Casa Bianca si dimettono e John Dean viene licenziato

17 maggio 1973: la commissione Watergate del Senato inizia le sue udienze televisive a livello nazionale

3 giugno 1973: John Dean rivela agli investigatori di aver discusso con Nixon dell’insabbiamento delle prove del Watergate

13 luglio 1973: Alexander Butterfield, ex segretario per le nomine presidenziali, rivela che tutte le conversazioni e le telefonate nell’ufficio di Nixon sono state registrate dal 1971.

18 luglio 1973: Nixon ordina la disconnessione dei sistemi di registrazione della Casa Bianca

23 luglio 1973: Nixon si rifiuta di consegnare i nastri presidenziali alla commissione Watergate del Senato o al procuratore speciale

17 novembre 1973: Nixon pronuncia il discorso “Io non sono un truffatore” in una conferenza stampa televisiva a Disney World

28 gennaio 1974: Herbert Porter, collaboratore di Nixon, si dichiara colpevole di falsa testimonianza

25 febbraio 1974: Herbert Kalmbach, consulente personale di Nixon, si dichiara colpevole di due accuse di attività illegali nella campagna elettorale

1 marzo 1974: in un atto d’accusa contro sette ex aiutanti presidenziali, consegnato al giudice Sirica insieme a una valigetta sigillata destinata al Comitato sulla magistratura della Camera, Nixon viene indicato come un co-cospiratore non incriminato

4 marzo 1974: i “Sette Watergate” (Mitchell, Haldeman, Ehrlichman, Colson, Gordon C. Strachan, Robert Mardian e Kenneth Parkinson) vengono formalmente incriminati

16 aprile 1974: il procuratore speciale Jaworski emette un mandato di comparizione per 64 nastri della Casa Bianca

30 aprile 1974: la Casa Bianca pubblica le trascrizioni modificate dei nastri di Nixon

9 maggio 1974: iniziano le udienze di impeachment davanti alla Commissione Giustizia della Camera

24 luglio 1974: a Nixon viene ordinato di consegnare i nastri agli investigatori

8 agosto 1974: Nixon pronuncia il suo discorso di dimissioni davanti a un pubblico televisivo nazionale

9 agosto 1974: Nixon si dimette dall’incarico. Gerald Ford diventa presidente

8 settembre 1974: il presidente Ford chiude le indagini concedendo la grazia a Nixon

31 dicembre 1974: a seguito degli abusi della privacy dell’amministrazione Nixon, il Privacy Act del 1974 diventa legge

4 maggio 1977: Nixon rilascia la sua prima importante intervista sul Watergate con il giornalista televisivo David Frost

15 maggio 1978: Nixon pubblica le sue memorie, dando più del suo lato della saga del Watergate.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1975: dalla guerra civile tra fascisti e rossi alla morte di Mara Cagol. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 25 Giugno 2021. Il 1975 è un anno di guerra civile latente. Molti scontri fisici tra estrema sinistra e neofascisti, in cui il numero di neofascisti uccisi superava quello dei morti di sinistra: un altro segno dell’evoluzione di una linea armata e organizzata nell’area su cui dominavano le Brigate rosse. Tirava ormai un’aria di feroce legittimazione e una voglia di resa dei conti come se la guerra non fosse finita e ne fosse in corso un’altra, latente e armatissima. Fu l’anno in cui una laboriosa sociologa di nome Mara Cagol con un assalto sudamericano al carcere in cui era recluso suo marito Renato Curcio riuscì a farlo evadere per poi morire durante lo scontro a fuoco con i carabinieri che avevano circondato i brigatisti che avevano sequestrato l’industriale Gancia al fine di ottenere un riscatto. Fu l’anno in cui Pierpaolo Pasolini morì ucciso barbaramente a Ostia dal Rana che gli passò su e giù con la macchina sfigurandone il cadavere nel fango della più tenebrosa periferia romana. È anche l’anno in cui i Khmer Rossi del dittatore comunista Pol Pot prendono il potere in Cambogia e scatenano un genocidio che fa concorrenza per mostruosità a quelli di Hitler e di Stalin, ma anche l’anno in cui i Pink Floyd raggiungono l’apice del successo e in cui la Soka Gakkai internazionale, la versione giapponese del buddismo organizzato, viene fondata ufficialmente. È ancora l’anno in cui seguita a trascinarsi l’eterno processo per la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 in cui adesso sono imputati sia estremisti di destra che di sinistra: un processo destinato di nuovo ad arrestarsi perché è emerso un personaggio equivoco, certo Giannettini che si rivela un agente del servizio segreto Sid e la sua posizione appare tanto scandalosa quanto inspiegabile. Sicché tutto si ferma in un ingorgo di reticenze. In Inghilterra accadono grandi cose: Charlie Chaplin viene insignito col titolo di baronetto dalla regina Elisabetta e Margaret Thatcher viene eletta leader del partito conservatore inglese e dunque candidata a diventare Prime Minister quando i tories vinceranno le elezioni. A marzo si apre il quattordicesimo congresso del partito comunista che Enrico Berlinguer vince largamente con la sua idea del Compromesso Storico contro l’ala filosovietica di Armando Cossutta. Lo scontro permette di contare quanti nel partito sono filosovietici e pronti a una resistenza ad oltranza all’idea un eurocomunismo sotto la leadership italiana, che colleghi sullo stesso fronte i comunisti francesi, spagnoli e portoghesi, anche se Spagna e Portogallo stanno vivendo ancora sotto dittature di destra agonizzanti. La nuova alleanza ha il progetto di staccare la spina con l’Unione Sovietica evitando però uno strappo troppo doloroso. Lo strappo definitivo, infatti, non arriverà mai e, per gli anni a venire, Eugenio Scalfari dalla Repubblica (che ancora non è nata ma nascerà di lì a pochi mesi) inciterà Berlinguer a “varcare il guado” essendo il partito comunista sempre in mezzo al guado benché protetto (parole di Berlinguer) dall’ombrello atomico americano e la scelta di campo occidentale sia ormai matura. Ma è anche chiaro che Berlinguer non vuole rompere da destra e dunque dedica tutta la sua attenzione a una ideologia che vada oltre l’ormai esangue Rivoluzione d’Ottobre, fondata sulla questione morale. La questione morale sollevata da Berlinguer consiste in una affermazione di supremazia etica: i comunisti, oltre che bravi sono per definizione anche onesti. L’onestà compare per la prima volta come una questione ideologica. La dissociazione dal marxismo leninismo sovietico diventa una necessità che porta a radicalizzare le differenze tra i comunisti e gli altri. Questa “linea” serve a Berlinguer per gettare un ponte e stringere il patto di alleanza, detto compromesso storico, con la Democrazia cristiana intesa come il partito dei cattolici. In questo Berlinguer seguiva fedelmente la strada battuta da Palmiro Togliatti quando volle approvare, con un colpaccio a sorpresa nell’articolo 7 della Costituzione, l’inclusione dei Patti Lateranensi sottoscritti da Benito Mussolini col Vaticano (e che sono alla base dell’attuale conflitto sul progetto di legge Zan) e che secondo Togliatti era la password necessaria per avvicinare le masse cattoliche rispettandone l’identità. L’eurocomunismo da una parte e il compromesso storico dall’altra furono i due strumenti attraverso i quali il segretario del partito comunista italiano cercava la via d’uscita dalla tutela sovietica, mantenendo salda una sinistra orgogliosa e anche sdegnosa, competitiva e di fatto definita come geneticamente superiore, dunque ostile a qualsiasi altra forza di sinistra perché non si sarebbe capito per quale motivo un militante di sinistra non dovesse essere comunista dal momento che soltanto quel partito garantiva il bene. Lo scontro con il Partito socialista era dunque inevitabile, anche se il Psi dopo la parentesi manciniana era in mano al professor Francesco De Martino, uomo convintissimo della consanguineità con il Pci: una posizione che lo esporrà al colpo di maggioranza di qui a un anno con l’avvento di Bettino Craxi nella sede di via del Corso. Il 13 aprile del 1975 una violenta esplosione a Beirut scatenò la guerra civile in quel paese che finora fino a quel momento era considerato la Svizzera del Medio Oriente. Un evento importante sotto ogni punto di vista ma, se il lettore mi consente una digressione personale, molto importante per me che oggi scrivo queste note, perché coprii gran parte di quella guerra per la Repubblica e quella prima uscita in un Medio Oriente inferocito e polveroso, dove la vita non valeva assolutamente nulla e meno ancora le dichiarazioni, fu per me il primo incontro con la realtà inimmaginabile. La guerra del Libano metteva in crisi un paese occupato dall’Olp di Yasser Arafat che vagava nel Medio Oriente senza trovare pace né patria, e di lì nacque anche una mia conoscenza diretta con Arafat che si concluderà molti anni dopo con l’ultima intervista che quest’uomo dette a un giornalista quando lo andai a trovare a Roma all’hotel Excelsior e lui malato e spaventato mi dedicò tutta la notte per raccontarmi la sua vita e poi sparire inghiottito dal suo compound dove sarebbe stato avvelenato e ucciso. Tutto ciò era ancora da venire e certo allora non si potevano conoscere le conseguenze dei fatti che avvenivano giorno per giorno tra cui la prima attività di uno sconosciuto ragazzo intraprendente di nome Bill Gates che aveva impiantato una azienda informatica in un garage da cui sarebbe uscita Microsoft e il personal computer. In Spagna muore il dittatore Francisco Franco che aveva tenuto il potere per trentasei anni dopo essersi ribellato alla Repubblica spagnola e aver vinto quella guerra con l’aiuto di Hitler e Mussolini, mentre la parte opposta aveva ricevuto armi e istruttori dell’Unione sovietica. La guerra di Spagna aveva lasciato una grande piaga aperta che seguitava a produrre dolore e nostalgie ancora durante gli anni Sessanta e Settanta quando nelle nostre case venivano a cena con le loro chitarre gli ultimi esuli di quella guerra e delle meravigliose canzoni dei fronti di Guadalajara, dell’Ebro, del bombardamento di Madrid, tanto che oggi appare curioso che quelle canzoni di sinistra dedicavano versi feroci a “los moros” ovvero i soldati di colore delle truppe coloniali che Francisco Franco aveva usato per il suo colpo di Stato. Francisco Franco morì quell’anno, dopo una infinita malattia e le ostinate cure che lo avevano imbalsamato mentre era ancora vivo. Finalmente era sparito dalla scena e la Spagna si trovava di colpo senza dittatore e senza democrazia. La situazione fu presa in mano dall’unico organismo sotterraneo sopravvissuto che era l’Opus Dei che provvide a reinsediare sul trono di Madrid il principe Juan Carlos di Borbone, un giovanotto che aveva vissuto il suo esilio a Roma e che Sandro Pertini si vantava di avere avuto più volte ospite in casa sua. La Spagna voltava pagina senza avere risolto i suoi problemi ideologici e alla fine della dittatura il partito comunista di Santiago José Carillo Solares si vide che era ben poca cosa rispetto al ruggente Partito comunista spagnolo guidato dal comandante Carlos, nome di battaglia dell’italiano Vittorio Vidali che io conobbi a Trieste ben vivo e fiero delle sue antiche battaglie. L’ultimo capo comunista rivoluzionario spagnolo era dunque stato un italiano figlio di un operaio di Monfalcone e animatore dell’organizzazione socialista triestina “Arditi Rossi” per poi diventare un valoroso e crudele agente di Stalin nella guerra di Spagna come Comandante Carlos, fondatore del leggendario “Quinto Regimiento”. La sua azione in quella guerra aveva prodotto un conflitto sempre più violento fra comunisti e sinistra non comunista, le cui conseguenze si riverberavano ancora nella politica italiana del dopoguerra, provocando la crescita di quell’anticomunismo di sinistra che fu una componente genetica dei socialisti italiani, fra loro spaccati tra frontisti e autonomisti, come gli anni di Craxi mostreranno subito dopo quel 1975.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1975

25 gennaio: il presidente di Confindustria Giovanni Agnelli e i sindacati confederati firmano un accordo sul punto unico di contingenza

27 gennaio: inizia il terzo processo per la strage di Piazza Fontana

11 febbraio: Margaret Thatcher è la nuova leader del partito conservatore inglese

4 marzo: Charlie Chaplin viene nominato baronetto dalla regina Elisabetta

8 marzo: in Italia viene approvata la legge 39/75 che abbassa la maggiore età da ventuno a diciotto anni

18 marzo: si apre il XIV congresso del Pci: è vincente la linea del compromesso storico di Enrico Berlinguer

27 marzo: esce il primo film di Fantozzi

4 aprile: Bill Gates crea la “Microsoft Corporation”

9 aprile: Federico Fellini vince il suo quarto Oscar con il film Amarcord

13 aprile: un attentato a Beirut è la causa scatenante dello scoppio della guerra civile

6 maggio: viene rapito da una formazione dei Nap il magistrato Giuseppe Di Gennaro

10 maggio: la Ferrari dopo vent’anni torna a vincere il Gran Premio di Montecarlo con Niki Lauda

19 maggio: con la legge 151/75 viene riformato il diritto di famiglia: è sancita la parità giuridica fra coniugi, attribuita ad entrambi la patria potestà, eliminato l’istituto della dote e il riconoscimento giuridico dei figli nati fuori dal matrimonio

31 maggio: è approvata la legge 191 sul servizio militare di leva, che riduce la durata del servizio da 24 a 12 mesi

13 giugno: viene assassinato a Reggio Emilia Alceste Campanile, attivista di Lotta Continua

19 luglio: viene inaugurato il parco divertimenti Gardaland

24 agosto: Giacomo Agostini vince a Brno il suo quindicesimo titolo mondiale

15 settembre: viene pubblicato Wish you were here, nono album dei Pink Floyd

2 novembre: viene barbaramente ucciso Pier Paolo Pasolini

6 novembre: circa 350.000 marocchini sotto la guida di re Hassan II invadono il Sahara Occidentale. È l’evento della “Marcia Verde”

20 novembre: a 83 anni, muore Francisco Franco, dittatore spagnolo al potere da 36 anni

10 dicembre: in Inghilterra viene abolita la distinzione giuridica tra uomo e donna

30 dicembre: in Italia viene approvata la legge 685 sugli stupefacenti: viene stabilita una distinzione tra spacciatore e consumatore; viene introdotta la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti e la nozione di modica quantità per uso personale permette la non punibilità di quest’ultimo

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1975: l’ascesa di Margaret Thatcher. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 9 Luglio 2021. Nella mia più amata gag di Roberto Benigni quando era ancora un comunista di campagna, annunciava ai componenti della sezione la serata con film, segue dibattito: «Pòle la donna esse come l’omo? No. Chiuso il dibattito». Ecco, nel 1975, fra tanti conflitti, imbrogli, complotti veri e presunti, venne fuori un creaturo la cui gestazione aveva richiesto nove anni. Il Diritto di Famiglia. In due parole: Pòle la donna esse come l’omo? Sì, pòle: la donna infatti, dice la nuova legge dopo la lunga e faticosa gravidanza, è tale e quale quanto a diritti all’uomo, salvo magari che è una creatura totalmente diversa e nella sua diversità e unicità ha diritto al totale rispetto, per lo più negato. Parole tanto importanti quanto banali, perché se apriamo oggi le cronache dopo quasi mezzo secolo troviamo femminicidi e vessazioni. Ma nel 1975 era ancora vivo il primo femminismo italiano che sembrava aver prodotto effetti irreversibili: sembrava non si potesse più tornare indietro. E invece è stata – sia pure a zigzag – tutta una retromarcia. Al diritto di parità seguirono le quote rosa e altre diluite annacquature di diritti annunciati solo sulla carta. Intanto, l’orgogliosa figlia di un salumiere inglese, Margaret Thatcher conquistava la leadership del partito conservatore, si apprestava a installarsi al numero 10 di Downing Street per servire il suo paese insieme a un’altra donna con una corona come cappello e che non avrebbe esitato a muovere guerra al dittatore argentino Galtieri – mezzo calabrese e mezzo piemontese – per riprendersi le isole Falkland strappate all’impero con un colpo di mano. E c’erano state donne al potere come il primo ministro israeliano Golda Meir, o Indira Ghandi in India, per non dire dell’infausta e venerata Evita Peron, seconda dirompente moglie del dittatore neofascista Juan Peron. In tutto il mondo le donne erano già al comando da decenni e delle italiane l’unica ad aver fatto carriera mondiale era stata Maria Montessori. Non che il diritto di famiglia fosse un pilastro di efficienza e democrazia. Risolse alcuni problemi di principio ma ne aprì altri. Oggi esiste la piaga sociale degli uomini maschi cacciati di casa dalle loro compagne o consorti, che dormono in macchina estenuati dagli obblighi di alimenti, ma questa è un’altra faccenda. Allora, negli anni Settanta, passarono uno in fila all’altro il divorzio, lo statuto dei lavoratori, il diritto di famiglia, e tutta la legislazione innovativa apparve allora giusta e sull’onda della nuova aspirazione ai diritti civili ma anche molto ideologica, qualcosa di mezzo fra un giacobinismo in conflitto col confessionalismo cattolico e una forte voglia di cambiar pagina rispetto a tutto ciò che aveva rappresentato l’Italia conservatrice del Regno e poi quella fascista che sulla questione delle donne era stato chiarissimo: possono marciare in uniforme agitando cerchi e leggeri bastoni nelle parate ginniche, ma devono fabbricare e tirare su marmocchi sotto il comando dei maschi di casa. I fratelli godevano del comando sulle sorelle come nella società arcaica, cristiana, musulmana ed ebraica. Le donne, nel 1975, ancora non facevano le giornaliste come gli uomini. Erano esperte di cucina, arte, letteratura, moda e costume, benché qualcuna sapesse di economia. Sarà soltanto l’anno successivo – anzi in realtà alla fine del 1975 quando anch’io venni convocato a partecipare alla fattura dei “numeri zero” di Repubblica che andò in edicola nel gennaio del 1976 – che una intera redazione fu aperta alle donne, purché sotto l’’etichetta pretesto del “movimento”. Ma ancora, di una donna che avesse una penna rapida ed efficace si diceva “scrive bene come un uomo”. Seguivano inevitabilmente battute sessuali, di un gusto – un cattivo gusto, di cui si è quasi persa la memoria ma che allora erano ancora non solo di uso comune, ma di fronte alle quali le donne reagivano con sentimenti misti di irritazione, complicità, gradimento, furia moralista. I rapporti uomo-donna si stavano facendo sempre più evoluti e complicati: la questione della “coppia aperta” era dominante e soltanto con l’inizio della vera stagione del terrorismo brigatista e dei Nar fascisti si assisté a uno spontaneo ritorno in famiglia, usata come presidio fisico e quasi militare di difesa contro le minacce esterne. Nel 1975 il “fuori” era ancora vivo e praticato – dopo la caduta del regime di Francisco Franco in Spagna e quella del regime gemello di Salazar in Portogallo per un colpo di mano di militari di sinistra che inaugurarono la rivoluzione dei garofani rossi – un clima di attesa messianica di qualcosa di veramente rivoluzionario che compattò i laici e i comunisti insieme ai socialisti e ai radicali, ma anche larghe zone della Democrazia Cristiana. Il Papa in carica era il bresciano Giovan Battista Montini, che era succeduto a Papa Giovanni XXII col nome di Paolo VI. Montini era un intellettuale macerato, dalla vista (storica) molto acuta: per la sua asciuttezza magra somigliava un po’ a Pio XII, il principe Eugenio Pacelli di cui era stato un agente diplomatico esperto durante la guerra e subito dopo. Ma non era un conservatore dichiarato come Pacelli e la sua espressione dolorante e incline al dubbio irrisolto dava ai cattolici militanti la sensazione che la Chiesa fosse alla finestra ad aspettare gli eventi. Gli eventi non mancano. L’America Latina è percorsa da venti rivoluzionari che spingono a stringere patti di alleanza con formazioni guerrigliere e milizie al servizio di molte bandiere in tutto il mondo. Fra i personaggi più importanti ce n’è uno che li supera tutti e che oggi è un povero vecchio malato in un carcere di massima sicurezza parigino dove sconta ben due ergastoli per attentati in Francia negli anni Settanta e Ottanta. Quando sarò eletto presidente di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle spie sovietiche in Italia, mi imbatterò in questo personaggio in diverse occasioni anche grazie alla frequentazione dei procuratori francesi che avevano indagato e poi fatto condannare Ilich Ramirez Sanchez, detto “The Jackal”, e che ispirò un famoso film: I tre giorni dello sciacallo con Robert Redford, in cui agiva un professionale killer a contratto al soldo di diverse potenze. Nel 1975 Carlos lavora per i libici. Per conto di Gheddafi sequestrò i ministri del petrolio dell’Opec a Vienna, circostanza poi rivelata al Mossad israeliano da Joachim Kline, transfuga del gruppo di Carlos il quale nel frattempo si era trasferito stabilmente in Libia dove era continuamente intervistato in televisione, cosa che appagava il suo insaziabile narcisismo. Gli agenti francesi Roland Jacar e Dominique Nasplèzes, dell’“Observatoir du Terrorisme”, Carlos era a disposizione del leader militare palestinese Wadi Haddad. Questo aggancio con un comando palestinese indipendente da Arafat dava a Carlos la possibilità di non dover rendere conto ai sovietici delle sue azioni, rendendole note nei suoi rapporti come azioni dell’organizzazione Fplp, armata e assistita dal servizio segreto militare sovietico Gru. Lo so, è complicato, ma il Gru militare sovietico agiva all’insaputa del Kgb che non aveva alcun potere sui suoi uomini, sicché il terrorista Carlos ebbe la possibilità di giocare una partita doppia sempre dalla parte sovietica, ma servendosi dai due forni in concorrenza fra loro. Vale la pena ricordarlo solo perché questa posizione strategica di quell’uomo d’azione causò molti attacchi terroristici anche in Italia, benché non sia mai stato condannato da un tribunale italiano. A quel punto Carlos disponeva del controllo di circa trentamila agenti e alcuni commandos Spetsnaz messi a disposizione dai sovietici per dirigere i corsi di addestramento nel campo di Lahej. Lì si formarono dal punto di vista militare molti combattenti della Raf tedesca e fu in Germania che il leader palestinese Walid Haddad fu preso in carico dai servizi militari. Ciò che non appare evidente nei giornali e telegiornali è la tensione spasmodica fra i due schieramenti sovietici e americani in Europa. È in quest’anno che un giovane ufficiale sovietico di nome Vladimir Putin viene assunto nella Quinta Sezione del Kgb, nota come “Quinto direttorato” creato da Juri Andropov dopo la Primavera di Praga del 1968 per isolare ed espellere gli intellettuali dissenzienti per i quali furono aperti appositi ospedali psichiatrici diretti da un certo dottor Luns che diagnosticò una “schizofrenia strisciante” a eminenti critici del regime come Begoraz, Grigorenko, Siniavsky, Daniel, Brodsky, Kovalev e tanti altri. Come Presidente della commissione d’inchiesta parlamentare fra il 2002 e il 2006, lessi una informativa interna ai nostri servizi secondo cui una affascinante signora di nome Inge Schoenthal era stata invitata con particolare riguardo a un grande ricevimento dell’ambasciata cubana. Inge Schoenthal era stata la moglie di Giangiacomo Feltrinelli. morto sul traliccio di Segrate il 14 marzo del 1972. Tutti sappiamo che Inge Feltrinelli fu in un certo senso la tutrice di Giangiacomo, ricchissimo erede di un impero cartaceo prima ancora che editoriale, nel senso che cercò di temperarne le “follie” rivoluzionarie. Nessuno ha ancora raccontato con la forza letteraria che il mistero consente, quegli anni terribili e sul filo della guerra che non scoppiò ma che molti si dedicavano a rendere possibile. L’abbiamo detto: quello e gli anni che verranno, saranno anni terribili, non solo di piombo e sangue, ma di cover-up, ovvero di insabbiamenti e segreti mortali mal seppelliti.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1976: l’inizio della sfida feroce tra Craxi e Scalfari. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 30 Luglio 2021. Fu un anno che morse la Storia, almeno quella italiana, il 1976. I socialisti aprono una crisi di governo, provocano le elezioni anticipate, le perdono. Francesco De Martino, il segretario della stabilità glaciale ma molto vicina al PCI, perde la testa, spiccata con un colpo di mannaia dalla congiura di tutti i suoi figli – i giornali parlarono tutti di “parricidio” - all’Hotel Midas sulla via Aurelia, a Roma. Viene eletto al suo posto un giovanottone altissimo e milanese di nome Bettino Craxi. Lo votano in massa per levarsi dalle scatole l’insigne professore napoletano che aveva messo il piombo sulle ali del partito. Enrico Berlinguer esulta per un grande successo elettorale del Pci che ha imboccato la linea dell’Eurocomunismo, teoricamente comune ai comunisti francesi, spagnoli e portoghesi. Grandi eventi, e li ho visti tutti. Ho visto anche il terremoto del Friuli che segnò l’inizio del successo della Lega che esploderà nel 1980, quando il Nord fece un confronto fra il comportamento civile dei cittadini del Friuli e quello dei cittadini del Sud nell’Irpinia e Campania. E poi, “la Repubblica” che venne al mondo, anzi in edicola, il 14 gennaio ed era il primo tabloid italiano: che genere di giornale sarebbe stato? Scalfari, il fondatore, aveva un recente passato di deputato socialista e dunque i socialisti speravano che questo nuovo misterioso nato in edicola fosse consanguineo o almeno parente del partito di via del Corso. I comunisti avevano molto sostenuto il nuovo giornale che assunse una prima ondata di giornalisti che provenivano da Paese Sera, giornale vicinissimo al Pci che aveva la sede nello stesso palazzo dell’Unità. Poi le sorprese: doveva esserci Andrea Barbato, grande firma di quei tempi, ma all’ultimo momento preferì la direzione di un telegiornale della Rai. Corsero le firme monumentali del “Giorno” ormai esangue e vennero Giorgio Bocca e Natalia Aspesi. La redazione centrale di Repubblica era a piazza Indipendenza, la stessa piazza in cui sorge il Palazzo dei Marescialli del Consiglio superiore della magistratura e occupava il quarto piano. Poi si allargherà in su e in giù. Nello stesso Palazzo c’era la redazione del Corriere dello Sport e una dependance della facoltà di Magistero (allora esisteva la facoltà di magistero che raccoglieva gli studenti delle magistrali). Nella redazione del nuovo quotidiano io avevo lavorato fin da novembre quando utilizzai le ferie arretrate al Giornale di Calabria, dove con Piero Ardenti avevamo messo in piedi il primo quotidiano calabrese, ed ero entrato a far parte d volontari aspiranti giornalisti giovanissimi del “movimento” come si diceva allora, che includeva le femmine femministe (e anche quelle non), e poi i militanti di vari gruppi extraparlamentari di sinistra fra cui Avanguardia Operaia, Potere Operaio e un po’ di socialisti sparsi. C’era l’anarchico e romantico Luca Villoresi – da poco scomparso – con cui diventammo più parenti che amici e c’era Carlo Rivolta con l’orecchino dei contestatori e una Colt in tasca con porto d’armi perché le Brigate Rosse spingevano alla militarizzazione anche del giornalismo. È morto anche lui, molto giovane. Era una baraonda e in poche ore Scalfari si rese conto che io ero l’unico giornalista professionista che sapesse fare cose molto tecniche come le chiusure in tipografia, e così fui subito promosso redattore capo notturno con obbligo di presenza diurno. Era un gran bel giornalismo e i fatti venivano da soli a portare acqua al mulino dell’impresa. Il primo fatto fu la crisi di governo a freddo decisa da De Martino che fece cadere il governo Moro. Salto tutto fino alla presa d’atto della sconfitta elettorale bruciante (20 giugno) e al famoso Comitato Centrale nell’Hotel Midas sulla strada per l’aeroporto di Fiumicino. La Repubblica si schierò a favore di Antonio Giolitti, figlio dello storico primo ministro Giovanni, che aveva clamorosamente lasciato il Pci nel 1956 insieme a pochi intellettuali come Piero Melograni, e che era approdato nel Psi. Ma l’astro nascente era Bettino Craxi, luogotenente di Nenni, già odiatissimo e amatissimo, temuto a sinistra. Allora non si poteva sapere, ma stava per iniziare un duello titanico fra due campioni: Bettino Craxi e lo stesso Eugenio Scalfari che era appena uscito con la sua Repubblica. I due si odiavano e seguitarono ad odiarsi finché uno dei due – Craxi – morì, e io ho avuto il privilegio di ascoltare da entrambi il racconto di come andarono le cose che poi determinarono un innalzamento della temperatura politica in Italia, già rovente per conto suo. Bisogna tener conto del fatto che la politica di Enrico Berlinguer sembrava pagante: il giovane segretario comunista, scelto con accuratezza dalla vecchia guardia di Togliatti e Longo che lo avevano selezionato come il leader ideale, sembrava aver trovato la sua strada per un “eurocomunismo” occidentale che avrebbe dovuto consolidare l’autonomia dei partiti comunisti da Mosca, ma senza arrivare ad una vera rottura. Mosca non era affatto contenta, e tuttavia cercava di ostacolare questo percorso senza ricorrere a maniere drastiche come avrebbe fatto nei suoi domini nella cintura dei Paesi “satelliti”. Mosca lasciava fare e più che altro non lesinava il suo contributo finanziario annuo per la vita dei partiti comunisti. Secondo le memorie di vari protagonisti e di quella dell’ex presidente della Repubblica Cossiga, che era stato prima sottosegretario e ministro degli Interni, ogni anno un emissario del Pci si recava a Mosca con una valigetta e veniva accolto al Cremlino negli uffici di Boris Ponomariov che si occupava di queste operazioni. L’incaricato delle Botteghe Oscure consegnava la valigia e intanto beveva del buon tè o conversava con gli addetti all’ospitalità, finché Ponomariov non entrava con la famosa valigetta, si avvicinava all’emissario, gli stringeva la mano e gli restituiva il prezioso contenitore pieno di milioni di dollari americani dal momento che Mosca pagava e commerciava usando la moneta americana. La cerimonia aveva poi un suo seguito all’aeroporto di Roma dove l’emissario del Pci avrebbe trovato ad attenderlo un alto personaggio del ministero degli Interni (e lo stesso Cossiga partecipò personalmente a un paio di queste cerimonie annuali) e due agenti del Tesoro americano con il compito di controllare che i dollari non fossero falsi. L’accertamento non avveniva per strada, ma negli uffici dello Ior (Istituto Opere Religiose) ovvero la banca vaticana allora diretta da monsignor Marcinkus, il quale provvedeva al cambio dei dollari in lire che entravano nella stessa valigetta per essere trasferiti nel Palazzo delle Botteghe Oscure e di lì smistati sui diversi conti del partito. Questi dettagli, oltre ad essere cronaca vera e nota, sono importanti perché il punto fondamentale su cui si giocava la partita del PCI era uno solo: sarebbe il partito “rimasto in mezzo al guado” (copyright di Eugenio Scalfari) oppure avrebbe consumato il tanto atteso “strappo”? Anche “strappo” è una parola importante, di cui ormai si è persa memoria e significato. Gli alleati occidentali, Stati Uniti in testa come dimostrano i documenti della Cia e del Dipartimento di Stato già noti e pubblicati, facevano il tifo affinché i comunisti italiani rompessero con Mosca e si avviassero al governo. Ma a condizione di una frattura totale, perché per Usa e Nato la questione era soltanto militare e non sociale: avevano già favorito la rottura di Nenni con restituzione del Premio Stalin per la famosa “svolta a sinistra” del governo italiano, e adesso sia a Washington che a Bonn (capitale della Repubblica federale tedesca) che a Parigi, tutti facevano silenziosamente il tifo per l’Eurocomunismo e il Compromesso storico di cui Aldo Moro era di fatto il garante. E Moro era anche al governo quando il PSI di De Martino provocò una crisi inspiegabile che portò alle elezioni anticipate. All’Hotel Midas di Roma si doveva dunque svolgere un traumatico cambio della guardia. I voti determinanti per l’abbattimento di De Martino e l’incoronazione di Bettino Craxi vennero da Giacomo Mancini, il segretario socialista calabrese amico dei radicali, era stato defenestrato da De Martino al congresso di Genova del 1972 e quindi per lui era arrivata l’ora di pareggiare i conti. Molti demartiniani passarono con Craxi che fece una rivoluzione libertaria portando ad esempio Paolo Flores D’Arcais, futuro direttore di Micromega e suo acerrimo nemico, a guidare la sezione cultura del partito. Ma il vero sconfitto della rivolta interna che incoronò Craxi fu Eugenio Scalfari, che aveva tentato fino all’ultimo di far vincere il suo amico Antonio Giolitti. Da quel momento in poi fra Craxi e Scalfari fu guerra aperta e senza esclusione di colpi, mentre contro Craxi si schieravano quasi tutti i maggiorenti degli altri partiti: per primo Berlinguer che aveva inaugurato la “questione morale” come nuovo motore ideale del partito, essendosi “esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”. La trionfale campagna elettorale del Pci del 1976 si svolse intorno a questo slogan: “Noi abbiamo le mani pulite…”. Ma anche nelle più sottili questioni ideologiche va sempre considerato il fattore umano, e l’odio fra Craxi e Scalfari era stato di natura molto umana. Quando Scalfari fu fatto eleggere nelle liste del PSI alla Camera per Milano (e Lino Jannuzzi a Sapri per il Senato) per esser messi in salvo da una condanna per gli articoli dell’Espresso sul cosiddetto colpo di Stato del 1964, Scalfari una volta eletto si alleò col vicesegretario del PSI Giovanni Mosca contro Bettino Craxi per essere rieletto. Ma ci fu il celebre episodio del ghisa milanese, della patente illeggibile e del “lei non sa chi sono io”, che fece perdere le elezioni a Scalfari per un pugno di voti. E quando tornò all’Espresso sicuro di poterne riprendere la direzione, si trovò la porta sbarrata dalla cosiddetta “banda dei quattro” e per questo si decise a fondare un nuovo giornale di cui aveva il progetto chiaro in testa, e che illustrò anche a me negli uffici dell’Espresso di via Po. La versione di Scalfari così come me la ha raccontata (a me e a mille altri): “Ero alla stazione centrale in attesa che arrivasse una signora, quando un vigile mi disse di spostare la mia macchina. Gli risposi che si trattava di pochi minuti ma che comunque c’era già un’altra macchina posteggiata in quello spazio. Il ghisa (vigile urbano) disse: quella è la macchina del Prefetto e può restare. Io allora gli dissi: e questa è la macchina di un deputato della Repubblica e può restare anche la mia. Allora il vigile mi chiese la patente che si era un po’ sbiadita con la sabbia del mare e mi ordinò di andare con lui al commissariato”. La versione di Craxi, per chi lo ricorda, è fatta di grandi gesti circolari e pause snervanti. La ricordo così: “Scalfari si fece beccare a dire a un vigile lei non sa chi sono io. Quello allora gli disse sono molto curioso, mi dica chi è lei e in tanto mi faccia vedere la patente. Scalfarti tirò fuori una partente scaduta e il vigile lo portò al commissariato dove per fortuna c’erano dei nostri compagni della cronaca del Corriere della Sera che mi avvertirono subito. E io dissi: cercate di farlo pubblicare. E così la mattina dopo la prima pagina del Corriere aveva un titolo basso che diceva: Eugenio Scalfari portato al commissariato dopo aver detto a un vigile lei non sa chi sono io. E così finì la sua avventura a Milano.” E così iniziò anche l’avventura di Repubblica e quella di tanti giornalisti come me che trascorsero in quella testata totalmente monarchica un bel po’ di anni. Del resto, il suo direttore e fondatore un giorno arrivò alla quotidiana messa solenne, ovvero la grande riunione redazionale di metà mattinata, lanciando con trascuratezza sul tavolo una copia del libro “Il cittadino Scalfari” di Claudio Mauri accompagnando il lancio con queste parole: “In questo libro si sostiene che io sia stato prima fascista, poi monarchico, poi liberale, poi radicale, poi socialista, poi comunista e democristiano ed è tutto vero”.

1º gennaio: a Milano viene diffuso per la prima volta il segnale di Radio Popolare

7 gennaio: il Psi ritira la fiducia al governo. Si dimette il IV governo Moro

14 gennaio: esce il primo numero del quotidiano la Repubblica

18 gennaio: a Milano dopo un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, vengono arrestati i brigatisti Renato Curcio e Nadia Mantovani

29 gennaio: la Corte di Cassazione condanna il film Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci: viene vietata la proiezione e vengono bruciate tutte le copie del film

1º febbraio: rubati al Palazzo dei Papi di Avignone 119 quadri di Picasso

30 marzo: Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman vince il Premio Oscar come miglior film

1º aprile: la Camera dei deputati approva con i voti di Dc e Msi l’articolo 2 della legge sull’aborto: la pratica è considerata reato ed è ammessa solo in casi di pericolo per la vita della madre

6 maggio: terremoto del Friuli. Una serie di scosse del X grado Mercalli con epicentro a Monte S. Simeone causano 965 morti, 3000 feriti, 45000 senzatetto

17 maggio: a Torino si apre il processo contro le Brigate Rosse, ma il procedimento si blocca subito a causa del rifiuto degli imputati di nominare avvocati difensori

21 maggio: durante il Giro d’Italia muore a causa di una caduta il ciclista spagnolo Juan Manuel Santisteban

30 maggio: Adriano Panatta vince gli Internazionali d’Italia di tennis

12 giugno: Felice Gimondi vince il 59º Giro d’Italia di ciclismo

20-21 giugno: alle elezioni politiche il Pci di Berlinguer trionfa guadagnando ben 3.545.000 voti rispetto a quattro anni prima

10 luglio: a Roma viene ucciso da membri del movimento neofascista “Ordine Nuovo” Vittorio Occorsio, giudice che si occupa dell’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana

29 luglio: viene emessa la sentenza di primo grado nel processo per il massacro del Circeo: ergastolo per Gianni Guido e Angelo Izzo, ergastolo in contumacia per Andrea Ghira

9 settembre: muore Mao Tse-Tung, leader della Cina moderna

14 ottobre: il nuovo presidente del Partito Comunista Cinese è Hua Guofeng.

2 novembre USA: Jimmy Carter ottiene il 51% dei voti: sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti

3 dicembre: a Cuba Fidel Castro diviene presidente del consiglio di stato e del consiglio dei ministri

11 dicembre: esce nelle sale cinematografiche il Casanova di Fellini

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà. 

Cosa è successo nel 1976, quando il terremoto del Friuli aprì la strada a due Italie. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 2 Settembre 2021. Fu uno di quegli anni che mandano in bestia tutti coloro che cercano di trovare un senso e una ragione nella storia. Il 1976 fu l’anno in cui morì Mao Zedong, se vogliamo anche Agatha Christie, nacque il complesso degli U2 che prima si chiamavano Feedback, e a novembre fu eletto il presidente americano Jimmy Carter ancora vivo e ultracentenario che ebbe la sfortuna (alla fine del suo mandato, nel 1980) di scontrarsi dopo alcuni anni con il nascente stato islamico uno scontro da cui gli Stati Uniti uscirono con le ossa rotte, gli elicotteri fracassati, i prigionieri derisi, mai così in basso dopo la rotta del Vietnam. Ma ancora era presto e nessuno lo sapeva. Fu l’anno di Seveso e della diossina. Seveso è una cittadina italiana in provincia di Monza. La diossina è un veleno chimico che venne liberato in quantità enormi da uno stabilimento industriale francese (l’Icmesa) a causa di un errore umano e che per la prima volta introdusse nel paesaggio italiano l’idea della morte per avvelenamento chimico globale, l’idea delle modificazioni genetiche mostruose che avrebbero fatto nascere bambini infelici, l’idea che il capitalismo con le sue maledette fabbriche altro non è che una criminale ricerca del profitto a spese della salute e dell’ambiente. Poi ci fu, già lo abbiamo accennato nella precedente puntata, il terremoto del Friuli che colpì Gemona e molte altre città di quella piccola regione il cui popolo, secondo la tradizione, discende da un insediamento di legioni romane delle quali mantenne la severa austerità e compattezza civile. Abbiamo già accennato al fatto che ancora non era emerso in tutta la sua forza, che tra il nord e il sud dell’Italia era maturato un gap di civiltà. Non si dovrebbe dire, ma si disse, e oggi io, anche perché fui uno dei tanti testimoni, posso confermarlo: fui mandato come inviato di Repubblica al terremoto del Friuli del ‘76 e più tardi all’altro terremoto, quello dell’Irpinia. L’enormità che emerse nella differenza dei comportamenti fu questa: nel Friuli tutti coloro che erano stati colpiti dalla disgrazia del terremoto si rimboccarono le maniche e piangendo in silenzio ma senza fermarsi un attimo salvarono i loro compatrioti sepolti, e quando arrivarono la protezione civile e i militari, aveva già fatto da soli, sicché la collaborazione tra uomini in divisa e quelli in borghese fu una specie di proseguimento di immediata azione civile collettiva. Ciò che vedemmo, nel terremoto irpino di quattro anni dopo fu uno spettacolo scoraggiante. La gente urlava e protestava, ma per lo più non muoveva un dito aspettando tutti seduti sui muretti che i sodati scavassero e facessero il lavoro faticoso e sporco. Così nacque La Lega Nord, da una constatazione scoraggiata dell’impossibilità di convivere con un’Italia arretrata nella coesione civile, quella eternamente disfatta e dolente ma sostanzialmente inerte del Regno delle due Sicilie. Avendo fatto in precedenza il giornalista in Calabria per anni, avendo vissuto anni a Napoli ed essendo di famiglia di origine siciliana, posso dire di conoscere abbastanza alcuni caratteri permanenti o latenti di quella parte d’Italia che chiamiamo Mezzogiorno, di cui ci è vietato in ogni caso dir male perché non è politicamente corretto. Mi prendo la responsabilità di queste cose che dico, sperando che il direttore (di origini pugliesi) non tagli con l’accetta. Fu l’anno in cui iniziò la grande spaccatura fra le due Italie, una spaccatura che sembrava riassorbita dopo l’emigrazione di massa dal Sud al Nord, come aveva raccontato Luchino Visconti in “Rocco e i suoi fratelli”. Un’altra grande spaccatura emerse con la questione dell’aborto, quando la Democrazia Cristiana finì in preda ai tormenti dovuti all’incertezza tra la fedeltà alla Chiesa, contraria a qualsiasi legge permissiva sull’interruzione della gravidanza, e la sua stessa base civile che tentennava. Dopo grandi zuffe parlamentari venne fuori una legge violentemente punitiva nei confronti dell’aborto, votata con 298 voti della Democrazia Cristiana e del Movimento Sociale neofascista, contro 286 contrari per riconfermare che l’aborto è reato “salvo in casi di gravissimo pericolo per la salute della madre”. Le grandi città del nord e del centro furono percorse da manifestazioni di massa imponenti e si raccolsero 700.000 firme per un referendum abrogativo che spingerà il Parlamento, due anni più tardi, ad approvare una legge che permetteva l’aborto. La legge passò per pochissimo voti proprio nei giorni successivi al sequestro e all’uccisione di Moro e successivamente fu confermata nel 1981 da due referendum nei quali il 68 per cento degli elettori votò a favore dell’aborto. Nel 1976 le donne che marciavano nelle strade con i cartelli che reclamavano leggi moderne per eliminare la piaga dell’aborto clandestino erano chiamate sui giornali conservatori “le puttanelle”. Abbiamo già detto delle elezioni politiche di quell’anno, vinte dalla DC, con un gran balzo avanti del partito comunista di Berlinguer, il collasso del partito socialista di De Martino il quale fu costretto ad abbandonare sostituito dal rampante Bettino Craxi. Alla vigilia di quelle elezioni Indro Montanelli disse e scrisse la celebre frase “Tappatevi il naso e votate DC”. Il rischio che si paventava alla vigilia delle elezioni, che si svolsero il 20 giugno, era quello del sorpasso da parte del Pci. Proseguiva e si alimentava intanto un clima di guerra civile con continui scontri armati, accoltellamenti, morti a destra e a sinistra. Organizzazioni extraparlamentari come Lotta Continua intervenivano con la forza per impedire ai fascisti di prendere la parola e dall’altra parte la risposta era altrettanto pesante. Fu anche l’anno in cui il futuro presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ministro degli Interni prima nel governo Moro e poi nel governo Andreotti (insediato con l’stensione, per la prima volta, del Pci) diventò rapidamente il nemico giurato della sinistra extraparlamentare con una formula grafica di successo: l’uso della lettera K al posto della C. Avevamo già letto sui muri “gli ameriKani” e adesso avevamo Kossiga. I fascisti uccidevano ormai quanto le Brigate Rosse. Ricordo che in uno dei miei primi servizi giornalistici di quell’anno, per Repubblica, andai all’alba a vedere il cadavere di Vittorio Occorsio, procuratore della Repubblica ucciso nella sua auto a colpi di mitra dai terroristi fascisti. Ricordo le formiche sul suo braccio e sulla sua guancia. Il sangue rappreso, la carrozzeria scossa da un trauma come il corpo del suo conducente, così stupìto e immobile da non sembrare reale. Fu uno dei tanti incontri con i giustiziati della guerriglia italiana che raramente avveniva per scontri a fuoco tra forze dell’ordine e ribelli ma più spesso, per non dire sempre, attraverso esecuzioni codarde e lungamente programmate, in cui cadevano, senza potersi difendere, magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, politici, sindacalisti, chiunque rappresentasse lo Stato o una istituzione. Era una mattanza per simboli e non una guerra di coraggiosi ribelli. Benigno Zaccagnini fu eletto segretario della Democrazia cristiana e ribattezzato col nomignolo “Onesto Zac”. Il paese aspettava che prima o poi avvenisse il sorpasso del partito comunista sulla Democrazia Cristiana che si preparava sia ad essere sorpassata e a fare alleanza col partito comunista. Negli Stati Uniti cominciarono a costruire grandi computer che costavano ciascuno milioni di dollari e che come performance non valevano la metà della metà del vostro telefonino. Erano dei bestioni lenti che sapevano soltanto accumulare dati ma indecisi su come trattarli. La IBM già aveva progettato una stampante laser. La Apple era nata in un garage di Los Angeles. Si fiutava nell’aria la rivoluzione tecnologica che sarebbe arrivata di lì a poco e di cui oggi vediamo alcuni perforanti danni e minacce come quelli degli hacker che possono disossare un sistema informatico e distruggere le prenotazioni sanitarie come accaduto al Lazio. Al cinema usci Taxi driver di Martin Scorsese con Robert De Niro (che aveva appena vinto l’oscar per Il padrino parte seconda), ed era uno dei nuovi film sugli orrori della guerra nel Vietnam, per di più compariva una ragazzina di 13 anni di nome Jody Foster che fu candidata per l’Oscar. La lira fu svalutata del 12% e tirava aria di disfatta economica. Negli Stati Uniti dove nascevano i computer e dove vinceva un presidente ultra democratico, alcuni stati tra cui il Texas e la Florida reintrodussero la pena di morte sostenendo che la moratoria aveva rivelato che soltanto la pena di morte costituisce un deterrente sufficiente per certi delitti. Questa teoria di fatto non è stata mai contestata da alcun candidato presidente americano per quanto di sinistra, compresi Obama, Bill Clinton, lo stesso Joe Biden. (L’unico che ebbe il coraggio di contrastarla fu lo sfortunato Mike Dukakis, che poi fu travolto al voto da George W. Bush). Per un breve periodo fu ripristinata la ghigliottina in Francia dove l’ultima testa cadde nel 1981. In Inghilterra non fu fatta alcuna legge per sospendere la forca ma semplicemente i tribunali smisero di comminare la pena di morte e passarono all’ergastolo. In Italia si parlava moltissimo di golpe. La parola golpe in luogo di colpo di Stato o era diventata popolarissima e prevalente dopo la presa del potere con la violenza del generale Pinochet a Santiago del Cile con gli aerei nazionali che bombardavano la casa presidenziale e il legittimo presidente Salvador Allende abbattuto a colpi di mitra (era l’11 settembre del 1973). In tutti gli ambienti militari si parlava di golpe. Di ciò che sarebbe potuto avvenire nel caso in cui i comunisti avessero preso il sopravvento. Fu l’anno in cui Luciano Violante (allora magistrato) fece arrestare la medaglia d’oro alla Resistenza Edgardo Sogno, il quale aveva realmente progettato un colpo di Stato in caso di vittoria comunista, sostenendo, come confesserà prima di morire ad Aldo Cazzullo, che la regola delle libere elezioni con i comunisti non vale perché dovunque essi le abbiamo vinte non hanno rispettato la democrazia e hanno trasformato la loro vittoria in dittatura. C’era poi sullo sfondo la guerra fredda. Di questa guerra noi tutti allora vedevamo poco. Io mi sono fatto per così dire un occhio in più quando negli anni successivi ebbi l’occasione di guidare una inchiesta parlamentare con i poteri del magistrato. Ma la lezione più eloquente che imparai in seguito sta tutta in un grosso libro tuttora reperibile su internet, che è semplicemente la collezione di tutti i verbali delle riunioni militari del patto di Varsavia (che univa a Mosca i paesi dell’est Europa) il cui tema annuale era sempre lo stesso: le forze capitaliste tentano un attacco ai paesi comunisti e immediatamente questi rispondono con un devastante contrattacco. Era quel contrattacco la chiave di volta e secondo la maggior parte degli analisti era molto solida in Unione Sovietica la corrente di pensiero che originariamente era di Yuri Andropov secondo cui l’Unione sovietica avrebbe dovuto garantirsi il controllo dell’Europa occidentale lasciando gli Stati Uniti fuori dal continente per potersi avvalere della tecnologia di cui non era in grado di far uso. Dal punto di vista del costume e delle abitudini degli italiani ricordo che d’estate si andava al campeggio si piantavano le tende si pescava il pesce da cucinare e la sera al fuoco di bivacco si beveva molto generosamente in attesa dell’alba.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1977: la guerra vera tra Br e fascisti. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Settembre 2021. Nel 1977 ci sparavamo. Anche chi non era armato sapeva di avere intorno e vicino persone che portavano un’arma, Morti ammazzati a decine, Brigate Rosse in azione, i Nap (Nuclei di azione proletaria) al debutto, i fascisti in genere le prendevano ed erano più cacciati che cacciatori. Francesco Cossiga era ministro di polizia, ovvero degli Interni ed era morta con una revolverata di Stato la manifestante Giorgiana Masi. Cossiga si scriveva col Kappa. Come AmeriKani. Col Kappa. Fu l’anno in cui Luciano Lama, segretario carismatico della Cgil entrò all’Università della Sapienza di Roma per parlare al movimento studentesco e fu sommerso di fischi e costretto ad andarsene. Più che il fatto conta l’impressione del fatto: Lama fischiato dagli studenti? E che è successo? Il Partito comunista era perplesso e cercava di drenare materiale umano dal movimento per liquidarlo dopo aver scelto le sue pepite più promettenti. I socialisti del neoeletto Bettino Craxi prendevano una inaspettata linea di comprensione e analisi dell’area rivoluzionaria, Autonomia operaia e le stesse Brigate Rosse, tessendo contatti e lasciando che si formasse intorno al Psi un’area contigua e un approdo a tutta la dissidenza di sinistra. Questo atteggiamento fece imbestialire la Dc di Ciriaco De Mita e il Pci di Enrico Berlinguer, Si stava già profilando il fronte che l’anno successivo dividerà la sinistra fra i “trattativisti” e quelli contrari alla trattativa, quando Aldo Moro sarà catturato dalle Brigate Rosse e da chiunque fosse con loro. Ma il Partito Comunista paradossalmente viveva la sua epoca d’oro in Emilia e in particolare nella rossa Bologna governata da Renato Zangheri per oltre tredici anni di continuo successo amministrativo. Un successo tale da spingere gli inviati speciali delle testate giornalistiche straniere a venire a visitare il capoluogo emiliano e capire che cosa avesse di così straordinariamente vincente e diverso il “Pcb” – come veniva scherzosamente chiamato – e cioè il partito comunista bolognese. Zangheri era stato eletto sindaco nel 1970 ed era uno storico accademico in grado di ampliare le sue conoscenze e il metodo di studio alla città facendone un caso esemplare di decentramento. Il “modello Bologna” piaceva ai giovani ed era in concorrenza con le fumisterie rivoluzionarie. Con Zangheri il Pci poteva dire: noi la rivoluzione la stiamo già facendo, venite a vederci. La città scopriva il piacere della festa insieme a quello dell’organizzazione, fino al celebre concerto rock dei Clash. L’amministrazione Zangheri fu un lungo successo, ma in quell’anno particolare, torbido e insanguinato, rappresentò la miglior pubblicità per il partito anche all’estero e specialmente fra i Democrats americani che vennero a studiare il fenomeno dei comunisti italiani. Fu allora che al Dipartimento di Stato a Washinton prese forma la rivoluzionaria idea: e se favorissimo l’entrata nel governo italiano di questo genere di comunisti, liberandoci di tutti quei democristiani che ci fanno pagare il pizzo per il fatto che l’Italia è la cerniera fra Est e Ovest? Certo, era in fondo lo sviluppo desiderabile del compromesso storico ideato da Berlinguer sulla scia del colpo di Stato del generale Pinochet in Cile. Naturalmente un tale piano si sarebbe potuto attuare soltanto se Berlinguer si fosse deciso allo strappo netto e definitivo con l’Unione Sovietica. Il ragionamento non solo degli americani, ma della Nato, di Londra e di Bonn (capitale della Repubblica Federale Tedesca) era tutto fondato su un’esigenza militare: non si possono avere come alleati politici di governi nella Nato, persone in grado di passare segreti militari alla controparte nemica sovietica: prima lo strappo, poi vediamo. In campo giornalistico la neonata Repubblica di Eugenio Scalfari era l’organo di stampa di sinistra che a viva voce chiedeva “lo strappo” e l’uscita dal “guado”. Berlinguer intanto sviluppava una ideologia alternativa a quella del comunismo sovietico, puntando sulla diversità morale, quasi razziale, dei comunisti e delle loro “mani pulite”. Quest’espressone, “mani pulite” cominciò a circolare come una citazione di Berlinguer e Bologna si presentava come la vetrina dell’amministrazione intelligente, moderna, pensata a misura d’uomo, una rete di servizi “friendly”, fatti per venire incontro a ogni esigenza, un quasi paradiso. E quando i tafferugli scoppiarono proprio a Bologna, con le squadre dell’Autonomia operaia considerate l’acqua in cui nuotava il pesce brigatista, il Pci prese questa invasione nella sua cristalleria come un’aggressione insostenibile. Probabilmente dal conflitto bolognese con atti di violenza selvaggia, accoltellamenti, colpi di pistola, bastonature, attentati raduni e atti di vandalismo, si profilò definitivamente uno stato di guerra fra il Partito comunista e la sinistra movimentista. Fino a quel momento il Partito aveva cercato di cooptare e incamerare le migliori teste dei movimenti, ma adesso si vedeva il limite oltre il quale ci sarebbe stata soltanto la guerra, che avrebbe visto il Pci schierato con lo Stato, delegando l’ex partigiano pluridecorato Ugo Pecchioli alla funzione di ministro degli Interni ombra. Aggiungo una mia opinione sulla base della documentazione raccolta nella Commissione d’Inchiesta sullo spionaggio sovietico di cui fui Presidente. Per quanto ho potuto vedere, a Mosca era diventata in quegli anni una priorità sabotare il mito comunista bolognese ed emiliano, proprio perché alternativo a quello sovietico e spendibile per un passaggio del Pci in campo occidentale, come del resto aveva annunciato Enrico Berlinguer nella sua celebre intervista a Giampaolo Pansa allora al Corriere della Sera, in cui ammetteva di “sentirsi molto più sicuro sotto l’ombrello della Nato che non sotto quello sovietico”. Dunque, è lecito immaginare senza troppi sforzi che gran parte delle turbolenze di quell’anno e delle successive rivolte contro il Pci fossero ispirate e organizzate dalle centrali Kgb in Italia, benché – lo ripeto – questa è soltanto un ragionevole e fortemente indiziato, sospetto. Intanto in Francia gli intellettuali precorrevano i tempi del XXI secolo: il filosofo esistenzialista e comunista Jean Paul Sartre insieme ad un gruppo di accademici presentò al Parlamento francese una petizione per proteggere i minorenni dagli abusi sessuali in casa e sul lavoro, modificando l’età in cui un minore può dirsi “consenziente”. Erano con lui la moglie Simone de Beauvoir, Luis Aragon e molti altri. Era la prima volta che il mondo occidentale affrontava un tale tema avendo sempre considerato gli eventi interni alle mura domestiche come fatti privati e panni sporchi da lavare in casa. Simone de Beauvoir aveva contribuito molto con la sua monumentale opera Il secondo sesso a ricostruire la figura della donna intesa come persona strutturalmente altra rispetto all’uomo, i cui diritti devono essere riconosciuti e garantiti. Insomma, fu un primo grande passo in avanti. Ma erano anche i tempi in cui i comunisti, non solo francesi, si battevano come leoni contro la nascente Unione Europea. Sartre nello stesso 1977 in cui presentava la sua petizione contro la pedofilia, attaccava violentemente «l’Europa che ci presentano i signori Carter, Schmidt, Giscard e Andreotti (che) non ha alcun rapporto con l’internazionalismo proletario, è estranea all’Europa dei lavoratori che per un secolo è stata l’ideale operaio occidentale e trovo ridicolo l’entusiasmo per le elezioni europee e l’Unione economica. Alla fine, tutto si ridurrà ad un’egemonia della Germania e per un po’ della Francia, con i paesi del sud estremamente vessati e gli inglesi che saranno vinti dalla propria spocchia, pronti a farsi un mercato proprio». L’Unione europea era allora vista come fumo negli occhi dall’Unione Sovietica, almeno finché Michail Gorbaciov non tentò di agganciare le due unioni secondo una strategia che era stata inventata da De Gaulle, che vedeva un’Europa dall’Atlantico agli Urali, dunque Mosca compresa. Dunque, il mondo era ancora spaccato in due, il Pci destava grande interesse oltre che curiosità in Occidente e Bettino Craxi era ancora schierato con Israele. La Repubblica Federale Tedesca era uno Stato con molta grinta. Quando ad ottobre un commando palestinese sequestra un aereo della Lufthansa a Mogadiscio chiedendo la liberazione di alcuni uomini della banda Baader Meinhof (equivalente alle nostre Brigate rosse), da Bonn partì un gruppo di ventotto teste di cuoio del “Grenzschutzgruppe-9” che uccise tre dei quattro dirottatori, e il quarto verrà arrestato subito dopo e tutti gli ostaggi sono liberati. Ma appare chiaro che palestinesi, banda Meinhof e le nostre sigle eversive sia di sinistra che di destra, sono unite in una internazionale che include anche l’Ira irlandese e l’Eta dei Paesi Baschi. È dunque un mondo in guerra, quel tipo di guerra a bassa intensità che è conseguenza di tre circostanze: impossibilità di combattere e vincere una guerra totale con armi nucleari, presenza e politica di armamenti e finanziamento di eserciti post-coloniali o inquadrati nel conflitto mediorientale e guerra civile latente interna non solo in Italia, ma anche in Francia con Action Dirette e in Germania. Noi vivevamo in questo stato di guerra e ci avevamo fatto l’abitudine, altro che Covid.

CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1977

1º gennaio: terminano ufficialmente le trasmissioni di Carosello e la Rai passa al tipo di spot pubblicitari attuali

18 gennaio: a Catanzaro prende il via il processo per la strage di piazza Fontana

20 gennaio: Jimmy Carter è ufficialmente il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America

1º febbraio: hanno inizio ufficialmente le trasmissioni televisive a colori della Rai

15 febbraio: viene arrestato a Roma il bandito Renato Vallanzasca

2 marzo: in Libia, il colonnello Gheddafi annuncia la nascita della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista

7 marzo: il Partito Radicale chiede l’imputazione del Presidente della Repubblica Giovanni Leone per lo scandalo Lockheed

17 marzo: esce nei cinema Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli, interpretato da Alberto Sordi, tratto dall’omonimo romanzo di Vincenzo Cerami

22 marzo: si dimette il primo ministro indiano Indira Gandhi

27 marzo: disastro di Tenerife. Il più grave incidente nella storia dell’aviazione civile in cui perdono la vita 583 passeggeri

2 aprile: viene arrestato il gangster Francis Turatello a Milano

30 aprile: a Buenos Aires, in Argentina, cominciano le manifestazioni pacifiche delle “Madri di Plaza de Mayo” di fronte alla Casa Rosada chiedendo l’apparizione dei loro figli rapiti dalla dittatura militare argentina

3 maggio: prima udienza del processo contro i capi storici delle Brigate Rosse. Sedici giudici popolari inviano un certificato medico per dirsi affetti da “sindrome depressiva” e perciò impossibilitati a esercitare la loro funzione

2 giugno: il Partito Radicale organizza un “sit-in” in Piazza Navona per celebrare l’anniversario del referendum sul divorzio del 1974. La polizia interviene sparando colpi di pistola: sul Ponte Garibaldi muore la studentessa Giorgiana Masi

27 maggio: Enzo Tortora presenta la prima puntata di Portobello

2 giugno: viene gambizzato dalle Brigate Rosse il direttore del Giornale nuovo Indro Montanelli

3 giugno: i brigatisti feriscono alle gambe il direttore del Tg1 Emilio Rossi

16 settembre: muore a Parigi all’età di 53 anni “la divina” Maria Callas

16 novembre: le Brigate Rosse sparano quattro colpi di pistola contro il vicedirettore de La Stampa Carlo Casalegno, che muore dodici giorni dopo

28 novembre: un commando neofascista uccide a coltellate l’operaio comunista Benedetto Petrone

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1978: dall’omicidio Moro all’elezione di Sandro Pertini. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Ottobre 2021. Fu l’anno della tragedia più grande: il rapimento – con la strage dei suoi agenti di scorta – e l’interrogatorio che si concluderà poi con l’assassinio di Aldo Moro, il più eminente dei “cavalli di razza” della Dc, più volte presidente del Consiglio, l’uomo che avrebbe dovuto guidare, da presidente della Repubblica, il “compromesso storico” con il Partito comunista, nella veste di garante nei confronti degli alleati della Nato. Fu poi l’anno dei tre Papi e del presidente partigiano Sandro Pertini, il quale riacciuffò un paese dilaniato dal terrorismo e dall’odio, incarnandone l’anima e vincendo alla fine del suo settennato la sua sfida. Fu un anno terribile e violento, ma con molti germi di speranza. L’Italia del 1978 era un paese ancora agricolo ma si vedeva bene che l’industrializzazione avrebbe vinto. Eravamo, insomma, a cavallo tra il prima e il dopo. E, malgrado tutto il sangue versato e il terrore diffuso, si vedeva che avrebbe vinto il dopo, un po’ come oggi con il governo Draghi che rappresenta la fine della “Guerra dei trent’anni” contro Silvio Berlusconi e quel che restava dell’Italia liberale. Anche allora si concludeva una guerra che era stata prima latente e poi insanguinata, prima che si aprisse un periodo di pace che sarebbe stato a sua volta breve, durato fino alla scomparsa dell’Unione Sovietica e all’inizio di Tangentopoli e di tutti quei processi di decadimento della democrazia parlamentare che porteranno all’effimera fiammata del Movimento 5 stelle e alle furie no-vax di oggi. Era un anno, il 1978, in cui l’economia cresceva a ritmi incredibili, fino al 17%, annuo, nella quasi assenza di un debito pubblico, mentre la disoccupazione giovanile era di dieci punti più bassa di quella di oggi. L’Europa cominciava a nascere tant’è che si parlava della prima elezione di un Parlamento europeo, anche se mancava del tutto un sentimento collettivo paragonabile a quello delle grandi rivoluzioni. Infatti, non sarebbero nati gli Stati Uniti d’Europa sognati da Altiero Spinelli e dagli altri che avevano fondato l’idea di Europa con manifesto di Ventotene. Sul rapimento Moro e il suo significato, posso offrire la mia versione che in parte contrasta con quella di molti autorevoli “contributors” di questo giornale. Quando andai a Budapest per svolgere una rogatoria internazionale da presidente di una Commissione bicamerale di inchiesta, mi vidi proporre dal Procuratore generale magiaro una valigia di documenti che non ci furono poi mai consegnati, ma nei quali c’erano le prove dei collegamenti tra il Kgb, la Stasi tedesca orientale, il gruppo del terrorista Carlos che aveva stazionato con la sua banda a Budapest facendo il gradasso e progettando i suoi piani criminali e un nucleo dirigente delle Brigate Rosse, a conferma dell’ipotesi delle Br “eterodirette” di cui molto si parlò senza prove. Come è provato dai documenti della Cia e del Dipartimento di Stato desegretati e pubblicati ormai da molti anni, gli Stati Uniti erano assolutamente favorevoli all’ingresso dei comunisti nel governo italiano, purché avessero consumato lo strappo con Unione Sovietica. A tutti gli alleati stava bene la persona di Enrico Berlinguer e nessuno aveva da ridire sul fatto che l’Italia avesse una politica di sinistra. Ciò che rendeva impossibile l’ingresso del Partito Comunista nel governo era soltanto la questione militare: gli alleati della Nato e principalmente i tedeschi della Repubblica Federale e la Gran Bretagna non ne volevano sapere di condividere i segreti con i comunisti italiani ancora in stretto legame con Mosca. La guerra che non ci fu sembrava imminente perché, come si legge dai verbali delle riunioni annuali del patto di Varsavia ovvero della Nato dell’Est, una guerra fulminea e con uso di armi nucleari avrebbe dovuto portare l’Armata Rossa fino all’Atlantico espellendone gli americani e catturandone la produzione tecnologica. Quei piani erano sempre attuali e rinnovati anno dopo anno, esercitazione dopo esercitazione. Dunque, la questione militare, di cui la crisi degli euromissili fu il momento di massimo attrito, bloccava l’atteso ricambio della classe dirigente italiana che gli alleati occidentali avrebbero voluto ma che non riuscivano a ottenere. La classe dirigente italiana aveva speculato sul ruolo dell’Italia come paese cerniera fra Est ed Ovest per fare affari leciti e illeciti con il mondo radicale islamico e con quello dell’impero sovietico oltre a taglieggiare gli alleati con ricatti e dimostrazioni di disaffezione. Per quello che ho potuto ricostruire da allora, e sono passati quarantatré anni, il delitto Moro così come il tentativo di uccidere Enrico Berlinguer in Bulgaria fu la risposta sovietica al progetto di compromesso storico e il rapimento costituì il più grave vulnus che fosse mai stato inflitto alla Repubblica italiana prima del delitto Falcone. A via Fani, un solo killer che fu udito da una testimone esprimersi in una lingua straniera, uccise tutti e cinque gli uomini di scorta. Sono passati dunque quarantatré anni da allora, me ne rendo conto oggi, il che vuol dire che soltanto coloro che hanno un’età prossima alla sessantina possono averne un vago ricordo di quell’epoca e di quei fatti, mentre soltanto i settantenni e i vecchi ne hanno un ricordo netto. Gli italiani di oggi non possono dunque ricordare e rivivere l’angoscia provocata da quel delitto ed è veramente difficile trasmettere oggi quelle emozioni di allora che appartenevano ad un mondo totalmente scomparso le cui conseguenze sono attualissime. Durante le lunghe settimane che passarono dalla cattura alla morte di Moro, si formarono due partiti: uno favorevole alla trattativa (socialisti, radicali, gruppi extraparlamentari e liberali) e uno detto “della fermezza” (Pci e Dc) che di fatto voleva Moro morto. Ci dividemmo con odio. Io fui per la trattativa e sottoscrissi un documento di Lotta Continua perché si salvasse Moro e sperimentai la prima messa al bando. Ricordo Bettino Craxi nel suo impermeabile sbottonato che spiegava ai giornalisti le ragioni del “primum vivere” e Marco Pannella, tutti per la trattativa. La trattativa ci fu, fu segreta, drogata dalle bugie e dai segreti di Stato e Moro, del resto, era stato già condannato a morte fin dall’inizio. La violenza terroristica allora era al suo massimo, le Brigate Rosse, come anche le brigate nere dei Nar erano all’apice della notorietà internazionale. Le azioni dei terroristi di fatto rappresentavano quelle di uno Stato dentro lo Stato, una rivoluzione che sembrava imminente ma che non venne mai e tuttavia si annunciava continuamente con una catena di omicidi, delitti di una rara codardia compiuti invariabilmente dopo lunghe indagini sulle vittime affinché i loro carnefici potessero assassinarle indisturbati facendola franca. Il mio amico Piero Bellanova, uno dei maestri della psicanalisi italiana dell’epoca, mi raccontò che molti brigatisti chiesero agli psicoanalisti di essere curati per il senso di colpa che provavano dopo aver compiuto i loro delitti. E gli psicanalisti erano costretti a rifiutare queste richieste non soltanto per motivi legali e morali ma perché non potevano far nulla contro il rimorso del male compiuto, ma potevano curare soltanto i sensi di colpa, che sono la fantasia di un male che non è stato realmente inferto. Era un’Italia grigia, eccitata, con la pistola in tasca sia per difendersi che per offendere. Ed erano anni in cui la guerriglia di destra trovava molte occasioni per legarsi a quella di sinistra formando dei sodalizi che ricordavano il patto sovietico nazista dell’agosto 1939. Erano gli anni dei “nazi-maoisti” e si respirava questa strana aria di collusione tra forze che esplicitamente ripudiavano la democrazia (parlamentare, borghese e occidentale) e si ritrovavano dalla stessa parte. L’Italia contadina si stava estinguendo, Ermanno Olmi proprio in quell’anno realizzò L’albero degli zoccoli, un tributo all’Italia dei discendenti dei servi della gleba con le loro facce antiche e i loro rituali eterni. Era un mondo che scompariva di fronte all’industrializzazione ed era anche il mondo in cui Grease era il film che registrava gli incassi più alti. Fu l’anno in cui la legge Basaglia impose la chiusura dei manicomi con una legge molto discutibile perché funziona bene nelle piccole città ma malissimo in quelle grandi imponendo di fatto alle famiglie di persone con disagi psichici la cura dei loro parenti malati con un alto tasso di violenza interna, omicidi e suicidi che furono un altro prezzo pagato alla chiusura delle cliniche psichiatriche che in tutti i paesi del mondo civile esistono, sono moderne e accettabili e non somigliano minimamente a quella specie di Marat-Sade (un film di successo di quell’epoca) che fu Santa Maria della Pietà a Roma e tutti gli altri infami lager psichiatrici. Fu l’anno in cui l’aborto fu regolato per legge e diventò una conquista delle donne e fu anche l’anno in cui iniziò a funzionare davvero il servizio sanitario nazionale. La morte di Aldo Moro, che era destinato a salire al Quirinale per diventare presidente di un Italia in cui sarebbe dovuto avvenire il grande ricambio della classe dirigente, costrinse i partiti a cercare un sostituto e Bettino Craxi per una volta ebbe successo nel proporre il più importante dei socialisti che avevano guidato la resistenza e la lotta al fascismo. Quell’uomo fu ovviamente Sandro Pertini, uomo che conoscevo benissimo da quando ero redattore dell’Avanti e lui veniva spesso a richiedere pezzi che mai avrebbe pagato da pubblicare sul Lavoro nuovo di Genova. Pietro Nenni lo prendeva in giro spesso dicendo «Il nostro Sandro ha una testa fatta di solo osso” ma l’icona “Pertini, il partigiano Presidente” era perfetta: asciutto, magro, con una bella pipa, un viso con zigomi solidi e quando andò al Quirinale volle un alloggio che io visitai accompagnato da Francesco Cossiga molti anni dopo, che fosse il più possibile simile alla sua cella di prigioniero politico di Mussolini. Nell’ultima fase della Italia fascista gli oppositori eminenti in prigione erano stati Antonio Gramsci, Sandro Pertini e Giancarlo Pajetta. Il suo alloggio consisteva in una stanza spoglia con un letto di ferro, un tavolo di legno, una sedia, un piccolo armadio e una lampadina che pendeva dal soffitto con un lungo filo elettrico. Pertini aveva avuto un violento alterco con la madre, un alterco epistolare ma egualmente acceso quando scoprì che lei aveva chiesto la grazia ma non solo per suo figlio. Essere prigioniero per patire era il più grande vanto di uomo intransigente e sapeva rafforzare questa sua immagine con il racconto dei giorni convulsi in cui lui inseguiva a Milano Mussolini su e giù per le scale dell’Arcivescovado con la pistola in tasca per giustiziarlo. Pertini per la prima volta parlò pubblicamente delle trame e degli intrighi dei servizi segreti sovietici davanti a un Paese del tutto ignaro. Si conoscevano le trame vere o supposte della Cia americana, delle spie fasciste, i massoni, i nazisti tedeschi che ancora proliferavano nel Bnd il servizio segreto della Repubblica federale ma non sapevano nulla della polizia e dello spionaggio sovietico. Pertini tenne insieme un Paese sull’orlo della disfatta che sarebbe imploso se non avesse avuto una guida come la sua, fatta di parole secche, talvolta brusche, ma molto affascinanti e la cui forza si trasmetteva per contagio. Dei tre Papi che si succedettero in quell’anno diremo nella prossima puntata.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1978:

7 gennaio: a Roma si consuma la strage di Acca Larentia in cui due militanti missini, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, vengono uccisi durante l’assalto a una sezione del partito in via Acca Laurentia (quartiere Appio). Poco dopo i carabinieri uccidono, nella ressa che segue al duplice omicidio, Stefano Recchioni, altro esponente missino.

25 gennaio: in Spagna, l’ex-sindaco franchista di Barcellona e sua moglie vengono assassinati. Sono stati uccisi da una bomba a pressione applicata al petto dell’uomo con un nastro adesivo.

11 febbraio: la Cina proibisce la lettura delle opere di Aristotele, Shakespeare e Charles Dickens.

21 febbraio: a Città del Messico alcuni operai delle linee elettriche si imbattono in quelle che si scopriranno essere le rovine del Templo Mayor.

1º marzo: a Corsier-sur-Vevey, in Svizzera, le spoglie di Charlie Chaplin vengono trafugate dal cimitero in cui è sepolto, a scopo di estorsione.

14 marzo: in Libano le forze armate israeliane invadono il Libano dando il via all’Operazione Litani.

16 marzo: a Roma, in via Fani, un commando delle Brigate Rosse rapisce Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana e uccide i cinque uomini della sua scorta.

1º maggio: in California la DEC invia la prima email di spam (messaggio commerciale indesiderato).

9 maggio: viene ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro nel baule di una Renault 4 rossa in via Caetani, una laterale di Via delle Botteghe Oscure.

9 maggio: viene assassinato Peppino Impastato.

17 maggio: il corpo di Charlie Chaplin viene ritrovato nei pressi del Lago di Ginevra.

8 luglio: il socialista Sandro Pertini viene eletto presidente della Repubblica Italiana al 16º scrutinio.

25 luglio: nasce Louise Brown, la prima “bimba in provetta” mediante la procreazione assistita (o fertilizzazione in vitro).

28 settembre: muore Papa Giovanni Paolo I dopo soli 33 giorni di pontificato.

23 dicembre: viene approvata la legge che istituisce il “Servizio Sanitario Nazionale”.

27 dicembre: la Spagna diventa una democrazia dopo 40 anni di dittatura.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1978: l’anno dei tre Papi, dell’omicidio Moro e di Carlos lo sciacallo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Novembre 2021. Ancora nessuno lo conosceva, ma il giovane Ali Agca, che il 13 maggio 1981 avrebbe sparato al papa Giovanni Paolo II mancando di pochi millimetri la sua aorta, dalla Turchia si trasferì a Beirut per un corso di addestramento militare organizzato dall’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat. Oggi i nomi dei grandi terroristi di allora non fanno più effetto perché bisogna avere una sessantina d’anni per ricordare chi fosse Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos, o anche Carlos lo Sciacallo, il quale si allea con Abu Nidal mentre Gheddafi fa piazzare bombe in giro, specialmente sugli aerei, ma anche nei locali notturni. Vale la pena tenerne nota considerando che siamo a due anni dalla tragedia di Ustica. E così in questo anno di transizione violenta si registra l’esplosione del Boeing Francoforte-New York su Lockerbie (275 morti), il volo di linea Uta Brazzaville-Parigi esploso sul Niger (200 morti), la bomba nel locale di Berlino Ovest frequentato da militari americani, per non parlare degli assassinii di dissidenti libici all’estero (Italia compresa) né dei finanziamenti a gruppi terroristici di ogni colore e tendenza, né dell’appoggio al gruppo Abu Nidal, con cui Carlos aveva stretto alleanza. Gheddafi agiva ormai con tratti di follia egocentrica: nel corso di un’intervista spettacolarmente litigiosa con la giornalista Oriana Fallaci a urlare “I am the gospel”, “Io sono il Vangelo”. Gheddafi era allora circondato da bellissime soldatesse che indossavano uniformi da circo equestre. In Francia, il giudice Jean-Louis Bruguière, che otterrà alla fine della sua carriera due condanne all’ergastolo per Carlos lo Sciacallo, decise di mettere sotto inchiesta la galassia dei gruppuscoli sedicenti marxisti-leninisti, armate rivoluzionarie, anarchiche e simili, che negli ultimi trent’anni avevano colpito la Francia, anche durante il governo socialista con mezzo migliaio di attentati tutti puntualmente attestati dagli archivi della Stasi, il triste e famoso servizio segreto della Repubblica Democratica Tedesca che usava il gruppo di Carlos con parecchi italiani. Quando io svolsi il ruolo di presidente di una Commissione parlamentare d’inchiesta, scoprii una quantità enorme di quei rapporti che erano finiti nel retrobottega dei nostri servizi segreti e anche di qualche giudice molto distratto. Giorgio Bocca, grande giornalista inviato di punta di Repubblica scriveva che «la minaccia di golpe autoritario tra il 1965 e il 1970 è più forte, più reale che il suo opposto, la rivoluzione proletaria». Nel suo saggio Il terrorismo italiano: 1970-1978, ricostruì i legami tra il fondatore delle Brigate Rosse Curcio con Feltrinelli e i suoi viaggi a Cuba per incontrare Fidel Castro e come, grazie alle relazioni internazionali di Feltrinelli, stabilì i primi rapporti con la Raf (L’esercito rosso tedesco) e con la formazione “Gauche Proletarienne francese. Vladimir Bukovskij, un importante dissidente sovietico rifugiato a Londra, quando poté spulciare gli Archivi segreti di Mosca, scrisse che «in un rapporto del 1978 il leader sovietico Jurij Andropov, affrontò seriamente il tema dell’elezione a papa del cardinale Wojtyla come parte di un complotto internazionale per staccare la Polonia dal blocco sovietico». Gli americani furiosi per l’uccisione di Moro sbatterono la porta in faccia al Partito comunista italiano. Il Dipartimento di Stato, dopo aver richiamato per consultazioni l’ambasciatore in Italia Richard Gardner, emise un comunicato in cui si diceva: «L’atteggiamento del governo statunitense nei confronti dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, compreso quello italiano, non è in alcun modo mutato. I leader democratici devono dimostrare fermezza nel resistere alla tentazione di trovare soluzioni tra le forze non democratiche». Fino a quel momento avevano dato carta bianca a Moro, che all’assemblea dei gruppi parlamentari della Dc era riuscito a far approvare la costituzione di una maggioranza programmatica e non politica che comprendeva anche il Pci. Moro aveva contrattato con il Pci il primo passo del compromesso: i comunisti avrebbero accettato di fare parte della maggioranza del nuovo governo, ma senza ministri e con presidenze di Commissioni e di un ramo del Parlamento, senza accesso alla stanza dei bottoni strategici. Così era nato il governo di solidarietà nazionale di Giulio Andreotti quando Aldo Moro fu rapito il 16 marzo, giorno della nascita del nuovo esecutivo, per essere trattenuto per quasi due mesi sotto interrogatorio e infine assassinato il 9 maggio del ’78 nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, una strada che si trova a metà delle due casemadri di via delle Botteghe Oscure del Partito comunista e piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana. Il cinque giugno, travolto da una campagna di stampa e sospetti giudiziari, il presidente della Repubblica Giovanni Leone si dimise. Molti anni dopo lo intervistai sul suo letto di morte insieme alla moglie Vittoria e mi disse con grande pena come fosse stato incastrato dalla campagna orchestrata durante l’inchiesta sullo scandalo delle tangenti connesse con l’acquisto di aerei militari della casa aeronautica americana Lockheed. Disse che la campagna aveva uno scopo molto preciso: eliminarlo dal Quirinale per permettere l’elezione di Aldo Moro al suo posto. Quando Moro fu ucciso, mi disse, la campagna proseguì con la stessa volenza con cui era cominciata, perché ormai era inarrestabile e tutti non facevano altro che consigliargli di cedere e andarsene. L’otto luglio Sandro Pertini fu eletto presidente della Repubblica, indicato da Craxi come candidato della sinistra – proposta respinta da Pertini – e poi votato dall’intero “arco costituzionale”. Pertini fu il primo a parlare delle violente intrusioni dei servizi segreti sovietici in Italia. Fu uno dei pochi punti su cui Pertini e Bettino Craxi erano d’accordo e gli accenni alla superpotenza sovietica furono considerati allora molto imbarazzanti a sinistra. In agosto, sull’Avanti! Bettino Craxi denunciò i “collegamenti internazionali del terrorismo”. Aldo Moro era stato assassinato da poco e Craxi si chiedeva se fosse stato ucciso soltanto per decisione delle Br, oppure perché la sua condanna era stata ratificata altrove. Craxi scrisse che esistevano “indicazioni sufficienti” per affermare che Aldo Moro era nel mirino del terrorismo internazionale. Il primo ottobre i reparti speciali antiterrorismo comandati dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa entrarono nell’ex covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano. La brigatista Nadia Mantovani, arrestata insieme a Lauro Azzolini e a Franco Bonisoli, nel corso del blitz era stata delegata dalle Br a studiare il carteggio scaturito dal sequestro di Aldo Moro. Il capitano Umberto Bonaventura disse in seguito in Commissione Stragi: «Il primo ottobre mi trovavo in via Olivari… dopodiché mi reco in Via Monte Nevoso, dove comincia la perquisizione. Mi reco in sede dove un collega mi informa che sono state ritrovate delle carte di Moro. Ne parlo e me le faccio mandare. È chiaro che il generale Dalla Chiesa le ha viste e le avrà senz’altro portate a Roma. Facciamo delle fotocopie, le diamo al generale Dalla Chiesa, e poi questo materiale ritorna nel covo per fare la verbalizzazione». Si disse che le carte originali non ritornarono tutte ma che una parte fu messa in sicurezza dal generale. Il 16 ottobre il cardinale di Cracovia Karol Wojtyla viene eletto Papa e sceglie il nome di Giovanni Paolo II. Prima di lui, il 26 agosto, era stato eletto un altro papa, Albino Luciani col nome di Giovanni Paolo I, ma il 28 settembre era stato trovato morto nel suo letto. Fu allora che le cose cominciarono a mettersi veramente male per il blocco sovietico. Wojtyla era stato un prete resistente all’occupazione nazista, affascinante attore e prete popolarissimo, connesso con i rappresentanti operai del sindacato semi clandestino Solidarność. Nei verbali del Comitato Centrale del Pcus, resi pubblici negli anni Novanta, si legge una raccomandazione affinché fossero adottate tutte le “misure attive” nei confronti del nuovo papa, affinché non scardinasse il rapporto fra sovietici e polacchi. Tra i firmatari c’era anche Michail Gorbaciov, che sarà l’ultimo segretario generale del Partito comunista sovietico.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1979: dai carrarmati sovietici a Kabul alla caduta di Pol Pot. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 25 Novembre 2021. Il mondo camminava con tutta la sua umanità verso un assetto che sarebbe stato quello della fine della guerra fredda e l’inizio di nuove ere sempre più convulse, come quella dei nostri giorni che spesso ci asteniamo dall’interpretare. Stati Uniti e Cina fecero accordi che stabilivano una priorità per entrambi in funzione antisovietica e l’Urss sentendosi circondata invase l’Afghanistan poco prima di Natale. I carri sovietici a Kabul, con rovesciamento di governo e inizio di dieci anni di guerriglia afghana alimentata dagli americani per dare filo da torcere a Mosca. Fu così che questi strani personaggi che imparammo a conoscere – i Mujaheddin – diventarono popolari. In Italia nacque RaiTre per il Partito comunista: l’assetto era perfettamente lottizzato e anche bilanciato: il Pci che fino a quel momento era stato tenuto fuori dal governo diretto della Rai, diventò titolare di un’intera rete televisiva. RaiUno restava saldamente demo cristiana, Rai Due altrettanto saldamente socialista anzi craxiana e una gentile signorina molto sexy apparve sullo schermo per avvertire che d’ora in poi ci sarebbe stato questo piacevole terzo incomodo, RaiTre. Il telegiornale della nuova rete fu inizialmente diretto da Agnes ma la personalità più caratteristica e caratterizzante fu quella di Sandro Curzi, vecchio giornalista comunista dall’età di quattordici anni, un sindacalista che avevamo imparato a conoscere nelle redazioni perché veniva a illustrare con il suo smisurato impermeabile, lo stato dell’informazione. Il suo Tg3 fu ribattezzato “Tele-Kabul”, qualcosa di rovesciato rispetto a Radio-Londra, perché Curzi aveva intenzione di rompere gli schemi e quando verrà il momento della caduta del muro di Berlino, riuscì ad appropriarsi di quell’evento di per sé “anticomunista” e farne un cavallo di battaglia di sinistra. Ma questo accadrà dieci anni dopo, quando anche il corpo di spedizione sovietico in Afghanistan se ne tornerà sconfitto e umiliato, in un Paese- l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche – destinato a finire di lì a pochi anni. La Terza Rete della Rai diventerà gradualmente un grande laboratorio guidato da Angelo Guglielmi, uno degli intellettuali del “Gruppo 63” e questo fu un notevole rimescolamento di carte televisive, con un elemento costante. In fondo, anche oggi si può vedere che il Tg1 non è più grillino con grande malumore di Conte e il Tg2 è pallidamente leghista, ma il Tg3 e la rete sono e restano i rappresentanti dell’area di sinistra dominata allora dal Pci ed oggi dal Pd. I morti ammazzati furono ancora moltissimi: gli scontri fra neofascisti e gruppi armati di sinistra lasciavano cadaveri sulle strade mentre proseguivano anche le vigliacche esecuzioni con un colpo alla nuca delle Brigate Rosse o di Prima Linea, come quello che uccise il giudice Emilio Alessandrini che indagava sulla pista fascista di piazza Fontana. A proposito della strage di piazza Fontana, in quell’anno ci fu una prima sentenza che sembrava definitiva e non lo fu, ma che condannava i soliti Freda, Ventura (che riuscì a evadere e fu poi riacciuffato in Argentina) e Guido Giannettini. Assolti l’anarchico Mario Merlino e Marco Pozzan. Ma altre sentenze rovesciarono il verdetto fino a una estenuazione dell’attenzione pubblica che nel frattempo aveva dimenticato piazza Fontana e quel tremendo 12 dicembre del 1969 quando per la prima volta dai tempi dell’occupazione tedesca era avvenuta una strage di civili in un pomeriggio avanzato nella filiale della Banca dell’Agricoltura a Milano. Il primo febbraio l’ayatollah Khomeini lasciò Parigi che lo aveva ospitato per oltre dieci anni e sbarcò a Teheran accolto da folle deliranti che pensavano di aver conquistato la libertà dopo la cacciata di Reza Pahlavi. La dittatura di Khomeini e degli altri ayatollah mostrò al mondo occidentale qualcosa che ancora non aveva mai visto: un regime autoritario religioso sciita, cioè nemico dell’altra metà dell’Islam che è sunnita, come era ad esempio l’Iraq di Saddam Hussein con cui il nuovo Iran ingaggerà una guerra estenuante e sanguinosissima durante la quale il dittatore iracheno farà largo uso di gas letali. Sparisce in un attimo la Teheran moderna delle impiegate in minigonna dei tempi dello Shah e comincerà la repressione contro le donne costrette a indossare il velo e il burka che lascia visibili soltanto gli occhi. Il mondo faceva anche i conti con le scorte petrolifere perché il nuovo regime esercita un potere militare sul Golfo Persico da cui transitavano e transitano le petroliere che portano milioni di tonnellate di rifornimenti petroliferi in Occidente e fu subito ansiosamente l’apertura di un nuovo fronte: non più e non solo quello fra capitalisti americani e comunisti sovietici, ma quello con gli islamici. E neppure tutti gli islamici, ma solo quelli fedeli alla tradizione del cognato Alì del Profeta. L’Urss si era gettata in un certo senso a capofitto nel primo conflitto mondiale di carattere etnico e religioso attaccando l’Afghanistan che è in prevalenza sciita e dunque con una popolazione che allora come oggi guarda a Teheran più che alla Mecca. Tutto ciò era totalmente nuovo per il mondo occidentale che aveva pochissima confidenza con le diverse culture ed etnie di religione islamica. L’ayatollah Khomeini durante i quindici anni trascorsi in un compound parigino protetto dallo Stato francese, aveva spiegato in decine di interviste il carattere autoritario religioso della dittatura che avrebbe instaurato una volta rientrato nel suo Paese e dunque nessuno poté sentirsi davvero sorpreso. Tuttavia, la sorpresa fu egualmente enorme e ben presto sarebbe arrivato il momento della resa dei conti fra Iran khomeinista e gli Stati Uniti d’America, e il primo round andò nettamente a favore di Teheran, con la crisi degli ostaggi nell’ambasciata americana e il maldestro tentativo del presidente americano Jimmy Carter di risolvere la situazione con un colpo di mano miseramente fallito. Dunque, dopo le guerre fra Israele e i Paesi confinanti con lo Stato ebraico, adesso sia l’Occidente filoamericano che l’Oriente filosovietico si trovavamo a fare i conti con una realtà che avrebbe pesato sempre di più sullo scenario internazionale. In Italia a marzo termina il processo per lo scandalo Lockheed, di cui si è persa ormai traccia nella memoria collettiva, che invece quarantadue anni fa fu quasi travolta da una storia di tangenti e imbrogli che portarono alle dimissioni del presidente della Repubblica Leone su cui gravava il sospetto – mai dimostrato – di essere il misterioso “Antilope cobbler” (il ciabattino o il massacratore di antilopi) secondo una indicazione in codice di uno dei personaggi americani della trattativa che incluse in molti Paesi d’Europa e del mondo delle stecche destinate ai politici che facilitarono il contratto. Lo scandalo stroncò anche la carriera del leader democristiano Luigi Guy – totalmente innocente ma dato per due anni in pasto agli attacchi giornalistici e politici – e il segretario del Partito Socialdemocratico Mario Tanassi che fu condannato a un paio d’anni di servizi sociali. Ricordo di averlo intervistato all’inizio dello scandalo e Tanassi mi disse che sospettare di lui equivaleva a sospettare il papa di essere un molestatore di bambini. Il curioso paragone fece il giro del mondo e non giovò alla sua causa. Comunque, lo scandalo Lockheed, legato all’acquisto di alcuni aerei americani militari da trasporto Hercules, richiese la formazione di una Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Mino Martinazzoli che sarebbe diventato un giorno il segretario della Democrazia Cristiana, l’ultimo. Diventammo amici – io ero uno dei giornalisti di Repubblica che avevano seguito la vicenda fin dall’inizio – perché condividevamo la passione per il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein e del suo “Tractatus Logico-philosophicus”. Il Pci schierò uno dei suoi più onesti intellettuali, Ugo Spagnoli. Fu quella una battaglia durissima che anticipò la crisi della Repubblica prima ancora che cadesse il sistema basato sugli equilibri della guerra fredda. La vicenda giudiziaria italiana era peraltro figlia di quella americana: negli Stati Uniti era stata istituita un’altra Commissione di indagine congressuale sulle stesse vicende, guidata dal senatore Frank Church, che a sua volta era il seguito o lo sviluppo di un’altra inchiesta sulle malefatte della Cia, guidata dal senatore Pike e che già aveva messo a sconquasso il campo dei servizi segreti in tutto il mondo. L’inchiesta giudiziaria che aveva viaggiato parallelamente a quella parlamentare si era chiusa con un punto interrogativo: era davvero Giovanni Leone – stando al suo cognome – quel “divoratore di antilopi”, citato in un rapporto segreto americano? Ebbi la ventura di intervistare per ultimo Giovanni Leone poco prima della sua scomparsa per La Stampa e l’ex Presidente, profondamente traumatizzato ancora a molti anni di distanza mi giurò di non aver saputo mai nulla della storia di quegli aerei e mi ricordò quanto non avesse bisogno di farsi concedere mance dai fornitori stranieri per un tenore di vita che aveva raggiunto da molto tempo con i suoi mezzi di grande avvocato napoletano, prima ancora che come Presidente prima della Camera e poi della Repubblica. Io stesso ero stato uno dei giornalisti che, sia pure indirettamente, aveva fatto parte della campagna che specialmente l’Espresso e la Repubblica avevano condotto contro di lui con il massimo spiegamento di forze giornalistiche e confesso che provai un grande imbarazzo e per lui una pena profonda perché credevo alle sue parole. Pile di teschi a milioni: le foto invasero televisioni e giornali e settimanali rotocalco: il più feroce regime del mondo, quello dei Khmer rossi in Cambogia venne deposto con l’intervento armato della Repubblica del Vietnam e del suo esercito regolare che cacciano Pol Pot – in testa alle classifiche mondiali dei peggiori assassini di massa insieme a Stalin e Hitler. Ma di questo ed altro parleremo nella seconda puntata dedicata a questo anno di grandi eventi e impreviste trasformazioni.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1979

7 gennaio: Cambogia, dopo quattro anni di dittatura il regime comunista dei Khmer rossi di Pol Pot viene deposto dalle truppe vietnamite

9 gennaio: a Roma un commando neofascista irrompe negli studi di Radio Città Futura, ferisce a colpi di pistola cinque conduttrici e dà fuoco ai locali

16 gennaio: Giovanni Ventura, imputato per la strage di Piazza Fontana, evade: sarà arrestato in Argentina in agosto

24 gennaio: a Genova le Brigate Rosse uccidono l’operaio-sindacalista Guido Rossa

29 gennaio: Milano, un commando di Prima Linea uccide il giudice Emilio Alessandrini

2 febbraio: il bassista dei Sex Pistols, Sid Vicious, viene trovato morto per overdose a New York

18 febbraio: Sahara, nevica per mezz’ora nel deserto del Sahara

23 febbraio: Catanzaro, si conclude il processo per la Strage di Piazza Fontana: condannati all’ergastolo dalla Corte d’assise i neofascisti Franco Freda, Giovanni Ventura e Guido Giannettini; è riconosciuta l’inconsistenza della pista anarchica con l’assoluzione di Pietro Valpreda. Assolti Marco Pozzan e Mario Merlino

4 marzo: le immagini inviate da Voyager I mostrano che Giove è circondato da un anello

26 marzo: trattato di pace fra Egitto e Israele

4 maggio: Regno Unito, vittoria elettorale dei conservatori di Margaret Thatcher, prima donna ad occupare la carica di primo ministro

20 giugno: Roma, la comunista Nilde Iotti è la prima donna ad essere eletta Presidente della Camera dei deputati

1º luglio: viene immesso in vendita in Giappone dalla Sony il primo lettore stereo portatile, il Walkman

16 luglio: Iraq, Saddam Hussein diventa presidente della repubblica

4 agosto: Roma, formazione del primo governo Cossiga, composto da DC, PSDI e PLI con l’astensione di PSI e PRI

27 agosto: rapiti in Sardegna Fabrizio De André e Dori Ghezzi

12 settembre: Pietro Mennea stabilisce il record del mondo nei 200 metri piani con il tempo di 19”72

25 settembre: il magistrato Cesare Terranova viene ucciso a Palermo insieme al maresciallo Lenin Mancuso

6 ottobre: Papa Giovanni Paolo II visita gli Stati Uniti

9 dicembre: l’Oms dichiara eradicato il Vaiolo

22 dicembre: liberato Fabrizio De André (Dori il giorno precedente) dall’Anonima sequestri sarda

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1979, l’anno della guerra dell’Islam all’Occidente. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Dicembre 2021. A Teheran il 10 febbraio 1979 la guardia imperiale dello Scià attacca i cadetti dell’aviazione schierati con gli islamici e fa un massacro. Subito dopo gli insorti contrattaccano la Guardia imperiale e il primo ministro Baktiar, dopo la resa fugge in esilio. Immediatamente si forma una specie di legione volontaria di agenti islamici che cercheranno di farlo fuori a Parigi e il loro arresto da parte della polizia francese provoca rappresaglie islamiche. Intanto le cose precipitano anche in Afghanistan dove l’invasione sovietica provoca catene di azioni folli di agenti segreti e soldati di ventura e ancora rappresaglie e delitti: l’unica logica di questi anni è l’assassinio, il capro espiatorio, il martirio, la messa a morte, la minaccia di altri delitti e il 13 febbraio anche l’ambasciatore americano a Kabul è liquidato in un attacco. Il mondo occidentale fatica a capire di essere nel mezzo di un macello di cui pure è responsabile. Perché la Francia ha ospitato Khomeini e lo ha spedito a Teheran? Perché gli americani cedono sia in Iran che in Afghanistan? E in Italia si susseguono come del resto in Libia e in Spagna riunioni di tutti i gruppi rivoluzionari, mercenari e patrioti, infiltrati e spie, grande traffico di armi e grandi partite a poker con le teste degli ostaggi. Fra il 16 e il 20 febbraio sono fucilati in Iran otto generali dello Scià. E pochi giorni dopo, il 28, scoppia una guerra aperta fra i due Yemen, quello del Nord e quello del Sud. Ma la partita vera si sta giocando sul fronte arabo-israeliano: l’Egitto di Anwar al-Sadat accetta i negoziati con Gerusalemme e si prepara la prima vera pace per lo Stato ebraico, ma Sadat la pagherà con la propria pelle. E dunque il 16 marzo Anwar al-Sadat e Menachem Begin firmano la pace fra Egitto e Israele sotto gli auspici di Jimmy Carter e la straordinaria cerimonia è trasmessa in mondovisione. Secondo gli accordi, Israele caccerà dal Sinai tutti i coloni che si erano affrettati a occupare terre e costruire case, per restituire il fecondo deserto all’Egitto: lo stesso deserto che i carri armati di Moshe Dayan avevano disceso nella loro vittoriosa controffensiva minacciando di arrivare fino al Cairo. È previsto uno scambio di ambasciatori e una certa autonomia per i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania entro il 1985. Ma i venti della guerra latente che è sempre pronta a esplodere e che per fortuna non esplose soffiano ancora più forte. L’Urss di Breznev si sente circondata, vede come imminente lo schieramento degli euromissili occidentali in risposta allo schieramento dei suoi Ss-20 e il 17 marzo raduna nel Mediterraneo la più grande flotta dai tempi della guerra: dieci unità fra cui le portaerei Minsk e Kiev, più l’incrociatore Tashkent e la nave da sbarco Ivan Rogov. Negli Stati Uniti il presidente Jimmy Carter sembra colto alla sprovvista e non sa come reagire, ma la Casa Bianca è sia irritata che spaventata, Intanto in Iran procede la rivoluzione che non è solo politica ma culturale e religiosa con un bagno di sangue uno dopo l’altro. Il 19 marzo le truppe iraniane fanno 179 morti fra gli indipendentisti del Kurdistan. Israele si allarma perché vede consolidarsi il potere di un nuovo grande nemico dove prima aveva un grande amico e decide di preparare piani che non ha mai smesso di aggiornare. Israele ha bisogno di chiudere in fretta il capitolo egiziano e così il 26 marzo comincia a evacuare il Sinai mentre intanto soffia un vento limaccioso di unità musulmana contro l’Occidente, tanto che anche la Libia di Gheddafi si autoproclama “Popolare” con un referendum che la consacra repubblica islamica. È un’altra sconfitta per gli occidentali. Durante la cerimonia per consacrare il nuovo stato islamico, alla presenza di Gheddafi, oltre che del premier maltese Dom Mintoff, gli inglesi abbandonano Malta ammainando la bandiera da forte sant’Angelo. La Nato chiude ogni rapporto: si sta creando un nuovo fronte che comprende alcuni gruppi palestinesi, i Paesi che condannavano l’Egitto, i Fratelli Musulmani che hanno il vento in poppa e il nuovo Iran fondamentalista con evidenti intenzioni egemoni nella regione. Il 31 marzo Khomeini supera a gonfie vele il referendum popolare che aveva indetto per ottenere una conferma a valanga e il primo aprile viene proclamata la Repubblica islamica dell’Iran. L’Occidente reagisce convulsamente: la Nato vuole mostrare i muscoli, più ancora degli americani e fra il 12 e il 13 maggio viene lanciata l’esercitazione Nato di Napoli “Dawn Patrol 79” con cento navi e 400 aerei di Italia, Turchia, Stati Uniti, Grecia, Gran Bretagna, Olanda, Portogallo. Partecipa massicciamente anche la Francia che non fa parte della Nato e due giorni dopo viene deciso a Bruxelles un aumento delle spese militari del 3 per cento annuo. Tutti percepiscono il vento di guerra e la linea calda fra Cremlino e Washington viene fortemente potenziata. Risultato: il 15 giugno Breznev e Carter firmano a Vienna il trattato Salt II per la limitazione delle armi nucleari, di scarso valore effettivo, ma serve per confermare davanti al mondo che nessuno ha veramente intenzione di scatenare una guerra. Un giornale iraniano lancia l’idea di un concorso a premi con viaggio e vacanze pagate a chiunque ammazzi in qualsiasi parte del mondo lo Scià Reza Pahlavi. A Teheran proseguono le fucilazioni di massa. L’ayatollah Khalkhali, capo del tribunale iraniano, annuncia: “Chi uccide lo scià esegue una sentenza già emessa”.

Gli Stati Uniti preoccupati della possibile ondata di attentati e atti terroristici reintroducono la pena di morte che era stata sospesa con una moratoria durata alcuni anni e così tutto il mondo dà notizia il 25 maggio della prima esecuzione in Florida. L’assalto dei Fratelli Musulmani procede intanto in Siria dove si registra una strage di cadetti dell’accademia militare assassinati dalla setta dei Fratelli Musulmani che vengono però arrestati e subito impiccati: quattordici forche mostrano al mondo il pugno duro di Assad. All’inizio del mese di agosto, accade un fatto che turba molto la coscienza degli italiani: il famoso e chiacchieratissimo finanziere Sindona scompare dall’hotel Pierre di New York dove abitava. Avrebbe dovuto comparire davanti alla corte federale di Manhattan per rispondere di bancarotta fraudolente ma fa spargere la voce secondo cui sarebbe stato rapito. Ma è una messinscena: è un finto rapimento, visto che Sindona riapparirà in Sicilia e secondo la ricostruzione che si farà in seguito, saranno proprio le sue tracce di finto fuggiasco a far scoprire gli elenchi della P2 a Castiglion Fibocchi. Sembra una missione preparata da altri eseguendo un piano. Infatti Michele Sindona, tornato clandestinamente dalla Sicilia così come clandestinamente era partito, ricomparirà a New York il 16 ottobre per essere condannato a dieci anni ed estradato in Italia dove deve rispondere di bancarotta fraudolenta e omicidio volontario. Qualcosa di grosso bolle nella pentola italiana e si cominciano ad affacciare una nuova serie di misteri eterodiretti. Ma da chi? In agosto il governo di Kabul non riesce a contenere i ribelli molti dei quali riparano nell’Iran khomeinista dove il 27 agosto le forze speciali della rivoluzione islamica decidono di eliminare fisicamente i curdi che non intendono accompagnare il nuovo ordine. E così avviene una mattanza di cui in Occidente pochi parlano perché i curdi sono giustiziati a centinaia dalla Guardia della Rivoluzione e le poche foto che giungono in Occidente mostrano uomini sdraiati in terra uccisi a revolverate. I regimi si stanno assestando a colpi di stragi ma nel mese di settembre arriva la stretta finale in Afghanistan con un colpo di Stato che destituisce il primo ministro Taraki, sostituito da uno ancor più filosovietico di lui, una creatura del Kgb di nome Hafizullah Amin. In Italia avviene un fatto che avrà una grande scia e che dimostrerà come il territorio nazionale sia dominato dalle fazioni mediorientali connesse con l’area dell’Autonomia, a sua volta vicina alle Brigate Rosse. Nel mese di settembre il brigatista Mario Moretti va a Beirut con il panfilo “Papago” per rifornirsi di armi palestinesi, apparentemente sotto lo sguardo non ostile del capo dei nostri servizi segreti, il colonnello Giovannone che finirà col farsi incriminare con l’accusa di aver protetto questo e altri traffici fra brigate rosse, palestinesi, agenti stranieri e mercanti di petrolio. Il 4 Novembre comincia il sequestro di 63 ostaggi a Teheran nell’ambasciata americana: i cosiddetti studenti islamici chiedono che venga loro consegnati dagli Stati Uniti lo scià Reza Pahlevi e comincia una delle più angosciose operazioni diplomatiche, militari ed ideologiche di quegli anni. Benché 13 ostaggi fossero stati liberati per benevola concessione di Khomeini, il sequestro durerà 444 giorni e segnerà alla fine la vittoria elettorale del presidente repubblicano Ronald Reagan in Usa. Carter si decise a mandare alcune navi da guerra con la portaerei Kitty Hawk nell’Oceano indiano, con una serie successiva di manovre navali americano-spagnole, mentre tutto il mondo parla di preparativi in vista di un attacco nucleare. Il ministro degli Esteri sovietico Gromyko a questo punto compie un gesto fortemente intimidatorio presentandosi in Spagna il 19 novembre per minacciare di rappresaglie gli spagnoli per dissuaderli dall’entrare nella Nato. In Italia accade un altro fatto grave e preoccupante: l’8 novembre ad Ortona in provincia di Chieti una pattuglia di carabinieri trova due lanciamissili Sam 7 antiaerei di fabbricazione sovietica su un furgone Peugeot fermo. Sono arrestati tre militanti dell’”area dell’autonomia” romana e poi a Bologna l’esponente del Fplp Abu Anzeh Saleh. Daniele Pifano, noto leader degli “autonomi” del Policlinico di Roma e capo del “Collettivo di via dei Volsci”, è fra gli arrestati con altri personaggi dell’area. Gli imputati saranno tutti condannati a diverse pene detentive ma Abu Anzeh, che dovrebbe scontare 5 anni, sarà scarcerato nel 1981 per decorrenza dei termini. Dal novembre 1983 è irreperibile. Nel corso del processo l‘organizzazione palestinese di George Habash, l’Fplp, inviò una lettera ai giudici per scagionare gli autonomi italiani: quel missile – diceva Habbash nella lettera – era in transito in Italia, essendo destinato al loro gruppo. Ma i palestinesi sostengono anche che quel viaggio era noto alle autorità italiane. Intanto, il presidente Jimmy Carter si prepara ad andare alla guerra, ma la perderà. Il 20 novembre Carter dichiara di non escludere un intervento militare mentre alla Mecca si consuma un massacro di fedeli venuti dall’Iran. L’episodio si aggiunge agli altri alimentando un’ondata di antiamericanismo nel mondo islamico eccitato dalla vicenda degli ostaggi di Teheran, Il 6 dicembre è la data di un evento storico e drammatico: è approvata dal Parlamento italiano l’installazione degli euromissili, con il voto contrario del Pci. La Nato decide di installare 572 euromissili nucleari in Germania, Italia, Olanda, Belgio e Gran Bretagna per il 1983. Per il mondo sovietico questa accettazione è presa quasi come una dichiarazione di guerra, anche perché il presidente Carter che erra stato sempre molto mansueto e poco incline a mostrare i muscoli, annuncia la formazione di flotte americane “in tutti i punti caldi del mondo”. Il 29 dicembre l’Unione Sovietica invade l’Afghanistan con 150 mila soldati, 100 carri armati e 200 aerei da trasporto truppe. Ufficialmente l’Urss risponde all’appello di Babrak Karmal che ha eliminato Afizullah Amin. È un disastro totale: i comunisti si fanno la guerra, i nuovi sciiti sostenuti dall’Iran insorgono: l’intervento sovietico la rende ancora più confuso e sanguinoso. La resa dei conti arriverà poche settimane dopo, all’inizio del 1980 che si preannuncia come un altro anno terribile e tuttavia con germi di speranza e segnali di nuove catastrofi.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1980: la Milano da bere e la vita dietro ai sacchi di sabbia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Dicembre 2021. Gli anni Ottanta nel retrobottega della memoria e secondo la tradizione, furono gli anni della Milano da bere, della fine della guerra civile, della ripresa della vita normale, di un rampante ritorno sulla scena degli Stati Uniti con l’elezione del vecchio attore di film western e poi governatore della California Ronald Reagan. Il decennio si chiuse con il crollo pilotato per tappe dell’impero sovietico con una trattativa tra l’ultimo segretario del Pcus Michail Gorbaciov e i due leader dell’occidente armato, Margaret Thatcher e il successore di Jimmy Carter, il più sfortunato dei presidenti americani per la bruciante sconfitta anche militare di fronte alla nuova potenza degli ayatollah iraniani. Ma questo fu il finale di partita ancora lontano ma di cui si percepiscono i sintomi e che fece dire a qualche storico affrettato che la storia stessa era finita e che il nuovo mondo sarebbe stato quello dominato dalla mono-potenza americana.

Le cose furono molto meno lineari di quello che si ricorda. Partiamo proprio dall’anno di rottura: il 1980. In Italia avvennero due stragi che ancora chiedono di verità: quella di Ustica e quella di Bologna avvenute a distanza di circa un mese l’una dall’altra e che molti (me compreso) considerano probabilmente collegate. Devo avvertire i lettori che su questi fatti la mia opinione diverge da quella del comune sentire che sbrigativamente si può definire di sinistra. Secondo la visione accreditata anche da sentenze della magistratura il DC9 di Ustica sarebbe stato abbattuto da missili destinati a un aereo su cui viaggiava Gheddafi con la complicità di ufficiali italiani che avrebbero per questo pagato un carissimo prezzo e quella di Bologna del 2 agosto liquidata come una dissennata e criminale azione fascista senza capo né coda. Secondo la versione che mi dette Francesco Cossiga presidente della Repubblica e molto addentro le segrete cose, la strage di Bologna sarebbe avvenuta per un incidente causato dalla disattenzione di chi portava la valigia con l’esplosivo che non avrebbe saputo mettere in sicurezza il detonatore.

Il grande fatto italiano di quell’anno fu la sconfitta militare e politica delle brigate rosse, dell’area circostante dell’autonomia e quindi della vittoria dello Stato su misteriosi personaggi che per qualcuno erano “boy scout della rivoluzione” e per altri delle marionette al servizio di potenze straniere, ma diciamo pure dell’Unione sovietica e della Germania orientale. E poi ancora un evento di portata gigantesca che quasi nessuno fu in grado – quando accadde in quell’anno rivoluzionario – di valutare politicamente: il terremoto nella Irpinia che provocò danni enormi, moltissime vittime e una serie di scandali successivi che portarono alla luce malversazioni, imbrogli, ipocrisie e la spaccatura civile dell’Italia con l’affermarsi delle molte “Leghe” del Nord, per prima la “Liga Veneta” e poi quella lombarda. Io passai molte settimane come cronista sia nelle terre del terremoto del Friuli del 1976, che a quello del 1980 nell’Italia del Centro-Sud. Fu lì che si spaccò l’Italia. Fu a quel punto che la Lega nacque come insurrezione morale contro il sud corrotto, inerte, civilmente sconnesso e guidato da politici fortemente inquinati.

I due terremoti erano a quel tempo fortemente con connessi con la memoria collettiva degli italiani: il terremoto del Friuli, che pure era stato estremamente violento e distruttivo, aveva portato sui teleschermi italiani un popolo, quello friulano, che aveva opposto alla violenza della natura un comportamento civile non gridato, paziente e onesto. Tutti coloro che allora andarono nelle città del primo terremoto ricordano come i discendenti del Forum Julii (ovvero delle legioni romane che andarono costituire il segmento di quella Regione, discendenti che ancora parlano un dialetto romanzo diverso dall’italiano) presero la pala, caricarono i morti, erano in prima linea insieme agli uomini della protezione civile e delle forze di polizia nel riparare, soccorrere, agire in laborioso silenzio e uniti in una un forte legame collettivo. In Irpinia, sotto gli occhi di tutti, accadde l’opposto. Tutti vedemmo una società collassata che nel dolore si esprimeva prevalentemente con urla, ma senza scavare, salvare, coprire e nutrire, i giovani seduti sui muretti a guardare i soldati e gli uomini della protezione civile.

Fu uno shock per tutta l’Italia. Il nord insorse in maniera sempre più aspra e sferzante dichiarando pubblicamente che i due popoli del nord del Sud non avevano nulla a che vedere fra di loro e che quello del nord aveva diritto a chiedere un’autonomia crescente e poi la possibilità di federarsi con altre aree europee e insomma si sviluppò quell’idea a metà fra federalismo e secessione che fu la politica di Umberto Bossi. L’Irpinia fu un banco di prova tremendo perché si scoprirà abbastanza presto che tutti i fondi stanziati per le aree devastante nel terremoto sarebbero stati assorbiti dalla malavita e dalle camarille politiche sparsi tra rivoli di corruzione e di taglieggiamento. Inoltre, questo lo ricordo perché l’ho visto con i miei occhi, non esistevano costruzioni antisismiche salvo uno stabilimento della Fiat e una scuola che infatti rimasero in piedi salvando chi c’era dentro. Il resto fu spappolamento delle città e delle coscienze. Molte urla, molti reclami, una assenza di coesione civile deplorevole spietatamente rappresentata dai filmati e i reportage giornalistici. A Torino si svolse la famosa marcia dei Quarantamila quadri Fiat, che ebbe l’effetto di un macigno contro la cristalleria del sindacato che fino allora era stato visto dall’opinione pubblica come un’entità onnipotente, anche perché sempre tallonato dall’area dell’autonomia e delle brigate rosse piemontesi.

Sarà stata una riuscita messa in scena manovrata dalla famiglia Agnelli, proprietaria della Fiat, ma c’ero e sono testimone dello shock dolcemente traumatico con cui una parte dell’Italia prese atto di un evento inatteso ma sperato: finiva lo strapotere intimidatorio che collegava parte dei sindacati con quella dell’area dell’autonomia operaia che aveva esercitato per oltre un decennio un una egemonia fatta di gesti e minacce. Quella marcia in aperta sfida al sindacato e alle brigate rosse fu da molti considerata come una improvvisa, insperata vittoria non già della destra ma della normalità. Anche su questo episodio il dibattito è ancora acceso e le opinioni sono divise: mi limito a ricordare e sottolineare lo stato emotivo con cui quell’evento fu percepito da qualcuno come un momento di liberazione. L’anno era cominciato con eventi fra loro non collegati, ma che disegnarono un’epoca, come l’uscita con enorme successo mondiale de Il nome della Rosa di Umberto Eco e successivo film con Sean Connery. In Italia, però, si registravano costantemente esecuzioni di condanne a morte: il giorno dell’Epifania fu ucciso Piersanti Matterella, fratello dell’attuale presidente Sergio, che all’epoca era segretario regionale della Dc siciliana.

Fu un delitto orrendo come tutti gli altri delitti di mafia, con un carico insopportabile di sfida e di vendetta. La mafia era allora in aperta concorrenza con i carnefici delle brigate rosse che a febbraio uccisero il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Vittorio Bachelet. Eravamo ancora abituati a questo andamento della cronaca che oggi ci sembra così lontana. Le brigate rosse, la vita dietro i sacchetti di sabbia, Cosa Nostra all’apice della sua potenza, una guerra fredda sempre più minacciosa specialmente dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan per cui Jimmy Carter annuncia il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca che si svolgeranno senza gli atleti americani, con grande saccheggio di medaglie d’oro da parte degli atleti sovietici e tedeschi orientali. Il mondo sovietico è in affanno: il dissidente Andrej Sacharov viene spedito al confino a Gorki. In Europa, e in Italia in particolare, prende consistenza anche dentro il Pci la corrente ostile ai sovietici.

Erano tempi in cui periodicamente scoppiava lo scandalo del “calcio-scommesse” che portava a galla imbrogli miliardari e fu a causa di quel fattaccio che il giornale in cui lavoravo, Repubblica, mi spedì al seguito di una delle squadre coinvolte, il Bologna, nella speranza di carpire dichiarazioni di dirigenti e giocatori. Fu così che mi trovai ad assistere per la prima volta in vita mia a una partita di calcio, sport cui sono allergico a meno che non vinca la Roma. Il Bologna giocava contro il Catanzaro nel capoluogo calabrese e trovai delizioso il comportamento dei tifosi del Catanzaro, i quali anziché guardare la partita seduti nelle tribune, correvano a sciame intorno al campo di gioco seguendo l’azione dei giocatori e quando un giocatore del Bologna attaccava verso la porta avversaria, la massa dei tifosi urlava “Ma unni cazzu vai cu stu cazzu ‘i palla?”. Scrissi dunque un pezzo in cui raccontavo questo evento divertente mai immaginando che il mattino dopo mi chiamasse un telegiornale della Rai per chiedermi di rispondere al sindaco di Catanzaro che mi aggredì urlando: “Perché lei odia Catanzaro e la Calabria?” Spiegai inutilmente che io adoro Catanzaro e la Calabria, ma fu tutto inutile e dovetti pretendere atto che in quella città ero considerato indesiderabile.

Un fattarello minimo che mi fornì un’idea della dimensione del campanilismo italico non solo del Sud, perché poco dopo ebbi “l’ostracismo nordico” della città di Mantova agitatissima per un mio articolo sulle siringhe che si trovavano nel quartiere Lunetta, per cui sono ancora ricordato come una canaglia, ma perdonato a quarant’anni di distanza. La crisi esistenziale del comunismo colpisce anche Cuba dove Fidel Castro prende una decisione clamorosa: dice ai cubani che chi non si sente a suo agio nella sua patria, può fare le valigie e andarsene senza trovare ostacoli. Le folle che si ammassano agli imbarchi vengono chiamate “gusanos”, vermi. Ad agosto accadono fatti che avranno un peso nell’anno successivo e oltre. Papa Wojtyla, polacco, assume il comando del sindacato Solidarnosc e da Roma conduce le trattative con il governo comunista messo in crisi dalle ondate di scioperi nei cantieri navali di Danzica. Il papa diventa il nemico pubblico numero uno dell’impero sovietico e l’anno successivo subirà un attentato a colpi di pistola che fallì per un solo millimetro del percorso della pallottola e il mondo si troverà – senza averlo davvero capito bene – sull’orlo della terza guerra mondiale. E questa sarà un’altra storia cui dedicheremo spazio e alcune rivelazioni.

CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1980

6 gennaio: ucciso dalla mafia il Presidente democristiano della Regione Siciliana Piersanti Mattarella

20 gennaio: il presidente Usa Jimmy Carter annuncia il boicottaggio alle Olimpiadi di Mosca

9 febbraio: Toto Cutugno vince il XXX Festival di Sanremo

19 marzo: il giudice Guido Galli viene assassinato dal gruppo Prima Linea all’interno dell’Università Statale

23 marzo: esplode lo scandalo delle scommesse nel mondo del calcio

10 maggio: inizia in Giappone la commercializzazione del videogioco Pac-Man

22 giugno: si apre la riunione del G7 a Venezia

25 luglio: il gruppo hard rock australiano AC/DC pubblica l’album Back in Black che diventa il secondo album più venduto della storia della musica

2 agosto: alle 10:25 una bomba esplode nella sala d’attesa della stazione di Bologna causando 85 morti e 203 feriti. Quella che sarà ricordata come la strage di Bologna

14 ottobre: marcia dei quarantamila: quadri, impiegati della Fiat, ma anche di operai e comuni cittadini che, inaspettatamente ed in contrapposizione ai sindacati, manifestano per il ritorno alla normalità della città, scossa dalle proteste per la messa in Cassa integrazione guadagni di ben 24.669 operai

4 novembre: il repubblicano Ronald Reagan è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America

23 novembre:  terremoto dell’Irpinia. Alle 19:34 una scossa di 6,9 sulla magnitudo momento pari al X grado Mercalli provoca circa 3000 morti, 9000 feriti, 280.000 sfollati e danni incalcolabili tra Campania e Basilicata

12 dicembre: viene rapito dalle Brigate Rosse il giudice Giovanni D’Urso

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1980. Strage di Ustica, la verità negata della bomba a bordo del Dc9 Itavia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Dicembre 2021. Quella di Ustica è una storia scritta su pagine bruciate della storia italiana. E non è bene parlarne come di una questione aperta, perché esiste una sorta di comitato di vigilantes della menzogna che campano di rendita sulla menzogna, e ne hanno fatto per così dire un logos, un marchio di fabbrica. Mettiamoci nelle braghe dei tempi, o come si dovrebbe dire, contestualizziamo perché quella di Ustica è una faccenda, estremamente divisiva, perché divide chi ha mentito da chi ha detto il vero. E perché malgrado le sentenze – che rispettiamo e troviamo tuttavia molto obiettabili, per così dire, si tratta ancora di una strage senza autore, o con molti autori in circostanze in parte vere, in parte dubbie e per una gran parte figlie di ipotesi che poggiano su altre ipotesi.

Ciò che viene taciuto è che in quella strage così come nella successiva della Stazione di Bologna un mese più tardi, è in perfetta funzione il “Lodo Moro” anche se Moro non c’entra, ovviamente, visto che il Presidente della Dc era già stato eliminato con una delle più sfacciate, mostruose e ben protette operazioni criminali e politiche della nostra triste Storia. Se fu un attentato con bomba a bordo, allora gli autori dell’attentato vanno certamente cercati nell’area islamica allora attivissima in Italia ed era l’area dell’Olp di Yasser Arafat, ma più che altro di un altro leader dell’organizzazione per la liberazione della Palestina, il dottor George Abbash, cristiano peraltro, e altri membri militari attivi per esempio nell’Fplp.

Noi non sappiamo chi mise la bomba ma tutte le informazioni e le prove portano solo nella direzione della bomba e anche i pubblici ministeri dovettero ammettere che solo l’ipotesi della bomba soddisfaceva tutti gli indizi e le prove, ma è avvenuto che per un patto tacito e terribilmente operativo, non si dovesse in alcun modo ammettere che l’aereo fosse stato turato già con i suoi passeggeri da una bomba come probabile rappresaglia, già annunciata dai gruppi terroristici di allora. La tesi della bomba è stata derisa e criminalizzata anche perché l’aereo partì in ritardo e dunque “come potevano i terroristi sapere del ritardo?”. Potevano e come: in mille modi. Per esempio, azionando un timer che si sarebbe avviato solo al decollo, oppure con un timer a pressione e altri tipi di innesco perfettamente aggiornati. Secondo l’onorevole Zamberletti che era allora capo della Protezione civile, Ustica fu l’avvertimento e Bologna fu la punizione. Molti sono gli indizi, ma nessuno ha voluto indagare in quella direzione, dunque, se non sono state cercate le prove allora reperibili, è ovvio che oggi sia impossibile trovarne.

Ma tutta la vicenda di Ustica avvenne all’insegna del linciaggio del dissidente, della diffamazione del diverso parere, una compattezza sfacciata del pensiero unico e unificato. Colgo quindi l’occasione di questi ricordi cronologici per tentare di spiegare meglio il disastro materiale e morale che passa sotto il nome convenzionale di Ustica.  La strage di Ustica del giugno 1980, avvenne quando il DC-9 della Compagnia Itavia, decollato con grande ritardo da Bologna e diretto a Palermo si inabissò per un evento improvviso (una bomba? Un missile? Un aereo che volava parallelamente a distanza cortissima?) nelle acque che circondano l’isola di Ustica. Morirono tutti, ma si disse subito che c’era qualcosa di unico, eccezionale e anzi inaudito in questo disastro e io allora ero un semplice cronista, anche piuttosto meticoloso. I lettori mi perdoneranno se cerco di ricordare a chi non ha vissuto quell’epoca, l’importanza sia emotiva che reale della guerra fredda. La guerra fredda interveniva anche in casi clamorosi di qualsiasi genere e in quegli anni si dava regolarmente la colpa agli americani. In subordine ai francesi.

La domanda che quasi tutti si posero fu: come e perché gli americani hanno abbattuto l’aereo di Ustica? O in seconda battuta i francesi che erano molto presenti sullo scenario europeo di quegli anni con molte azioni segrete dei loro corpi speciali. Poi, più tardi, riesaminai la questione sotto ogni aspetto anche come membro del Parlamento. E infine scrissi un libro che per metà è composto da documenti intitolato Ustica verità svelata per l’editore Bietti, libro ormai fuori commercio. Mi rendo conto che quanto sto per dire non è condiviso dalla maggior parte dei miei concittadini, i quali sono stati a mio parere intossicati con una azione crescente. E tenuti all’oscuro dei fatti reali. Non mi aspetto quindi di farmi molti nuovi amici raccontando dei fatti che considero molto importanti e totalmente trascurati.

Primo fatto: la strage di Ustica avviene un mese prima (33 giorni) di quella di Bologna. Che sia ipotizzabile una relazione? Risposta: mah.

Secondo elemento: che cosa fece di colpo cadere l’aereo che stava placidamente avvicinandosi all’aeroporto di Palermo Punta Raisi? Due le ipotesi più gettonate: missile, o bomba a bordo. Il DC9 della compagnia Itavia caduto a Ustica aveva una toilette nel centro della fila di sinistra (guardando verso la cabina di pilotaggio) e questo elemento avrà la sua importanza.

Quanto all’ipotesi del missile, appresi che i missili aria-aria di quei tempi non colpivano il loro bersaglio come un ago può colpire un palloncino, ma quando i sensori rilevavano una determinata distanza col bersaglio, gli “esplodevano in faccia” con milioni di frammenti che polverizzavano il bersaglio. L’aereo di Ustica, che fu ritrovato sui fondali da una compagnia di recuperi sottomarini, era smembrato in cinque o sei grandi pezzi, ma non era stato mai investito da una miriade di schegge, né presentava un foro d’entrata. Telefonai a un uomo chiave di quella tragedia: il colonnello dell’aeronautica Guglielmo Lippolis che era in forze presso la Protezione Civile. Bisogna ricordare che i corpi e i sedili restarono a galleggiare per molte ore e che l’Espresso pubblicò in copertina una raccapricciante foto in cui si vedevano tutti questi cadaveri galleggianti legati alla loro poltrona prima di inabissarsi. Telefonai al colonnello, con cui in seguito parlai altre due volte e aveva la voce rotta dall’emozione: «Vede – mi disse – io vengo da un’altra tragedia: quella di un barcone carico di fuochi artificiali, esploso in acqua uccidendo tutti gli uomini dell’equipaggio. E siamo riusciti a ricostruire secondo le bruciature riportate dalle vittime le loro posizioni rispetto al punto dell’esplosione.

Qui è la stessa cosa: con l’elenco dei passeggeri e i loro sedili abbiamo subito trovato quelli che erano più vicini al fornello dell’esplosione e poi le bruciature sono sempre meno intense. È un lavoro terribilmente triste – concluse Lippolis – ma il risultato è inequivocabile: questo aereo è stato danneggiato e fatto inabissare da una bomba situata esattamente dietro il pannello della toilette». Gli chiesi se avrebbe testimoniato portando in tribunale questa sua verifica diretta sui cadaveri del DC9 di Ustica e lui mi assicurò che l’avrebbe fatto immediatamente. Quando ci riparlammo il processo volgeva al termine con i protagonisti divisi in molti partiti: quello del missile, della bomba del quasi-contatto, dello scontro frontale in aria. Erano stati creati due scenari del tutto immaginari ma molto utili per il wargame processuale: fu inventata di sana pianta la storia secondo cui Muammar Gheddafi, il dittatore libico, viaggiasse su un mig di ritorno da un Paese dell’Est e che dei caccia americani, o forse francesi, tentarono di abbatterlo, e che il pilota libico trovandosi a portata del DC9 Itavia ebbe la bella idea di mettersi sotto la pancia dell’aereo il quale si sarebbe preso un missile destinato a Gheddafi, nell’omertà generale.

Il secondo scenario è quello del wargame: nel corso di una esercitazione elettronica, in parte simulata e in parte vera, operata dalla nostra aeronautica militare, ops, parte un missile vero che abbatte il DC9. Richiamai dunque Lippolis e gli chiesi se avesse testimoniato: «Sì, mi hanno chiamato a testimoniare ma mi hanno impedito di raccontare ciò che avevo visto e controllato di persona e mi fu ingiunto di rispondere esattamente alle domande che mi venivano fatte. ed erano domande di dettaglio che non avevano nulla a che vedere con la mia posizione di testimone». La testimonianza di Lippolis dimostrava senza dubbio che il DC9 fosse esploso per una bomba a bordo e che i pubblici ministeri pian piano se ne convinsero, ma c’era un problema. Il problema era il necessario risarcimento alle famiglie delle vittime che non fossero quei quattro soldi dell’assicurazione. Ci voleva un colpevole, un escape goat, un capro espiatorio che ponesse sul banco dei condannati uomini dello Stato affinché lo Stato potesse risarcire in modo adeguato le vittime e le loro famiglie.

L’aereo fu tirato su a pezzi dal fondo del mare dove un sottomarino francese addetto a questo genere di ricerche ritrovò quasi tutti i pezzi, salvo l’estremità della coda. Come li trovò? Attraverso la facile soluzione di un problema fisico: se prendete un aereo che vola a quella velocità secondo quella traiettoria e un oggetto esplosivo lo disarticola nelle sue giunture, considerata velocità, massa e forma, dove finiranno i pezzi? Qui, là, e laggiù. E il sottomarino trovò tutto e il caso fu risolto: il disgraziato aereo è tornato in un hangar a grandi pezzi separati, ma non c’è alcuna traccia di missile. Il pannello che fu colpito dall’esplosione manca, probabilmente disintegrato. Il segreto di Stato copre la tremenda bugia e quando fu chiesto al governo Conte di dar prova di amore per la verità, il segreto fu confermato.

E poi c’è la vicenda del fisico inglese Mark Taylor che è uno dei massimi esperti di attentati aerei celebre anche per aver risolto il caso dell’aereo caduto nei cieli di Lockerbie dopo l’esplosione di una bomba a bordo messa da agenti libici, cosa che costrinse Gheddafi a risarcire le famiglie delle vittime.

A Taylor che spiegava per filo e per segno, dopo aver analizzato tutti i materiali, in che modo una bomba esplosa nella toilette avesse fatto collassare la struttura dell’aereo, fu opposta una obiezione stupidamente diabolica, che sentiamo puntualmente recitata con fiero cipiglio in televisione, e cioè che il sedile del gabinetto era intatto. Come può restare intatta una tavoletta del gabinetto se a pochi metri scoppia una bomba? Taylor rispose che è possibilissimo perché l’energia esplosiva non investiva la tavoletta nella sua traiettoria energetica e persino nei più feroci bombardamenti ci sono oggetti che si trovano in una posizione immune dalle contorsioni.

Taylor fu letteralmente cacciato dal tribunale. con ignominia. Lo ritrovai nell’aula magna del Cnr davanti a una enorme lavagna a spiegare la strage di Ustica causata da una bomba con tutte le coordinate e anche il materiale chimico trovato nella toilette dell’aereo. fibra per fibra, grado per grado, secondo per secondo, equazioni e un tormentato borbottare in inglese alla sola presenza di alcuni giornalisti specialisti di aeronautica e io soltanto che avevo seguito la sua triste vicenda e quella del nostro ingannato Paese, a proposito di patriottismo.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1981: dall’elezione di Reagan alla fine dell’Ottobre Rosso. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 9 Gennaio 2022. 

Possiamo dirlo con certezza: il 1981 fu un anno di svolta. Uno dei pochi importanti. La Storia si dipana per snodi, talvolta annunciati ma più spesso arrivati senza alcun preavviso. È talvolta la lettura a ritroso, a distanza di decenni come in questo caso, che permette di cogliere le congiunzioni, gli incroci e le premesse che prima o poi causeranno conseguenze. Negli Stati Uniti inizia l’epoca del repubblicano Ronald Reagan, il quale intende portare al collasso l’impero sovietico che lui chiama l’impero del male, e ci riuscirà. Il modo in cui Reagan riuscì in quell’impresa ci riguarda oggi direttamente per ciò che accade fra Ucraina e Russia di Putin.

Oggi, ne è la diretta conseguenza militare che potrebbe innescare un conflitto di proporzioni apocalittiche. Ciò accade a causa di una trattativa che si svolse allora – molto dopo il 1981, ma figlia di quell’anno – quando Michail Gorbaciov, Presidente sovietico, accettò di sedersi al tavolo con inglesi e americani per contrattare un punto fondamentale: avrebbe o no avuto diritto la Nato, nel nuovo mondo che si andava disegnando senza più la potenza sovietica, di introdursi sui territori delle Repubbliche dell’Urss? Ci fu una unga e faticosa trattativa, tutta alla luce del sole e alla fine Gorbaciov preferì ricevere una enorme somma di denaro per il suo Paese in rovina, in cambio della rinuncia all’impegno della Nato a non varcare mai nel futuro (e noi siamo il futuro) le frontiere dell’Urss al collasso. Quella soluzione viene oggi disconosciuta da Vladimir Putin il quale afferma che un eventuale ingresso della Nato in Ucraina – che considera un “buffer state”, uno Stato cuscinetto – è un casus belli, anzi, secondo lui, non è neppure necessario che il fatto avvenga perché la Russia si senta autorizzata ad invadere ed occupare l’Ucraina e lunghissime colonne di Tank russi si ammassano alle frontiera con l’Ucraina, mentre in Russia tutti i giovani sono chiamati a indossare uniformi militari – particolarmente eleganti quelle delle ragazze che marciano con un atteggiamento sia sexy che militaresco – e partecipare ad un addestramento sia tecnico che patriottico, adesso, mentre io scrivo e voi leggete. Sono i fatti che cominciarono ad accadere nel 1981.

Ho preso una abitudine che mi permetto di suggerire a chi ha interesse a seguire questa situazione che potrebbe portare a una guerra mondiale. Il suggerimento è di abbonarsi su YouTube al canale di Vladimir Putin che quasi ogni giorno registra gli interventi politici del leader russo, sottotitolati in inglese. Putin dice oggi che la sua pazienza è finita come anche quella del popolo russo, che i trattati sono stati violati, che la Russia è minacciata al cuore e che la guerra è una opzione accettabile. Il suo ministro degli esteri Lavrov nella stessa occasione ha ammonito l’America e i suoi alleati commettendo una divertente gaffe. Ha detto che l’Occidente con la sua arroganza e le sue pretese, rischia di fare Kamasutra. Voleva dire Harakiri, l’Occidente rischia di uccidersi con le sue stesse mani, ma per un lapsus ha detto che l’Occidente rischia un’orgia di amplessi contorti e stravaganti. Ecco, dunque, un caso reale di Storia che vede i suoi effetti dopo tempi lunghi, quando è difficile ma non impossibile ritrovare il bandolo della matassa. L’inizio della presidenza Reagan fece vomitare tutte le sinistre mondiali per l’orrenda vista di un ex governatore della California ma anche ex attore di film Western. I salotti buoni profetizzarono apocalissi proprio mentre si avviava il processo che avrebbe evitato per decenni lo show-down dell’apocalisse.

I tempi di Reagan coincisero in Italia con il ripiegamento e la sconfitta del terrorismo anche perché la situazione internazionale sconsigliava gli sponsor dci terroristi dal procedere su una strada incerta e anzi sterile. Il novo presidente americano, “di estrema destra”, annuncia di voler tagliare drasticamente le tasse alle imprese per far crescere l’occupazione. E la sua iniziativa riuscirà splendidamente. Gli spareranno per strada dopo pochi mesi, ma si salverà grazie al coraggio di una guardia del corpo. È l’anno in cui le Brigate Rosse italiane (in parte, ma solo in parte eterodirette dalla Stasi tedesco orientale e dal KGB, cioè dai servizi segreti dell’Est) affronteranno la loro sconfitta militare con il rapimento del generale americano Dozier che si risolse in una disfatta il totale. L’opinione pubblica, del resto, ne aveva già abbastanza dell’area contigua alle Brigate Rosse, quella di autonomia operaia che ne costituiva il brodo di coltura. Eravamo alla vigilia dell’”edonismo reaganiano”, espressione inventata da Roberto D’’Agostino, della “Milano da bere”, un moto di liberazione dall’incubo di una guerra nucleare. Al cinema arrivò Indiana Jones e sembrò un miracolo di spensierata avventura fuori contesto da ogni contesto storico o politico, come il primo episodio di Guerre Stellari.

Il primo Personal Computer fu messo sul mercato dalla IBM, allora mostro unico e gigante solitario, ed era un macigno lento, ma rivoluzionario. Si usciva dall’età della pietra ma ancora nessuno avrebbe potuto ipotizzare che un giorno quella nuova macchina avrebbe creato il fenomeno degli influencer. La Grecia entrò in Europa e io, come molti giornalisti, fui scaraventato alla ricerca di un passaggio per entrare in Polonia, perché nel 1981 il coraggioso generale Wojciech Jaruzelski attuò un colpo di Stato preventivo per far passare ai russi la voglia di invadere la Polonia ormai più che febbricitante per la presenza a Roma del papa polacco che cominciava a scardinare il comunismo nel suo Paese. Arrivai in Polonia partendo clandestinamente da Malmö, in Svezia, e trovai un Paese militarizzato. Il generale aveva occhiali da sole scurissimi e non sorrideva mai. Sapeva che a Mosca aveva prevalso la politica del “fraterno aiuto”, cioè dell’invasione con i carri armati di vari Paesi del Patto di Varsavia fra cui quelli tedeschi, e aveva agito fulmineamente: mobilitate le forze armate polacche instaurò un governo dittatoriale d’emergenza che doveva rassicurare i russi: non servono i vostri carri, facciamo da soli. I russi abboccarono e rinunciarono all’invasione che probabilmente avrebbe messo a tacere Lech Walesa e il suo sindacato Solidarnosc fortemente sostenuto dal Papa. Ma la Polonia emergeva dalle nebbie.

A Madrid, celebre scatto fotografico: il 23 febbraio, alla testa di alcuni membri armati della Guardia Civil, il capitano Antonio Tejero irrompe in Parlamento con la pistola in pugno e tenta un colpo di stato falangista. Il re Juan Carlos, allora un giovanottone di buon carattere cresciuto a Roma in adorazione di Sandro Pertini, negò a Tejero e ai suoi pistoleros ogni possibilità di successo. Tejero e i suoi furono arrestati e il golpe di Tejero passò alla storia come una esemplare buffonata che però aveva messo alla prova un regime democratico da poco insediato dopo la lunghissima dittatura militare di Francisco Franco, che era stato sostenuto da Hitler e Mussolini. La Spagna era diventata per sempre una vera democrazia, persino più moderna di molte democrazie europee.

La piaga della guerra civile degli irlandesi contro gli inglesi produsse una catastrofe umanitaria in cui i due contendenti dimostrarono determinazione e cinismo. Uno sciopero della fame dei membri dell’Ira (esercito repubblicano irlandese) nel carcere di Long Kesh. Gli scioperanti chiedevano al governo di Londra una resa politica, ma la baronessa Margareth Thatcher rispose loro che, per quanto la riguardava, quegli uomini dell’Ira potevano anche andare a farsi fottere. Gli scioperanti rifiutarono cibo ed acqua e morirono tutti. Londra aveva vinto. Ma quella ferita non si è mai cicatrizzata e ancora oggi l’Irlanda onora i suoi eroi suicidi e anche a Londra si discute ancora se fosse stata una politica saggia quella di consentire il suicidio in carcere di detenuti politici.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Cosa è successo nel 1981, storia dell’attentato a Papa Wojtyla. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 4 Febbraio 2022. 

Tutti sappiamo e molti ricordano che il 13 maggio del 1981 il Papa polacco Karol Wojtyla fu colpito su piazza San Pietro da due proiettili sparati da un killer turco che diventò famoso: Ali Agca. È una storia di proporzioni colossali che però ancora sfuggono all’opinione pubblica e le cui conseguenze sono ancora percepibili e non soltanto in Vaticano. Se il Papa fosse morto, probabilmente sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale, perché l’assassinio del capo del mondo cattolico sulla piazza più nota della sua piccola nazione, eseguito da un uomo che confessò immediatamente al giudice istruttore di avere agito su commissione dei servizi segreti bulgari a loro volta esecutori di direttive sovietiche, avrebbe potuto costituire un casus belli. Ma il Papa non morì e lui stesso gridò e sebbene mutilato e malconcio, seguitò a fare il suo mestiere.

Ma davvero possiamo essere sicuri che il killer fosse stato mandato da Mosca? Tutti lo immaginarono al momento dell’attentato, ma mancavano le prove. Era agli atti la dettagliata confessione con nomi cognomi e circostanze di Ali Agca, ma a vennero a Roma due improbabili giudici militari bulgari che chiesero di poterlo vedere. Uno di loro andò a prendere un caffè al bar con il magistrato, mentre l’altro rimase a colloquio con Ali Agca che, non appena i due bulgari lasciarono gli uffici della procura, dichiarò di essere la reincarnazione di Gesù Cristo, e assunse le sembianze di uno schizofrenico in preda a continue allucinazioni mistiche rendendo così invalide e inutili le dettagliate confessioni già messe a verbale. Ma una volta accertato che il Papa sarebbe sopravvissuto, oltre ai sovietici scese in campo anche l’intelligence americana per impedire che l’intera verità emergesse per evitare che un miliardo di cattolici indignati innescassero una escalation che mettesse a rischio la pace.

Del resto, chi poteva provare con certezza che il Papa polacco era sfuggito ad una esecuzione decretata dal governo della superpotenza comunista? Una circostanza documentale esisteva e fu rintracciata durante i lavori della commissione: un documento interno del Comitato centrale firmato da tutti i suoi membri, fra cui uno sconosciuto Michail Gorbaciov, affermava che l’elezione al soglio pontificio di un noto provocatore cattolico molto popolare, richiedeva l’adozione di ogni “misura attiva” che si rendesse necessaria. Le inchieste e i processi furono inquinati fin dall’inizio da un profluvio di notizie confuse e contraddittorie per ridurre l’attentato politico ad una oscura trama di estremisti di destra turchi, i Lupi grigi, in combutta con altri attori che agivano nell’ombra per cui processi e indagini furono concluse con un nulla di fatto e alla condanna del solo. Agca sempre in preda ad allucinazioni. Una volta condannato, Agca ricevette in cella la visita dello stesso Papa, poi fu liberato. Era il 1981 ed era cominciata l’erosione dell’impero sovietico traballante per la disfatta in Afghanistan e per il collasso causato dall’eccessiva spesa militare.

Molti anni dopo Karol Wojtyla, che aveva sempre detto di escludere i bulgari da qualsiasi responsabilità, in un libro intervista disse di sapere la provenienza dei due proiettili che sfiorarono la sua aorta. Di fronte a quella ammissione a tanti anni di distanza, la Commissione bicamerale d’inchiesta (venti deputati e venti senatori di tutti i partiti) di cui ero presidente e che autorizzava ad indagare tutti i casi di sospetta ingerenza sovietica sul suolo italiano, votò su proposta del commissario Enzo Fragalà un supplemento di inchiesta su quell’attentato. La verità venne fuori senza altri ostacoli che la continua derisione della maggior parte dei giornali italiani. Ma non così si comportò la stampa liberal e quella dei democratici americani. La prova inconfutabile fu raggiunta da una equipe di anatomopatologi equipaggiati con computer e strumenti che non esistevano ai tempi delle prima indagine. Questo gruppo di medici armati di computer riconobbe nella foto di un uomo che si trovava accanto al killer turco nel momento in cui Agca sparava al papa colpendolo due volte, il signor Sergei Ivanov Antonov, capo dei servizi segreti bulgari a Roma avendo come attività di copertura la direzione della BulgarAir compagnia di bandiera del paese più fedele agli ordini sovietici.

L’equipe si prese il suo tempo e dette la sua risposta: l’uomo con vistosi baffi neri, occhiali dalla vistosa montatura scura e folta capigliatura vicino ad Ali Agca che spara, era proprio Antonov e non – come si era detto nel processo – un turista americano. La prova dimostrava la presenza attiva dei servizi bulgari e dunque di quelli sovietici. Ma non si trattava del Kgb perché l’operazione “Uccidete il Papa polacco” fu commissionata e svolta sul campo dal Gru, il servizio segreto delle forze armate sovietiche e oggi russe. Quando l’expertise fu recapitato alla commissione, i commissari del Pds e altri chiesero un secondo expertise di anatomopatologi computerizzati scelta dall’opposizione per verificare la credibilità della prima. La tecnologia usata trascurava fattori esterni come i vistosi baffi, occhiali e capigliatura, ma era in grado di calcolare i dati antropometrici come l’angolo della mandibola e le distanze tra le ossa facciali e che garantivano circa il cento per cento di attendibilità.

La minoranza della commissione poté formare la propria equipe di controllo che confermerà il verdetto della prima: il capo dei servizi segreti bulgari assisteva personalmente l’assassino a pagamento ingaggiato per eliminare il Papa polacco su ordini evidentemente arrivati da Mosca. Non potevano esserci dubbi e ben due esami scientifici confermavano, Quando andai a trovare il nuovo ambasciatore bulgaro nella sua villa ai Parioli, mi descrisse nei dettagli in che modo fosse stato organizzato l’attentato e mi mostrò l’area sul retro dove il furgone riportò a casa la squadra degli attentatori, salvo Alì Agca arrestato sul posto e interrogato dal giudice Ilario Martella. Aveva confessato tutto: mandanti, agenti di supporto, pronto a barattare la sua libertà in cambio di informazioni. La nostra inchiesta ci spinse ad ascoltare tutti i magistrati che avevano indagato sull’attentato e tutti dissero di essere oggi totalmente convinti di come andarono le cose. Ma il grande pubblico in Italia non seppe molto: quando la notizia degli expertise fu resa pubblica, non accade assolutamente nulla.

La parola d’ordine diffusa nelle redazioni era che la Commissione Mitrokhin non doveva mai essere nominata se non per essere dileggiata in quanto promossa da una maggioranza berlusconiana. Lungo la strada in cui abitavo stazionavano molte stazioni tv di tutto il mondo per avere dichiarazioni sull’inchiesta e le reazioni alle prove esibite, ma non una era italiana. Negli Stati Uniti i servizi segreti avevano reso la vita difficile alla giornalista Claire Starling che con una coraggiosa e meticolosa inchiesta aveva dimostrato le responsabilità del governo sovietico nel tentativo di assassinare a Roma il capo dei cattolici di tutto il mondo. La Starling fu arrestata e ridicolizzata perché le sue scoperte giornalistiche facevano a pugni con la ragion di Stato adottata dal governo americano: spegnere assolutamente i fari su quell’evento che per fortuna non si è concluso con la morte del Papa e impedire che potesse diventare qualcosa di simile all’attentato di Serajevo, quando l’assassinio dell’arciduca Ferdinando e di sua moglie scatenò con pochi colpi di pistola la Prima guerra mondiale nel 1914.

Il Papa stesso era stato sempre d’accordo nell’abbassare i toni e la sua preoccupazione per la fragile pace fu tale da vietare a sé stesso qualsiasi riferimento politico all’attentato. Tuttavia, prossimo alla morte, gli era sfuggito quel breve cenno: sapeva bene, oh se sapeva, da dove provenivano le pallottole per ucciderlo, quale cammino avessero fatto dal politburò di Mosca a piazza San Pietro, via Varsavia. La terza guerra mondiale non scoppiò ma neanche la verità esplose mai. Quando andai a Parigi per chiedere aiuto al più prestigioso dei procuratori francesi antiterrorismo, Jean Luis Brughiere, il famoso procuratore francese mi ricevette riservatamente e mi spiego come avesse raggiunto la prova del fatto che l’attentato al Papa non fosse stato eseguito dal Kgb ma ma dal servizio segreto dell’Armata Rossa, il Gru, perché incaricato di eseguire direttamene gli ordini del Cremlino. Mi disse di avere raccolto occasionalmente tutte le prove testimoniali e mi sconsigliò di insistere perché dal Gru non avrei mai ottenuto nulla.

Il nostro commissario Enzo Fragalà, che si era battuto in maniera quasi ossessiva a favore delle perizie sulle foto scattate nel momento dell’attentato che portarono alla identificazione di Antonov, fu alcuni anni dopo ucciso a bastonate sotto il portone del suo studio da killer motociclisti che sparirono nel nulla dopo avere eseguito una vendetta. La mancata uccisione del Papa permise al capo del sindacato Solidarnosc Lech Walesa di mantenere il controllo del territorio polacco indispensabile per un blitz che sarebbe dovuto partire proprio dal territorio polacco. Lech Walesa, che fu il primo presidente della Polonia indipendente, quasi mi aggredì quando ci incontrammo ad un convegno che organizzai a dieci anni dalla caduta del muro di Berlino, ringhiando e gesticolando per dire che il muro di Berlino non aveva fatto cadere un bel nulla, mentre che ciò che aveva fatto crollare il regime sovietico era stata la Polonia, grazie al papa polacco che guidava la resistenza da Roma, e grazie a lui stesso perché, insieme, avevano convinto l’ultimo segretario Gorbaciov che la guerra fredda era persa. Ed era persa perché la Polonia era persa. E che tutti gli altri Stati satelliti l’avrebbero seguita nella dissoluzione dell’impero, come accadde. I colpi di pistola di quel 13 maggio 1981 erano dunque tanto criminali quanto razionali. Ma nessuno lo sapeva allora e pochi se ne rendono conto adesso.

LA CRONOLOGIA DEGLI EVENTI DEL 1981

20 gennaio: Ronald Reagan succede a Jimmy Carter come Presidente degli Stati Uniti d’America. Nello stesso giorno l’Iran libera 52 cittadini americani tenuti in ostaggio per 444 giorni; finisce così la crisi iraniana degli ostaggi

10 febbraio: un incendio al Las Vegas Hilton hotel-casinò uccide 8 persone e ne ferisce 198

14 febbraio: l’Australia ritira il riconoscimento del regime di Pol Pot in Cambogia

13 marzo: il presidente della commissione di vigilanza Rai, il democristiano Mario Bubbico, pone il divieto alla trasmissione sulla Rete 2 del programma AAA offresi sul rapporto tra gli italiani e la prostituzione

20 marzo: la Corte d’assise d’appello di Catanzaro assolve tutti gli imputati al processo per la strage di piazza Fontana

29 marzo: Tiina Lehtola è la prima donna a superare i 100 metri nel salto con gli sci

30 marzo: il Presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, si salva miracolosamente da un attentato per mano di John Hinckley

4 aprile: viene arrestato Mario Moretti, capo della direzione strategica delle Brigate Rosse, assieme a Enrico Fenzi, Tiziana Volpi e Silvano Fadda

13 aprile: apre la prima fabbrica di Coca-Cola in territorio cinese

10 maggio: François Mitterrand eletto presidente della repubblica francese

11 maggio: Bob Marley muore presso l’University of Miami Hospital all’età di 36 anni

13 maggio: mentre attraversa Piazza San Pietro a bordo della papamobile, Papa Giovanni Paolo II viene ferito gravemente da colpi d’arma da fuoco sparatigli dal terrorista turco Mehmet Ali Ağca

2 giugno: muore in un incidente stradale a 31 anni il cantautore Rino Gaetano

5 giugno: viene scoperto il virus dell’Aids e il New York Times ne pubblica primo annuncio sulla stampa nazionale

29 luglio: nella cattedrale di St. Paul si sposano Lady Diana e Carlo d’Inghilterra

12 agosto: viene presentato il Pc Ibm 5150, un personal computer che sarà lo standard di riferimento

9 ottobre: in Francia viene abolita la pena di morte

11 dicembre: Muhammad Alì si ritira dal pugilato 

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La nostra storia: 1955 - 1959. L'Espresso racconta gli anni del boom in un ebook. L'Espresso il 16 giugno 2021. Il primo di dodici libri in formato digitale riservati ai nostri abbonati. Per ripercorrere la storia d'Italia a partire da una parola chiave. Con le grandi firme del giornale e le fotografie d'autore. La politica, la cultura, l’economia, i cambiamenti del costume e della società raccontati da grandi giornalisti e scrittori, e illustrati con fotografie d’autore. L’Espresso racconta in un ebook per i propri abbonati “Gli anni del Boom" fra il 1955 e il 1959. È il primo di 12 libri, ognuno dei quali abbraccia cinque anni di storia, e sono intitolati a una parola chiave, che riassume il significato di quel momento. Il settimanale fondato da Eugenio Scalfari in quel periodo muove i primi passi. E come leggerete, non è solo un giornale, è una comunità legata da valori condivisi e profondi, è memoria del Paese, è la sua coscienza critica. È identità orgogliosa e appassionata. Il 2 ottobre 1955 scrive L'Espresso: «I promotori di questo giornale ritengono che l’assoluta indipendenza della stampa sia il fondamento più solido del regime democratico. Questa indipendenza, nelle condizioni attuali della stampa italiana, si è rivelata molto spesso illusoria…». Parole profetiche. Allora come ora è l’impegno che L'Espresso ha con i suoi lettori. Nel solco della tradizione e dell’innovazione.

L’Italia cambia, 1960-1964. La nostra storia in un ebook. Redazione su L'Espresso il 25 giugno 2021. Il secondo libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Per ripercorrere gli avvenimenti salienti del nostro Paese. Con le grandi firme del giornale e le fotografie d'autore. Il Bel Paese che cambiava più di sessant'anni è raccontato attraverso le pagine de L’Espresso (1960 - 1964) il settimanale fondato da Eugenio Scalfari, specchio di un Paese e del mondo di quegli anni. “L’Italia cambia” è un volume che raccoglie storie, reportage e immagini d’autore. «All’inizio del 1960 la giuria internazionale del “Financial Times” consegna alla lira l’oscar della moneta più stabile». Incredibile ma vero come sottolinea nell'introduzione Marco Damilano. “Leoni, Piccioni ed altri animali” è il titolo del primo degli storici articoli raccolti nel libro. Lo firma Eugenio Scalfari, era il 13 marzo 1960. Si continua con “Il Gotha dei bugiardi” di Livio Zanetti; “Con Fanfani a scuola, in ufficio, a casa” di Camilla Cederna; “Il petrolio del parroco” di Jean Paul Sartre. Mentre Gianni Corbi il 26 gennaio 1964 intervista Ernesto Che Guevara. 

La rivolta, 1965-1969. La nostra storia in un ebook. Massimo Cacciari su L'Espresso il 2 luglio 2021. Il terzo libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Un volume che ripercorre gli avvenimenti salienti del nostro Paese attraverso i racconti delle grandi firme del giornale, illustrate da fotografie d’autore. «O patria mia - cantava un disperato figlio di questo Paese (Leopardi) centocinquant'anni prima - dove sono i tuoi figli?». Nel '68 fu davvero la loro rivolta. Una breve stagione, ma figli e figlie si sollevarono allora contro “il secolo morto", "questo secol di fango", e immaginarono nuove forme di vita e nuovi linguaggi. Fu la rivolta contro la "patria potestas", contro il fatale connubio tra "padre" e "potere", che ebbe nel femminismo la sua espressione più radicale e matura. Un salto d'epoca culturale, nel senso antropologico del termine, tra chi si era formato prima della guerra e chi a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Una catastrofe, in senso letterale, che si rifletteva essenzialmente nel linguaggio, in tutti i campi. Ricordate Bob Dylan? «Venite madri e padri da tutto il paese e non criticate quello che non potete capire; i vostri figli e le vostre figlie non li potete comandare». Alla base del Sessantotto vi è una rottura linguistica, che davvero impedisce la comunicazione tra generazioni; le parole dei padri non riescono più a comandare semplicemente perché non se ne comprende più il senso. Si giustifica, sì, la ribellione ad esse denunciandole come l'ideologia di un sistema di sfruttamento, sottomissione, disuguaglianza ma, nella sostanza, avviene qualcosa di infinitamente più radicale di un conflitto tra visioni del mondo, ha luogo un salto d'epoca che tutti coinvolge e di cui nessuno è davvero l'autore o il soggetto. Certo questo "salto" ha anche cause ben materialmente definibili. L'Italia (ma lo stesso vale per i paesi occidentali, in genere) è ancora relativamente giovane e la mobilità sociale all'alto formidabile. Dall'inizio degli anni Cinquanta al1968 gli iscritti alle medie superiori passano dal 10 a oltre il 40 per cento dei ragazzi di quell'età; esplosiva addirittura la crescita nell'università: da 250mila nel1961 a quasi 600mila alla fine del decennio. Quantità è qualità: in tali condizioni diviene fisiologica la spinta a prender parte a tutti i processi decisionali che interessano la scuola, a rivedere programmi e metodi didattici. La risposta politica e accademica (con alcune eccezioni, minoritarie fino al patetico) è testimonianza luminosa dell'"ontologica" ignoranza delle precedenti generazioni per i linguaggi e gli interessi che animano l'"anno degli studenti". La moltiplicazione di corsi, cattedre, sedi, insieme a forme di partecipazione meramente "discutidore", costituiranno negli anni successivi la sola riforma di cui i padri si mostrino capaci. Nel mondo del lavoro le trasformazioni materiali che precedono l'autunno caldo del 1969 sono altrettanto imponenti. Collassa l'Italia pasoliniana. Nel1970 si raggiunge il massimo storico dell'occupazione industriale (42 per cento del totale), e al suo interno è la classe operaia ad assumere l'egemonia. Ma è una classe operaia completamente diversa da quella sindacalizzata dell'immediato dopoguerra, da quell'operaio di mestiere, che tanto piaceva al paterno Pci. Sono i 150mila della Fiat, i giovanissimi della chimica di Marghera, quelli dei Comitati di Base della Pirelli, che esprimono problemi e rivendicazioni oggettivamente analoghi ai contenuti delle lotte studentesche: la contestazione di ogni potestas padronale (baronale), l'autonomia nella definizione dei propri obbiettivi (in quella dei programmi e dell'ordinamento universitario), il rifiuto di ogni forma di disuguaglianza (diritto allo studio). Vi è molta etica della responsabilità in questo "estremismo". Sarebbe bene non dimenticarlo. Non si tratta solo della denuncia di arcaiche, intollerabili relazioni di potere nella scuola e nel lavoro. Non solo il grido libera torio: "il re è nudo!". Cogitare è co-agitare: nell'agitazione universale fermentano pensieri e progetti, idee e forme nuove di una democrazia davvero agita. Può esservi democrazia senza isonomia, senza uguaglianza davanti alla legge? Già Aristotele l'avrebbe negato! Senza ribellarsi alle forme odiose della disuguaglianza, senza prendersi cura del prossimo, senza coniugare il proprio individuale interesse a principi di solidarietà, non può esistere democrazia. Più ancora: viveva nella rivolta una repulsione quasi naturale per corrotti e corruttori, per trasformisti e ipocriti - fino all'estremo di una sacralizzazione, molto ingenua certo, del linguaggio franco, diretto, aut-aut, sì sì-no no. Tuttavia diciamocelo: poteva trovarsi in tutto questo anche il germe di un vero riformismo, il potenziale per un rinnovamento delle classi dirigenti e del sistema politico del paese. Vi era pure in queste figlie e in questi figli, per dirla ancora col poeta, qualche "valore vero e virtù, modestia e fede e di giustizia amor", beni divenuti negli anni successivi "alieni in tutto e lungi" dai nostri affari. Rottamatori volevano essere, non c'è dubbio, e magari avevano idee vaghe, da extraparlamentari o quasi, su come passare alla fase costituente, ma certo non avrebbero mai raccontato la favola di rottamare con i rottamandi e che fosse innovazione il compromesso con questi ultimi. Che fine quel germe abbia fatto lo dimostra la storia di questo paese fino ad oggi. Fu anche colpa dei ribelli, non c'è dubbio. Molta ideologia, poca analisi. Onestà intellettuale tanta, realismo e disincanto quasi assenti. Mancava nei figli la capacità di comprendere davvero la patria potestas nella sua storia, nelle sue contraddizioni e di scavarle dall'interno e di far leva su di esse per riformare il sistema. Ma soprattutto emerse subito la "vocazione" propria di ogni rivolta tentata sull'italico suolo: il parricidio si trasformò subito in fratricidio. Ben lungi dall'amarsi in vista di assumere insieme la responsabilità dell'erede, si armarono l'un contro l'altro. Prima metaforicamente e ben presto letteralmente. Il terrorismo distrusse figlie e figli e riconsegnò al Padre il potere. A un Padre che, da parte sua, aveva risposto alla rivolta in due forme assolutamente opposte, per quanto complementari: o in termini eversivi, stragisti, da controrivoluzione preventiva (causa, questa, essenziale della deriva terroristica che afferrò una parte del movimento), oppure, ignorandone le potenzialità costituenti, limitandosi a tentare di integrarla in un puro riassetto di maggioranze parlamentari. Così il Sessantotto è divenuto immagine di un Paese mancato (come intitola Guido Crainz il suo bel libro sulla storia italiana dal "miracolo" agli anni Ottanta), di un Paese che ha continuato a mancare fino ad oggi. "Studenti e operai uniti nella lotta" non sono oggi immaginabili neppure come fantasmi. Dal Sessantotto è passato il carro armato di una rivoluzione nei rapporti sociali e di produzione più "catastrofica" di quella industriale del XVIII secolo. Chi sarà il soggetto della rivolta prossima ventura? Sarà "moltitudine" il suo nome? O Nessuno?

L’ora dei diritti civili, 1970-1974. La nostra storia in ebook. Stefano Rodotà su L'Espresso il 2 luglio 2021. Il quarto libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Ripercorriamo gli avvenimenti salienti del nostro Paese attraverso i racconti delle grandi firme del giornale fondato da Eugenio Scalfari e Arrigo Benedetti, illustrate da fotografie d’autore. E il testo introduttivo di Stefano Rodotà.

Così cominciò in Italia la rivoluzione dei diritti. Nel 1970 il Parlamento italiano approva le leggi sull'ordinamento regionale ordinario, sul divorzio, sul referendum, sullo Statuto dei lavoratori, sui termini massimi della carcerazione preventiva, con un addensamento di interventi riformatori che non ha paragoni nell'intera storia repubblicana. In un solo anno viene modificato l'assetto dello Stato, si ampliano gli spazi delle libertà individuali e sociali, si riconosce ai cittadini il diritto di intervenire nelle scelte legislative. Istituzioni e società cambiano nel profondo, e comincia quella rivoluzione dei diritti che accompagnerà la politica italiana lungo gli anni Settanta. Non fu un miracolo. L'avvio di questo processo era stato preparato da quello che venne chiamato il "disgelo costituzionale": la progressiva e sempre più diffusa consapevolezza della necessità non solo di dare attuazione a fondamentali istituti previsti dalla Costituzione, ma di svilupparne le indicazioni più significative. Si verifica così una benefica congiunzione tra consapevolezza politica, spinte sociali, innovazione culturale. La buona cultura pervade la società e produce buona ed efficiente politica, smentendo le tesi alimentate dalla diffusa ignoranza recente che dipinge i tempi della cosiddetta Prima Repubblica come una fase di stagnazione, di assenza di cambiamenti profondi. Alle leggi approvate nel 1970 seguono quelle sul diritto del difensore ad assistere all'interrogatorio dell'imputato, sulle lavoratrici madri e sugli asili nido, sulla scuola elementare a tempo pieno (1971); sull'obiezione di coscienza al servizio militare e sull'ampliamento dei casi in cui è possibile la concessione della libertà provvisoria (la cosiddetta "legge Valpreda", 1972); sul nuovo processo del lavoro e sulla protezione delle lavoratrici madri e la disincentivazione del lavoro a domicilio (1973); sulla tutela della segretezza e della libertà delle comunicazioni e sulla delega al governo per l'emanazione del nuovo Codice di procedura penale (1974); sul nuovo ordinamento penitenziario, sulla riforma del diritto di famiglia e sulla fissazione a 18 anni della maggiore età, con immediati effetti anche sulla composizione del corpo elettorale (1975); sulla parità tra uomo e donna in materia di lavoro e sulla disciplina dei ruoli (1977); sull'interruzione della gravidanza, sulla chiusura dei manicomi ("legge Basaglia") e sull'istituzione del Servizio sanitario nazionale (1978). Esaminando una legislazione così ricca e variegata, colpisce subito il fatto che non ci si trova solo di fronte all'espansione di logiche tradizionali, ma alla introduzione di modelli profondamente innovativi. Si aprono nuovi spazi di libertà e si creano gli strumenti istituzionali per rendere effettivi i diritti. Questa politica si muove soprattutto lungo tre linee:

la restituzione all'individuo di poteri di decisione confiscati dall'organizzazione statuale, ampliando così immediatamente l'area della sua azione libera (è il caso delle leggi sul divorzio, sull'aborto, in parte di quella sull'obiezione di coscienza al servizio militare, della sentenza della Corte costituzionale che abroga la norma penale sul divieto di propaganda anticoncezionale);

l'avvio del riconoscimento di pari dignità e di sostanziale eguaglianza a gruppi fino a quel momento oggetto di discriminazioni dirette e indirette, palesi e occulte (le donne in primo luogo, e i minori, gli omosessuali, i portatori di handicap);

l'estensione dei diritti riconosciuti anche a chi si trova costretto nelle istituzioni "totali" (manicomi, carceri).

Più specificamente, un cambiamento radicale investe l'organizzazione familiare con l'abbandono di un modello fondato sulla gerarchia, la costrizione e la discriminazione, affidando l'organizzazione familiare ad una costruzione libera alla quale possono partecipare tutti i suoi componenti.

Altrettanto evidente è la profondità del mutamento nel complesso legislativo più ricco dell'epoca, quello riguardante il lavoro, dove spiccano le "norme sulla libertà e dignità dei lavoratori", più note come Statuto dei lavoratori, vera e propria carta dei diritti accompagnata dalla legge sulla parità del 1977. Si estendono le garanzie della libertà personale e si mette mano alla disciplina del processo penale. Le leggi sulle istituzioni "totali" fanno rinascere soggetti di diritto là dove, carcere o manicomio, esistevano soltanto destinatari d'un controllo. Ma rivelano pure, spesso drammaticamente, lo strettissimo rapporto che lega talune leggi sui diritti alle strutture necessarie per attuarli, pena un rigetto sociale che mette in discussione la scelta stessa di percorrere la strada dei diritti. Sono tutte riforme profonde, rese possibili anche da forti dinamiche sociali. Dietro lo Statuto dei lavoratori si colgono le spinte dell'autunno caldo sindacale del 1969 e della scoperta delle schedature Fiat; le vicende seguite alla strage di piazza Fontana rendono indispensabili nuove norme a tutela della libertà personale; il cambiamento sociale forza la mano a una politica timida e porta alle leggi sul divorzio, sulla riforma del diritto di famiglia, sull'interruzione della gravidanza: determinante si rivela sempre più spesso la cultura delle donne. Il voto referendario nel 1974 e nel 1981 conferma leggi fondamentali, e all'origine controverse, come quelle sul divorzio e l'aborto. Ma il 1974 è pure un anno fortemente simbolico, davvero uno spartiacque tra due epoche: da quel momento comincia prima un difficile convivenza tra provvedimenti espansivi e provvedimenti limitativi delle libertà; poi sono questi ultimi a prendere il sopravvento. Mentre i diritti civili trovano nel referendum una sorta di corale consacrazione, un decreto legge del 1974 sull'aumento dei tempi della carcerazione preventiva e la legge Bartolomei contro i sequestri di persona dello stesso anno aprono la lunga fase della "legislazione dell'emergenza", che già l'anno successivo troverà nella legge Reale sull'ordine pubblico una delle sue più consistenti manifestazioni. A questa legislazione, con un inquietante pendolo tra provvedimenti pericolosamente restrittivi e parziali restaurazioni della legalità, verrà affidata la sorte dei diritti di libertà nei lunghi anni che seguiranno, durante i quali assai spesso diverrà evidente che la risposta "ordinamentale" (così venivano globalmente definite le diverse norme limitative di diritti) serviva a poco o a nulla quando mancavano le condizioni organizzative e politiche per affrontare i problemi della criminalità e del terrorismo.

Gli anni di piombo, 1975-1979. La nostra storia in ebook. Michele Serra su L'Espresso il 19 luglio 2021. Il quinto libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Il volume raccoglie tutti gli avvenimenti di quel periodo che ha scosso il Paese attraverso i racconti di grandi firme del giornale, tra cui Giorgio Bocca, Camilla Cederna, Sergio Saviane, Cristina Mariotti, Alberto Moravia, Umberto Eco, Tiziano Terzani e Gabriel Garda Marquez, accompagnati da fotografie d’autore. L’ebook si apre con un testo firmato da Michele Serra.

La violenza non aveva divorato tutta la speranza. La vulgata sugli anni Settanta italiani è inevitabilmente lugubre. Per le stragi fasciste, le tante persone freddate dal terrorismo rosso, la sordida fellonia di uomini dello Stato, la violenza anche spicciola, l'odio anche solo recitato, anche solo parolaio, che però avvelenava discorsi e pensieri. Teniamo dunque per buona la qualifica di "anni di piombo", che vale se non altro a conservare memoria di quell'inaudito sbocco di sangue. Anche se, per equità, sarebbero Piombo e Tritolo (primo il tritolo, in ordine di apparizione) i materiali simbolici del periodo. Ma l'applicazione della pena di morte da parte di bande di superbi ("superbi" è l'aggettivo, secondo me di mirabile precisione, adoperato dal professar Enrico Fenzi per definire il fondamentale vizio umano del terrorismo rosso, nel quale aveva militato) non racconta, dei Settanta, che l'aspetto più macroscopico e più mediatico. Quello che produceva i titoli cubitali, magari offuscando il resto o quasi tutto il resto. Dovessi cercare di riassumerlo, quel "resto", direi che consisteva soprattutto nella facoltà di immaginare il futuro come un patrimonio ancora intatto. Non solo ancora da vivere. Ma ancora da progettare, da pensare, da forgiare in forme differenti, non coincidenti l'una con l'altra e tanto meno coincidenti con ciò che già esisteva. (A nessuno, a quei tempi, poteva venire in mente di parlare di "pensiero unico"). Per dirla un poco retoricamente, la violenza non aveva ancora divorata tutta intera la speranza. Il dibattito sul "come saremo" stava ancora nel bel mezzo della politica, vissuta con passione non solamente dalle avanguardie, ma da larghi strati sociali. Uno strumento potentissimo per costruire, pezzo su pezzo, il futuro collettivo e quello individuale. Nessuno, all'epoca, per quanto portato alla disillusione, per quanto di indole moderata, avrebbe creduto possibile che la politica sarebbe stata, quarant'anni dopo, retrocessa a mera disciplina amministrativa, a diligente ostaggio dei numeri e dei bilanci: era, la politica, la leva della mutazione, l'arma semi-divina grazie alla quale l'uomo poteva elevare se stesso a demiurgo, e cambiare il mondo. Di qui la "superbia" che genera violenza; ma di qui, anche, una vitalità sociale straordinaria, la tensione al meglio di chi stava peggio, il sogno di raddrizzare, mutare, rifare daccapo. La straordinaria energia artistica di quel periodo trasportò dentro la cultura di massa prodotti fino allora di fronda o di cantina, come la canzone d'autore. Non solo la letteratura, il teatro, il cinema, la grafica, il fumetto, i festival di poesia: fu la socialità nel suo complesso a vivere una stagione febbrile e creatrice, nella quale sperimentare a tutti i costi - anche nei costumi sessuali - fu certamente anche un vezzo e una moda; e generò non pochi fenomeni di vero e proprio kitsch "di sinistra"; però dava voce e corpo a un'irrequietezza culturale e politica che si respirava a pieni polmoni, ovunque, fino a stordirsi. Il contagio era ingovernabile, trascinava "fuori casa", sconsigliava la pigrizia, quasi obbligava a confrontarsi con abitudini, scenari, consumi inediti. Tra i quali il consumo di droghe prese la mano a molti: tra le stragi del decennio quella dell'eroina è ricordata poco e male, ma lo contraddistinse, nel male e nel dolore, tanto quanto la violenza politica. Una decina di anni fa, rievocando per "Repubblica" la Milano degli anni Settanta (e dunque dei nuovi vent'anni: fate voi la tara, voglio dire, di eventuali eccessi di entusiasmo), la raccontavo così: «Si dice anni di piombo ma non rende l'idea di quanto fosse viva la città, non allegra - Milano lo è mai stata? - ma tremendamente viva. Le strade erano piene di ragazzi, anche d'inverno, anche in quei giorni di pioggia fradicia e di luce livida che nel Duemila paiono scomparsi, come le serate di nebbia. Si usciva di casa per baciarsi in pace o anche solamente per rimanere insieme e parlare (quanto parlare! anche a vanvera!). Noi studenti vivevamo per la strada, nei bar. I ricordi di quegli anni sono di fermate d'autobus, camminate interminabili, spiccioli contati per sapere se potevamo sederci al chiuso per un paio d'ore, e pagarci un caffè o una bibita ... Milano era una città di impiegati e di operai, di drogherie e ferramenta, mercerie, cartolerie, bar scuri e non lindi, con zaffate di periferia industriale che arrivavano ben dentro la cerchia dei Navigli, quasi per preannunciare i cortei operai del sabato che arrivavano a tingere di rosso le strade del centro. E le cime degli striscioni di fabbrica andavano a sfiorare i balconi dei palazzi dei ricchi». Nel tratto di strada dove sono cresciuto - oggi costa un fantastilione a metro quadro – negli anni Settanta c'erano panetteria, drogheria, latteria, edicola, parrucchiere e fiorista nel giro di cinquanta metri, oggi più niente. Non erano lontanamente immaginabili corso Como e Fabrizio Corona. Si andava nei cinema d'essai (il Rubino di via Torino e l'Orchidea di via Terraggio erano aperti anche al mattino) per bigiare scuola. Ci siamo sorbiti cose bellissime ma anche cose da pazzi: cicli di cinema rumeno, tutto Tarkovskij e tutto Bergman, fantascienza di serie B e C. Risate, discussioni interminabili, litigi, riconciliazioni. Nel circuito "normale" spiccavano le ultime sale di terza visione, due film a quattrocento lire. In un enorme cinema dalle parti di Greco (credo fosse l'Abanella) vidi un horror in una sala vuota con volo di pipistrelli veri, in un altro cinema di Porta Romana (forse l'Habanera) mi sono goduto Tamburi lontani con Gary Cooper e una massaia seduta a fianco che cimava i fagiolini portati da casa. Era ancora aperto il formidabile, minuscolo Teatro Gerolamo in piazza Beccaria. Ho ascoltato lì per la prima volta Ivan Della Mea e i fratelli Ciarchi, Gualtiero Bertelli, la Marini che veniva da Roma, la canzone politica.

Si andava al Pierlombardo a sentire Parenti che faceva Testori, si riconoscevano nelle parole gli effluvi e le oscurità, così milanesi, delle periferie, i fianchi interminabili delle fabbriche. Stava per arrivare Kantor con la sua Classe morta in uno di quei pazzeschi teatrini di periferia disadorni, con panche durissime, riscaldati male, che poi sarebbero diventati (giustamente) parodia dell'"impegno", dello spirito vagamente punitivo e lugubre della Kultura naturalmente di sinistra: ma allora ci parevano bellissimi, nuovissimi, si risalivano le linee tranviarie fino a remoti capolinea per scovare gli spettacoli più stravaganti delle compagnie più sconnesse, la parola "decentramento" ci pareva il magico passepartout della democrazia di base, la cultura per tutti, la Scala che va in periferia e la periferia che va alla Scala. Le uova che tiravano "i contestatori", come si chiamavano allora, alla prima della Scala non erano necessariamente "marce", anzi. Mi sono sempre chiesto: ma dove si comperano le uova marce da tirare alla prima della Scala? lo non ho mai visto un uovo marcio, a pensarci bene, in tutta la mia vita. È importante non dimenticare quegli anni. Non perché fossero migliori di questi, la nostalgia è la cosa più inutile e noiosa del mondo. Ma perché non meritano di passare agli archivi come l'ostaggio inerte dell'ideologia. Furono anni troppo disordinati, troppo agitati, troppo pieni di vita perché li si ricordi come una pedante raffica di spari.

Stragi e misteri, 1980-1984. La nostra storia in ebook. Claudio Lindner su L'Espresso il 19 luglio 2021. Il sesto libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Il volume raccoglie tutti gli avvenimenti di quel periodo che ha scosso il Paese attraverso i racconti di grandi firme del giornale, tra cui Maurizio De Luca, Giampaolo Pansa, Mario Scialoja, Luigi Pintor, Tiziano Terzani, Sergio Saviane, Alberto Ronchey, Gad Lerner, Franco Giustolisi, Pier Vittorio Buffa, Alessandro De Feo e Paolo Mieli, accompagnati da fotografie d’autore. L’ebook si apre con immagini e testi che analizzano le stragi senza colpevoli di quegli anni. Lo scandalo Calvi-Gelli-Corriere. Con morti e delitti eccellenti. Casi su cui L’Espresso ha indagato per lungo tempo.

Trame e questione morale. Negli anni Ottanta matura una netta inversione di tendenza rispetto alle lotte e all'impegno politico e sociale che avevano marcato i vent'anni precedenti. Si apre l'era del Riflusso, del ripiegamento nella sfera del privato, regnano l'edonismo, l'apparenza, il cinismo. E concorre a questa svolta la forza di due leader di grande personalità come Margaret Thatcher e Ronald Reagan che, andati al potere rispettivamente nel maggio 1979 e nel novembre 1980 (entrambi verranno confermati nelle elezioni successive), diventano i profeti della rivoluzione liberista: meno stato e più individuo. L'Italia segue l'onda del tandem conservatore. Galoppa la Borsa, impazzano gli yuppies, c'è il boom delle televisioni commerciali di Silvio Berlusconi e il programma "Drive in" diventa l'incarnazione dell'homo, chiamiamolo, ludens. Mattatore della nuova epoca è Bettino Craxi, il leader socialista che vuole aprire un varco nell'egemonia dei due partiti dominanti, la Democrazia cristiana da un lato e il Partito comunista dall'altro, e conquistare il ceto medio delle nuove professioni, dalla moda al design, dalla pubblicità ai media in generale. Suo grande amico è proprio Berlusconi, che lui aiuta da Presidente del Consiglio nella battaglia per la libertà d'antenna dopo che tre pretori hanno ordinato il sequestro degli impianti del Biscione. L'emergente Craxi stringe un patto con Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti dando vita al Caf, che governerà per tutto il decennio. Con gli ideali che si annacquano e gli arricchimenti che fioriscono senza scrupoli e fuori controllo, pullulano gli intrighi che condizionano la vita politica ed economica per molto tempo. Se dal decennio precedente si ereditano il caso Sindona e gli scricchiolii del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, nel quinquennio in esame esplode lo scandalo della P2 di Licio Gelli che tira in ballo politici, finanzieri, imprenditori, generali e il primo quotidiano italiano, il "Corriere della Sera". È il periodo degli inquietanti Misteri d'Italia, tra truffe, corruzione, ricatti, mafia, omicidi, senza tralasciare due stragi sostanzialmente irrisolte come quella alla stazione di Bologna e del DC9 Itavia abbattuto su Ustica. Vicende oscure seguite con particolare attenzione dall'"Espresso" di Livio Zanetti, che dedica a questi scandali una quindicina di copertine in quattro anni con inchieste, documenti inediti, interviste esclusive. Un'informazione indipendente che emerge con forza anche in altre circostanze. Per esempio nell'occuparsi del terrorismo che continua a uccidere. Due inviati di punta dell'"Espresso", Mario Scialoja e Giampaolo Bultrini, vengono arrestati nella notte del primo gennaio 1981 dopo la pubblicazione dell'interrogatorio cui le Br hanno sottoposto il giudice D'Urso. Resteranno in carcere ben due mesi. E l'anno dopo tocca a Pier Vittorio Buffa finire in prigione per aver rivelato le torture ai brigatisti del sequestro Dozier. Ma è sul racconto delle grandi trame italiane che L'Espresso riesce a dare il meglio. Lo scandalo del finanziere siciliano Michele Sindona aveva già occupato le cronache nella seconda metà degli anni Settanta ed era culminato con l'assassinio nel luglio 1979 di Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana. Nel1980 il finanziere di Patti viene processato negli Stati Uniti e condannato con 65 capi d'imputazione, dalla frode all'appropriazione indebita alle false dichiarazioni bancarie. Quattro anni dopo è condannato ed estradato in Italia per il processo come mandante dell'omicidio Ambrosoli. Nell'aprile del1981 L'Espresso pubblica in esclusiva i verbali dell'interrogatorio dell'ex braccio destro Carlo Bordoni da parte della Commissione d'inchiesta parlamentare con i nomi dei titolari di conti cifrati in Svizzera. È la cosiddetta "lista dei 500", che comprende politici, finanzieri, imprenditori come Anna Bonomi Bolchini e Glauco Lolli Ghetti. Vi figura anche Licio Gelli, da anni legato a Sindona. La P2 in quel momento non è un oggetto sconosciuto. Tutt'altro. Appare ogni tanto nelle cronache, viene per esempio citata nell'inchiesta sul treno Italicus. Sindona aveva presentato Calvi a Gelli già nell'agosto del1975, quando il banchiere milanese si era iscritto alla superloggia. Cinque anni dopo cercherà finanziamenti in quegli ambienti per salvare dal crac il Banco Ambrosiano dopo averne già ottenuti dall'Eni, secondo gli atti processuali, grazie a tangenti a Craxi e Claudio Martelli. Tra maggio e giugno 1981 scoppia la bomba P2 e il numero del 21 sintetizza bene il malaffare di quei giorni con la copertina "Il chi è dell'Italia corrotta". Si parla della lista di 953 "fratelli", tra ministri, parlamentari, finanzieri, militari e imprenditori. «La cosa più preoccupante dello scandalo- scrive nell'editoriale il direttore Zanetti- è il fatalismo, più che la indignazione, con noia più che con rabbia, con cui viene accolto. Una rilassata disperazione, da "indifferenti" degli anni Ottanta. Ciò che tiene assieme tutti quei personaggi dalle origini e dalle storie così disparate, è una totale mancanza di principi». Sullo stesso numero appare un grande ritratto di Calvi, arrestato per esportazione illecita di capitali, "Un banchiere così non si era mai visto", mentre in "Mal di testata" si entra nel vivo della bufera al "Corriere della Sera". Piduisti soci sostenitori sono sia Angelo Rizzoli sia il direttore generale Bruno Tassan Din che verranno poi arrestati nel febbraio 1983 per bancarotta fraudolenta. In un'intervista rilasciata a Nello Ajello in quel giugno 1981 Indro Montanelli, uscito sette anni prima da via Solferino per fondare "Il Giornale", ammette sinceramente di non aver profetizzato che il "Corriere" potesse finire nelle mani di un «magliaro di quelle dimensioni», pur sapendo che «avrebbe perso la propria indipendenza finanziaria, non sarebbe stato più gestito da un editore puro com'erano i Crespi ... ». Attorno al "Corriere" scoppia una guerra di potere nella quale sono coinvolti un po' tutti e sui Misteri d'Italia si allunga l'ombra dello spregiudicato Craxi e della "volpe" Andreotti. In un vortice del malaffare che porterà a Tangentopoli. Se ne accorge anzitempo il leader del Pci, Enrico Berlinguer, che lancia l'allarme sulla "questione morale" in un'intervista rilasciata il28 luglio 1981 al direttore di "Repubblica", Eugenio Scalfari.

Cadono i muri, 1985 -1989. La nostra storia in ebook. Wlodek Goldkorn su L'Espresso il 22 luglio 2021. Il settimo libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Vengono analizzati e raccontati gli avvenimenti di quel periodo storico attraverso le immagini di fotografi d’autore e di importanti firme del giornale, tra cui Guido Quaranta, Wlodek Goldkorn, Gad Lerner, Federico Bugno, Enrico Arosio, Sandro Acciari, Giorgio Bocca, Leonardo Sciascia, Umberto Eco, Sergio Saviane, Rita Levi Montalcini e Gore Vidal. A 26 anni dalla caduta del Muro di Berlino, cosa rimane dell'Europa? Il confine orientale del Continente è instabile: tra regime autoritario a Mosca, guerra in Ucraina, territori dalla sovranità incerta, come la Transnistria, pezzo di Moldova in mano ai russi; mentre l'Ungheria, Paese membro dell'Ue è saldamente in mano ai populisti nazionalisti e anti-democratici di Viktor Orban. Sul fianco Sud si sta affacciando l'integralismo islamista le cui avanguardie colpiscono obiettivi considerati simbolici nelle nostre capitali. Perfino il cuore della vecchia Europa mostra segni di stanchezza: in Francia è in crescita il Front national, un movimento xenofobo e anti-europeista; e lo stesso accade in Germania, dove Dresda, una delle città epicentro della rivolta che ha portato al crollo del Muro, è culla e luogo simbolo di raggruppamenti che propagano l'ostilità verso gli immigrati e verso l'Unione europea. Se a questo elenco, incompleto, aggiungiamo gli orrori della guerra balcanica degli anni Novanta (quel conflitto fu una delle conseguenze del crollo del Muro) avremmo un bilancio, in apparenza, fallimentare dell'ultimo quarto di secolo del nostro continente, tanto di essere tentati di rimpiangere il vecchio ordine. Ma è davvero così? Per rispondere a questa domanda conviene ripartire da dove comincia questo volume, dal 1985. Nel marzo di quell'anno il Comitato centrale del Partito comunista sovietico elegge un relativamente giovane (aveva 54 anni) burocrate Mikhail Gorbaciov alla carica del Primo segretario. L'Unione sovietica, all'epoca, è retta da una gerontocrazia priva di immaginazione e che governa coi metodi di segretezza modellati sull'esempio di satrapie orientali: esisteva perfino una scienza, la cremlinologia, che dà segni difficilmente percettibili, come l'ordine di apparizione dei leader a qualche cerimonia ufficiale, traeva conclusioni su ciò che succedeva ai vertici di potere. Nel vicino Afghanistan è in corso una guerra che le truppe dell'Urss non sono in grado di vincere; ogni giorno aerei Antonov riportano nell'Urss bare con cadaveri di ragazzi morti inutilmente. E ancora: l'economia è a pezzi, causa inefficienza, corruzione, clientelismo. Il fianco occidentale del Paese è un'altra ferita aperta: in Polonia il movimento di Solidarnosc, guidato da Lech Walesa, continua la sua attività, nonostante anni prima fosse stato messo fuori legge, ed è aiutato dalla Chiesa e dal pontefice Karol Wojtyla. E ancora: il dissenso, così si chiamava quel fenomeno che vide intellettuali e attivisti democratici organizzare una vera opposizione ai regimi autoritari, ha preso piede in Cecoslovacchia (protagonista un grande scrittore Vadav Havel), Ungheria, perfino nella Ddr. Tutto questo, mentre il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, affiancato dalla premier britannica Margaret Thatcher, è convinto che quello comunista fosse "l'impero del Male", condannato a morte (simile intuizione ebbe da noi Bettino Craxi, l'unico tra i leader italiani a onor del vero). È difficile sapere quale fosse il vero programma politico di Gorbaciov nel momento in cui diventò il padrone del Cremlino. Probabilmente, stava pensando a una graduale riforma del paese, a qualche misura per rendere l'economia un po' più vivace. Ma, spesso nella storia accade che un incidente in apparenza tecnico, finisce per cambiare il corso degli eventi e lo spirito del tempo. È stato questo il caso del disastro di Cernobyl nell'aprile del1986. L'esplosione di un reattore nucleare e la nube radioattiva che si propagò per tutto il continente, fino all'Oceano Atlantico non potevano essere nascosti all'opinione pubblica, come avveniva invece in Urss, per decenni. Il mistero cui era avvolta la vita dei sovietici era tale che non venivano pubblicati elenchi telefonici; le cartine geografiche portavano dati falsi, conglomerati urbani di importanza militare, ufficialmente non esistevano. Gorbaciov colse quindi l'occasione dell'incidente nucleare per farla finita con l'ossessione della segretezza. Il segretario del Pcus aveva compreso che senza la libertà d'informazione l'Urss sarebbe stata condannata a morte. O meglio, il suo tentativo di introdurre la libertà di parola (lo chiamò glasnost, seguì un progetto di riforma dell'economia definito perestrojka) fu un tentativo eroico e tragico, tragico perché intrapreso troppo tardi e non per colpa sua, di salvare il salvabile. In questa sua impresa Gorbaciov trovò un alleato in Andrej Sacharov, premio Nobel per la pace, confinato da anni nella città di Gorkij (Niznyj Novgorod). La scena è da grande romanzo: il 23 dicembre 1986, l'uomo, che siede al Cremlino (simbolo di un potere assoluto) chiama al telefono il suo prigioniero più illustre e gli dice: da domani sei libero e sappi che ho bisogno di te. I primi a capire quello che stava accadendo a Mosca sono stati i polacchi. Il paese era allo stremo; nei negozi mancavano beni di prima necessità; gli ospedali erano privi di medicine. I comunisti non erano più in grado di governare: per stanchezza, per mancanza di fiducia in se stessi, e lo sapevano bene. Dall'altro lato della barricata, nonostante la messa fuori legge di Solidarnosc (dicembre 1981) in seno all'opposizione democratica ha continuato a crescere una classe politica straordinariamente ben preparata, colta, intelligente e generosa. E basti pensare a intellettuali come il cattolico Tadeusz Mazowiecki (fu il primo Presidente del Consiglio non comunista; mori nel 2013, povero); o il grande storico Bronislaw Geremek, o a Jacek Kuroii (nove anni nelle patrie galere; a casa sua non chiudeva mai la porta perché chiunque potesse entrare e chiedere aiuto). A Varsavia nel 1988 i comunisti intavolavano un negoziato con l'opposizione e con la mediazione della Chiesa, e che finì con il passaggio di potere l'anno dopo. Seguivano, con un simile modello, gli ungheresi. Poi, manifestazioni di piazza hanno finito per rovesciare gli altri regimi, e fino e oltre (in caso cecoslovacco) alla sera del 9 novembre 1989 in cui è caduto il Muro. Comunque, quelle rivoluzioni furono, tra le ultime guidate da grandi intellettuali prestati alla politica (in Cecoslovacchia da Vaclav Havel, una delle menti più eccelse del secolo scorso), e forse per questo, prive di rancore e generose invece. L'entusiasmo era contagioso. Tanto che in Palestina era in atto l'Intifada, una rivolta popolare contro l'occupazione israeliana, mentre in Cina gli studenti reclamavano libertà e democrazia. Di quell'entusiasmo, come si diceva, rimane poco. Ma due cose vanno ribadite. La prima: la memoria, anche e soprattutto quella degli in apparenza sconfitti (come appunto i generosi intellettuali o Gorbaciov) può in ogni momento trasformarsi in un progetto dell'avvenire. Lo sapeva bene il grande pensatore ebreo tedesco Walter Benjamin. La seconda cosa da ricordare è che nessuno può negare quanto nonostante tutto l'Europa sia oggi un posto migliore: basta andare in visita a Berlino, Varsavia o Vilnius per constatarlo. E comunque quel Muro doveva cadere.

Mani pulite, 1990-1994. La nostra storia in ebook. Gianluca Di Feo su L'Espresso il 22 luglio 2021. L'ottavo libro in formato digitale riservato ai nostri abbonati. Il volume raccoglie gli avvenimenti di quel periodo attraverso i racconti di grandi firme del giornale, tra cui Chiara Beria di Argentine, Giampaolo Pansa, Claudio Rinaldi, Vittorio Zucconi, Alberto Moravia e Umberto Eco, accompagnati da fotografie d’autore. L’ebook si apre con l’inchiesta di Milano sui soldi ai partiti e apre la strada a Berlusconi. Nulla è stato più come prima. Politica, economia, l'intera società: in cinque anni è cambiato tutto. Sono spariti Democrazia cristiana e Partito comunista, lasciando il posto alle sfide tra Forza Italia e Pds. Alle cabine telefoniche della statalissima Sip si sono sostituiti i cellulari della Telecom, anticamera delle privatizzazioni sfrenate. Nelle strade poco alla volta sono comparsi gli immigrati, costringendoci a fare i conti con un mappamondo dove ogni giorno spuntavano nuove nazioni, figlie dello sgretolamento dell'Urss, mentre l'Europa smantellava le frontiere. Il Muro di Berlino era crollato da un po', ma per un paio d'anni in Italia le cose sono rimaste sospese, con gli stessi riti e gli identici sprechi che hanno dominato il decennio della Milano da bere: i Mondiali di calcio del1990 sono stati l'ultimo valzer di un paese che ballava sull'orlo del baratro. Ovunque si percepiva già la volontà di cambiare, si sentiva il rumore delle crepe nel sistema rimasto bloccato per mezzo secolo, con incrostazioni rugginose che legavano politica ed economia. La trasformazione però è cominciata tutta d'un botto, come se ci fossimo caduti dentro all'improvviso. Come se la voragine della strage di Capaci avesse inghiottito l'intero paese. Dalla primavera del 1992 la Storia inizia a correre, velocissima. La corrente di un fiume che procede placido per mezzo secolo e poi avvicinandosi alla cascata accelera, fino a farsi onda travolgente. O meglio, per citare la profetica metafora evocata allora da Luciano Cafagna, «è come se in una valle nella quale si sta formando una slavina, con pareti da ogni parte pronte a smottare e ricongiungersi nella gran palla, dal vicino monte Everest cominciasse a piovere giù una paurosa gragnuola di sassi. Il povero villaggio che sta in attesa a valle è la democrazia italiana». A scatenare la valanga è stato un pugno di banconote. Quei sette milioni di lire che il boiardo socialista Mario Chiesa ha intascato il 17 febbraio 1992 nella presidenza del Pio Albergo Trivulzio, l'istituzione milanese che assiste gli anziani, erano insignificanti nella routine di mazzette che quotidianamente gli imprenditori mettevano sulla sua scrivania. Un'inezia rispetto alla caterva di denaro lecito e illecito che alimentava l'apparato elefantiaco dei partiti, raccolto da una macchina spietata che aveva allungato tentacoli su ogni aspetto della vita pubblica: non c'era neppure bisogno di chiedere, tutti sapevano che bisognava pagare. Anche per Bettino Craxi, lo statista che aveva segnato il decennio precedente e il regista di un sistema colossale di finanziamenti, quella era una vicenda piccola piccola: l'ha liquidata con una battuta, sostenendo che Mario Chiesa era solo "un mariuolo isolato". La replica da San Vittore è arrivata in una decina di verbali che descrivevano il rito ambrosiano delle mazzette e davano in pasto ai magistrati il gran capo e la sua corte: il cognato Paolo Pillitteri, sindaco in carica, il suo predecessore Carlo Tognoli, tutti gli uomini d'oro che il Psi aveva insediato al vertice di progetti colossali come la costruzione dell'aeroporto di Malpensa o le nuove linee della Metropolitana. È stato l'esordio di un terremoto, con scosse proseguite per tre anni e intensità crescente. In estate, l'inchiesta coinvolge i vertici lombardi di tutti i partiti. In autunno non è più Tangentopoli, ma una questione nazionale, con accuse alle grandi holding pubbliche come Enel ed Ferrovie e i big degli appalti in cella, inclusi i top manager della Fiat. In inverno tocca ai segretari di quel pentapartito che aveva arbitrato le sorti del Paese, un anno esatto dopo la prima bustarella l'intera catena di comando dell'Eni finisce a San Vittore. Ma è da Palermo che arriva l'onda più devastante. Prima l'uccisione di Salvo Lima, il proconsole siciliano di Giulio Andreotti, poi le bombe contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino mettono a nudo l'incapacità della classe politica, che dopo avere intessuto rapporti antichi con la mafia adesso ne subisce l'attacco più spietato. ll tritolo rade al suolo le architetture della vecchia politica, condizionando l'elezione al Quirinale. E il sacrificio dei due giudici cementa un consenso popolare verso i magistrati mai visto prima. La folla urlante che irrompe nella cattedrale normanna durante i funerali di Borsellino e quella che marcia esibendo manette davanti al Palazzo di Giustizia meneghino si trasformano nella pioggia di monetine scagliate contro Craxi all'uscita dell'Hotel Raphael, anticamera di un esilio senza ritorno. Le stragi di Cosa nostra colpiscono alle spalle i palazzi romani, scompaginando i disegni per frenare l'indagine sulla corruzione. Il pool di pubblici ministeri milanesi sa che soltanto la rapidità può permettergli di andare avanti. È una squadra composta di persone estremamente diverse: l'ex poliziotto Antonio Di Pietro è il motore, capace di definire approcci semplici ai problemi più complessi. La visione strategica però è quella di Francesco Saverio Borrelli. Al suo vice Gerardo D'Ambrosio va il merito di avere affiancato a Di Pietro Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, due magistrati con visioni diverse e uguale tenacia. Hanno un'esperienza comune: si sono scottati in passato cercando di fare luce sul lato oscuro del potere - dalle trame di Piazza Fontana ai fondi neri di Michele Sindona - e questa volta vogliono che le indagini vadano fino in fondo. I pm, a cui si aggiungeranno Francesco Greco, Paolo Ielo e più tardi Ilda Boccassini, lavorano sempre, domeniche e ferragosto inclusi. Una macchina a ciclo continuo, inarrestabile. Non si fanno intercettazioni, tutto si decide in tempo reale nelle stanze della procura, facendo leva sulla paura del carcere e sul danno di immagine che si rovescia sugli imputati. Ogni giorno arresti, interrogatori, confessioni destinate a trasformarsi in altri mandati di cattura. I verbali sono telegrafici, quasi epigrafi, con elenchi di pagamenti senza confine: davanti all'ufficio di Di Pietro c'è una coda che attende di confessare. «Gli imprenditori consapevoli di avere ormai perso ogni protezione politica e di non poter più disporre di denaro per realizzare grandi opere pubbliche, cercavano in questo modo una forma di riscatto dalla riprovazione della pubblica opinione», ha ricordato D' Ambrosio. In meno di diciotto mesi si passa dai sette milioni di lire afferrati da Mario Chiesa ai 150 miliardi distribuiti dalla Ferruzzi per manovrare il futuro della chimica italiana. È una rivoluzione? Davigo ripete spesso che è accaduto il contrario, che il pool ha salvato la credibilità dello Stato. Le retate scattano mentre la crisi cancella aziende storiche, spariscono l'Alfa Romeo di Arese e l'Ilva di Bagnoli, la disoccupazione è alle stelle e la lira sottoterra, tanto che il governo mette le mani nei depositi bancari di tutti per sostenere il debito pubblico. Gli ordigni della mafia sfregiano gli Uffizi, San Giovanni in Laterano, il centro di Milano. Un voto del marzo 1994 incorona una nuova classe politica. Quarantenni come Walter Veltroni, Massimo D'Alema, Gianfranco Fini, Pierferdinando Casini, Umberto Bossi, con leader di poco più anziani: Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Resteranno al timone per un ventennio, finché un'altra crisi economica - più lunga e ancora più profonda - non darà uno scossone al paese. I risultati del pool sono stati eccezionali, con numeri che restano incredibili: 4.520 persone indagate, un terzo delle quali condannate in pochi mesi. La strada italiana al cambiamento però è finita tutta lì, incanalata in un'unica direzione: il sogno delle Mani pulite ha fatto dimenticare le riforme per rimettere in moto il Paese. Superata la crisi, tutto è ricominciato come prima. Le privatizzazioni sono servite solo a creare un'altra razza padrona, che non ha brillato. E sul fronte della corruzione, invece di fare tesoro delle lezioni per cambiare pagina, si è gradualmente ridotta la possibilità di fare giustizia, paralizzando i tribunali. Eppure in quegli anni abbiamo sognato. Abbiamo creduto in un paese diverso, più onesto, più giusto. L’Espresso è stato il metronomo, che ha scandito il passo della trasformazione. Una lettura praticamente obbligata. Nelle pagine c'erano le rivelazioni sulle inchieste, che anticipavano i nuovi fronti dello tsunami giudiziario. Ma soprattutto ogni settimana c'era la chiave per decifrare quello che stava accadendo. Gli interventi di Giorgio Bocca e Giampaolo Pansa, la visione di un direttore come Claudio Rinaldi, il primo a rendersi conto di quanto Silvio Berlusconi avrebbe trasformato l'Italia. La fine di Mani pulite comincia con la prima vittoria elettorale dell'imprenditore che si è comprato tutto, il Milan e i giudici, la stampa e gli avversari politici. Ma questa un'altra storia, quella che ha condizionato la nostra vita fino a ieri. 

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Per Nome e Cognome.

Storia. I 20 cognomi più diffusi nelle varie regioni d'Italia. Da Giuliana Rotondi il 23 ottobre 2017 su Focus.it Breve storia dei cognomi e una mappa d'Italia con quelli più diffusi, regione per regione. I 20 cognomi più diffusi in ogni regione italiana, raggruppati da Italianismo: una notevole varietà rispetto ad altre regioni d'Europa, spiegabile con la frantumazione linguistica del nostro Paese e con il ritardo dei processi di uniformazione della lingua nazionale. Italianismo

Ci sono oltre 300.000 cognomi italiani. Un calcolo preciso è impossibile, perché nel tempo alcuni si sono estinti e altri si sono formati (di solito a causa di errori di trascrizione degli uffici di anagrafe).

Al di là delle novità introdotte dall'immigrazione quasi tutti sono di origine medievale e si sono affermati molto gradualmente. Ma quali sono quelli più diffusi nelle varie regioni?

A differenza di ciò che molti pensano, nessun cognome deriva da nomi latini. Scordatevi quindi di poter millantare parentele con Cesare, anche se vi chiamate Cesaroni. Il sistema dei tre nomi latini (praenomen, nomen e cognomen, come in Caio Giulio Cesare o in Marco Tullio Cicerone) che indicava il padre, la gens di appartenenza (gruppo di famiglie che si riconosceva in un antenato comune) e il "nome proprio" (un soprannome detto appunto cognomen) cadde in disuso con la fine dell'Impero romano, attorno al V secolo d.C.

TUTTI ROSSI E BIANCHI. Nei primi secoli del Medioevo andava di moda il nome unico: avevano un solo nome i cristiani dei primi secoli, i germanici che si fermavano nella Penisola e altre popolazioni venute dal Nord.

Inoltre, là dove vigeva un regime feudale il cognome non serviva perché i contadini erano servi della gleba nelle mani del loro signore e per distinguerli si usava tutt’al più il nome del loro padre.

Le cose cambiarono dopo l'anno Mille per via della maggiore mobilità: più spostamenti tra le popolazioni, delle merci, più centri abitati, più compravendite. Tanti testamenti e donazioni...

A quel punto l'omonimia divenne un problema serio: vennero così assegnati ai cittadini i secondi nomi, quelli che per noi oggi sono i cognomi. Per sceglierli si partiva dalla paternità (di Stefano, de Simone...) dal luogo di provenienza (Furlàn, Ferraresi, Romano...), dall'attività praticata (Barbieri, Fabbri), oppure, in forma di soprannome, dall'aspetto fisico o dai tratti del carattere (Esposito, Mori, Russo...).

PIACERE, CAZZARO. Non tutti i nomi erano o si sono rivelati particolarmente riusciti, e in alcuni casi hanno rappresentato un'eredità decisamente imbarazzante per chi li portava. È il caso dei cognomi-parolaccia: in Italia, fino al 2015 ne sono stati contati 111, che "segnavano" circa 38.000 persone (lo 0,06% degli italiani, 6 su 10.000). 

La situazione si complica quando i genitori, neanche volessero fare un dispetto ai figli, a cognomi impegnativi abbinano nomi improbabili, con risultati sorprendenti. Ecco alcuni esempi: Benvenuta Vacca, Immacolata Sottolano, Bocchino Fortunato, Tromba Alessia, Chiappa Rosa, Bigo Lino... Solo per citare alcuni dei più noti ed esilaranti (non per i "proprietari", comunque).

La Ruota dell'Ospedale degli Innocenti, a Firenze. La "ruota degli esposti" era comune per chiese, ospedali e monasteri: sul gradino più alto venivano deposti, in segreto, i neonati abbandonati, che spesso prendevano poi il cognome Esposti, Esposto, Esposito... (che oggi non si possono più usare).

La buona notizia è che cambiare cognome è possibile, presentando domanda al prefetto della provincia di residenza. Di solito, chi cambia un cognome volgare lo fa in due modi: o si limita a cambiarne una sola lettera (Merdelli può diventare Verdelli), oppure lo sostituisce con quello della madre. In ogni caso, una recente direttiva della Comunità Europea prevede anche la possibilità di assegnare al figlio il cognome della madre anziché quello del padre.

ANAGRAFE. Non si sa ancora con certezza, invece, quando è nata l’anagrafe. Sicuramente ne esisteva già una in età romana, per la riscossione delle tasse. Con la caduta dell’impero però i registri ufficiali romani andarono perduti e per molto tempo non se ne sentì più la necessità.

Di certo sappiamo solo che con il Concilio di Trento (1563) la chiesa stabilì che in ogni parrocchia si mettessero in un registro tutti i battesimi e le morti, fatto che già avveniva, ma più occasionalmente. Dal 1866 in poi, infine, in Italia tutto viene registrato anche dallo stato civile, che ha sede in ogni comune.

·        L’Unione Europea.

Francesca Basso e Milena Gabanelli per il "Corriere della Sera" il 28 giugno 2022.

«Dobbiamo superare il principio dell’unanimità, da cui origina una logica fatta di veti incrociati, e muoverci verso decisioni prese a maggioranza qualificata. Un’Europa capace di decidere in modo tempestivo, è più credibile di fronte ai suoi cittadini e di fronte al mondo».

Le parole del premier Mario Draghi pronunciate il 3 maggio scorso durante la plenaria del Parlamento europeo espongono in modo chiaro quale sia il problema dell’Unione europea nel prendere decisioni.

L’Europa non è uno stato federale, la moneta unica è adottata solo da 19 Paesi su 27, non c’è una Costituzione europea perché nel 2005 i cittadini francesi e olandesi hanno votato contro in un referendum. 

L’Unione europea è una comunità di diritto fondata sui Trattati negoziati dagli Stati membri, che hanno ceduto competenza verso Bruxelles ma non in egual misura in tutti i settori. 

Sulle questioni considerate politicamente più sensibili bisogna che tutti gli Stati siano d’accordo. In pratica i Paesi sono disposti a cedere competenze a condizione di avere la garanzia di poter impedire l’adozione di decisioni a loro sgradite. L’unanimità però rallenta il processo decisionale dell’Unione, ed è talvolta usata da uno Stato membro per «ricattare» gli altri.

L’unanimità come ricatto

Il sesto pacchetto di sanzioni dell’Ue contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina è stato bloccato per settimane dall’Ungheria, che ha esercitato il suo diritto di veto finché non ha ottenuto un’esenzione dall’embargo sul petrolio russo perché non ha sbocco al mare e le è difficile diversificare le forniture. 

Ma poi ha rimesso il veto perché il patriarca di Mosca Kirill fosse escluso dalle sanzioni. La direttiva Ue che punta a garantire un livello minimo globale di tassazione al 15% per le multinazionali (global minimum tax) è stata bloccata dal veto della Polonia, che poi ha tolto, ma ora lo ha messo l’Ungheria.

Anche se non dichiarato ufficialmente, Varsavia aveva stoppato la direttiva per ottenere in cambio dalla Commissione Ue il semaforo verde sul proprio Recovery Fund. L’Ungheria ha messo a sua volta il veto per esercitare la stessa pressione. L’Ue ha introdotto un meccanismo per legare i fondi Ue al rispetto dello Stato di diritto e Ungheria e Polonia hanno messo il veto al bilancio Ue 2021-2027 finché hanno ottenuto che non fosse applicato subito.

Nel 2020 Cipro ha ritardato per settimane le sanzioni dell’Ue contro la Bielorussia preoccupata per le provocazioni della Turchia, che svolgeva attività di ricerca di idrocarburi nelle acque di Nicosia senza autorizzazione.

Quando si decide all’unanimità

Dentro al Consiglio serve l’unanimità quando si prendono decisioni in questi ambiti: politica estera e di sicurezza comune (sanzioni, dichiarazioni politiche, missioni militari); imposizione fiscale (nuove tasse a livello Ue, come ad esempio la minimum tax per le multinazionali); sicurezza sociale o protezione sociale (diritti da riconoscere a livello Ue a tutti i cittadini europei); adesione di nuovi Stati all’Unione europea (per lo status di candidato all’Ucraina hanno dovuto approvare tutti e 27); cooperazione di polizia operativa tra gli Stati membri.

Negli altri casi il Consiglio decide a maggioranza qualificata, chiamata anche «doppia maggioranza»: devono essere favorevoli 15 Paesi su 27, e rappresentare almeno il 65% della popolazione totale dell’Ue. Un’astensione è considerata un voto contrario. La minoranza di blocco deve invece includere almeno quattro Paesi, che rappresentino oltre il 35% della popolazione dell’Ue.

Cosa dicono i Trattati

Nei Trattati attuali è già prevista la possibilità di procedere a maggioranza qualificata anche nei settori in cui si deve decidere all’unanimità ma per farlo è necessario che siano d’accordo tutti i 27 Stati membri: sono le «clausole passerella».

Cioè serve l’unanimità per non applicare l’unanimità. Mentre il cambiamento dei Trattati è regolato dall’articolo 48 del Trattato di Lisbona, che prevede una procedura ordinaria e due semplificate. In tutti e tre i casi il Consiglio europeo alla fine delibera all’unanimità.

Ebbene, dopo un anno di confronti tra cittadini, istituzioni, società civile e associazioni attraverso la Conferenza sul Futuro dell’Europa, i cittadini chiedono alle istituzioni europee che il principio dell’unanimità venga applicato solo per l’ingresso di un nuovo Stato nella Ue e la modifica dei principi fondanti. Il resto a maggioranza qualificata. 

La decisione del Parlamento

Il 9 giugno il Parlamento Ue ha votato una risoluzione che chiede ai leader Ue di avviare il processo di modifica dei Trattati. Nel dettaglio le richieste sono queste:

1) passare dal voto all’unanimità a quello a maggioranza qualificata in ambiti come le sanzioni, le cosiddette clausole passerella (consentono di modificare i Trattati) e le emergenze;

2) modificare le competenze che l’Ue ha nei settori della salute, energia, difesa, politiche sociali ed economiche;

3) riconoscere al Parlamento Ue l’iniziativa legislativa e i pieni diritti di colegislatore sul bilancio Ue;

4) rafforzare la procedura di tutela dei valori fondanti dell’Unione e chiarire la definizione e le conseguenze delle violazioni.

Ora la palla passa al Consiglio europeo e sono i capi di Stato e di governo a decidere se istituire una Convenzione intergovernativa per la revisione dei Trattati. La decisione viene presa a maggioranza semplice, vuol dire 15 Stati membri su 27 (ma i risultati della Convenzione dovranno essere approvati all’unanimità).

E questo è il primo problema perché il 9 maggio scorso, poco dopo la chiusura dei lavori della Conferenza sul Futuro dell’Europa, 13 Paesi Ue — Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Romania, Slovenia e Svezia — hanno presentato un documento informale in cui scrivono che avviare un processo di modifica dei Trattati sarebbe «sconsiderato e prematuro», e rischierebbe «di togliere energia «alle sfide geopolitiche urgenti che l’Europa deve affrontare».

Sei Paesi — Italia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Spagna — hanno a loro volta presentato un documento alla Commissione con il quale chiedono di dividere le proposte «attuabili rapidamente nello schema dei trattati esistente» e «le riforme istituzionali di lungo periodo» e si dichiarano «in linea di principio aperti alla necessità di apporre cambiamenti ai Trattati definiti insieme».

Il Consiglio non si sbilancia

Il Consiglio europeo nella riunione di giovedì e venerdì scorsi nelle conclusioni «prende atto delle proposte» e sottolinea che «un seguito efficace» deve essere assicurato dalle istituzioni, «ciascuna nell’ambito delle proprie competenze e conformemente ai Trattati». Niente di più.

La palla quindi rimbalza sulla prossima presidenza del Consiglio Ue: a luglio passerà alla Repubblica Ceca e poi alla Svezia che non hanno fatto mistero di non voler toccare i Trattati. Difficile aspettarsi progressi su questo fronte.

Ma ci sono altre soluzioni, a partire dalla cooperazione rafforzata che è già prevista dai Trattati (è stata usata ad esempio per creare la Procura europea): permette a un minimo di nove Stati membri di cooperare in un ambito specifico se risulta evidente che l’Unione dei 27 non è in grado di conseguire gli obiettivi che si è data in un termine ragionevole.

La pandemia e ora la guerra in Ucraina stanno dimostrando che le risposte ai grandi problemi non arrivano dai singoli Stati bensì dall’Ue nel suo insieme. Quando è esploso il Covid, l’acquisto congiunto dei vaccini si è dimostrata una strategia vincente. Il maxi piano di aiuti Next Generation Eu, finanziato per la prima volta con debito comune, rappresenta una svolta nella storia dell’Unione.

E allora sono i Paesi pronti ad avanzare che devono trovare il coraggio di farlo, lasciando a chi rema contro (e considera l’Ue solo uno strumento per incassare fondi), la responsabilità di restare indietro.

Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.

HMY Britannia (1953) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il Britannia a Cardiff.

Descrizione generale 

Proprietà Her Majesty's Government

Identificazione IMO 8635306

Costruttori John Brown & Company

Cantiere West Dunbartonshire, Scozia

Varo 16 aprile 1953

Entrata in servizio 11 gennaio 1954

Radiazione 11 dicembre 1997

Destino finale Esposta in museo aperto al pubblico

Caratteristiche generali

Dislocamento 4.320

Lunghezza 126 m

Altezza 42 (albero di maestra) m

Velocità 21,5 nodi (39,8 km/h)

Autonomia 2.400 mn

Equipaggio 19 ufficiali e 217 uomini di equipaggio, oltre ad un plotone di Royal Marines

HMY Britannia è stato il panfilo della Famiglia Reale Britannica. Si è trattato dell'83ª nave avente questa funzione dalla restaurazione di Carlo II d'Inghilterra (1660), ed il secondo a portare questo nome (il primo fu un cutter costruito per il Principe di Galles nel 1893). La nave è ormeggiata in modo permanente all'Ocean Terminal di Leith, Edimburgo.

Nel corso della sua vita operativa, percorse 1.087.623 miglia, pari a 2.014.278 chilometri. Oggi fa parte della National Historic Fleet ed è conservato come nave museo presso l'Ocean Terminal a Leith, Edimburgo.

Storia

La nave fu varata il 16 aprile 1953, ed entrò in servizio l'11 gennaio 1954. Dal punto di vista tecnico, era caratterizzata dalla presenza di tre alberi (alti 41 metri l'albero di trinchetto, 42 quello di maestra e 36 quello di mezzana). Gli ultimi 6 metri dei due alberi più alti erano incernierati, in modo da permettere il passaggio sotto i ponti. Il Britannia fu progettato per essere facilmente convertito in tempo di guerra in nave ospedale. 

Il Britannia, durante la sua vita operativa, è stato ampiamente utilizzato per il trasporto non solo dei membri della Famiglia Reale, ma anche di importanti personalità straniere. Il panfilo reale fu utilizzato anche da Carlo e Diana per il loro viaggio di nozze, nel 1981. Inoltre, il Britannia venne usato anche nel 1986 in occasione della guerra civile in Aden, per l'evacuazione di circa 1.000 rifugiati.

Nel 1997, il governo conservatore di John Major promise di costruire un successore al Britannia se fosse stato rieletto. Tuttavia, questo non avvenne: il 1º maggio 1997, la vittoria alle elezioni arrise al Partito Laburista. Questo decise di ritirare dal servizio la nave, che non sarebbe stata sostituita: tale scelta fu dettata da ragioni di ordine economico. La sua ultima missione fu quella di portare via dalla città di Hong Kong l'ultimo governatore della stessa, Chris Patten, ed il Principe di Galles, dopo che l'ormai ex colonia fu restituita alla Cina il 1º luglio 1997. Il Britannia fu radiato l'11 dicembre dello stesso anno, dopo oltre 40 anni di servizio.

Convegno sulle privatizzazioni in Italia e teorie del complotto[modifica | modifica wikitesto]

Il 2 giugno 1992, a bordo della nave si tenne un convegno sulle privatizzazioni in Italia, a cui presero parte importanti manager ed economisti[1]. Questo evento ha dato luogo a una delle più diffuse teorie del complotto che ritiene che quell'incontro abbia promosso la svendita delle imprese pubbliche italiane[2][3] e dato avvio alla caduta della Prima Repubblica italiana.

L'incontro avvenne in acque italiane. La nave attraccò al porto di Civitavecchia facendo poi rotta lungo la costa dell'Argentario. Alla riunione parteciparono, oltre ad alcuni banchieri inglesi, anche un gruppo di manager ed economisti italiani: Herman van der Wyck, presidente Banca Warburg; Lorenzo Pallesi, presidente INA Assitalia; Jeremy Seddon, direttore esecutivo Barclays de Zoete Wedd; Innocenzo Cipolletta, direttore generale di Confindustria; Giovanni Bazoli, presidente Banca Antonveneta; Gabriele Cagliari, presidente Eni; Luigi Spaventa. Fece anche un breve saluto scendendo prima che la nave salpasse il Direttore Generale del Ministero del Tesoro Mario Draghi. L'Unità e Il Fatto Quotidiano ricostruirono un suo discorso sull'inevitabilità delle privatizzazioni in Italia.

Fusaro, il Britannia e i complotti...e l'incapacità di usare internet. Michelangelo Coltelli (maicolengel) il 05 Febbraio 2021 su  butac.it 

Oggi facciamo davvero in fretta visto che quanto segue ci è stato segnalato da un nostro lettore che aveva già verificato i fatti. Il 4 febbraio 2021 sul canale YouTube di Diego Fusaro è apparso un video dal titolo:

Perché Wikipedia ha modificato il 3 febbraio 2021 la pagina del Panfilo Britannia?

Il video (che poi in realtà è un podcast) dura ben 2 minuti e 40 secondi. Così pochi che credo di fare cosa utile a riportare tutta la trascrizione di quanto viene detto dal turbocoglfilosofo:

…vi è un piccolo mistero che riguarda la pagina Wikipedia del panfilo Britannia. Il panfilo Britannia sapete fu quel quell’evento in realtà che caratterizzò l’Italia nel ’92 allorché sul panfilo della regina d’Inghilterra si diedero convegno al largo delle coste di ostia alcuni dei principali esponenti dell’élite turbo finanziaria i quali decisero la privatizzazione totale dell’Italia. La svolta neoliberista che proprio con Mani pulite fu possibile nel ’92 con un colpo di stato giudiziario ed extraparlamentare che cancellò la Prima repubblica e pose in essere la nuova governance tecnoliberista di liberisti di centro, liberisti di sinistra, liberisti di destra. Ebbene la pagina del panfilo Britannia su Wikipedia è stata modificata in data 3 di febbraio 2021 alle ore 18 e 05, curiosa coincidenza davvero, anche perché come sapete Mario Draghi fu sul panfilo Britannia nel 1992, fu quindi tra coloro i quali decisero o quantomeno discussero delle sorti liberalizzatrici e privatizzatrici del Paese. Ebbene curiosamente la pagina del panfilo Britannia su Wikipedia è stata modificata proprio il 3 di febbraio del 2021 alle ore 18 05 proprio nel giorno in cui Mario Draghi è stato convocato dal Presidente della Repubblica Mattarella per il nuovo governo. Ora si legge sulla pagina del panfilo Britannia, leggo, fece anche un breve saluto scendendo prima che la nave salpasse il direttore generale del ministero del tesoro Mario Draghi, insomma la pagina Wikipedia del panfilo Britannia ci spiega che Mario Draghi fece solo un breve saluto e prima che salpasse. Sul Fatto Quotidiano trovate invece il discorso che Mario Draghi tenne sul panfilo Britannia e consiglio davvero a tutti la lettura di quel discorso perché ci permette di capire molto di quello che accadde già nel ’92 e molto di quello che accadrà ora nel 2021 che Mario Draghi terrà tra le sue mani il timone della barca Italia, del nostro vascello italico, ebbene possiamo dire forse che ora è arrivato per Draghi il momento di portare a compimento i compiti del panfilo Britannia del ’92…

Come chiunque non sia nato prima degli anni Sessanta sa, le modifiche su Wikipedia sono pubbliche, non c’è nessun mistero su cosa sia cambiato nella pagina dedicata al panfilo Britannia e a quel viaggio, che sono ormai quasi trent’anni che solletica le fantasie prima di signoraggisti, poi di sovranisti e infine di turbofilosofi e criminologi de noantri…

Come ci è stato riportato nella segnalazione: il corpo del testo della pagina Wikipedia è invariato dal 2016. L’unica cosa che al 3 febbraio era stata modificata era la nota [6] a piè di pagina, che si accosta alla nota nota [5] già presente. La nota bibliografica [6] altro non è che un articolo del Fatto Quotidiano, che lo stesso Fusaro richiama dal minuto 2.10 al minuto 2.40. 

Quindi non c’era nessun mistero nella modifica della pagina, e non ci credo che un soggetto giovane come Fusaro possa non sapere, nel 2021, che tutte le modifiche apportate su Wikipedia sono pubbliche e verificabili dagli utenti. Se davvero non lo sa questa dovrebbe essere dimostrazione che non è un soggetto da seguire. Uno che parla di complotti e nemmeno conosce il funzionamento dello strumento su cui ogni giorno carica le sue sbrodolate in salsa complottista non è una fonte di informazione affidabile.

Della vicenda del Britannia ne ha parlato il sempre bravo Alessandro D’Amato su Today, con queste conclusioni:

La lunghezza del discorso pubblicato dal Fatto Quotidiano ci permette di far notare che non si trattava di un semplice “saluto a nome del governo”, ma Draghi era lì per il suo ruolo e fece quello che andava fatto: spiegò a chi aveva capitali da spendere quale sarebbe stato il processo di privatizzazione delle aziende di Stato italiane, allo scopo di invitarli a investire. Questo e nient’altro. A distanza di anni l’assalto dei complottisti di QAnon alla Casa Bianca ci ha insegnato cosa può succedere quando molta gente crede a una balla: che si comporta come se quella balla fosse realtà, finché non finisce male. Anche per chi (Donald Trump) quella balla ha cercato di alimentarla per convenienze personali. E lo sciamano con il turbante oggi ha cambiato completamente verso prendendosela proprio con Trump, cosa che succede abbastanza spesso quando un complottista va a sbattere contro la realtà. Da quanto circolerà ancora questa storia di Draghi e del Britannia capiremo se anche in Italia c’è qualcuno che ha voglia di fare un frontale con la realtà.

Fusaro è uno di quelli alla guida del bus che sta tentando il frontale, fossi nei suoi follower scenderei alla prossima fermata. Detto ciò le modifiche alla pagina Wiki dedicata al panfilo non si sono fermate, come è normale che sia se un argomento torna virale dopo un po’ che non se ne è parlato. 

Basta andare sulla pagina “cronologia” per vederle tutte, e cliccando sul testo in blu potete vedere chi ha aggiunto o eliminato qualcosa e cosa è stato aggiunto o eliminato. Nulla di così difficile, a meno che non siate turbofilosofi.

Non credo sia necessario aggiungere altro.

Cos'è questa storia di Draghi e del Britannia Today . Alessandro D'Amato il 03 febbraio 2021 su Today.

Da quando Mattarella ha annunciato di volergli conferire l'incarico è tornata a circolare la teoria del complotto su SuperMario e sul panfilo dove tenne un discorso sulle privatizzazioni italiane nel 1992. Ecco un estratto del suo discorso e un inquadramento storico della vicenda

Non appena Sergio Mattarella ha annunciato di voler conferire l'incarico di formare un nuovo governo a Mario Draghi, subito le agenzie di stampa facevano rimbalzare una dichiarazione del senatore del MoVimento 5 Stelle Elio Lannutti: "Draghi sul Britannia: il discorso dell'inizio della fine dell'Italia. Nel 2011 Monti. Oggi Draghi. Non governerà col mio voto. Mi spiace!". Subito dopo arrivava a dargli man forte l'ex grillino Gianluigi Paragone in un video su Facebook: "Draghi è quello del Britannia, quello delle privatizzazioni con cui abbiamo svenduto il paese. Ma ora vedremo le carte, si gioca a carte scoperte". Non solo: in alcune chat complottiste su Telegram e Whatsapp rimbalzava questo estratto di una dichiarazione a Uno Mattina dell'allora senatore a vita e già presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che di Draghi diceva: "Un vile affarista. Non si può nominare premier chi è stato assunto dalla Goldman Sachs. E male feci io ad appoggiarne la candidatura a Silvio Berlusconi. È il liquidatore, dopo la crociera sul Britannia, dell'industria italiana. Ora svenderebbe quel che rimane: Finmeccanica ed Eni". Ma cos'è questa storia di Draghi e del Britannia? 

Cos'è questa storia di Draghi e del Britannia

Si tratta di una delle più longeve teorie del complotto che abbiano mai attraversato la Repubblica italiana. Tutto parte dal 1992, ma prima bisogna fare un passo indietro. Dopo la conclusione del suo incarico come direttore esecutivo della Banca Mondiale, nel 1991 Draghi diventò direttore generale del ministero del Tesoro, chiamato a quel posto dall'allora ministro del Tesoro del settimo governo Andreotti Guido Carli. A suggerire il suo nome fu Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia e qualche anno dopo presidente del consiglio di un governo tecnico, come si appresta a diventare oggi proprio SuperMario. Nel 1992, mentre le finanze italiane versano in condizioni drammatiche (e di lì a poco il presidente del Consiglio Giuliano Amato decretò il famigerato prelievo sui conti correnti: la famosa patrimoniale del 6 per mille), si decide di dare il via per fare cassa a un piano di privatizzazioni delle società partecipate dallo Stato. Prima dell'inizio della stagione delle privatizzazioni, il 2 giugno Draghi si recò sul panfilo della regina d'Inghilterra Elisabetta II HMY Britannia per incontrare alti rappresentanti della comunità finanziaria internazionale. Di qui l'accusa: Draghi si accordò con la finanza internazionale per svendere l'Italia. 

Il 22 gennaio del 2020 il Fatto Quotidiano pubblicò un articolo a firma di Alessandro Aresu che parlava della vicenda, il commento dell'allora caporedattore dell'economia Stefano Feltri (che nel frattempo è diventato direttore di Domani) e il discorso integrale fatto da Draghi. Il contesto storico sintetizzato nella presentazione ricordava lo scioglimento delle Camere decretato da Francesco Cossiga il 2 febbraio 1992, la firma cinque giorni dopo del Trattato di Maastricht, in cui Carli ha un ruolo chiave, le elezioni di aprile con la prima affermazione della Lega Nord, l’accelerazione di Mani Pulite. Quel 2 giugno arriva pochi giorni dopo la strage di Capaci e l’ekezione di Scalfaro: "Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico", esordì Draghi. I British Invisibles erano allora il gruppo di interessi finanziari della City.

Per poi spiegare: "La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio. Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit. Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento".

Chi è Mario Draghi, chi voterà il suo governo tecnico e cosa succede adesso

Il discorso di Draghi sul Britannia il 2 giugno 1992

Poi, dopo aver elencato le condizioni dello Stato italiano e la decisione di muoversi verso un percorso di riforme insieme alle privatizzazioni: poco più tardi un referendum cambiò la legge elettorale introducendo il maggioritario e aprendo la via alla cosiddetta Seconda Repubblica. Draghi aggiungeva: "Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo".

E infine concludeva così: "I mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’ag - giustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni". E quasi trent'anni dopo Feltri commentava: "La lista di quello che bisognava fare e non è stato fatto è lunga. Draghi probabilmente riscriverebbe oggi quel discorso, parola per parola. Inclusa la parte che analizza perché gestire le aziende con logiche politiche e di consenso a breve termine è la premessa di disastri scaricati presto o tardi sui conti pubblici". Oggi Alessandro La Barbera su La Stampa ricorda che già in quei mesi a Draghi toccò l'accusa di aver svenduto l'Italia agli interessi stranieri: 

Gli capita ancora, a distanza di trent’anni, di ricordare con fastidio la campagna di discredito che gli fu riservata per essere salito pochi minuti sul panfilo della Regina d’Inghilterra attraccato al molo di Civitavecchia. L’invito fu spedito da un gruppo di investitori. Lui salì, fece un saluto a nome del governo, e se ne andò. Quel piano di privatizzazioni, attaccato da molti, fu una delle premesse per far entrare l’Italia nella moneta unica.

Draghi, il Britannia e... Beppe Grillo

La storia di Draghi e del Britannia va a incastrarsi con un'altra teoria del complotto che vede coinvolto Beppe Grillo. A partire dal 2000, per motivi non chiari, circolò la voce che anche l'attuale Garante del MoVimento 5 Stelle fosse a bordo del Britannia. Una storia alimentata da immagini che mostravano dichiarazioni attribuite a Enrico Mentana come questa: "Il 2 giugno 1992 ero sulla banchina del porto di Civitavecchia con la trouppe (sic) del TG5 per una edizione speciale sulla riunione a bordo del panfilo inglese di Elisabetta II. Saranno state le 14:30, intervistai in diretta Beppe Grillo subito dopo lo sbarco dal motoscafo che lo riportò in porto". Un'altra invece tirava in ballo Emma Bonino, “al microfono dell’unica troupe giornalistica del TG1 accreditata sulla nave. Si tratta di due bufale. Il direttore del Tg di La7 la smentì con il suo stile sei anni fa su Facebook: "Qualche mestatore imbecille ha rimesso in circolo la panzana secondo cui nel 1992 avrei intervistato Beppe Grillo che scendeva dal panfilo Britannia nel porto di Civitavecchia. Intervenga - se è possibile - chi è preposto a impedire la circolazione di notizie palesemente false sui social network. E riflettano tutti coloro che utilizzano Fb e Twitter per drogare la circolazione virale di bufale a scopo politico. E sono tanti.".  

Ma allora cos'è questa storia del Draghi e del Britannia? La lunghezza del discorso pubblicato dal Fatto Quotidiano ci permette di far notare che non si trattava di un semplice "saluto a nome del governo", ma Draghi era lì per il suo ruolo e fece quello che andava fatto: spiegò a chi aveva capitali da spendere quale sarebbe stato il processo di privatizzazione delle aziende di Stato italiane, allo scopo di invitarli a investire. Questo e nient'altro. A distanza di anni l'assalto dei complottisti di Qanon alla Casa Bianca ci ha insegnato cosa può succedere quando molta gente crede a una balla: che si comporta come se quella balla fosse realtà, finché non finisce male. Anche per chi (Donald Trump) quella balla ha cercato di alimentarla per convenienze personali. E lo sciamano con il turbante oggi ha cambiato completamente verso prendendosela proprio con Trump, cosa che succede abbastanza spesso quando un complottista va a sbattere contro la realtà. Da quanto circolerà ancora questa storia di Draghi e del Britannia capiremo se anche in Italia c'è qualcuno che ha voglia di fare un frontale con la realtà.  

PRIVATIZZAZIONI. 1992, FALSI MITI ED ERRORI VERI 

“Privatizzazioni inevitabili, ma da regolare con leggi ad hoc”: il discorso del 1992 (ma attualissimo) di Mario Draghi sul Britannia. Il Fatto Quotidiano il 22 gennaio 2020.

Pubblichiamo il discorso di Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, alla Conferenza sulle Privatizzazioni tenutasi sullo yacht Britannia, del 2 giugno 1992: l'ex presidente della Bce parlò della vendita delle azioni pubbliche. Un processo con cui, 28 anni dopo, l'Italia fa i conti. Nelle sue parole i mercati come strada per la crescita, la fine del controllo politico, l'idea di public company, ma anche i tanti rischi: "Sarà più difficile gestire la disoccupazione. Non c'è una Thatcher - disse - servono strumenti per ridurre i senza lavoro e i divari regionali. Andranno tutelati gli azionisti di minoranza". E ancora: "Questo processo lo richiede Maastricht, facciamolo prima noi. Ma va deciso da un esecutivo forte e stabile. Ridurremo il debito".

DI MARIO DRAGHI:

Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico. Durante gli ultimi quindici mesi, molto è stato detto sulla privatizzazione dell’economia italiana. Alcuni progressi sono stati fatti, nel promuovere la vendita di alcune banche possedute dallo Stato ad altre istituzioni cripto-pubbliche, e per questo la maggior parte del merito va a Guido Carli, ministro del Tesoro. Ma, per quanto riguarda le vendite reali delle maggiori aziende pubbliche al settore privato, è stato fatto poco.

Non deve sorprendere, perché un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile.

Altri oratori parleranno dello stato dell’arte in quest’area: dove siamo ora da un punto di vista normativo, e quali possono essere i prossimi passaggi. Una breve panoramica della visione del Tesoro sui principali effetti delle privatizzazioni può aiutare a comunicare la nostra strategia nei prossimi mesi. Primo: privatizzazioni e bilancio. La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio. Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit.

Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento. (Questo fatto, nella visione del Tesoro, ha alcune implicazioni che vedremo in un secondo momento). Le conseguenze politiche di questa visione sono due. Dal punto di vista della finanza pubblica, il consolidamento fiscale da mettere a bilancio per l’anno 1993 e i successivi non dovrebbe includere direttamente nessun ricavo dalle privatizzazioni. Nel contempo, dovremmo avviare un piano di riduzione del debito con gli incassi dalle privatizzazioni. Ciò implicherà più enfasi del Tesoro sulle implicazioni economiche complessive delle privatizzazioni e sull’obiettivo ultimo di ricostruire gli incentivi per il settore privato.

Secondo: privatizzazioni e mercati finanziari. La privatizzazione implica un cambiamento nella composizione della ricchezza finanziaria privata dal debito pubblico alle azioni. L’effetto di riduzione del debito pubblico può implicare una discesa dei tassi di interesse. Ma l’impatto sui mercati finanziari può essere molto più importante, quando vediamo che la quantità di ricchezza privata in forma di azioni è piccola in relazione alla ricchezza privata totale e che con le privatizzazioni può aumentare in modo significativo. In altre parole, i mercati finanziari italiani sono piccoli perché sono istituzionalmente piccoli, ma anche perché – forse in modo connesso – gli investitori italiani vogliono che siano piccoli. Le privatizzazioni porteranno molte nuove azioni in questi mercati. L’implicazione politica è che dovremmo vedere le privatizzazioni come un’opportunità per approvare leggi e generare cambiamenti istituzionali per potenziare l’efficienza e le dimensioni dei nostri mercati finanziari.

Tre: privatizzazioni e crescita. (In molti casi) vediamo le privatizzazioni come uno strumento per aumentare la crescita. Nella maggior parte dei casi la privatizzazione porterà a un aumento della produttività, con una gestione migliore o più indipendente, e a una struttura più competitiva del mercato. La privatizzazione quindi potrebbe parzialmente compensare i possibili – ma non certi – effetti di breve termine di contrazione fiscale necessaria per un bilancio più equilibrato. In alcuni casi, per trarre beneficio dai vantaggi di un aumento della concorrenza derivante dalla privatizzazione, potrebbe essere necessaria un’ampia deregolamentazione. Questo processo, se da una parte diminuisce le inefficienze e le rendite delle imprese pubbliche, dall’altra parte indebolisce la capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale. Tuttavia, consideriamo questo processo – privatizzazione accompagnata da deregolamentazione – inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea. L’Italia può promuoverlo da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea. Noi preferiamo la prima strada.

Le implicazioni di policy sono che: a) un grande rilievo verrà dato all’analisi della struttura industriale che emergerà dopo le privatizzazioni, e soprattutto a capire se assicurino prezzi più bassi e una migliore qualità dei servizi prodotti; b) nei casi rilevanti la deregolamentazione dovrà accompagnare la decisione di privatizzare, e un’attenzione speciale sarà data ai requisiti delle norme comunitarie; c) dovranno essere trovati mezzi alternativi per perseguire obiettivi non di mercato, quando saranno considerati essenziali. Quarto: privatizzazioni e depoliticizzazione. Un ultimo aspetto attraente della privatizzazione è che è percepita come uno strumento per limitare l’interferenza politica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche. Questo è certamente vero e sbarazzarsi di questo fenomeno è un obiettivo lodevole. Tuttavia, dobbiamo essere certi che dopo le privatizzazioni non affronteremo lo stesso problema, col proprietario privato che interferisce nella gestione ordinaria dell’impresa. Qui l’implicazione politica immediata è l’esigenza di accompagnare la privatizzazione con una legislazione in grado di proteggere gli azionisti di minoranza e di tracciare linee chiare di separazione tra gli azionisti di controllo e il management, tra decisioni societarie ordinarie e straordinarie.

A cosa dobbiamo fare attenzione, per valutare la forza del mandato politico di un governo che voglia veramente privatizzare? Primo, occorre una chiara decisione politica su quello che deve essere considerato un settore strategico. Non importa quanto questo concetto possa essere sfuggente, è comunque il prerequisito per muoversi senza incertezze. Secondo, visto che non c’è una Thatcher alle viste in Italia, dobbiamo considerare un insieme di disposizioni sui possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione (se essa dovesse aumentare come effetto della ricerca dell’efficienza), sulla possibile concentrazione di mercato, e sulla discriminazione dei prezzi (quest’ultima in particolare per la privatizzazione delle utility). Terzo, occorre superare i problemi normativi. Un esempio importante: le banche, che secondo la legislazione antitrust (l. 287/91) non possono essere acquisite da imprese industriali, ma solo da altre banche, da istituzioni finanziarie non bancarie (Sim, fondi pensione, fondi comuni di investimento, imprese finanziarie), da compagnie assicurative e da individui che non siano imprenditori professionisti. In pratica, siccome in Italia non ci sono virtualmente grandi banche private, gli unici possibili acquirenti tra gli investitori domestici sono le assicurazioni o i singoli individui. Una limitazione molto stringente.

In ordine logico, non necessariamente temporale, tutti questi passaggi dovrebbero avvenire prima del collocamento. In quel momento, affronteremo la sfida più importante: considerando che una vasta parte delle azioni sarà offerta, almeno inizialmente, agli investitori domestici, come facciamo spazio per questi asset nei loro portafogli? Qui giunge in tutta la sua importanza la necessità che le privatizzazioni siano a complemento di un piano credibile di riduzione del deficit, soprattutto per ridurre la creazione di debito pubblico. Solo se abbiamo successo nel compito di ridurre “continuamente e sostanziosamente” il nostro rapporto tra debito e Pil, come richiesto dal Trattato di Maastricht, troveremo spazio nei portafogli degli investitori. Allo stesso tempo, l’assorbimento di queste nuove azioni può essere accelerato dall’aumento dell’efficienza del nostro mercato azionario e dall’allargamento dello spettro degli intermediari finanziari. Qui il pensiero va subito alla creazione di fondi pensione ma, di nuovo, i fondi pensione sono alimentati dal risparmio privato che da ultimo deve essere accompagnato dal sistema di sicurezza sociale nazionale verso i fondi pensione. Ma un ammanco dei contributi di sicurezza sociale allo schema nazionale implicherebbe di per sé un deficit più elevato. Questo ci porta a una conclusione di policy sui fondi pensione: possono essere creati su una base veramente ampia solo se il sistema nazionale di sicurezza sociale è riformato nella direzione di un sistema meglio finanziato o più equilibrato rispetto a quello odierno.

Questa presentazione non era fatta per rispondere alla domanda su quanto possa essere veloce il processo di privatizzazioni – non è il momento giusto per affrontare il tema. L’obiettivo era fornirvi una lista delle cose da considerare per valutare la solidità del processo. La conclusione generale è che la privatizzazione è una delle poche riforme nella vita di un paese che ha assolutamente bisogno del contesto macroeconomico giusto per avere successo. Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo.

Lasciatemi concludere spiegando, nella visione del Tesoro, la principale ragione tecnica – possono esserci altre ragioni, legate alla visione personale dell’oratore, che vi risparmio – per cui questo processo decollerà. La ragione è questa: i mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’aggiustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni. 

Mario Draghi, servitore dell’alta finanza massonica internazionale e dei poteri forti. Da Iacchite il 4 Febbraio 2021.

Accolto da un coro pressoché unanime e plaudente, Mario Draghi divenne il nuovo governatore della Banca d’Italia il 29 dicembre 2005. Per lui sono state sprecate le lodi e gli aggettivi specie da parte del “centrosinistra”: “una scelta di alto profilo” (Prodi), “Una guida forte e sicura per Bankitalia” (Veltroni), una “biografia intellettuale di tutto rispetto” (Liberazione), “Ama il dialogo, il lavoro di staff, la discussione, circondarsi di intelligenze” (il manifesto).

Ma chi è veramente l’uomo che venne presentato come una sorta di “salvatore della patria”, colui che sarebbe stato capace di restituire “prestigio” e “credibilità” a Palazzo Koch e all’Italia intera a livello internazionale?

Draghi è innanzitutto il grande privatizzatore che ha contribuito in prima persona a svendere tutto il patrimonio industriale e finanziario pubblico gettandolo nelle fauci del mercato privato italiano e internazionale con un costo sociale altissimo soprattutto in termini di occupazione.

È l’uomo dell’alta finanza massonica internazionale da Soros, ai Rothschild, alla Goldman Sachs, accusato di essere “l’anima nera” dei “poteri forti” internazionali organizzati in associazioni di tipo massonico come Bilderberg e Trilateral alle cui converticole è stato spesso presente.

Draghi è nato nel 1947 a Roma. Frequenta il liceo dei gesuiti Massimo. Il suo compagno di scuola è il futuro presidente della Fiat e di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, che, guarda caso, oggi è stato uno dei suoi principali sponsor. Negli anni ’70, all’università, è allievo prediletto di Federico Caffè, col quale si laurea in economia e che, da barone, imporrà la sua carriera accademica. Studia e insegna nei migliori campus Usa e consegue un Ph.d in Economics presso il Massachussetts Institute of Technology (MIT). Gli Usa saranno una sua seconda patria. Poi verrà anche Londra, o per meglio dire la City.

Dal 1981 torna in Italia e insegna all’Università di Firenze. Alla fine degli anni ’80 approda nei corridoi ministeriali come consigliere economico del ministro del Tesoro Giovanni Goria, che lo designa a rappresentare l’Italia negli organi di gestione della Banca Mondiale. Draghi comincia così a tessere i suoi forti legami internazionali e interni.

Nel ’90 è consulente proprio della Banca d’Italia con Ciampi governatore, del quale si dice a tutt’oggi sia uomo fidato. Alla Banca d’Italia lavorava anche il padre di Draghi, Carlo, all’epoca di Donato Menichella.  Nel 1991 diventa direttore generale del Tesoro. Fino ad allora un incarico poco ambito. Ma Draghi riesce a trasformare quell’incarico in una delle poltrone chiave del potere economico e finanziario del Paese.

Negli stessi anni è membro del Comitato monetario della CEE e del G7, nonché presidente di Gestione Sace. Dal ’91 al ’96 è nel CdA dell’IMI e dal ’93 presiede il Comitato per le privatizzazioni. Dal ’94 al ’98 è presidente del G10 Deputies. Al nome di Draghi si lega anche il nuovo testo per la finanza societaria, che passa alla storia, appunto, come Legge Draghi. Una legge che contiene le nuove regole sull’Opa.

In sostanza, per dieci anni, fino al 2001, Draghi resta alla torre di controllo dell’industria e della finanza pubbliche nonostante la giostra di ministri e di governi che si sono succeduti: dal governo Andreotti, che lo nominò la prima volta, a quelli Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, ancora Amato e ancora Berlusconi.

La chiave di volta della sua inarrestabile carriera, sembra essere il 2 giugno del 1992 quando Draghi partecipa a una “crociera” sul lussuoso yatch “Britannia” della regina Elisabetta d’Inghilterra che incrocia a largo di Civitavecchia. Tra i passeggeri figurano i rappresentanti delle banche più importanti e dell’alta finanza “giudaico-anglosassone”, Barings, Barchlay’s e Warburg, il banchiere e speculatore internazionale George Soros e, per l’Italia, Mario Draghi, Beniamino Andreatta, collaboratore di Prodi, e, sembra, il ministro del Tesoro Barucci.

Si dice che su quella nave sia stata messa a punto e deliberata una strategia che doveva portare alla svalutazione della lira e alla completa privatizzazione delle partecipazioni statali italiane a prezzi stracciati grazie alla svalutazione. Non vi sono prove, ma certo ciò che avvenne a distanza di soli tre mesi, non può essere pura coincidenza. Fatto sta che a settembre dello stesso anno viene lanciato un attacco speculativo che porta a una svalutazione della lira del 30% ed al prosciugamento della riserva della Banca d’Italia con Ciampi che arriva a bruciare 48 miliardi di dollari.

Una crisi che portò anche allo scioglimento del Sistema Monetario Europeo (SME). E subito dopo si apre la stagione delle privatizzazioni: da Eni a Telecom, da Imi a Comit, al Credit, a Bnl. Passano in mano del mercato estero, oltre a buona parte del sistema bancario, i colossi dell’energia e delle comunicazioni, la Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Perugina, Mira Lanza e molte altre aziende dei settori strategici.

A governare lo smantellamento dell’Iri c’è Prodi col quale Draghi vanta un’antica amicizia e collaborazione nata nella frequentazione del Centro di studi economici bolognese Prometeia del DC Andreatta.

Sono tanto forti i legami di Draghi con buona parte della finanza internazionale, che Ciampi affida a lui tutto il lavoro diplomatico legato a superare le resistenze in Europa all’entrata dell’Italia nell’euro nel gruppo di testa. La lunga stagione di Draghi al ministero del Tesoro si chiude solo nel 2001, quando il ministro Tremonti chiama a sostituirlo Domenico Siniscalco.

Draghi lascia via XX Settembre e torna ad insegnare negli Stati Uniti. Dopo soli 5 mesi, nel 2002 entra in Goldman Sachs a Londra di cui ben presto diviene vicepresidente per l’Europa. Un altro clamoroso caso di conflitto d’interesse.

Nel curriculum di Draghi pochi ricordano il curioso riacquisto di una fetta di Seat da parte della Telecom che l’aveva appena ceduta. O del fatto che si è reso conto dell’affare “Telekom Serbia” solo quattro mesi dopo che l’operazione era stata conclusa. O della vendita alla Goldman Sachs per tremila miliardi delle vecchie lire dell’intero patrimonio immobiliare dell’Eni appena un anno prima, nel dicembre 2000, di essere nominato vicepresidente guarda caso proprio della Goldman Sachs.

Altro che “ottimo servitore dello Stato”. Piuttosto un ottimo servitore degli interessi speculativi dell’alta finanza e del capitalismo italiano e internazionale, quanto se non di più del deposto Antonio Fazio dal quale lo distinguono solo le principali correnti e lobby politiche, economiche e finanziarie di riferimento, che a volte agiscono in combutta, a volte in contrapposizione. Fonte: Il Bolscevico 

SERGIO ROMANO su corriere.it Martedi' 16 Giugno 2009 

LA CROCIERA DEL BRITANNIA FRA AFFARI E SOSPETTI. Che cosa accadde realmente il 2 giugno 1992 a bordo del Britannia, il panfilo della Corona d’Inghilterra, dove manager ed economisti italiani discussero con i banchieri britannici della prospettiva delle privatizzazioni in Italia? Una minicrociera di mezza giornata al largo di Civitavecchia attorno alla quale si è sviluppata la leggenda di un complotto per svendere l’industria pubblica italiana alla finanza anglosassone. Quali esponenti italiani vi parteciparono? Che effetti ebbe quella riunione? Giuseppe Zaro

Caro Zaro, Posso dirle anzitutto quello che accadde nei giorni seguenti. Vi furo­no indignate prese di posizio­ne della stampa nazionalista. Vi furono preoccupate inter­rogazioni parlamentari di esponenti del Msi. E vi fu un coro di voci allarmate che de­nunciarono la «regia occulta» dell’incontro, le strategie dei «poteri forti», la «svendita dell’industria italiana». L’uso del panfilo della Regina Elisa­betta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse sta­to organizzato da una società chiamata «British Invisibles» provocò una valanga di sorri­si, ammiccamenti e battute ironiche.

Cominciamo dal nome de­gli organizzatori. «Invisibili», nel linguaggio economico-fi­nanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, ri­lanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capi­tale di competenze nel setto­re delle acquisizioni e delle fu­sioni. Fu deciso che quel capi­tale sarebbe stato utile ad al­tri Paesi e che le imprese fi­nanziarie britanniche avreb­bero potuto svolgere un ruo­lo utile al loro Paese. «British Invisibles» nacque da un co­mitato della Banca Centrale del Regno Unito e divenne una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. Oggi si chiama International Fi­nancial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore. Nel 1992 questa organizzazio­ne capì che anche l’Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire. Come luogo dell’in­contro fu scelto il Britannia per tre ragioni. Sarebbe stato nel Mediterraneo in occasio­ne di un viaggio della regina Elisabetta a Malta. Era invalsa da tempo l’abitudine di affit­tarlo per ridurre i costi del suo mantenimento. E, infine, la promozione degli affari bri­tannici nel mondo è sempre stata una delle maggiori occu­pazioni del governo del Re­gno Unito.

Fra gli italiani che salirono a bordo del panfilo vi furono banchieri pubblici e privati, manager dell’Iri e dell’Efim, rappresentanti di Confindu­stria. Vi fu anche Mario Dra­ghi, allora direttore generale del Tesoro nel governo di Giu­liano Amato. Ma Draghi si li­mitò a introdurre i lavori del seminario con una relazione sulle intenzioni del governo italiano e scese a terra prima che la nave salpasse per l’Ar­gentario. La crociera fu breve e pittoresca, con una orche­strina della Royal Navy che suonava canzoni nostalgiche degli anni Trenta e un lancio di paracadutisti da aerei bri­tannici che si staccarono in volo da un incrociatore e sce­sero come stelle filanti intor­no al panfilo di Sua Maestà. Fu anche utile? È difficile fare i conti. Ma non c’è privatizza­zione italiana degli anni se­guenti in cui la finanza an­glo- americana non abbia svolto un ruolo importante.

Estate ‘92: la crociera sul Britannia voluta da sua maestà che privatizzò l’Italia…Il 2 giugno 1992 sul panfilo della regina Elisabetta, Royal Yacht “Britannia”, fu deciso di avviare la privatizzazione d’Italia. Paolo Delgado su Il Dubbio il 22 agosto 2018.

Il 2 giugno 1992 l’ultima estate della Prima Repubblica non era ancora iniziata. Il panfilo della regina Elisabetta, Royal Yacht “Britannia”, era all’ancora nel porto di Civitavecchia, in attesa di imbarcare ospiti importanti per una minicrociera verso l’isola del Giglio. Ci sarebbero stati manicaretti per pranzo, gamberetti e costolette d’agnello preparati da chef d’eccezione. Ci sarebbe stato un po’ di spettacolo, con i parà inglesi che si lanciavano dagli aerei decollati da un incrociatore. Ci sarebbe stata musica d’epoca, rigorosamente anni ‘ 30. Ci sarebbero stati soprattutto discorsi destinati a cambiare la storia d’Italia. Su quel panfilo, in quella giornata di sole e mare, fu deciso di avviare la privatizzazione d’Italia.

Gli anfitrioni della Union Jack erano definitivi, invisibles, invisibili, non perché si trattasse di una losca setta in stile feuilleton ottocentesco ma perché così si chiamano nel Regno Unito quelli che si occupano di transizioni immateriali, dunque soprattutto di finanza: finanzieri e banchieri. Gli ospiti erano l’alto comando dell’economia di Stato italiana: il presidente di Bankitalia Ciampi e l’onnipresente Beniamino Andreatta, i due artefici del “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro all’inizio degli anni ‘ 80, c’erano i vertici di Eni, Iri, Comit, Ina, le aziende di Stato e lepartecipate al gran completo. C’era, a introdurre il consesso, il direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Fu lui a tenere la relazione introduttiva sui costi e i vantaggi delle privatizzazioni. Dicono che dalle sue parole trapelasse un certo scetticismo e forse è vero. Di certo, terminata la prolusione, sbarcò senza proseguire alla volta del Giglio. Ma non c’era scetticismo che tenesse. L’operazione avviata in quella mezza giornata sul mare era in realtà già stata decisa e non solo perché quella era allo-ra, dopo la rivoluzione thatcherian- reaganiana, il dogma economico dal quale si erano lasciati ipnotizzare tutti, la sinistra “di governo” non meno della destra. Anche e soprattutto perché quella gigantesca dismissione era condizione imprescindibile per entrare nella nascente moneta unica. Ce lo chiedeva l’Europa. Chiedeva parecchio: lo Stato controllava treni, aerei e autostrade per intero, idem per acqua, elettricità e gas, l’ 80% del sistema bancario, l’intera telefonia, la Rai, porzioni consistenti della siderurgia e della chimica. I settori di partecipazione erano praterie sconfinate: assicurazioni, meccanica ed elettromeccanica, settore alimentare, impiantistica, fibre, vetro, pubblicità, supermercati, alberghi, agenzie di viaggio. Impiegava il 16% della forza lavoro nel Paese.

Vendere, o svendere, quel patrimonio, secondo i dettati della teoria economica imperante avrebbe raggiunto tre risultati: ridurre il debito pubblico che ammontava allora a 795 mld di euro, rendere più efficienti e competitivi i settori in via di privatizzazione, aumentare l’occupazione. In quell’inverno del 1992, mentre tangentopoli colpiva durissimo e si attendeva un referendum che tutti sapevano avrebbe siglato il Game Over per la prima Repubblica, nei corridoi di Montecitorio non si sentiva parlare che di “privatizzazioni” e “cartolarizzazioni”. Era la panacea, il sospirato miracolo, la bacchetta magica.

Si partì nel luglio 1993, con la vendita, o svendita, della prima tranche del gruppo SME, controllato dall’Iri. L’onore di aprire la strada toccò ai surgelati e ai dolci: Motta, Alemagna, Surgela più varie e molte eventuali. Se li aggiudicò la svizzera Nestlè.

Il breve governo Berlusconi, nel 1994, implicò una frenata che si prolungò fino al 1996: poi, con i governi Prodi e D’Alema, le dismissioni presero la ricorsa. Il gruppo IRI fu smembrato e messo in vendita: il ricavo immediato fu di 30 mld di vecchie lire, lievitati poi sino a 56mila e passa. Una cordata capitanata dagli Agnelli si aggiudicò Telecom. Ciampi, allora ministro del Tesoro, spiegò che serviva a impedire che Fiat vendesse all’americana General Motors. D’Alema, arrivato al governo alla fine del 1998 patrocinò il cedimento di Autostrade a Benetton, introducendo una delle principali specificità delle privatizzazioni all’italiana: la vendita allo stesso soggetto sia del servizio che delle infrastrutture, le autostrade e i caselli, Telecom e i cavi sui quali viaggia il segnale.

La dismissione è proseguita per una ventina d’anni, passando per le banche, quote di Enel ed Eni, il disastro di Alitalia. L’incasso è stato cospicuo: 127 mld di euro, una decina ricavata solo dalla vendita di immobili. Sarebbe un record se non ci fosse l’inarrivabile Regno Unito thatcheriano e post- thatcheriano che è andato persino oltre. Il bilancio però è fallimentare, almeno se si tiene conto degli sbandierati obiettivi iniziali. Il debito pubblico non è stato risanato: si è triplicato. Il rilancio dell’occupazione ha proceduto all’indietro, con un milione di posti di lavoro circa persi. Il miraggio di creare “colossi italiani” è rimasto un miraggio beffardo.

Il principale vantaggio promesso ai consumatori, l’abbassamento dei prezzi conseguente alla competività delle aziende private sul mercato, è stato rapidamente affondato dalla tendenza delle aziende stesse ad accordarsi ricreando di fatto condizioni di monopolio, solo a condizioni più esose. E’ vero che spesso gli utili delle aziende privatizzate sono cresciuti e spesso di parecchio. Però, come segnalava nel 2010 la Corte dei Conti, in una valutazione complessiva del ventennio delle privatizzazioni, non per il miglioramento dei servizi e la loro conseguente maggior appetibilità: solo per l’aumento delle tariffe.

Se sia oggi il caso di tornare a nazionalizzare è oggetto di disfide nelle quali è difficile, per chi non abbia le necessarie competenze tecniche, decidere dove siano le ragioni e dove i torti. Però ammettere che le privatizzazioni italiane sono state un fallimento sarebbe quanto meno onesto. 

Maastricht, Tremonti: "In Ue atto di straordinaria importanza ma in Italia abbattuta industria". Da adnkronos.com il 6 febbraio 2022.

"Poco dopo iniziò Mani Pulite e attraccò Britannia, avviando processo 'elegante' ma simile a quello oligarchi russi".

Se dal "lato europeo" il trattato di Maastricht "è un atto costitutivo di straordinaria importanza" per cui "la mia valutazione è assolutamente positiva", dal "lato italiano" appena "15 giorni dopo la firma inizia Mani Pulite, in seguito attracca il Britannia, avviando un processo più 'elegante' ma simile a quello parallelo avviato in Russia con i signori delle privatizzazioni" con "l'effetto finale di abbattere progressivamente la grande industria italiana" con "un processo che simile non c'è stato né in Germania né in Francia". Lo racconta l'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, che all'Adnkronos commenta i 30 anni dalla firma del trattato, il 7 febbraio 1992, che gettò le basi della Ue.

"Il Trattato di Maastricht va ricordato e analizzato in una logica bilaterale, dal lato europeo e dal lato italiano", spiega. Guardando a quello europeo "viene dopo la caduta del Muro e indirizza il nostro Continente nel nuovo mondo globale che si sta aprendo. Maastricht è del 1992, il Wto viene subito dopo, nel 1994. In questi termini - ribadisce l'ex ministro - una valutazione assolutamente positiva, ben sapendo che è work in progress, tutto è work in progress", insiste Tremonti ricordando come "dopo Maastricht sono venute tante scelte positive ma anche tanti errori. L'ipotesi era che l'Unione basata sul mercato comune fosse modello per un mondo che a sua volta superando le ideologie si unificasse nella logica del mercato. Non è stato propriamente così, non è stata l'Unione ad essere modello e paradigma del mercato, ma è stato il mercato - sostiene Tremonti - ad entrare in Europa trovandola impreparata. Eliminati completamente i dazi, troppe regole imposte a imprese europee, costrette a competere con imprese estere prive di regole. C'è ancora molto da fare e può essere fatto".

Dal lato italiano, racconta specificando di "aver personalmente verificato le parole", sul volo di Stato di ritorno da Maastricht l'allora ministro del Tesoro Guido Carli "dice 'abbiamo aggiunto al vincolo Atlantico un ancora più forte vincolo europeo' e Andreotti dice 'a Roma non sanno quello che abbiamo fatto'. Mani pulite inizia 15 giorni dopo, il Britannia attracca poco dopo, avviando un processo più 'elegante' ma simile a quello parallelo avviato in Russia con gli oligarchi, i signori delle privatizzazioni. L'effetto finale - ricorda nuovamente l'ex ministro Tremonti - è stato quello di abbattere progressivamente la grande industria italiana. Un processo simile non c'è stato né in Germania né in Francia".

Trattato di Maastricht, 30 anni dopo. L’analisi di Tremonti: “Ha abbattuto la grande industria italiana”. Penelope Corrado su Secolo d’Italia domenica 6 Febbraio 2022. 

Se dal “lato europeo” il trattato di Maastricht “è un atto costitutivo di straordinaria importanza” per cui “la mia valutazione è assolutamente positiva”, dal “lato italiano” appena “15 giorni dopo la firma inizia Mani Pulite, in seguito attracca il Britannia, avviando un processo più ‘elegante’ ma simile a quello parallelo avviato in Russia con i signori delle privatizzazioni” con “l’effetto finale di abbattere progressivamente la grande industria italiana” con “un processo che simile non c’è stato né in Germania né in Francia”. Lo racconta l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che all’Adnkronos commenta i 30 anni dalla firma del trattato, il 7 febbraio 1992, che gettò le basi della Ue.

L’ex ministro dell’Economia Tremonti spiega come hanno distrutto l’industria italiana

“Il Trattato di Maastricht va ricordato e analizzato in una logica bilaterale, dal lato europeo e dal lato italiano”, spiega. Guardando a quello europeo “viene dopo la caduta del Muro e indirizza il nostro Continente nel nuovo mondo globale che si sta aprendo. Maastricht è del 1992, il Wto viene subito dopo, nel 1994. In questi termini – ribadisce l’ex ministro – una valutazione assolutamente positiva, ben sapendo che è work in progress, tutto è work in progress”, insiste Tremonti ricordando come “dopo Maastricht sono venute tante scelte positive ma anche tanti errori.  

Tremonti: «L’Italia entrò nell’euro per l’interesse tedesco Uscirne? Sarebbe distruttivo». Alessandro Graziani il 6 gennaio 2019 su ilsole24ore.com.

«La mia prima occasione di incontro con l’euro è stata accademica alla Oxford Union Society, 18 febbraio 1999. Dibattiti provocatori e paradossali, pensi che nel 1938 in un’occasione gli studenti votarono a favore di Hitler contro Churchill, salvo poi morire sui loro “spitfire”. A ogni modo, il mio dibattito era “euro is in our national interest”? Sarei stato il primo oratore italiano mai invitato, ma ad un patto: dimostrare che l'euro conveniva al Regno Unito. L'avversario era Frederick Forsyth, che oggi si direbbe “populista”. L'occasione era unica e perciò avrei parlato anche a favore del demonio. Alla fine votarono se pure per poco a favore della sterlina. Non credo che oggi farebbero diverso, anzi». L’ex Ministro dell’Economia Giulio Tremonti inizia con un aneddoto la sua intervista a IlSole24Ore ed entra nel dibattito lanciato daquesto giornale su vizi e virtù dei 20 anni della moneta unica.

A venti anni dalla nascita, che giudizio dà dell’euro?

Per quanto atipico l'euro è comunque una moneta e, come tutte le monete, non può essere trattato come una “monade” e neppure come un “noumeno”. Che sia Platone o Kant, che sia la tecnica a farsi metafisica, troppi “esperti” oggi considerano l'euro come entità staccata o staccabile dalla realtà ed in specie dalla politica. E questo è per certi versi paradossale per due ragioni. In primo luogo perché l’euro fu concepito dai padri come strumento economico per fare politica: “federate i loro portafogli, federerete i loro cuori”. In secondo luogo perché gli ultimi venti anni, ovvero l’età dell'euro, sono anche gli anni nei quali sono cambiate la struttura e la velocità del mondo: venti anni fa non solo c'erano ancora le monete nazionali, ma c'era anche il telefono fisso, il commercio era ancora internazionale, non c'erano l'Asia o Internet. E già questo ci porta ad una prima considerazione: che effetti hanno sulla moneta la scomparsa della domanda salariale un tempo causa sistemica di inflazione o l'apparizione di circuiti finanziari automatici ed autogestiti che rendono la moneta, un tempo segno sovrano, sempre meno sovrana di sé stessa? 

È il caso di evitare l'errore “tecnico” che consiste nel considerare l'euro solo in termini di quantità monetaria, di velocità, di tassi di interesse o di cambio. Pensando che questo possa governare la realtà o prescindere dalla realtà. Soprattutto perché l'euro è moneta atipica. Per la prima volta nella storia, si ha moneta senza governi e governi senza moneta. All'origine ci furono un grande pensiero e grandi uomini. L'impressione è che la realtà presente sia un po' differente.

L’euro è anche frutto di grandi eventi storici, come la riunificazione tedesca. Che ne pensa?

Le date chiave sono il 9 novembre 1989 e il 15 aprile 1994. È più o meno qui che si colloca il “big-bang” della storia contemporanea: a Berlino con la caduta del muro e a Marrakech con il WTO. Non puoi capire l'una senza capire l'altra. Dal crollo del muro all'unione monetaria passano solo 700 giorni, ma sono i giorni nei quali è cambiata la storia. Forse una eterogenesi dei fini. Non la riduzione della forza tedesca con l'estensione del marco, ma l'effetto opposto. In ogni caso la storia si rimette in cammino. Dappertutto, anche in Italia. Ricordo due episodi per tutti: 15 giorni dopo Maastricht inizia a Milano “Mani Pulite”. Qualche tempo dopo attracca a Civitavecchia il Britannia.

L’ingresso dell’Italia nell’euro avvenne per merito o perchè conveniva ad altri Paesi europei?

È molto probabile che l'Italia abbia fatto il 3% di Maastricht perché si era già deciso di farla entrare nella moneta. Tutti gli Stati hanno fatto operazioni di bilancio per centrare il 3%, anche operazioni puramente contabili. Nel caso italiano la scelta fu tedesca, in terra neutra sul lago Lemano gli industriali tedeschi da un lato non ancora consolidati nella grande Germania e dall'altro temendo la concorrenza dell'industria italiana allora ancora molto forte convinsero la “banca tedesca” a fare entrare l'Italia nella moneta così che la curva dei tassi sul debito italiano crollò. Di incerto restava non l'ingresso, ma l'anno di ingresso. Non essendo un economista mi permetto di rinviare a quanto scritto da Modigliani e da Spaventa alle posizioni espresse da Ciampi, da Savona, da Romiti. È comunque probabile che il cambio lira/euro sia stato influenzato in negativo sull'Italia da tutto quanto sopra: come pizzino applicato sul biglietto di ingresso. Data la dimensione storica del fenomeno e la natura dell'Italia come paese fondatore, il tipico meschino errore.

La globalizzazione? Non è l'Europa che è entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione che è entrata in Europa trovandola incantata e impreparata. 

L’ex premier Prodi ha scritto pochi giorni fa sul Sole24Ore che se l’euro fece salire i prezzi di merci e servizi, la responsabilità è del Governo di centrodestra che, quando a inizio 2002 l’euro entrò nelle tasche degli italiani, non vigilò adeguatamente. Come risponde?

Non possiamo mettere in pericolo la Coesione

Dobbiamo tutti essere d'accordo su un punto: non dobbiamo intaccare la coesione. Lo ha detto Elisa Ferreira, Commissaria Ue per le politiche regionali e urbane in occasione della pubblicazione dell'ottavo...

È polemica ed infantile l'idea dei controlli da fare H24. L'idea sinistra della polizia annonaria. Nella realtà, nella storia dell'Italia non ci sono mai stati o comunque diffusi pezzi monetari ad alto valore ma sempre pezzi cartacei e monetine. Perfino gli assegnini degli anni '70 erano pezzi di carta e come tali accettati. Se mi è consentito l'unica vera idea, e non solo per l'Italia ma per l'Europa, era quella della banconota da un euro ed un'idea non solo di interesse italiano come alcuni ottusi mi obiettarono ma di interesse per l'euro in sé, se l'euro aspirava a diventare una vera moneta globale. Forse non è un caso se esiste la banconota da un dollaro.

Superato il changeover, che giudizio dà dei primi anni dell’euro?

Nei primi anni, a partire dal 2002, tutto è stato relativamente tranquillo e credo ben governato nella relativa normalità, portata da quella che in effetti era una assoluta novità. Ad esempio nel 2003 il caso in cui i “custodi dell'euro” volevano applicare alla Germania non solo la procedura per deficit eccessivo, ma anche le sanzioni. Ricordo di aver fatto notare che il Trattato prevedeva le sanzioni solo nel caso di intenzionale e sfidante deviazione dai criteri di Maastricht e non nel caso di numeri generati da una economia in crisi. Premesso che dare le sanzioni alla Germania, ma anche a nessun altro, non è una cosa molto intelligente, premesso che la Corte di Giustizia avvalorò la proposta italiana (salvo un piccolo errore di procedura commesso perché si era all'alba), premesso che se colpita dalle sanzioni la Germania non avrebbe poi fatto le sue grandi riforme, fu davvero curioso che chi chiedeva le sanzioni in applicazione fanatica del Patto dichiarò qualche tempo dopo che il Patto era stupido.

Trattato di Lisbona, allargamento a Est della Ue, globalizzazione. L’Europa cambia. Con che impatto sull’euro?

La storia faceva il suo mestiere e troppi esperti, governanti e santoni non si accorgevano di quello che stava succedendo. Con il Trattato di Lisbona la piramide istituzionale dell'Europa si è rovesciata, trasferendo verso Bruxelles enormi quote di potere non più controllato in senso propriamente democratico. La globalizzazione? Non è l'Europa che è entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione che è entrata in Europa trovandola incantata e impreparata: l'Europa a disegnare l'astratto mercato perfetto, le nostre imprese costrette a competere con mondi molto meno vincolati e regolati. L'allargamento ad Est? Giusto, ma troppo veloce. Ed ora chi lo chiedeva così veloce condanna Visegrad. Forse avrebbero dovuto leggersi un libro di storia. In ogni caso l'Est chiedeva democrazia e Bruxelles e il Lussemburgo si sono organizzate come la fabbrica della democrazia post-moderna ad esempio occupandosi della “horizontal family”. Infine la crisi. Non si trova la parola crisi nei Trattati se non a proposito delle calamità naturali e degli sbilanci commerciali in un singolo Stato. Il fondo anticrisi proposto dall'Italia nel 2008 fu costituito anni dopo usando un notaio che arrivò di notte all'Eurogruppo incorporandolo come un “hedge fund”.

Con la crisi divampa la polemica contro l’Europa delle regole e i burocrati di Bruxelles. Di chi è la responsabilità?

La sconfinata devoluzione di poteri verso l'alto e quindi verso un sostanziale vuoto democratico, l'orgia legislativa, la eliminazione totale istantanea dei dazi europei, la trasformazione dell'Europa in un corpus politico sui generis, la mala gestio della crisi, ciascuno di questi fatti capace da solo di produrre effetti violentissimi, e tutti insieme un caos, tutto questo per quasi venti anni è stato causato ma non capito dalla classe dirigente europea che adesso ricorda i nobili dopo la rivoluzione francese. Non hanno capito niente, ma ricordano tutto. Ricorda chi chiedeva di tenere ancora un po' i dazi e chi ancora nel '97 parlava della lumachina di mare, dei fagioli europei, dei furetti con il passaporto europeo, etc.? Pochi sanno che in extremis pochi giorni prima del voto sulla Brexit Bruxelles sospese il regolamento “toilet flushing” sugli impianti igienici da standardizzare nelle case europee. E poi uno si chiede perché “questa” Europa non è amata.

Soluzioni possibili?

Il venire meno della solidarietà con le atrocità combinate alla Grecia e con il golpe finanziario in Italia sono episodi che non possono più essere ripetuti e forse l'idea degli eurobond, già emersa con la proposta Delors nel 1994 e più avanti con la Juncker-Tremonti, potrebbe essere la soluzione.

Siamo sicuri che la crisi fosse nei debiti, nei bilanci pubblici o non piuttosto nel settore privato? Perché si è permesso ai Governi di fare “austerity”?

Gli anni della crisi hanno portato alla ribalta la Bce. Con Qe e «whatever it takes» Draghi ha salvato l’euro. Concorda?

Una premessa. Mi risulta che il Parlamento tedesco abbia appena approvato, e che quello francese stia per farlo, una norma che sterilizza l'impatto di una “Hard-Brexit” sui derivati con controparti europee. Che cosa vuol dire? Io credo che pur determinata dalla scelta americana di creare moneta “ex nihilo” la scelta Bce della “quantitative easing” sia stata pur nella sua particolare applicazione una grande e giusta scelta: Ma forse anche per valorizzarla nella sua intelligenza politica è venuto il tempo di alcuni rilievi ed interrogativi: il 2% di inflazione è davvero un target o piuttosto un plafond? E comunque che effetto hanno gli strumenti monetari nel'età della globalizzazione? Nel wording Bce si legge da anni: “sovereign debt crisis”. Siamo sicuri che la crisi fosse nei debiti, nei bilanci pubblici o non piuttosto nel settore privato? Perché si è permesso ai Governi di fare “austerity” salvo il caso di qualche Governo che ha fatto l'opposto? Ha avuto senso speculare contro gli Npl italiani sottraendo risorse alle nostre banche ed invece ignorare il mondo opaco ed enormemente più pericoloso dei derivati?

L’euro è irreversibile? La maggioranza degli italiani e degli europei è a favore della moneta unica. Che ne pensa?

Un conto è uscire da una moneta nazionale per entrare in una moneta sovranazionale. Un conto è uscire da una moneta sovranazionale per entrare in una moneta nazionale. Chi lo fa perde il futuro senza riacquistare il suo passato. Si dimentica che c'è stata e che c'è comunque la globalizzazione e che forze esterne distruggerebbero l'operazione. Tra l'altro per una moneta nazionale servirebbe coesione nazionale, non una parte che la vuole e l'altra no. Chi firmerebbe le nuove banconote e chi le prenderebbe in cambio delle materie prime che noi trasformiamo? Se è pur vero che in questo momento c'è più paura di perdere l'euro che fiducia nell'euro in sé, il popolo italiano nella sua profonda saggezza la dice molto lunga al proposito. Certamente qualcosa in più va fatto. Guardi la fotografia del Trattato di Roma: uomini, un tipo d'uomo che gli inglesi dicono “grave”, uomini che avevano fatto la prigione o l'esilio per le loro idee. Guardi le “family photo” europee attuali. La differenza non sta solo nel fatto che quelle erano foto in bianco e nero e queste sono foto a colori.

Ue, Maastricht e quel patto di "Maturità". Carlo Lottieri il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Trent'anni fa, a Maastricht, nasceva l'Unione europea.

Trent'anni fa, a Maastricht, nasceva l'Unione europea. Si trattava di un progetto politico volto a consolidare le istituzioni unitarie del Vecchio Continente, all'indomani della fine della divisione tedesca e del crollo del Muro di Berlino. Dinanzi all'ipotesi di una risorgente potenza germanica, si pensò soprattutto da parte francese di superare quel rischio egemonico con un rafforzamento della comunità.

Se l'obiettivo era politico, fin dall'inizio fu chiaro che lo strumento sarebbe stato economico e, più precisamente, monetario. La modifica del Trattato di Roma, infatti, delineò quei criteri di convergenza che dovevano porre le basi per il varo dell'euro e che, in particolare, fissarono al 60% il limite massimo del debito pubblico e al 3% il livello del deficit. L'Italia non raggiunse mai quegli obiettivi, eppure fu tra i fondatori della valuta comune. Come fu possibile? Perché l'economia era soltanto il mezzo, mentre il fine era politico.

Oggi, però, vediamo come quegli azzardi tattici abbiamo prodotto conseguenze spiacevoli. Facciamo i conti con un'Europa in difficoltà e, al suo interno, con un'Italia che non cresce da decenni. Chi confronti l'andamento della nostra economia nel periodo 1945-75 con quello dell'ultimo trentennio deve prendere atto di come tutto andasse meglio in quel mondo antico uscito dal conflitto.

Anche perché il processo di accelerazione di unificazione europea che prese le mosse da Maastricht si reggeva su un patto ben preciso, che è stato violato. Nonostante moltissime resistenze, i tedeschi si dissero disposti a rinunciare al marco (che nel dopoguerra avevano gestito con grande cura), ma soltanto in cambio della promessa che l'euro sarebbe stato un marco ancor più solido. La scelta di fissare la sede della Bce a Francoforte intendeva confermare tutto ciò. E invece l'obiettivo della solidità della moneta è stato presto abbandonato, soprattutto fissando bassi tassi di interesse (per aiutare realtà indebitate come l'Italia) che hanno comportato una massiccia espansione monetaria. E ora c'è il rischio che quella che fu la piccola crisi greca del 2009 si possa ripetere su una scala ben più grande, coinvolgendo quel vasto Mezzogiorno europeo che ha il suo cuore proprio nell'Italia.

A questo punto, è poco realistico il punto di vista dei «falchi», e cioè di quanti vorrebbero che gli italiani si comportino come gli olandesi, o i francesi come gli svedesi. E ancor meno persuasive sono le «colombe», illuse che si possa continuare su questa strada e che i paesi più virtuosi possano sottoscrivere in eterno i debiti altrui.

Sebbene la situazione sia confusa e appaia senza uscita, bisogna iniziare a responsabilizzare ogni attore: pretendendo che i benefici siano associati agli oneri, e che ognuno sia padrone a casa propria. C'è però da chiedersi quanto tutto ciò sia compatibile con l'architettura europea di Maastricht e, ancor più, con quella valuta unica che implica scelte monetarie destinate a favorire qualcuno e a danneggiare altri. Carlo Lottieri

I trent’anni di Maastricht: come è cambiata l’Europa. Andrea Muratore su Inside Over il 26 gennaio 2022.

Il 7 febbraio 1992, a meno di tre anni dalla caduta del Muro di Berlino, a poco più di un anno dalla riunificazione tedesca e a pochi mesi dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica a Maastricht, cittadina olandese posta sulle sponde della Mosa, i leader dei dodici Paesi membri della Comunità economica europea diedero una vera e propria accelerazione al processo di integrazione firmando il Trattato sull’Unione Europea che compie, quest’anno, trent’anni.

L’1 novembre 1993, per effetto del Trattato di Maastricht, la Cee sarebbe diventato formalmente l’Unione Europea. Un cambio di denominazione non meramente formale, ma sostanziale: l’Ue, sulla spinta di Maastricht, avrebbe perseguito con sempre maggior forza un’idea politica di convergenza tra gli Stati membri, sarebbe andata espandendosi nei Paesi dell’ex blocco socialista, soprattutto avrebbe promosso l’integrazione monetaria.

A Maastricht conversero le pulsioni comunitarie promosse dall’Atto Unico Europeo (1987) voluto da Bettino Craxi per promuovere l’integrazione europea, il compromesso tra Helmuth Kohl e François Mitterrand ai tempi della riunificazione tedesca, con la Germania tornata unita che accettò di rinunciare in prospettiva al marco, le negoziazioni interne tra i vari partner dell’Unione (dalla Spagna alla Danimarca) circa la necessità di emendare diverse competenze della Cee. Il risultato furono i tre pilastri dell’Unione Europea:

Unificazione della Cee, della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio e della Comunità Europea dell’Energia Atomica sotto il cappello della nascitura Ue guidata dalla Commissione Europea.

Definizione della Politica Estera e di Sicurezza Comune (Pesc).

Governance valoriale condivisa su affari interni e giustizia.

Trent’anni dopo, che giudizio possiamo dare di questo processo avviato da Maastricht? L’avanzamento è a dir poco in chiaroscuro.

Certo, l’Unione  Europea resta il mercato maggiore al mondo, i suoi Paesi sono tuttora quelli contraddistinti dai maggiori livelli di sviluppo, welfare e sicurezza sociale e sanitaria tra le nazioni avanzate, financo sulla transizione ecologia e la lotta ai cambiamenti climatici la Commissione Europea e i Paesi del Vecchio Continente hanno promosso le scelte più sistemiche e strategiche su scala globale. Ma le problematiche, in larga parte, superano i risultati positivi raggiunti.

Un’Europa a troppe velocità

Il primo punto problematico è stato sicuramente il fatto dell’avanzamento a macchia di leopardo del processo di integrazione politica europea. Nelle negoziazioni finali, tra il 1991 e il 1992, il governo britannico di John Major si disse poco convinto della volontà di rinunciare, secondo i trattati, all’uso della sterlina per sciogliere la sua valuta nella futura divisa comunitaria, l’euro. Fu perciò introdotta la clausola di opting-out attraverso la quale la Gran Bretagna sarebbe potuta rimanere nella futura Unione europea pur senza accogliere le innovazioni che il suo governo avesse rifiutato. Nasceva così per la prima volta l’idea di un’Europa a due velocità, che Londra e altre nazioni, come l’Olanda, avrebbero incentivato in seguito promuovendo un altro strumento, quello dei rimborsi (rebate) della quota di contribuzione al bilancio pluriennale dell’Ue legati principalmente alla diversa partecipazione alla Politica agricola comune.

Vi fu poi, nell’applicazione di Maastricht, un secondo limite che avrebbe portato le “due velocità” a moltiplicarsi sul campo: la scelta di stabilire le regole su deficit e debito pubblico come scolpite nella pietra in ottemperanza al verbo economico ordoliberale di matrice tedesca rottamò presto l’illusione di Mitterrand di controllare la Germania attraverso Maastricht e l’euro. In Francia, infatti, si pensava infatti che la Germania unita privata del Marco non avrebbe tenuto nei confronti degli altri Paesi europei un atteggiamento volto al controllo geoeconomico e commerciale, ma alla prova dei fatti la profezia di Margaret Thatcher sull’Europa tedesca si avverò grazie alla strutturale capacità di Berlino di egemonizzare i mercati con la forza della sua industria, la deflazione salariale interna, l’attitudine export-led della sua impresa, l’uso politico delle regole per depotenziare i partner e rivali d’Europa. A farne le spese furono Paesi mediterranei come l’Italia, che videro i loro problemi strutturali legati, principalmente, a debito e produttività moltiplicarsi.

L’assenza di un nerbo politico per l’Europa mise l’economia al centro. E di converso al cuore dei discorsi economici che guidavano il Vecchio Continente pose la retorica neoliberale. Ogni Paese era costretto, in affanno, a rincorrere il gruppo dominante di Paesi nordici mercantilisti e a basso tasso di indebitamento guidato dalla Germania (Kerneuropa). Con il Patto di stabilità e crescita del 1997 si è iniziato a dire che il fine ultimo dell’Unione economica e monetaria era in realtà “l’equilibrio del bilancio, con un saldo prossimo al pareggio o positivo”. Dello stesso tenore il Fiscal compact del 2012, che ha imposto agli Stati di prevedere il pareggio in disposizioni nazionali “vincolanti e di natura permanente, preferibilmente costituzionale”. Il che equivaleva a dichiarare l’incostituzionalità dell’approccio keynesiano che guidò la ricostruzione postbellica.

La dipendenza dalla Bce

Ne è seguito, di converso, la sostanziale incapacità dell’Unione Europea di affrontare con piglio deciso le principali crisi sistemiche che si è trovata ad affrontare, come ad esempio quella della Grande Recessione e la crisi dei debiti sovrani, affrontata con taglio deflazionista. La dipendenza dalla Banca centrale europea è risultata di conseguenza una necessità mano a mano che il rischio di un’implosione dell’euro e dell’Ue sotto i colpi della crisi e delle politiche di austerità promosse dalla Germania si accentuava.

La discesa in campo della Bce di Mario Draghi nel 2015 e la continuità della sua azione anche nell’era Covid ha mostrato in sostanza la dipendenza dell”Ue dall’unica istituzione capace di una chiara e trasparente azione sistemica. Mostrando, sulla scia dell’incentivazione dell’azione di un organo meramente tecnico, come un vero problema per la comunità nata a Maastricht sia il deficit di politica.

Troppa economia, poca politica

L’Europa è segnata da differenze politiche e socio-culturali: è frammentata in un mosaico di paesi, è separata da una millenaria linea di faglia tra ortodossi e cattolici e da una plurisecolare tra cattolici e protestanti, è ripartita in subregioni geopolitiche (Europa occidentale, Europa centrale o Mitteleuropa, penisola balcanica, Europa

orientale), è divisa in numerose aree linguistiche, religiose, culturali assai diverse e senza una

reciproca coincidenza geografica. Il demos europeo non è una realtà, esistono valori di civiltà e comuni storie dell’Europa, che però ha sempre fatto del pluralismo la sua forza. Negare questa complessità è stato uno degli errori dell’Unione Europea, che nell’ultimo trentennio ha scelto la strada della tecnica non ritenendola complementare, ma alternativa, a quella della politica.

L’Unione Europea, dopo oltre un quarto di secolo dalla sua nascita nelle forme attuali, continua ad essere caratterizzata da quello che è definito dai politologi come “deficit democratico” perché non soddisfa i principi cardine del costituzionalismo occidentale: divisione dei poteri ed equilibrio fra di essi, legittimazione del potere basata sul voto popolare, principio del voto a maggioranza. Piuttosto, la dipendenza dalla Bce la rende simile a un’istituzione schmittiana.

Spesso “le istituzioni europee”, notava nel 2015 un convinto europeista come il giornalista francese Bernard Guetta, “restano troppo incomprensibili, tanto che nemmeno i cittadini più aggiornati riescono a capirci qualcosa. Ma il principale motivo di questo stato di crisi perenne è un altro: l’Unione è ancora un progetto incompiuto”. Guetta ha sottolineato il ruolo di Maastricht nel creare una “una federazione in divenire, che però non ha un governo eletto che sia responsabile davanti agli elettori né politiche sociali e fiscali comuni”. Il silenzio dell’Europa, al contrario di molti dei suoi singoli membri, sulle grandi questioni geopolitiche e stratetgiche dell’attualità, sta proprio nella natura impolitica, se non addirittura antipolitica, di molte strutture burocratiche dell’Ue.

Il dopo Covid sarà una svolta?

Nel 2020, parlando a caldo dopo lo scoppio della crisi del Covid-19, l’ex Ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha denunciato il fatto che la risposta disomogenea dell’Ue alla pandemia fosse in larga misura dovuta allo scadimento del “tempio delle idee” europeo a tecnocrazia incapace di mostrarsi presente di fronte alle sfide della storia. Sottolineandone la natura di vera e propria utopia antipolitica sballottata nel mare agitato della globalizzazione in crisi, di cui non ha saputo cogliere la dinamica competitiva e iper-politica. Nel suo saggio Le potenze del capitalismo politico Alessandro Aresu, consigliere di Mario Draghi ed ex editorialista di Limes, ha scritto che “ogni coordinata indica il tramonto dell’Europa, in forma intergovernativa, in forma federale o nelle altre forme su cui possiamo litigare, e litigheremo”: demografia, finanza, industria, coesione, tecnologia e via discorrendo.

L’Europa ha deciso di reagire al Covid autosospendendo la più radicale delle regole post-Maastricht, il Patto di Stabilità, aprendo la strada al “ritorno di Keynes”, degli investimenti pubblici e dell’azione da parte degli Stati. L’attuale fase è caratterizzata dalla ripresa di discussioni a tutto campo sul ruolo dell’Europa nel mondo, da un rilancio del dibattito su autonomia strategica e sovranità del Vecchio Continente in materia di nuove tecnologia, digitale, forze armate, da programmi entusiasti come quello del visionario Commissario all’Industria Thierry Breton, da strategie sistemiche pensate come complementari o prodomiche al successo del Recovery Fund.

L’alternativa da costruire

Le scelte fatte nell’urgenza senza precedenti dalla primavera 2020 in avanti non costituiscono di per sé un cambiamento di paradigma o un cambio di rotta, ma hanno mostrato che il Re è nudo, e che il consenso post Maastricht va ripensato.

Ne sono dell’idea diversi economisti e politologi che hanno firmato un articolo per la rivista francese Le Grand Continent, guidati da Thomas Piketty, per i quali l’uscita dalla crisi rimane da costruire: le emergenze degli ultimi due anni “hanno posto le preoccupazioni per la crescita e l’occupazione al di sopra di quelle per la stabilità finanziaria e il consolidamento fiscale” ed è lecito domandarsi: possono questi nuovi driver “essere la matrice per nuove politiche socialmente e ecologicamente sostenibili? Come possono gli strumenti di governance europei, nati principalmente per assicurare una disciplina di bilancio, come il Meccanismo europeo di stabilità o il Patto di stabilità e crescita, diventare il luogo di un nuovo modello di sviluppo economico, ecologico e sociale? O ancora: quale sostenibilità può essere data alla nuova capacità di intervento di bilancio?”. Tutte domande legittime, che evocano le analisi di Tremonti e Aresu sulla necessità di interrogarsi profondamente sul futuro dell’Europa. Più politica, meno tecnica ritenuta insipientemente neutrale, più visione globale: la ricetta per far ripartire l’Unione poggia su questo trittico. A governi e esponenti delle istituzioni comunitarie il compito di capire ciò e dare un futuro all’Europa.

·        Il Piano Marshall.

Che cos’è il Piano Marshall. Mauro Indelicato su Inside Over l'1 febbraio 2022.

Il Piano Marshall è un programma economico di sostegno alla ripresa europea attuato subito dopo la seconda guerra mondiale. Il piano consiste nello stanziamento di diversi miliardi di Dollari volti a finanziare programmi di ricostruzione e ristrutturazione dell’economia del Vecchio Continente, uscito disastrato dal conflitto. Il piano prende il nome da George Marshall, segretario di Stato Usa durante la presidenza Truman che per primo parla della necessità di un grande stanziamento per l’Europa il 5 giugno 1947.

La fine della seconda guerra mondiale

Nel Vecchio Continente il secondo conflitto mondiale, oltre a uccidere oltre sessanta milioni di persone, lascia in eredità Paesi e popolazioni in ginocchio. Vincitori e vinti sono accomunati dal fatto di aver perso infrastrutture, fabbriche e industrie. La ricostruzione appare un’opera lunga e molto complessa. Anche perché sullo sfondo ci sono nuove tensioni politiche in grado potenzialmente di rallentare le azioni dei governi oppure di riavviare lo spettro di nuove guerre.

L’Europa subisce inoltre la divisione in due blocchi corrispondenti alle rispettive sfere di influenza delle due superpotenze vincitrici: gli Stati Uniti da un lato e l’Unione Sovietica dall’altro. La prima ha in mano l’Europa occidentale, la seconda quella orientale. Si è dunque di fronte agli albori della guerra fredda. Sia a Washington che a Mosca si intuisce il valore politico della ricostruzione. I Paesi europei sono in un profondo stato di bisogno e da soli non riescono ad avere le risorse necessarie per ripartire. Chi riesce, tra le superpotenze, a garantire per prima il proprio sostegno ha la grande occasione di espandere in Europa la propria influenza. Una circostanza ben chiara negli Usa, il cui presidente Truman nel 1947 inaugura la politica del “conteinment” e parla di un’alleanza tra Stati Uniti ed Europa occidentale in funzione anti sovietica.

Il discorso del 5 giugno 1947

L’insorgere della guerra fredda fa accelerare i piani statunitensi per un corposo piano di ricostruzione in grado di rilanciare l’economia europea. Il 5 giugno, durante un discorso pronunciato all’università di Harvard, il segretario di Stato George Marshall parla per la prima volta di European Recovery Program. Un piano quindi di aiuto per l’Europa, sottolineando la sua importanza anche sotto il profilo politico. Secondo Marshall per gli Usa il “sacrificio” di investire diversi miliardi di Dollari è compensato dalla possibilità di evitare lo scivolamento del continente europeo verso il decadimento politico e sociale. Una circostanza, quest’ultima, che priverebbe gli Usa di solidi alleati e darebbe pretesto all’avanzata dei partiti comunisti in occidente. In poche parole, Washington anche al prezzo di mettere sul piatto ingenti somme deve farsi carico della situazione al di là dell’oceano. Pena il rischio di perdere la propria influenza e di non poter creare argini all’avanzata del comunismo.

Un concetto quest’ultimo fondamentale per convincere anche i più scettici. Marshall è il primo a enunciare il piano, ma non ne è l’ideatore. Anche se il programma in futuro diventa noto con il suo nome, a redigerlo sono i funzionari della Casa Bianca, del Tesoro Usa e di altri componenti dell’amministrazione Truman. Dopo il discorso del giugno 1947, vengono resi noti i primi dettagli del piano. Si parla, in particolare, di quasi 14 miliardi di Dollari da investire in 3 o 4 anni e da destinare a piani a lungo termine per la ripresa dell’economia europea. Il dibattito anche al Congresso appare molto serrato. Alla fine, il 3 aprile del 1948 viene approvata la legge che dà attuazione al Piano. La Camera e il Senato infatti danno il via libera al Cooperation Economic Act e un totale di quasi 13 miliardi di Dollari viene stornato a favore dei governi europei alleati.

Gli obiettivi dell'European Recovery Program (ERP)

L’importante stanziamento di soldi a favore dell’Europa ha in primo luogo l’obiettivo di dare ai Paesi occidentali gli strumenti per risollevare le proprie economie. Non si tratta di generici aiuti volti a distribuire generi di prima necessità ai tanti milioni di europei rimasti senza nulla, bensì fondi destinati al rilancio a lungo termine del Vecchio Continente. Le somme erogate da Washington confluiscono nell’Economic Cooperation Administration, ente costituito appositamente per l’allocazione dei contributi.

Altro obiettivo importante del Piano Marshall riguarda la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate dal conflitto. In questo modo, gli Stati europei hanno la possibilità di rilanciare i commerci e integrare la propria economia. Quest’ultimo è un altro punto importante del Piano. Si incoraggiano infatti i governi del continente non solo a cooperare ma anche a intraprendere azioni volte a rendere interdipendenti le varie economie. Non a caso, come fa notare lo storico Maldwyn Jones in “Storia degli Stati Uniti d’America”, vengono introdotti concetti come libero mercato libertà di impresa e tutela della concorrenza, in quel momento più consoni al contesto statunitense che a quello europeo. Nell’ottica di una grande area atlantica, gli Usa vedono nell’Europa un potenziale mercato unico con cui incrementare le esportazioni dei propri prodotti. Anche per questo da Washington i soldi investiti per la crescita del Vecchio Continente assumono importanza vitale.

I fondi stanziati per i Paesi europei

Il Piano Marshall, così come previsto dal Coperation Economic Act del 1948, dura tre anni. Vengono stanziati complessivamente 12.7 miliardi di Dollari in tre tranche fino al 1951. La fetta più grossa va alla Gran Bretagna, con complessivi 3.2 miliardi. In questa speciale classifica Londra è seguita dalla Francia con 2.2 miliardi e dalla Germania Ovest con 1.4 miliardi. L’Italia è immediatamente dietro con 1.2 miliardi ad essa destinati. Altro governo a cui viene attribuita una soglia superiore al miliardo è quello dei Paesi Bassi. In totale sono 18 i governi interessati dal Piano Marshall. Tra questi occorre considerare quello del Lussemburgo, i cui soldi stanziati a suo favore vengono inseriti in un capitolo dei fondi destinati al Belgio, e quello del libero territorio di Trieste, fuori dal controllo italiano al momento dell’attuazione del Piano. Le somme del piano vengono destinate anche ai governi di Austria, Danimarca, Grecia, Islanda, Irlanda, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera e Turchia.

Gli aspetti economici del Piano Marshall

Il Coperation Economic Act, come tutti i più importanti piani, nel corso degli anni subisce valutazioni sia positive che negative. Nel primo gruppo rientrano i pareri espressi, soprattutto diversi anni dopo la fine del programma, da coloro che ritengono come effettivamente il Piano Marshall riesca nell’intento di rilanciare l’economia europea. A conferma di questa tesi il fatto che tra il 1952 e il 1953 l’indice di produttività industriale in Europa è superiore a quello degli anni precedenti alla seconda guerra mondiale. In poche parole, con i soldi arrivati dagli Usa il Vecchio Continente riesce a dotarsi degli strumenti infrastrutturali e industriali necessari per mettere in piedi il successivo boom economico senza bisogno degli aiuti di Washington.

Nel secondo gruppo invece ci sono molti economisti che sostengono come il Piano Marshall, durante gli anni di attuazione, favorisce sì una ripresa ma grazie al basso costo della manodopera. Non si ha quindi una crescita dei redditi e un vero rilancio dei consumi. Dunque i dati sulla ripresa economica non corrispondono alla realtà e nascondono invece un ristagno dell’economia. A prescindere da come la si pensi, senza dubbio il Piano Marshall costituisce uno dei programmi di investimento e di rilancio economico più importanti della storia. Tanto da entrare anche nel gergo mediatico e politico. Come sottolinea Mauro Campus su IlSole24Ore, quando si verificano situazioni di emergenza “è abituale ricorrere a questo luogo comune del lessico politico: Qui ci vorrebbe un piano Marshall”.

Non a caso, quando nel 2020 in Europa si inizia a parlare di “Recovery Found” a proposito degli stanziamenti volti a superare la crisi generata dalla pandemia da coronavirus, si parla di nuovo Piano Marshall. Anche se i due programmi appaiono differenti sia sotto il profilo tecnico che politico. Il Recovery Found è infatti uno strumento nato all’interno dell’Europa ed è suddiviso in una parte formata da prestiti a fondo perduto e da un’altra invece finanziata tramite un comune indebitamento. Due storie e due epoche diverse ma accomunate dalla “pioggia” di soldi in grado di investire il Vecchio Continente.

Cosa ha significato il piano Marshall a livello politico

Riversare quasi 13 miliardi di Dollari in tre anni per l’Europa significa agganciarsi politicamente alla sfera di influenza Usa. Le due sponde dell’Atlantico da quel momento in poi appaiono inserito in un comune contesto politico, ideologico e culturale. Con il Piano Marshall il governo di Washington non esporta soltanto Dollari e beni di consumo usciti dalle proprie fabbriche, ma anche il proprio sistema economico, sociale e culturale. Prima ancora che un grande piano di investimento, il programma annunciato da Marshall nel 1947 è un sofisticato piano politico di respiro atlantista.

70 anni fa partiva il Piano Marshall: ci rese liberi… o schiavi dell’America? Il Secolo d'Italia lunedì 2 Aprile 2021. Il 2 aprile 1948 gli Stati Uniti vararono il celebre European Recovery Program, da noi meglio conosciuto come Piano Marshall, dal nome del suo ideatore, il segretario di Stato americano del presidente Henry Truman. Fu infatti George C. Marshall, già generale dell’esercito e poi segretario di Stato, che progettò e portò a termine il Piano di aiuti all’Europa, devastata da una lunghissima guerra. Alla fine della Seconda guerra mondiale, gran parte dell’Europa fu distrutta. I bombardamenti aerei alleati durante la guerra avevano gravemente danneggiato la maggior parte delle grandi città e le strutture industriali erano particolarmente colpite. I flussi commerciali della regione erano stati completamente distrutti; milioni di persone erano in campi profughi che vivevano di aiuti di varie organizzazioni internazionali. La scarsità di cibo era grave, specialmente durante l’inverno rigido del 1946-47. Dal luglio 1945 al giugno 1946, gli Stati Uniti spedirono 16,5 milioni di tonnellate di cibo, principalmente grano, in Europa e anche in Giappone. Ammontava a un sesto del cibo americano totale. Particolarmente danneggiate erano le infrastrutture di trasporto, poiché ferrovie, ponti e banchine erano stati specificamente presi di mira da attacchi aerei anglo-americani, mentre molte navi mercantili erano affondate. Anche se la maggior parte delle piccole città e villaggi non aveva subito molti danni, la distruzione dei trasporti li lasciò economicamente isolati. Nessuno di questi problemi poteva essere facilmente risolto, poiché la maggior parte delle nazioni impegnate nella guerra aveva esaurito le loro risorse. Le uniche grandi potenze la cui infrastruttura non era stata danneggiata nella seconda guerra mondiale furono gli Stati Uniti e il Canada. Erano molto più ricchi di prima della guerra, ma le esportazioni erano un piccolo dato nella loro economia. Gran parte degli aiuti del Piano Marshall sarebbero stati utilizzati dagli europei per acquistare beni manufatti e materie prime dagli Stati Uniti e dal Canada.

Gli Usa misero 110 miliardi di dollari odierni. Il Piano Marshall (ufficialmente Programma europeo di recupero, ERP) fu quindi un’iniziativa unilaterale americana per aiutare l’Europa occidentale, nella quale gli Usa misero oltre 13 miliardi di dollari di allora (quasi 110 miliardi di dollari del 2016). Si trattava di un programma di assistenza per aiutare ricostruire le economie dell’Europa occidentale dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Gli obiettivi degli Stati Uniti erano di ricostruire materialmente le zone distrutte dalla guerra, ma anche quello di rimuovere le barriere commerciali, modernizzare l’industria, migliorare la prosperità europea e anche prevenire la diffusione del comunismo. Il Piano Marshall infatti per essere attuato richiedeva una riduzione delle barriere doganali tra gli Stati, una diminuzione di molte normative, incoraggiando un aumento della produttività, l’appartenenza ai sindacati e l’adozione di procedure commerciali più moderne e veloci. Insomma, gli Usa volevano sì aiutarci e risuscitare dalle macerie della guerra, ma anche creare un sistema capitalista e consumista che avrebbe fatto dell’Europa un affidabile partner commerciale a cui vendere i prodotti made in usa. Ma anche l’inverso. Il Piano ebbe il sostegno bipartisan di democratici e repubblicani. Gli aiuti erano diretti in massima parte alle nazioni alleate, quindi Regno Unito e Francia, ma anche alle nazioni dell’Asse, come l’Italia, e a quelle che erano rimaste neutrali ma erano state coinvolte nel conflitto. Il maggior beneficiario del denaro del Piano Marshall fu il Regno Unito (che ricevette circa il 26% del totale), seguito da Francia (18%) e Germania Ovest (11%). In tutto 18 Paesi europei ebbero benefici dal piano. L’Unione Sovietica tuttavia, pur essendo stata invitata, rifiutò i benefici del Piano e bloccò anche i l’adesione dei Paesi satelliti del blocco orientale, come l’Ungheria e la Polonia, che pure erano state colpite duramente dalla guerra.

Pareri contrastanti sull’efficacia del Piano. Tuttavia, il ruolo del Piano Marshall nella ripresa rapida dell’Europa è stato discusso. La maggior parte degli storici rifiuta l’idea che la ripresa europea si dovette al Piano, poiché una ripresa generale era già in corso. La stessa, successiva, contabilità del piano Marshall mostra che gli aiuti rappresentarono meno del 3% del reddito nazionale combinato dei Paesi beneficiari tra il 1948 e il 1951, il che significa un aumento della crescita del Pil di appena lo 0,3%. Per gli economisti americani Bradford DeLong e Barry Eichengreen il piano Marshall ha però svolto un ruolo importante nel preparare il terreno per la rapida crescita dell’Europa occidentale del secondo dopoguerra. Le condizioni allegate all’aiuto del Piano Marshall hanno spinto l’economia politica europea in una direzione che ha lasciato le economie miste post Seconda Guerra Mondiale con più mercato e meno controlli. Certamente fu di impulso almeno psicologico per le fragili democrazie occidentali sapere di poter contare su un aiuto concreto, anche se poi non fu così massiccio come si crede. In realtà ciò che contò furono gli effetti economici indiretti, in particolare nell’attuazione delle politiche liberali capitalistiche, e gli effetti politici, in particolare l’ideale dell’integrazione europea e delle partnership governative-commerciali, queste furono le principali ragioni della crescita insuperata dell’Europa. Come si accennava, per combattere gli effetti del Piano Marshall, anche l’Urss sviluppò il suo piano economico, noto come Piano Molotov, che pompò grandi quantità di risorse ai Paesi del blocco orientale dall’Urss. Lo stesso segretario Marshall si convinse a un certo punto che Stalin non aveva alcun interesse a contribuire al ripristino della salute economica nell’Europa occidentale.

Nel 1945 c’erano 5 milioni di case distrutte e 12 milioni di profughi. In ogni caso, nel 1952, alla fine del finanziamento, l’economia di ogni Stato partecipante aveva superato i livelli prebellici; per tutti i beneficiari del piano Marshall, la produzione nel 1951 era superiore almeno del 35% rispetto al 1938. Nei successivi due decenni, l’Europa occidentale ha goduto di una crescita e prosperità senza precedenti, ma gli economisti non sono sicuri di quale proporzione fosse dovuta direttamente al Piano Marshall, quale percentuale indirettamente e quanto sarebbe accaduta senza di essa. Quello che è certo è che il Piano contribuì a dare un nuovo impulso alla ricostruzione nell’Europa occidentale e un contributo decisivo al rinnovo del sistema dei trasporti, alla modernizzazione delle attrezzature industriali e agricole, alla ripresa della normale produzione, all’aumento della produttività e alla facilitazione degli scambi intraeuropei. In Germania, nel 1945-46, le condizioni abitative e alimentari erano pessime, poiché l’interruzione dei trasporti, dei mercati e delle finanze rallentava il ritorno alla normalità. In Occidente, i bombardamenti avevano distrutto cinque milioni di case e appartamenti e c’erano dodici milioni di rifugiati provenienti da est. Il Piano Marshall era stato programmato per terminare alla fine del 1953. Ogni sforzo per estenderlo fu fermato dal costo crescente della Guerra di Corea frattanto scoppiata e del riarmo. Repubblicani americani ostili al Piano avevano anche ottenuto parecchi seggi nelle elezioni del Congresso del 1950, e l’opposizione conservatrice al Piano fu quindi ripresa. Così il Piano si concluse nel 1951, sebbene varie altre forme di aiuti americani all’Europa continuarono anche negli anni successivi.

Il Piano certamente ridusse l’influenza comunista. Gli effetti politici del Piano Marshall potrebbero essere stati altrettanto importanti di quelli economici. Gli aiuti del Piano Marshall permisero alle nazioni dell’Europa occidentale di allentare le misure di austerità e il razionamento, riducendo il malcontento e portando stabilità politica. L’influenza comunista sull’Europa occidentale fu notevolmente ridotta, e in tutta Europa i partiti comunisti calarono in popolarità negli anni successivi al Piano Marshall. Le relazioni commerciali promosse dal Piano Marshall contribuirono a forgiare l’alleanza del Nord Atlantico che persisterà durante la Guerra Fredda nella forma della Nato. Il Piano Marshall ha svolto anche un ruolo importante nell’integrazione europea. Sia gli americani che molti dei leader europei hanno ritenuto che l’integrazione europea fosse necessaria per assicurare la pace e la prosperità dell’Europa, e quindi hanno usato le linee guida del Piano Marshall per favorire l’integrazione. Il Piano, collegato al sistema di Bretton Woods, ha anche imposto il libero commercio in tutto il continente. La domanda rimane: fu disinteressato altruismo o strategia per legare definitivamente l’Europa agli Stati Uniti?

Dal Piano Marshall Al Recovery Fund: La Storia Si Ripete. Tutto Al Nord? Pasquale Cataneo e Paolo Mandoliti, *Commissione Nazionale GdST “Economia e Sviluppo” M24A-ET, su Movimento24agosto.it l'08/08/2020. L’assalto alla diligenza di soldi internazionali a costo bassissimo (praticamente nullo) è ripartito. Il partito unico del nord, quello che governa l’Italia da 160 anni (dall’Unità ad oggi) formato non solo da politici, ma anche, e soprattutto, dai potentati economici e non che tengono i politic(ant)i dagli attributi, stavolta hanno puntato i 209 miliardi delle risorse del Recovery Fund (RF) che l’Europa ha destinato tramite accodo all’Italia in base all’applicazione di tre diversi criteri (popolazione, inverso del PIL pro-capite e media della disoccupazione degli ultimi 5 anni).
Simulando l’applicazione solo del criterio della popolazione al nostro Paese sarebbe stato destinato poco più del 13%, invece, per le finalità precipue del RF applicando anche gli altri due criteri previsti all’Italia è destinato circa il 27,8% di quel montante. Ciò dovuto in modo chiaro e indiscusso per due ragioni:

1) l’Italia è il Paese nei 27UE che registra il maggior differenziale interno tra abitanti delle sue regioni in termini di reddito pro-capite (es. PIL per abitante 2018 Provincia Autonoma Bolzano 47.000 € ed in Calabria 17.000 €). In modo speculare le disuguaglianze si riflettono anche nella spesa per consumi finali delle famiglie per abitante (figura 2);

2) i tassi di disoccupazione (Istat, 2020h) altrettanto differenziati (Nord 6,1%) a discapito nuovamente del Mezzogiorno (17,6%) che risulta avere quindi un tasso di disoccupazione quasi triplo rispetto al Nord, dal 2014, con il divario più ampio e realmente costante (figura 1.3).

Emerge pertanto che le risorse così consistenti per l’Italia non sono scaturite dal dato popolazione ma dai due indicatori relativi all’inverso del reddito pro-capite ed alla media di disoccupazione. Lo affermiamo con fermezza: il dato è derivante, anche se non esclusivamente, in base alla grave situazione socio-economica del Mezzogiorno. In base alle finalità proprie dell’accordo sul RF, sottoscritto anche dall’Italia, quindi una fetta consistente di queste risorse devono servire per colmare il gap (infrastrutturale, economico, sociale) tra il Mezzogiorno e la restante parte del Paese nel contesto delle Politiche di Coesione UE. Noi come Movimento 24 Agosto per l’Equità Territoriale, abbiamo quantificato queste risorse in 145 miliardi di euro (seguendo i criteri di ripartizione che l’Europa ha utilizzato per dividere gli 800 e passa miliardi tra i vari Paesi). In un apposito documento abbiamo esplicitato tale nostra previsione, con resoconto, inviata ai competenti livelli istituzionali italiani. (qui il documento completo Recovery Fund) Purtroppo non abbiamo ricevuto alcun riscontro. Così come ci pare anche per i continui richiami che diversi organi sovranazionali hanno fatto all’Italia. Rammentiamo quello di Marc Lamaitre, Direttore delle Politiche regionali UE, che ha dichiarato con una nota al Governo italiano, lo scorso ottobre, di dover rivedere al ribasso, in sede di rendiconto della programmazione 2014-2020, le risorse assegnate all’Italia se la stessa non avesse provveduto a colmare il gap di investimenti al Mezzogiorno derivanti dall’assenza delle risorse italiane in spregio al principio comunitario di addizionalità. Oppure quello di Fabio Panetta, della Banca Centrale Europea, che ha sottolineato di non riuscire ad immaginare uno sviluppo equilibrato, in un’economia nazionale, all’interno della quale un terzo della popolazione ha un PIL pro-capite inferiore di quasi la metà rispetto alla restante parte del Paese. Infine il Consiglio Europeo, con il suo Presidente, ed il Fondo Monetario Internazionale tutti a chiedere la stessa cosa, ovvero: la crescita deve ripartire da SUD! E proprio mentre gli Organismi internazionali convergono con la stessa esplicita richiesta, che aiuterebbe la crescita complessiva dell’intero sistema Paese, da Sud al Nord e quindi anche per le imprese settentrionali, come dovrebbero sapere anche i rappresentanti del partito unico del nord, sono fortemente interdipendenti (diciamo pure dipendenti) dal Mezzogiorno per la fornitura di beni e servizi. Un mercato interno pari ad 88 miliardi all’anno (che crescerebbe ulteriormente se il Mezzogiorno iniziasse a innescare politiche di sviluppo reale anche con le risorse del RF), che il Nord potrebbe invece perdere, nel caso in cui il Mezzogiorno chiudesse la borsa e si rivolgesse altrove ad esempio per i propri consumi. E’ evidente, purtroppo per loro (i componenti del partito unico del nord), che nonostante i nostri reiterati avvisi, richiami, rilievi stiano continuando imperterriti a dimostrarsi sordi alle sollecitazioni che gli provengono da più parti. La verità, con sempre maggiore rilevanza e consapevolezza, viene a galla su come loro (i componenti del partito unico del nord), siano fagocitatori di risorse pubbliche (denigrando il Mezzogiorno di essere assistito) quando, invece, con verifiche puntuali effettuate da noi e da Eurispes con tanto di certificazione del dato da parte dei CPT, è emerso che circa 840 miliardi, in poco più di 17 anni, sono stati sottratti al Mezzogiorno per sostenere la spesa pubblica del Nord senza avere crescita!

Fagocitatori e predoni lo sono sempre stati. Lo sono da 160 anni! Da quando, con l’unità d’Italia organizzata per salvare una classe regnante dalla bancarotta (con gli inglesi, i francesi, i Rotschild che non sono stati a guardare in quanto avrebbero perso i loro investimenti nel debito pubblico piemontese. in quel tempo. pari a circa 2 miliardi di lire del 1861) i primi governi (liberisti e protezionisti) sono stati, a seconda della convenienza, gli esecutori del “prendetegli tutto, non lasciategli nulla” e così hanno fatto, non lasciando al Mezzogiorno nemmeno “le lacrime per piangere” come aveva facilmente predetto Francesco II lasciando Napoli. Loro (i componenti del partito unico del nord) lo sono stati anche durante il regime fascista, quando qualche bonifica venne fatta passare “per un passo enorme verso la vera unità del paese”, in cui si negava addirittura l’esistenza della “questione meridionale”. Sempre loro (con in testa l'allora capo del Governo) lo sono stati finanche quando gli Stati Uniti mandarono una vastità di denaro per riparare i danni della guerra e rilanciare il Paese inserito nel cd Patto Atlantico. Già, il Paese. I maggiori danni sia in termini di vite umane che materiali li aveva subiti nel Mezzogiorno, con le operazioni militari ed i bombardamenti della cd Campagna d’Italia, che distrusse infrastrutture belliche e logistiche ma anche molti edifici civili di molte città martoriate (Palermo, Messina, Salerno, Napoli, Foggia) sia dal punto vista urbanistico ma, e soprattutto, in termini di vite umane spezzate con migliaia e migliaia di civili massacrati. Anche su questo c’è stata mistificazione della realtà. Due esempi tristemente accomunati: Napoli, subì circa 200 incursioni aeree e Foggia, una decina. Entrambe le due città ebbero gravissimi danni ed oltre 40.000 civili deceduti nell’estate del 1943. Per Foggia, in particolare, alla devastazione totale si associò la perdita di circa un terzo dell’intera popolazione di allora. Ebbene, anche in questo caso, vi fu una “sottrazione”. Infatti secondo l’Istituto Centrale di statistica, nel rapporto “Morti e dispersi per cause belliche negli anni 1940-45”, pubblicato nel 1957, i civili deceduti in Italia sarebbero 18919, un numero inferiore alle 20289 vittime della sola città di Foggia che si raddoppiano con quelle di Napoli. A queste oltre 40.000 vittime si aggiungono tutti gli altri civili deceduti nelle altre città meridionali già citate e Roma! Direte e cosa c'entra? Purtroppo c’è chi ha nel passato “manipolato” e vuole, da prenditore rapace di risorse, “manipolare” anche oggi la realtà, anche quando è così tragica ed ha prodotto vittime innocenti. Lo ha già fatto già nel secondo dopoguerra producendo la “sottrazione” di vittime civili e di danni di guerra nel Mezzogiorno, sostenendo una iniqua e ingiusta distribuzione di risorse economiche per proteggere la ripresa del sistema socio economico del Nord, salvaguardato dai danni dei bombardamenti e con un numero di vittime civili, ugualmente da rispettare, ma di molto inferiore rispetto a città sterminate come Foggia.

Come si concretizzò questa “manipolazione” allora? Presto chiarito: l’87% delle risorse dell’ERP (acronimo del European Recovery Plan, conosciuto ai più come Piano Marshall) finì alle industrie e nelle regioni del nord (Fiat, Ansaldo, Edison, ILVA, Piaggio, Alfa Romeo, Riva, Innocenti, Salmoiraghi, RAI, ecc.), sotto forma di prestiti che poi gli Stati Uniti rinunciarono a riscuotere. Cosa giunse alle regioni ed agli abitanti del Mezzogiorno? In totale il residuo 13%! All’intera Puglia che aveva avuto, oltre a Foggia città più martoriata, anche altre che ebbero danni materiali e vittime rilevanti giunse lo 0,13% (e NON CI SIAMO SBAGLIATI!!!). Una carognata che, dopo la denuncia di don Luigi Sturzo, venne parzialmente ripagata dalla concessione di istituire la Cassa per il Mezzogiorno. Un palliativo temporaneo (gli effetti benefici si sono visti soltanto nei primi anni di vita della Cassa, ed una certa convergenza tra i redditi pro-capite delle due aree nord e sud, e gli effetti benefici li videro anche gli industriali del nord che, grazie appunto all’interdipendenza tra le due aree, ebbero una crescita che non videro più). Dopo aver versato il sangue di tantissimi soldati meridionali, sul confine nord-orientale, per difendere l’Italia nel primo conflitto mondiale, poco o nulla giunse al Mezzogiorno. Cosa successe? Continuò l’emigrazione verso altri Continenti. Dopo la seconda guerra mondiale con i danni e le vittime più rilevanti nel Mezzogiorno ancora una volta poco o nulla giunse nelle regioni meridionali. Un'altra emigrazione, questa volta Europea e Sud-Nord (nelle fabbriche accresciute con l’ERP). La terza è avvenuta dal 2005 ad oggi hanno lasciato il Mezzogiorno, oltre 2 milioni di giovani e meno giovani. Per lo stesso motivo di fondo: Prima e solo il resto del Paese. Ed oggi sono circa 5 milioni gli italiani che sono iscritti all’AIRE, fuori dal Paese. Il resto della storia è contemporaneo: i predatori nord-centrici hanno continuato a fagocitare risorse su risorse trovando gli escamotage più “creativi” per rubare risorse al Mezzogiorno e far aumentare l’emigrazione. Che dire delle variabili “dummy” attraverso cui sono stati sottratti parte dei 840 miliardi di euro in 17 anni unitamente al mancato rispetto del dettato della L. 42/2009? Hanno fatto riunioni e “secretato” gli atti per non dar corso alla corretta applicazione della legge visti i risultati delle derivanti proiezioni economiche. Le ultime riprove del modus operandi dei prenditori del partito unico del nord riguardano i criteri utilizzati, in questi giorni, per ripartire le risorse a favore delle attività dei centri storici delle città turistiche (premiata Verbania, sconosciuto paesino sulle sponde del lago Maggiore, penalizzata Matera, capitale della cultura 2020), o ancora quelli utilizzati per rifare il parco autobus delle città italiane (solo Avellino presente come rappresentante del Mezzogiorno). Oggi, c’è chi vuole “usare” le vittime da Covid 19. Il commissario all'emergenza dichiarava il 18 aprile 2020 “Tra l’11 giugno 1940 e il 1° maggio 1945 a Milano sono morti sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale 2000 civili (1/10 di Foggia e di Napoli!) in 5 anni (in 5 mesi!) in due mesi in Lombardia per il coronavirus sono morte 11.851 civili, 5 volte di più”. Purtroppo i numeri, da allora in Lombardia e nel resto del Paese sono cresciuti ancora e di molto e di questo noi di M24A-ET siamo addolorati e vicini alle famiglie e alla popolazione lombarda, così fortemente colpita, ed a tutte le altre. Non riteniamo però che i “civili deceduti” siano da utilizzare strumentalmente, dai prenditori (i componenti del partito unico del nord), per agguantare altre risorse economiche e far andare nel dimenticatoio le responsabilità di chi non ha avuto le capacità guidare e indirizzare il sistema sanitario regionale fortemente incentrato sulla sanità privata e con una non adeguata assistenza sanitaria territoriale avvenuto soprattutto in Lombardia. Quelli del partito unico del nord invece di porre rimedio alle probabili falle registrate nel sistema sanitario nazionale e regionale sullo stato di attuazione della Decisione n. 1082/2013/UE relativa alle gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero, in vigore dal 6 novembre 2013, per le proprie relative reciproche competenze, come hanno fatto per l’ERP (Piano Marshall) vorrebbero fagocitare pure le risorse del Recovery Fund, destinate all’Italia perché il Mezzogiorno ha bassi livelli di reddito pro-capite e alto tasso di disoccupazione. Loro, però, stavolta, non hanno fatto i conti con chi davvero non ha più lacrime per piangere ma che ha tanta voglia di non emigrare e di vivere, qui, in un Paese migliore. Questa battaglia non la faremo solo nelle istituzioni italiane per non lasciare alcun alibi a chi è rappresentante del partito unico del nord, ma anche ai loro complici, gli ascari quando non sono organici. Andremo anche a pugnare nelle istituzioni che quelle risorse le hanno assegnate con determinate finalità (Parlamento Europeo, Consiglio Europeo, Direzione Generale Affari Regionali dell’UE, Corte di Giustizia). E chiederemo, estrema ratio, di non darcele, perché, forse è meglio non lasciare ai nostri figli e nipoti ulteriori debiti che vedere i fondi destinati dalle Politiche di Coesione UE al Mezzogiorno utilizzate impropriamente dai soliti predatori autoctoni a vantaggio loro e del resto del Paese come finora avvenuto. BASTA.

GLI ERPIVORI: NEL1948 DE GASPERI DIROTTO’ I FONDI DEL PIANO MARSHALL AL NORD. NEL 2020 CONTE LO EGUAGLIERA’? Annamaria Pisapia su Altaterradilavoro.com il 9 Agosto 2020. Lo stupore è stata la prima reazione dei lombardi, e di molti seguaci adoratori del nordicpensiero: belli, bravi, integerrimi, ligi (e vennero a liberarci non ce lo vogliamo mettere?) sul perché proprio quest’area sia stata la più colpita dal coronavirus, piuttosto che una del Sud. Non un moto di vergogna sulla serie incredibile di errori, dettati dalla presunzione di essere favoriti sempre e comunque ( ne hanno mai avuta di fronte ai più grandi scandali della storia del paese avvenuti proprio al nord?). Nessuna mea culpa né da chi ha gestito l’emergenza, da Fontana, al sindaco Sala (Milano non si ferma il suo leit motiv, a cui prontamente rispose l’entusiasta segretario del pd Zingaretti e il sindaco di Bergamo Gori) all’assessore Gallera, né dagli “illustri” luminari Burioni, Galli che, pur sbagliando qualunque previsione continuano a deliziarci con le loro elucubrazioni saltellando da un programma televisivo all’altro, contando sul favore dei media di regime che fanno a gara per riportarli in vetta. Nessuna traccia della figura meschina riportata, nei confronti del resto d’Italia per averci trascinati in un incubo senza fine. Ma nessuna traccia, ahimè, neanche del prof Ascierto (scopritore dell’efficacia del Tocilizumab sugli effetti nefasti del coronavirus) oscurato dai media al punto che la scoperta sembra quasi non essere ancora avvenuta. Ma Il Tg2 e il tgLeonardo si spingono anche oltre e a distanza di oltre un mese dalla scoperta di Ascierto( la cui terapia è nota e applicata in tutto il mondo) presentano servizi dall’ospedale di Padova e di Brescia come “primi” ad aver sperimentato il Tocilizumab, senza menzionare affatto il prof napoletano quale autore della scoperta. Insomma, sembra proprio che i dirigenti sanitari del nord vaghino in un’altra galassia e con loro tutta la classe dirigente politico-amministrativa della Lombardia che, presi da delirio di “superiorità” non si preoccupano affatto di azionare il cervello e, sperando di farla franca come sempre, sparano cavolate ad libitum: “La Lombardia ha salvato il Sud dal contagio coronavirus”, dice Gallera che deve aver rimosso come hanno gestito l’emergenza e come lo abbiano fatto al Sud. Insomma, un lavoro immane per ripristinare l’immagine di un nord efficiente e ricco, a cui non si sottrae neanche Conte che, come il padre di un rampollo a cui tutto si perdona e tutto si elargisce, promette di prendersi cura in special modo proprio di quel suo figlio preferito che definisce come “ nord,motore propulsivo”. Non intravvede alcuna stonatura nel riconoscere al nord il ruolo di comando, ed è pronto a riconfermarlo. Eppure l’unica area su cui sarebbe logico investire per ripartire è il Sud con contagi vicini allo zero. Sembrano le scene di un film già visto: quelle della fine della II guerra mondiale. Era il 1947 quando l’America annunciò l’avvio del Piano Marshall per la ricostruzione post bellica dell’Europa. Il piano prevedeva l’impiego dei fondi ERP (european recovery program) nelle aree maggiormente devastate e, per l’Italia, il Sud era quella maggiormente danneggiata pur uscendo due anni prima del nord dall’evento bellico. Ma Il Capo del Governo, il trentino Alcide De Gasperi, non intese ragioni e mise in piedi un piano ben congegnato: dirottamento dei fondi in favore degli imprenditori del nord, dando la possibilità all’industria di quell’area di rimettersi in piedi, e reclutamento di manovalanza a basso costo dal Sud che, data la profonda miseria in cui versava,in seguito alla devastazione bellica del suo territorio, non era difficile da reperire. Molti provarono a ribellarsi a questa politica scellerata e predatrice, che vedeva assegnare quasi l’87% di quei fondi al nord e il restante al sud, tra questi Don Luigi Sturzo che su “Il Popolo” del 25 luglio 1948 si scagliò contro gli industriali del nord definendoli “erpivori” ( consumatori parassiti di fondi erp). Don Sturzo, in qualità di presidente del “Comitato permanente per il Mezzogiorno”, si battè affinchè gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno. In questo fu appoggiato anche dal ministro dell’agricoltura Segni, il quale in una lettera a Don Sturzo del 22 luglio 1948 esprimeva tutto il suo rammarico: ” a poco a poco, industria e nord stanno tentando di accaparrarsi tutto. Io negozio, sino alle estreme conseguenze ma la lotta è impari, solo, coll’ottimo Ronchi: contro quasi tutti gli altri” (als 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Al Sud arrivò il 13% di quei fondi ( briciole) che non riuscirono a risollevare le sorti del Sud. Il pil del nord fece un balzo in avanti registrando un +22%, (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) al Sud diminuì al 10% . Don Sturzo dovette difendere con i denti anche le briciole, contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. Con grande “magnanimità” nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l’esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall e con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , venne istituita “La Cassa per il Mezzogiorno” (soldi che servivano a sopperire in parte alla sottrazione dei fondi erp del Piano Marshall al Sud). L’annuncio di un aiuto per il mezzogiorno fu fatto a suon di grancassa ( “quanto è buono lei”, di fantozziana memoria), mentre in devoto silenzio se n’erano andati al nord i fondi erp. La prepotenza del nord fece sì che i fondi erp risultassero un risarcimento loro dovuto , mentre la “Cassa per il Mezzogiorno” un’elemosina di cui essere grati. Il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Mezzogiorno, Il fato ci ha riproposto uno scenario simile a quello del 1948 di cui potremo cambiare il finale. Diversamente Il Sud sarà costretto a una morte definitiva e neanche indolore, data dalla scarnificazione delle ossa della nostra gente. Annamaria Pisapia

Sud mobilitato: lo «scippo» del Recovery non passerà. L’Europa ha detto che bisogna attivare la locomotiva del Sud, ma l’Italia punta sempre sulla locomotiva del Nord che non la fa crescere da vent’anni. Lino Patruno il 18 Dicembre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Non deve passare. Non può passare. Il Sud si sta mobilitando per non far passare la rapina del secolo ai suoi danni. L’Europa ha detto che il 70 per cento del Recovery fund deve andare al Sud, ma il governo lo dà al Nord. L’Europa ha detto che scopo principale dell’intervento è ridurre il divario territoriale, ma col 34 per cento che si vuole dare al Sud quel divario aumenta. L’Europa ha detto che bisogna attivare la locomotiva del Sud, ma l’Italia punta sempre sulla locomotiva del Nord che non la fa crescere da vent’anni. L’Europa ha detto che si può costruire al Sud un’economia moderna, verde e digitale, ma si insiste invece su un Nord che è tutto il contrario. Il presidente della Campania, De Luca, si è detto pronto a lanciare una sommossa istituzionale. Immediata l’adesione del presidente della Basilicata, Bardi. E vertice oggi con gli altri presidenti delle Regioni del Sud. Intanto l’Europa vigila. Ma altre voci si sono alzate. Per primo il Movimento per l’equità territoriale (società civile) ha scritto una lettera alla presidente europea Von der Leyen. Vi si chiede di non far arrivare in Italia un euro del Recovery se la sua distribuzione ampliasse il divario fra Nord e Sud. Il costituzionalista Cesare Mirabelli ha invitato le Regioni del Sud a rivolgersi alla Corte Costituzionale perché è la Costituzione a stabilire l’obbligo del Paese a rimuovere tutto ciò che crea ricchi e poveri. Un Manifesto in tal senso è stato diramato dall’Alleanza degli Istituti meridionali. Ma anche il Parlamento non è fermo. Anzitutto con una raccolta di firme fra tutti i partiti. Dopo che le stesse Commissioni competenti di Senato e Camera avevano raccomandato che si andasse oltre quel 34 per cento. Il Senato: «I fabbisogni per le infrastrutture fisiche e sociali del Sud sono ben superiori alla misura del 34 per cento». La Camera: è auspicabile che le risorse per il Sud siano maggiori del 34 per cento «considerato il più alto moltiplicatore della spesa di investimento al Sud», perché «ne beneficerebbe l’intero territorio nazionale». Lo ha spiegato il presidente della Svimez, Giannola. Ogni euro pubblico investito al Sud, porta un beneficio di un euro e 30 all’intero Paese. E di questo euro e 30, il 25 per cento (cioè 0,30 euro) va al Nord. Del resto la stessa Commissione europea ha più volte spiegato che mai all’Italia sarebbero stati assegnati 209 miliardi se non ci fosse stato il Sud. E 209 miliardi (oltre il 30 per cento del totale) sono la massima cifra conferita a un Paese membro (alla Germania 22, alla Francia 100, alla Spagna 140). Un Sud verso il quale l’allarmata attenzione europea si deve al fatto che sia ancòra mantenuto come la più grande (e inammissibile) area di ritardato sviluppo nell’Unione. E il 70 per cento dei 209 miliardi si devono non solo alla sua popolazione (il 34 per cento), ma anche al suo più alto tasso di disoccupazione e al suo Pil pro-capite che è la metà di quello del Centro Nord. Frutto di una sottrazione al Sud di una spesa pubblica di 61 miliardi all’anno che vanno al resto del Paese. Frutto di un livello di investimenti al Sud che è sceso allo 0,15 per cento. Frutto di una perequazione infrastrutturale mai avviata dopo la legge del 2009 che la imponeva. Il tutto per una sottrazione al Sud di 840 miliardi in 17 anni, come ha certificato l’Eurispes. Ma non è finita. Sarà il Sud a subire le peggiori conseguenze della pandemia. La previsione è che nel 2021 il Centro Nord recuperi quasi integralmente il reddito perso rispetto al 2019, mentre al Sud addirittura aumenti. Ma non è ancora finita. Giannola denuncia un altro trucco sui miseri e illegali 68 miliardi del Recovery che si vogliono attribuire al Sud (appunto il 34 per cento). Ben 23 non sono un’aggiunta, ma derivano dal Fondo nazionale sviluppo e coesione, cioè da soldi che comunque spettavano al Sud in riparazione per tutto ciò che è fatto a suo danno. Mentre i Conti pubblici territoriali da tempo rivelano che un cittadino meridionale non vale quanto uno centrosettentrionale, visto che lo Stato spende per il primo 4 mila euro in meno rispetto all’altro. Un abitante del Sud si è già condannato nascendo. Questo del Recovery è il più grande intervento pubblico in Europa dal Piano Marshall. Già quello per l’80 per cento andò al Nord pur essendo stato deciso viste le condizioni del Sud dopo la guerra. Se dovesse andare così anche ora, se dovesse ancora essere sacrificato per consentire lo sviluppo del Nord, il Sud non esisterebbe più. Desertificato, spopolato, immiserito. Dopo una serrata campagna da parte dei poteri forti del Nord per attribuirgli tutta la colpa dei suoi mali. E allora perché dargli quanto gli spetta? Diamolo a chi finora per egoismo ha fatto diventare l’Italia la poveretta d’Europa. E quella dalla quale tutti vogliono andare via.

Michele Eugenio Di Carlo: LO SAPEVATE? I fondi del piano Marshall, vennero utilizzati da De Gasperi per l'87% al nord mentre gli Stati Uniti li avevano previsti in particolare per il Mezzogiorno molto danneggiato dai danni da guerra. Ricordate i 22 mila uccisi dai bombardamenti alleati a Foggia? Nonostante Sturzo ed altri non ci fu verso: i fondi andarono come sempre al nord. Una situazione che potrebbe ripetersi con i 209 miliardi del Recovery fund che dovrebbero essere utilizzati per il 70% per ridurre il divario del Mezzogiorno.
Terroni di Pino Aprile: BERLUSCONI INVOCA UN NUOVO PIANO MARSHALL PER IL SUD? E' PER PORTARE ALTRI SOLDI AL NORD. Di Annamaria Pisapia. Su "Il Popolo" del 25 luglio 1948, Don Luigi Sturzo si scagliò contro gli industriali del nord definendoli "erpivori", cioè consumatori parassiti di fondi ERP,(european recovery program). Gli ERP, meglio conosciuti come Piano Marshall, erano i fondi destinati dal governo americano per la ricostruzione e il rilancio delle aree maggiormente devastate dall'evento bellico della seconda guerra mondiale. Don Luigi Sturzo, in qualità di presidente del "Comitato permanente per il Mezzogiorno", si batteva affinchè gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno, che era l'area maggiormente colpita, rispetto al nord, pressando i ministri in tal senso. Purtroppo il governo, presieduto da De Gasperi, ritenne di dirottarli in misura dell'87% al nord e solo del 13% al Sud favorendo il rilancio delle industrie settentrionali. Il ministro dell'agricoltura Segni inviò una lettera a Don Sturzo il 22 luglio 1948 in cui diceva: " A POCO A POCO, INDUSTRIA E NORD STANNO TENTANDO DI ACCAPARRARSI TUTTO. IO NEGOZIO, SINO ALLE ESTREME CONSEGUENZE, MA LA LOTTA E' IMPARI, SOLO, COLL'OTTIMO RONCHI; CONTRO QUASI TUTTI GLI ALTRI". (ALS 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Era nell'idea del governo e degli industriali del nord di puntare sull'emigrazione a basso costo del Sud per il decollo dell'economia italiana(nord). Così, di 1 miliardo e trecentomilioni di dollari, al Sud arrivarono le briciole. Purtroppo anche quelle briciole Don Sturzo dovette difenderle con i denti contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. E come era ovvio il pil di zone come il Veneto, fino ad allora povero, schizzò a +22% e al Sud diminuì del 10%. Ma con grande "magnanimità" nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l'esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , per istituire "La Cassa per il Mezzogiorno". Così, mentre i soldi dei fondi ERP se ne andarono in silenzio al nord, la "Cassa per il Mezzogiorno" venne annunciata con tanto di grancassa. Insomma, la prepotenza del nord fece in modo che i fondi ERP risultassero un risarcimento che gli era dovuto , mentre la "Cassa per il Mezzogiorno" un'elemosina di cui essere grati. Inutile dire che il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Sud.

La mitologia del Piano Marshall. Lo «European Recovery Program» ebbe precise finalità, a cominciare dal ritorno di quella dimensione atlantica crollata con la Grande Guerra. Mauro Campus il 15 aprile 2020 su ilsole24ore.com. A qualunque latitudine, quando si verificano situazioni di emergenza, è abituale ricorrere a questo luogo comune del lessico politico: «Qui ci vorrebbe un piano Marshall». Era dunque immaginabile il ricorso alla mitologia dello European Recovery Program (Erp) anche nell’attuale situazione. Tale previsione, in sé banale, ha però superato ogni aspettativa, poiché ovunque la formula del piano americano è invocata con un’insistenza svincolata dal significato storico che ebbe quell’operazione. Anche se il generale George Marshall non ne fu né l’ispiratore né l’estensore, il piano prese il nome di quel segretario di Stato dell’amministrazione Truman, che fu anche l’organizzatore della vittoria alleata senza però aver mai calcato il campo di battaglia. Con un breve discorso molto citato – anche se pochissimo letto – pronunciato all’Università di Harvard il 5 giugno 1947 Marshall ne fu piuttosto il latore. Quel testo che riannodava la tela dell’idealismo wilsoniano e compendiava in poche righe anni di trasformazione del sistema politico statunitense è divenuto sinonimo di «intervento risolutivo e benefico per i momenti di crisi drammatica». Come chiarì la legge che lo rese effettivo – l’Economic Cooperation Act del 1948 – non si trattava di un piano generosamente elargito dal vincitore ai Paesi in macerie dopo il conflitto della Seconda guerra mondiale. Esso si triangolava su tre assi connessi e destinati ad avere un significato costituente per il sistema internazionale. Il primo era la riorganizzazione dell’Occidente e il ritorno della dimensione “atlantica” dell’interdipendenza, naufragata con la Prima guerra mondiale, cioè con il collasso della prima globalizzazione. Il secondo era il far funzionare attraverso la ricostruzione delle correnti di scambio il motore del Grand Design rooseveltiano, ossia il ventaglio di organizzazioni pensate a guerra in corso da Roosevelt (dall’Onu all’Fmi, dal Gatt alla Banca Mondiale), le quali avrebbero dato corpo all’idea di “governo del mondo” che costituiva lo sfondo di un sistema internazionale multilaterale. Il terzo era la creazione geografica di un campo economico omogeneo in funzione antisovietica: un blocco politicamente stabile proteso a combattere quella che si andava definendo come la Guerra fredda e che segnò i successivi 40 anni di vita internazionale. Le ricadute dell’attuazione del Piano furono legate all’alba della cosiddetta Pax Americana, cioè la creazione di rapporti di forza che descrivevano anche attraverso il dollar standard il dominio egemonico degli Stati Uniti su un Occidente i cui confini dilatati avrebbero coinciso con l’affermazione delle strutture del capitalismo democratico. Per essere precisi, il Piano costituì la premessa di quella trasformazione. Con la regia di Washington i Paesi dell’Europa occidentale – senza distinzione fra vinti e vincitori – si sedettero al tavolo dell’Organizzazione per la cooperazione economica europea (Oece, l’antenato dell’Ocse), nata allora per riprogrammare il sistema produttivo continentale e renderlo funzionale all’ottimizzazione dei beni e dei fondi messi a disposizione dagli Stati Uniti. Si formò lì il processo d’integrazione europea, che da allora prese una strada autonoma ma seguitò (e seguita) a riconoscersi attorno alle istanze economiche delle origini. Il Piano fu molte cose, ma il suo valore materiale derivava sostanzialmente da due fattori. Anzitutto il suo importo – circa 13,2 miliardi di dollari, pari all’1,1% del Pil americano e al 2,7 dei 16 Paesi riceventi – era finanziato con i soldi dei cittadini statunitensi, i quali furono spinti ad accettarlo sulla base di una campagna martellante nella quale si sottolineava il nesso tra la sicurezza economica della Repubblica americana e quello dell’Europa occidentale. Secondariamente esso non era composto solo da prestiti agevolati (alla cui riscossione gli Stati Uniti poi rinunciarono), ma da beni e materie prime che i 16 Paesi incamerarono gratuitamente e poterono trasfondere nel sistema produttivo attraverso aste o assegnazioni strategiche. Il ricavato delle vendite di quei beni costituì un fondo vincolato al lancio di politiche di produttività e quindi, di fatto, all’adozione di uno straordinario aggiornamento tecnologico rispetto alla grammatica industriale europea. Questo meccanismo inseriva una doppia condizionalità per i Paesi che attuarono il Piano. La prima era protesa allo sviluppo e alla modernizzazione del sistema produttivo, la seconda, squisitamente politica, prevedeva l’allineamento dei Paesi Erp all’American way of life in termini di consumo e accesso ai beni e di adesione a modelli liberal-democratici costituzionali. Fu l’implicita condizionalità politica a rappresentare l’oggetto principale del dissenso attorno al Piano. Esso fu, infatti, accolto in modo controverso non solo dalla sinistra ma da eterogenee parti della popolazione europea. Anzitutto perché esso si proponeva di vincolare e dividere. Sebbene formalmente offerto ai Paesi della costellazione sovietica, esiste un’ampia evidenza documentaria che tale offerta fosse poco meno che un ballon d’essai: neanche volendo, il socialismo reale si sarebbe potuto curvare ai precetti dell’americanizzazione sottintesi al Piano. È del pari eloquente che le critiche accese, dal 1947 in poi, contro un patto accusato di essere l’espressione più aggressiva del capitalismo statunitense siano state poi ribaltate in severe diagnosi rispetto al modo in cui gli aiuti furono utilizzati. Ciò, da un lato, spiega però perché il Piano sia il passaggio preliminare per comprendere la storia del conflitto bipolare, e dall’altro perché ogni paragone col presente sia impraticabile. A suo tempo, nemmeno i più accaniti cold warriors sostennero che il Piano fosse il frutto di una volontà filantropica degli Stati Uniti, ed esiste un generale consenso verso la tesi secondo cui esso servisse ai destinatari quanto ai promotori. Le ipotesi di un piano per fronteggiare la crisi da coronavirus che ricalchi le aspirazioni globali dell’Erp, per come negli ultimi giorni sono state richiamate prima dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel e poi dalla presidentessa della Commissione Ursula von der Leyen, descrivono un’ambizione priva di legami con la realtà. Il bilancio dell’Unione (circa l’1% del reddito nazionale lordo) – perché sarebbe l’Unione a essere chiamata a organizzare il “nuovo Piano Marshall” – è insufficiente per affrontare un programma simile a quello del 1948-1952, e una contrazione dei bilanci nazionali a favore del bilancio dell’Unione pare in questa fase una prospettiva lunare. Sarebbero dunque necessarie misure (e visioni) straordinarie. Vi è inoltre un crinale ancora più invalicabile della limitatezza delle risorse e della relativa contabilità ordinaria che appassiona alcuni strabici politici del Nord Europa, e riguarda l’assunzione di responsabilità politica che un Piano simile comporterebbe. Per essere davvero onesti, nessuno oggi nell’Unione è intenzionato a guidare la drammatica transizione che si aprirà a breve e sarebbe questo ciò di cui si sente il bisogno. Non dell’evocazione imbambolata di feticci storici.

Milena Gabanelli e Danilo Taino per “Dataroom - Corriere della Sera” l'8 febbraio 2021. George Marshall fu il Chief of Staff dell’esercito degli Stati Uniti che inventò il Piano di ricostruzione dell’Europa, il quale prese il suo nome. Churchill lo definì «organizzatore della vittoria». Proprio per la sua visione gli fu assegnato il Premio Nobel per la Pace nel 1953. Morì nel 1959, ma ancora 70 anni dopo, quando c’è una crisi si invoca un Piano Marshall. Il fatto è che non è replicabile, e non fu unicamente una questione di soldi, come non lo è oggi per l’Italia, di fronte ai miliardi del Recovery Fund europeo. Che le differenze tra l’immediato dopoguerra e i nostri giorni della pandemia siano enormi è evidente. Allora c’erano Paesi completamente da ricostruire, la manodopera costava niente, il mondo dei commerci era chiuso. C’era una leadership crescente, e in quei giorni governavano statisti veri, temprati in una delle tragedie maggiori della Storia. Dovremmo però studiarla bene quell’operazione che fu la base del Miracolo Economico, nel momento in cui ci avviamo a ricevere più di 200 miliardi di euro tra sussidi e prestiti europei.

Quanto vale oggi quel miliardo e mezzo di dollari. Nominalmente, l’European Recostruction Plan (Erp) - questo era il nome ufficiale – canalizzò 13,3 miliardi di dollari dagli Stati Uniti a 16 Paesi europei tra l’aprile 1948 e il giugno 1952: la Spagna non faceva parte del Piano in quanto dittatura. Se ci si limita a calcolare l’inflazione, 13 miliardi del 1950 corrispondono a poco più di 140 miliardi di dollari oggi. Ma in 70 anni non sono aumentati solo i prezzi, anche i Pil si sono moltiplicati. Fare un confronto preciso tra le portate dei due interventi, dunque, è difficile. L’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, però, ha calcolato che il miliardo e mezzo di dollari che arrivò in Italia con il Piano Marshall corrispose al 9,2% del Pil italiano medio di quegli anni. Se si considera che il Prodotto interno lordo italiano del 2019 è di 1.787 miliardi, il 9,2% corrisponde a 164 miliardi di euro, non molto meno dei 206 del Recovery Fund.

Le condizioni del Piano Marshall. Originariamente, l’Erp avrebbe dovuto beneficiare soprattutto Gran Bretagna e Francia. Infatti, i due Paesi furono quelli che ricevettero la quota maggiore di aiuti, 3,2 miliardi di dollari Londra, 2,7 Parigi. L’Italia fu la terza beneficiata, con 1,5 miliardi: si trattava di sostenerla economicamente anche con l’obiettivo di non farla cadere nelle mani delle sinistre e in prospettiva del nascente blocco sovietico, tanto che un mese prima delle elezioni del 18 aprile 1948 lo stesso Marshall chiarì che il Piano per l’Italia si sarebbe arrestato se avesse vinto il Fronte Popolare. Il lato politico e geopolitico dell’Erp fu infatti non meno importante, per Washington, di quello economico: la Germania, il Paese chiave nel confronto con l’Unione Sovietica, pur entrando un anno dopo nel progetto, ricevette 1,4 miliardi. Anche il Recovery Fund e il New Generation Eu hanno un forte contenuto politico: il rafforzamento dell’Unione europea e il mercato unico da non frammentare con tassi di crescita troppo divergenti nel momento dell’uscita dalla crisi pandemica. Inoltre non c’è un «podestà esterno» a controllare che i denari siano ben impiegati: dovrà essere la Ue stessa a badare all’uso delle sue risorse.

Cosa arrivò dagli Usa. Le condizionalità del Piano Marshall furono sostanziali, anche perché gran parte degli aiuti furono a fondo perduto (solo 1,3 miliardi di dollari furono prestiti). Bisognava stabilizzare le valute, creare una rete commerciale europea, promuovere la produzione agricola e industriale, favorire gli scambi con gli Stati Uniti, i quali avevano bisogno di partner economici in salute. Considerando l’Italia, da Washington arrivavano beni al governo il quale versava il corrispettivo del loro valore a un Fondo di Contropartita intestato al Tesoro, destinati a ridurre il debito e agli investimenti. Il tutto con i rigidi controlli di un sistema concordato, ma la cui ultima parola spettava all’Eca, l’Economic Cooperation Administration di Washinton. Le prime navi con le merci dell’Erp – nota nel suo libro «Il Piano Marshall e l’Italia» Francesca Fauri (Il Mulino) - consegnarono carbone e grano a partire dal 18 aprile 1948 e al 30 settembre di quell’anno «erano già stati sbarcati tre milioni di tonnellate di prodotti giunti con 370 navi». Cotone, cereali, combustibili e macchinari furono le principali importazioni nel quadriennio. Ma arrivò di tutto, dal rame a prodotti siderurgici, dalle sementi e concimi alla gomma sintetica. Con il denaro ricavato dalla vendita a privati di queste merci, 300 miliardi, il ministro del Bilancio Luigi Einaudi ne utilizzò solo 62 per fare investimenti, così ripartiti: 14 miliardi andarono alle imprese private per lo sviluppo della siderurgia, 32 passarono all’Imi per sostenere importazioni dagli Usa, 8 servirono a sostenere il turismo, e altri 8 sovvenzionarono le costruzioni navali. Il resto venne messo nella stabilizzazione della moneta e valorizzazione del risparmio. Una politica che ridiede fiducia nell’Italia agli investitori e pose le basi per il boom degli anni successivi.

Come abbiamo usato quei dollari. Gli investimenti massicci per la ricostruzione e lo sviluppo economico iniziarono tra la fine del 49 e il ’50, sempre con un governo De Gasperi e seguendo la linea Einaudi, che nel frattempo era diventato presidente della Repubblica. La procedura era questa: i programmi dovevano essere avallati da Washington e poi discussi e approvati dal Parlamento a Roma. I criteri seguiti furono quattro: urgenza delle opere, creazione di occupazione, crescita del reddito dell’Italia, sostegno alle aree depresse. Al 30 giugno 1951, gli investimenti Erp furono per il 28% in agricoltura (bonifica e credito), per il 23,4% in attrezzature industriali, per il 16,9% in lavori pubblici, per il 12,3% in trasporti soprattutto ferrovie, per il 5,4% nell’Ina Casa e il 3,1% per l’incremento edilizio. Si costruirono le case popolari nei quartieri operai. Si lanciò un piano di sviluppo idroelettrico meridionale, si rafforzarono i porti, in primis Genova, e la marina mercantile. Si diede un tetto a tremila famiglie le cui case erano andate distrutte nel terremoto di Messina del 1908. Si ricostruirono ponti. Nel 1953, nelle campagne lavoravano 84 mila trattori. Nello stesso anno, tutti i comuni italiani furono raggiunti (almeno ufficialmente) dalle linee telefoniche. Si crearono 12 orfanotrofi, 204 strade, 70 ospedali, 33 acquedotti, 26 fognature, 188 scuole. Al settembre ’53, il cento per cento del programma Unrra Casas, che dava una dimora ai senzatetto, fu finanziato dall’Erp, il Piano di edilizia pubblica all’11%, il Fondo incremento edilizio al 67%, e così via nella ricostruzione del tessuto abitativo.

La vera differenza fra ieri e oggi. I prestiti del Piano Marshall invece andarono soprattutto alle grandi industrie, quindi in Piemonte, Lombardia e Liguria, allora Triangolo Industriale. Alla Fiat il 12,4% di tutti i prestiti, alle imprese dell’Iri il 23,9%, alla Edison l’8,6%. Per lo più si trattò di denaro non sprecato in salvataggi improbabili. Un’ indicazione utile per i tempi nostri, dove avviene troppo spesso l’esatto contrario. Dunque la stabilizzazione macroeconomica, la ripresa nella fiducia nel Paese dopo la sconfitta bellica, la ricostruzione iniziata e investimenti, portarono a risultati superiori a quelli previsti nel piano a lungo termine presentato all’Oece (il predecessore dell’Ocse) all’inizio degli aiuti americani. Nel 1952 il reddito nazionale centrò la previsione a livello 117; la produzione industriale toccò 149 contro il previsto 140; i passeggeri sulle ferrovie arrivarono a quota 233 contro un’aspettativa di 200; i trasporti via mare arrivarono a 173 rispetto al 125 pianificato. Crebbero più del previsto le esportazioni, le importazioni, i consumi alimentari pro capite. Solo la produzione agricola e della pesca e il trasporto merci per ferrovia crebbero meno delle previsioni. (Fonte, Zamagni, «Dalla periferia al centro»). Un successo, anche se alcuni economisti sostengono che la crescita dell’economia e l’arrivo in Italia di un sempre crescente benessere forse ci sarebbero stati anche senza il Piano Marshall. Impossibile saperlo. Non è però detto che senza l’Erp le sinistre non avrebbero vinto le elezioni del ’48. A quel punto l’Italia non sarebbe entrata nel mercato occidentale e men che meno nella comunità europea. E qui sta la differenza finale con l’oggi: la statura di chi fece e fa scelte politiche. Forse proprio pensando a Einaudi è stato chiamato Draghi.

·        Bella Ciao al 25 aprile.

"Bella Ciao ha rotto il ca...", l'analisi tecnica di Rocco Tanica. L'anima di Elio e le Storie tese nonché attore e autore televisivo infrange un tabù: la canzone dei partigiani ormai ha stufato tutti. Sui social è un tripudio: «Hai ragione, è una lagna, come la musica balcanica». Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Serviva l'autocandidatura a segretario di Elly Schlein, giovane Barbra Streisand del Pd una Seracchiani che ce l'ha fatta, secondo i compagni più ustori- per propalare l'innegabile verità: «Bella e simbolica e tutto quanto; ciò detto, Bella Ciao ha rotto il cazzo». Così, tranchant.

Che non è la dichiarazione di un fascio eversore, bensì lo sfogo comprensibile di Sergio Conforti alias Rocco Tanica, classe '64. Autore e cantautore, corpo e anima degli Elio e le Storie Tese, autore e attore televisivo (grande interpretazione ne La compagna del Cigno su Raiuno) titillatore di nonsense in equilibrio tra Achille Campanile e gli stand up comedians newyorkesi, maestro di una generazione di satirici allegramente militanti alla Zoro, anarcoide di un'anarchia caricata a peyote: Rocco Tanica, dal quel popò di curriculum ha postato su Twitter le immagini del discorso del volto Dem.

DOPO IL PD «Sulle note di Bella ciao, Elly Schlein ha lanciato la sua candidatura alla segreteria del Partito Democratico: "Non siamo qui per una resa dei conti identitaria ma per dare vita a un partito plurale"». E, qualunque cosa ciò significhi, Rocco ha aggiunto la sua larvata critica alla canzone. Ed è stato subito un tripudio di retweet. Tutti a favore dell'esegesi roccotanichesca del testo. Roba fantazziona, tipo da «La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca» col capufficio cinefilo Guidobaldo Maria Riccardelli in ginocchio sui ceci, nello scroscio di 92 minuti di applausi ininterrotti.

Dopo il post di Tanica, ecco dunque il florilegio dei commenti più disparati: «Un po' come la musica Balcanica, bella e tutto quanto, ma alla lunga rompe i coglioni...». «C'è una versione balcanica di Bella Ciao?». «Dottor Tanica qui bisogna assolutamente comporre il nuovo inno della sinistra».

«Ha ragione maestro, Bella Ciao è proprio una lagna. Non potrebbe scriverlo lei il nuovo anthem in cambio di moltissimi danari ?».

E l'animo artistico di Tanica è già avanti. Prima propone come nuovo inno della sinistra Aborto dei suoi Elio («Aborto aborto batti un colpo se ci sei/Aborto aborto, come andiamo, è tutto occhei?/Obiettori e referendum che follia/ Ma in aborto vince la tua fantasia»).

Ma è, diciamo, poco tarato sui valori Dem. Poi a chi insiste nell'essere più pop e terragno Rocco propone Vogliamo andare avanti del mitico Duo di Piandena, anno 1972: «Vogliamo andare avanti, avanti/ avanti nella democrazia e il mondo socialista è la tua garanzia/ Vogliamo andare avanti.../E torna a minacciare il centurione di ridurre l'Italia una galera, ma è solo il ruggito del piccione, è tramontata la camicia nera». «Ci sarebbe questo, ma non è centrato», si scusa Tanica. E, in effetti, il brano suddetto sarebbe perfetto per l'associazione partigiani o per Fratojanni, ma col Pd non c'entra una beata fava. Tra l'altro, nel post successivo Tanica pubblica le proposte da La Stampa sui nuovi nomi del nuovo Pd; e tra essi spiccano "Padel- Italia rimbalza"della "mozione cura di sé" e "Sushi-In regalo le salse", la mozione asiatica del "partito all you can it", che tra l'altro non è cumulabile con altre offerte. Ricorda molto i vecchi sketch di Corrado Guzzanti /Veltroni sulla "mozione Amedeo Nazzari segretario, ma purtroppo è morto».

Ecco. In questa giostra di surrealtà emerge tutto il carico narrativo dell'ex cantico delle mondine trasformato prima in canto partigiano must del 25 aprile, e poi nella sigla di una fiction spagnola dal successo planetario. Tra l'altro, anche la Casa di carta con Bella ciao non c'entra una fava, però ne escono dei balletti meravigliosi davanti alla cassaforte zecca di Stato imbottita di tritolo. Bella ciao è sempre stata materia infiammabile.

MATERIA INFIAMMABILE Qualche mese, fa Laura Pausini si rifiutò di cantarla in tv per non prendere posizioni politiche. E la sinistra ispano-italiana le cucì addosso una camicia di forza intessuta nell'orbace. Ancora prima, nel 2019, i Marlene Kuntz e Skin fornirono a Riace, in appoggio del rinviato a giudizio Mimmo Lucano, di Bella ciao una versione trascinata e sofferta, quasi intestinale; roba che Dean Martin sembrava un assolo dei Led Zeppelin. Ora, Bella ciao è indubbiamente orecchiabile. E, di valore storico. E pregna di un suo carico simbolico. Però, sentendosi a ogni latitudine non solo ha perso la carica eversiva, ma tende a produrre sensazioni orchitiche che vanno oltre le oltre le aspirazioni degli etnomusicologi e dei partigiani superstiti. Forse ha ragione Tanica. Puoi penetrare le coscienze dei popoli. Ma quando hai rotto il cazzo, «hai rotto il cazzo».

Bella Ciao, l'inno della libertà poco conosciuto dai partigiani. La storia di una canzone nata nelle risaie e finita nelle piazze di mezzo mondo. ANTONIO CAVALLARO su Il Quotidiano del Sud il 25 aprile 2022.  

I ragazzi della Brigata Maiella: l'unica formazione partigiana a essere decorata di medaglia d'oro al valor militare alla bandiera.

Come reagireste se vi dicessi che “Bella Ciao” non è stato il brano più cantato dai nostri partigiani e che deve il suo successo a una vera e propria invenzione della tradizione che si è consolidata solo a guerra conclusa e con una serie di passaggi e stratificazioni successive?

A raccontare la genesi e la diffusione del canto della resistenza italiano più noto al mondo è Cesare Bermani in un saggio dal titolo “Bella ciao, una canzone della Brigata Maiella”, contenuto nel volume Brigata Maiella, Resistenza e Bella ciao. Combattere cantando la libertà curato da Nicoletta Mattoscio pubblicato da Rubbettino.

Il termine “invenzione” accostato a “tradizione” non deve far saltare sulla sedia quanti hanno a cuore l’eredità culturale, politica e spirituale della Resistenza, né indurli a gridare alla lesa maestà. A scanso di ogni equivoco dichiaro subito che chi scrive è socio onorario ANPI nonché nipote di un fiero partigiano, scomparso due anni fa.

Uso “tradizione inventata” nel senso in cui la usa Eric Hobsbawm nel celebre saggio L’invenzione della tradizione ossia come “un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale e simbolica che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato” insomma una sorta di mitopoiesi che dando origine a una storia collettiva e condivisa contribuisce a creare il senso di appartenenza.

Ma torniamo a “Bella Ciao”. Stando a quanto scrive Bermani il canto era sconosciuto a molte formazioni partigiane mentre circolava diffusamente nel Modenese e nel Reggiano, a partire dal 1944. D’altronde lo stesso Giorgio Bocca ebbe a dichiarare pubblicamente “Nei venti mesi della guerra partigiana, non ho mai sentito cantare Bella ciao”.

Dalle testimonianze raccolte dall’autore nel saggio pare che le versioni di “Bella ciao” che circolavano in Emilia e che venivano cantate dai patrioti della Brigata Maiella fossero in realtà diverse benché accomunate dalla melodia e da alcuni elementi simili che rimandavano tuttavia a un brano ancora più antico che avrebbe fatto da archetipo delle diverse varianti della canzone che sarebbero venute dopo. Il brano in questione era “Fior di tomba”, cantato principalmente nelle risaie padane e pubblicato per la prima volta da Costantino Nigra nel volume del 1888 Canti popolari del Piemonte. Successivamente il canto godette di una certa notorietà tra i soldati che parteciparono al primo conflitto mondiale.

Leggendo il testo di “Fiori di tomba” è possibile intravedere gli elementi principali che avrebbero poi fatto da base per il riadattamento in chiave partigiana della canzone.

“Stamattina mi sono alzata / un’ora prima che leva il sol / Mi san messa alla finestra / e mi go visto el me primo amar / l’era in braccio d’una ragazza / una ferita mi viene al cor. / Cara mamma serè la porta / che qua no entra mai più nisun / Cara figlia sta alegra e canta / sta alegra e canta sta qua con me / Farem fare una casetta / e ci staremo tutti e tre / Prima mio padre poi la mia madre / e il mio amore in braccio a me / E la gente che passeranno / dimanderanno cos’è quel fior / Quello è il fiore della Rosina / che Ve morta del troppo amor”.

Lo stesso Bermani in un volume pubblicato da Interlinea dal titolo Bella ciao: Storia e fortuna di una canzone racconta come questo canto d’amore già dopo la disfatta di Caporetto avesse conosciuto delle rielaborazioni in chiave protestataria. Ecco un frammento di una delle versioni dell’epoca riportato dallo studioso in cui si può osservare la comparsa dell’elemento “Bella ciao” che diverrà caratteristico del successivo canto della Resistenza: “Una mattina mi son svegliato / o bella ciao, ciao, ciao o bella ciao, ciao ciao / una mattina, mi son svegliato / e sono andato disertor”.

Bermani, nel saggio citato all’inizio di questo articolo, riporta poi il testo della canzone così come conosciuto e cantato dalla Brigata Maiella (ovviamente facciamo tutte le avvertenze del caso sulla mutabilità dei testi trasmessi principalmente per via orale): “Questa mattina mi sono alzato / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, / mi sono affacciato alla finestra / e ho visto il primo amor / / Io me ne vado lontano lontano / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / me ne vado lontano lontano / tra le palle di cannon. // E s’io morissi da patriota / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / mi seppellisce al camposanto / sotto l’ombra di un bel fior. // Tutte le genti che passeranno / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / tutte le genti che passeranno / diranno che bel bel fior // È questo il fiore della Maiella / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / questo è il fiore della Maiella / del patriota che morì”.

Il canto, con i movimenti delle truppe partigiane, raggiunse poi il nord Italia negli ultimi mesi di guerra subendo ulteriori mutazioni e adattamenti. La storia di “Bella ciao” però non si esaurisce con la guerra, il testo che noi riconosciamo oggi come autentico e tradizionale è il frutto di elaborazioni successive, di adattamenti, di interpolazioni. Come spesso accade con le tradizioni e come il libro di Hobsbawm che abbiamo citato insegna, quelle che noi riveriamo come tradizioni antiche non sono che il frutto di un lento lavorio e di un successivo uso sociale che termina con una forma di cristallizzazione che, però, appare spesso anch’essa precaria.

Come racconta Bermani, il canto comincia ad essere identificato quale canto simbolo della resistenza a guerra conclusa. Nel 1945 a Londra, i rappresentanti delle associazioni antifasciste di oltre 63 Paesi decidono di organizzare ogni due, tre anni un festival mondiale sui temi della pace. “Bella ciao” sarà uno dei canti più eseguiti, tradotto in più lingue, al festival di Praga del 1947, a quello di Budapest del ’49 e quello di Berlino del ’51. L’incredibile successo della canzone è certamente da ascrivere al ritornello facilmente orecchiabile che contiene due delle parole italiane più note al mondo “Bella” e “Ciao” e al battito di mani che ne accompagnava l’esecuzione e che certamente, in quel contesto, assumeva una funzione non solo aggregante ma, possiamo immaginare, quasi catartica.

Anche grazie al suo successo internazionale il canto entrò a far parte dei repertori delle varie corali e a comparire nei vari canzonieri. Fu infine il festival di Spoleto a sancirne la definitiva consacrazione grazie allo spettacolo “Bella ciao” del 1964. Furono proprio gli anni Sessanta, spiega Bermani, quelli in cui il canto si diffuse capillarmente. Erano gli anni in cui la Resistenza e la guerra di liberazione cominciarono a essere sempre più identificati come il momento fondativo della Repubblica.

La Resistenza veniva finalmente letta come momento che accomunava la Nazione e non solo una parte politica. In questo clima di ritrovata (o quanto meno di ricercata) pacificazione nazionale, “Bella ciao”, contrariamente a “Fischia il vento”, che pure era stata sicuramente la canzone più cantata dai partigiani al Nord, si prestava a quella funzione ecumenica e identitaria di cui la società italiana aveva bisogno.

Bella Ciao, non solo testo originale: tutte le versioni e gli adattamenti della canzone partigiana. Ilaria Minucci su Notizie.it il 22/04/2022.

Bella Ciao, versioni internazionali: tutti gli adattamenti del canto dei partigiani in Italia e all’estero, alla Casa di Carta e alla resistenza ucraina.

Nell’immaginario collettivo, Bella Ciao rappresenta la canzone della Resistenza e dei partigiani per eccellenza. Quali sono tutte le versioni e gli adattamenti che il brano ha avuto con il trascorrere degli anni?

Versione originale di Bella Ciao: il vero significato della canzone della Resistenza

Nella giornata del 25 aprile, in Italia, si tengono i festeggiamenti per il giorno della Liberazione dal regime nazifascista. All’evento, è strettamente legata la canzone “Bella Ciao”, da sempre intesa come la canzone di riferimento della Resistenza e dei Partigiani.

Il brano, tuttavia, come spiegato dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) si è trasformata nell’inno della Resistenza solo circa vent’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Svariate fonti e rinomati storici, infatti, hanno rivelato che in realtà la canzone venne poco cantata durante il secondo conflitto mondiale e il periodo della Resistenza, diffondendosi dopo la Liberazione.

A ogni modo, la fortuna del brano dipende dal fatto che Bella Ciao ha un testo che rimanda a valori universali di libertà e opposizione contro dittature e guerre. Riferimenti che esulano dal colore politico, dal credo religioso e dalla “fazione” di appartenenza, mettendo in risalto in tutta la sua potenza e disperazione la figura dell’oppresso.

Nel 2022, la cantante folk Khrystyna Solovyy ha realizzato una nuova versione di Bella Ciao che si è rapidamente trasformata nell’inno della Resistenza ucraina. La cantante, particolarmente conosciuta sul web, ha deciso di realizzare la cover riadattando il testo alla guerra tra Russia e Ucraina.

Per quanto riguarda il testo della versione ucraina di Bella Ciao, la cover è stata ribattezzata “La rabbia ucraina” ed è intrisa di riferimenti legati al conflitto tra Mosca e Kiev.

Verso dopo verso, infatti, la cantante Solovyy si scaglia contro la brutalità dei russi che hanno deciso di invadere la sua Patria, esaltando il ruolo delle truppe ucraine, determinate a combattere. In quest’ottica, la cover si chiude con la strofa: “Presto li distruggeremo / E conquisteremo la nostra libertà / E ci sarà di nuovo la pace”.

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Sindaco di Medole vieta alle scuole di cantare Bella Ciao per il 25 aprile perché “troppo divisiva”

Medole, quel sindaco che vietando Bella Ciao per evitare di dividere ha diviso tantissimo (editoriale)

La versione spagnola, francese e inglese di Bella Ciao: dalla Casa di Carta alla lotta contro il cambiamento climatico

Negli ultimi anni, prima dello scoppio del conflitto russo-ucraino, Bella Ciao è diventata virale nel mondo intero quando è stata cantata nella popolare serie tv spagnola distribuita da Netflix La Casa di Carta. Nella serie, El Profesor e suo fratello Berlino intonano una versione amatoriale del brano con accento marcatamente spagnolo.

Da quel momento, Bella Ciao si è trasformata nel simbolo della Resistenza della banda spagnola, venendo ripetutamente proposta durante le varie stagioni e venendo realizzata anche in versione stile Cumbia con maracas e bonghi.

La versione iberica de La Casa di Carta non è l’unica ad essere stata realizzata al di fuori dei confini italiani. Tra le tante cover che spaziano tra ritmi disco, remix e mashup, una di quelle più famose è quella del cantante e attore italiano naturalizzato francese Yves Montand. L’artista, infatti, ha portato una versione francese del brano simbolo della Resistenza agli Eurovision del 1964.

Su Spotify, le ricerche suggeriscono Moderna City Ramblers, maschera della banda de La Casa di Carta o Manu Pilas. Su YouTube, sono Hardwell & Maddix, con il loro remix techno, ad aver fatto il boom di visualizzazioni con Bella Ciao.

Il musicista statunitense di origini ebraiche, Marc Ribot, poi, ha realizzato l’album Songs of Resistance 1942 – 2018, distribuito appunto nel 2018. Tra le canzoni che hanno fatto la storia, ha inserito anche Bella Ciao, interpretata dall’amico Tom Waits. La coppia ha dato vita a una versione estremamente federe al canto partigiano originale.

Bella Ciao, infine, viene cantata nelle piazze anche dagli attivisti che lottano contro il cambiamento climatico.

Le migliori versioni di Bella Ciao nella musica

Tra le migliori versioni di Bella Ciao prodotte nel corso degli anni, possono essere ricordate (oltre alle già citate) quella di Milva del 1965. In questa circostanza, la cantante presentò a Canzonissima la versione che riteneva erroneamente antecedente al canto della Resistenza, che esordiva con: “Alla mattina appena alzata / in risaia mi tocca andar”.

Bella Ciao è stata cantata anche da Giorgio Gaber, che ha trasformato il canto partigiano in una miscela di sonorità folk e rock; da Maria Frantuori e Mercedes Sosa, che si ribellarono rispettivamente alla dittatura dei Colonnelli in Grecia e al regime militare in Argentina; dai Grup Yorum, band di origine turca che ha prodotto una della più toccanti interpretazioni del brano; da Goran Bregovic, musicista bosniaco che canta la canzone regolarmente durante i concerti.

Serra ci "obbliga" a cantare "Bella Ciao": "Altrimenti perdi il piacere della libertà". Daniele Dell'Orco il 23 Aprile 2022 su Il Giornale.

In un'intervista a La Stampa il compagno Serra parla della percezione divisiva del 25 aprile e degli intellettuali progressisti confusi.

Per i comunisti la loro ideologia è come Roma: il punto d'arrivo finale di ogni strada. Si sorprendono che il 25 aprile non possa ancora essere considerato un appuntamento unitario e condiviso da tutti, perché non si rendono conto del fatto che il suo significato sono i primi a distorcerlo completamente in favore del "comunismo 2.0", quello iperprogressista "woke" e nemico dei popoli e delle identità.

Così, si dice incredulo Michele Serra "perché una parte consistente di italiani la considera una festa comunista "facendo un grave torto alla verità storica. È la festa dell'antifascismo, che fu un fronte ampio, cattolici, comunisti, socialisti, repubblicani, liberali, azionisti: da quell'alleanza sarebbe poi nata la nostra Costituzione", dice in un'intervista su La Stampa.

Già, la verità storica. Quella dell'eccidio di Porzus, ad esempio. Quella fatta di una convivenza tra le varie sigle della Resistenza mai davvero rinsaldata e mai davvero volta alla coesistenza proprio per via dell'intolleranza dei comunisti e proprio per via del fatto che, fosse stato per i comunisti, il 25 aprile non sarebbe mai stato il trionfo della libertà sulla dittatura bensì la sostituzione di una dittatura con un'altra.

E poi con che verve un comunista di ferro come Serra, iscritto al PCI già nel 1974, parla di festa unitaria quando i primi a dividersi circa il suo senso alla luce della guerra in Ucraina sono proprio i partigiani. O perlomeno i loro eredi.

Il dibattito scatenato dal conflitto all'interno del centrosinistra secondo Serra è "pessimo" e "una caciara irrispettosa e ingombrante, gente con l'elmetto che accusa chi è senza elmetto di essere amico di Putin, tartufi vecchi e giovani che leggono questa guerra come una manovra subdola dell'imperialismo americano". Insomma, predicando l'unità di tutti, Serra si stupisce del fatto che la sinistra faccia quello che ha sempre e solo saputo fare: dividersi.

Poi, il capolavoro. Dice Serra: "L'effetto, quasi grottesco, è che una guerra nazionalista fatta nel nome dei valori della Tradizione, che avrebbe dovuto mettere in difficoltà soprattutto la destra sovranista, ha lacerato la sinistra. Ho un forte sospetto. Che nella sinistra italiana ci sia una forte dose di scemenza. Con noi sedicenti intellettuali al primo posto in graduatoria".

Ecco, finalmente un mea culpa. Dal quale ripartire non pensionandoli come sarebbe naturale, bensì ascoltandoli con ancor più fede.

In sostanza, Serra fa la radiografia ai motivi per cui la sinistra non funziona, proponendo come soluzione "più sinistra".

La spaccatura interna al loro mondo nasce da "un forsennato ideologismo" con due tribù ideologiche, il fondamentalismo occidentale da una parte, il disprezzo per la democrazia decadente e corrotta dall'altro, che si contendono la leadership. Ma la colpa di chi è? Della destra. E della guerra come concetto di destra poiché "è la smentita più evidente al concetto di Progresso. La guerra è antica: è il primo dei Valori Tradizionali. E il concetto della Nazione è solo un'evoluzione del concetto di tribù".

Quindi, la guerra è di destra, ma quella partigiana dobbiamo esaltarla tutti. La sinistra non si mette più d'accordo nemmeno sul 25 aprile, e la nostra risposta dovrebbe essere fidarsi sempre di più della sinistra. Gli intellettuali progressisti non ne azzeccano una, ma le loro ricette devono continuare ad essere stelle polari. Sembra un po' confusionario, ma niente paura, perché a fare da collante a questa apologia della contraddizione, c'è l'immancabile Bella Ciao, il preferito di Netflix, lo spartito che i prof. di musica vogliono insegnare agli alunni, il canto che le istituzioni locali vogliono trasformare in un gioco per bambini. E che Michele Serra, ovviamente, adora: "Io la canto volentieri. Chi non la canta, non sa che cosa perde. Perde il piacere della libertà".

Quella che avrebbero voluto portarci i suoi cantori, trasformandoci nella Repubblica Socialista Sovietica d'Italia.

La polemica. Bella Ciao “divisiva”, il sindaco di Medola la vieta agli studenti per il 25 Aprile: “Meglio Va pensiero”. Redazione su Il Riformista il 19 Aprile 2022. 

Bella Ciao, la canzone simbolo della Resistenza al nazi-fascismo dei partigiani, è “troppo divisiva” per essere cantata il 25 aprile. È la posizione espressa da Mauro Morandi, sindaco di centrodestra di Medole in provincia di Mantova, che ha bocciato la proposta dell’Istituto comprensivo della cittadina di interpretare il canto popolare della Liberazione assiemo all’Inno di Mameli.

A ricostruire la vicenda è la Gazzetta di Mantova, che spiega come l’amministrazione comunale avesse chiesto tempo fa alla scuola di partecipare alle celebrazioni della Festa della Liberazione. Il problema nasce quando il Comune ottiene il programma delle esibizioni scoprendo così che gli studenti delle medie avrebbero suonato l’Inno di Mameli e appunto Bella Ciao, che in realtà gli studenti avevano già imparato nei mesi scorsi per il 21 marzo, Giornata dell’Ambiente. Il canto della Resistenza è infatti la stessa melodia utilizzata dal movimento ambientalista Sing for the climate.

Il sindaco quindi decide di stravolgere tutto, chiedendo di suonare il “Va pensiero” e l’inno ucraino, come segno di solidarietà col Paese invaso dalle truppe russe. L’effetto paradossale è quello di creare uno scontro con l’Istituto comprensivo, che ritira la partecipazione e annuncia che una festa tra le mura scolastiche il 26 aprile, con tanto di Bella Ciao. 

Sulla quesitone Morandi tiene il punto e non fa passi indietro: “Riteniamo che Bella Ciao sia divisiva, per cui abbiamo avanzato una proposta alternativa. Avevamo invitato la scuola proprio per rendere l’iniziativa il più possibile aperta a tutti. Devo dire che sono piuttosto amareggiato: mai mi sarei aspettato questa polemica”. 

Ma anche l’Istituto comprensivo da parte sua non ci sta e attacca le scelte dell’amministrazione comunale: “C’era stato chiesto di organizzare l’iniziativa del 25 Aprile – affermano dalla scuola – proprio per coinvolgere gli alunni: poi però siamo stati esclusi per non meglio specificati ‘problemi logistici’”.

Polemiche anche politiche, ovviamente, con l’Anpi dell’Alto Mantovano che definisce la decisione di Morandi una “modalità censoria che si va acutizzando” e l’idea del Comune di proporre documenti risorgimentali in occasione della Liberazione “bizzarro salto carpiato veramente troppo indecente”.

Uscita evento nelle sale: il documentario sulle origini di "Bella Ciao". Di MARIO SESTI su Il Quotidiano del Sud l'11 aprile 2022.

Può risuonare da una moschea turca o a Wall Street, tra le macerie di Mosul o tra le brigate curde che hanno liberato Kobane. Ha una versione da “risaia” e una da “montagna”, una con voce narrante femminile ed una maschile. Ha miliardi di visualizzazione su YouTube, milioni di spettatori in streaming l’hanno ascoltata in La casa di carta, non c’è lingua in cui non sia stata cantata, dalla Bolivia alla Bielorussia.

È “Bella Ciao”, un canto che forse, oltre alle analisi e ricostruzioni delle numerose testimonianze di storici, musicisti, giornalisti, leader di fazioni oppresse, in questo documentario di Giulia Giapponesi (Bella Ciao – Per la libertà è una produzione Palomar con Rai Documentari e Luce CineCittà, distribuito da I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection nelle sale l’11, 12 e 13 aprile 2022), dovrebbe essere oggetto dell’esame di un neuroscienziato per capire il segreto del prodigio che trasforma quella manciata di note, incalzate da un ritmo eccitato e disperato, nell’involucro universale del bisogno dell’espressione collettiva di “benessere, guarigione e dolore” che le rendono l’algoritmo planetario della resistenza: in qualsiasi paese, a qualsiasi meridiano, in qualsiasi lingua, sotto qualsiasi oppressore, in qualsiasi montagna sotto la cui coltre riposi qualcuno morto per la libertà, i cui resti nutrono ora luce e colore di un bel fior. Ma questa canzone, che ancora negli anni 60, seminava scandalo al Festival di Spoleto, fu mai davvero cantata durante la lotta di liberazione dall’occupazione nazista e contro il regime fascista?

È l’aspetto più intrigante del documentario che racconta come grandi narratori di quella stagione, come Bocca e Panza, confessino di non averla mai sentita nelle valli dei partigiani (i documenti scritti sono, del resto, radi e ancora poco battuti). Un mistero che allarga il prodigio, ancor più affascinante se pensiamo, come si scopre grazie al documentario, che il celebre riff ha origini klezmer e forse, addirittura, franco normanne, risalenti al tardo medioevo.

Da inno dei partigiani a canzone di lotta delle nuove generazioni di tutto il mondo, hit dei più famosi artisti internazionali e colonna sonora della serie Netflix La casa di carta. A quasi un secolo dalla sua nascita, la forza di “Bella Ciao” non si arresta. Il film racconta i misteri, la genesi e la storia della canzone della Resistenza, che riappare ovunque si combatta contro l’ingiustizia.

Un canto inarrestabile, oggi patrimonio dell’umanità nella lotta per la libertà. Anche se a noi Italiani può sembrare incredibile, oggi una larga parte dei giovani di tutto il mondo conosce “Bella Ciao” solo in quanto colonna sonora della serie spagnola di Netflix La Casa di Carta, che dal 2018 l’ha resa una hit internazionale, oggetto di remix dance e techno e ispirazione per cover di artisti di tutto il mondo. Sotto i video di “Bella Ciao” che si trovano su YouTube, teenager e adulti lasciano ogni giorno commenti in cui dichiarano il loro amore sia per “Bella Ciao” che per la serie TV. A volte, tra questi, si trovano commenti di utenti italiani che lamentano un utilizzo “irrispettoso” del canto dei partigiani, ma anche, al contrario, ringraziamenti a La Casa di Carta per aver reso famosa nel mondo una canzone del nostro Paese.

Ma il suo successo mondiale è davvero merito de La Casa di Carta? L’idea alla base del film nasce dalla necessità di ristabilire il percorso biografico di “Bella Ciao” alla luce del suo essere diventata canzone internazionale. Una necessità che diventa più urgente in questo momento storico di passaggio, dove la Memoria della Seconda Guerra Mondiale – raccontata dalla viva voce di chi ha vissuto l’occupazione nazifascista – lascia il passo alla Storia, intesa come racconto del passato attraverso le fonti documentali.

La biografia di “Bella Ciao” si intreccia dunque alla storia del nostro Paese. Il suo diffondersi inizia durante la guerra, ma soprattutto negli anni del boom economico, quando “Bella Ciao” diviene nota in tutto il mondo grazie ai Festival della Gioventù, raggiungendo quel successo internazionale che oggi tanti attribuiscono erroneamente a Netflix. In questo racconto, accompagnato da materiale d’archivio inedito e da immagini di cronaca dal mondo, la voce delle memorie dei testimoni della Resistenza ancora in vita si confonde con quella degli attivisti che nelle lotte in Cile, Turchia, Iraq e in Kurdistan hanno cantato “Bella Ciao”.

Attraverso vivaci conversazioni con storici (non senza forti contrasti fra loro), musicisti e autori dei nuovi testi della canzone, emerge una grande verità, già espressa da un personaggio del famoso romanzo “Il postino di Neruda”: La poesia non è di chi la scrive, ma di chi gli serve. “Bella Ciao” è triste, è allegra e la sua melodia conquista persone lontanissime tra loro sia geograficamente che per età ed estrazione sociale. Il suo messaggio universale di libertà risiede nella sua semplicità e bellezza, una sorta di lasciapassare che le permette di superare barriere culturali e linguistiche. Con un ritmo serrato, la pluralità delle voci e dei punti di vista del film ci racconta che questa canzone, senza autore e senza patria, è oggi patrimonio di tutti coloro che si sentono oppressi e ci ricorda che il più grande omaggio alla memoria della Resistenza è continuare a lottare per la libertà.

"Imparate Bella Ciao". Se ogni scusa è buona per indottrinare i bimbi. Daniele Dell'Orco il 14 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'insegnante di musica di uno degli istituti locali ha invitato gli alunni a imparare, suonare e girare un video della canzone più amata dalla sinistra. Ogni scusa è buona per indottrinare i più piccoli.

Al di là della ricorrenza del 25 aprile che ogni anno, da sempre, è un'occasione irrinunciabile per intonare canti partigiani, ogni occasione è ormai buona per rilanciare Bella Ciao come melodia nazional-popolare.

Dalla serie tv di culto spagnola La Casa de Papel (che l'ha scelta come sigla), ai video celebrativi girati dai soldati ucraini impegnati nella guerra contro la Russia, fino a quanti, meno di un anno fa, volevano affiancarla (se non addirittura sostituirla) all'Inno di Mameli.

L'ultima iniziativa è quella promossa da un'insegnante di musica delle scuole medie di Faenza (Ravenna) che ha pensato di assegnarla come compito per le vacanze di Pasqua per i suoi alunni. Non solo impararla a memoria e suonarla, ma anche girare un video della performance da bravi piccoli partigiani.

Una trovata che non è piaciuta ad alcuni genitori che l'hanno segnalata al consigliere comunale ex Lega, ora al Misto, Gabriele Padovani, che si è scagliato contro la scelta "eccessivamente politicizzata" e promettendo una interrogazione in Comune e addirittura un approdo della vicenda in Parlamento: "Alcuni miei ex compagni di partito della Lega non faranno passare la questione sotto silenzio", dice al Corriere Romagna.

Secondo Padovani Bella Ciao "è una canzone contrassegnata politicamente e oltretutto non fu mai nemmeno cantata dai partigiani. Per quale ragione la si propone a ragazzi di 12 anni? Forse la docente non aveva a disposizione una valida alternativa?". E l'alternativa la propone lui stesso, cioè il Va' Pensiero di Giuseppe Verdi tratto dal "Nabucco". Un vecchio pallino della tradizione musicale leghista, ma pure un brano che potrebbe incarnare meglio la tragedia che sta vivendo il popolo ucraino, visto il suo significato di doloroso compianto della “Patria sì bella e perduta” invasa dal sacrilego re di Babilonia. Il coro verdiano, ad ogni modo, oltre ad essere legato all'attualità dal punto di vista simbolico, rappresenta per Padovani una parte importante del patrimonio collettivo della cultura italiana, a differenza di Bella Ciao che, per varie ragioni, resta divisivo.

Non è la prima volta, ovviamente, che Bella Ciao viene utilizzata come somministrazione pedagogica per i più giovani. Dodici mesi fa esatti, infatti, fece discutere un'altra iniziativa, promossa stavolta ad Usmate Velate (MB), dove il Comune sostenne l'idea della compagnia teatrale Piccoli Idilli di ideare un "kit del nuovo partigiano" da destinare ai ragazzi dai 7 ai 12 anni (sacchetti con dentro il testo e lo spartito di Bella Ciao, la bandiera tricolore, una nota descrittiva sul 25 aprile e sulla Resistenza, e un "tesserino del nuovo partigiano" sul quale apporre la foto del bambino e la scelta del suo "nome di battaglia").

Ecco appunto. Ogni anno la stessa storia.

Polacchi e italiani eroi dimenticati. Aldo Cazzullo su Corriere della Sera il 5 maggio 2022.

Caro Aldo, in occasione del 25 aprile nessuno ha ricordato il Secondo Corpo d’Armata Polacco che combatté sul fronte italiano (VIII Armata Britannica) dalla presa di Montecassino alla liberazione di Bologna. Avendo 90 anni sono stato testimone di alcuni episodi. Franco Federici Il 25 aprile andrebbe dato il giusto riconoscimento ai reparti dell’Esercito che continuarono la guerra contro i nazifascisti. Vorrei ricordare i reparti che combatterono a Cassino nella battaglia di Montelungo. Ricordo ancora i paracadutisti dello Squadrone F comandato da mio padre C. Francesco Gay. Luigi Gay 

Cari lettori, Giusto ricordare l’eroismo dei soldati polacchi che presero Montecassino e, com’è scritto sulla lapide, diedero «l’anima a Dio, il corpo all’Italia, il cuore alla Polonia»; la Polonia è citata nell’inno di Mameli, e l’Italia nell’inno polacco (credo sia l’unico incrocio del genere al mondo, motivato dalla comune ostilità all’impero austroungarico; e dire che è stato un Papa polacco a beatificare l’ultimo imperatore, Carlo); e oggi la Polonia è rappresentata in Italia dall’ambasciatrice Anna Maria Anders, figlia del generale Władysław Anders, che comandava le truppe polacche nel nostro Paese. Giusto anche ricordare la battaglia di Montelungo, e più in generale i militari italiani che dopo l’8 settembre combatterono con gli Alleati contro i nazisti invasori. Andò così. Gli inglesi hanno fatto sapere che possono fornire non più di 5 mila razioni giornaliere; e 5 mila (all’inizio) saranno i soldati, divisi in tre battaglioni di fanteria, in due gruppi di artiglieria e in un battaglione controcarro. Vengono scelti i reparti che dopo l’armistizio hanno tenuto, e hanno affrontato i tedeschi. Tocca al 67° della Legnano, che assieme al 68° si è ben comportato. Il caso vuole che la divisione porti il nome della leggendaria battaglia contro l’Impero germanico del Barbarossa. C’è voglia di combattere: il colonnello Bonfigli, incaricato di comporre due battaglioni, è assillato dalle richieste. Il terzo battaglione è fatto da bersaglieri. Il reggimento di artiglieria viene tratto dalla divisione Mantova: è l’11° giunto in Puglia dalla Calabria a ranghi completi di uomini e pezzi, dopo aver contrastato più volte i tedeschi che hanno avuto l’ordine di far prigionieri i soldati e di requisire i cannoni. Il battaglione controcarro è il V della Piceno, che ha spesso aperto il fuoco contro la Wehrmacht. Si sono presentati anche nove ragazzi della classe 1925, che hanno appena compiuto diciotto anni: sono allievi dell’Accademia navale di Venezia, arrivati con la motonave Saturnia. Una foto — pubblicata in un bel libro di Alfio Caruso — ritrae sette di loro in borghese, sorridenti, fiduciosi: sono i volontari Bornaghi, Mori, Luraschi, Sibilia, Massa, Furlani, Confalonieri; l’immagine della nuova Italia. 

I grandi della Cultura che dissero no alla Resistenza. Emanuele Beluffi su Culturaidentità il 24 Aprile 2022.

La chiamano guerra di liberazione, per noi (e non solo per noi, c’è una ricca messe di documentazione e studi storici a dimostrarlo, basta leggere senza il paraocchi ideologico) è stata una guerra civile fra italiani. Se dici che è divisiva, i “buoni”, i “migliori” (Il Migliore! Togliatti!) ti danno di ignorante e ai dibattiti t’infilano subito la mordacchia, quando invece paradosso per paradosso quest’anno la stessa ANPI è…divisa sulla guerra in Ucraina, c’è chi si è spinto a proporre di infilarci pure il vessillo della NATO, che però nasce non il 25 aprile 1945 ma il 4 aprile 1949: del resto, lo stesso Mattarella ha paragonato la resistenza degli Ucraini alla resistenza degli italiani contro i “nazifascisti”. E mentre la cultura e lo sport dovrebbero unire anzichè dividere, in questi giorni assistiamo allo spettacolo esattamente contrario, con la messa al bando di artisti e sportivi colpevoli di essere russi. Ultima notizia in ordine temporale, alla Biennale di Venezia inaugurata l’altro giorno il Padiglione Russia era chiuso: via!, rauss! E’ l’intolleranza dei “buoni”, che ieri come oggi continua a lasciare lettera morta il monito di più di vent’anni fa di Luciano Violante Presidente della Camera sulla necessità di una pacificazione nazionale, intolleranza che in alcuni casi si trova in imbarazzo quando scopre che i “buoni” magari prima stavano dall’altra parte.

Artisti, attori, musicisti, scrittori e giornalisti. Tra gli 800mila volontari di Salò c’erano anche loro: la Repubblica Sociale aveva visto l’adesione di tanti soggetti poi diventati volti noti dello spettacolo, della cultura e del giornalismo, compresi quegli insospettabili vip che forse molti non si aspettano di trovare: ricordiamo tutti il gran chiasso del Dario Fo paracadutista GNR- Guardia Nazionale Repubblicana, tanto per fare un esempio. Di Giorgio Albertazzi (sottotenente della Legione Tagliamento GNR) magari tutti sanno e magari pure di Ugo Tognazzi (Brigata Nera di Cremona), ma forse ritrovare Wanda Osiris e Giovanni Spadolini nella RSI può far alzare il sopracciglio all’ingenuo. Saranno stati tutti dei coglioni gli artisti più amati dagli italiani (anche dopo) che aderirono alla RSI? O non sarà invece coglioneria la vulgata per cui comunisti uguale cultura mentre fascisti uguale pescivendoli? Ci è voluta, ad esempio, la mostra Post Zang Tumb Tuuum di Germano Celant in collaborazione con l’Istituto Luce – Cinecittà (cioè la casa del cinema fondata da Mussolini, tanto per dire) alla Fondazione Prada (quindi non la mostra di manifesti in un ristorante di Predappio) per far smuovere la pigrizia intellettuale di chi ancora oggi pensa che a livello culturale se non c’è la sinistra c’è il diluvio. Marcello Mastroianni (attore nella Rsi nei ranghi dell’Isituto Geografico militare poi con i tedeschi nell’Organizzazione Todt), Valentina Cortese (Servizio Ausiliario Femminile), Raimondo Vianello (Bersagliere volontario RSI), Luciano Salce (Brigate Nere), Enrico Maria Salerno (allievo ufficiale della scuola GNR di Varese), Ernesto Calindri e Gino Bartali (GNR), Walter Chiari e Ugo Pratt (X Mas), tutti dei rinnegati del presidio democratico? Molti poi hanno fatto il salto della quaglia, vedi oltre al già citato Fo il regista Marco Ferreri (GNR) per esempio, altri sono invece stati allontanati dall’egemonia culturale della sinistra post guerra civile (altro che liberazione) pagandone le conseguenze. E meno male che la cultura dovrebbe unire e non dividere.

Ecco gli altri nomi che dal palco di un teatro o dalla macchina per scrivere o nei templi dello sport hanno aderito o manifestato simpatia per la RSI: Tiberio Mitri, pugile, milizia ferroviaria. Carlo Mazzantini, scrittore, Camice Nere. Piero Vivarelli, regista cinematografico, Xma MAS. Roberto Vivarelli, storico, Brigate Nere. Michele Bonaglia, pugile, fucilato da partigiani 1944. Artisti che lavorarono alla Cinecittà di Venezia: Elena Zareschi, attrice. Mino Doro, attore. Silvio Bagolini, attore. Cesco Baseggio, attore. Roberto Villa ,attore. Lilla Brignone, attrice. Memo Benassi, attore. Emma Gramatica, attrice. Toti dal Monte, soprano lirica. Piero Tellini, sceneggiatore. Carlo Nebiolo, operatore. Fernando Cerchio, regista cinematografico. Carlo Borghesio, regista cinematografico. Giorgio Ferroni, regista. Il tenore Tito Schipa fu arrestato dalla polizia partigiana per l’ abitudine, ai tempi della RSI di presentare così una sua esibizione: Vi canterò ora “Torna a Surriento”….e ci torneremo”. il 25 febbraio del 1945 nei camerini del Teatro della Pergola venne aggredito Antonio De Curtis (in arte Totò), colpevole di calunnie e ironie sui partigiani ai quali durante il suo spettacolo, si era lasciato andare un “imputato alzatevi”.

Giampiero Mughini per Dagospia il 25 aprile 2022.

Caro Dago, stavo ascoltando alla tv le parole dette in occasione delle celebrazioni del 25 aprile, ossia della fine della guerra civile italiana e della restituzione al nostro popolo delle libertà civili e democratiche. Ascolto, e allibisco. Sembrerebbe da quelle parole e dall’ossessiva retorica “resistenziale” di cui si fa forte l’Anpi – ossia l’associazione di cui fanno parte quelli che non erano ancora nati mentre gli italiani si ammazzavano tra loro –che la Liberazione sia avvenuta per merito della Resistenza, e uso non a caso la maiuscola perché le due parole eccome se lo strameritano.

Sono due parole sacre, solo che tra l’una (la Resistenza) e l’altra (la Liberazione) non c’è alcun nesso causale, il che ovviamente nulla toglie all’immenso valore testimoniale della Resistenza e dei suoi morti. 

Per evitare equivoci, ti premetto che lo studio e la conoscenza dei fatti, degli atti e dei protagonisti della Resistenza italiana è stato uno dei nervi centrali della mia formazione morale. Per quel che è di Roma sono stato un amico al massimo grado di Antonello Trombadori, il vicecapo dei gap romani, quello che era a Regina Coeli la mattina in cui i nazi raccattarono le vittime da destinare al macello del Fosse Ardeatine.

Ho conosciuto, profondamente conosciuto, Rosario Bentivegna, il partigiano comunista che accese la miccia della bomba di via Rasella. Ho conosciuto e  ammirato Franco Ferri, il cognato di Maurizio e Marcella Ferrara, di cui i libri dicono che ci fosse anche lui a via Rasella, e invece non c’era perché quel pomeriggio era impegnato in un’altra azione. Ho conosciuto e voluto bene a Luigi Pintor, che venne preso dai nazi, portato a via Tasso e quei bastardi gli ballarono con i piedi sul corpo. Ho bene in mente tutti gli indirizzi dei martiri della Resistenza romana, e sempre mi fermo innanzi a quelle abitazioni su cui c’è una targa con un nome e una data.

Detto questo la Resistenza romana, a cominciare dall’agguato di via Rasella, non ha cambiato di un’ora l’esito della battaglia per la conquista di Roma. Nemmeno di un’ora. 

Quella battaglia la vinsero i soldati americani, inglesi, neozelandesi, quelli della Brigata ebraica (più volte bersagliati da insulti durante i cortei antifascisti del terzo millennio, di quando del fascismo non c’è più l’ombra), marocchini (ivi compreso lo stupro della “Ciociara”).

Quelli che erano sbarcati prima in Sicilia e poi ad Anzio e che ci misero dei mesi a conquistare Monte Cassino, dove arrivarono per primi i soldati polacchi e scoppiarono a piangere. Mussolini è andato giù il 25 luglio non per una qualche mossa audace dei gappisti comunisti, ma perché un bombardamento alleato aveva fatto morti a centinaia nel Quartiere San Lorenzo. E’ semplice, ma è così.

La guerra contro il nazifascismo non l’hanno vinta né quelli che andarono sulle montagne né quelli che ammazzavano più o meno a caso un tedesco o un repubblichino di passaggio nelle grandi città. 

La guerra l’hanno vinta i milioni di uomini che gli Alleati mobilitarono pur di piantare gli stivali sulle spiagge della Normandia e liberare palmo a palmo l’Europa almeno fin dove erano arrivati i russi, i quali non “liberarono” nulla di nulla ma solo sostituirono un regime dittatoriale con un altro.

Quella partita spaventevole la giocarono i carri armati e i bombardieri degli Alleati, non i gap dell’eroico Giovanni Pesce che agirono prima a Torino e poi a Milano. Quella partita la giocò e la vinse il soldato Ryan, a prendere il titolo del famoso film di Steven Spielberg il cui protagonista è uno che negli Usa faceva il professore. Gli americani di soldati Ryan ne mandarono a milioni contro le mitragliatrici e i cannoni manovrati dal più agguerrito esercito al mondo, quello tedesco.

Quella partita la vinse l’America, per dire del Paese contro il quale il mio amico Massimo Fini scaraventa  carrettate di sterco tutte le volte che può. Ossia un giorno sì e un giorno no. E’ semplice, semplicissimo, e non c’è null’altro da aggiungere a meno di non volere usare parole che gonfiano le gote ma che insozzano la verità delle tragedie del Novecento.

 Da ansa.it il 25 aprile 2022.

"La decisione della popolazione di Napoli, della Campania e di tante altre città del Sud, di insorgere contro l'ex alleato, trasformatosi in barbaro occupante, fu una reazione coraggiosa e umana, contro la negazione stessa dei principi dell'umanità. 

E oggi c'è tra gli storici concordia nell'assegnare il titolo di resistente a tutti coloro che, con le armi o senza, mettendo in gioco la propria vita, si oppongono a una invasione straniera, frutto dell'arbitrio e contraria al diritto, oltre che al senso stesso della dignità".

Lo ha detto il presidente Sergio Mattarella parlando ad Acerra in occasione del 25 aprile. 

"Nelle prime ore del 24 febbraio siamo stati tutti raggiunti dalla notizia che le Forze armate russe avevano invaso l'Ucraina, entrando nel suo territorio. Come tutti, quel giorno, ho avvertito un pesante senso di allarme, di tristezza, di indignazione. A questi sentimenti si è subito affiancato il pensiero agli ucraini svegliati dalle bombe. E, pensando a loro, mi sono venute in mente queste parole: "Questa mattina mi sono svegliato e ho trovato l'invasor". Sappiamo tutti da dove sono tratte queste parole. Sono le prime di Bella ciao", ha affermato il capo dello Stato.

"Questo tornare indietro della storia rappresenta un pericolo non soltanto per l'Ucraina ma per tutti gli europei. Avvertiamo l'esigenza di fermare subito, con determinazione, questa deriva di guerra prima che possa ulteriormente disarticolare la convivenza internazionale, prima che possa tragicamente estendersi. Questo è il percorso per la pace, per ripristinarla; perché possa tornare ad essere il cardine della vita d'Europa. Per questo diciamo convintamente: viva la libertà, ovunque. Particolarmente ove sia minacciata o conculcata", lo ha detto il presidente parlando ad Acerra.

Messaggio del premier Draghi: "Il 25 aprile è il giorno della gratitudine verso chi ha lottato per la pace e per la libertà dell'Italia dalla dittatura del nazifascismo. La generosità, il coraggio, il patriottismo dei partigiani e di tutta la Resistenza sono valori vivi, forti, attuali. Oggi celebriamo la memoria della lotta e degli ideali della Resistenza su cui la nostra pace è stata costruita. A tutti gli italiani, buona festa della Liberazione".

"La festa del 25 aprile come sempre parla anche al nostro presente, che parla di guerra, dove una potenza aggredisce e sanguinosamente distrugge un paese sovrano nel cuore dell'Europa. Ma un presente segnato ancora anche dalla pandemia, con i suoi costi umani e sociali. Il 25 aprile ci ricorda che resistere è necessario, è un dovere. Ieri come oggi. Ovunque la giustizia, la dignità, la vita stessa vengono calpestate, umiliate, distrutte". Sono le parole della lettera inviata da Liliana Segre, senatrice a vita, e lette questa mattina a Monte Sole di Marzabotto. 

Luca Josi per Dagospia il 25 aprile 2022.

L’autodeterminazione dei popoli è un diritto. E probabilmente include anche quello al suicidio.

Oggi, in questo clima triste, riaffiora la dottrina “responsabile”, quella del buon padre di famiglia – buono per autocertificazione – che di fronte a uno stupro o una situazione di violenza di cui si dichiara involontario testimone decide di mostrarsi realista e s’interroga sul “che fare?”:

1.Se intervengo, il bruto, non sazio dello strazio inflitto alla vittima potrebbe irritarsi e rivalersi su di me.

2.Se non intervengo, la vittima soccomberà, ma almeno qualcuno, io e la mia famiglia, potrà continuare a vivere e potrà farlo in pace (ovviamente la sofferta decisione sarà accompagnata da abbondanti prolassi di solidarietà, orale, scritta, o modernamente digitale, ai parenti e alla memoria in generale). 

È evidente che l’opzione “1” non esclude la “2” in quanto il bruto, in ragione della sua natura, sfogatosi una prima volta si darà da fare una seconda, una terza e così via. 

Si dirà: ma di quanti guai in giro per il mondo non ci siamo occupati? Quante volte abbiamo girato la testa e coperto le orecchie? Proprio queste urla dobbiamo raccogliere? Con il rischio di avere anche a che fare con un aggressore nuclearmente super dotato. 

Si potrebbe rispondere che proprio in ragione di quest’ultima preoccupazione, nucleare, la storia regala un precedente. Basta tornare ai vituperati anni ’80, quelli in cui l’Europa aveva la tempia del proprio futuro schiacciata sotto il tiro di una vera e propria roulette russa. Da est ci spiegarono: vi abbiamo puntato i nostri missili atomici, contro; se voi rispondete armandovi, si scatenerà la guerra.

Come fini? L’Italia, Craxi, i democristiani - quella “degenerata” classe politica - approvò l’installazione dei Pershing e dei Cruise sul nostro territorio aiutando l’occidente a piazzare gli “Euromissili”. 

Per converso una minoritaria parte del Paese li ringraziò scendendo in piazza - piazza Venezia - con colorate “marce della Pace arcobaleno” nelle quali, in modo pacifico, si bruciavano i manichini delle loro sagome (diversi di Craxi, qualcuno di Cossiga e alcuni, irrinunciabili, di Andreotti); il rogo, si sa, purifica, e soprattutto estingue le tracce delle impronte dei finanziatori di quelle manifestazioni e della loro logistica (l’autobus, il panino, le bandiere e gli striscioni costano e il lungimirante compagno Boris Ponamariov, in quota PCUS, contribuiva a versare il suo contributo; ovviamente in dollari; i rubli, già allora, non li voleva nessuno; si tratta della dottrina Munzenberg, inventore degli “ismi” umanitari, veri miasmi del populismo, che con l’artificio della solidarietà rifilavano, e rifilano, la sòla alle democrazie; ovvero facendo di cause buone – ambientali e sociali – il cavallo di Troia per scardinare il mondo avversario).

Accadde che il deplorato riarmo anziché produrre la corsa all’apocalisse generò la corsa al negoziato e l’Unione Sovietica, pochi anni dopo, cominciò a franare. La vicenda verrà ben raccontata dai diari di Shevardnadze: non potendo più reggere la produzione di SS-20 e 22, al posto di burro e pane – provate voi a mangiare una testata atomica, o anche semplicemente convenzionale, e poi mi direte – l’impero dell’est collassò. 

Così quella società rovinò rappresentando un mondo che era stato capace di mandare uomini nello spazio, ma poche salsicce sulla terra e il cui popolo amava vedere, anche a Mosca, la serie “Dallas” mentre a Washington nessuno si sognava di guardare “Togliattigrad” (unico elemento rassicurante è il Made in Italy; se per l’ideologo di Putin, Aleksandr Dugin, l’Occidente è l’anticristo – e non a caso “Il diavolo veste Prada” – il suo leader maximo indossa platealmente piumoni Loro Piana confermando, nella titanica e secolare lotta tra il bene il male, il saldo protagonismo della moda italiana).

Quindi se vogliamo la nostra libertà, la conservazione dei diritti che abbiamo conquistato, lo stile di vita in cui siamo cresciuti, dobbiamo smettere di ascoltare i marciatori della pace, alternativamente ambientalisti (un tanto al kilowattora), che non vogliono il rigassificatore vicino a loro ma preferiscono comprare energia nucleare oltre il giardino, o che urlano la loro indignazione verso la corruzione del costume occidentale, mentre aprono le porte di casa a tecnologie, infrastrutture e capitali, che quei diritti se li mangiano a colazione e i loro concittadini li concimano in testa, forti dei soldi con cui fanno cassa nel nostro occidente.

E tutto questo, manco a dirlo, per buttare nel water sessant’anni di retoriche e tante lacrime sull’ignominia degli stermini nazisti (su quelli comunisti, purtroppo, neanche quelle).

Confermando che un minuto di aiuti sul campo vale più di una vita di commemorazioni a posteriori e che si può essere solidali nella memoria storica, ma claudicanti nella cronaca (se avessimo sommato i fascisti, reali, agli antifascisti, postumi, con il numero di arruolati, per esempio, avremmo vinto la seconda guerra mondiale a mani basse).  

Al mondo russo che dice che sono entrati in Ucraina, a casa d’altri, distruggendo intere città, massacrando e ammazzando migliaia di cittadini, deportandone ancor più e tutto questo per il loro bene si risponde banalmente: “ma se gli volevate male, cosa gli facevate?”.

E a coloro che, interdetti e pensosi, vi inviteranno ad approfondire e a non generalizzare, rispondete che a un aggredito, inerme, che vi chiede aiuto per difendersi non si offre un cerotto o una preghiera, ma uno scudo e un’arma. Poi deciderà lui se fare il gandhiano; è sempre comodo farlo con la vita degli altri, ma provate a farlo con voi stessi e con la vita dei vostri figli. 

PS: oggi, 25 aprile, c’è notizia che imprese marchigiane avrebbero aggirato l’embargo verso la Russia per rifornire il prezioso mercato e non far morire le loro aziende. Ora: la data è, pacificamente, inopportuna, ma le calzature non sono armi – possono essere sì nocive per eccesso di sudorazione, ma faticherei a equipararle ad armi chimiche e ancor più balistiche (a parte che per alcuni tacchi) – e in realtà non si avvantaggia l’infida nomenklatura oligarca, bensì se ne alleggerisce il portafoglio.

Avrebbero potuto, semplicemente, rivenderla come una subdola operazione di svuotamento finanziario del fronte occupante: “Potevamo lasciarli a piedi, scalzi. Hanno bisogno di noi e con il pagamento delle nostre suole contribuiremo a crescere il nostro PIL per poter finanziare la resistenza Ucraina e il mondo, un po’, più libero”. Non sarebbe stata la nostra “Linea Maginot” ma una dignitosa e scaltra “Linea mocassino”, sì.

25 Aprile: Mattarella depone una corona all'Altare della Patria. Da ansa.it il 25 aprile 2022.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha reso omaggio al Milite Ignoto all'altare della Patria in occasione del 77/o anniversario della Liberazione. 

Alla cerimonia hanno partecipato la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, il vice-presidente della Camera, Ettore Rosato, il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato. 

Presenti anche il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Il capo dello Stato ha deposto una corona d'alloro e poi osservato un minuto di raccoglimento. Mattarella è atteso stamani ad Acerra.  

L'Italia torna in piazza oggi per il 77/o anniversario della Liberazione, dopo due anni di celebrazioni condizionate dal Covid. Questa volta si attendono presenze massicce in tante città, ma c'è l'ombra della guerra in Ucraina a dividere gli animi. 

   "Basta guerre. Contro Putin e contro la Nato": questo striscione di Rifondazione comunista, insieme ad un altro in cui è rappresenta la morte con la falce ed un mantello con la bandiera americana, è presente a largo Bompiani, a Roma, dove partirà a breve il corteo dell'Anpi per il 25 aprile. "Non condivido queste bandiere, sono inopportune, ce ne occuperemo. Siamo grati agli Alleati ed alle migliaia di giovani statunitensi morti per la Liberazione dell'Italia", commenta il presidente di Anpi Roma e Lazio, Fabrizio De Sanctis. 

   A Milano ci sarà la tradizionale manifestazione nazionale dell'Anpi ed il presidente Gianfranco Pagliarulo - tacciato di posizioni filo-russe e critico sull'invio di armi a Kiev - ha ribadito la "condanna senza se e senza ma dell'invasione da parte dell'esercito di Putin ed il riconoscimento della legittima resistenza ucraina". 

   A Roma, però, le associazioni partigiane che non aderiscono all'Anpi faranno una propria iniziativa alternativa con lo slogan: 'Celebrare la Liberazione è schierarsi con la resistenza di Kiev'. Forze dell'ordine allertate su tutto il territorio per evitare l'innesco di provocazioni e disordini. A Torino 8 targhe che indicano corso Unione Sovietica sono state danneggiate nella notte, probabile atto dimostrativo contro l'invasione dell'Ucraina alla vigilia del 25 aprile.

    Pagliarulo sarà a Milano per il corteo che dalle 14 partirà da Porta Venezia per raggiungere piazza Duomo. Presenti anche - tra gli altri - il sindaco, Giuseppe Sala, il segretario della Cgil Maurizio Landini e la Brigata Ebraica, che in polemica con l'Anpi aveva proposto di sfilare con le bandiere della Nato.

Dal palco parleranno anche due donne ucraine: Tetyana Bandelyuk, che vive da tempo in Italia, e Iryna Yarmolenko, profuga e consigliere comunale di Bucha, città divenuta simbolo delle uccisioni di civili. "Nessuno - ha detto il presidente dell'Anpi, intervenendo al congresso di Articolo Uno - sa dove porterà la vicenda dell'Ucraina, ma in questo vuoto che riempiremo giorno per giorno è già chiaro il tentativo di delegittimazione dell'Associazione: 'siete putiniani, anzi Pagliarulo è putiniano, sciogliamo l'Anpi'. Noi non rispondiamo. Ma una cosa vorrei che fosse chiara, a nessuna condizione l'Anpi diventerà subalterna, non perderà la sua autonomia da partiti e editori, e tantomeno perderà la sua fisionomia, un'associazione larga, plurale, aperta a tutti gli antifascisti".

   Il presidente ha anche convenuto sul parallelo tra la resistenza ucraina e quella italiana: "Non c'è dubbio. E' evidente che ogni resistenza in caso di guerra diventa resistenza militare. Abbiamo riconosciuto il diritto dei popoli a difendersi dalle invasioni". E ha invitato a mettere da parte le polemiche: "domani i sarà una grandissima e pacifica manifestazione".

    A Genova i 71 componenti del Coro nazionale popolare ucraino 'G. Veryovka', arrivato in Italia a bordo di due autobus da Varsavia, si esibirà in un concerto al Teatro Lirico Carlo Felice.

Vauro: «Mattarella non è più il garante della Costituzione!». E una signora in piazza si arrabbia: «Ma cosa dice?». Corriere Tv il 25 aprile 2022.

Vauro: «Mattarella non è più il garante della Costituzione!». E una signora in piazza si arrabbia: «Ma cosa dice?» Il vignettista in diretta a «L’aria che tira» su La7 - Corriere Tv

L'Aria che Tira, “Sergio Mattarella non è più il garante della Costituzione!". E la piazza contesta Vauro. Il Tempo il 25 aprile 2022.

Si spacca la piazza nel giorno delle celebrazioni del 25 aprile. Vauro Senesi, vignettista, viene intervistato in collegamento con L’Aria che Tira, il talk show di La7 condotto da Myrta Merlino, e attacca duramente il presidente della Repubblica per la sua posizione sulle armi da dare all’Ucraina per difendersi dalla Russia: “È curioso perché il presidente Sergio Mattarella dovrebbe essere il garante della Costituzione, allora io proprio perché ho sentito delle cose diverse affermo che, prendendomene la responsabilità, che per me il presidente Mattarella non è più il garante della Costituzione”.

“No, ma non credo, non dire una cosa del genere Vauro” interviene da studio la Merlino, che scuote il capo così come Gennaro Migliore, presente con lei in studio. All’improvviso il collegamento di Vauro viene interrotto da una signora che lo contesta: “Ma cosa dice, ma state pure a sentire le cretinate”. “Una signora qui forse non ha sentito le ultime dichiarazioni di Mattarella. Lei è d’accordo ad inviare armi?” inizia il siparietto il vignettista, ma la replica della manifestante, che indossa una maglia contro il fascismo, non si fa attendere: “Sì, perché si devono difendere. Quando uno mi aggredisce io mi devo poter difendere, scusa Vauro, però io non sono d’accordo, perdonami, ma se io sono aggredita come faccio a difendermi? Dico ‘ah eccomi, sono pronta, parliamo’. Non è possibile accettare una cosa del genere”. Vauro resta senza parole davanti alla signora che alza le mani ironicamente. La Merlino chiude la contesa mandando la pubblicità: “Discutete in pubblicità con la signora, poi me la presenti, mi piace molto”. 

Anti-americana e nostalgica dell'Urss, Maria Giovanna Maglie fa a pezzi l'Anpi. A Roma striscione anti-Nato per il 25 aprile. Il Tempo il 25 aprile 2022

La retorica dei partigiani "mi dava fastidio quando ero una giovane comunista, figuriamoci adesso...". Maria Giovanna Maglie condanna con durezza le immagini che arrivano dalla manifestazione per il 25 aprile dell'Anpi mandate in onda da l'Aria che tira, il programma di La7. "Io non ho visto una sola bandiera dell'Ucraina nella marcia Perugia-Assisi, non una bandiera degli Stati Uniti" o della Nato, attacca la giornalista, e oggi "vedo una marcia del 25 aprile totalmente contro alla resistenza ucraina, e parliamo di un'associazione", l'Anpi, "che festeggia in continuazione la sua storia di resistenza in armi. Di cosa abbiamo bisogno ancora per capire che stiamo davanti a una evidente contraddizione?". 

Il riferimento della Maglie è naturalmente alle parole del presidente dell'associazione dei partigiani, Gianfranco Pagliarulo, rettificate solo dopo l'intervento del presidente Sergio Mattarella. "L'Anpi è sempre la stessa" dice la giornalista, "ideologica, vecchia e anti-americana. Questa è la sua la sua essenza con grandi nostalgie per il mondo dell'Unione Sovietica", commenta. L'associazione aveva un senso quando i reduci erano in vita, spiega la Maglie, ma oggi è una cosa "tenuta per i capelli che in una situazione di emergenza" come la guerra in Ucraina fa emergere la sue vera essenza. "La retorica mi dava fastidio quando una giovane comunista e mi sembravano strani, questi che più di 30 anni dopo dettavano legge. Figurarsi oggi che sono una vecchia disillusa", dice la giornalista che provoca la reazione della conduttrice Myrta Merlino, che si produce in una difesa d'ufficio dell'Anpi che non è presente con un suo rappresentante in studio. "Nessuno a detto a Pagliarulo di dimettersi e la piazza parla chiaro", taglia corto la Maglie. 

Intanto nelle manifestazioni di Roma e non solo vengono segnalati striscioni e bandiere anti-Nato, con l'Anpi che è stata costretta a dissociarsi. A Milano è comparsa la scritta: "No Draghi, No Nato, No Pd. Guerra agli aggressori". Come volevasi dimostrare. 

25 aprile: a Milano Letta contestato,'servo della Nato'

(ANSA il 25 aprile 2022) -  'Letta servo della Nato", 'Fuori i servizi della Nato dal corteo" sono gli slogan che alcuni manifestanti hanno urlato al segretario del PD Enrico Letta che si trova nello spezzone dei democratici del corteo del 25 aprile a Milano. (ANSA)

25 aprile: Letta, questo corteo è casa nostra

(ANSA il 25 aprile 2022) -  "Questa è casa nostra. La costituzione, l'antifascismo sono casa nostra": è quanto ha detto il segretario del Pd Enrico Letta arrivando al corteo per il 25 aprile a Milano e rispondendo a una domanda sulle critiche al partito ricevute da altri manifestanti con uno sparuto numero che ha chiesto di far uscire il Pd dal corteo.

"Il 25 aprile è la festa dell'unità del Paese contro tutti i fascismi" ed è "là dove dobbiamo tutti essere", ha aggiunto Letta che ha richiamato le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. "C'è voglia di lottare per il popolo ucraino contro l'invasore". Sulla presenza o meno di bandiere Nato in manifestazione ha detto che "le polemiche sono superate. Conta l'unità". 'La resistenza è fondamentale per la nostra storia e per il nostro presente per resistere alla violenza", ha aggiunto

LA MACCHINA DEL TEMPO. Dal Nord Italia venti di libertà. Va in scena uno degli ultimi atti della guerra di liberazione nazionale Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Aprile 2022.

È il 25 aprile 1945. Mentre «La Gazzetta del Mezzogiorno» è nelle mani dei lettori, va in scena uno degli ultimi atti della guerra di liberazione nazionale: il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclama da Milano, alle 8 di mattina, l’insurrezione generale contro il nemico nazista e si assume tutti i poteri civili e militari.

Il giornale – negli anni del conflitto, a causa della mancanza di carta, composto soltanto da due pagine – riporta le ultime notizie ricevute nella notte: il Po è stato attraversato da avanguardie alleate, la guarnigione tedesca che ancora resisteva tra le case di Ferrara è stata completamente accerchiata. Gli Alleati sono riusciti ad avanzare sospingendo il nemico verso nord e verso est: l’VIII Armata britannica guidata dal gen. McCreery ha liberato Ferrara e Bondeno. Le forze della V Armata sono riuscite ad entrare invece a Modena e La Spezia, dove sono state accolte con grande entusiasmo dalla popolazione. Negli ultimi giorni circa 4000 veicoli nemici sono stati distrutti o danneggiati in Val Padana da caccia e bombardieri leggeri della Raf e del 12° Raggruppamento aereo.

Bologna, liberata qualche giorno prima, sta riprendendo il suo «aspetto normale»: è ricominciato l’andirivieni di carretti carichi di masserizie, lo sgombero delle macerie davanti ai negozi e alle case private. La città emiliana è stata dichiarata «off-limits» per le truppe alleate: i pochi che circolano sono giornalisti e fotografi accolti con cordialità dalla popolazione. Nessuno corre dietro alle jeeps chiedendo sigarette e caramelle: «Venti mesi di lotta hanno dato a Bologna un aspetto austero», si racconta sulla «Gazzetta». Il centro non è grandemente danneggiato: i bei palazzi e le due torri sono ancora in piedi, arroventate dal sole primaverile.

Radio Mosca ha dichiarato che oltre la metà di Berlino è nelle mani dei russi: le truppe sovietiche sono decise a prendere Hitler vivo se sarà ancora in città quando la resistenza tedesca verrà a cessare.

Il Führer ha inviato un ultimo messaggio a Mussolini: «La lotta per la nostra stessa esistenza ha raggiunto la sua sua fase più acuta. Impiegando grandi masse e materiali il bolscevismo e il giudaismo si sono impegnati a fondo per riunire sul territorio tedesco le loro forze distruttive al fine di precipitare nel caos il nostro continente». Sono gli ultimi giorni di vita per i due leader responsabili del conflitto più violento che la Storia mondiale abbia mai conosciuto.

Alla fine di quel 25 aprile 1945 il popolo insorto è padrone di Genova e Milano: nei prossimi giorni anche Torino e le ultime città saranno liberate. Le operazioni militari continueranno fino a maggio e inizierà una lunga fase di transizione dalla guerra civile alla pace.

LA MACCHINA DEL TEMPO. Le truppe sovietiche entrano a Berlino. La riflessione amara su italiani e tedeschi. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Aprile 2022.

Le truppe sovietiche sono entrate a Berlino» è il titolo trionfante de «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 24 aprile 1945. L’annuncio è stato dato direttamente dal leader sovietico Stalin: «truppe del primo fronte ucraino, continuando la loro offensiva con l’appoggio di poderose forze d’artiglieria e aeree, hanno fatto irruzione nelle difese tedesche potentemente fortificate». Radio Mosca ha diffuso la notizia che i tedeschi hanno ammassato circa 1000 aerei per la difesa della capitale: in quattro giorni l’Armata rossa, si sostiene dai microfoni sovietici, ne ha abbattuti 411.

Sul fronte italiano, invece, la travolgente marcia degli uomini di Clark ha sconvolto ogni forma di difesa da parte del nemico e ha assunto un ritmo forse mai prima d’ora raggiunto nel corso della Campagna d’Italia. L’attacco finale alleato, iniziato nei primi giorni di aprile, si è mosso su due direttrici: la V Armata in marcia sull’asse Bologna-Piacenza-Milano, l’VIII Armata britannica sul versante adriatico oltre la foce del Po fino a Trieste. A Bologna, liberata da alcune ore, il popolo acclama i liberatori: gli uomini dell’VIII armata guidata dal gen. McCreery sono arrivati nei sobborghi di Ferrara.

Le differenze tra tedeschi e italiani per Azzarita L’articolo di fondo della prima pagina della «Gazzetta», guidata in questi mesi cruciali da Luigi de Secly, è una riflessione al contempo amara e speranzosa sul futuro dell’Italia. Non può essere altrimenti, dal momento che è firmata da Leonardo Azzarita, già direttore del «Corriere delle Puglie» negli anni Venti, poi a capo dell’Ansa: un uomo che ha pagato con la perdita di un figlio il caro prezzo della guerra e della scellerata violenza dei nazisti. C’è una grande differenza tra il comportamento del popolo tedesco e quello del popolo italiano, sostiene Azzarita.

Il primo è caratterizzato da un fanatismo bestiale, dalla cieca obbedienza nei confronti del Führer, evidente anche nell’ostinazione con cui le forze armate conducono questa ultima insensata resistenza. In Italia, invece, il popolo è sempre stato «una massa osannante controvoglia, che viveva della sua sottomissione pavida e screanzata e si compiaceva dicendo barzellette e tirando a campare». E, poi, qui si è avuto il 25 luglio 1943, mentre in Germania la continuità ideologica del fanatismo ha saldato la solidarietà del popolo con i suoi capi e le sue forze armate. Senza negare le responsabilità del fascismo in questa guerra, conclude Azzarita, ora che siamo forse alla vigilia della liberazione del resto dell’Italia, gli Alleati devono tener conto di questa differenza e cambiare radicalmente l’atteggiamento verso il nostro Paese e il suo governo.

Cosa significa oggi celebrare il 25 aprile. Mio padre e mio nonno si unirono alla Resistenza. Ma non festeggiavano. Per non mischiarsi a opportunisti e voltagabbana. Oggi bisogna riflettere su cosa significa questa parola, quando le guerre finora lontane si avvicinano a larghi passi. Marco Tullio Giordana su L'Espresso il 25 Aprile 2022.

In casa mia non ricordo festeggiamenti particolari il giorno del 25 aprile. Eppure sia mio padre (nato nel 1912) sia mio nonno (nato nel 1877), ognuno per suo conto, si unì alla Resistenza. Mio nonno, di cui porto il nome, dopo l’8 settembre raggiunse i suoi alpini nella Val Chisone e lì prese gli ordini, lui che ne era stato il colonnello, dal suo ex-sergente Maggiorino Marcellin, coraggioso combattente e vero genio militare, che non riusciva a dargli del tu. Mio padre invece, tenente dei Lancieri di Montebello, fu sorpreso dall’armistizio a Roma, a Porta San Paolo. Improvvisamente le alleanze si ribaltavano e con parole ambigue, senza chiamarli per nome, i tedeschi diventavano nemici da cui difendersi. Rimasti senza ordini, coi generali che erano quasi tutti scappati col re, cavalleggeri e Granatieri di Sardegna (fra i quali, come scopersi anni dopo, c’era anche il babbo di Dario Argento) si presero la responsabilità di difendere Roma dall’assalto dei Fallschirmjäger tedeschi, forse altrettanto disorientati ma non per questo meno aggressivi (e soprattutto con la catena di comando intatta).

Decimato il suo reggimento, mio padre decise di traversare le linee e raggiungere gli alleati al Sud. Doveva, come molti altri giovani ufficiali del Regio Esercito, essere evidentemente già attivo nella cospirazione antifascista se gli inglesi lo reclutarono subito nel Soe (Special operations executive, l’organizzazione delle attività di intelligence, sabotaggio, addestramento e sostegno dei vari gruppi di resistenza che sorgevano nei paesi occupati dai tedeschi). Dopo un pericoloso volo di notte fu paracaduto al nord e lì rimase per tutto il 1944 e ’45 svolgendo clandestinamente compiti di collegamento fra angloamericani e Clnai (Comitato di Liberazione Alta Italia).

Mio nonno è morto nel 1950, l’anno in cui sono nato io, mio padre nel 1959, quando non avevo ancora compiuto 9 anni. Quando ardivo di chiedere qualcosa sperando di ascoltare qualcosa di avventuroso, mio padre mi guardava severamente e rispondeva: è presto adesso, non capiresti. Dunque tutto quello che so di loro l’ho appreso dopo, studiando e rintracciando i testimoni, soprattutto dal 1997 in poi quando gli archivi inglesi furono finalmente de-secretati e fu possibile rendersi conto della rete clandestina e delle sue imprese, del contributo di molti eroi anonimi, la maggior parte dei quali passati per le armi senza riconoscenza e senza gloria. Tra l’altro, moltissime furono le donne, prima indispensabili compagne, poi rapidamente ributtate, appena finita ’a nuttata, nei ranghi della famiglia a fare le spose e madri, giusto portando a casa il diritto di voto, concesso solo il 1° febbraio 1945 nelle zone dell’Italia liberata.

Ho chiesto tante volte a mia madre, che sapeva molte cose ma non tutto, perché mio padre fosse così restìo alle celebrazioni. Ne ottenni un giorno questa fulminante risposta: per non mischiarsi con gli opportunisti e i voltagabbana sbocciati dopo. I suoi compagni, gli uomini con cui aveva condiviso rischi e avventure, continuava a vederli per conto suo, nessuno aveva la smania di farsi ammirare per aver fatto il proprio dovere. Penso a questa ricorrenza – che le minuscole autorità locali fanno tanta fatica a celebrare ritenendola «divisiva» (mamma mia, la lingua che usano!) – anziché rievocando l’ardimento di Tullio e Gian Pietro, chiedendomi se sarei capace di fare quello che hanno fatto loro, di avere la stessa lucidità nel compiere le scelte che sembrano così ovvie col senno di poi ma non lo sono per niente.

A ognuno tocca riflettere su cosa significhino oggi queste parole: invasione, occupazione, resistenza, vittime civili, quando le guerre finora sempre combattute in teatri esotici e lontani (ma un assaggio l’avevamo avuto coi Balcani) si avvicinano a larghi passi.

La solita pagina nera: bruciano le bandiere dell'Alleanza atlantica e contestano Letta. L'imbarazzo dell'Anpi. Alberto Giannoni il 26 Aprile 2022 su Il Giornale.

Bruciano le bandiere della Nato, vilipese come quelle degli americani e dei loro amici. Anzi, "servi".

Bruciano le bandiere della Nato, vilipese come quelle degli americani e dei loro amici. Anzi, «servi».

«Servi della guerra» e «servi della Nato» sono le due scritte con vernice rossa che hanno imbrattato, nella notte fra domenica e lunedì, i muri della sede Pd di via Oropa a Torino. E il Pd è il nuovo «nemico numero 1» della sinistra antagonista, quel magma di centri sociali, «anarchici» e comunisti vari che sono animati da rancori e ossessioni del passato.

Da Torino a Catania, passando per Milano, Reggio Emilia, Bologna e altre piazze, è tutto un bollettino di insulti, minacce e intimidazioni, dirette praticamente contro tutti i partiti rappresentati in Parlamento, e rivolte spesso a dirigenti locali, militanti, famiglie. «Italia viva» e «Più Europa» denunciano che a Reggio una loro delegazione è stata «pesantemente insultata da altri partecipanti, poi invitata dalle forze dell'ordine ad allontanarsi». E fra le vittime dell'aggressione c'è anche una bambina di 8 anni, «rea» di sventolare, oltre alla bandiera italiana, anche quella americana.

È il modo in cui «festeggiano» il 25 aprile le fazioni estremiste che si sentono padrone della Liberazione, e non lo sono. La gran parte dei manifestanti, nei cortei ufficiali, ha partecipato civilmente, va detto, ma gli estremisti hanno lasciato il segno, mettendo in seria difficoltà i padroni di casa, Anpi e sindacati.

Le avvisaglie si sono avute già domenica sera, a Torino, dove - al termine della manifestazione per celebrare la ricorrenza della Liberazione - davanti al palco che ha ospitato le orazioni ufficiali, alcuni esponenti del «Fronte della gioventù comunista» hanno bruciato una bandiera dell'Alleanza atlantica e una bandiera del Pd. E il consigliere comunale Silvio Viale, in passato presidente dei Radicali italiani, è stato contestato durante la tradizionale fiaccolata per essersi presentato con bandiere Nato insieme a quelle dell'Ucraina e dell'Ue, e ha fatto sapere che è stata lanciata vernice rossa contro le serrande della sede dell'associazione radicale Aglietta.

A Milano, hanno insultato direttamente il segretario dem Enrico Letta. Un gruppetto col pugno chiuso e le bandiere dei Carc (i Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo) gli ha gridato: «Letta servo della Nato!». Avevano annunciato di voler «cacciare» il Pd dal corteo e simbolicamente ci hanno provato, ma il leader pd non si è scomposto più di tanto, ha citato il capo dello Stato e ha replicato: «Questo corteo è casa nostra, la Costituzione, l'antifascismo sono casa nostra».

In grave imbarazzo i vertici dell'Anpi. Il presidente nazionale Gianfranco Pagliarulo ha definito le contestazioni «un grave errore», «perché queste cose il 25 aprile non servono mai». «Anche quando ci sono posizioni diverse - ha spiegato - bisogna evitare che su singoli fatti si perda la bussola di una posizione unitaria. Perché non può essere che comune l'obiettivo della pace in una situazione così grave come quella dell'Ucraina e dell'Europa».

La scelta di campo pro-Ucraina ha attirato sui democratici una mole di contestazioni «da sinistra», probabilmente messe in conto, ma in periferia gli stessi esponenti del Partito democratico non sono esenti da incredibili scivoloni, che evocano addirittura la violenza. Una foto che ritrae Matteo Salvini e Marine Le Pen a testa in giù è stata pubblicata sulle storie Instagram dal capogruppo regionale delle Marche Maurizio Mangialardi, ex presidente Anci Marche e candidato del centrosinistra alle regionali 2020. L'immagine è accompagnata da un testo, anch'esso rovesciato, scritto a quanto pare dallo stesso consigliere: «Salvini tifa ancora Le Pen - si legge - e questo vuol dire che non è cambiato. Nonostante la prudenza Salvini è ancora uno dei principali sponsor di Putin e avversari dell'Europa nel nostro Paese».

Ma in genere è la sinistra estrema degli autonomi e dei comunisti, quella che si è scatenata. Durante il corteo di Bologna, «i soliti balordi - lo denuncia Forza Italia - hanno danneggiato la sede di Unicredit e di Eni e creato scompiglio». A Reggio, come detto, uno degli episodi più inquietanti: la delegazione di «Più Europa» e «Italia Viva» insultata e invitata ad allontanarsi in un «tripudio» di cori anti Nato. «Dispiace constatare - hanno accusato - che le istituzioni locali continuano ad appaltare solo all'Anpi la memoria della Resistenza e della liberazione».

 Cristina Bassi per “il Giornale” il 29 aprile 2022.

Tutti assolti a Milano dai reati contestati con l'aggravante dell'«odio etnico e razziale» gli antagonisti che al corteo del 25 Aprile del 2018 hanno contestato e insultato la Brigata ebraica. Fatti che si ripetono a ogni corteo della Liberazione, tuttavia gli episodi del 2018 sono i primi di questo tipo, finora, ad approdare a processo. La Procura non ha impugnato le assoluzioni. 

La sentenza è arrivata lo scorso ottobre e sono poi state pubblicate le motivazioni della Quarta sezione penale presieduta dal giudice Nicoletta Marchegiani. Tra i quattro antagonisti anche Claudio Latino, 64 anni, già condannato anni fa dopo l'operazione antiterrorismo «Tramonto».

Il pm Leonardo Lesti aveva chiesto pene dai tre agli otto mesi, i difensori, gli avvocati Benedetto Ciccarone, Giuseppe e Margherita Pelazza, l'assoluzione. Latino e un altro imputato, E.B., erano accusati di minacce aggravate ai rappresentati della Brigata ebraica. 

In particolare di aver mimato «il gesto dello sgozzamento» e «la sventagliata di una mitragliatrice». A.P. di aver lanciato una bottiglietta d'acqua contro la Brigata per «offendere o imbrattare», con la medesima aggravante. E D.L.C. di aver colpito in testa un poliziotto con una canna da pesca usata come asta da bandiera.

Quest'ultimo è stato l'unico condannato, per resistenza a pubblico ufficiale (non aggravata), a sei mesi di carcere. Tutte le scene sono state riprese dai video della polizia.

Le indagini hanno ricostruito che gli imputati sventolavano bandiere palestinesi e inneggiavano contro Israele. 

Al passaggio della Brigata ebraica il gruppo di cui facevano parte ha urlato «assassini» e «bastardi». In aula gli imputati hanno ammesso i gesti incriminati, ma hanno insistito sulla «forte valenza politica» della contestazione «delle politiche israeliane di occupazione di territori palestinesi».

La protesta sarebbe stata rivolta alla «presenza di vessilli dello Stato di Israele» ma «senza alcuna valenza discriminatoria nei confronti del popolo ebreo». I testi della difesa, tra cui Moni Ovadia, hanno suffragato tale versione, insistendo sulla distinzione tra «antisemitismo» e «antisionismo». 

Latino ed E.B. si sono detti «offesi» dall'aggravante dell'odio razziale, «incompatibile» con la loro attività di «accoglienza degli stranieri». Aggiungendo che il gesto dello sgozzamento non era una minaccia, bensì voleva «rappresentare l'infanticidio compiuto dall'esercito di Israele poco tempo prima» e che era accompagnato dalla frase (visibile nei video) «Tu ammazzi i bambini». 

La Corte accoglie in questi aspetti le tesi difensive. E assolve sulla base del «significato intrinseco attribuito a detti gesti dai loro autori». La protesta non aveva «motivi razziali» ma origini «prettamente politiche». La condotta, per i giudici, non era infine «accompagnata dalla cosciente volontà di minacciare un male ingiusto». 

Le violenze dei pacifisti. Andrea Indini il 25 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'odio verbale contro la Brigata Ebraica a Milano, il raid dei centri sociali a Bologna, gli insulti a una bimba con la bandiera americana a Reggio Emilia: ecco il 25 aprile violento dei pacifisti antifascisti.

L'immagine più brutta, tra le tante che questo 25 aprile ci ha consegnato, è sicuramente quella di una bambina di appena otto anni insultata pesantemente da un gruppetto di "coraggiosissimi" antifascisti. Si sono accaniti contro di lei solo perché tra le manine stringeva una bandiera a-stelle-e-strisce. L'aggressione è avvenuta oggi pomeriggio a Reggio Emilia mentre la piccola prendeva parte, insieme a una delegazione di +Europa e Italia Viva, al corteo cittadino. Purtroppo non è stato l'unico episodio di violenza a caricare di tensione e odio una celebrazione, quella della Liberazione, che ha sempre diviso il Paese.

Se in passato gli scontri e le divisioni si consumavano tra il centrodestra e la sinistra per l'appropriazione indebita che quest'ultima pretendeva di esercitare sul 25 aprile, quest'anno l'odio degli antifascisti si è riversato su alcune frange più moderate e centriste della sinistra. Gli episodi, oltre a quello già raccontato di Reggio Emilia, sono stati numerosi. A Roma la violenza verbale di Vauro contro il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A Milano gli attacchi (sempre verbali) a Enrico Letta "servo della Nato" e le durissime intimidazioni alla Brigata Ebraica con cori a sostegno della Intifada. A Torino le bandiere della Nato e del Pd date alle fiamme. A Bologna il raid dei soliti centri sociali che hanno imbrattato e devastato le vetrine. Ovunque, poi, un profluvio di striscioni e slogan che, in nome di uno pseudo pacifismo, sono stati usati contro chi sta sostenendo, all'interno del governo Draghi, la causa ucraina attraverso l'invio di aiuti anche militari.

Giusto questa mattina, ad Acerra, Mattarella aveva rimarcato che "il titolo di resistente va a tutti coloro che, con le armi o senza, mettendo in gioco la propria vita, si oppongono a una invasione straniera". Una precisazione doverosa per i tanti (troppi), come Gianfranco Pagliarulo, che in nome di una imprecisata pace sostengono posizioni filorusse contro i "nazisti" ucraini. Eppure, per quanto nelle scorse ore sembrava si fosse ricreduto, oggi il presidente dell'Anpi ha sì condannato i fischi a Letta ma ha anche ribadito che le bandiere della Nato e degli Stati Uniti al corteo del 25 aprile non devono essere sventolate perché sono "inopportune". Una puntualizzazione pericolosa viste le tensioni e le divisioni di oggi.

Tanta violenza, però, non stupisce più. La sinistra ha da sempre il monopolio del 25 aprile. Da decenni, come ricorda Francesco Giubilei, si erge a giudice supremo: stabilisce chi ha il diritto a ricordare la Resistenza. Un'appropriazione indebita che, con il passare del tempo, ha portato a ridimensionare il ruolo avuto, durante la Seconda guerra mondiale, dai partigiani non comunisti. Oggi si è tentata la stessa operazione. Gli antifascisti hanno cercato di silenziare chi, all'interno della stessa sinistra, non solo ritiene doverosa la resistenza degli ucraini contro l'invasore russo, ma sostiene anche l'impegno attivo dell'Italia contro la guerra attraverso l'invio di armi. È sempre la solita violenza ideologica che poi in alcuni casi sfocia in quella fisica. 

Non ci liberiamo dei cretini rossi. Francesco Maria Del Vigo il 26 Aprile 2022 su Il Giornale.

Fischi a Letta e agli ucraini. Anche il Pd e Mattarella si accorgono che il 25 Aprile è la festa dell'odio.

In piazza per la Liberazione, ma allo stesso tempo contro la guerra in Ucraina, nemmeno troppo velatamente a favore di Putin e assolutamente contro la Nato e gli Stati Uniti. Se non fosse una stringatissima cronaca politica della giornata di ieri, potrebbe essere l'anamnesi di uno psichiatra. Il paziente in questione è la sinistra che ieri, nel giorno del suo Natale laico, si è manifestata in tutte le sue contraddizioni macroscopiche: putiniani e antiputiniani, filo atlantici e anti americani, amici e nemici di Israele, sinceri democratici e ipocriti blanditori di autocrazie.

Così, anche quest'anno, la festa della Liberazione è stata occupata dagli estremisti, alla faccia dei tanti manifestanti pacifici. Ed è stata monopolizzata da una sinistra (sedicente) pacifista che non riesce a far pace con se stessa: odia gli americani anche se senza americani non avrebbe nulla da festeggiare; sciorina un affettato anti totalitarismo e poi tifa per tutte le ultime dittature rimaste sul globo terracqueo (siano rosse o russe poco importa); si pavoneggia nel mito della Resistenza e poi se la prende con chi come gli ucraini sta resistendo contro un invasore con le unghie e con i denti, non solo con parole, slogan, bandiere e canzoni. Hanno voglia di dire che il 25 Aprile è una festa di tutti e che la destra la rende «divisiva», quando i primi a dividersi sono proprio loro. Così, i soliti esagitati che ogni anno fischiano la Brigata Ebraica, quest'anno se la sono presa anche con Enrico Letta accusato - con molta originalità -, di essere un servo degli Stati Uniti. Evidentemente persino gli esponenti del Pd sono considerati già troppo di destra per celebrare il 25 Aprile, per entrare nel privé degli estremisti rossi. Ed è proprio questo il danno più grosso che la sinistra ha inferto alla Liberazione: averla sottratta a tutti per farla cosa di pochi, averla politicizzata - anziché storicizzata - per poterla poi usare come clava contro tutto quello che si muove vagamente a destra del proprio baricentro.

L'anno prossimo il presidente dell'Anpi invece di mettere al bando i vessilli della Nato dai cortei (ma poi, voi avevate mai visto una bandiera della Nato in una manifestazione?) dovrebbe assicurarsi che nessuno porti bandiere rosse con falce e martello e il faccione di Putin. Perché il clima è proprio quello, da far accapponare la pelle ai partigiani (quelli veri). Se la Liberazione è questa roba qui, tanto vale liberarsene. 

Non basta dirsi antifascisti per essere democratici. Francesco Giubilei il 25 Aprile 2022 su Il Giornale.

Non c'è nulla da spartire con chi insulta il Presidente della Repubblica, contesta la brigata ebraica, va in piazza con la falce e martello, impedisce di manifestare e aggredisce chi la pensa diversamente.

Per anni la destra italiana è stata accusata di fare polemica il 25 aprile, di essere divisiva e di non riconoscere la Festa della Liberazione come una giornata di unità nazionale. A chi faceva notare il connotato ideologico e politico assunto dalle manifestazioni di piazza, veniva contestato il mancato riconoscimento del valore della resistenza. La ricorrenza del 25 aprile è stata così monopolizzata dalla sinistra e in particolare all’Anpi che negli ultimi decenni ha distribuito patenti su chi avesse o meno il diritto di ricordare la resistenza. Così il ruolo dei partigiani bianchi, cattolici, azionisti, repubblicani è stato non solo ridimensionato ma spesso dimenticato. Lo stesso dicasi per gli alleati il cui contributo nella liberazione viene omesso o ricordato con fastidio. L’area comunista e postcomunista si è impossessata delle piazze del 25 aprile. Si trattava di uno schema conveniente sia per l’Anpi che poteva rivendicare la propria primazia sia per il mondo politico e culturale di sinistra che svolgeva un importante gioco di sponda con l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani. Tutto ciò ha funzionato fino allo scoppio della guerra in Ucraina che ha fatto esplodere un corto circuito tutto interno alla sinistra ed è emersa una spaccatura tra i sostenitori all’invio delle armi e i contrari, tra i fautori della Nato e i suoi detrattori. Le polemiche dei giorni scorsi sulla linea assunta dal presidente dell’Anpi sono deflagrate oggi con le manifestazioni di piazza per celebrare la Festa della Liberazione, in particolare a Milano.

Tra gli attacchi al Presidente Mattarella, i litigi tra chi è pro e contro la Nato, le discussioni sulle bandiere americane, gli insulti tra i manifestanti, più che una festa di unità nazionale è sembrato di assistere a una lotta fratricida interna alla sinistra. Non proprio uno spettacolo edificante. Gli episodi sono stati molteplici e diffusi al punto da non poter essere derubricati come semplici provocazioni o scaramucce. In particolare colpisce la contestazione alla Brigata ebraica (un episodio in questo caso non nuovo) a cui si sono aggiunti vari cartelli contro la Nato e gli Stati Uniti come quello di Rifondazione Comunista che recita "Basta guerre. Contro Putin e contro la Nato". In un altro cartello è stata raffigurata la morte con la falce avvolta da un mantello con la bandiera americana. Oltre alle bandiere rosse, colpisce in particolare quanto avvenuto a Reggio Emilia. Nella città emiliana un gruppo di “presunti antifascisti” ha aggredito una delegazione di militanti di Italia Viva e +Europa in cui c'era una bambina di otto anni con in mano una bandiera americana. È lecito domandarsi cosa c’è da spartire con chi insulta il Presidente della Repubblica, contesta la brigata ebraica, va in piazza con la falce e martello, impedisce di manifestare e aggredisce chi la pensa diversamente. Sarebbe ora di dire che non basta dirsi antifascisti per essere democratici.

Il 25 aprile dei marziani elogi per Putin e fischi per la brigata ebraica. Sembra quasi che scimmiottino la “denazificazione” sognata da Putin, convinti realmente che un Paese di 45 milioni di abitanti, sia rappresentato dai duemila esaltati del battaglione Azov. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 27 aprile 2022.

Stavolta non c’era neanche il pretesto della Palestina, la cauzione ideologica dietro cui storicamente il pregiudizio giudeofobico si nasconde e si fa bello. I fischi della piazza di Milano alla Brigata ebraica sono venuti fuori così, gratis, per contorto senso di appartenenza, per ottusa assimilazione e forse per riflesso condizionato. Lo stesso che da qualche anno trasforma l’anniversario della liberazione in una cronaca marziana, con gli ebrei, prime vittime del nazifascismo, contestati a muso duro dalla sinistra “dura e pura”, costretti a sfilare con la “scorta”, protetti dal servizio d’ordine.

La guerra di Putin poi ha complicato il quadro, già di per sé demenziale: «Servi della Nato!», gridavano ieri i contestatori ai reduci dei campi di sterminio hitleriani e ai loro familiari quando le due parti del corteo si sono incontrate. Ma perché?

In piazza i soliti vecchi gruppettari, ma anche molti giovani, ragazze e ragazzi che urlano nei megafoni mentre passano le bandiere con la stella di David. Un’immagine davvero pietosa. Accanto alla Brigata ebraica le comunità ucraine milanesi con tantissime bandiere blu e gialle, naturalmente anche loro fischiate dagli pseudo antifascisti. Qualcuno gli grida in faccia senza alcuna vergogna: «Nazisti!!», altri intonano per diversi minuti l’angosciante e sibillino slogan: «Ucraina antifascista solidarietà internazionalista!».

Sembra quasi che scimmiottino la “denazificazione” sognata da Putin, convinti realmente che un Paese di 45 milioni di abitanti, sia rappresentato dai duemila esaltati del battaglione Azov, Ci mancano solo i simboli della Federazione russa e delle repubbliche separatiste del Donbass per completare il rovesciamento perfetto.

E poi ci sono i vessilli dell’Unione europea, degli Stati Uniti e dell’odiata Nato, altri bersagli d’elezione delle avanguardie antagoniste che nella loro singolare interpretazione della Storia riescono nel capolavoro di gettare fango su tutti coloro che hanno combattuto contro il Terzo Reich. A parte la Russia che nell’universo parallelo in cui vivono essere ancora la gloriosa Urss.

«Fuori la Nato dal corteo!» ringhiano grintosi, ma vola anche un iperbolico «Assassini, assassini!», rivolto praticamente a tutti gli altri dimostranti, dal segretario del Pd Enrico Letta, alle migliaia di persone scese in piazza per ricordare e celebrare il 25 aprile del 1945 e non per alimentare una guerra immaginaria contro l’occidente e la democrazia. Anche perché la guerra, quella vera, divampa da due mesi nel cuore dell’Europa, con città distrutte, migliaia di vittime e milioni di profughi, una guerra di invasione illegale e sanguinaria, scatenata per volontà di Vladimir Putin e non dei suoi avversari globali.

Gli scorre sotto gli occhi tutti i giorni ma non la vogliono vedere perché metterebbe in crisi tutta la teologia geopolitica con cui interpretano ogni evento. C’è chi si aggrappa alla propaganda e alle fake news negando le stragi e chi fa spallucce: «Quello che fanno i russi non ci interessa, noi combattiamo contro gli imperialisti di casa nostra» replicano gli antagonisti a chi gli chiede come mai non dicano nulla sui crimini contro l’umanità in Ucraina e sulla repressione del dissenso interno da parte del Cremlino e del Fsb.

Ma l’insofferenza e il risentimento nei confronti degli ucraini, della strenua difesa del loro paese invaso da truppe straniere, della loro ostinazione a non arrendersi al tiranno non riguarda soltanto le frange più massimaliste della sinistra; è un sentimento strisciante che si fa largo nell’opinione pubblica, favorito dall’ambiguità dell’equidistanza, dai né, né, come se le responsabilità delle due parti in causa fossero equivalenti, un pensiero che cancella magicamente la differenza tra aggressori e aggrediti, tra le vittime e i carnefici.

Per questo il Capo dello Stato Sergio Mattarella, che già venerdì scorso aveva pronunciato parole nette, è tornato a ribadire la vicinanza del nostro paese e della nostra diplomazia con la resistenza di Kiev proprio nel giorno della liberazione.

Quella stessa resistenza davanti alla quale in molti arricciano il naso perché trovano blasfemo il paragone con i nostri partigiani ( che peraltro furono armati e addestrati dagli anglo- americani). E lo ha fatto con la consueta chiarezza, senza timore di accostamenti sacrileghi: «Pensando agli ucraini che resistono mi vengono in mente queste parole: “Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor’. Sappiamo tutti da dove sono tratti questi versi. Sono i primi di Bella ciao».

 La vera storia della Brigata ebraica. Alessandro Gnocchi il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

Chi la fischia in corteo dovrebbe leggere il filosofo Jonas che ne raccontò le imprese.

Come ogni anno, la Brigata ebraica è stata fischiata al corteo del 25 aprile di Milano. Speriamo sia soltanto ignoranza e non pregiudizio razzista. Per la prima c'è rimedio, per il secondo quasi mai. Gli analfabeti di andata e di ritorno potrebbero, ad esempio, leggere il discorso che il filosofo Hans Jonas tenne in occasione del Premio Nonino 1993. È intitolato Razzismo e si può leggere in appendice al saggio Il concetto di Dio dopo Auschwitz (edito dal Melangolo).

Prima di entrare nel merito alcune informazioni. Hans Jonas è un filosofo tedesco, naturalizzato statunitense, allievo di Martin Heidegger e compagno di studi di Hannah Arendt. Ha scritto volumi fondamentali sullo gnosticismo e sull'etica nell'età tecnologica, trattando temi cruciali come la clonazione, l'eutanasia, l'eugenetica.

All'ascesa del nazismo, Jonas decide di cambiare aria e si trasferisce prima in Inghilterra e poi in terra d'Israele. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si arruola. Nel 1940 è in armi. Nel 1944 entra a far parte della appena costituita Brigata ebraica (prima esistevano brigate a prevalenza ebraica, ma nessuna esibiva la stella di David). La Brigata ebraica risale l'Italia da Taranto a Udine, contribuendo in misura decisiva alla Liberazione del nostro Paese. Il viaggio della Brigata prosegue fino alla Germania ormai sconfitta. Non sarà l'ultima guerra di Jonas, che ha partecipato anche alla guerra arabo-israeliana del 1948. In seguito si trasferirà a New York, diventando cittadino americano.

Hans Jonas ha raccontato i suoi anni in divisa, e in particolare il periodo dei combattimenti in Italia. Il suo discorso del 1993 è un capolavoro di umanità ed equilibrio. C'è spazio naturalmente per la condanna del razzismo italiano ma anche la consapevolezza che tale razzismo non aveva corrotto l'intera popolazione. Per questo, Jonas ha scritto di aver sempre sentito un legame stretto con l'Italia.

Tornasse ora, vedrebbe gli spregevoli razzisti italiani in azione nel Paese che la Brigata ebraica ha salvato impugnando le armi e rischiando la vita. Il filosofo potrebbe toccare con mano come il razzismo contemporaneo utilizzi le parole dell'antirazzismo: per questo è così difficile da contrastare. L'antisemitismo infatti si nasconde dietro alla solidarietà per il popolo palestinese.

Chi contesta i liberatori, perché ebrei, suscita soltanto nausea. Per i pecoroni fischianti che si aggregano senza neppure saperne il motivo, proponiamo in questa pagina una parte del discorso di Hans Jonas.

La retorica antifascista ha ancora senso? Le polemiche sul 25 Aprile: viva i partigiani e abbasso i pacifisti, ecco il manifesto dei nuovi moderati. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Aprile 2022. 

Quando eravamo ragazzi, e un po’ estremisti, il 25 aprile gridavamo così: “La Resistenza è rossa / non è democristiana / viva, viva / La guerra partigiana”. Gridavamo questo slogan per contrapporci al Pci, che invece voleva fare del 25 aprile una festa di unità nazionale. E invitava sul palco Taviani e Zaccagnini. Soprattutto Taviani non sopportavamo, perché era, o era stato, ministro degli Interni con la mano un po’ dura. Sto parlando di quegli anni lì, roventi, intorno al 1968. Avevamo ragione piena e torto marcio, credo. Ragione, perché, si dica quel che si vuole, ma la Resistenza è stato fondamentalmente l’episodio più rosso della storia nazionale.

Guidata dai comunisti, in montagna e nelle città. Con tutti gli eroismi e la generosità e le malvagità possibili. Ed è la ragione per la quale in Italia, unico paese occidentale, dopo la guerra si affermò un partito comunista straordinariamente forte e che raccoglieva i voti di circa un terzo della popolazione, e le simpatie, più o meno, della metà.

Torto marcio perché il 25 aprile è un’altra cosa. È la liberazione dal fascismo e dal nazismo, e l’inizio della storia dell’Italia democratica. E francamente sarebbe da cretini immaginare che Hitler e Mussolini furono sconfitti da Longo e Amendola. Furono sconfitti dagli eserciti alleati. Dagli inglesi e dagli americani. Mentre la Germania fu liberata dai russi. E il 25 aprile, in Italia, iniziò una storia democratica eccezionale, nella quale i comunisti ebbero un grande spazio, proprio perché se lo erano guadagnato con le armi, ma i democristiani, e gli altri partiti democratici più piccoli, giocarono un ruolo essenziale. Nacque dall’incontro tra queste forze la Costituzione socialmente avanzatissima, ma anche liberale e garantista, della quale ancora disponiamo e che poco utilizziamo. E quindi era assurdo voler escludere i democristiani e i liberali da una festa che era anche la loro.

In quegli anni politicizzatissimi, il 25 aprile era comunque, essenzialmente una festa antifascista. E l’antifascismo era un “fiume politico” molto stravagante, che teneva insieme liberalità e autoritarismo, russi e americani, comunisti e anticomunisti. Tutti a pari diritto. Perciò sono assurde, oggi, le contestazioni che vengono fatte nei cortei. Contro il Pd, o addirittura – con sfumature antisemite – contro la brigata ebraica. Assurde, contraddittorie e un po’ folcloristiche. Ho sentito i simpatici giovani di Milano che chiedevano al Pd di uscire dal corteo (ma tra tutti quanti, il Pd è il partito più coerentemente erede della Resistenza) perché guerrafondaio. E poi gli stessi giovani gridare che il 25 aprile non è una ricorrenza ma è il giorno della Resistenza. Beh, voi capirete che se uno esalta la Resistenza armata e poi condanna l’uso delle armi per resistere all’invasore, c’è qualcosa che non va. Così come ho trovato curioso imprevisto, quest’anno l’entusiasmo per la lotta partigiana espresso da settori molto moderati e anticomunisti dello schieramento politico. Non li ricordavo, questi settori, negli anni scorsi, in prima linea e col fazzoletto rosso al collo (eh, sì: i partigiani, quasi tutti, portavano il fazzoletto rosso al collo…). Cosa è successo?

C’è una certa inversione di ruoli. I gruppi moderati, che in questi giorni, dalla destra al centrosinistra, si sono spostati su posizioni abbastanza militariste, e che non ammettono dissensi – guidati, come succede sempre in questi momenti di sbandamento della politica, non da un partito ma da un giornale: Il Corriere della Sera – son diventati tifosi accesi di tutta la vecchia retorica resistenziale. E questa retorica è stata gettata nel piatto della lotta dura al pacifismo, spesso con toni abbastanza sbracati, e in una posizione di contrapposizione frontale con la Chiesa cattolica. Partigiani contro pacifisti. Possibile? E tutto questo non pone un problema anche ai pacifisti? Quale problema. Provo a dirlo in modo netto e provocatorio: l’antifascismo è ancora un valore?

Io credo che lo sia se inteso come lotta all’autoritarismo, alle idee reazionarie nel campo del costume, al forcaiolismo, alla xenofobia. Punto. E che non abbia nessun senso se riferito al passato regime di Mussolini. L’antifascismo, quando diventa pura retorica resistenziale, diventa un macigno che serve solo ai conservatori. Toglie alla sinistra ogni problema di linea politica, identificandola con un tabù decrepito e inattuale. La rinchiude in una logica difensivistica, tagliando la strada alle lotte sociali. Sostituisce la ricerca della politica e del conflitto. Sostituisce l’avversario con l’immagine di piazzale Loreto. Un disastro politico e morale. È un vecchio discorso. Lo riprenderemo. Credo che la retorica, o la paura antifascista, già abbia prodotto tanti danni in Italia. Spinse, negli anni 70, il Pci a ripiegare sulla democrazia cristiana. E pezzi di gioventù a ripiegare sulla lotta armata. Gli uni e gli altri con l’obiettivo di evitare un pericolo: il golpe imminente. Pericolo che non esisteva. Ne riparleremo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Massimo Fini: "Italia occupata dagli Alleati, non dai tedeschi. Loro neanche uno stupro, gli americani invece..." Libero Quotidiano il 28 aprile 2022

Massimo Fini ha scritto un articolo sul Fatto Quotidiano che ha scatenato molte polemiche. Il giornalista si è occupato di Pier Luigi Bellini, detto “Pedro”, che era stato al comando del gruppo di partigiani che aveva catturato Mussolini a Dongo. Parlando della reticenza di Bellini nel rivendicare o glorificare quel gesto, Fini si è poi spinto a sostenere che durante la seconda guerra mondiale a occupare l’Italia non siano stati i tedeschi, ma gli Alleati.

Uno stravolgimento della storia che ha ovviamente attirato forti critiche, ma che è nel pieno stile del Fatto Quotidiano degli ultimi mesi. “L’esercito tedesco - scrive Fini - a parte alcune azioni efferate, veri crimini di guerra a opera dei reparti speciali, le SS (Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema in testa), in Italia si comportò con correttezza. Non c’è stato un solo caso di stupro addebitabile ai soldati tedeschi, mentre innumerevoli sono stati gli stupri perpetrati dai soldati americani che oggi noi, per pudicizia, chiamiamo ‘marocchinate’. Nel bene e nel male i tedeschi rimangono i tedeschi”.

Prima ancora aveva fatto alcuni commenti sulla Resistenza: “Dal punto di vista militare fu un fatto marginale all’interno di quella tragica epopea che è stata la seconda guerra mondiale. Fu il riscatto morale di poche decine di migliaia di uomini e donne coraggiosi, non del popolo italiano. Ma con la retorica della Resistenza noi italiani abbiamo fatto finta di aver vinto una guerra che invece avevamo perso e nel modo più inglorioso”.

Era guerra contro l’invasore o era guerra civile? Mattarella e la resistenza, la storia è diversa: i tedeschi li abbiamo traditi, gli americani ci hanno invaso. Paolo Liguori su Il Riformista il 27 Aprile 2022. 

Dopo tanti anni un 25 aprile, festa della Liberazione, che ha rivisto un movimento. Per due anni non si era celebrata, prima era una festa stanca, ormai logora, perché è ormai lontano il tempo della Liberazione. Ieri c’è stato un grande movimento e allora potremmo dirci contenti perché torniamo ad un punto fermo della vita del nostro paese. E invece no, non siamo contenti, perché il movimento c’è stato per l’Ucraina. Allora bisogna dare le armi all’Ucraina perché i partigiani combattevano con le armi o non bisogna darle?

La discussione è durata in maniera più o meno caotica tutto il giorno, poi le parole esaustive del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fronte al quale io mi inchino perché è il mio Presidente. Però mi dispiace, non ha detto una cosa corretta. “Una mattina mi sono svegliato e ho trovato l’invasor”, sono le parole di ‘Bella ciao’, pronunciate da Mattarella. Si riferiva alla guerra partigiana? Sì, diceva che proprio per questo motivo l’invasore russo in Ucraina e l’invasore in Italia devono essere messi sullo stesso piano e sullo stesso piano la Resistenza.

Ma i tedeschi erano invasori in Italia? No, i tedeschi erano alleati dell’Italia, noi li avevamo voluti come alleati. E quando sono cominciati a sbarcare gli americani, in Sicilia nella sua terra, quelli erano gli invasori. Ci sono state anche battaglie contro pochi fascisti che resistevano e ci sono stati morti. Altri italiani, hanno poi preferito andare con americani e inglesi. Il 25 luglio buttarono a mare Mussolini ma Badoglio disse ‘la guerra continua’ e quindi eravamo ancora in guerra con gli americani, al fianco dei tedeschi. Poi l’8 settembre, giorno in cui si fece l’armistizio, passammo dall’altra parte – naturalmente non lo dico per lei, Presidente, che lo sa benissimo ma per chi potrebbe essersi confuso – il Re in fuga a Bari e noi, da un certo punto dell’Italia in su, nel nord, cominciammo a sostenere la Resistenza, la guerra partigiana con le armi. Ma contro chi? Contro altri italiani che combattevano a fianco della Repubblica di Salò. Quindi italiani da una parte e italiani dall’altra. Era guerra contro l’invasore o era guerra civile?

Perché subito dopo il 25 aprile ne abbiamo fatto una bandiera della Resistenza e del Fronte di Liberazione Nazionale? Perché ne avevamo bisogno per presentare una classe politica all’estero che fosse dignitosa, perché quella di prima aveva perso con Mussolini onore e dignità. Sono tutte questioni politiche, non sono questioni militari, non sono questioni di eroismo contro l’invasore. Sono questioni di opportunità politica. Per fortuna l’Italia ha scelto la parte giusta, ha lasciato andare la parte sbagliata. Questo va raccontato ai ragazzi, questo va raccontato nelle scuole, non che quella guerra partigiana era uguale a questa resistenza ucraina. Per paradosso questa resistenza ucraina ha molte più ragioni perché si tratta veramente del russo invasore. Noi i tedeschi li avevamo scelti, li abbiamo traditi, li abbiamo abbandonati. Questa è la verità storica, il resto sono parole che si sono usate giustamente il 25 aprile per passare dalla parte giusta e farci dare il Piano Marshall. Oggi si usano a sproposito e bisogna stare attenti a non confondere le idee dei giovani perché altrimenti non si sa dove finiamo.

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom 

Anpi, Parisi non la dice tutta: i partigiani “rossi” combattevano per Stalin, non per la libertà. Marzio dalla Casta giovedì 21 Aprile 2022 su Il Secolo d'Italia.   

Dice al Foglio Arturo Parisi, Gran Muftì del prodismo al tempo dell’Ulivo, che «il ruolo storico dell’Anpi» è «ormai esaurito». Non è la sua, si badi, una semplice opinione. Bensì certezza ricavabile dalla lettera A dell’articolo 1 dell’atto costitutivo della stessa Anpi. «L’associazione – vi si legge – ha lo scopo di riunire tutti coloro che hanno partecipato con azione diretta alla guerra partigiana contro i nazifascisti, contribuendo a ridare al nostro Paese la libertà e la democrazia». Ne discende che essendo il suo presidente, Gianfranco Pagliarulo, nato solo nel 1949 egli non possa fregiarsi del titolo di partigiano. Né, a maggior ragione, esserne il capo.

Parisi al Foglio: «L’associazione ha esaurito il suo ruolo»

Parisi coglie nel segno. Ma anche Marcello Veneziani, nel momento in cui si chiede perché solo ora la sinistra si accorge che l’Anpi è praticamente senza partigiani. Un interrogativo condivisibile e che rilanciamo volentieri: come mai? Veneziani se lo spiega con il fatto che l’Anpi ha una posizione non conforme sulla guerra in corso: pendente più dalla parte dell’invasore russo che dell’invaso ucraino. E questo con buona pace dei versi di Bella ciao, che non per caso Parisi esorta a rileggere una volta constatato, scrive il Foglio, che combattere per la libertà «è un concetto che oggi sembra non andare più a genio all’Anpi senza partigiani».

Sulla Resistenza verità ancora lontana

Ma l’affermazione è tanto vera, quanto incompleta. È infatti il caso di aggiungervi che sul punto il comunista Pagliarulo è in perfetta sintonia con i veri partigiani rossi, per i quali la lotta al nazifascismo era solo il preludio all’avvento dello stalinismo. È il motivo per cui non esitarono ad eliminare partigiani “bianchi“, monarchici, liberali e persino socialisti. Messa così, appare quindi chiaro che al ragionamento di Parisi manca il pezzo finale: la riscrittura, secondo verità storica, della Resistenza: oltre la retorica ufficiale e la rendita di posizione fin qui goduta da chi ha politicamente egemonizzato quel fenomeno, rendendo praticamente sinonimi antifascismo e democrazia. Un’equazione falsa e pericolosa, che ora proprio l’imbarazzata equidistanza tra Mosca e Kiev esibita dal “partigiano” Pagliarulo impone di cancellare.

Aprile 1945: ecco gli alleati. La «Gazzetta» di un secolo fa. Sulla «Gazzetta» la caduta del fascismo e l’armistizio siglato con gli angloamericani nel ‘43: l’Italia è divisa in due. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Aprile 2022.

Sulla Gazzetta del Mezzogiorno le notizie principali riguardano l’avanzata delle truppe alleate sul fronte italiano. Per una parte del Paese la guerra dura, ormai, da quasi cinque anni: dopo la caduta del fascismo e l’armistizio siglato con gli angloamericani nel ‘43, l’Italia è, infatti, divisa in due. Gli ex alleati tedeschi si sono trasformati in forza di occupazione in tutto il centro-nord; il re e Badoglio, invece, rifugiatisi a Brindisi, hanno dato vita al «Regno del Sud», con il controllo degli Alleati, e si sono ricostituiti partiti antifascisti. Con la graduale liberazione del Paese dall’occupazione tedesca, il Governo si sposta prima a Salerno nel febbraio 1944, poi a Roma nel luglio dello stesso anno. Mussolini, nell’Italia occupata, ha fondato la Repubblica Sociale Italiana, un governo collaborazionista, appoggiato da Hitler, per contrastare Alleati e partigiani, i quali si sono organizzati militarmente in brigate nelle valli montane e nelle città in Gruppi di Azione Patriottici: è, ormai, guerra civile.

Gli antifascisti, i Patrioti, come comunemente sono chiamati, vivono in clandestinità e spesso sono vittime di delazioni, rastrellamenti, deportazioni, fucilazioni: anche la popolazione civile che li appoggia subisce violente rappresaglie da parte dei nazifascisti. L’inverno 1944-’45 è stato particolarmente duro per le forze alleate e per i gruppi partigiani: la violenza feroce dei nazisti ha indotto il comando supremo anglo-americano a rinviare l’offensiva finale. Il momento giusto arriva nei primi giorni di aprile, quando il maresciallo Kesselring, capo delle forze tedesche in Italia, è stato richiamato in Germania. Gli Alleati, dunque, passano all’attacco sul fronte adriatico e tirrenico: i gruppi di combattimento dell’esercito italiano sono pronti a intervenire con loro. È il generale Mark Clark, si legge sulla Gazzetta, ad annunciare che reparti della V Armata, agli ordini di Truscott, stanno per irrompere in Val Padana: la liberazione di Bologna, per concorde parere degli alti ufficiali alleati, può ritenersi imminente.

Un trafiletto è dedicato alle parole di Ivanoe Bonomi, presidente del Consiglio di un Paese non ancora completamente liberato: egli ha annunciato di avere piena fiducia nella politica unitaria del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia e nelle Forze volontarie della Libertà, «che degnamente assolvono i compiti ad esse affidati dai rappresentanti del governo nazionale nell’Italia occupata». La prossima liberazione del territorio nazionale avverrà, per Bonomi, «nella concordia degli animi e nell’atmosfera della restaurata democrazia».

VERSO IL 25 APRILE. Anche il meridione è stato protagonista della Resistenza. ISABELLA INSOLVIBILE su Il Domani il 14 aprile 2022

La storiografia è oggi concorde nel ritenere che la lotta di Liberazione fu un fenomeno plurale, fatto, cioè, di più anime.

Tutte queste “anime” della Resistenza non furono appannaggio di alcune parti d’Italia o di alcuni cittadini del paese. Furono, invece, sulla base dei diversi tempi dell’occupazione e della liberazione, fenomeni “nazionali”. Ciò vuol dire che si verificarono anche nel Meridione e coinvolsero anche i meridionali.

Al Sud, più che all’occupazione, che fu molto breve, si resistette alla pratica di spoliazione e distruzione dei territori e di ciò che li componeva, a partire dagli esseri umani.

ISABELLA INSOLVIBILE. È un'accademica specializzata nella storia della Resistenza italiana, con particolare riguardo ai prigionieri di guerra e ai crimini di guerra compiuti in Italia dalle forze armate naziste. Dal 2016 è coordinatrice editoriale della collana I processi per i crimini di guerra tedeschi in Italia (Viella editore). Collabora con la cattedra di Storia comparata dei sistemi politici dell'Università Luiss Guido Carli di Roma.

Perché ha ancora senso spiegare la Resistenza ai nostri figli. ALBERTO CAVAGLION su Il Domani il 25 aprile 2021

Nel 2005, quando pubblicai la prima edizione de La Resistenza spiegata a mia figlia, il dibattito sulla lotta partigiana procedeva per schieramenti rigidi. Mi ero messo a scrivere per alleviare la tristezza: soffrivo nel vedere affievolirsi il significato di una festa gioiosa come il 25 aprile, oscurato dal peso dolente del 27 gennaio. Per gli studi che ho svolto, spiegare la Shoah a mia figlia sarebbe stato più comodo.

Nei giorni successivi all’uscita del libro, la vanità che alberga in ogni autore fu appagata dalla voce squillante di Margherita, una compagna di scuola di mia figlia, che mi lesse al telefono la scheda uscita su Metro, il giornalino distribuito gratis nelle stazioni ferroviarie: «In questi giorni di overdose di documentari sui 60 anni dal 25 aprile cade l’occhio su un libretto di Alberto Cavaglion, 49 anni, che tenta una missione impossibile: raccontare a sua figlia Elisa, 16 anni, generazione “non so chi è Badoglio”, la Resistenza. Lo sforzo è di riassumere per blocchi (fu davvero guerra civile? quale significato dare alla violenza?) tenendo presente il filo storico dopo un mare magnum di letture e controletture (da Bocca a Pansa) sul tema. Fare il punto non significa non avere un punto di vista etico-morale. Una lettura dietetica: si esce dal centinaio di pagine senza il senso di aver ingurgitato chili di panna montata».

AUTOCRITICA DI UNA GENERAZIONE

Quel consiglio “dietetico” mi sentirei di ripeterlo adesso. Fa parte della dieta il nutrimento offerto da grandi scrittori che hanno raccontato la Liberazione (Beppe Fenoglio, Italo Calvino, soprattutto Luigi Meneghello), ma una parte importante spetta ai libri di famiglia. La Resistenza spiegata a mia figlia doveva tantissimo alla Resistenza narratami da mio padre, che fu tra i 12 giovani a seguire Duccio Galimberti alla Madonna del Colletto il 12 settembre 1943.

Tutto cambia e la mia generazione, in termini di trasmissione della memoria, ha il dovere di portare a termine un sano esercizio di autocritica. Molte cose sono cambiate rispetto al 2005. Il primo consiglio “dietetico” che vorrei dare è di guardare alla lezione delle cose. Meglio non fidarsi troppo di parole impegnative come Resistenza quando sono accompagnate da un aggettivo qualificativo, sia pure suggestivo.

Gli allargamenti terminologici sono quasi sempre concepiti allo scopo di rendere esteso ciò che invece è giusto rimanga piccolo: le piccole virtù, le minoranze virtuose, “i piccoli maestri” direbbe Meneghello. Togliendo il superfluo si arriva alla sostanza. Vere e proprie nebulose appaiono coppie di parole, che sono andate per la maggiore: Resistenza tradita, Resistenza mancata, Resistenza taciuta, Resistenza passiva, Resistenza disarmata, Resistenza legittimata (o delegittimata).

Lo stesso esercizio si può fare con antifascismo: antifascismo militante, antifascismo difensivo, antifascismo esistenziale. Può darsi un antifascismo che non sia esistenziale? La Resistenza è o non è. Se non medita di attaccare l’avversario cessa di essere sé stessa.

RESISTENZA DISARMATA

Negli ultimi anni molta attenzione è stata riservata alla "Resistenza disarmata”. E questo è sicuramente un bene, anche se la storia militare – sia pure una storia militare sui generis come quella di cui stiamo parlando – non può essere un dettaglio. Sulle armi bisogna intendersi subito. Non averle è molto rischioso, ma sono fin dall’inizio scarse. Sono poche, non funzionano affatto o molti partigiani non sono capaci di farle funzionare. Si cerca di prenderle nelle caserme abbandonate dopo l’8 settembre, ma i risultati non sono affatto soddisfacenti. Mancano i pezzi di artiglieria, i ricambi, manca specialmente chi sappia insegnare ad usarle.

Roberto Battaglia, prima di salire in Umbria con i partigiani, ha lasciato sul tavolo le bozze di una sua monografia sul Bernini, non sa neanche come si impugna una pistola. Appena arrivato in Valle d’Aosta a Brusson, Primo Levi contempla allibito l’arma che gli viene data: gli sembra quella che le contesse adoperano nei film.

Si cerca di sottrarre armi ai tedeschi, ai repubblichini, ma per tutto il periodo del conflitto, il problema delle armi è, innanzitutto, quello della loro mancanza. I lanci degli alleati tardano ad arrivare, nel primo inverno sono rarissimi, spesso hanno per destinatari soltanto i partigiani monarchici, i badogliani e questo genera risentimenti. Le cose migliorano alla fine del secondo inverno quando i rifornimenti diventano più consistenti, ma la questione delle munizioni rimane una tragedia irrisolta fino alla fine. Disarmata, spesso, la Resistenza è per dura necessità.

ZONE D’OMBRA

Si potrebbe continuare a lungo nel gioco degli aggettivi inutili. Anche il concetto di Resistenza ebraica va sottoposto a un’analisi critica, come ha fatto di recente Daniele Susini nella sua bella sintesi (Donzelli). Le difformità, per l’Italia, sono doppiamente vistose per la ragione che la Resistenza non è comparabile con altre realtà europee: in primo luogo perché nasce tardi, sull’onda di una sconfitta militare; in secondo luogo perché le divisioni politiche, già prima che il fascismo prendesse il potere, erano profonde e non saranno superate durante i mesi della clandestinità (per poi riesplodere in forma acuta nel dopoguerra).

Diventa ogni giorno più urgente riconoscere il problema della (relativa) lentezza del processo di acquisizione di una consapevolezza politica da parte di maggioranza e minoranze; andrà prima o poi analizzato anche il problema del rapporto fra i partigiani (quale che fosse il loro orientamento) e le leggi razziali del 1938: si ha l’impressione che il dramma dell’antisemitismo sia stato sottovalutato: altre colpe del regime apparivano più gravi.

In certe realtà dove la Resistenza sorse in modo particolarmente disordinatosi diedero anche esempi di vessazioni contro famiglie, donne e anziani, che avevano trovato asilo nelle stesse baite dove si formavano le prime bande partigiane. La sventurata storia delle prime settimane autunnali in Valle d’Ayas a Brusson, dove la formazione partigiana di Gl cui aveva aderito Primo Levi ebbe a scontrarsi con altre formazioni prive di scrupoli, ha svelato zone d’ombra e contraddizioni che rivelano l’importanza, direi l’urgenza, di una ricostruzione meno frettolosa e semplicistica di quelle che si sono lette.

UN COMPLESSO DI INDIVIDUI

Altri elementi di possibile fraintendimento erano già stati messi in evidenza dai diari che ci hanno lasciato figure molto rappresentative che avevano compreso i rischi connessi alla celebrazione retorica, all’iconografia mitologica: «Può essere che in futuro questo mio spregiudicato e pessimistico diario possa fare cattiva impressione: si dirà che io, arrampicandomi per la montagna mi fermavo a osservare sterpi e sassi – i brutti episodi son numerosi – e non guardavo la vetta e il paesaggio. Errore, errore. Se non vedessi la vetta e il paesaggio non farei la dura salita; ma per timor di retorica preferisco tacere gli alti ideali».

Così scriveva Emanuele Artom, prima di essere torturato e ucciso nel 1944. Nel suo diario invitava a raccontare anche le cose sgradevoli, «perché fra qualche decennio una nuova rettorica patriottarda o pseudo-liberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi; siamo quello che siamo: un complesso di individui, in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania». Se Artom fosse stato ascoltato il caso-Pansa sarebbe evaporato al sole del 25 aprile in un istante.

Una idea di Resistenza che trae la sua forza dal disincanto dei piccoli maestri che cercano dentro se stessi la ragione della menzogna di cui sono stati vittime è quella che in futuro potrà esserci più utile. Scrive sempre Artom: «Il fascismo non è una tegola cadutaci per caso sulla testa; è un effetto della a-politicità e quindi della immoralità del popolo italiano. Se non ci facciamo una coscienza politica non sapremo governarci e un popolo che non sa governarsi cade necessariamente sotto il dominio straniero o sotto una dittatura».ALBERTO CAVAGLION

VERSO IL 25 APRILE. Le tante resistenze diverse che hanno liberato l’Italia. PAOLO PEZZINO su Il Domani l'11 aprile 2022

Cosa ricordiamo e cosa celebriamo il 25 aprile 1945, anniversario della Liberazione? Ricordiamo la fine della guerra, la sconfitta nel nostro paese dell’esercito tedesco, la caduta definitiva del regime fascista, celebriamo il sacrificio dei tanti per la Liberazione del nostro paese

Qualcuno ha voluto ridurre la resistenza armata a una sorta di guerra privata fra fascisti e comunisti. Chi lo afferma non conosce la storia di quei mesi.

Le forze politiche che avevano guidato la Resistenza si legittimarono come nuova classe dirigente dell'Italia  proprio in quanto avevano saputo dirigere la lotta contro la dittatura fascista e l’occupazione tedesca.

PAOLO PEZZINO. Storico e accademico è presidente dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri – Rete degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea.  Autore di Paesaggi della memoria. Resistenze e luoghi dell’antifascismo e della liberazione in Italia, a cura di Archivi della Resistenza, Pisa, Ets, 2018.

25 APRILE. Partigiani della Wehrmacht: la storia dimenticata dei disertori tedeschi in Italia. MIRCO CARRATTIER, storico, su Il Domani il 21 aprile 2021

Sono più di 30 mila i soldati che durante la Seconda guerra mondiale hanno lasciato l’esercito tedesco. Alcune migliaia di loro anche in Italia, in una vicenda del nostro passato che è stata dimenticata

Il filone di ricerca sui disertori tedeschi in Italia è ancora poco fecondo, nonostante già nel 1960 Roberto Battaglia, il primo grande storico della Resistenza italiana, avesse evidenziato il rilievo di questo fenomeno.

I disertori della Wehrmacht durante la Seconda guerra mondiale sono oltre 30mila; e alcune migliaia anche in Italia (su un milione di soldati impegnati).

Per lo più essi appartengono alle nazionalità non germaniche reclutate con l’occupazione, ma ci sono anche tedeschi di nascita. Il fenomeno riguarda tutta l’Italia del centro-nord; e ha momenti di particolare intensità nell’estate 1944 e nella primavera 1945, quando cioè le sorti della guerra volgono al peggio.

Uno tra i filoni più fecondi della ricerca storica sulla Resistenza è quello che evidenzia la dimensione transnazionale della lotta. Dagli anni Settanta si è studiata la presenza di partigiani sovietici in Italia; più di recente si è evidenziato il ruolo degli ex prigionieri alleati e jugoslavi. Ancora poco indagata è invece la presenza di disertori tedeschi, nonostante già nel 1960 Roberto Battaglia, il primo grande storico della Resistenza italiana, avesse evidenziato il rilievo di questo fenomeno. Le fonti in effetti sono poche e frammentate: molti di loro non hanno mai richiesto il riconoscimento come partigiani. E, come evidenziato da Filippo Focardi, ha pesato molto la tendenza a demonizzare il “cattivo tedesco” come forma di autoassoluzione del “bravo italiano”.

RIABILITARE I DISERTORI

Qualcosa è cambiato con gli anni Novanta: in Germania si è avviato un faticoso ma deciso processo di riabilitazione dei disertori; in Italia Una guerra civile di Claudio Pavone e Il disperso di Marburg di Nuto Revelli hanno mostrato che era possibile anche un’altra immagine dell’occupante. Nel nuovo millennio si sono quindi avviate alcune ricerche locali, come quella pionieristica di Marco Minardi su Parma; e oggi, grazie alla tesi di dottorato di Francesco Corniani, basata sulle fonti militari tedesche, abbiamo un quadro complessivo del fenomeno. I disertori della Wehrmacht durante la Seconda guerra mondiale sono oltre 30mila; e alcune migliaia anche in Italia (su un milione di soldati impegnati). Il fenomeno è quantitativamente abbastanza ridotto, anche a causa del pesante indottrinamento subìto dai tedeschi e del timore per la disciplina e la giustizia militare. Ma a maggior ragione sono significativi i casi di coloro che decidono di abbandonare la divisa o addirittura di passare al nemico.

Per lo più essi appartengono alle nazionalità non germaniche reclutate con l’occupazione (come nel caso dei cecoslovacchi dell’Oltrepò pavese), ma ci sono anche tedeschi di nascita. Il fenomeno riguarda tutta l’Italia del centro-nord; e ha momenti di particolare intensità nell’estate 1944 e nella primavera 1945, quando cioè le sorti della guerra volgono al peggio.

OLTRE IL FRONTE

Le motivazioni appaiono comunque molto diverse: all’appartenenza etnica e al tentativo di smarcarsi dal Reich al crepuscolo si associano in molti casi posizioni ideologiche antinaziste già latenti (come nel caso del pastore confessante Werner Goll nel genovese) o maturate a seguito della condotta di guerra (come per Heinz Brauwers a Torino); la stanchezza e la disperazione per le violenze subìte e commesse; in molti casi anche motivi personali, come l’incontro con una donna o un amico italiano; per non parlare degli opportunismi e delle contingenze.

Questa scelta, spesso sofferta e comunque rischiosa, può essere avvenuta con varie modalità: lo sbandamento, la resa, il passaggio deliberato del fronte. E porta a conseguenze diverse: molti disertori si consegnano al nemico, altri si nascondono, alcuni tentano di unirsi alle bande partigiane, incontrando non poca diffidenza, soprattutto se ufficiali.

Nelle testimonianze dei resistenti italiani non è raro imbattersi in riferimenti a disertori tedeschi che si uniscono alle loro formazioni. Molto spesso non rimane di loro che il nome di battaglia; ma in alcuni casi assumono un ruolo più rilevante, lasciando anche una documentazione più ricca. Ci sono infatti disertori che ottengono ruoli di comando e muoiono in combattimento, come Rudolf Jacobs in Lunigiana; altri ancora vittime di strage, come Günter Frielingsdorff, l’unico sopravvissuto al massacro di Maiano Lavacchio, nel grossetano. E in alcuni territori si costituiscono veri e propri distaccamenti di disertori: come il Bataillon Freies Deutschland in Carnia; o la banda di Karl Gufler in Val Passiria.

Spesso i corpi dei disertori caduti, come quello di Jakob Hoch nel piacentino, vengono seppelliti nei cimiteri civili italiani e non in quelli militari tedeschi; anche se poi negli anni Sessanta sono trasferiti nei grandi sacrari come la Futa o Costermano.

RESTARE O TORNARE

Tra quelli che sopravvivono al conflitto, alcuni decidono di rimanere in Italia, dove costruiscono una famiglia e trovano un lavoro. Altri tornano in patria, scontrandosi, soprattutto nella Germania Ovest, con l’ostilità delle comunità di origine e contro la severità della giustizia militare. All’Est alcuni come Willi Sitte o Walter Fischer diventano artisti di rilievo. Interessante anche il dibattito sulla diserzione tra gli intellettuali, ben espresso dalle polemiche di Winfried Georg Sebald su Alfred Andersch.

Poca è in generale la voglia di raccontare dei disertori; e in molti casi solo i figli hanno ricostruito la loro vicenda. Ora anche la storiografia comincia ad accorgersi di loro: come esponenti, a modo loro, della opposizione antinazista tedesca (come emerge nel recente volume curato da Federico Trocini, con un saggio sul tema di Anna Chiarloni); ma anche come membri della Resistenza italiana.

E con loro non vanno dimenticati i civili tedeschi coinvolti nella lotta di liberazione (come Heinz Riedt, il traduttore di Primo Levi); e i militari che non disertano, ma aiutano e proteggono i partigiani (come Hans Schmidt e i cosiddetti “cinque di Albinea”, scoperti e uccisi nell’agosto 1944).

IL LIBRO

Alcune di queste storie trovano ora voce nel volume Partigiani della Wehrmacht, edito da Le piccole pagine, curato da chi scrive e da Iara Meloni, che offre un quadro di sintesi e tredici storie di diserzione individuale o collettiva tra Lazio e Alto Adige.

Un fenomeno dunque numericamente limitato, ma variegato e significativo dal punto di vista civile. All’epoca la presenza di partigiani provenienti dal Reich ha consentito agli italiani di capire che non tutti i tedeschi erano nemici. Oggi queste storie possono aiutare il confronto e l’incrocio delle memorie pubbliche nazionali, superando l’ approccio sovranista e la deriva vittimaria, nell’auspicio di un’Europa sempre più aperta e consapevole.

Ma il fenomeno ha anche un valore simbolico più grande: questi uomini hanno dimostrato che, anche nelle situazioni più drammatiche, è sempre possibile dire “no” alla violenza in nome di valori universali. Anche per questo meritano il nostro ricordo.

MIRCO CARRATTIERI, storico. Nato a Reggio Emilia nel 1974, dottore di ricerca in storia contemporanea presso l'Università di Bologna, collabora con l'Università di Modena e Reggio Emilia. È stato borsista della Fondazione Salvatorelli di Marsciano, della Fondazione Gorrieri di Modena, della Fondazione Basso di Roma. È direttore generale dell'istituto nazionale Ferruccio Parri.

Contro i fascismi. Il 25 aprile dovrebbe essere di tutti, ma c’è chi pretende che resti una festa di parte. Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 20 Aprile 2022.

Viva la Liberazione dal nazifascismo, ma è diventata una data su cui gli italiani continuano a dividersi.

Il 25 aprile del 1945 partì l’appello per l’insurrezione armata della città di Milano, sede del comando partigiano. Per questo motivo quella giornata fu scelta dal Comitato di Liberazione Nazionale come Festa della Liberazione.

Questa Festa è, per sua natura, divisiva. Del resto, anche in Francia il giorno della vittoria alleata in Europa nella Seconda Guerra Mondiale o quello della liberazione di Parigi non hanno lo stesso valore unificante del 14 luglio 1789, quando venne presa la Bastiglia. Così negli Usa si festeggia il 4 luglio (la proclamazione dell’Indipendenza nel 1776) e non il 9 aprile, quando, nel 1865, si concluse, con la resa della Confederazione, la Guerra di Secessione, l’evento da cui ri-nacque la nazione americana. Anzi, per superare la memoria di quel conflitto (in cui morirono più americani che in tutte le altre guerre) è dovuto trascorrere ben più di un secolo, fino agli squallidi conati della cancel culture di giudicare, oggi per allora, la storia di una nazione.

In Italia, fin dall’immediato dopoguerra, è sempre stata ragguardevole sul piano elettorale e attiva su quello politico, una forza “nostalgica”, che rifiutava di riconoscersi nella nuova Italia nata dalla Resistenza. Ma tanta acqua è passata sotto i ponti. L’Italia di oggi e quella di domani non devono rivedere un giudizio storico, ma neppure coltivare, in vitro, l’odio di quei tempi. È venuto il momento di nutrire a tanti decenni di distanza un sentimento di commiserazione per tutti coloro che persero la vita combattendo, sia dalla parte giusta sia da quella sbagliata. Anzi fare dell’antifascismo un sentimento costitutivo e comune nell’Italia repubblicana e democratica sarebbe la più bella vittoria per coloro che combatterono per la conquista di questi obiettivi. E che costituirono un ordinamento democratico anche per gli sconfitti.

Da troppo tempo, invece, il 25 aprile è divenuta la Festa del settarismo, in cui si manifesta una vera e propria occupazione da parte di associazioni che rivendicano un diritto esclusivo non solo sulle celebrazioni, ma anche su coloro ai quali è riconosciuta la possibilità di prendervi parte. Il presidente dell’ANPI, Gianfranco Pagliarulo (peraltro nato nel 1949 quando la guerra era terminata da alcuni anni), in occasione della conferenza stampa per l’illustrazione delle iniziative della ricorrenza, ha ritenuto inopportuna la presenza di bandiere della Nato, in quanto organizzazione militare (nelle settimane scorse erano venute da parte di quell’associazione richieste di scioglimento dell’Alleanza atlantica).

Ritenendosi custode esclusiva nella Resistenza, l’Anpi non è d’accordo di attribuire a quella Ucraina i carati di quella italiana. Spesso mi sono chiesto negli ultimi anni che senso abbia, a tanti decenni di distanza, incattivirsi in un atteggiamento esclusivo e discriminante nei confronti di quanti sono ritenuti antifascisti «del giorno dopo» (visto peraltro che quelli «di un giorno prima» sono quasi tutti morti). E a che cosa serva un’associazione patriottica divenuta un rifugio di una sinistra radicale, che non ha mai superato il trauma del 1989.

Il risultato è che l’Italia non ha una festività nazionale in cui si riconoscono tutti i cittadini; perché taluni non sono legittimati a considerare propria quella ricorrenza, in nome di una sorta di “peccato originale” inestinguibile. Ecco perché, il 25 aprile è tuttora una Festa divisiva, volutamente di parte, dove si continua a respingere la memoria di quelli che combatterono sul fronte sbagliato e ad accusare di revisionismo chi ha cercato di approfondire la realtà del quegli anni. Basti osservare l’ostracismo subìto da un uomo di sinistra come Giampaolo Pansa, quando volle riequilibrare i sentimenti di pietas dovuti ad ogni essere umano caduto in battaglia o rimasto vittima degli orrori della guerra civile.

·        Fondi Europei: il tafazzismo italiano.

Eugenio Occorsio per “la Repubblica – Affari & Finanza” il 26 luglio 2022.

Suona stridente e un po' frustrante che proprio nel momento in cui l'Italia rinuncia al suo leader più prestigioso, Mario Draghi, e che la Bce rialzando i tassi rilancia le paure per la solvibilità del Paese, l'ufficio studi della Bank of America renda noto un dato: negli ultimi due anni e mezzo, l'era del Covid, il nostro è il Paese che ha ricevuto più aiuti (in percentuale sul Pil) per sostenere e rilanciare l'economia. 

La fiducia che non c'è più a Palazzo Chigi ed è diventata periclitante sui mercati, c'è (finora) nelle sedi istituzionali. Fra ristori del governo, impegni internazionali, Pnrr, stanziamenti della Bce, sul nostro Paese sono piovuti 1.379,3 miliardi, pari al 68,9% del Pil 2021, ripartiti fra 972,6 miliardi di stimoli statali ed europei, e 406,7 di stimoli monetari, cioè quantitative easing, Pepp (il rafforzamento del Qe varato nel 2020) e Tltro per le banche.

La Germania, che in numeri assoluti supera i 2.500 miliardi, è stata aiutata per il 65,9%, la Francia per il 48,5, gli Stati Uniti - dove Biden è accusato di aver riempito di soldi i cittadini che sono corsi a spenderli causando l'inflazione - per il 52,1%: 11mila miliardi su 20mila di Pil (5mila miliardi solo di "helicopter money"). I calcoli su 180 Paesi la Bofa li ha pubblicati sotto un titolo provocatorio: "Time for lemonade". 

Come dire, è arrivata l'estate ma attenti a rinfrescarvi con una bevanda amara: la maggior parte dei fondi andranno restituiti pur con scadenze e condizioni a volte (non sempre) agevolate per l'emergenza. Un memento che fa tremare le vene ai polsi all'Italia da giovedì scorso senza governo e con lo spread a livelli di guardia.

Tanto che serpeggia la paura, ma è solo un'ipotesi, che se la crisi di governo comporterà ritardi negli adempimenti, i fondi del Pnrr potrebbero essere meno dei 200 miliardi previsti fino al 2025 e già contabilizzati per intero da Bofa. 

Il totale mondiale degli interventi, calcola la banca Usa, è stato di 23mila miliardi nel 2020, 9mila nel 2021 e 2mila finora nel 2022. Come sempre, gli aiuti sono stati irrimediabilmente scarsi nei Paesi più poveri ma non meno penalizzati dalla pandemia: l'India ha avuto il 16%, il Brasile il 12, il Mozambico il 5, il Guatemala l'1,8, la stessa Russia il 9%, l'Ucraina zero fino al conflitto (ora è stato approvato da G7 e Ue un primo pacchetto di aiuti da 12,7 miliardi più la ristrutturazione del debito, e inoltre c'è l'accordo dei creditori per una moratoria generale sino a fine 2023).

Insomma, l'Italia ha avuto più di tutti: basterà per il salto di qualità o visto il riaprirsi del travaglio politico ricominceremo con la famigerata crescita di "zero virgola"? L'Ue prevede per il 2022 un +2,9% ma l'anno prossimo già si scende allo 0,9. «Nel 2023 - spiega Lorenzo Codogno della London School of Economics - dispiegheranno i loro effetti le crisi energetica, alimentare e delle materie prime che si stanno aggravando per la guerra». 

Oltre all'incertezza politica, «le famiglie faranno i conti con il crollato potere d'acquisto, le imprese con il calo della domanda (gli ultimi indici Pmi europei sulla fiducia degli addetti agli acquisti non sono buoni, ndr) e il boom del turismo non ce la farà a sostenere l'economia».

Sui singoli settori che vanno bene ma non bastano insiste Carlo Cottarelli, direttore dell'Osservatorio sui conti pubblici: «Prendiamo l'edilizia: vive un momento magico grazie al superbonus del 110%, che è costato più di 30 miliardi (inseriti nei conteggi di Bofa, ndr) ma non vedo come possa garantire una crescita convincente né contribuire ad aumentare la capacità produttiva ». 

È stato saggio, dice Cottarelli, utilizzare ingenti fondi per colmare la caduta, «una grande manovra difensiva», ma l'impegno finanziario «doveva essere riassorbito dalle entrate fiscali derivanti dalla crescita: se questa è asfittica la scommessa è persa». L'incognita è la recessione: «Non sappiamo se e quando colpirà», dice Lorenzo Bini Smaghi, ex membro del board Bce.

«Se la crisi sarà dura, una parte delle ingenti garanzie pubbliche concesse (fra Cdp, Sace e Mef si superano i 450 miliardi nelle stime Bofa, ndr) si trasformeranno non in Npl bancari come in passato bensì in perdite dello Stato, con dimensioni tali da far tremare i conti». Eppure il sistema degli aiuti analizzato dalla Bofa stava funzionando. Cita un esempio l'economista Innocenzo Cipolletta: «La cassa integrazione ha pesato sulle casse statali ma ha salvato le compagnie aeroportuali dal finire come le consorelle europee, che avevano scelto i licenziamenti e ora devono riassumere i dipendenti mancanti, operazione non semplice: così gli aeroporti italiani sono esenti dal caos europeo». 

La sfida, ora che senza più Draghi bisogna cominciare a fare sul serio con le riforme (finora la Commissione si è fidata ma ha incassato solo titoli, linee guida e leggi delega), è mantenere i tempi del Pnrr. «Solo con le riforme può esserci una svolta nella crescita», dice Gianmarco Ottaviano, economista della Bocconi.

«Sugli investimenti pesano la cronica incapacità progettuale, dai Comuni alle operazioni di respiro come il miglioramento di scuola e sanità, due priorità del Pnrr che necessitano di una visione ampia e una programmazione per la quale serve un governo stabile ». C'è da sperare che la Bofa non debba rifare i calcoli.

Articolo del “Financial Times” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 26 luglio 2022.  

Le elezioni mettono in dubbio la capacità di Roma di rispettare il calendario delle riforme

I governi e gli investitori di tutta Europa guardano con nervosismo all'Italia, mentre cercano di capire cosa significherà il crollo del governo di Mario Draghi per il fondo di ripresa Covid da 800 miliardi di euro dell'UE, di cui Roma è il principale beneficiario. Scrive il Financial Times. 

Il fondo è il più ambizioso progetto economico comune dell'UE dalla nascita dell'euro, che riunisce gli Stati membri per garantire l'emissione di debito comune da parte della Commissione europea su una scala senza precedenti. Solo all'Italia sono stati assegnati 200 miliardi di euro di fondi UE, considerati vitali per rilanciare l'economia del Paese, cronicamente sottotono. 

Come gli altri Paesi, l'Italia ha concordato un ambizioso calendario di tappe di riforma e obiettivi di investimento per sbloccare le tranche di fondi UE. Ma una campagna elettorale prematura mette in dubbio la capacità del Paese di rispettare le scadenze di quest'anno - una preoccupazione riconosciuta dal Presidente Sergio Mattarella quando ha sciolto il Parlamento la scorsa settimana. 

"Ci sono scadenze cruciali", ha avvertito Mattarella. "Mi auguro che, nonostante i toni abituali di una campagna elettorale, tutti diano il loro contributo costruttivo". 

Gli analisti di Goldman Sachs hanno dichiarato in una nota di lunedì di vedere "significativi venti contrari" per il debito italiano a causa dell'aumento dell'incertezza politica e dei potenziali ritardi nell'attuazione degli investimenti e delle riforme del Fondo di ripresa. 

Gli impegni assunti dall'Italia in cambio dei fondi comprendono la riduzione della burocrazia, il rafforzamento della concorrenza in settori che vanno dall'energia ai trasporti e il potenziamento della pubblica amministrazione. Sono stati concepiti per aumentare le prospettive di crescita a lungo termine e garantire la sostenibilità del debito pubblico, che oggi si aggira intorno al 150% del prodotto interno lordo.

Sebbene Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, abbia assicurato il sostegno trasversale al piano alla guida del suo governo di unità, si teme che l'attuazione vacilli senza di lui, mettendo a rischio lo slancio delle riforme e la disciplina fiscale. 

"Draghi ha avuto un ruolo essenziale", ha dichiarato Ludovico Sapio, economista europeo della banca Barclays. "Con la sua partenza prematura, ci troviamo di fronte ad acque non collaudate. Stiamo passando da uno scenario con un primo ministro con un'ampia maggioranza parlamentare - e una forte dedizione al piano - a un nuovo scenario completamente sconosciuto." 

Giorgia Meloni, leader dell'estrema destra di Fratelli d'Italia, che secondo i sondaggi potrebbe essere il più grande partito in parlamento dopo le elezioni di settembre, ha dichiarato nel fine settimana al quotidiano La Stampa le sue preoccupazioni per il fatto che i fondi per la ripresa non sono stati utilizzati in aree in cui "l'Italia è più competitiva di altri".

Tuttavia, qualsiasi interruzione o deviazione significativa dal programma di riforme e di investimenti, definito in un allegato di 664 pagine all'accordo di Roma con la Commissione, metterebbe a rischio il pieno accesso dell'Italia ai fondi. 

La fragile economia italiana non sarebbe l'unica vittima. Sebbene il fondo sia stato concordato come misura una tantum in risposta alla crisi economica causata dalla pandemia, i sostenitori di una maggiore integrazione fiscale dell'UE lo vedono come un potenziale precedente per ulteriori azioni congiunte. Se lo schema dovesse naufragare in Italia, aumenterebbe lo scetticismo nelle capitali del Nord Europa, che sono profondamente diffidenti nei confronti dell'emissione congiunta di debito. 

"È in gioco l'intera idea di un prestito congiunto da parte dell'UE", ha dichiarato Luigi Scazzieri, senior fellow presso il think tank Center for European Reform. "Il successo o il fallimento del fondo dipende dal fatto che sia visto come un successo in Italia o come uno spreco". 

Finora l'Italia ha ricevuto 46 miliardi di euro, composti da un anticipo di 25 miliardi di euro e da una prima tranche di 21 miliardi di euro a seguito delle riforme iniziali dello scorso anno. Roma ha presentato la seconda richiesta di pagamento di 21 miliardi di euro, attualmente in fase di valutazione da parte della Commissione. 

Ma con le elezioni fissate per il 25 settembre, ci si chiede se l'Italia sia in grado di rispettare gli obiettivi di riforma fissati per il 31 dicembre per ricevere altri 19 miliardi di euro, pari a circa l'1% del PIL. Le misure necessarie includono l'adozione di una nuova legge sulla concorrenza, una riforma fiscale e una revisione delle procedure giudiziarie per accelerare i processi che sono i più lenti d'Europa. 

Sapio di Barclays ha dichiarato: "Si tratta di un programma legislativo impegnativo in tempi normali, figuriamoci quando ci sono le elezioni".

Alcuni analisti italiani affermano che la nuova amministrazione ha un forte incentivo a rispettare il piano o ad affrontare la rabbia dell'opinione pubblica per non aver garantito i fondi. 

"Il percorso è stato chiaramente definito", ha detto Luciano Monti, professore di politica all'Università Luiss di Roma. "Abbiamo firmato un contratto... e riceveremo un sacco di soldi: 20 miliardi di euro ogni semestre. È una buona carota". 

La scorsa settimana la BCE ha alzato ulteriormente la posta in gioco per l'Italia, affermando che l'adesione ai piani di risanamento dell'UE sarebbe stata presa in considerazione per valutare se il debito di un Paese fosse ammissibile al suo nuovo programma di acquisto di obbligazioni. Questo strumento di protezione della trasmissione, o TPI, è stato concepito per contrastare aumenti ingiustificati dei costi di prestito nazionali.

Il divario di rendimento tra il debito decennale italiano e quello tedesco, una misura chiave del rischio, è aumentato a circa 2,3 punti percentuali da quando il governo di Draghi ha iniziato a vacillare. Il cosiddetto spread ha registrato circa 1,85 punti percentuali all'inizio di luglio. 

Michele Geraci, ex sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico italiano, ha affermato che un eventuale governo di coalizione di centro-destra - il risultato più probabile in base ai sondaggi attuali - rimarrebbe impegnato nel piano e potrebbe persino cercare di migliorarlo. "Le riforme e un sistema economico più efficiente sono nel DNA del centro-destra", ha affermato. "Il piano di ripresa potrebbe essere addirittura migliorato".

Tuttavia, Bruxelles ha scoraggiato gli Stati membri dal tentare di rinegoziare e mantiene la discrezione su come rispondere a tali richieste o al mancato raggiungimento degli obiettivi. 

Nathalie Tocci, direttrice del think tank Institute of International Affairs, ha affermato che l'uscita di Draghi ha privato l'Italia di un difensore efficace a Bruxelles, il che potrebbe influenzare il modo in cui la Commissione considera gli sviluppi a Roma. 

L'amministrazione uscente è stata "la prima volta che abbiamo avuto un governo con la credibilità, le capacità di leadership e la reputazione per ottenere buoni accordi per l'Italia all'interno dell'UE", ha affermato. 

"Visto l'andamento dell'economia, sarebbe stato più difficile navigare in queste acque. Per navigare bene, bisogna saper giocare la partita. Chiunque verrà dopo, non lo sa". 

(askanews il 7 febbraio 2022) - "Sul versante delle irregolarità e frodi a danno del bilancio UE, il numero delle segnalazioni e degli importi irregolari - soprattutto nel settore dei Fondi strutturali - passa dai 22 casi del primo semestre ai 155 casi dell'intero anno" nel 2020. 

E' quanto emerge dalla "Relazione annuale sui rapporti finanziari tra l'Italia e l'Unione europea e l'utilizzazione dei fondi europei" per il 2020, approvata dalla Sezione di controllo per gli affari comunitari e internazionali della Corte dei conti.

"Tale fenomeno - si legge nel rapporto - pesa sulla Regione Calabria, la quale da una segnalazione nel primo semestre 2020 è passata a 91 casi complessi per l'intero anno e riguardanti soprattutto le irregolarità riferibili alla Programmazione 2014-2020". 

In aumento anche la spesa irregolare, prosegUE la Corte, che passa da 30,9 a 73,9 milioni di euro, "quasi tutti ascrivibili alla categoria delle c.d. spese de-certificate, non incidenti cioè sul bilancio UE ma sui bilanci nazionale e/o regionale: di qui la necessità di incrementare sforzi nel recupero delle somme da parte delle Autorità nazionali". 

Tra i settori maggiormente interessati la Corte indica quello degli appalti.

UE: C.CONTI,IN 2020 ITALIA VERSATO 18,2MLD,RICEVUTI 11,6MLD

(ANSA il 7 febbraio 2022) - Nel 2020 l'Italia ha partecipato al bilancio della Ue con versamenti a titolo di risorse proprie per 18,2 miliardi di euro (+1,4 miliardi sul 2019), uno dei più alti flussi degli ultimi sette anni. 

Sul fronte delle assegnazioni, il bilancio Ue attribuisce per il 2020 11,66 miliardi all'Italia, quarto Paese per ammontare di risorse accreditate . Emerge dalla 'Relazione annuale sui rapporti finanziari tra l'Italia e l'Ue e l'utilizzazione dei fondi europei' per il 2020,della Corte dei conti che sottolinea come con l'"eccezionale" portata del bilancio 2021-2027 l'Italia beneficerà in quota maggioritaria delle risorse del Recovery plan.

In linea con le risultanze dell'anno precedente, l'Italia rappresenta il quarto Paese per ammontare di risorse accreditate dall'Ue nel 2020, dopo Polonia, Francia e Germania. 

La magistratura contabile spiega come il 2020 sia da considerare un anno di transizione: i numerosi strumenti di sostegno Ue alle economie degli Stati membri e l'eccezionale portata del bilancio pluriennale 2021-2027, invertiranno probabilmente la tradizionale posizione di contributore netto dell'Italia, che beneficerà in quota maggioritaria delle risorse del Recovery plan, oltreché dei consueti Fondi di investimento e strutturali europei (SIE), come già si può notare dalle stime effettuate sui flussi del 2021. 

Tale inversione - spiega la Corte dei conti - andrà, pertanto, valutata all'esito del programma di investimento legato ai Piani nazionali di ripresa e resilienza e, più in generale, alla realizzazione degli strumenti espansivi presenti nel Quadro finanziario pluriennale vigente fino al 2027, anche in virtù del mutato paradigma degli interventi europei, orientati a visioni qualitative fondate sul grado di "realizzazione dell'obiettivo atteso dall'investimento", più che su quello della "realizzazione dell'investimento" in sé. 

Gli eventi pandemici hanno indotto le istituzioni Ue a ripensare le regole di spesa della politica di coesione, con strumenti più agili e flessibili per l'utilizzo dei Fondi strutturali e di investimento europei (SIE), anche veicolando le risorse disponibili verso i settori a maggior necessità di sostegno finanziario, come sanità ed imprese (soprattutto PMI).

Le analisi della Corte mostrano un quadro generale della programmazione in miglioramento nella parte attuativa. Va sottolineato come l'impostazione del Next Generation EU presenti un collegamento con le politiche supportate dai Fondi SIE. 

Cauto ottimismo deriva anche dal raggiungimento, a fine 2021, del target di spesa previsto da tutti i 51 Programmi operativi cofinanziati dal Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) e dal Fondo sociale europeo (FSE) del ciclo di programmazione 2014-2020, in considerazione dei dati che, al 31 ottobre 2021, mostrano percentuali realizzative del 72,5% per gli impegni e del 47,7% per i pagamenti (va considerato l'incremento di circa 11,3 miliardi del programmato, per le risorse aggiuntive derivanti dal REACT-EU).

Soddisfacente - evidenzia la Corte dei conti -, per l'obiettivo "Cooperazione territoriale europea", il livello complessivo degli impegni, assestatosi al 98,55% del totale programmato al 31 giugno 2021; peraltro con un livello complessivo dei pagamenti alla stessa data pari al 38%. 

Sul fronte delle politiche agricole, l'impatto pandemico si è rivelato ingente negli ambiti della destinazione dei sussidi, del tasso d'avanzamento della spesa e nell'esecuzione dei controlli. In relazione all'attuazione finanziaria del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) al 31 agosto 2021, risultano spese complessive dichiarate, da inizio programmazione, pari a 13.266 milioni di euro (con quota comunitaria pari a 6.569 milioni di euro).

L'avanzamento della spesa ha raggiunto il 63,44% della dotazione finanziaria complessiva. Si conferma "non positivo" l'andamento dell'uso dei fondi destinati a pesca e acquacoltura, con criticità in tutte le fasi. Sul versante delle irregolarità e frodi a danno del bilancio UEe il numero delle segnalazioni e degli importi irregolari - soprattutto nel settore dei Fondi strutturali - passa dai 22 casi del primo semestre ai 155 casi dell'intero anno. 

In aumento anche la spesa irregolare, che passa da 30,9 a 73,9 milioni. Tra i settori maggiormente interessati la Corte indica quello degli appalti.

·        Gli Arraffoni.

Massimo Malpica per “il Giornale” il 12 dicembre 2022.

Da Roma a Palermo, sola andata, 509,53 euro. Non proprio una tariffa vantaggiosa quella offerta da Ita per l'unico posto disponibile sul volo delle 22 di ieri, domenica. Va appena meglio con Ryanair, che offre due posti disponibili a un prezzo, con bagaglio in stiva, di 419,63 euro. Le polemiche per il caro-voli impazzano, con il governatore siciliano Renato Schifani che denuncia il cartello di fatto tra le sole compagnie che collegano Roma alla Sicilia - Ita e Ryanair, appunto - ma nel frattempo le tariffe dei biglietti restano stellari, e nonostante questo i posti scarseggiano.

Ne ha fatto le spese lo stesso Schifani, che dopodomani sarà costretto a imbarcarsi sul traghetto a Napoli perché la nostra compagnia di bandiera, di proprietà del Mef, lo ha lasciato a terra. E se n'è accorto anche l'ex sindaco di Catania Enzo Bianco, che ha postato un preventivo per due voli andata e ritorno da Roma: uno, destinazione Palermo, da 1.005 euro, l'altro, diretto a New York, da 885 euro. Possibile che per volare al di là dell'Oceano si spendano 120 euro in meno che per varcare lo stretto di Messina? Sembra uno spot - piuttosto grottesco a dire il vero - per il famoso ponte, ma secondo l'ex presidente del Senato, invece, è solo una distorsione del mercato. 

«La giunta di governo da me riunita in via d'urgenza - spiega al Giornale il governatore dell'Isola - ha deliberato di affidare a uno studio esperto del settore un ricorso all'antitrust che verrà presentato a giorni, dove si denuncia il cartello tra Ita e Ryanair, gli unici vettori che collegano la Sicilia a Roma, e che in quanto tali, facendo cartello, fanno una politica al rialzo, sostanzialmente non facendosi concorrenza». 

Insomma, i prezzi sono impazziti, e costringere un siciliano che deve andare a Roma e tornare a casa a togliersi di tasca mille euro se sceglie di viaggia in aereo, «ammesso che trovi posto -, prosegue Schifani - è un fatto senza precedenti e di una gravità inaudita». Un fenomeno inquietante sul quale, insiste il presidente della giunta regionale siciliana, «mi aspetto un'azione incisiva da parte del governo, posto che Ita è un'azienda a capitale pubblico».

«Non dico che Ita deve lavorare in perdita - sospira Schifani - ma nemmeno applicare patti di cartello con compagnie private, e danneggiare in questo modo la Sicilia sotto il profilo economico, turistico e sociale». Sul punto, assicura il governatore, «andrò avanti non facendo sconti a nessuno». E mentre il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, plaude all'iniziativa della Giunta «per vigilare sulla concorrenza dei voli per la Sicilia e per mettere un freno agli altissimi prezzi dei biglietti aerei», Schifani non vede alcun nesso tra la situazione attuale e la decisione del suo predecessore, Nello Musumeci, che in epoca di Covid aveva chiesto e ottenuto una riduzione dei voli da e per la Sicilia.

«Ora il Covid è finito - taglia corto Schifani - eppure Ita ha ridotto i voli per la Sicilia, inspiegabilmente». Ancora più inspiegabilmente, conclude il presidente, perché «lo ha fatto proprio nei mesi in cui è entrato in vigore il nuovo comma dell'articolo 119 della costituzione che sancisce il principio della tutela della insularità. Quindi da un lato abbiamo un principio costituzionale forte che tutela l'insularità, dall'altro lato una compagnia a capitale pubblico che strabicamente danneggia l'insularità».

Autonomia, la guerra dei soldi. Ivano Tolettini su L’Identità il 12 Dicembre 2022

Federare vuol dire unire non spaccare. A cominciare dalla distribuzione dei soldi. La Costituzione prescrive che per la devoluzione delle teoriche ventitré materie devono essere stabiliti nei fatti i “Livelli essenziali di prestazione”, quelli che conosciamo con l’acronimo Lep. Finora mai fissati. Prima dei costi e fabbisogni standard i Lep sono la linea del Piave senza i quali l’autonomia non potrebbe decollare. Del resto ancora nella legge delega 42 del 2009 in materia di federalismo fiscale, quando Calderoli nell’ultimo governo Berlusconi era ministro per la Semplificazione, mancava il riferimento ai Lep, e più in generale un coordinamento tra i decreti attuativi per disciplinare una materia così complessa. E si capisce bene il motivo per cui tutto era naufragato e tredici anni dopo siamo ancora alle prese con questo passaggio chiave. Se la premier Giorgia Meloni anche in questi giorni, ha spiegato che “l’autonomia si farà, ma senza fughe in avanti”, lasciando spazio a qualsiasi interpretazione pro o contro questo passaggio che da qualunque parte lo si guardi sarà epocale per uno Stato nato centralista, il ministro per gli Affari regionali ha chiarito che entro il 2023 dovranno essere comunque fissati i Lep, chei rappresentano lo scoglio tra il far naufragare o meno la riforma per la quale cinque anno fa Zaia e Fontana hanno chiamato a esprimere (con esito bulgaro), la maggior parte di veneti e lombardi. I quali sentendosi poi “traditi” lo scorso settembre, pur rimanendo nel perimetro del centrodestra, nell’urna hanno votato in massa Fratelli di Italia girando le spalle alla Lega che adesso vuole fare in fretta per recuperare il tempo perduto. Già, ma a quale prezzo? Sul punto è intervenuto anche il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che pur ribadendo il proprio sì alle autonomie differenziate, esse non devono avere intenti destabilizzatori. Tutto il Paese deve remare dalla stessa parte nel “rispetto e attuazione del dettato costituzionale”. Marcando una chiara sintonia con la presidente del Consiglio. Per Calderoli è chiaro che se non fosse rispettato il termine di fine 2023 per l’individuazione dei Lep, egli vorrebbe ugualmente procedere con i trasferimenti alle Regioni in base alla spesa storica per accelerare comunque sulle autonomie locali. E nel Pnrr si potrebbero trovare le risorse per far progredire il decentramento burocratico nella gestione della spesa pubblica. È anche evidente che la successiva prova sarebbe quello stabilire in via esclusiva i principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, disciplinando l’istituzione e il funzionamento del “Fondo perequativo per i territori” con minore capacità fiscale per abitante, nonché le risorse aggiuntive e l’effettuazione degli interventi speciali per cercare di favorire il superamento di quel divario che si è ancora più ampliato tra Nord e Sud. “Questa è la vera scommessa – ripete la premier – per far crescere l’Italia senza dimenticare chi meno ha”. È il programma per federare il Paese. Ce la farà?

Francesco Rigatelli per “La Stampa” il 6 dicembre 2022.

«Non ci si può dimenticare del ceto medio, perché è la trave portante del Paese. Negli ultimi 50 anni tutti quelli che non ne facevano parte sono entrati in questa classe sociale, e da lì non si sono mossi. Impossibile ignorarli». Giuseppe De Rita, 90 anni, fondatore del Centro studi investimenti sociali (Censis) e gran divulgatore della sociologia italiana, commenta così La politica post-populista che ha tradito il ceto medio, come titolava l'editoriale di domenica del direttore Massimo Giannini. 

Cosa sta succedendo ai travet pubblici e privati ignorati dalla destra, impegnata a onorare debiti corporativi, e dalla sinistra, concentrata sulle sue pratiche di autodistruzione?

«Dal contadino meridionale diventato bidello fino all'insegnante di liceo che ha scoperto di essere solo un impiegato c'è stato un ampliamento e una normalizzazione del ceto medio. Negli Anni 70 tranne un 5 per cento di ricchissimi e un 5 di poverissimi il resto del Paese ne faceva parte. Non è cambiato molto da allora, ma la dinamica è mutata: una volta tutti finivano nel ceto medio, poi quel rigonfiamento degli Anni 70 e 80 non è progredito. E da allora può solo difendersi o regredire. Avrebbe potuto andare avanti, ma negli ultimi quarant' anni non ha fatto un passo».

Cosa gli è mancato?

«L'orgoglio. Non ha trovato il gusto della sfida di diventare nuova borghesia assumendo un ruolo di classe. Gli è mancata un'idea di egemonia gramsciana, una visione della società e di come perseguirla». 

È rimasto piccolo borghese?

«Esatto, non è diventato borghesia. Pasolini disse che gli italiani sarebbero rimasti dei miseri piccoli borghesi, e aveva ragione». 

Chi guida la società dunque?

«Piccole minoranze e processi spontanei. Penso all'industria che esporta e produce il 30 per cento del Pil, anche se gioca più sull'estero che sull'Italia».

La vittoria di Meloni è un fatto spontaneo?

«È più il frutto di una cultura di opinione. Ha saputo rassomigliare alla società e cavalcare l'onda. Si è presentata come una donna politica ed è piaciuta, non come Letizia Moratti che si racconta come manager». 

Come mai alcuni provvedimenti del governo sfavoriscono il ceto medio?

«Il ceto medio si è formato grazie a tanti interventi di minoranza, dunque Meloni accarezza fette di società con decine di norme come si è sempre fatto. Poi è in carica da poco e non la si può accusare della mancanza di un disegno. Non ce lo avrei neppure io, e detto tra noi non lo aveva neppure Draghi, che era più bravo di tutti. Meloni, con la guerra e l'Ue che non l'aiutano, deve mettere tante pezze. Questa è l'unica logica».

Resta il fatto che il welfare pesa su 5 milioni di contribuenti.

«Una stortura che nasce negli Anni 70, quando cominciarono gli investimenti sociali per stimolare la crescita. Finanziamenti non tanto sulla società quanto sulle strutture, per esempio le scuole, privilegiando la quantità alla qualità». 

Insomma, bisogna tagliare?

«Sì, naturalmente in modo non radicale ma riconducendo il welfare alla funzione di coinvestimento sulla società e non di un contributo ideologico per diminuire i divari, compresi quelli del Sud. Allo stesso modo il fisco va riformato perché diventi una leva di sviluppo».

Conte dice che se si toglie il reddito di cittadinanza esplode una bomba sociale, è così?

«Mi faccia stare zitto, questo non è più un argomento tecnico ma di battaglia politica». 

E tecnicamente?

«Il reddito di cittadinanza non andava fatto. Bastava e basta un ampliamento del reddito minimo garantito». 

Ma la bomba sociale esiste?

«Può darsi che il reddito di cittadinanza sia una protezione per molti, ma non è lo strumento più adatto». 

L'Italia si è impoverita molto?

«I dati dimostrano che ci sono 6 milioni di persone in difficoltà. Il fenomeno esiste, ma se vuole il mio parere si esagera. È un'altra ondata di opinione. La verità è che l'Italia è stata molto più povera di adesso». 

Ci piangiamo addosso?

«È una caratteristica nazionale. E, come con Meloni, quando sorge un'ondata di opinione è difficile resisterle. Oggi il luogo comune è che ci siano tanti poveri». 

L'inflazione non la impensierisce?

«Colpirà soprattutto i dipendenti, ma sarà passeggera. Non cambierà la struttura sociale del Paese. E poi la mia generazione ha visto l'inflazione al 20 per cento, si figuri se mi preoccupo per questa». 

Come vede la situazione dei giovani?

«Assomigliano a questa società ferma, che con il sostegno di genitori e nonni non va avanti ma neppure indietro». 

Un Paese da sbloccare?

«In uno stato di latenza, per dirla con Freud, ma non è detto che sia un male».

È il catenaccio all'italiana per difendersi come nel calcio?

«Appunto, se devo dare un consiglio avendo otto figli è di aspettare che passi questo momento di incertezza senza drammatizzarlo troppo. E facendo tutti meglio il proprio mestiere». 

Una riforma costituzionale aiuterebbe a sbloccare il Paese?

«Non è determinante. Il sistema va avanti da solo e se un po' di verticalizzazione era necessaria è già stata applicata fin dai tempi della Dc, di Craxi, di Monti e di Draghi». 

Non cambiano troppi governi?

«Può darsi, ma l'Italia ha sempre risolto le sue crisi. Il Regno Unito, sistema ben più sperimentato del nostro, di recente ha fatto di peggio». 

Lo storico Luciano Canfora ha detto che non teme il governo Meloni perché la politica estera la decide la Nato, quella economica la Bce e al massimo si sfogherà sui migranti. Siamo un Paese a sovranità limitata?

«Dal 1945 avendo perso la guerra e poi con la Cortina di ferro». 

E oggi?

«In parte meno, perché non c'è più una minaccia militare. Siamo nella Nato, ma siamo anche una società moderna su cui agiscono grandi processi sociali, finanziari, tecnologici e di comunicazione. Oggi nessuno Stato è completamente indipendente». 

L'Unione europea ci conviene sempre?

«Assolutamente sì, perché è un diaframma tra l'Italia e i grandi processi mondiali. Siamo un Paese troppo piccolo per affrontarli da soli. Possiamo anche sperare di essere più indipendenti fuori dall'Ue, ma non lo saremmo». 

Cosa pensa del congresso del Pd?

«Manca un dibattito sulla società e dunque manca il partito. Non è un problema di oggi, ma della fusione a freddo originaria tra democristiani e comunisti. 

Cadono le braccia al confronto col dibattito Moro-Andreotti, in cui il primo vedeva una politica in grado di guidare la società e il secondo un partito accondiscendente che lasciasse alle persone la libertà di essere se stesse». 

Il M5S durerà?

«No, finita l'ondata del vaffa, gran trovata di Grillo che colse la stanchezza della società, restano solo difese di posizione». 

E il Terzo polo?

«È una vita che ne sento parlare e non l'ho mai visto realizzarsi».

E la Lega alle prese con la questione settentrionale?

«Questione che non è più drammatica come ai tempi di Bossi, ma esiste. Negarla era impossibile e per questo riaffiora». 

A 90 anni non si è ancora stufato di raccontare l'Italia?

«Rispondo con i versi di Continuità di Mario Luzi: "Forse quanto è possibile è accaduto, ma da te si rigenera l'attesa". Ogni volta che mi avvicino alla realtà italiana, da Torino a Napoli, quasi in una dimensione onirica, scopro qualcosa di nuovo che non immaginavo prima. Per questo voglio sempre bene a questo Paese».

"Se togli il reddito ammazzo te e tua figlia...". Minacce choc contro la Meloni. Francesco Curridori il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La campagna grillina a difesa del reddito di cittadinanza sfocia nell'odio sui social

"Ci vuole la morte di lei e sua figlia". Questo è forse il più innocuo dei tweet intimidatori che un utente di Twitter ha rivolto al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

Non sappiamo se l'uomo sia uno squilibrato oppure no, ma quel che è certo è che la causa scatenante è la riforma del reddito di cittadinanza voluta dal nuovo governo. "Attenta che ti arriva un coltello in pancia a te e tua figlia, tu togli il reddito e io uccido tua figlia SICURO", è la promessa dell'uomo. "Ricorda che mi costringi ad annientare la tua vita se tocchi il rdc ci sei? Non scherzo io mi faccio 40 di carcere almeno mangio, io ti sventro", si legge ancora in un altro tweet in cui l'uomo minaccia nuovamente la Meloni. "Veramente attenta, finiscila co sta cosa di togliere il reddito di cittadinanza senno ti ammazzo ma lo capisci? E non sarò da solo…", avverte l'utente di Twitter. "Quando poi vedi tua figlia in una pozza di sangue potrai piangere quanto vuoi", incalza l'uomo che insulta pesantemente la Meloni apostrofandola con parole del tipo "sporca putt...di m..." oppure "muori brutta tr... infame". L'uomo, probabilmente, è stato influenzato da una campagna di avvelenamento del clima politico sul tema del reddito di cittadinanza, portata avanti da Giuseppe Conte.

Il leader del M5S è tornato ad attaccare il premier anche oggi con un post su Facebook in cui criticava l'annunciata volontà del governo di modificare la Spazzacorrotti. "Uscire dal carcere e ottenere benefici penitenziari sarà ora più facile per chi viene condannato per i più gravi reati contro la Pubblica Amministrazione", ha scritto l'ex premier Conte. E ha aggiunto: "In un Paese in cui il 90% delle truffe sono collegate ad appalti, mazzette e responsabilità erariali e amministrative nella Pubblica amministrazione il centrodestra crea praterie di impunità e indossa i guanti bianchi con chi inquina le istituzioni, mentre attacca con ferocia i più deboli, le famiglie che non ce la fanno e il ceto medio". Cosa c'entra tutto questo col reddito di cittdinanza? Basta leggere la conclusione per capire che, per Conte, qualsiasi scusa è buona per difendere una norma che, a detta di una buona parte degli esperti non ha funzionato: "Questa è l'Italia alla rovescia della Meloni: via il Reddito di cittadinanza, sì all'introduzione della Corruzione ed evasione di cittadinanza".

"Vicinanza e solidarietà al premier Giorgia Meloni per le gravissime minacce di morte indirizzate via social a lei e alla sua famiglia da presunti percettori di reddito di cittadinanza. Questo episodio inqualificabile è il prodotto del clima di odio fomentato dalla narrazione falsa di chi sul disagio sociale cerca di lucrare facili consensi. Violenze e minacce non fermeranno una donna coraggiosa come lei, impegnata a risollevare l'Italia dopo anni di pessimi governi", ha dichiarato il sottosegretario all'Attuazione del programma di governo Giovanbattista Fazzolari.

"Un abbraccio a Giorgia Meloni e a sua figlia per le gravi minacce subite. Parole intrise di odio molto preoccupanti. Se qualcuno pensa di condizionare l'azione di questo governo con la violenza si sbaglia di grosso. Mi auguro una condanna trasversale verso l'accaduto", ha scritto su Twitter il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani.

"Apprendo con sconcerto delle gravissime minacce giunte via social contro il presidente Giorgia Meloni. Se c'è un limite oltre il quale nulla può essere più derubricato, oggi quel limite è stato ampiamente superato. Arrivare a intimare la morte e non escludere dalle minacce nemmeno le persone più care alla premier è agghiacciante. Ed è il frutto di un clima di tensione e di odio che va subito stroncato. Mi auguro che questo episodio faccia riflettere tutti e venga condannato con determinazione senza alcun distinguo", ha dichiarato il ministro dell'Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini.

Dai grillini agli anti-Nato: ecco chi soffia sul fuoco. Sindacati, studenti e numerose sigle (di sinistra ed estrema destra) alimentano il disagio sociale. Domenico Di Sanzo il 7 Dicembre 2022 su Il Giornale.

C'è il M5s delle piazze per il reddito di cittadinanza e c'è il Pd a mezz' aria tra riformismo e radicalismo. E poi, tra tutte le opposizioni di Giorgia Meloni, ci sono gli altri che soffiano sul fuoco del disagio sociale, tra antagonisti di destra e di sinistra, studenti annoiati e sindacati che si autodefiniscono conflittuali. Una marea di sigle, un magma di rabbia non «canalizzata» - per usare una recente espressione di Giuseppe Conte - tutti pronti a scendere in piazza sfruttando l'occasione della manovra di bilancio.Oltre ai grillini ecco gli ex grillini. A partire dall'anti-euro Gianluigi Paragone. La sua Italexit, nonostante qualche dissidio interno, negli ultimi sondaggi è tornata sopra la soglia psicologica del 3%. E lui di recente è tornato ad attaccare il governo, in particolare il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti, che «è stato ministro del governo Draghi e culturalmente è figlio di Draghi». E avanti con Alessandro Di Battista, altro ex pentastellato di lusso. Che proprio ieri in un video su Facebook ci è andato giù duro contro il premier. «La Meloni può citare Enrico Mattei quanto vuole ma sta dicendo le stesse identiche cose dette per mesi da Draghi o Letta. Anche lei pensa più agli interessi della Nato che a quelli europei», la frase di Dibba. Su quella che una volta era la «finanziaria» sono pronti a dare battaglia i sindacati. Tutti puntano a un inverno caldissimo e la Cgil e la Uil hanno tirato fuori di nuovo lo «sciopero generale». Appuntamento in piazza a Roma il 16 dicembre. Parola d'ordine? Sfasciare la manovra. Una legge di bilancio che per la «duplice», dato che la Cisl si è sfilata dalla protesta, «non solo è sbagliata ma contiene idee di riforma molto regressive. Invece di combattere la precarietà si reintroducono i voucher.

Anziché aumentare i salari si premiano gli evasori innalzando il contante». Ma non bisogna dimenticare il resto della galassia sindacale, sigle piccole ma ancora più aggressive. Sono le organizzazioni di base. Dai Cobas all'Unione Sindacale di Base. Tutti autodefinitisi «sindacati conflittuali e di classe». Sono già scesi in piazza il 2 dicembre nella Capitale, dopo uno sciopero convocato il giorno precedente. «Giù le armi, su i salari», lo slogan del corteo. In piazza con i sindacalisti di base anche Rifondazione Comunista, parte del cartello Unione Popolare di Luigi De Magistris che si è presentato alle ultime elezioni politiche senza raggiungere il quorum.

Al grido di «Fuori l'Italia dalla Nato» il 2 dicembre a Roma si è fatto vedere il segretario rifondarolo in persona, l'ex ministro Paolo Ferrero. Perché nella stagione di contestazioni che attende Meloni si intrecciano, confusamente, la protesta sociale e le ragioni dei pacifisti più accaniti. In questo ultimo segmento si stanno facendo largo la Rete Italiana per la Pace e il Disarmo di Francesco Vignarca e il Movimento Nonviolento di Mao (sigh) Valpiana. Anti-Nato, paradossalmente, come l'estremista di destra Giuliano Castellino, ora fondatore di Italia Libera insieme all'avvocato Carlo Taormina. Castellino ha già dichiarato a ottobre di essere «pronto al dissenso», perché «la Meloni non ci ha mai rappresentato». L'ex esponente di Forza Nuova si è distinto, negativamente, in passato per la virulenza delle sue posizioni No Vax e No Green Pass. E anche l'universo antivaccinista è tornato di nuovo in piazza a Milano il 26 novembre, sotto le insegne del «Coordinamento Lombardia Oltre il Green Pass». E ancora gli studenti, che dopo il no al convegno di Fdi alla Sapienza si stanno dando da fare occupando i licei. A dicembre sciopereranno perfino operatori del settore aereo, benzinai, medici e veterinari.

Studi meridionalistici, riflettori accesi su Bari. Nel ‘44 Adolfo Omodeo inaugura il convegno. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Dicembre 2022

«Adolfo Omodeo inaugura il Convegno di studi meridionalistici»: così titola in terza pagina «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 4 dicembre 1944. L’Italia è, settantotto anni fa, ancora divisa in due: al Regno del Sud, in cui si vive già il dopoguerra, si contrappone un Centro-Nord ancora devastato dall’occupazione nazifascista e dalla lotta resistenziale. L’Italia liberata è guidata da uno dei primi governi di unità nazionale, presieduto da Ivanoe Bonomi, che in quelle settimane sta affrontando una crisi, in pochi giorni risolta. Bari torna ad essere al centro della vita politica «nazionale» con questo importante appuntamento: «L’iniziativa, inaugurata nella sala delle adunanze del Comune, si propone di dare un tangibile contributo alla ricostruzione nazionale e ha raccolto i migliori consensi da parte di eminenti studiosi dei vari problemi del Mezzogiorno, dei Partiti e delle autorità», si legge sulla «Gazzetta».

La ripresa della riflessione sulla «questione meridionale», dopo le censure imposte dal regime, costituisce uno dei punti fermi di un gruppo di intellettuali legati al Partito d’Azione, tra i quali Tommaso Fiore, suo figlio Vittore, Michele e Raffaele Cifarelli, Vincenzo Calace, i fratelli Pastina, Fabrizio Canfora. Il fascismo ha fatto credere di aver risolto, attraverso le grandi opere di regime, il problema meridionale e ha imposto un lungo silenzio sull’argomento (ogni riferimento è stato persino bandito dai libri di testo per le scuole): è, invece, proprio nel Sud che persistono le peggiori condizioni di miseria e degrado. Con la liberazione delle regioni meridionali e il graduale ritorno ad una vita democratica, la questione torna al centro del dibattito politico nazionale. Si organizza così, nel dicembre 1944, a Bari il primo convegno di studi meridionalistici, definito da Manlio Rossi-Doria «la prima manifestazione d’una risvegliata coscienza democratica del Mezzogiorno d’Italia».

Apre, dunque, la manifestazione Adolfo Omodeo, illustre storico del Risorgimento e rettore dell’Università di Napoli: «l’oratore non ha potuto tacere la sua intima commozione nel parlare a Bari, per i ricordi che lo legano da lunghi anni alla nostra città; ha precisato che la questione meridionale deve impegnare tutte le volontà e le forze del Mezzogiorno: non isolamento medievale, ma indagine acuta delle varie necessità».

Nella prima giornata del convegno intervengono anche Guido Dorso, con una relazione sul rinnovamento della classe dirigente meridionale, e l’economista agrario della Scuola di Portici Rossi-Doria : i lavori continueranno fino al 5 dicembre e saranno costantemente seguiti dai cronisti della «Gazzetta».

Il centralismo ha bloccato ogni svolta. Francesco Carella su Libero Quotidiano il 27 novembre 2022.

L'Unità d'Italia era ancora di là da venire che la riflessione intorno al tema delle autonomie e del federalismo era già al centro del dibattito pubblico. Carlo Cattaneo scriveva nel 1848 che «ogni popolo può avere interessi da trattare in comune con altri popoli, ma vi sono interessi che può trattare egli solo, perché egli solo li sente e l'intende». In un articolo pubblicato il 29 settembre 1851 chiariva che «il federalismo è l'unica possibile via della libertà». Per colui che auspicava la formazione degli "Stati Uniti d'Italia" la scelta di federare le entità geo-politiche pre-unitarie «era il fine stesso- come ha scritto Norberto Bobbio - della rivoluzione italiana, il punto di partenza del nuovo Stato nazionale». Il pensatore lombardo influenzò non poco un esponente di spicco della Destra storica, Luigi Carlo Farini, il quale nel maggio 1860 in una nota inviata al Consiglio di Stato espone i criteri da utilizzare per il riordinamento amministrativo del Regno. Egli, dopo avere ricevuto il consenso dello stesso Cavour, propone di conciliare l'autorità centrale dello Stato con «le ragioni dei comuni, delle province e di altri centri più vasti». In quest' ultimo caso si riferiva alle regioni, che dovevano corrispondere ai «centri naturali della vita italiana». Sollecitazioni che il ministro Marco Minghetti, nei primi anni dell'Unità, tentò di tradurre in termini istituzionali mettendo a punto un progetto basato sul decentramento amministrativo. Molto si discusse intorno a quel disegno, ma alla fine il Parlamento lo accantonò per due preoccupazioni: la fragilità di uno Stato appena costituito e la grande spinta disgregatrice lanciata nel Mezzogiorno dal brigantaggio.

LE PAROLE DI MINGHETTI

Deluso per la bocciatura della sua proposta, Minghetti, parlando alla Camera dei Deputati, usò parole profetiche quando disse che «il potere accentrato avrebbe potuto condurre alla paralisi della vita democratica se non alla dittatura». Inutile ricordare che i due eventi - la dittatura e il blocco della democrazia appartengono a pieno titolo alla successiva storia politica italiana. La convinzione che la centralizzazione dei poteri potesse rappresentare un ostacolo ai processi di modernizzazione guadagnò l'attenzione dell'élite politica sia nell'Italia liberale che in quella repubblicana. In tal senso, non si può non citare la relazione che Don Luigi Sturzo tenne nel 1921 al congresso del Partito popolare a Venezia.

Egli respinge la tesi di coloro che sostengono che le regioni siano costruzioni artificiali individua in esse «un ente elettivo, autonomo, amministrativo e legislativo». Solo in tal modo, conclude il fondatore del Partito popolare si può "combattere l'invadenza della burocrazia statale". Argomenti sviluppati, una decina di anni dopo, dal movimento antifascista "Giustizia e Liberta". Infatti, in un articolo pubblicato nel 1932 sul primo numero della rivista Quaderni Carlo Rosselli indica «nell'autonomismo l'asse centrale intorno al quale si sarebbe dovuto costruire il nuovo Stato democratico, dopo la caduta del fascismo». Non furono diverse le tesi sostenute con forza in Assemblea Costituente sia dal giurista Piero Calamandrei che dal futuro capo dello Stato Luigi Einaudi. Anche questa volta, però, si preferì percorrere la via della centralizzazione, per il timore di mettere a rischio la stabilità della neonata Repubblica. Il resto è cronaca dei nostri anni in cui il pendolo oscilla fra tentativi malriusciti di mettere mano a cambiamenti istituzionali in senso autonomista - dalla mediocre riscrittura del Titolo V alla riforma di Matteo Renzi bocciata via referendum- e forti resistenze da parte delle burocrazie nazionali. Ora che il ministro per gli affari regionali e per le autonomie, Roberto Calderoli, ha presentato il Ddl sull'autonomia differenziata la speranza è che se ne possa discutere senza il velo di antichi pregiudizi. Una critica frequente è che si metterebbe a rischio l'unità dello Stato. Per costoro valgano le parole del meridionalista Guido Dorso quando scrive - in La rivoluzione meridionale: «Comprendo le preoccupazioni di chi teme processi disgregativi, ma non debbono nemmeno esistere più cervelli che concepiscano l'unità nazionale, sacra ed inviolabile per tutti gli italiani, come mezzo per continuare con lo sgoverno attuale».

L’autonomia differenziata di Roberto Calderoli è una riforma contro il Sud. Bruno Manfellotto su L’Espresso il 28 novembre 2022.

Nel piano progettato dal ministro leghista, i più forti si prendono tutto. Il contrario di quanto dice la Costituzione, difesa dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella

A comandare l’"indietro tutta" è stato lo stesso ministro Roberto Calderoli, che pure dell’"autonomia differenziata" - la riforma che dà più soldi e poteri alle Regioni del Nord - è il massimo profeta e regista: «È solo una bozza, se ne riparlerà, vedremo». E va bene, evviva, ma perché tanta improvvisa prudenza?

Forse anche questa partita rientra nella strategia degli annunci cara al nuovo governo: si spara, poi si frena; o magari è stata proprio Giorgia Meloni a intervenire temendo che il progetto Calderoli possa spaccare in due l’Italia, bandiera che sventola nel nome del suo partito; ma è possibile pure che un "caveat" sui rischi costituzionali del provvedimento arrivi dal Quirinale.

Se passa l’autonomia differenziata di Roberto Calderoli, l’Italia smette di essere un paese civile. Ivan Cavicchi su L’Espresso il 5 Dicembre 2022.

Il diritto alla salute dipenderebbe dal reddito delle singole regioni. Una visione antimoderna e anticostituzionale

Non è difficile dire cosa succederà alla Sanità nel nostro Paese se la proposta “autentica” di regionalismo differenziato sarà approvata in Parlamento. Quello che è difficile dire è se la proposta “autentica” resterà tale o cambierà per opera degli inevitabili pasticci legislativi.

Il testo autentico, che, sia chiaro, ancora nessuno ha scritto, neanche il ministro Calderoli (la sua bozza è nulla di più di un ballon d’essai), si può desumere mettendo insieme la dissennata controriforma decisa dal Pd (titolo V) nel 2001, le pre-intese fatte con i governi dalle principali regioni interessate a una autonomia speciale (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) e infine la “terza via al federalismo” teorizzata da Stefano Bonaccini, candidato alla segreteria Pd.

I bambini del Sud non hanno il diritto di guarire. Otto piccoli pazienti su dieci devono emigrare nei reparti ospedalieri del centro-nord. Ma per le famiglie significa affrontare enormi spese e problemi. E la rete di associazioni che le aiuta è stata messa a dura prova dalla crisi. Marco Grieco su L’Espresso il 6 Dicembre 2022.

I bambini non sanno cos’è la morte, alla fine delle loro favole il drago viene sempre sconfitto. Eppure ogni anno per oltre 2mila di loro, il drago irrompe nella vita vera con nomi impronunciabili: leucemia, linfoma, neuroblastoma. Secondo l’Associazione italiana registro tumori, ne sono affetti 1.400 bambini fino ai 14 anni e 900 adolescenti dai 15 ai 19 anni.

Mattarella fissa i paletti sul progetto di Autonomia della Lega: "Garantire i diritti di tutti, sia al Nord che al Sud". Concetto Vecchio il 22 Novembre 2022 su La Repubblica.

Il capo dello Stato all'assemblea nazionale dell'Anci a Bergamo: "Occorre rifuggire la tentazione della chiusura nel ristretto orizzonte del proprio particulare". Il suo monito nei giorni in cui si discute della proposta firmata da Calderoli sul federalismo

"Occorre rifuggire la tentazione della chiusura nel ristretto orizzonte del proprio particulare", scandisce Sergio Mattarella a Bergamo, dinanzi a migliaia di sindaci. Assemblea nazionale dell'Anci. Scroscianti applausi per il Capo dello Stato. "Pensavo di avere chiuso un anno fa a Parma", concede al suo arrivo nella città più colpita dalla pandemia. E invece rieccolo qui, nel settennato bis. Con un messaggio ineludibile sulla coesione sociale del Paese, sulla necessità di ridurre le disuguaglianze, proprio mentre Caterpillar Roberto Calderoli (presente in sala, in prima fila accanto al Presidente) vara la sua riforma dell'Autonomia differenziata.

La settimana scorsa il Sud è insorto contro la Lega. Teme di finire in un campionato di serie B, mentre i ricchi, quelli del Nord, si fanno il loro. E il Presidente della Repubblica - senza mai nominare il disegno della Lega -  stasera ha ribadito che nessuno può rimanere indietro. Un'allusione trasparente. Un monito fermo: "Punti fermi sono la garanzia dei diritti dei cittadini, che al Nord come nel Mezzogiorno, nelle città come nei paesi, nelle metropoli come nelle aree interne, devono poter vivere la piena validità dei principi costituzionali". In un altro passaggio ha ricordato che "la Costituzione sancisce il principio di uguaglianza per i cittadini e, naturalmente, vale per i Comuni, che devono essere messi in condizione di adempiere ai compiti loro affidati, per poter concorrere a realizzare il principio costituzionale della pari dignità dei cittadini". 

I governatori del Sud sono sulle barricate. Michele Emiliano, il governatore della Puglia, è arrivato a definire la proposta leghista incostituzionale. Lo spettro si chiama "devoluzione delle competenze". Ben 23. Dalla scuola ai trasporti, dall'energia al fisco. Vedremo. Perché anche per Fratelli d'Italia si tratta di una riforma difficile da digerire così. Mattarella sorvola sul dibattito tra le forze politiche. Quello spetta al Parlamento.

Lui ha a cuore l'unità del Paese. Tutto il suo discorso, interrotto più volte dagli applausi, è invito a ridurre il fossato delle disuguaglianze, nella convinzione che bisogna tenere insieme tutto, migliorandosi insieme. L'opposto del disegno nordista. "Occorre ridurre le distanze nella possibilità di esercizio dei diritti: perché oggi, tra realtà urbane e aree interne, tra centri di grande collegamento, comunità montane, e realtà insulari non sempre i diritti e i servizi riescono ad essere assicurati in modo eguale. La coesione del Paese passa anche, e vorrei dire, soprattutto dai Comuni". Lo fa parlando del Pnrr ("Non possiamo permetterci ritardi. I problemi vanno individuati e risolti"), quando afferma che vanno ristretti i divari "fra chi gode di determinati servizi e chi invece li raggiunge a fatica".). Tra città e periferie, tra metropoli e aree interne, tra Nord e Sud. L'unica citazione, non a caso, è per Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze, emblema di una politica solidale e inclusiva, espressione del cattolicesimo sociale. 

Dice Mattarella: "È nella missione dei sindaci essere portatori degli interessi generali del Paese. Occorre rifuggire la tentazione della chiusura nel ristretto orizzonte del proprio “particulare”. Non si farebbe neppure il bene della propria comunità immaginarlo contrapposto a quello delle comunità vicine o, addirittura, a quello della più ampia comunità nazionale".

È poi tornato sul Pnrr, che "l'Italia non può non eludere per colmare ritardi strutturali". Un invito fatto molte altre volte. La bussola è l'Europa, che è tornata "di chiaro segno comunitario". Mattarella ha elogiato la scelta di Bergamo, "i morti del Covid sono un monito permanente, un appello alla responsabilità". Ha ribadito l'importanza della sanità pubblica, dotata di servizi "di cura più vicini alla persona". Ha incoraggiato la battaglia contro le inchieste facili, e la pioggia di avvisi di garanzia che ne minano l'azione amministrativa: "Considero meritevole di ogni attenzione l'impegno che da tempo l'Anci conduce per definire con più coerenza lo status giuridico degli amministratori e i confini delle loro responsabilità. Sarebbe una sconfitta per la democrazia se si facesse strada l'idea che l'esercizio della funzione di sindaco, oltre a essere faticoso, è così gravato da rischi da giungere quasi all'impraticabilità". Infine, ha sostenuto "la coraggiosa lotta delle donne iraniane".

IL PAESE SPEZZATO. LA TRAGEDIA DI ISCHIA E IL CONTO CIVILE CHE PAGA IL SUD PER TITOLO QUINTO E ASSISTENZIALISMO. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 26 Novembre 2022.

C’è un carico pesante di responsabilità che appartiene alle colpe sistemiche di una politica che ha scelto la frammentazione decisionale. Con la riforma del titolo quinto e con il finto federalismo che ne è conseguito si è tolto un ruolo che è proprio dello Stato facendo venire meno il presidio centrale che esprime la coscienza di un Paese. Si sono fatti due pesi e due misure con la spesa pubblica incentivando gli egoismi e aumentando le inefficienze a livello regionale. Si sono cancellati gli investimenti in conto capitale per manutenere i territori assorbendo tutte le risorse con un assistenzialismo irresponsabile unico al mondo. Che non ha nulla di gratuito come ripete una disgustosa retorica visto che carica sulle spalle dei cittadini centinaia di miliardi di nuovo debito pubblico e sottrae ogni anno decine di miliardi sia agli interventi di manutenzione sia di sistemazione dei dissesti strutturali accumulatisi nell’arco degli ultimi due decenni.

Bisogna fare i conti con la realtà in modo crudo fuori dall’emozione e dalle solite polemiche. Perché solo così si può cominciare a operare perché nell’arco di un decennio sia almeno attenuato il tasso di rischio di dissesto idrogeologico di territori sempre più estesi del nostro Paese a partire dal Mezzogiorno. Bisogna avere il coraggio di dire la verità e di essere conseguenti nei comportamenti rispetto a questa verità. Per evitare se non altro che lo strazio di nuove vite umane e lo sgretolamento di quello che fu il Bel Paese siano accompagnati da una retorica nazionale insulsa che rasenta la stucchevolezza. Non ne possiamo più delle lacrime del giorno dopo.

Non ne possiamo più della solidarietà tanto sincera quanto impotente. Dietro la frana di detriti e di acqua di Casamicciola e una speculazione abusiva che dilaga incontrollata ci sono responsabilità che appartengono al rispetto delle regole e a un senso gravemente affievolito dello spirito di legalità, ma molto prima e in misura infinitamente superiore c’è un Paese spezzato con il suo carico pesante di responsabilità. Appartengono alle colpe sistemiche di una politica che ha scelto la frammentazione decisionale. Ha fatto due pesi e due misure con la spesa pubblica grazie a un finto federalismo. Ha cancellato gli investimenti in conto capitale per manutenere i suoi territori decidendo di fare assorbire tutte le risorse disponibili da un assistenzialismo irresponsabile unico al mondo.

Questo assistenzialismo non ha nulla di gratuito come una disgustosa retorica ripete a ogni piè sospinto visto che carica sulle spalle dei cittadini centinaia di miliardi di nuovo debito pubblico e sottrae ogni anno decine di miliardi da destinare sia agli interventi di manutenzione ordinaria del paesaggio sia di sistemazione di tutti i dissesti strutturali accumulatisi almeno nell’arco degli ultimi due decenni. Punto primo. Si deve avere il coraggio di affermare solennemente e pubblicamente che con la riforma del titolo quinto e del finto federalismo italiano che ne è conseguito si è tolto un ruolo che è proprio dello Stato e della sua responsabilità facendo venire meno il presidio centrale che nel bene e nel male esprime le sensibilità e la coscienza di un Paese prima ancora di uno Stato. Quanto meno questa coscienza si è spenta, si è affievolita, perché si è deciso di affidare tutto a Regioni e provveditorati facendo figli e figliastri e moltiplicando distorsioni e negligenze.

Nella riforma del titolo quinto e nel regionalismo del federalismo all’italiana che toglie ai poveri per regalare assistenzialismo ai ricchi ci sono le impronte di questo disastro collettivo.

Punto secondo. Alla luce di tali ripetute tragedie sarà più chiaro a tutti perché questo giornale ha condotto dal suo primo giorno di nascita la battaglia dei livelli essenziali di prestazione e dei diritti di cittadinanza negati attraverso il marchingegno della spesa storica.

Se si è deciso con il paravento di una finta devolution di sottrarre decine e decine di miliardi l’anno alle popolazioni meno ricche per darle a chi sta meglio, nella scuola come nella sanità, nella tenuta dei territori come nel trasporto pubblico locale, nell’Università come nella ricerca, le conseguenze sono di un Paese che non solo si è fermato, ma si è sgretolato al suo interno facendo tracimare coscienza nazionale e spirito di coesione. Questa rovina italiana che è la più grande vergogna civile, prima che economica, della nostra comunità va sanata in radice. Si è presa una strada sbagliata, oltre che immorale, e ora bisogna ripercorrerla a ritroso.

Punto terzo. Bisogna tornare a fare spesa in conto capitale e ad avere la capacità di farlo. La partita della gestione dei fondi europei, non solo Piano nazionale di ripresa e di resilienza, è stata saggiamente affidata nelle mani di un solo ministro e di un solo dicastero. Questa scelta è la premessa giusta per un cambiamento di rotta non più procrastinabile e ne parleremo bene domani. Perché sul campo da gioco cruciale della crescita e della riduzione delle diseguaglianze quello dei fondi europei è il solo capitale vero di cui disponiamo. Qui oggi, però, ci preme sottolineare altri due elementi imprenscindibili.

Chi sostiene che prima delle grandi opere bisogna fare la manutenzione, ignora che le grandi opere pensano costitutivamente al dissesto idrogeologico perché devono strutturalmente fare sempre opere di bonifica. Non fare le grandi opere significa non fare né le une né l’altra. Secondo elemento. Un Paese come il nostro che ha il debito pubblico che ha non può permettersi di spendere 27 miliardi l’anno tra quota 100 e dintorni per le pensioni, bonus 80 euro e reddito di cittadinanza e buttare una tantum oltre 40 miliardi consentendo ai ricchi di rifarsi le case senza essere percorso da un brivido che scorre lungo la schiena e mette a nudo una coscienza nazionale e uno spirito di solidarietà scomparsi con la riforma del titolo quinto e il trionfo dei miopi egoismi territoriali che ne è conseguito. Non è pensabile di buttare 70/80 miliardi l’anno nei giorni della grande crisi geopolitica e economica per fare assistenzialismo e prendere in giro gli italiani che tutto avviene gratuitamente. No, perché nel maxi buco immorale del superbonus edilizio grillino non c’è solo il debito che pagheranno i nostri figli, ma anche i soldi del bilancio pubblico italiano che oggi non ci sono per manutenere i territori.

Autonomia, la grande balla del Nord che costa al Sud 170 milioni al giorno. I dati svelati dall'Operazione verità del nostro giornale e certificati dalla Corte dei conti e dalla Commissione parlamentare d'inchiesta. VINCENZO DAMIANI su Il Quotidiano del Sud il 24 Novembre 2022.

Chissà se il monito del presidente della Repubblica sull’autonomia differenziata aprirà gli occhi a chi i numeri non vuole leggerli. Parità di diritti da Nord a Sud, che tradotto vuol dire garantire finalmente i livelli essenziali delle prestazioni dopo venti anni di assenza.

Partiamo da un dato consolidato e confermato a vari livelli, dalla Corte dei conti a ex ministri: ogni giorno il Sud "perde" circa 170 milioni. A tanto, infatti, ammonta, su base giornaliera, il "bottino" da più di 61 miliardi che ogni anno, dati del "Sistema dei conti pubblici territoriali" alla mano, viene sottratto al Sud e dirottato verso il Nord. Parliamo di circa 5,2 miliardi al mese di spesa pubblica allargata, non solo statale.

L’OPERAZIONE VERITÀ

Lo ha svelato il nostro giornale con l’Operazione verità (LEGGI IL DOSSIER), è stato certificato dalla Corte dei conti e lo ha ammesso anche la Commissione parlamentare d’inchiesta. Eppure, nulla è cambiato, nemmeno il Covid è riuscito a impedire la sottrazione di risorse.

Gli oltre 62 miliardi di spesa pubblica mancata risuonano anche in un intervento in Parlamento dell’ex ministro Francesco Boccia: «Il Sud non ha mai avuto più del 22% di risorse negli ultimi 16-17 anni» ha sentenziato, a fronte di una popolazione superiore al 34%. Il problema è la spesa storica, la definizione dei livelli essenziali è una priorità.

La prova ci viene fornita dando uno sguardo a quanto accadrà tra qualche mese nel riparto del fondo sanitario, dove il Sud rischia una doppia beffa se non si interverrà rapidamente: anziché ricevere più risorse, quasi tutte le Regioni meridionali si ritroveranno con meno fondi.

Il nuovo sistema di verifica e valutazione dei Lea prevede criteri più severi per giudicare la qualità e l’efficienza dei sistemi sanitari regionali e, stando a una simulazione svolta dal Comitato Lea – organo del ministero della Salute – solo 11 Regioni su 21 risultano essere adempienti, quindi sarebbero promosse. Le "inadempienti" sono quasi tutte del Sud: Campania, Calabria, Molise, Basilicata, Sicilia, Lazio, Sardegna: si salvano soltanto Puglia e Abruzzo.

Solamente nel 2018, nella differenza tra spesa storica e reali fabbisogni, il Mezzogiorno ha perso 177 milioni di euro, ha ricevuto cioè circa il 22% di risorse in meno rispetto a quello che avrebbe dovuto incassare se si fossero presi in considerazione i Lep.

Anche le altre Regioni ci hanno perso, ma molto meno: il Nord-Est ha ricevuto trasferimenti in meno pari al 15,9% (73 milioni), il Nord-Ovest pari al 15,5%, il Centro ci ha rimesso appena 26 milioni, per un "ammanco" del 4,1%. È quanto emerge analizzando i dati di "OpenCivitas", il portale di accesso alle informazioni degli Enti locali, un’iniziativa di trasparenza promossa dal dipartimento delle Finanze e da Sose.

LE PERDITE

Il 2018 è l’ultimo anno disponibile, prendendo in considerazione le singole Regioni il dato è emblematico: la Puglia ha ricevuto il 25,46% delle risorse in meno; la Campania ha registrato un -25,7% nella differenza tra spesa storica e fabbisogni, mentre la Toscana ci ha rimesso solo il 2,6%, il Veneto -14,5%, il Piemonte -16,9%, la Lombardia -15,3%, l’Emilia Romagna -17,4%.

D’altronde, anche la Corte costituzionale, recentemente, lo ha ribadito, l’ultima volta con la sentenza 65 del 2016: è indispensabile determinare i livelli essenziali delle prestazioni per garantire servizi uguali da Trieste a Palermo. Per evitare che, come accade ormai da almeno due decenni, i soldi per gli investimenti prendano una sola direzione, quella del settentrione. Vale per la sanità, come per l’istruzione e le infrastrutture.

Nel settore delle infrastrutture, solo per dirne una, nel 2018 la Svimez ha calcolato che al Mezzogiorno sono stati sottratti ulteriori 3,5 miliardi di euro. Gli investimenti infrastrutturali nel Sud, che negli anni Settanta erano circa la metà di quelli complessivi, negli anni più recenti sono calati a un sesto di quelli nazionali. In valori pro capite, nel 1970 erano pari a 531,1 euro a livello nazionale, con il Centro-Nord a 451,5 e il Mezzogiorno a 677 euro; nel 2017 si è passati a 217,6 euro pro capite a livello nazionale, con il Centro-Nord a 277,6 e il Mezzogiorno a 102 euro.

Stesso discorso in altri settori: la Regione Puglia, per esempio, sempre secondo i dati Openvicitas, per garantire nel 2016 agli allora 4 milioni di cittadini i servizi di istruzione, asili nido, polizia locale, pubblica amministrazione, viabilità e rifiuti, ha potuto spendere 2,22 miliardi ma avrebbe avuto bisogno di 2,32 miliardi, circa 100 milioni in più. In sostanza, la Puglia – avendo ottenuto trasferimenti statali inferiori rispetto al reale fabbisogno – ha dovuto stringere la cinghia, mentre il Piemonte nonostante un fabbisogno reale di 2,74 miliardi ne ha spesi 2,81, cioè 70 milioni in più.

SCUOLA PENALIZZATA

Le Regioni del Mezzogiorno, nel 2016, per tutti i servizi elencati hanno sopportato un costo complessivo di 7,9 miliardi (spesa storica), ma avrebbero avuto bisogno, secondo i calcoli di OpenCivitas, di almeno 8,18 miliardi (spesa standard): uno scarto negativo del 3,43%. Le Regioni del Nord, al contrario, hanno investito complessivamente 16,42 miliardi, nonostante il fabbisogno reale fosse di 15,23 miliardi. Hanno speso di più avendo ricevuto più soldi da Roma.

Se prendiamo in considerazione solamente il capitolo "istruzione", le Regioni del Sud registrano uno scarto negativo tra spesa storica e spesa standard del 30,89%. Diversamente, il Nord ha potuto investire il 9% in più rispetto al reale fabbisogno. Nel Mezzogiorno, l’82% dei Comuni ha una spesa storica per l’istruzione che è nettamente inferiore rispetto a quella standard: vuol dire che i sindaci ricevono dallo Stato meno soldi di quelli che sarebbero realmente necessari per garantire un servizio degno di questo nome.

La situazione è diversa al Centro, dove oltre la metà degli enti, il 52%, registra una spesa storica superiore a quella standard e lo stesso vale per i Comuni del Nord-Est (51%) e, in misura minore, per quelli del Nord-Ovest (45%). Così, mentre Napoli ha una spesa storica per l’istruzione di 78,24 euro e una spesa standard di 86,61 euro, Bologna ha una spesa storica di 189.36 euro e una spesa standard di appena 118.52 euro. E ancora: Bari presenta una spesa storica di 64.13 euro e una spesa standard di 74.8 euro; Firenze ha una spesa storica di 133.96 euro e una standard di 104.54 euro.

SANITÀ A PICCO

Dal 2012 al 2017, nella ripartizione del Fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno aumentato la loro quota, mediamente, del 2,36 per cento; altrettante regioni del Mezzogiorno, invece, già penalizzate perché erano beneficiarie di fette più piccole della torta, dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno.

Tradotto in euro, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato 944 milioni in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria. Se il sistema del federalismo fiscale fosse stato equo, il Comune che avrebbe guadagnato di più sarebbe stato quello di Giugliano, in Campania, dove oggi mancano all’appello 33 milioni di euro (270 euro pro capite). Reggio Calabria avrebbe dovuto ricevere 41 milioni in più, 229 euro a testa. Seguono Crotone (3 milioni, 206 euro a cittadino), Taranto (39 milioni, 198 euro pro capite), Catanzaro (15 milioni, 168 euro pro capite), Bari (53 milioni, 166 euro pro capite). Ma il Comune che perde di più in termini assoluti è Napoli: 159 milioni, 164 euro pro capite.

«Sanità, avanti con la spesa storica». Altro che colmare i gap del Sud. La notizia viene dal ministro per i Rapporti con il Parlamento: «Fino alla determinazione dei Lep ogni Regione riceverà le stesse risorse che riceve attualmente, né di più, né di meno». VINCENZO DAMIANI su Il Quotidiano del Sud il 25 Novembre 2022.

Mentre le Regioni in Conferenza litigano sul prossimo riparto del fondo sanitario e i criteri da applicare, c’è già una brutta notizia per il Sud: i soldi continueranno a essere spartiti sulla base della spesa storica, quindi il Mezzogiorno continuerà a ricevere meno trasferimenti rispetto al Nord.

La notizia è arrivata martedì dal ministro per i Rapporti con il parlamento, Luca Ciriani, che, rispondendo alla Camera al question time sul tema delle autonomie presentato da Antonio Caso (M5S), ha detto: «In base alle ipotesi di lavoro predisposte dal ministro per gli Affari regionali e le autonomie, il criterio della spesa storica già sostenuta per le funzioni attribuite in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, non altera, anche ove applicato in via transitoria, fino alla compiuta determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni, i Lep, la distribuzione delle risorse per le altre regioni o aree del Paese, né incide sui fondi perequativi. Nessuna Regione potrà ricevere meno risorse rispetto a quelle attuali, nessuna Regione potrà riceverne di più».

SPESA STORICA VELENOSA

Il nodo, però, è che il criterio della spesa storica, come dimostrato dalle inchieste del nostro giornale, è il principale artefice dell’iniquità nella ripartizione delle risorse. Vale in particolar modo proprio nel settore della sanità, dove i numeri, certificati dalla Corte dei conti, parlano chiaro e sono a prova di smentita: per esempio, dal 2012 al 2017, nella ripartizione del Fondo sanitario nazionale, sei Regioni del Nord hanno aumentato la loro quota, mediamente, del 2,36%; altrettante regioni del Sud, invece, già penalizzate perché beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Tradotto in euro, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato 944 milioni in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.

Ecco come è lievitato il divario tra le due aree del Paese: mentre al Nord sono stati trasferiti 1,629 miliardi in più nel 2017 rispetto al 2012, al Sud sono arrivati soltanto 685 milioni in più. Basterebbero questi dati – certificati dalla Corte dei conti nella relazione sulla gestione finanziaria dei servizi sanitari regionali – per comprendere come il criterio della spesa storica continuerà a creare iniquità.

Le disuguaglianze sono ancora più palesi se analizziamo la spesa pro-capite: nel 2017, lo Stato mediamente ha investito 1.888 euro per ogni suo cittadino, tutte le Regioni meridionali, tranne il Molise (2.101 euro pro capite), spendono meno della media nazionale. In particolare la Campania (1.729 euro), la Calabria (1.743), la Sicilia (1.784) e la Puglia (1.798). La spesa pro capite più alta si registra nelle Province autonome di Bolzano (2.363 euro) e Trento (2.206), in Liguria (2.062), Val d’Aosta (2.028), Emilia-Romagna (2.024), Lombardia (1.935), Veneto (1.896).

NORD PRIVILEGIATO

Altri indicatori confermano che, ogni anno, il Nord ottiene maggiori trasferimenti da Roma destinati alla sanità: dal 2017 al 2018, ad esempio, la Lombardia ha visto aumentare la sua quota del riparto del fondo sanitario dell’1,07%, contro lo 0,75% della Calabria, lo 0,42% della Basilicata o lo 0,45% del Molise. Lo stesso Veneto nel 2018 ha avuto da Roma lo 0,87% in più.

Insomma, il Nord continua a ottenere più soldi rispetto al Sud, è un dato oggettivo e certificato. Lo dicono i flussi monetari analizzati dalla Corte dei conti negli ultimi otto anni: la Regione di Zaia, ad esempio, nel 2012 ha incassato 8 miliardi e 536 milioni, nel 2018 è passata a 8 miliardi e 913 milioni, circa 400 milioni in più; la Calabria, invece, nel 2012 ha incassato 3 miliardi e 454 milioni, nel 2018 è salita a 3 miliardi e 522 milioni, solo 68 milioni in più. E ancora: il piccolo Molise è passato da 570 milioni del 2012 a 571 milioni del 2018; la Basilicata da 1,023 miliardi a 1,036 miliardi, 13 milioni in più.

IL “CASO PUGLIA”

Un più equo meccanismo di attribuzione delle risorse consentirebbe anche alla Puglia di ricevere, in media, 250 milioni in più all’anno: è la cifra che l’Emilia Romagna, a parità di popolazione, ha incassato in più dal 2005 a oggi. Negli ultimi 13 anni ha ricevuto tre miliardi in più rispetto alla Puglia, a quasi parità di popolazione, come evidenziato nel rapporto “La finanza territoriale 2018”.

E nel 2021, nonostante sul fondo sanitario fossero stati immessi 2,7 miliardi in più rispetto al 2020, le Regioni del Mezzogiorno, in proporzione, come già accaduto negli ultimi 20 anni, hanno continuato a incassare una fetta più piccola della torta.

Alla Puglia, che conta 4 milioni di abitanti, su 116,29 miliardi complessivi, sono stati dati 7,64 miliardi, l’anno scorso ne ricevette 7,49, quindi +240 milioni. L’Emilia Romagna (4,3 milioni di residenti), ha ricevuto 8,79 miliardi contro gli 8,44 del 2020: non solo 1,1 miliardi in più rispetto alla Puglia, ma ha potuto godere di un incremento rispetto all’anno precedente di 350 milioni.

Prendendo in considerazione il Veneto (4,8 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto incassa 9,54 miliardi: 1,9 miliardi in più della Puglia e 280 milioni in più rispetto all’anno scorso. Insomma, l’iniqua ripartizione non solo prosegue ma, in qualche modo, si amplifica. La Campania, 5,8 milioni di residenti, ha ricevuto 10,8 miliardi contro i 10,6 dell’anno scorso, +200 milioni.

Ma se passa l’autonomia l’Italia sarà lacerata dalla politica dell’egoismo. Nella bozza Calderoli si legge infatti che l’autonomia regionale può diventare operativa anche prima che siano stati definiti e assicurati Livelli Essenziali di Prestazione uniformi in tutto il Paese. Sergio Fontana su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Novembre 2022.

Il progetto di autonomia differenziata presentato alle Regioni lo scorso 17 novembre dal Ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli desta forte preoccupazione nel mondo delle imprese meridionali, perché minaccia di aggravare ulteriormente i divari del Mezzogiorno, generando svantaggi anche per l’intero Paese.

Nella bozza Calderoli si legge infatti che l’autonomia regionale può diventare operativa anche prima che siano stati definiti e assicurati Livelli Essenziali di Prestazione uniformi in tutto il Paese.

Senza garanzie sull’uniformità dei servizi essenziali e senza opportuni meccanismi perequativi, ogni Regione, quindi, dovrà fare da sé, con i mezzi e le capacità di cui dispone. Lo scenario che si può così delineare è quello di un territorio nazionale frammentato e disomogeneo, con scuola, università, trasporti, politiche energetiche e industriali molto differenti fra regione e regione.

Un territorio nazionale di questo tipo non sarebbe solo eticamente iniquo, ma sarebbe anche economicamente inefficiente. Immaginate infatti che, in una situazione del genere, per realizzare un’opera di interesse nazionale, si dovrebbe chiedere il permesso a più amministrazione regionali.

Il risultato, in termini di efficienza, sarebbe catastrofico, come si può facilmente prevedere. Tutto il Paese ne uscirebbe danneggiato, e non solo il Sud. L’Italia sarebbe lacerata da una politica dell’egoismo. Una politica delle differenze nemica dell’economia. Quella che vogliono le imprese è invece una politica amica della crescita, che fa tesoro delle diversità. Noi siamo per la «convivialità delle differenze» predicata da Don Tonino Bello. Siamo per una politica che sa individuare ciò che unisce e non ciò che divide. Abbiamo un Paese bellissimo, dove il Milanese è diverso dal Bergamasco, il Barese dal Leccese, ma tutti abbiamo risorse e talento per generare benessere e lavoro, per noi e per i nostri figli.

Le imprese del Sud, che già ogni giorno competono ad armi ìmpari con il resto d’Italia e d’Europa, non si meritano un’autonomia differenziata che accentui i divari territoriali e privilegi gli uni a discapito degli altri. Un’autonomia differenziata come quella disegnata da Calderoli sarebbe un tradimento dei valori costituzionali. E non è un caso se il capo dello Stato Sergio Mattarella ha sentito, qualche giorno fa, la necessità di ricordare al governo il rispetto della coesione nazionale e del principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini. Un’autonomia differenziata più equa, può anche rappresentare un fattore di efficienza e competitività per l’intero Paese, ma solo se saprà rispettare l’unità nazionale, lasciando allo Stato la regia su materie fondamentali e assicurando parità di condizioni fra i territori. Questo è ciò che serve al Sud: uguali condizioni di partenza. Il Sud non chiede aiuti a pioggia, non chiede assistenzialismo, non vuole vivere di cassa integrazione.

Sono 150 anni che il Sud chiede altro. Il mio Sud e la terra di Bari vogliono solo due cose: lavoro e legalità.

L’autonomia differenziata? Prima ragioniamo sulla «società calda» del Sud. Insomma: si può essere autonomisti e federalisti e, nello stesso tempo, meridionalisti a tutto tondo. Gaetano Quagliariello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Novembre 2022.

Martedì all’università di Bari, per una meritoria iniziativa della Fondazione Di Vagno, si è svolto un convegno sull’attualità del pensiero di Gaetano Salvemini. Per incidens ricordo che Salvemini era un meridionalista, convinto che un assetto federalista dello Stato fosse auspicabile, innanzitutto per il Sud. E in Lucania si aggirava un altro meridionalista a trecento carati, coevo di Salvemini, che rispondeva al nome di Giustino Fortunato. Riteneva che l’unica possibilità di redenzione per terre sfortunate per ragioni geografiche e politiche fosse costruire le condizioni per incrementare la propria autonomia d’azione.

Insomma: si può essere autonomisti e federalisti e, nello stesso tempo, meridionalisti a tutto tondo. Non è un reato. Basta questa ovvietà per schierarsi “senza se e senza ma” a favore del progetto di autonomia differenziata proposto dal Ministro Calderoli? No. Basta però per non avere preconcetti. Basta per non stracciarsi le vesti alla sola lettura del titolo di testa.

Poi è necessario entrare nel merito. E non c’è dubbio che, nel merito, la prima bozza predisposta - l’unica per ora nota - è un documento vetero-leghista. Il fatto di aver trattato i Lep (livelli essenziali di prestazioni) come Napoleone trattava le intendenze - prima l’autonomia, i Lep seguiranno - è stato poco meno di una provocazione.

Calderoli dice di voler ora guardare al federalismo con gli occhiali del sud. Apprezziamo lo sforzo e attendiamo fiduciosi. A patto che faccia attenzione alle diottrie delle lenti. Per dirla tutta, non è di per sé una garanzia neppure la soluzione di varare insieme autonomia differenziata e presidenzialismo. Dal punto di vista della logica istituzionale la contemporaneità ha un senso. Risponde al criterio del check and balance. Poi, però, sarà decisivo valutare come è stato costruito il presidenzialismo, come si è articolata l’autonomia e come funzionerà l’interazione tra le due dinamiche. Anche in questo caso, insomma, è necessario entrare nel merito.

A me sembra che il punto decisivo sia un altro. Salvemini puntava sul federalismo perché riteneva che avrebbe consentito di sfuggire all’insano connubio tra industria protetta del nord e latifondismo del sud. Quella soluzione era pensata per promuovere la piccola proprietà e, con essa, la redenzione dei contadini meridionali. Fortunato voleva l’autonomia perché riteneva fosse la sola strada per emancipare le classi medie e concedere loro gli strumenti per creare sviluppo, iniziando dal credito. Per entrambi, insomma, le ingegnerie istituzionali erano un mezzo: uno strumento per affermare un’idea di sviluppo e modernizzazione del Mezzogiorno d’Italia.

Nel dibattito sull’autonomia differenziata quel che manca, da una parte e dall’altra, è un’idea di sviluppo al passo con i tempi che riguardi il Meridione e l’entroterra appenninico: territori fisici e antropologici che terremoti, crisi socio-economiche, fenomeni di abbandono e spopolamento hanno avvicinato e finito in parte per sovrapporre.

Di questi luoghi l’esperienza del Covid ha evidenziato tante debolezze strutturali, ma anche – e sorprendentemente – alcune potenzialità. Fra le tante  certezze  che la pandemia ha minato, vi è infatti quella relativa ai caratteri di una società «vincente» a lungo considerati obbligati. Di fronte a uno shock inatteso che ha sconvolto abitudini, filiere economiche e organizzazioni sociali, il modello accentrato dei grandi agglomerati urbani e dei processi produttivi standardizzati, fondato su un freddo efficientismo e su relazioni ridotte all’essenziale, ha mostrato tutti i suoi limiti.

Il bisogno di una prospettiva di crescita non è certo venuto meno. Ma questo bisogno necessita oggi di essere coniugato con i caratteri di quella che io definisco una «società calda». Non per ragioni climatiche ma perché fondata sulla persona e sulla sua relazionalità; sull’umanizzazione dei rapporti economici e sociali e persino della tecnologia.

Di fronte alla prova di sforzo, nonostante tutte le sue fragilità strutturali, la «società calda» ha infatti retto meglio. Ha retto perché un tessuto socio-economico a misura d’uomo ha saputo proteggersi e in alcuni casi persino reinventarsi, mostrando le potenzialità di un modello di sviluppo che, depurato da antiche tare come l’assistenzialismo e il mito infelice della decrescita, potrebbe divenire un punto di riferimento per l’intero Paese.

Perché l’uscita dall’inverno demografico – un’autentica catastrofe anche in termini economici e di welfare – è più facilmente immaginabile in un contesto sociale dove i legami familiari ancora tengono. Perché dopo la riscoperta della sanità territoriale, un nuovo sistema può prendere le mosse laddove la sanità è da ricostruire e le grandi strutture accentrate non sono mai state granché di casa. Perché un’economia di prossimità ancorata alle filiere e alle vocazioni locali meglio si attaglia a un tessuto che ai guai dell’arretratezza vede affiancarsi almeno i vantaggi di un prolifico ancoraggio alle tradizioni.

Queste suggestioni le si può cogliere fra le pieghe di alcune direttrici del Recovery Plan (il PNRR). Esse avrebbero meritato una prospettiva di ampio respiro. Avrebbero meritato di esser poste al centro di un confronto sul Sud e sul meridionalismo che fosse appropriato alle sfide del XXI secolo.

Poi e solo poi, ponderando gli obiettivi, ci si sarebbe dovuti domandare di quanta e di quale autonomia il Sud abbia bisogno per la sua sfida. E forse si fa ancora in tempo ad andare oltre le contrapposte grida dei «no pasaran» e dei «la porteremo a casa a ogni costo». Non ci sembra chiedere troppo. Anche se Salvemini, ammiccando, bofonchierebbe: «roba da pazzi malinconici».

Basta giocare in contropiede: ora il Mezzogiorno ribalti la situazione. La Costituzione prevede l’autonomia differenziata per le regioni che la chiedono. Bene. Ma la Costituzione prevede anche che non ci siano differenze di diritti secondo dove nasci. Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Novembre 2022.

Il Sud non è in vendita. Però non facciamo, come si dice da noi, che passato il santo passata la festa. La Costituzione prevede l’autonomia differenziata per le regioni che la chiedono. Bene. Ma la Costituzione prevede anche che non ci siano differenze di diritti secondo dove nasci. E prevede che lo Stato debba intervenire per eliminare eventuali diseguaglianze. Ma se per l’autonomia si sta facendo una guerra di religione, è dal 1947 della sua promulgazione che la Costituzione è violata sulla differenza di diritti: un clamoroso danno per il Sud d’Italia. Tanto che giorni fa ha dovuto ricordarlo lo stesso presidente Mattarella, il più alto garante della Costituzione. Però il Sud non doveva giocare solo di contropiede dopo l’attacco di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Ora può, anzi deve, trasformare un suo problema in opportunità. Approfittando anche di alcune condizioni che sono cambiate.

Tanto per cominciare, il governatore emiliano Bonaccini, seppur da autonomista più morbido, ha detto che nulla si farà se prima non saranno tutelati i diritti violati del Sud. L’avrà fatto per far passare anche al Sud la sua candidatura a nuovo segretario del Pd, ma l’ha detto. E finché non lo disdice, ci sono margini per piazzare un contropiede di quelli che due passaggi e gol. Poi il pericolo incombente del Calderoli ha messo un po’ insieme governatori del Sud prima più separati di Totti e di Illary. Anzitutto il pugliese Emiliano e il campano De Luca, più la Calabria fosse anche con distinguo. Ed Emiliano e De Luca, volendolo, possono condurre una battaglia proprio all’interno di quel Pd che finora è stato uno sponsor del Nord più che del Sud: una delle tante dimenticanze di una sinistra da tempo sorda ai più deboli. Poi l’iniziativa del costituzionalista napoletano Villone (con annessa raccolta di 50 mila firme) per eliminare del tutto l’autonomia differenziata dalla Costituzione. Partendo da come il Covid ha frantumato l’unità nazionale, benché proprio alcune regioni ci abbiano salvato più di un contraddittorio Stato. Fuori discussione, come sempre, quel centravanti di sfondamento che è Adriano Giannola, presidente della Svimez senza peli sulla lingua. Fino a pronunciare l’indicibile parola: «sovversione», cioè colpo di Stato per elusione da parte di governi che hanno ignorato la Costituzione a danno del Sud. Anzi hanno fatto tutto il contrario a favore del Nord. Con la spesa storica, diamo sempre più a chi ha avuto sempre più e sempre meno a chi ha avuto sempre meno. Infamia che ogni anno sottrae al Sud 60 miliardi di spesa pubblica (quanto dieci ponti sullo Stretto di Messina).

Infine, se l’atmosfera conta qualcosa, non è stato una carezza quanto detto dall’assessore pugliese alla sanità, Rocco Palese. Mezzogiorno pronto alla secessione se il disegno di legge Calderoli fosse riproposto: cioè, se non si è capito, dividersi e andarsene per conto proprio per non continuare a farsi depredare. Magari eccesso polemico. Ma finora bastava molto meno per farsi definire «neoborbonico» (sistema rapido per silenziare voci scomode). Insomma il progetto di autonomia può aiutare anche il Mezzogiorno? Sì, perché mai come ora il diritto di ottenere il Lep diventa per il Sud addirittura un dovere. Col costituzionalista Cassese a dire di non capire perché non possano essere calcolati in un anno. Lep, livelli essenziali di prestazione, cioè calcolo dei bisogni finora ignorati del Sud. A cominciare da quelli che anche secondo l’Onu sono simbolo di mancato rispetto umano: sanità, scuola, trasporti. E neanche Lep, ha osservato giustamente Giannola: chi può dire ciò che è essenziale per un territorio rispetto a un altro? Piuttosto Lup, livelli uniformi di prestazione. Altrimenti possono sostenere darti mantenendo però sempre il divario. Un solo esempio, proprio la sanità. In tre anni la Regione Puglia ha sborsato al Nord 700 milioni di euro per cittadini che sono andati lì a curarsi. Diritto di ciascuno di farlo. Ma costrizione se si pensa a come i fondi statali sono attribuiti: di più al Centro Nord perché lì ci sono più anziani (quindi più bisognosi di cure). Ma al Sud ci sono anziani più poveri: non conta niente? Finiscono per non curarsi più. Meno fondi significano decine di migliaia di medici e infermieri in meno in Puglia rispetto a una Emilia con pochi più abitanti. Anzi fanno la tratta dei malati: vengono a prenderseli anche con i furgoni pur di portarseli soprattutto in Lombardia. Un tempo lo si faceva con gli schiavi. Ora lo fanno con chi ha paura di morire.

Treni, sanità, autonomia: cos’altro deve succedere perché il Sud si arrabbi? Si tratta solo di decidere da dove cominciare...Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Dicembre 2022.

Allora, si tratta solo di decidere da dove cominciare ad arrabbiarsi. La Svimez lancia l’allarme per il Sud: nel 2023 recessione (Puglia meno 0,5 per cento, Basilicata meno 0,4, Centro Nord più 0,8 del Pil). Nel 2023 al Sud 500 mila nuovi poveri (più 2,8 contro lo 0,4 del Centro Nord, Puglia 100 mila in più). Un bambino che nasce al Sud corre un rischio doppio di morire entro il primo anno di età rispetto a uno del Centro Nord. Un meridionale su dieci non si cura più per mancanza di mezzi. E anche per questo un meridionale vive in media tre anni meno di un centro-settentrionale.

Ancora. Un bambino che nasce al Sud piange di più di uno che nasce al Centro Nord: non fa in tempo ad aprire gli occhi che si accorge di essere nato nel posto più bello ma più discriminato d’Italia. Avrà meno asili nido, meno tempo prolungato a scuola, meno mense scolastiche, meno scuola-bus, meno biblioteche, meno palestre, meno assistenti sociali. E deve cercare di non ammalarsi, perché nel 70 per cento di casi in più rispetto ad altri dovrà andare in regioni diverse dalla sua a ricoverarsi.

Ma non da meno quando diventerà più grande: solo la Regione Puglia in tre anni ha pagato 700 milioni a Regioni del Centro Nord dove i suoi malati sono stati costretti ad andare con i «viaggi della speranza». I poveri che finanziano i ricchi. Ma spesso viaggi del ricatto più che della speranza: scendono con navette dal Nord per portarseli, servizio tutto compreso. Non escluse «piratesche incursioni» (denuncia dell’assessore Palese) di medici settentrionali scesi per consulenze in cliniche private. E che colgono l’occasione per dirottarli su da loro, con precedenza negli interventi rispetto ai locali. La tratta dei malati non minore di quella degli universitari, essendo le università del Sud tanto meno finanziate di quelle del centro Nord da provocare la fuga.

Ma poi i treni. Il 70 per cento della rete ferroviaria al Sud è a binario unico (45 per cento Centro Nord) mentre il mondo si prepara ad andare su Marte. E da oltre metà del Sud con quattro ore di viaggio non si raggiunge neppure il 5 per cento della popolazione italiana. Lontani per geografia, isolati per decreto. Il 65 per cento dei porti sono al Sud, ma la maggior parte non hanno un mezzo binario che li colleghi al resto del creato. Al Centro Nord c’è un aeroporto ogni 50 chilometri, al Sud ogni 200.

Fermi qui per evitare la depressione. O l’esodo dal Sud che già c’è. Tanto più visto chi dice: colpa vostra, con tutti i soldi che vi sono dati. Se non ci fossero i Conti pubblici territoriali (ministero economia), la Banca d’Italia, la Corte dei conti, la Commissione parlamentare bilancio & C. a certificare come ogni anno sono sottratti al Sud 61 miliardi di spesa pubblica che vanno a finire al Centro Nord. I poveri che assistono i ricchi. Ormai lo sanno tutti, compresi i ricchi, tranne che non si voglia ancora sostenere che la Terra è piatta.

Ma allora, in un Paese per Costituzione equo e solidale, che si fa? Per insegnare ai poveri che peggio per loro se sono poveri, gli togliamo il Reddito di cittadinanza. Nato su una ipocrisia (e controlli inesistenti): te lo diamo ma tu devi accettare il lavoro che ti proponiamo. Lavoro che non viene dal cielo né dal cilindro di un mago. Come infatti avvenuto. Reddito non superiore a quanto il Nord, per dirne solo una, ha preso finora di sussidi Covid. Togliamo il Reddito, ma tanto c’è il Pnrr. Andato al Sud per il 40 per cento invece del 65 come voleva l’Europa. Quaranta che poi diventa solo il 22 con nome, cognome, indirizzo del Sud. Ma anche se vi spettano, dovete partecipare a un concorso con tutti gli altri Comuni per averli. Ma nei Comuni del Centro Nord ci sono più dipendenti che in quelli del Sud. Fatti vostri (anzi dei tagli sperequati dello Stato). Beh.

Almeno rimediamo alle ingiustizie della sanità. Fondi dello Stato maggiori al Centro Nord perché lì ci sarebbero più anziani. Ma anche se è così, sono anziani ricchi rispetto a quelli più poveri del Sud. Ora si discute se cambiare quel criterio. Con la fermissima opposizione di chi? Ma della Lombardia, dove la maggior parte dei viaggi della speranza vanno a finire. E voi ci volete togliere questo business del dolore?

Mah, un aiuto indiretto può venire al Sud dalla richiesta di Lombardia (solita), Veneto, Emilia Romagna di avere l’autonomia differenziata, svolgere da sé funzioni ora dello Stato. Occasione perché si calcolino finalmente quei bisogni del Sud tanto mai calcolati da averli finora negati. Ma per dare al Sud ciò che anche il presidente Mattarella dice che gli spetta, si dovrebbe togliere al Nord che ha avuto senza che gli spettasse. Bestemmia, bestemmia.

Fatta la somma, allora cos’altro deve succedere perché il Sud si arrabbi? E che dite, ci arrabbiamo o no?

Osservatorio napoletano. Regionalismo, Calderoli e De Luca più simili di ciò che si pensa. Rosario Patalano su Il Riformista il 22 Novembre 2022

Con la formazione del nuovo governo, il dibattito sull’autonomia differenziata, in attuazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, ha ricevuto una drastica accelerazione, impressa dal neoministro Calderoli. Secondo la bozza in discussione, presentata dal ministro, l’autonomia può essere avviata, “fino alla determinazione dei livelli essenziali nelle materie”, sulla base “del criterio della spesa storica sostenuta dalle amministrazioni statali nella Regione per l’erogazione dei servizi pubblici corrispondenti alle funzioni trasferite”. In pratica, Calderoli, propone la soluzione più drastica e immediata, suscitando come è ovvio la reazione avversa delle Regioni meridionali, Campania e Puglia in primo luogo.

Si avvia, così, una nuova fase della lunga e complessa vicenda della trasformazione in senso federale (o quasi) dello Stato italiano. Una scelta politica che in questi ultimi venti anni è stata largamente condivisa sia a destra che a sinistra dello schieramento politico. Non dimentichiamo che il processo prende avvio dalla legge costituzionale 3 del 2001, voluta dal Centro Sinistra, che modifica il Titolo V stabilendo che le regioni con i bilanci in ordine possano richiedere l’attribuzione di maggiori competenze rispetto a quelle normalmente previste per le Regioni a statuto ordinario. E un altro impulso decisivo, dopo anni di stallo, è stato dato dal governo Gentiloni, nel febbraio 2018, con la sottoscrizione di accordi preliminari con tre regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, le prime due rafforzate da consultazioni referendarie) per l’individuazione delle materie oggetto della devoluzione nell’ambito delle politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

A questo processo si aggiunse anche la Regione Campania, che, nel luglio 2019, approvò una bozza di accordo preliminare da sottoporre al governo, con “la piena determinazione – così si legge nel documento – ad accettare la sfida di competitività derivante dall’attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, nell’ottica di una più efficace ed efficiente erogazione di servizi pubblici ai cittadini campani e cogliendo le opportunità, in tal senso, offerte dal ricorso ai principi e ai criteri – scientificamente validati e sostenuti – dei fabbisogni e dei costi standard”. Su questa base la Regione Campania chiedeva l’attribuzione di materie come valutazione di impatto ambientale, autorizzazioni paesaggistiche, istruzione e formazione professionale, autonomia piena in materia sanitaria, pagamento dei contributi comunitari destinati alle imprese agricole, rete regionale dei musei e dei beni culturali. Di fatto, la principale regione del Mezzogiorno accettava la sfida dell’autonomia, anche senza la definizione preliminare dei livelli essenziali delle prestazioni e dei relativi fabbisogni e costi standard, che tuttavia dovevano essere varati entro e non oltre il primo anno. Una visione molto simile a quella della bozza Calderoli, anche se più precisa e stringente rispetto ai tempi (non si capisce perché oggi il presidente De Luca si oppone).

Si può dire per questa complessa vicenda dell’autonomia regionale che “ubi Erasmus innuit, ibi Lutherus irruit”, nel senso che la posizione ideologica della destra è stata superata dalle scelte istituzionali compiute dalla sinistra nel suo tentativo di guadagnare consensi nell’elettorato del Nord o rivendicare, come nel caso della Campania, un orgoglio campanilistico che non ha alcuna solida base reale nella sua debole struttura produttiva (la regione Campania, ricordiamolo, è al penultimo posto in Europa per tasso di occupazione, seguita dalla Sicilia). Se questi sono i fatti, l’unità nazionale, incarnata dallo Stato nazionale, è stata già infranta, nell’opinione pubblica (lo dimostra il successo dei referendum indetti da Lombardia e Veneto, o le rivendicazioni autonomistiche campane) ed il movimento regionalistico è accelerato dal processo di integrazione europeo. Chi può negare che oggi il Centro-Nord ormai è inserito nel nucleo più sviluppato dell’economia europea e che il destino delle regioni meridionali è oggi più legato alla Grecia e alla Spagna di quanto non lo sia alla Lombardia e al Veneto. Nel contesto europeo prevalgono gli interessi regionali e non quelli nazionali.

L’Unione Europea crea un contesto che riproduce l’assetto del Sacro Romano Impero, in cui all’autorità imperiale sovranazionale corrispondevano piccole sovranità su base regionale e non c’era spazio per la formazione di entità statali nazionali. Più si rafforzerà il processo di integrazione, più sarà ridotta e inutile la funzione dello Stato nazionale. In questo contesto, il sovranismo assume il ruolo di una battaglia ideologica di retroguardia, di un disperato tentativo di fermare un processo irreversibile, come la frammentazione regionale, la cui ineluttabilità è dettata dagli interessi economici. Questo governo si muove su questa contraddizione, che prima o poi gli sarà fatale. Se esiste spazio per un nuovo meridionalismo, il terreno su cui confrontarsi sarà il contesto europeo e non il declinante Stato nazionale. Rosario Patalano

Pedemontana Veneta: lo spreco di soldi pubblici ora trapela dai documenti ufficiali. Gloria Ferrari su L'Indipendente su L’Identità il 22 Novembre 2022 

Che la Pedemontana Veneta – la superstrada a pagamento lunga appena 94 chilometri che collegherà la provincia di Vicenza a quella di Treviso – sarebbe stato un grosso spreco di denaro pubblico, l’avevamo già preannunciato in una serie di articoli precedenti, ma ora, a distanza di qualche mese, le conferme cominciano ad arrivare anche dalle stime ufficiali. Nel bilancio di previsione 2023/25 della regione Veneto è scritto nero su bianco che ci si aspetta che la Pedemontana provocherà un buco di 54 milioni di euro nelle casse regionali per i prossimi tre anni. Fondamentalmente perché gli incassi derivati dai pedaggi (e quindi il volume del traffico) saranno notevolmente più bassi rispetto a quanto ipotizzato nelle a dir poco ottimistiche stime progettuali. Una verità che molti avevano già ipotizzato dati alla mano e una situazione per la quale il governatore Zaia dovrebbe delle spiegazioni convincenti ai cittadini veneti.

Il problema della Pedemontana è a monte, e il rischio, ormai piuttosto concreto, è che l’opera potrebbe finire per costare in totale alle casse pubbliche 12 miliardi. Cioè tre volte quello stimato per il Ponte sullo Stretto di Messina. A fare le stime sui costi esorbitanti dell’opera non è stato solo qualche comitato locale, e di certo non è storia recente. Ci aveva già pensato la Corte dei Conti, per cui il contratto firmato dall’amministrazione veneta, concepito per tutelare l’appaltatore privato da ogni rischio d’impresa, riversando lo stesso direttamente sulle tasche dei cittadini, è irragionevole. Un accordo che Laura Puppato, ex sindaca di Montebelluna (uno dei Comuni attraversati dall’opera) ha sintetizzato con queste parole: «Neanche da ubriachi si poteva firmare una cosa del genere».

Spieghiamo meglio. Il fulcro dell’accordo contrattuale raggiunto nel 2016 con il Sis, il concessionario privato che ha progettato e sta realizzando l’opera, prevede che per i prossimi 40 anni, oltre a un contributo straordinario di 300 milioni di euro, l’amministrazione di Luca Zaia dovrà versare un canone annuo di 153 milioni di euro a favore del Consorzio costruttore. Canone annuo, tra l’altro, destinato ad aumentare nel tempo, fino a toccare quota 332 milioni annui al 2059. Per un totale quindi, a termine degli accordati anni, di oltre 12 miliardi: più di 100 milioni di euro al chilometro.

Quello con il consorzio è una tipologia di accordo che prende il nome di project financing, utilizzato quando le risorse pubbliche non sono sufficienti a coprire in quel momento determinati costi. Insomma, il privato finanzia il pubblico con la garanzia di un ritorno economico, a prescindere dalle effettive entrate. Un tipo di accordo che privatizza i profitti e socializza le perdite, proteggendo a spese dei cittadini l’azienda appaltatrice da ogni rischio di impresa.

«Il rischio di impresa è stato accollato totalmente al soggetto pubblico (Regione Veneto) nel momento in cui è stato concesso un canone di disponibilità», ci aveva detto in un’intervista esclusiva l’ingegnere Nicola Troccoli, progettista ed unico firmatario della progettazione preliminare dell’intera opera per conto della ditta concessionaria, ovvero la Sis Scpa. «Se, infatti, si fosse rimasti con il rischio a carico del promotore (così come previsto dal bando), molto probabilmente l’iniziativa non sarebbe nemmeno partita, perché con quelle condizioni e con quell’alto rischio determinato dai flussi di traffico, non sarebbero mai stati trovati investitori». Per Troccoli, sarebbe stato molto più semplice ed opportuno, ad esempio, far completare il finanziamento dell’opera allo Stato o all’ANAS. O, come credono alcuni, non portarla a termine affatto.

In generale, tutta la vicenda è piena di contraddizioni e mancate risposte. C’è una sola certezza, ma non è quella che i cittadini avrebbero voluto avere: ci sarà da impiegare tanto, tantissimo denaro pubblico. [di Gloria Ferrari]

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 18 novembre 2022.

Ci sono in Italia argomenti così arati, usati, abusati, detti e contraddetti, poi dimenticati, quindi ripresi a seconda delle alleanze, dei governi e magari anche delle congiunzioni degli astri che quando come oggi rispuntano fuori viene da dire con un misto di sconforto e incredulità: uh, mamma, ancora? 

Uno di questi temi è il federalismo che si tira appresso, oltre al suono cavernoso del primissimo Bossi, "fe-de-ra-liiismo!", ulteriori e già un po' più articolate esclamazioni tipo: ma non l'avevano già fatto? Oppure: ma non ci avevano messo una pietra sopra? E comunque, con un occhio al futuro: ecco, ci mancava solo il federalismo.

Vero è che a un certo punto, per stanchezza, gli avevano pure cambiato nome, per cui all'inizio del secolo il federalismo venne detto "devolution"; mentre oggi si parla di "autonomia", per giunta "funzionale". Il mese scorso il nuovo governo le ha dedicato addirittura un ministero, "Affari regionali e autonomie", là dove il plurale lascia immaginare la più prevedibile abbondanza di pastrocchi accompagnati da una pari quantità di grane, allorché nel centrodestra le pretese federali inesorabilmente faranno cortocircuito con la sacra nozione e la retorica di Patria. 

Alla testa del ministero, come premio di consolazione per la mancata elezione alla presidenza del Senato, c'è Roberto Calderoli, che nel suo cursus honorum, in nome dell'iper-autonomia turbo- federale deve vantare il falò di qualche tricolore, e che durante la cerimonia veneziana della Dichiarazione d'indipendenza (1996), abito scuro e mano sul petto, fu chiamato a declamare gli articoli della Costituzione della Padania.

Calderoli presenterà presto una bozza di Autonomia/e. Si tratta del suo secondo o terzo testo dedicato. Siccome l'Italia, pure nella versione padana, è una Nazione parecchio espressiva, la prima bozza federalistica venne compilata nell'agosto del 2003 da quattro "saggi" del centrodestra auto-segregatisi - l'attuale ministro in pantaloncini tirolesi - all'interno di una scomoda baita nel Cadore, a Lorenzago. 

Un anno e mezzo dopo, era Pasqua, la riforma federalista fu pronta, ma poiché la suddetta espressività ci mette nulla a trasformarsi in buffoneria, Calderoli ritenne opportuno sigillare la normativa cartacea in un uovo di cioccolata che festosamente recapitò a Bossi. A Gemonio, provvisto di martellone, il piccolo Eridano Sirio ruppe l'uovo e poco dopo la devolution divenne legge - che l'anno seguente, 2006, gli italiani abrogarono con un referendum.

Sennonché la Repubblica dei pasticci legislativi non ha mai capo né coda, né mai contempla esclusivi pasticcioni. Per cui dopo gli strepiti da comizio del Senatùr ed esaurite le provocazioni del professor Nosferatu Miglio, che a un certo punto arrivò a prefigurare nientemeno che una Repubblica dell'Etruria, anche la sinistra e i suoi dissennati costituzionalisti s' innamorarono di questo benedetto federalismo, tanto da farne un caposaldo della Commissione Bicamerale D'Alema, oltre che la ciliegina sulla vana crostata di casa Letta.

Fatto sta che nel marzo del 2001, a fine legislatura, con l'acqua alla gola e quindi incastonandolo fra il nuovo codice della strada e la rinnovata disciplina dell'attività pugilistica, ecco che gli strateghi del centrosinistra, incuranti di creare un pericoloso precedente, approvarono a maggioranza un testo di riforma costituzionale del Titolo V recante raffazzonate e sgangheratissime norme sulle regioni, le province e i comuni. 

Su tale base nel 2008, divenuto ministro, Calderoli presentò la sua penultima bozza di Federalismo, nel caso specifico fiscale: sempre in Cadore, all'hotel "Ferrovia" di Calalzo, e sempre in atmosfera festosa celebrando il compleanno del ministro Tremonti, al quale davanti ai fotografi insieme con Bossi tirò le orecchie con una certa energia.

In seguito Salvini, fattosi acceso sovranista e cristianista, lasciò un po' cadere la smania del federalismo. Ma i risultati del pregresso lavorio si sono visti durante l'ondata del Covid con le regioni e i loro governatori che andavano e facevano ognuno per conto suo.

Una buona ragione per ricominciare. 

La sintesi dell'eterno ritorno può rinvenirsi in una vignetta di Altan donata al presidente Ciampi. C'è un tipo che dice: «Insistono con le riforme e il federalismo». Risponde l'altro: «Ma se facciamo tutto noi cosa gli resta da fare ai nostri figli?».

Il Mezzogiorno deve mobilitarsi contro la secessione dei ricchi. Lotta senza quartiere a un'ingiustizia voluta da una forza che ha solo l'obiettivo di separarsi dal resto del Paese. PIETRO MASSIMO BUSETTA il 16 Novembre 2022 su Il Quotidiano del Sud.

Protervia, arroganza quasi disprezzo. La presentazione della bozza del disegno di legge, contenente le disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata da parte del ministro Roberto Calderoli, sa tanto di un’apertura di ostilità e di una forzatura oltre ogni prevedibile immaginazione, sia nei tempi che nei contenuti.

Tutti temevamo che si andasse velocemente verso l’obiettivo, dichiarato e inserito nel programma di governo, ma nessuno pensava che si procedesse a tappe forzate così velocemente.

L’OBIETTIVO: CREARE DUE ITALIE

In realtà questo è il risultato della strada preparata dai ministri per gli Affari regionali precedenti, da Francesco Boccia, del Pd, a Mariastella Gelmini allora ministro di Forza Italia, che condividono la responsabilità della fase a cui siamo arrivati. Come pure non va dimenticata la modifica dell’articolo V della Costituzione voluta dal Pd, per inseguire sul suo campo la Lega, prodromo della situazione di oggi.

Adesso si è alzata ulteriormente l’asticella e sembra che l’obiettivo di Calderoli, su sollecitazione sempre più espressa di Luca Zaia, paladino della statuizione dell’esistenza di un Paese di serie A e uno di serie B, sia di andare oltre ogni limite prevedibile. E così va a farsi benedire ogni logica che avrebbe suggerito che si potesse arrivare a forme di autonomie rafforzate, solo tenendo ferme, se non i livelli uniformi di prestazioni (che da tempo, insieme a Massimo Villone e Adriano Giannola, auspichiamo), perlomeno i livelli essenziali di prestazione, che in questa bozza non diventano più presupposto per l’applicazione dell’autonomia.

Qui si continua a sostenere, con arroganza, e senza alcuna logica, che bisogna continuare con la spesa storica, anche se essa penalizza per circa 60 miliardi l’anno il Sud del Paese.

E che bisogna continuare nel processo di autonomia senza ottenere e perseguire quella perequazione infrastrutturale che sembrerebbe un elemento di giustizia quasi banale, per un Paese, nel quale tutti cittadini hanno gli stessi diritti.

LA REAZIONE DEL SUD

La raccolta, complicata, di 50.000 firme per la proposta di legge presentata da Massimo Villone e dai sindacati confederali della scuola, più Confasal e Gilda, mira a mettere degli opportuni paletti. È certamente un buon inizio della lotta senza quartiere che bisogna fare alla statuizione di un’ingiustizia che viene a essere legittimata come possibile e legale dalla volontà di una forza che aveva come obiettivo quello di secedere dal resto del Paese per correre da sola secondo le proprie affermazioni e che, vista l’impossibilità di raggiungere quell’obiettivo, sta cercando di ottenerne i contenuti, mantenendo il vantaggio di potersi giocare sui tavoli internazionali il grande atout di essere un Paese di 60 milioni di abitanti, anche se in realtà tali vantaggi vengono indirizzati spesso solamente a una parte.

Come si muoveranno i nostri rappresentanti politici territoriali rispetto a una precisa volontà della maggioranza di procedere calpestando qualunque tipo di logica perequativa? Continueranno ad aggregarsi rispetto alle posizioni dei partiti nazionali e quindi a dividersi sulle appartenenze al di là dei contenuti e delle convenienze dai territori o finalmente faranno gruppo impedendo con qualunque mezzo che si attui un primo passo verso una spaccatura del Paese, che prima o poi inevitabilmente porterà a rompere quell’unità formale per la quale i nostri avi hanno combattuto e in molti sono morti? Riusciranno i presidenti delle Regioni meridionali a fare fronte comune, da Mario Occhiuto a Renato Schifani, da Vincenzo De Luca a Michele Emiliano, insieme ai tanti sindaci con a capo Gaetano Manfredi e Antonio De Caro?

E il Pd prenderà finalmente una chiara posizione, anche contro gli interessi che, subdolamente con dichiarazioni equivoche, molti settentrionali a cominciare da Stefano Bonaccini a Piero Fassino a Giuseppe Sala perseguono? E i Cinque Stelle, al di là di una posizione espressa contro, proporranno forme di lotta che facciano capire che si è superato ogni limite tollerabile?

SERVE URGENTEMENTE LA MORAL SUASION DEL QUIRINALE

Mentre sarebbe opportuno che la Presidenza della Repubblica, come è accaduto in tanti casi delicati, utilizzasse la propria moral suasion per impedire che un progetto di secessione, camuffata da efficientismo istituzionale, possa essere completato.

Il passaggio è tra i più complicati che il Paese abbia attraversato negli ultimi anni. La presenza di un presidente del Consiglio, capo di un Partito che crede nella unità nazionale, dovrebbe essere una garanzia di freno all’esaltazione incontrollata di una forza senza alcuna visione e alcun senso dell’interesse nazionale, che pensa di potersi salvare tagliando lo stivale e facendolo affondare in solitudine.

Tranne, poi, recuperarlo quando, con le dichiarazioni del presidente Bonomi, si ritiene che questa parte debba essere la batteria del Paese, oltre che fornire materiale umano, pronto all’emigrazione, per il sistema industriale del Nord. Riusciremo a fermarci o invece metteremo in moto una slavina che potrà trasformarsi in una valanga che potrà travolgere l’unità del Paese?

Il Sud contro l'autonomia. Ma Calderoli rassicura: "I loro timori spariranno". Vertice sul disegno di legge. Fanno muro i presidenti del meridione: divario col Nord. Lodovica Bulian il 19 Novembre 2022 su Il Giornale.  

Mentre si allarga il fronte del Sud che resiste all'autonomia differenziata, con la prudenza anche di alcuni governatori di centrodestra, il ministro Roberto Calderoli dispensa rassicurazioni. Ricorda che quella sul federalismo è per ora solo una bozza e che deve ancora «sentire diversi governatori». È certo che i «timori spariranno». Sono soprattutto quelli delle regioni meridionali che temono disuguaglianze e sperequazioni nella devoluzione di competenze alle Regioni: dalla scuola, con retribuzioni differenziate, al trasporto, all'energia, al coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Ventitre materie di cui le regioni possono appropriarsi in base all'articolo 117 della Costituzione. La bozza prevede ulteriori forme e attribuzioni di autonomia in base all'articolo 116. Il sud teme che aumenti un gap con il nord difficilmente poi sanabile. Il più duro, insieme con Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, è il governatore della Campania che parla di bozza «irricevibile»: «Qualcuno immagina che l'autonomia differenziata possa valere per il mondo della scuola e per il personale sanitario, cioè di poter fare contratti regionali integrativi per il personale scolastico e sanitario. Questo significherebbe davvero spezzare l'unità nazionale».

Il nodo sta nella definizione nei cosiddetti Lep. I livelli essenziali di prestazioni, cioè gli uguali diritti ai servizi per i cittadini. Le regioni del Sud chiedono garanzie e chiedono di definirli prima di procedere. In base alla bozza, l'esecutivo avrà tempo 12 mesi per determinare i livelli minimi ed essenziali delle prestazioni che dovranno essere rispettati dalle Regioni nella gestione delle loro competenze, in modo da avere uniformità su materie come salute, scuola, ambiente e beni culturali. Il testo prevede anche che, trascorso un anno senza definizione dei Lep a livello governativo, le competenze passeranno direttamente ai governatori.

«Sono convinto che dopo 21 anni in cui c'è la previsione che lo Stato definisca i livelli essenziali delle prestazioni, questo governo e questa legislatura arriverà alla definizione di tutti i livelli - ha assicurato Calderoli, dopo il vertice di governo alla Camera - qualunque tipo di rischio verrà superato e messo un paracadute per tutti. Nessuno intendere svaporare nessuno». C'è poi il capitolo dei finanziamenti. La bozza stabilisce che le risorse necessarie alle Regioni per occuparsi delle materie vengano attribuite secondo il criterio della spesa storica: chi più ha speso negli anni per i servizi corrispondenti alle funzioni, più riceverà. Il valore preciso dei fondi verrà approvato da una Commissione paritetica Stato-Regione. Ma il criterio della spesa storica dovrebbe poi essere superato, a regime, «con la determinazione dei costi standard, dei fabbisogni standard e dei livelli di servizio cui devono tendere le amministrazioni regionali quali strumenti di valorizzazione e valutazione dell'efficacia e dell'efficienza della loro azione amministrativa e per il finanziamento delle funzioni riconducibili ai livelli di essenziali delle prestazioni».

Sulla cautela di alcuni governatori di centrodestra, Lucia Ronzulli precisa che «per quanto riguarda Forza Italia ci sono sensibilità diverse tra Nord e Sud ma c'è la volontà, anche con dei tempi consoni, di andare avanti sulla riforma dell'autonomia differenziata. Altra cosa - spiega - è quella proposta oggi, cioè un tavolo, una struttura politica, che preveda di definire i Lep e i costi standard in modo che le Regioni abbiano già i Lep pronti quando sarà finito l'iter sull'autonomia». Compatti i governatori del Friuli e del Veneto, i leghisti Fedriga e Zaia: «Dire no a priori significa dire no alla Costituzione. Nessuno interpreta questo percorso come la secessione dei ricchi né tantomeno intende lasciar indietro qualcun altro».

METTETE CALDEROLI SOTTO TUTELA. LO SCANDALO DELLA BOZZA DELL'AUTONOMIA DIFFERENZIATA DEI RICCHI CHE SPACCA IL PAESE E ESAUTORA IL PARLAMENTO. ROBERTO NAPOLETANO il 17 Novembre 2022 su Il Quotidiano del Sud.

Ci sono tutte le condizioni politiche per accompagnarlo alla porta o metterlo con urgenza sotto strettissima tutela della Presidenza del Consiglio. Calderoli fa il ministro della Repubblica o il lobbista degli interessi particolari dei ricchi? Conosce il quadro legislativo o pensa che la legge sia un accordo tra parti secondo le loro convenienze? C’è un problema istituzionale gigantesco perché una Regione non ha titolo per negoziare singolarmente con uno Stato perché vorrebbe dire che la Regione è, a sua volta, uno Stato. Anzi, vorrebbe dire che l’Italia è uno Stato federale che fa figli e figliastri per cui alcuni sarebbero Stati federati e altri magari anche Stati ma non federati e non federabili. Senza neppure prevedere una clausola di supremazia dello Stato centrale in questi negoziati “fuorilegge” che hanno il solo scopo di cristallizzare la situazione di vantaggio indebito a favore delle regioni più ricche stabilizzando che esistono nella scuola e nella sanità cittadini di serie A e cittadini di serie B. Ora Calderoli dice che la sua non è una bozza, ma un appunto

Roberto Calderoli non è degno di essere un ministro della Repubblica italiana. Fa il ministro della Repubblica o il lobbista degli interessi particolare dei ricchi? Conosce il quadro legislativo o pensa che la legge sia un accordo tra parti secondo le loro convenienze? Certe cose non si possono neanche pensare. L’idea che in questo Paese si può fare qualsiasi cosa non è più tollerabile.

L’idea che non ci sia un limite nel fare le leggi e che si possa mettere sotto forma giuridica qualunque cosa ci passi per la testa è fuori dalle regole del mondo civile e delle democrazie repubblicane, ma se a pensarla così è addirittura un ministro in carica della Repubblica ci sono tutte le condizioni politiche per accompagnarlo alla porta o metterlo con urgenza sotto strettissima tutela della Presidenza del Consiglio. Non ci venga a dire, per carità di patria, il ministro Calderoli che la sua bozza di disegno di legge (“Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”) con un elenco infinito di materie da attribuire alle Regioni e nove articoli di cui uno posticcio di finta perequazione, l’ottavo, aggiunto in extremis come foglia di fico, possa essere ridotta da lui stesso che la aveva curato nei minimi dettagli in pochi minuti al rango di un appunto.

Perché, a questo punto, non siamo più in un ambito governativo e nemmeno in quello di qualche malandata amministrazione territoriale, siamo addirittura al tavolino del gioco delle tre carte di Forcella, a Napoli, elevato al rango di sostituto della sovranità parlamentare e delle regole fondanti dello Stato italiano. Credo che ci siano davvero tutti gli elementi urgenti perché venga chiamato a rendere conto sul piano istituzionale della gravità dei suoi comportamenti che arrivano a sfiorare l’ipotesi di cambiamento di regime di un Paese.

Come ha mirabilmente spiegato su queste colonne Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale, non si possono stipulare accordi tra Presidenti delle Regioni e Presidente del Consiglio esautorando di fatto il Parlamento come prevede il comma 3 dell’articolo 2 della “bozza” ridotta a “appunto” e anche quelli seguenti tra cui uno che dà un termine di 30 giorni al Parlamento per esprimere il suo parere chiarendo che se non arriva si procede uguale. C’è un problema istituzionale gigantesco semplicemente invalicabile perché una Regione non ha titolo per negoziare singolarmente con uno Stato perché vorrebbe dire che la Regione è a sua volta uno Stato. Anzi, per essere ancora più precisi, vorrebbe dire che l’Italia è già uno Stato federale che fa peraltro figli e figliastri per cui alcuni sarebbero Stati federati e altri magari anche Statimanon federati e non federabili. Senza peraltro neppure prevedere, in tutto l’articolato, una clausola di supremazia dello Stato centrale in questi negoziati “fuorilegge” che hanno il solo scopo di cristallizzare la situazione di vantaggio indebito a favore delle regioni più ricche.

Blitz Lega sulla legge spacca Italia si viaggia verso lo scontro frontale. CLAUDIO MARINCOLA il 18 Novembre 2022 su Il Quotidiano del Sud.

La Lega, per il tramite del ministro Calderoli, vuole andare avanti come un treno per mettere a segno la legge spacca Italia sull’autonomia differenziata

Vuole andare avanti come un treno, bruciando le tappe, il ministro Roberto Calderoli. Con il rischio di deragliare, però. Il percorso del suo disegno di legge è iniziato con una falsa partenza. All’incontro con i presidenti delle Regioni è stato subito scontro. Discussione su una bozza non concordata, scritta su input dei governatori di Veneto e Lombardia, testo rispedito al mittente e senza i ringraziamenti di rito. Anzi.

LA LEGA, LA LEGGE SPACCA ITALIA E IL NODO DEI LEP

«La bozza non va nella direzione auspicata dalle Regioni del Sud, non consente al Parlamento di incidere sull’intesa, violando la Costituzione – getta il primo colpo di spugna Michele Emiliano, presidente pugliese e vice-presidente della Conferenza Stato-Regioni – Dice che se una Regione e il governo fanno un’intesa il Parlamento non può mettere becco, deve passare come mera approvazione. E siccome la Costituzione questa cosa non la prevede – la bozza Calderoli è un errore dal punto di vista costituzionale».

Calderoli sostiene il contrario. Secondo lui anticostituzionale è bocciare l’autonomia (che lui vorrebbe in salsa leghista). Risultato: se si prosegue così si va al muro contro muro.

Apparentemente tutti parlano di «clima positivo», dove «nessuno ha fatto barricate». In realtà, l’unico ancora ottimista resta il presidente della Conferenza delle Regioni e del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, per il quale la faccenda si potrebbe chiudere entro il 2023.

Il nodo che blocca qualsiasi processo di autonomia e l’attuazione dei Lep, un’attesa che dura da 21 anni. Fermo restando che alcune materie, come Scuola, Trasporti ed Energia, dovrebbero restare fuori dalle intese e rimanere di competenza statale.

Calderoli e i suoi amici della Lega hanno fatto tutto da soli. Se la sono cantata e suonata sapendo che sarebbero finiti in un vicolo cieco. Il sospetto è che lo abbiano fatto in vista delle prossime elezioni amministrative lombarde. Un diversivo per gettare fumo negli occhi e recuperare i consensi ceduti alla Meloni.

LA PROTESTA DEI SINDACATI

I sindacati non sono stati consultati. «Auspichiamo che il nuovo ministro non voglia escludere le parti sociali dal necessario confronto su una questione così dirimente per la vita di tante lavoratrici e lavoratori – ha osservato il segretario confederale della Cgil, Christian Ferrari – I diritti non sono differenziabili».

A prescindere dalla fretta di Calderoli, la strada sarà dunque lunga e anche Luca Zaia, il presidente del Veneto, il principale sponsor dell’autonomia, lo ha capito. «Di appuntamenti – prevede – ne avremo molti, è una riforma importante».

Stefano Bonaccini guida una di quelle regioni, l’Emilia-Romagna, che firmarono le pre-intese con il governo Gentiloni. Vuole l’autonomia differenziata, ma solo con i Lep, dice, mostrandosi più prudente di altre volte, forse perché è in lizza per la segreteria del Nazareno e non vuole inimicarsi troppo il Sud. Il dem Francesco Boccia, del resto, è stato chiaro: il punto di caduta è la sua legge-quadro del 2020. Con i Lep e i fabbisogni standard.

L’ALLARME DEL SUD SULLA LEGGE SPACCA ITALIA VOLUTA DALLA LEGA

«Se le Regioni non vengono messe nelle medesime condizioni di partenza – dice il presidente del Consiglio regionale della Campania, Gennaro Oliviero, che promette battaglia – con la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, e se resta il criterio della spesa storica nel trasferimento dei finanziamenti alle Regioni, l’autonomia regionale differenziata sarebbe, per il Mezzogiorno, un grave danno che andrebbe ad aggravare l’attuale divario economico e sociale che penalizza il nostro territorio».

L’Assemblea campana si riunirà il prossimo 29 novembre in seduta straordinaria. Lo hanno richiesto 17 consiglieri regionali dei gruppi del centrosinistra e del M5S. «È un attacco al sistema di solidarietà e sussidarietà che finirà per togliere risorse e prospettive al Sud», tuona Vincenza Aloiso, senatrice M5S che ha depositato un’interrogazione parlamentare sottoscritta da 20 suoi colleghi.

I PALETTI DI ANTONIOZZI: AUTONOMIA CON IL PRESIDENZIALISMO

E il centrodestra? «Il presidente Giorgia Meloni ha ribadito, nel giorno dell’insediamento, che l’autonomia differenziata si farà, ma con un equilibrio armonico tra Nord e Sud e secondo un quadro di coesione nazionale»: così mette i paletti Alfredo Antoniozzi, vice capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera.

«La garanzia che viene data dal presidente Meloni – prosegue Antoniozzi – è quella più sicura e conferma l’idea di un federalismo che è basato, però, su un quadro generale di coesione. Peraltro il presidente Meloni ha parlato di autonomia parallelamente alla riforma presidenziale che gli italiani invocano e che darebbe modernità alla nostra nazione».

Non c‘è ancora, dicevamo, un fronte del Sud compatto. Mario Occhiuto, presidente della Regione Calabria, dice di voler proseguire il confronto «senza pregiudizi».

Chi, invece, considera la proposta Calderoli «del tutto irricevibile», a partitre dal venir meno del carattere nazionale della scuola fino alle ipotesi di “residuo fiscale”, è il vice-presidente dei deputati del Pd alla Camera, Piero De Luca. Dovrebbe rivolgersi, però, anche al suo collega di partito, il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, che è già pronto a trattare per tutelare gli esclusivi interessi della propria regione e per poter gestire in piena autonomia beni culturali e geotermia.

Autonomia, Occhiuto: «Niente pregiudizi, ma serve uniformità. La spesa storica danneggia il Sud».  Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 18 Novembre 2022.

Il presidente della Regione Calabria sulla bozza Calderoli: così chi aveva meno, avrà sempre meno. Prima ci vuole la perequazione 

«Autonomia differenziata delle Regioni? Sì, a patto che la Costituzione si attui nel suo complesso e non “a pezzi”». Sulla bozza Calderoli il presidente della Calabria, Roberto Occhiuto, esce dallo schema Nord contro Sud.

Non pensa che la bozza penalizzi il Mezzogiorno?

«Le bozze sono bozze. Sono proposte per ragionarci su. Non sono tavole della legge».

L’autonomia differenziata non lascerà il Nord più ricco e il Sud ancora più povero?

«Dipende da come viene realizzata».

Come la immagina il ministro Calderoli non va bene?

«Non ho chiusure pregiudiziali. L’ho detto in riunione: accettiamo la sfida. Però...».

Però?

«Non è solo l’articolo 116 a non essere applicato. Anche il 117, il 119. Se lo fossero tutti, in termini di fiscalità il Sud potrebbe persino guadagnarci».

Come?

«Ad esempio sull’energia. La mia Regione ne produce molta: il 42% da fonti rinnovabili, poi c’è l’idroelettrico e altro. In totale più di quello che consumano i calabresi. Ma la bolletta ha, in percentuale, le stesse tasse del Veneto. Perché la mia Regione non può mantenere i maggiori introiti fiscali derivanti da una maggiore produzione di energia alternativa? Se un gruppo industriale volesse realizzare un grande impianto eolico offshore dovrei convincere i cittadini. Sarebbe giusto che avessero dei vantaggi concreti. Oppure il Porto di Gioia Tauro. È il primo porto d’Italia ma non produce ricchezze in Calabria. Sarebbe giusto mantenere una parte degli oneri doganali».

Emiliano dice che applicando i Lep è il Sud ad essere avvantaggiato. Concorda?

«Sì. La Costituzione prevede l’uniformità su tutto il territorio nazionale. Ma non è così. Si finanzia ciascuna regione secondo la spesa storica: chi aveva meno, e ha potuto spendere di meno, avrà meno. Chi aveva di più sempre di più»

Ad esempio?

«Ipotizziamo che Crotone abbia avuto 100 mila euro per gli asili e Bergamo 1 milione. Se si aumentano ad entrambe le città le risorse del 10% non si pareggiano le diseguaglianze, si accentuano».

E allora cosa propone?

«Stabiliamo i Lep sui fabbisogni standard, facciamo la perequazione e dopo può partire l’autonomia differenziata. Ma su criteri giusti. È un lavoro complesso che in 20 anni non è mai stato fatto. Ma se si vuole attuare il titolo V bisogna farlo per intero».

Anche sull’istruzione?

«L’istruzione è materia delicata. Affidarne il governo e l’organizzazione alle Regioni può significare costruire più sistemi scolastici e aumentare le divaricazioni sociali, a partire dalla formazione e dai saperi, tra regioni più ricche e più povere».

Intervista a Gianfranco Viesti: “L’autonomia voluta dalla Lega è un golpe bianco”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 19 Novembre 2022

Sull’autonomia differenziata il governo rischia grosso. La Lega sogna il colpaccio ormai da anni, ma più passa il tempo e più i nodi vengono al pettine. Le 22 materie di possibile autonomia, regione per regione, diventano chimere: i governatori del Centrosud sono scettici quando non ostili. E alcuni, tra i governatori di destra come Occhiuto, in Calabria, gridano alla mobilitazione. Quasi un “No pasaràn” che mette in scena il testacoda del sovranismo, tanto lodato e declamato alle elezioni quanto poi tradito e contraddetto – perché inconsistente e inapplicabile – una volta entrati nelle stanze dei bottoni a Palazzo Chigi.

Nessuno oggi vorrebbe essere nei panni di Roberto Calderoli. Perché il ministro per gli Affari regionali – “e le Autonomie”, come adesso si chiama – sembra averlo capito. E se il centrodestra di lotta continua a vivere in una campagna elettorale permanente, il centrodestra di governo frena. Con Forza Italia e Fratelli d’Italia che chiedono alla Lega maggiore cautela, il coinvolgimento diretto delle Regioni e un percorso aperto in Parlamento. Succede così che la proposta di legge diventa una bozza. La bozza, un appunto. E quell’appunto, una brutta copia di lavoro sulla quale la Lega ha capito di non poter stare troppo sugli scudi. Per non parlare del centrosinistra che grida all’attentato alla Costituzione. Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca è tornato sui tre motivi principali per cui rigetta la bozza del decreto sull’autonomia regionale presentato dal ministro Calderoli in conferenza Stato-Regioni.

«Immaginano – ha detto De Luca – di avviare un percorso di nuova autonomia differenziata nelle Regioni in modo da danneggiare ulteriormente il Sud. Possiamo ragionare di decentramento di poteri partendo dalla distribuzione di risorse che ha visto penalizzato drammaticamente il sud; quindi, prima bisogna decidere i Livelli Essenziali Prestazioni (Lep), cioé decidere come fare le prestazioni in maniera identica in tutto il Paese, definendo i costi standard dei servizi. È ridicolo andare avanti senza aver deciso prima quali sono i Lep da garantire da Nord a Sud». Abbiamo sentito sull’argomento il professor Gianfranco Viesti, economista, titolare della cattedra di Politica economica all’Università di Bari.

L’Autonomia differenziata crea squilibri e diseguaglianze, professore?

Sì. Sia sul versante di come funziona lo Stato sia sul versante dei territori ci sarebbero conseguenze nefaste per la coesione e sul piano dell’uguale diritto a fruire di buoni servizi da parte di tutti gli italiani. Si potrebbe arrivare a minare le basi della civile convivenza così come l’abbiamo fin qui conosciuta, e a rimettere in discussione il portato della Costituzione.

Secondo lei c’è un problema di strategia politica, di visione?

Questa proposta viene dal passato. Da una vecchia battaglia leghista volta a ottenere per il Nord sempre più potere e più denaro. Questa battaglia si sta oggi intelligentemente rivestendo di questa possibilità di autonomia differenziata, interpretata in senso estremo. È difficile da giudicare perché manca di una logica di governo, di un disegno complessivo che giustifica questo squilibrio di competenze.

Quali rischi vede?

Per la tenuta unitaria del Paese. Vedo una Italia fatta a pezzi. A coriandoli. Con due regioni del tutto autonome, altre tre semiautonome, altre tre che provano a imboccare la strada senza fari accesi. Una regione in cui non ci si riesce a curare bene, un’altra in cui i parametri dell’istruzione sono tutti strani… Il servizio sanitario nazionale deve al contrario diventare elemento strategico dell’interesse nazionale, come ci ha insegnato la vicenda Covid.

Ci sono materie sulle quali una democrazia unitaria non può negoziare?

Le competenze sulla sanità, sull’energia, sulla scuola, su infrastrutture e sull’ambiente sul lavoro non possono diventare oggetto di declinazione regionale. L’efficacia dell’azione pubblica si ha dal governo nazionale e dalle politiche europee, per loro natura.

Anche la scuola, professore? I Veneti vogliono introdurre l’insegnamento del Veneto nelle scuole della futura regione federale veneta…

(Ride) Poi lo voglio vedere un neolaureato che cerca lavoro e mentre i suoi colleghi europei parlano almeno quattro lingue, e sempre più imparano anche il cinese, scrive nel suo curriculum di parlare bene il veneto. Si preclude il 99% delle opportunità. Non siamo ridicoli, per favore.

Serve intanto una legge quadro.

Dal punto di vista giuridico la situazione è complicatissima. Molti giuristi sostengono che non serve una legge quadro, perché non ha potere cogente rispetto ai poteri dello Stato.

Potrebbe servire a condividere i criteri generali?

Ammettiamo che così fosse. Ma questa legge quadro dovrebbe esprimere la volontà politica di indicare cosa vuoi decentrare o meno. Qui c’è un grande fraintendimento: il presidente Zaia dice che in queste ventidue materie possiamo chiedere tutto, e quindi lo chiediamo. Bene. Ma va detto che chiedere non può significare ottenere. Bisogna andare a condizionare i casi. Governo e Parlamento in rappresentanza di tutti gli italiani devono esprimere una valutazione non sulla fattibilità giuridica ma sulla opportunità politica di avere una o venti scuole regionali in Italia. Serve una legge quadro se mette dei paletti, se individua priorità e criteri.

Io ho la sensazione che la Lega ci farà una campagna elettorale permanente. Calderoli dice che la pratica va chiusa entro il 2023. Come si può chiudere questa partita?

È una vicenda interessantissima. E ricca di colpi di scena. Il grande assist alle tre regioni del Nord lo ha fatto Gentiloni il 28 febbraio 2018 con una preeintesa con le Regioni. Non gli portò fortuna: pochi giorni dopo è finita l’esperienza del centrosinistra. Poi è arrivato il Conte 1, con un ministro come Calderoli che lo dava già per fatto (con un ministro che giocava nella squadra delle Regioni, più che in quella del Governo) e invece quando il Consiglio dei ministri gialloverde doveva approvare il provvedimento, è caduta la maggioranza.

Ora Calderoli, un po’ scottato, ci va piano. Dice di voler procedere per intese progressive.

Le bozze delle intese, che avevano preparato Zaia e Stefani, io le ho viste. Sono lunghissime, ma non hanno il succo. Le specifiche competenze, il personale da trasferire alle Regioni è demandato alle commissioni paritetiche. Nel momento in cui si firmasse una intesa così ampia, tutto il potere andrebbe in mano a una commissione tecnica, con effetti irreversibili.

Arrogandosi un potere costituzionale? Sarebbe devastante.

Sarebbe un colpo di stato bianco, un golpe tecnico. Una forzatura irreversibile sull’unità nazionale. Il succo sta nei dettagli. Immagino una lunghissima discussione parlamentare a valle della quale si decide di demandare il compito di negoziare il trasferimento dei poteri alle Regioni a una commissione paritetica. Altro che Calamandrei.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

SMASCHERATO IL PASTICCIACCIO DI CALDEROLI. LA BOZZA ELETTORALE DI AUTONOMIA DELLA LEGA E LA MESSA SOTTO TUTELA DEL MINISTRO DA PARTE DELLA MELONI. ROBERTO NAPOLETANO il 18 Novembre 2022 su Il Quotidiano del Sud.

Il testo-provocazione del ministro pro tempore Calderoli va riscritto totalmente in radice. Perché la ragione politica della maggioranza di governo è la perequazione da attuare nella soddisfazione dei diritti di cittadinanza prima di attribuire nuove funzioni alle Regioni. Calderoli ha tirato i remi in barca e il suo pasticciaccio si inserisce in una battaglia che parla agli elettori del Nord per dire “noi e non Fratelli d’Italia sventoliamo la bandiera dell’autonomia”. È un “gioco sporco” che esce dai binari concordati del programma di governo dove autonomia differenziata e presidenzialismo procedono parallelamente. Abbiamo il dovere di ricordare a lui che il calendario della Lega non coincide con il calendario dei bisogni del Paese. Terremo sempre molto alta la guardia perché il ministro Calderoli politicamente messo sotto tutela dalla premier Meloni resti ben stretto in questa condizione che è l’unica che consente di mantenerlo nella compagine di governo. Perché ha violato gli obblighi di lealtà a cui è vincolato un ministro quando entra a fare parte di una compagine di governo

Non avevamo dubbi, ma siamo soddisfatti che le cose sono andate proprio come questo giornale riteneva che dovessero andare con urgenza assoluta. Avevamo chiesto di mettere sotto tutela diretta della Presidenza del Consiglio il ministro Calderoli e il suo progetto incostituzionale di riforma dell’autonomia differenziata ed è esattamente quello che è avvenuto. Bisogna riconoscere che la guida politica di governo di Giorgia Meloni si misura con i problemi in modo pragmatico e facendo sentire la sua presa strategica. Apprezziamo, soprattutto, che i temi quando diventano cruciali perché toccano le fondamenta della Repubblica e assumono la fisionomia di insidia grave per la credibilità internazionale del Paese e la tenuta del suo equilibrio sociale, questa mano ferma si fa puntualmente sentire.

È stato unanime il riconoscimento che i livelli essenziali di prestazione (Lep) che restituiscono a chi ne è stato brutalmente derubato gli elementari diritti di cittadinanza nella scuola come nella sanità oltre che nel trasporto pubblico locale, dovranno essere varati prima di qualsiasi ipotesi di trasferimento di funzioni a questa o quella Regione. Perché lo Stato è ancora unitario e l’Italia non è una Repubblica federale.

Il testo-provocazione del ministro pro tempore Calderoli va riscritto totalmente in radice. Perché la ragione politica non discutibile della maggioranza di governo di cui fa parte è che la perequazione da attuare non riguarda solo le infrastrutture materiali e immateriali – obiettivo prioritario del Piano nazionale di ripresa e di resilienza concordato in Europa – ma riguarda addirittura prima la soddisfazione dei diritti fondamentali. Che attengono ai beni comuni di una comunità nazionale e influenzano in modo decisivo la qualità territoriale della sua economia oltre che la coesione sociale del Paese. Questo giornale ha condotto per tre anni questa battaglia all’inizio in assoluta solitudine e vede oggi confermate le ragioni della denuncia di uno squilibrio patologico nei trasferimenti pubblici ai singoli territori che riguardano Nord e Sud ma anche Nord e Nord.

Tutto ciò ci permette di insistere oggi su un tasto che è preliminare a qualsivoglia progetto di crescita strutturale del Paese intero e di sostenibilità duratura del suo pesantissimo debito pubblico. Lo stesso ministro ha tirato immediatamente i remi in barca ed è ormai evidente a tutti che la sua rocambolesca sortita era consapevolmente finta. Perché va inserita dentro una battaglia politico-elettorale all’interno della maggioranza di governo e perché è di impossibile attuazione ad horas per i vincoli di finanza pubblica dettati dal quadro di crisi del resto del mondo essenzialmente di origine bellica. È evidente che la sortita maldestra del ministro Calderoli parla a un mondo di ieri che non esiste più, ma persegue comunque l’obiettivo politico di dire agli elettori del Nord che sono solo loro a sventolare la bandiera dell’autonomia differenziata, non Fratelli d’Italia.

È un gioco oggettivamente sporco che è stato smascherato e che rivela, purtroppo, quanto sia di corto respiro l’azione dell’alleato leghista che non esita per velleitarie ragioni di bottega ad andare fuori dai binari concordati del programma di governo dove è scritto con chiarezza che autonomia differenziata e riforma presidenzialista o semi presidenzialista devono procedere parallelamente secondo i canoni obbligatori che appartengono alle riforme costituzionali.

Siamo soddisfatti perché la linea del nostro giornale, che risponde all’interesse generale, è oggettivamente prevalsa, ma abbiamo anche il dovere di avvertire che il rischio pasticciaccio esiste ancora perché anche il vincolo politico della Lega esiste ancora. Salvini, Calderoli, Zaia, con toni e sfumature differenti, hanno tutti l’esigenza di fare approvare entro l’anno prossimo la legge quadro dell’autonomia differenziata per potere approvare le prime intese regionali all’inizio del 2024 in modo da avere il loro trofeo elettorale da spendere alle elezioni europee e consentire a Salvini di togliersi lo schiaffo subìto alle politiche da Fratelli d’Italia perfino nelle sue roccaforti lombardo-venete.

Non siamo affatto convinti che questi teatrini fuori dalla Costituzione e dal realismo responsabile che oggi il Paese chiede possano portare voti alla Lega. Comprendiamo, però, che la molla di tanta dissennatezza da parte di Calderoli risponda solo a questa distorta esigenza, ma abbiamo anche il dovere di ricordare a lui e a chi lo spinge che il calendario della Lega non coincide con il calendario dei bisogni del Paese. Prima lo capiscono e se ne fanno una ragione meglio è.

Noi terremo sempre molto alta la guardia perché il ministro Calderoli politicamente messo sotto tutela dalla premier Meloni resti ben stretto in questa condizione che è l’unica che ancora consente di mantenerlo nella compagine di governo. Perché ha davvero esagerato nella forma e nella sostanza, violando tutti gli obblighi di lealtà a cui è vincolato un ministro nel momento in cui entra a fare parte di una compagine di governo.

Quando Meloni propose una legge contro il “regionalismo differenziato”. CLAUDIO MARINCOLA il 18 Novembre 2022 su Il Quotidiano del Sud.

La presidente del consiglio Giorgia Meloni in passato aveva presentato una legge per il regionalismo differenziato

Finora ha preferito mantenere un profilo basso. Non esporsi. Non è un mistero, però, che l’autonomia differenziata la Meloni l’abbia sempre vista come il fumo negli occhi, non poteva essere diversamente, del resto, per chi, insieme a Guido Crosetto e Ignazio La Russa, ha fondato un partito che non a caso si chiama Fratelli d’Italia. L’unità nazionale prima di tutto.

Non c’è da stupirsi, dunque, se nella XVII legislatura proprio lei, il presidente del Consiglio, abbia presentato una proposta di legge di modifica costituzionale (atto 1953) insieme all’attuale sottosegretario agli Esteri Edmondo Cirielli, per smantellare il cosiddetto “regionalismo differenziato”.

REGIONALISMO DIFFERENZIATO: IL MELONI-PENSIERO

La proposta è un condensato del Meloni-pensiero, di quella Destra sociale alla quale la premier ha sempre fatto riferimento: la convinzione che l’inefficienza dell’attuale assetto amministrativo non dipenda solo da carenze organizzative e legislative. La responsabilità principale della “burocratizzazione regionale” viene individuata proprio nella riforma che porta il nome del ministro che ora vorrebbe forzare la mano per imporre la “secessione dei ricchi”, quel Roberto Calderoli che firmò la modifica del Titolo V.

Nel testo – a modo suo visionario – si dice che «vanno evitate forme di neo-centralismo regionale o la proliferazione di ulteriori enti o agenzie regionali che possano rivelarsi meno funzionali dell’ente provincia di cui si prevede la soppressione». La mente va a certi “governatori” e alla moltiplicazione dei carrozzoni.

IL NODO DELLA REGIONI A STATUTO SPECIALE

«Le Regioni a statuto speciale – si legge – sono sorte, in ragione di particolari contingenze storiche e socio-culturali che oggi si ritengono superate, non essendo più giustificabile una così diversa e privilegiata distribuzione delle risorse rispetto alle regioni a statuto ordinario». Con un richiamo alla «necessità di tutelare l’unità giuridica o economica e, in particolare, i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali».

«Sarà lo Stato – si legge ancora – e non più il governo, a potersi sostituire alle Regioni e agli enti locali nell’esercizio delle funzioni, non solo di natura amministrativa, ma anche di natura legislativa: ovviamente, sempre e comunque nel rispetto dei princìpi di leale collaborazione e di sussidiarietà. Affollamento istituzionale, distorta e generosa interpretazione del principio del pluralismo istituzionale affermato dall’articolo 5 della costituzione».

FRANTUMAZIONE ILLOGICA

«Costante frantumazione delle articolazioni funzionali comunità montane e collinari, centri per l’impiego, distretti industriali, aree di sviluppo industriale, ambiti territoriali, senza che siano state ricondotte a omogeneità da un coerente disegno unitario del sistema autonomistico». Con questo linguaggio il partito del presidente del Consiglio bocciava le deviazioni del regionalismo in salsa leghista.

Nella tradizione della Destra italiana, del resto, non c’è stata mai particolare simpatia per le Regioni a statuto speciale, la qual cosa è apparsa evidente persino nella recente campagna elettorale dove la Meloni polemizzò in più di un’occasione con gli autonomisti irritando il leader della Volkspartei Philipp Achammer.

«L’autonomia in alcuni casi è servita a tutelare alcuni e non altri – puntò il dito la Meloni nel settembre scorso – Chi non ama il Tricolore farebbe bene a rinunciare ai milioni di Roma».

Ma questo è un altro discorso. Torniamo alla proposta di legge, datata 15 gennaio 2014. Alla riforma costituzionale del 2001: «Lo Stato ha conservato competenza legislativa su un numero limitato e tassativo di materie riguardanti gli enti territoriali (legislazione elettorale, organi e funzioni fondamentali dei Comuni, delle province e delle città metropolitane, spettando per il resto alla competenza legislativa regionale».

IL DISEGNO DI GIORGIA MELONI E IL REGIONALISMO DIFFERENZIATO

L’esatto contrario, quindi, di quello che ora chiedono i presidenti di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna che vorrebbero gestire materie attualmente di competenza statale in settori nevralgici come Scuola e Trasporti pubblici.

Il federalismo che piaceva a Giorgia – al quale, al di là dei patti elettorali con la Lega, forse fa ancora riferimento – non passava dalle Regioni, si realizza attribuendo «ai Comuni ulteriori funzioni amministrative; disciplinando gli ambiti territoriali minimi cui condizionare l’attribuzione di funzioni; le forme associative e di cooperazione; politiche di fusione tra municipalità di dimensione modesta».

In quanto a quello che Meloni e Cirielli definiscono il cosiddetto “regionalismo differenziato” la bocciatura è totale: «Ha generato una proliferazione di enti territoriali intermedi a geometria variabile».

Si prevedeva l’abolizione delle province entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale. Con una rivoluzione del concetto di autonomia, una riarticolazione territoriale politico-amministrativa. Da qui la proposta di costituire, in sostituzione delle attuali Regioni, province e confini, 36 nuove regioni, aree metropolitane, comunità territoriali, polarità urbane. E due “Padanie”, una occidentale, una orientale. Con buona pace di Calderoli che forse ne vorrebbe una sola, unica e indivisibile. Come l’Italia, appunto.

Autonomia, il Sud sia unito o l’unico futuro per i suoi figli sarà quello di fuggire dal Sud. Siccome non c’è mai limite al peggio specie in materia, nei giorni scorsi si diceva: aspettiamo la bozza finale. È arrivata la seconda bozza, cioè il peggio senza limite. Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Novembre 2022.

Come si può violare la Costituzione italiana? Anzitutto non rispettandola. Poi con qualche legge che fa finta di rispettarla ma non la rispetta. Ci fosse un esercito alle porte come nelle repubbliche delle banane, si parlerebbe di colpo di Stato. Ma se non di colpo di Stato, secondo il presidente della Svimez, Giannola, ora in Italia si può ben parlare di «eversione» (termine che dovrebbe far tremare i polsi a chiunque). E questo visto quanto sta avvenendo col disegno di legge sull’autonomia differenziata per Lombardia, Veneto, Emilia Romagna (per ora). Disegno di legge Calderoli, ministro appunto delle autonomie.

Siccome non c’è mai limite al peggio specie in materia, nei giorni scorsi si diceva: aspettiamo la bozza finale. È arrivata la seconda bozza, cioè il peggio senza limite. Sappiamo di cosa si parla. Le 23 funzioni attualmente dello Stato che verrebbero passate alle tre regioni. Previsto dalla Costituzione, vero. Ma la stessa Costituzione secondo cui non puoi essere trattato diversamente se sei nato a Milano o a Foggia. E aggiunge che se avviene, lo Stato deve intervenire per cancellare tale diseguaglianza.

Questo intervento non c’è mai stato da quando è stato inventato il federalismo fiscale: da 21 anni. Meno che mai dal 2009 quando questo federalismo è stato perfezionato. Da chi? Dallo stesso Calderoli, che al tempo sollecitava lo Stato a muoversi. Ma ora non solo se ne è dimenticato. Ma sollecita lo Stato a muoversi in direzione opposta, cioè accentuando la diseguaglianza. La più grave e longeva d’Europa. Che si traduce in una qualità della vita al Sud molto al disotto di quella del Centro Nord. Perché si sottraggono al Sud 60 miliardi di spesa pubblica all’anno che finiscono al Centro Nord. Esempi? Se sei un bambino di Crotone non puoi aver l’asilo nido come uno di Monza. Se sei un vecchio di Potenza non puoi essere curato come uno di Padova.

Perché questa sottrazione? Perché non sono mai stati calcolati i bisogni del Sud. E la spesa pubblica continua a non tener conto di quei bisogni, ma è spesa «storica» che ha sempre avvantaggiato il Centro Nord rispetto al Sud. Perché? Mah, al Sud saranno diversamente italiani. Ora con l’autonomia differenziata ai tre squali del Centro Nord, si diceva: siccome lo Stato gli deve passare ciò che finora spendeva per loro, non avvenga ancora con la spesa storica, ma prima si redistribuisca tenendo conto degli analoghi bisogni del Sud. Si chiamano Lep. Livelli essenziali di prestazione (anche se più correttamente si dovrebbe parlare di livelli «uniformi di diritti»). Quindi prima i Lep, poi l’autonomia.

Ma figurati. Con la prima bozza, passati 12 mesi senza Lep ma con l’autonomia, il governo avrebbe dovuto intervenire con decreto legge. Seconda bozza: sparito. Quindi via libera a una autonomia che rende eterna la diseguaglianza. Prima bozza: obbligo per le tre regioni di finanziarsi con le tasse proprie oltre ai fondi statali. Seconda bozza: sparito, qui nessuno è fesso. Poi state tanto a drammatizzare: in fondo ai tre si passano solo funzioni amministrative (comprese sanità, scuola, trasporti: quisquilie). Credevamo, perché nella medesima seconda bozza si dice che le leggi statali varranno finché le tre regioni non se le faranno da sé. Cioè si priva lo Stato dell’esclusivo potere di fare leggi. Nascono tre nuovi Stati nello Stato. Con tanti saluti alla Costituzione e allo Stato uno e indivisibile. Viva Bossi e la secessione.

Deve però esserci qualcuno che controlli tutto. Chi? Ma lo stesso Calderoli, controllore e controllato. E il presidente del Consiglio? Firma a cose fatte. E il Parlamento? Solo dire «sì» o «no» senza interferire. Forse previsto nella Costituzione del Burundi, ma in quella italiana no. Si può modificare qualcosa o tornare indietro? Sì, ma solo se la Regione accetta, altrimenti Stato impotente. La nuova Italia è fatta da Calderoli, Fontana, Zaia, Bonaccini. A trattativa privata fra leghisti più un centrosinistro (Bonaccini, ma sappiamo che di fronte agli interessi c’è un Partito Unico del Nord).

Milano, Venezia, Bologna più potenti di Roma. Aggiunta all’ultimo momento la parola «coesione», ma è come dire a un figlio «cerca di non raffreddarti». Cosa fare? La premier Meloni tace, ma guida un partito che finora ha creduto nello Stato più che nelle regioni. Figuriamoci che vuole il presidenzialismo, pensa tu.

E Fitto, ministro del Sud? Il presidente pugliese Emiliano porta nella Conferenza delle Regioni (fossa di leoni) un documento della società civile con un mandato: via questa bozza. Via. Per ora. Altrettanto il campano De Luca.

Sud che si unisca. Per i suoi figli e nipoti. Per non consegnarli a un futuro con l’unica possibilità di vita di scappare da questo Sud, anzi dall’Italia.

L’autonomia differenziata è utile per i bambini del mezzogiorno? Mario De Curtis su Il Corriere della Sera il 17 Novembre 2022.

Le disuguaglianze nella qualità della vita sono ancora evidenti, iniziano già al momento della nascita e si rendono più manifeste con la crescita e nell’ età adulta 

Il divario Nord-Sud, evidenziato già subito dopo l’unità d’Italia con l’espressione questione meridionale relativa alla disastrosa situazione economica del Mezzogiorno rispetto alle altre aree dell’Italia unita, potrebbe ulteriormente accentuarsi con l’introduzione dell’autonomia differenziata proposta dal nuovo esecutivo. Ad oltre un secolo e mezzo da allora, le disuguaglianze nella qualità della vita sono ancora evidenti, iniziano già al momento della nascita e si rendono più manifeste con la crescita e nell’ età adulta. Anche se oggi situazioni critiche possono osservarsi in qualsiasi area geografica e in molte periferie delle grandi città del nostro paese, è certo che per una serie di ragioni di natura economica, educativa, sociale i bambini del mezzogiorno sono tra i più penalizzati.

Gli aspetti più critici che interessano i bambini e ragazzi del mezzogiorno riguardano in particolare lo stato di salute, la loro situazione sociale e la loro formazione scolastica. Un bambino che nasce e risiede nel Mezzogiorno ha un maggiore rischio di morire nel primo anno di vita rispetto ad uno che nasce nelle regioni del centro nord. Un altro fenomeno che riguarda la salute è la migrazione sanitaria pediatrica. Pur interessando tutte le regioni italiane, è particolarmente rilevante nelle regioni del Mezzogiorno ed è indice di una carenza di assistenza pediatrica che dovrebbe essere rafforzata per ridurre le disparità geografiche e garantire parità di accesso alle cure a tutti i cittadini attraverso la creazione di servizi attualmente non equamente distribuiti sul territorio. I bambini e ragazzi residenti nel Mezzogiorno quando sono malati vengono spesso curati in un’altra regione e questa migrazione è più evidente rispetto a quelli residenti nel Centro-Nord (11,9% vs 6,9%).

La migrazione sanitaria dei minori lontano da casa, che si verifica per l’aspettativa di ottenere un esito migliore di quello che si potrebbe avere facendosi curare nella propria regione, determina profonde sofferenze per il distacco dal luogo di origine, problemi economici per le famiglie a causa delle spese di trasferimento e difficoltà di lavoro dei genitori per l’allontanamento dalla loro sede. Questo tipo di mobilità genera iniquità, poiché non tutte le famiglie sono in grado di sostenere i costi dei trasferimenti. Molte delle problematiche sanitarie del mezzogiorno riflettono la situazione sociale e della povertà che con la pandemia si è aggravata perché l’emergenza sanitaria si è rapidamente trasformata in un’emergenza sociale.

Secondo l’ISTAT nel 2021 la povertà assoluta è cresciuta nel Mezzogiorno e riguarda il 10% delle famiglie e il 12,1% degli individui. La mancanza di lavoro è anche una delle cause principali che spinge intere generazioni di giovani a emigrare nelle Regioni del Centro-Nord o all’estero e questo fenomeno concorre a spiegare la drammatica riduzione delle nascite nelle regioni meridionali. I giovani che rimangono, per l’incertezza di un futuro rinviano molto spesso, e talora per sempre, la decisione di sposarsi o convivere e mettere in cantiere nuovi figli.

Un’altra situazione critica è la formazione scolastica, importante fattore di crescita personale e sociale. Le carenze nel mezzogiorno iniziano subito con un insufficiente numero di asili nido (per bambini con meno di 3 anni) e scuole dell’infanzia (servizi per l’educazione dei bambini da 3 ai 6 anni). È ben noto che le esperienze vissute dai bambini nei primi anni di vita sono importanti e pongono le basi per tutto ciò che il bambino apprenderà negli anni successivi, non solo in ambito strettamente scolastico, ma anche nelle relazioni sociali e nello sviluppo della propria personalità e sarà determinante sulle sue prospettive future.

Le Prove nazionali INVALSI, finalizzate a conoscere i livelli di apprendimento di alcune competenze fondamentali in Italiano, in Matematica e in Inglese hanno evidenziato differenze territoriali fra nord e sud del Paese. Nel 2021 la percentuale di studenti della terza superiore con competenze alfabetiche non adeguate è stata pari al 39,2%. Una quota che variava tra il 34,5% del nord, il 35,9% del centro e il 47,1% del mezzogiorno. In Calabria oltre uno studente su 2 mostrava competenze alfabetiche non adeguate. Un altro criterio che mette in luce la critica situazione sociale del mezzogiorno è il tasso di abbandono scolastico, un indicatore statistico che misura la quantità di giovani che lasciano gli studi con la sola licenza media, senza conseguire ulteriori titoli di studio o qualifiche professionali. In Sicilia il 21,2% dei residenti tra 18 e 24 anni ha lasciato la scuola prima del tempo quasi 10 punti più della media nazionale. Seguono 2 grandi regioni del sud, entrambe sopra quota 15%: Puglia (17,6%) e Campania (16,4%). Considerando solo gli aspetti su indicati emerge chiaramente che i bambini e ragazzi del mezzogiorno vivono una situazione molto critica da un punto di vista sanitario, sociale ed educativo.

La crisi economica accentuata dalla guerra in Ucraina e dal notevole incremento dell’inflazione peggiorerà ulteriormente la situazione. Le Regioni del Sud con la legge sull’autonomia differenziata potrebbero essere private di ingenti risorse economiche in settori cruciali come la sanità e l’istruzione aggravando ulteriormente il divario con il resto dell’Italia. Il Paese ha bisogno non di accentuare le differenze tra le Regioni, ma di fare riforme al fine di offrire a tutti i cittadini gli stessi diritti, gli stessi servizi e le stesse protezioni. E’ estremamente urgente migliorare le condizioni sociali dell’infanzia e la lotta contro la povertà infantile economica ed educativa, più critica nel mezzogiorno, rappresenta una priorità che va messa al centro dell’azione politica affinché ci sia un presente e un futuro per il nostro paese. 

L’autore è Professore di Pediatria, Università di Roma La Sapienza, Presidente del Comitato per la Bioetica della Società Italiana di Pediatria

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

Il commento del dr. Antonio Giangrande, che sul tema ha scritto dei saggi: “Legopoli. La Lega da Legare”; “Italia Razzista”; “L’Invasione Barbarica Sabauda del Mezzogiorno d’Italia”.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…

Oi vita mia! Perchè al SUD si muore prima. Cristiana Flaminio su L’Identità il 17 Novembre 2022 

Nascere al Sud può essere una sventura. E non è retorica. Chi vive al Mezzogiorno ha una speranza di vita minore degli altri italiani che risiedono al Centro e soprattutto al Nord. Può costare fino a tre anni di vita (in meno) la “sfortuna” di essere nati in una famiglia meridionale. I dati, agghiaccianti, sono stati resi noti da Save the Children durante la 13esima edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio in Italia. Le cifre, che non mentono, sono una sentenza: la media italiana dell’aspettativa di vita è di 82,4 anni. Ma chi nasce a Caltanissetta può aspettarsi di viverne poco più di ottanta (80,2), tre in meno di un fiorentino (83,9).

Mortalità infantile Calabria al top

Ma c’è chi non riesce nemmeno ad affacciarsi alla vita. I dati sulla mortalità infantile, confrontati tra Nord e Sud, fanno davvero paura. In Toscana, per esempio, il tasso di decessi nel 2021 è stato di 1,45 ogni mille bambini nati vivi. Ebbene, in Sicilia queste cifre aumentano paurosamente fino a 3,34 per mille. La Calabria fa ancora peggio: 4,42. E se il bambino è figlio di una mamma straniera, le cose si fanno ancora più complicate: la mortalità arriva fino al 38.

Migrare per curarsi

Finita qui? Nemmeno per idea. Un bambino che ha bisogno di cure, se nasce al Sud, deve imparare da subito la lezione drammatica dell’emigrazione. Nel 2019, il 70% dei piccoli bisognosi ha dovuto lasciare la propria Regione d’origine per accedere ai trattamenti sanitari. In Campania, il dato dei bambini che non hanno mai praticato sport è disastroso: il 45,5% dei minori tra i 3 e i 17 anni non ha mai frequentato né campi, né palestre, né altro. Il dato fa riflettere specialmente se lo si accosta a quello della provincia autonoma di Bolzano dove il tasso di ragazzi che non praticano sport è sotto il 7 per cento (6,9).

Un bimbo su tre è obeso

Non fare sport, vuol dire che ci ritroviamo con (più) di un ragazzino (da 3 a 10 anni) su tre obeso. Con tutti i problemi di natura sanitaria che ne derivano. A complicare le cose, oltre alla povertà delle famiglie e all’impossibilità di accedere a strutture sportive, c’è stata la pandemia. Se nel biennio tra il 2018 e il 2019, era poco più del 32%, oggi arrivano a superare il 34%. A questo va aggiunto il fatto che un’alimentazione sana è un autentico miraggio per un bambino su venti che vive in uno stato di bisogno e di povertà che si estende alle necessità alimentari.

Pm10 e ritardi cognitivi

Tuttavia, oltre al cibo, ci sono problemi. Uno, gravissimo, è quello inerente l’inquinamento da polveri sottili. Che, secondo gli studi pubblicati da Save the Children, limiterebbe lo sviluppo cognitivo dei bambini. L’81,9 per cento dei bambini vive in zone in cui la concentrazione di polveri è maggiore ai limiti massimi indicati dall’Oms. Un dramma che, in otto regioni, interessa tutti i minori residenti e si tratta di Puglia, Trentino Alto Adige, Veneto, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Veneto e Piemonte. Gli effetti dell’inquinamento impattano sulle condizioni di salute fisica dei bambini (l’8,4% dei piccoli tra i sei e i sette anni soffre di asma) ma anche sullo sviluppo cognitivo che sarebbe migliore del 13% in quelle zone dove, invece, i livelli delle Pm10 risultano più contenuti. Si tratta di un problema che riguarda principalmente il Nord Italia, come rivelano leRegione coinvolte. Ma il Sud non è per nulla esente da quest’altro gravissimo problema che incombe sulla popolazione minorile.

“Rimettere al centro la salute dei bambini”

Claudio Tesauro, presidente di Save the Children, ha commentato così i risultati della nuova indagine di studio sulle condizioni dell’infanzia in Italia: “I dati dell’Atlante mostrano la necessità di mettere la salute dei bambini al centro di tutte le scelte politiche, dalla tutela dell’ambiente urbano alle mense scolastiche, fino agli spazi per lo sport e il movimento, con una particolare attenzione al tema della salute mentale degli adolescenti, fortemente colpiti dalla pandemia. Questo impegno è ancor più urgente oggi, in un Paese che attraversa una difficile fase economica e che ha toccato il picco di quasi un milione e 400mila bambini in povertà assoluta”. Quindi ha concluso: “Per molti di loro, la povertà materiale ed educativa si traduce anche in povertà di salute e occorre fare di tutto per spezzare questo circolo vizioso, orientando le risorse disponibili sui territori che maggiormente soffrono queste difficoltà”.

UNA RICERCA AMERICANA. La città con più napoletani? Sorpresa: non è Napoli. Da primabergamo.it il 21 Luglio 2014

C’è un detto che vuole noi italiani presenti in ogni parte del mondo e in esso c’è certamente del vero. Che l’Italia sia per storia un Paese di emigrati non è una novità: sin dall’inizio del XX secolo, con la famosa valigia di cartone, tanti nostri connazionali in fuga dalla povertà hanno cercato fortuna all’estero. Stati Uniti, Sudamerica, Germania, Inghilterra: il mondo pullula di persone dal cuore tricolore che si son costruite una nuova vita lontano dall’Italia. Ad avere subìto in particolare il fenomeno migratorio è il Mezzogiorno, con migliaia di persone partite da Calabria, Sicilia, Campania e dalle altre regioni, e intere generazioni cresciute in città lontane e Paesi stranieri. Il fenomeno è stato talmente esteso che oggi ci riserva una simpatica sorpresa: Napoli non è la città con più napoletani al mondo.

Napoli solo quinta. L’istituto americano Demographic ha svolto una ricerca molto accurata sulla presenza di napoletani, o persone di origini partenopea, residenti in diverse città e ha scoperto che Napoli è solo la quinta al mondo (in una classifica di dieci) per presenza di napoletani. L’indagine è stata poi pubblicata sul sito Napolistyle.it, che parla di «stupefacente classifica». Prima al mondo per numero di napoletani è San Paolo del Brasile, seguita da Buenos Aires, Rio de Janeiro e Sidney. Dopo Napoli ci sono New York, Londra, Toronto, Berlino e Monaco di Baviera. Così nel mondo. In Italia i dati sono un po' più rassicuranti: Napoli resta la capitale della “napoletanità” e dietro di lei la sua provincia con Casoria (seconda). Seguono Roma, Milano, Torino, Torre del Greco (sesta), Pozzuoli (settima), Bologna, Giugliano in Campania (nona) e Latina.

I nuovi migranti. Con la crisi economica scoppiata nel 2008, l’Italia ha assistito ad una nuova consistente ondata migratoria. Niente più valigia di cartone, sostituita con una bella ventiquattrore per i sempre più numerosi giovani laureati italiani che davanti alle difficoltà di trovare un impiego decidono di cercare fortuna (spesso con successo) all’estero. Anche il territorio bergamasco, in passato meta di tante persone alla ricerca di lavoro, è ora diventato terra di migranti: lo ha detto  il Rapporto Italiani nel Mondo 2013, realizzato dalla Fondazione Migrantes, che ha indicato Bergamo come terza città in Lombardia per numero di iscritti all’Aire (Anagrafe italiani residenti all’estero), appena dopo Milano e Varese. Precisamente sono, ad oggi, 41 mila e 92 i bergamaschi stabilmente trasferitisi all’estero negli ultimi anni. La maggior parte di questi sono di età compresa tra i 35 ed i 49 anni (25 percento), ma sale la percentuale di giovani tra i 18 ed i 34 anni (19 percento).

Resta comunque il Mezzogiorno ad avere la percentuale maggiore di italiani che fuggono (52 percento), mentre il Nord rimane stabile al 32 percento. A differenza del passato, l’Asia è uno dei continenti preferiti in cui trasferirsi, con un incremento del 18,5 percento nel numero di italiani accolti. Resta sempre forte l’amore per l’America (6,8 percento), comprendente sia USA che l’intero Sudamerica. Da nessuna parte del mondo mancherà una pizza napoletana.

Qual è la città con più napoletani? Redazione napolitoday.it l'01 ottobre 2021

Nell'ultima classifica demografica disponibile Napoli è solo al 4° posto per numero di napoletani.

Tra '800 e '900 le continue migrazioni hanno portato i napoletani in tutto il mondo: in quegli anni quasi 30 milioni di italiani partirono verso le Americhe, l’Australia e l’Europa occidentale e la maggior parte di loro era del Mezzogiorno e, soprattutto, della Campania.

L'ultima indagine sulla presenza di napoletani nel mondo è stata realizzata da un istituto statunitense specializzato in demografia, il “Demographic”, e mostra non solo l’incredibile diffusione di nostri concittadini in tutti i continenti, ma rileva anche l'incredibile dato che non è Napoli la città del mondo con più napoletani.

La classifica dei napoletani nel mondo

Realizzata qualche anno fa, l'indagine demografica rivela che la città del mondo dove vive il maggior numero di napoletani non è Napoli ma è San Paolo, in Brasile. 

Ecco l'ultima classifica disponibile delle città dove si contano più napoletani al mondo

San Paolo (Brasile)

Buenos Aires (Argentina)

Rio de Janeiro (Brasile)

Sydney (Australia)

Napoli (Italia)

New York (USA)

Londra (Regno Unito)

Toronto (Canada)

Berlino (Germania)

Monaco di Baviera (Germania)

Federica Olivo per huffingtonpost.it il 24 settembre 2022.

Giorgia Meloni sarà a Napoli per l'ultimo evento della campagna elettorale, e i centri sociali sono già in allerta. Non distante da lei ci sarà Luigi Di Maio, già protagonista di qualche bagno di folla nei vicoli partenopei. Giuseppe Conte è stato lì a prendersi gli applausi per il reddito di cittadinanza. E nel capoluogo campano sono corsi anche i leader del Terzo polo. Non per strada, non in piazza, ma alla stazione marittima. 

A ognuno la sua location, fatto sta che il capoluogo campano è meta ambita a pochi giorni dalle elezioni. Marino Niola, antropologo, docente all'Università Suor Orsola Benincasa e grande conoscitore di Napoli, ci ha spiegato perché.

Professore, tutti corrono nella sua città in cerca di voti. Perché è diventata il centro della campagna elettorale?

«Napoli è stata più volte decisiva per l'esito delle elezioni. Perché, oltre a essere molto popolosa, è una città campione. È un laboratorio che anticipa ciò che succede nel Paese. Per il suo essere meno definita di altri luoghi non è una città moderna. È post moderna». 

Possiamo, però, già prevedere il futuro: dopo le elezioni non ci sarà tutta questa attenzione nei confronti del capoluogo campano.

«Perché Napoli è la città delle emergenze. E ora l'emergenza è elettorale. Passata questa, come quando sono passate le altre, si pensa che Napoli torni in omeostasi. Cioè, che resti sempre uguale. In realtà non è vero, Napoli cambia moltissimo, è già cambiata moltissimo, ma questo ai media sfugge.

Perché la narrazione stile Gomorra e il racconto dell'emergenza rifiuti si vendono meglio. Così, per rappresentare Napoli non c'è solo la cartolina "pizza, golfo e Pulcinella", ma anche quella che io ho sempre chiamato olografia al nero: quella che rappresenta il degrado. Come tutte le olografie, non è né vera né falsa». 

A proposito di narrazione, adesso viene raccontata come il bacino più grande del Reddito di cittadinanza, quella dove Conte e Di Maio cercano di prendersi il premio di una misura su cui mettono il cappello. Un'immagine non falsa, dati alla mano, ma certamente riduttiva, non trova?

«È l'antico stereotipo, idiota, sul Sud. Si è sempre fatta l'equazione Sud=assistenzialismo e questa del reddito di cittadinanza è la versione aggiornata di un'idea falsa. Un'idea, declinata in vari modi, secondo cui Napoli è la città dei soldi a fondo perduto.

In realtà, reddito di cittadinanza a parte, dopo gli anni '80 il Sud nella ripartizione dei fondi non ha esattamente fatto la parte del leone. Inoltre, questo stereotipo offusca i poli di eccellenza che ci sono in zona. Non viene vista come città produttiva, invece lo è: se dici a qualcuno che una grande percentuale del tessile si produce a Nord di Napoli, questo qualcuno cade dalle nuvole». 

Ma, insomma, queste passerelle elettorali spostano qualche voto? Le fasce popolari che si sono allontanate dalla politica potrebbero decidere di andare a votare?

«Spostano qualcuno che fa parte della massa degli indecisi, ma non di più. Quanto agli sfiduciati, la percentuale non è molto più alta che altrove. Vede, il voto dei napoletani viene considerato, a posteriori, come un voto d'istinto, fatto senza ragionamento politico. Anche questa narrazione è falsa».

Mettiamoci nei panni degli abitanti dei quartieri popolari che vedono i leader politici fare le sfilate nelle loro strade. Cosa pensano?

«Non dimentichiamoci che la città ha 3mila anni di storia. I napoletani sono disincantati, le capiscono queste dinamiche. E cercano di fare il loro interesse. Di votare come conviene loro. E, attenzione, guai a pensare che mi riferisca al voto di scambio. La verità è che non credono a nessuno di questi politici qui».

Ci regala un ritratto della campagna elettorale vista da Napoli?

«Semplice: tanto rumore per nulla».

L'ultimo monitoraggio. Pnrr, così il Sud rischia di perdere tutto: la “quota Mezzogiorno” non rispettata da 9 enti. Rosario Patalano su Il Riformista l'1 Novembre 2022 

L ’economia italiana, è noto, ha una struttura dualistica a causa di profonde divergenze di sviluppo territoriale tra le regioni. Il divario economico e sociale tra le due macroaree non ha eguali nell’Unione Europea: se si fa riferimento al tasso di occupazione delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni, un indice significativo del livello di sviluppo territoriale, la provincia di Bolzano ha raggiunto nel 2022 il 70,7%, un dato superiore alla media UE (pari al 68,4%, con la regione finlandese dell’Aland che registra il tasso più alto con l’83,5%), mentre la Sicilia con il 41,1% rivela il dato peggiore, seguita dalla Campania (41,3%, con un dato inferiore addirittura alla Guyana, regione d’oltremare francese, che registra il 41,4%).

La Calabria è al 42% e la Puglia al 46,7%. Il Nord Ovest, ha un tasso di occupazione del 65,9% e il Nord Est del 67,2%, vicini alla media UE, mentre il Sud registra almeno 20 punti di occupazione in meno (45,2%). La Grecia, che ha un tasso di occupazione più basso di quello medio italiano (57,2%, il peggiore in UE), presenta minori differenze regionali in quanto l’area meno sviluppata raggiunge un tasso di occupazione del 50,7%. Il basso tasso di occupazione meridionale è il prodotto della debolezza del suo sistema produttivo, di carenze delle infrastrutture e dei servizi pubblici che, insieme alla presenza dei fenomeni criminali, sono i fattori che hanno ostacolato negli ultimi trenta anni lo sviluppo economico delle regioni meridionali. La crisi sanitaria Covid 19 e le conseguenti oscillazioni congiunturali, che hanno caratterizzato il biennio 2020-21, hanno rappresentato un ulteriore shock per l’economia meridionale che non aveva ancora completamente recuperato il livello del PIL pre-crisi 2008.

In questo drammatico contesto, la proposta del Governo italiano di assegnare alle regioni del Mezzogiorno non meno del 40% degli investimenti previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è stata accolta dalla Commissione Europea, che ha posto l’obiettivo di riduzione dei divari territoriali al centro delle politiche di rilancio. Il PNRR è stato quindi varato con un vincolo normativo concernente la “Quota Mezzogiorno” (decreto legge n.77/2021) e al Dipartimento per le Politiche di Coesione è stato assegnato il compito di verificare periodicamente il rispetto delle quote assegnate alle regioni meridionali (pari a 86,4 miliardi di euro, al netto della quota cofinanziata). I risultati del secondo monitoraggio, diffusi il 10 ottobre scorso, rivelano tuttavia alcune criticità. Nel complesso la quota di risorse PNRR assegnata al Mezzogiorno, fino giugno 2022, corrisponde al 41% del totale, ed appare quindi mediamente rispettata.

Tuttavia la legge stabilisce che la quota deve essere raggiunta non solo nel complesso, ma per ogni singola organizzazione titolare di misure, e 9 su 22 enti non hanno rispettato il vincolo della Quota Mezzogiorno. In particolare il Ministero dello Sviluppo Economico ha destinato il 24,5% al Mezzogiorno (4,495 miliardi su 18,117 totali), preceduto dal Ministero del Turismo con il 28,6% (654 milioni su 1,786 miliardi). I ministeri della Cultura, del Lavoro e della Transizione Ecologica hanno riservato tra il 38% e il 39%, non raggiungendo per poco l’obiettivo. É inutile sottolineare che i due ministeri che hanno destinato minori risorse al Mezzogiorno (e sono quelli più importanti per una politica di sviluppo) sono stati diretti da esponenti della Lega, ma sarebbe troppo facile imputare la responsabilità a questioni ideologiche (che pure sono presenti): i fattori strutturali spiegano in gran parte questo mancato adempimento.

Sulle risorse messe a disposizione dal Ministero dello Sviluppo Economico pesano le difficoltà delle imprese meridionali a richiedere i crediti d’imposta previsti dal programma Transizione 4.0, diretto a supportare e incentivare le imprese che introducono innovazioni, investendo in beni strumentali nuovi, materiali e immateriali, funzionali alla trasformazione tecnologica e digitale dei processi produttivi. Evidentemente il nanismo e l’arretratezza delle imprese meridionali giustifica questo risultato negativo. Un’altra difficoltà oggettiva è data dalle procedure amministrative, attuate con bandi, emanati direttamente dai ministeri, e che riguardano il 55% dei fondi destinati al Sud, pari a circa 47 miliardi di euro. Imprese e amministrazioni locali meridionali non sono state in grado di partecipare a queste procedure e di proporre progetti in grado di risultare idonei e finanziabili, non solo per la carenza di competenze burocratiche, ma anche perché incapaci di far fronte alla quota di cofinanziamento prevista.

É chiaro che il modello di governance scelto dal governo Draghi, basato sul ruolo politico dei ministeri e senza prevedere vincoli stringenti di salvaguardia della quota, ha penalizzato il Mezzogiorno. In un contesto come quello italiano, una governance basata su un modello di Steering Committee, con una struttura di pianificazione ad hoc (come l’Haut-Commissariat au Plan francese), affidata ad un solo ministero, avrebbe potuto operare meglio, individuando direttamente gli assi strategici di intervento e superando le strozzature e le inefficienze di amministrazioni e imprese locali. Vedremo se il nuovo governo nell’ambito della dichiarata ricontrattazione del PNRR modificherà anche il modello di governance in direzione di una auspicabile maggiore centralizzazione. Rosario Patalano

Povero Sud, il rischio è che resti soltanto un bancomat elettorale. Ci si sofferma sul Sud, però, con un obliquo sguardo compassionevole, legato alla contesa sul reddito di cittadinanza, ovvero sul sussidio statale che viene corrisposto a chi resta indietro e anche - non si può negarlo - a qualche finto indigente. Michele De Feudis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Settembre 2022.

I riflettori nazionali puntati sul risultato delle sfide elettorali nel Mezzogiorno restituiscono solo in apparenza una centralità alla questione meridionale. Se i seggi conquistati «a Sud» dal centrodestra, dai dem o dai 5S saranno pesantissimi nel computo che determinerà le future maggioranze, l’auspicio è che questa nuova occasione di essere rilevanti nel dibattito pubblico non sia sprecata.

Ci si sofferma sul Sud, però, con un obliquo sguardo compassionevole, legato alla contesa sul reddito di cittadinanza, ovvero sul sussidio statale che viene corrisposto a chi resta indietro e anche - non si può negarlo - a qualche finto indigente. L’effetto collaterale di questa dinamica politica è che alla parola Sud sia accomunata troppo spesso la parola povertà, o nei casi di imbroglio per ricevere il sussidio, di finta povertà. Non a caso, spesso, negli spazi dei talk, diventano preponderanti le testimonianze dei percettori, con una esposizione della sofferenza economica che spesso deborda nella spettacolarizzazione, come se fosse una vecchia cartolina del degrado di una terra, simile ai Sassi di Matera raccontati da Carlo Levi. Questa deformazione rende un popolo laborioso come quello meridionale trasformato in ritratto esotico, di cui occuparsi per il breve flash di una campagna elettorale, dimenticandone colpevolmente la laboriosità, la creatività, e i volti e i calli di chi va orgogliosamente in campagna o nelle acciaierie, non solo a servire frise ai turisti gaudenti sbarcati nel Tacco d’Italia dai voli delle compagnie low cost.

Questo affresco crea uno sconforto e anche un po’ di disamore per la politico, come ben sintetizzato in passato dall’intellettuale Giano Accame: «Nel generale tramonto delle passioni politiche le prossime scelte più che a consensi sembrano doversi affidare al contenimento o alla crescita di opposti astensionismi. Il passaggio dall’idea di valore da significati eroici, militari o nella lotta di classe, a più prosaiche valutazioni in denaro ha ridotto nel corso di mezzo secolo le elezioni a gara, peraltro sempre più costosa, tra chi delude di meno o suscita minor tedio».

Allora è utile, a poche ore dal voto, ricordare la radice orgogliosa del «pensiero meridiano» di Franco Cassano, ovvero «l’idea che il Sud abbia non solo da imparare dal Nord, dai Paesi cosiddetti sviluppati, ma abbia anche qualcosa da insegnare e quindi il suo destino non sia quello di scomparire per diventare Nord, per diventare come il resto del mondo». Spiegava il sociologo barese: «C’è una voce nel Sud che è importante che venga tutelata ed è una voce che può anche essere critica nei riguardi di alcuni dei limiti del nostro modo di vivere, così condizionato dalla centralità del Nord-Ovest del mondo. Io credo che il Sud debba essere capace di imitare, ma anche di saper rivendicare una misura critica nei riguardi di un mondo che ha costruito sull’ossessione del profitto e della velocità i suoi parametri essenziali».

Dopo questo rodeo elettorale il Sud e le sue classi dirigenti si troveranno di fronte alla realtà di disegnare un originale e inedito orizzonte di sviluppo e benessere sociale, sostanziato di risposte da dare alle periferie meridiane dell’Europa che non vogliono essere dimenticate. Ecco nel Sud del sud dei Santi (Carmelo Bene ci perdoni), se non nascerà un riformismo pragmatico, volto a dare un volto sostenibile al welfare e un supporto alle eccellenze industriali (dal manifatturiero all’aerospazio), potrebbe materializzarsi una insopportabile beffa. Ovvero quella del Sud trasformato in mero bancomat elettorale.

La partita che si gioca per il Sud torna a essere limitata ai problemi antichi. GIANNI FESTA su Il Quotidiano del Sud il 24 settembre 2022.

Problemi antichi del Sud da sempre inseriti solo nei programmi elettorali. Purtroppo le dimissioni e il conseguente disimpegno di Draghi hanno spezzato ogni prospettiva di riconquista di una rinascita meridionale

Perché i partiti, o quello che resta di essi, per il voto corrono all’arrembaggio verso il Sud? Solo perché qui ci sono molti percettori del reddito di cittadinanza che, temendo di perdere l’unico sussidio, nel segreto delle urne faranno la differenza?  O la radice anche di questo male è nell’assenza di una classe dirigente degna di questo nome che, anche nel corso di questa campagna elettorale, a Napoli come a Palermo, non viene mai chiamata in causa, né messa sotto accusa?

Dove è finito il meridionalismo dell’impegno, della costruzione di un pensiero capace di proporre e realizzare oltre la solita lamentela strappacuore che isola il Mezzogiorno più ancora di quanto già non lo sia? Se lo scontro per la cattura del consenso si gioca tutto e solo sugli elementi di debolezza (disoccupazione, servizi sociali limitati, ecc), come purtroppo sta avvenendo in queste ore, è evidente che la partita che si gioca per il Sud torna ad essere limitata a problemi antichi e da sempre inseriti solo nei programmi elettorali.

I PIANI PER IL SUD E I PROBLEMI PASSATO

Dal piano Sud di Berlusconi premier, al Masterplan di Matteo Renzi, fatta eccezione per il premier Draghi che aveva puntato tutto sulla novità di una riforma culturale e alla lotta senza quartiere per la bonifica del territorio meridionale dalla criminalità organizzata, resta proprio poco per il Sud nei proclami dei leader delle diverse forze politiche. Purtroppo le dimissioni e il conseguente disimpegno di Draghi hanno spezzato ogni prospettiva di riconquista di una rinascita meridionale. 

Quale Mezzogiorno è entrato nel dibattito politico di questa campagna elettorale? Molto spesso si è detto di un Sud straccione, alla ricerca di una identità, votato all’assistenzialismo. Di un territorio occupato dalla illegalità e del disegno della criminalità per accaparrarsi le nuove risorse… Eppure la politica come espressione del Sud, anche in questo turno elettorale, è rimasta muta. Talvolta si è limitata a evidenziare solo alcuni aspetti positivi di un territorio in cui la presenza di tesori monumentali, la risorsa climatica, le bellezze naturali e le risorse energetiche, come i vasti bacini acquiferi, rappresentano l’altra faccia di una medaglia spendibile sul piano nazionale e internazionale. L’operazione complessa è mettere insieme risorse e difficoltà per elaborare un programma di lunga durata, in grado di sconfiggere l’eterna emergenza che attraversa l’intero territorio meridionale.

IL FALLIMENTO DEL DISEGNO UNITARIO DELLE REGIONI DEL SUD

È evidente che per procedere su questa strada e ottenere risultati occorre una voce unitaria che rappresenti l’intero Mezzogiorno. Ci aveva provato, anni fa, Antonio Bassolino, nel ruolo di governatore della Campania. Lo ha seguito poi Nello Musumeci dalla Sicilia e, recentemente, anche Michele Emiliano dalla Puglia. Tutti tentativi falliti e il disegno di una regione meridionale unitaria si è frantumato, surclassato nella miope visione di guardare ciascuno alla propria cinta regionale, dando vita a quel deteriore campanilismo, al coro stonato che ancora oggi ha reso muta la prospettiva di una voce unitaria del Sud.

Il modello individualistico della rappresentanza a livello nazionale ha reso più fragile la questione meridionale che non sempre, e non solo, è riferita alla mancanza di risorse, non invece al ruolo mediocre svolto dalla classe dirigente meridionale. Ne è esempio l’incapacità a utilizzare i finanziamenti ordinari concessi dall’Europa alle regioni meridionali e restituite all’Europa per mancanza di capacità progettuale o a causa di progetti poco credibili. Di tutto questo, e di altro ancora, non c’è traccia in questa campagna elettorale che si avvita in un confronto con etichette sbiadite.

LE VOCI PER IL SUD E I SUOI PROBLEMI IN QUESTA CAMPAGNA ELETTORALE

Ascoltando le voci più recenti dei leader sulla questione meridionale si coglie il senso di una colpevole improvvisazione che non va oltre il già sentito. Come dire: niente di nuovo sotto il sole. Per Giorgia Meloni, ieri in chiusura di campagna elettorale a Napoli, in quell’arenile di Bagnoli, luogo di grandi lotte per il lavoro, “Il Sud per me – dice – è una grande occasione di sviluppo per questa nazione. Credo che sia mancata in questi anni soprattutto una visione industriale che coinvolga il Sud su settori non adeguatamente valorizzati, penso al tema dell’economia del mare e penso all’energia.

Nel dramma della situazione attuale noi abbiamo una grande occasione soprattutto per il Sud: i gasdotti dal Nordafrica e dal Mediterraneo occidentale arrivano qui al Sud, qui non mancano sole, mare e vento, con un po’ di soldi e un po’ di intelligenza noi possiamo fare del Sud l’hub di approvvigionamento”. Questo modo di guardare al Mezzogiorno si commenta da solo. Potrebbe essere una pagina di pubblicità oleografica per un Sud che di certo meriterebbe molto di più. Forse un qualche riferimento all’agricoltura, nel segno e nel sogno di Manlio Rossi Doria, certamente non guasterebbe.

LA QUESTIONE GIOVANILE

Da Meloni a Letta. “Ho girato molto il Sud in questa campagna e per me è profondamente ingiusto raccontare il Sud come solo quella parte del Paese che è interessata al reddito di cittadinanza. È vero – afferma il segretario nazionale del Pd –  che c’è il tema, soprattutto nelle fasce di maggiore povertà, ma c’è anche tantissima voglia di creare nuove iniziative. Serve un piano di grandi investimenti e di detassazione, specie per i giovani, per il nuovo lavoro che si crea al Mezzogiorno”. Giusto.

Sembra, però, che Letta non abbia compreso fino in fondo la lezione del passato, quando la leggendaria Tina Anselmi, con la legge per il lavoro giovanile, e Salverino De Vito, ministro per il Mezzogiorno nel governo Craxi, qualche anno dopo, posero le basi per arrestare la fuga dei cervelli, tema che avrebbe rappresentato il vero dramma dello spopolamento del sud interno. Argomento, invece, che la Chiesa di Francesco sta affrontando con determinazione e volontà, come risulta dal percorso intrapreso da molti vescovi con il manifesto “Notte a Mezzogiorno”.

IL SUD, I SUOI PROBLEMI E L’ENNESIMA OCCASIONE PERSA

Si potrebbero commentare altri pezzi di un mosaico che non c’è seguendo la campagna elettorale che domenica porta gli italiani al voto. Per concludere che ancora una volta, come avrebbe detto Guido Dorso, il Sud ha perso una grande occasione storica.

Politiche 2022, tutti al Mezzogiorno, ma è vera gloria? PIETRO MASSIMO BUSETTA su Il Quotidiano del Sud il 24 settembre 2022.

Tutti proiettati verso questa parte: le Politiche 2022 in chiave Mezzogiorno, ma sarà vero?

Sembra che il Sud sia diventato l’Eldorado politico del Paese. Tutti proiettati verso questa parte, tanto che a cominciare dalla star politica del momento, Giorgia Meloni, che ha concluso la sua campagna elettorale nientemeno che a Bagnoli, stretta tra l’esigenza di non perdere un bacino elettorale importante e dall’altra parte di barattare il presidenzialismo, al quale tanto tiene, con la richiesta ultimativa della Lega dell’autonomia differenziata.

In ogni caso, certamente, tutti si stanno impegnando molto per acquisire il consenso di questa parte. Dopo averlo dimenticato quasi completamente nei loro programmi elettorali, o addirittura dopo averne previsto la mortificazione e l’esigenza della statuizione dei due paesi di serie A e di serie B, adesso si sono svegliati con il chiodo fisso di un pensiero dominante verso il Mezzogiorno.

POLITICHE 2022, TUTTI A MEZZOGIORNO

“È vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza” avrebbe detto Alessandro Manzoni.

Più modestamente si può dire che questa corsa al Sud, questa ripresa di una posizione più equilibrata nei confronti del reddito di cittadinanza, hanno il senso di una ulteriore offesa ad un elettorato che sta cercando di capire chi possa proteggerlo da un destino infame, che prevede solo emigrazione o assistenza e invece rappresentare adeguatamente i suoi interessi.

Si rileva da un lato il quasi abbandono di una posizione di partito nazionale da parte della Lega Nord che, nelle dichiarazioni di uno dei suoi leader Zaia, afferma che la contesa è “fra chi vuole un nuovo Rinascimento con l’autonomia e chi si ostina a credere che la carta vincente sia l’assistenzialismo medievale” e che invece il problema è “la mala gestio che attanaglia il Paese soprattutto al Sud”.

Ma dall’altra parte il PD, che cerca voti da Palermo a Bari a Napoli, con un attivismo e una presenza che da molto non si erano visti, ma che ha difficoltà a rinnegare quell’autonomia differenziata, prodromo della secessione dei ricchi, portata avanti da Boccia, per non dispiacere Bonaccini, in pole position per la segreteria dopo la prevista sconfitta del PD nelle elezioni e la conseguente possibile messa da canto di Enrico Letta dalla posizione preminente nel partito.

Mentre Forza Italia si limita a mandare nella lotta i suoi luogo tenenti, non rinunciando a paracadutare la quasi moglie di Berlusconi in un collegio del trapanese siciliano, ma con un’attenzione particolare a promesse di pensioni a 1000 per tutti o di dentiere gratis che fanno capire quanta poca stima vi sia dell’elettorato attivo in particolare del Sud.

IL MEZZOGIORNO PER TERZO POLO E CINQUESTELLE

Forse l’unico raggruppamento che non ha troppo lisciato il pelo ad una realtà sempre considerata marginale è il terzo polo che continua con una evangelizzazione contro il reddito di cittadinanza, che avrebbe più senso se fosse meno estrema, più ragionevole, e si calcasse più la mano sull’esigenza di creare posti di lavoro veri.

Il movimento Cinque Stelle tenta invece di non farsi individuare come il partito del Sud per non perdere i consensi del Nord produttivo. Ed in tale logica evita anche esso di condannare troppo pesantemente, in ogni caso di parlarne il meno possibile, quella autonomia differenziata tanto divisiva.

POLITICHE 2022, IL SOSPETTO SULL’ATTENZIONE AL MEZZOGIORNO

La sensazione complessiva è che questa attenzione per il Sud, in zona Cesarini, nasconde una grande scarsa considerazione dell’elettorato relativo. Che si pensa si possa gestire tranquillamente anche paracadutando gente sconosciuta nelle realtà di riferimento, sicuri che in ogni caso la reazione non sarà particolarmente decisa.

Questo correre ai ripari quando si è visto che alcune delle candidature del maggioritario sono contendibili, cambiando posizioni e mostrando una attenzione farlocca rispetto alle esigenze dei territori, ci fa riflettere sulla convinzione sempre più consapevole dell’esistenza di un partito unico del Nord, che ha un atteggiamento coloniale anche nella politica. Cosa gravissima perché dimostra che in molti non si rendono conto del danno che una mancata coesione sociale delle varie parti del Paese può provocare alla gestione complessiva.

Il fatto che si possa pensare che esistano anche in politica due paesi diversi e contrapposti è un segnale di un disagio nazionale, che va assolutamente recuperato.

Il passaggio fondamentale è quello dell’unificazione economica, che non può più essere rinviata e che mette a rischio l’unità nazionale. Anche i vertici delle più importanti istituzioni del Paese mi pare non si rendano conto dei pericoli che corre la Nazione, o forse non vogliono sporcarsi le mani con un tema che certamente può essere dirompente.

Quello che accadrà subito dopo il 25 settembre sarà ci farà capire qual è la direzione sulla quale questo nostro Paese vuole indirizzarsi. Se vuole consolidare il suo ruolo di grande Paese fondatore dell’Unione oppure percorrere una deriva come quella dell’ex Cecoslovacchia o della ex Jugoslavia , estremamente pericolosa e certamente non illuminata.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passi

TUTTA QUESTA PROPAGANDA HA UN COSTO. IL PREZZO CHE IL PAESE PAGA SULL'ALTARE DI UN'INFORMAZIONE PRIVA DI MEMORIA STORICA. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 24 settembre 2022.

Non siamo capaci di valorizzare ciò che facciamo di buono né in casa né fuori. Non abbiamo orgoglio delle nostre cose e questo è abbastanza grave se ci confrontiamo con gli altri grandi Paesi europei. Servono ragionamenti pragmatici e azione pragmatica all’altezza della complessità dei problemi e della complessità del quadro geopolitico e finanziario internazionali. Perché il riformismo che cambia strutturalmente i Paesi e li indirizza in un percorso di crescita condivisa è quello dove l’alternanza di governo preserva un continuum che è l’esatto contrario di ricominciare sempre tutto daccapo e dove anche l’alternanza eventuale di donne e uomini in postazioni di comando non impedisce mai di preservare il pezzo di strada buona già fatto e spinge a concentrare gli sforzi per accelerare nel cammino intrapreso. Se ciò non avviene si perde l’ancoraggio con la realtà e ci si allontana inesorabilmente dai sistemi nazionali più avanzati dove la qualità del dibattito della pubblica opinione è la premessa di tutto.

VORREMMO insistere sulla qualità del dibattito pubblico italiano. Perché è vero che in campagna elettorale, soprattutto alle battute finali, tutto è consentito, ma il prezzo che il Paese rischia di pagare sull’altare di un’informazione priva di memoria storica e di capacità di controllo fattuale sulle mille propagande è davvero molto alto. Se tutto si risolve nel solito pollaio televisivo dove ogni affermazione è vera purché serva ad alzare i decibel della polemica con chi sostiene l’esatto contrario senza che mai a nessuno venga in mente almeno di provare a dire chi ha ragione, è evidente che si perde l’ancoraggio con la realtà e ci si allontana inesorabilmente dai sistemi nazionali più avanzati dove la qualità del dibattito della pubblica opinione è la premessa di tutto.

Perché il riformismo che cambia strutturalmente i Paesi e li indirizza in un percorso di crescita condivisa sono quelli dove l’alternanza di governo preserva un continuum che è l’esatto contrario di ricominciare sempre tutto daccapo e dove anche l’alternanza eventuale di donne e uomini in postazioni di comando non impedisce mai di preservare il pezzo di strada buona già fatto e spinge a concentrare gli sforzi per accelerare nel cammino intrapreso. Nelle grandi democrazie occidentali dove si cambia meno è in politica estera perché la politica estera di un Paese di stazza appartiene al cuore dell’interesse generale di una comunità e si muove, dunque, o almeno dovrebbe muoversi su solchi tracciati e riconosciuti in termini di alleanze, posizionamento geopolitico, idea condivisa di assetto del suo sistema economico e di tutto ciò che serve a livello di Pese per ridurre le diseguaglianze e consolidare le performance globali.

Anche per quanto riguarda le istituzioni l’approccio riformatore di livello alto è quello che opera all’interno della vita delle stesse istituzioni avvertendone in profondità le istanze di conservazione e di innovazione perché le due cose nelle grandi democrazie stanno sempre insieme. Se si perdono queste bussole di riferimento che sono sacrosante, può accadere che perfino uomini del calibro di Bersani e Letta, ai quali di sicuro non manca il senso dello Stato, si spingano a fare dichiarazioni apodittiche del tipo “non faremo mai ritoccare la costituzione”. Come se dall’83 a oggi non si fosse già infinite volte posto il problema di ritoccare la costituzione, che ha avuto e ha meriti che nessuno deve mai dimenticare, e loro stessi e chi li ha preceduti nelle responsabilità di partito non fossero sempre stati parte attiva di questi progetti di cambiamento. Il punto è che nessuno lo dice, nessuno ricorda mai niente, e il dibattito pubblico in genere, addirittura in special modo in campagna elettorale, diventa il megafono dell’ultima cosa che gira nel talk show di turno.

Non rifarsi mai a una storia pregressa, a fatti certi e riscontrabili, francamente inquieta, ma se ci pensate bene in questo stesso filone si inserisce il vittimismo della destra ogni volta che scatta una critica, anche internazionale, che al di là di eccessi evidenti e riconoscibili sono la norma in un sistema economico così interconnesso come è quello europeo soprattutto in una fase geopolitica tesa, segnata da una guerra nel cuore dell’Europa, che prelude di sicuro a un nuovo ordine mondiale. Quanti intellettuali e politici italiani hanno più volte manifestamente espresso la loro preferenza per Macron o per la Le Pen durante la campagna elettorale francese e a urne ancora aperte? Certo, se a dare le pagelle ai politici italiani è la presidente della Commissione europea, von der Leyen, che poi dovrà trattare con la nuova classe di governo di quel Paese il problema si pone e come, tanto è vero che si è subito corretta, ma se a parlare è un intellettuale non solo c’è tutta la libertà di ascoltarlo o meno e, anche se parla molto a sproposito di fascismi e post fascismi che non esistono, non sta facendo un’ingerenza.

In generale, ciò che mi ha preoccupato in questa campagna elettorale che per fortuna si è chiusa, è l’assenza nel dibattito pubblico italiano di qualsivoglia forma di capacità veramente propositiva. Tipo: abbiamo quel problema lì, si può risolvere seriamente non con la bacchetta magica o semplicemente urlando tout court che le bollette le pagherà lo Stato, per la semplice ragione che questa non è la soluzione, può esserlo per un pezzo del problema, per un periodo limitato. Servono piuttosto ragionamenti pragmatici e azione pragmatica all’altezza della complessità dei problemi e della complessità del quadro geopolitico e finanziario internazionali. Già solo affermare questi principi significherebbe avere fatto un bel passo in avanti.

Sul Mezzogiorno, ne scriviamo da giorni, siamo tornati alla questione settentrionale della secessione di Bossi che si tradusse in una colossale infornata di assunzioni clientelari nelle regioni del Nord. Che ha di certo fatto molto male al Sud, ma ancora di più al Nord. È tutto scritto anno dopo anno nel bilancio dello Stato italiano e complessivamente nel debito pubblico del Paese che non è nient’altro che la somma algebrica dei nostri vizi privati messi sul conto della collettività. Riecheggia questa questione quando si parla di infornate di assunzioni di centinaia di migliaia di persone nella pubblica amministrazione meridionale, perché a un problema giusto che è quello di dare tecnici informatici, ingeneri e uomini di legge di valore subito, quasi si sovrappone culturalmente l’idea della solita infornata di massa clientelare che è l’inizio e la fine della vera questione meridionale.

Non siamo capaci, viceversa, di valorizzare ciò che facciamo di buono né in casa né fuori. Non abbiamo orgoglio delle nostre cose e questo è abbastanza grave se ci confrontiamo con gli altri grandi Paesi europei. La nostra democrazia ha inglobato partiti totalitari come il Pci di Togliatti o l’Msi di Almirante, è stato un processo che si è sviluppato lentamente, in parte anche con la loro collaborazione. Ci siamo riusciti, però. E oggi nella democrazia italiana non c’è più chi voglia instaurare un regime di tipo sovietico o chi voglia instaurare un regime di tipo autoritario. È una vittoria meravigliosa. Dovremmo almeno esserne un po’ più orgogliosi.

LA PROPAGANDA DELLE BUGIE E L'ORGOGLIO DELLA VERITÀ. Il dibattito pubblico malato che cancella il Sud migliore e toglie la speranza al Paese. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 23 Settembre 2022

Ognuno se la fabbrica e se la racconta da solo. Tanto sa che nessuno chiede conto. Tanto sa che nessuno controlla. Manca invece il racconto di ciò che nel Mezzogiorno è stato già fatto, non promesso. Come tutto quello che è stato stanziato e avviato per gli asili nido come nelle scuole, nella ricerca come nell’Università. Il porto di Gioia Tauro che può con un treno dedicato trasferire le merci all’interporto di Bologna e da qui raggiungere finalmente il cuore dell’Europa. Perché non scatta uno spirito di comunità che vede nel Pnrr del capitale umano e delle grandi reti immateriali e materiali voluto dal governo Draghi la bandiera della rinascita del Mezzogiorno prima ancora che della ripartenza dell’Italia? Perché non si sottolinea mai che gli investimenti privati sono cresciuti più nel Sud che nel Nord? E che, addirittura, è successo anche con l’occupazione? Perché si fa così fatica a rendere pubblico che con la legge di bilancio per la prima volta si sono fatti i livelli essenziali di prestazione per il welfare all’infanzia e agli anziani? Perché, mi chiedo, ci si vergogna di questi risultati strepitosi e si entra in competizione nella gara delle promesse dove chi la spara più grossa vince sempre? La vera sfida oggi è quella di impedire che il popolo meridionale si condanni per sempre all’assistenzialismo. Avremmo nuovi baratti, magari con l’autonomia differenziata, e avremmo spezzato l’incantesimo degli investimenti che ripartono e della fiducia che torna. Sarebbe il solito suicidio. Impediamolo costi quel che costi ricordandocelo nel segreto dell’urna

Siamo alla propaganda delle bugie. Ognuno se la fabbrica e se la racconta da solo. Tanto sa che nessuno chiede conto. Tanto sa che nessuno controlla. Soprattutto sa che in campagna elettorale ognuno crede a ciò che fa piacere credere. Dobbiamo avere il coraggio di dire che l’orgoglio della verità e il metodo del confronto comparativo-competitivo non appartengono all’agorà televisiva italiana, ovviamente con le dovute eccezioni, e questa misura come meglio non si potrebbe la distanza che separa la democrazia italiana da quelle spagnola, tedesca e francese.

C’è un tema vero non più eludibile che appartiene alla qualità del dibattito pubblico di un Paese perché la coscienza nazionale attraverso di esso si forma. Così come è bene rendersi conto che l’esercizio consapevole del primo dei diritti di una democrazia, che è quello di voto, passa attraverso la conoscenza dei fatti e il confronto nazionale e internazionale tra grandezze e comportamenti omogenei. A maggiore ragione in una stagione percorsa dai brividi di una guerra nel cuore dell’Europa che ridisegnerà l’ordine mondiale, in un conflitto mai risolto tra mondo autarchico e mondo occidentale. A maggior ragione se siamo all’apice di una serie concentrica di shock inflazionistici e monetari che mettono a dura prova il miracolo dell’Italia di Draghi facendo emergere le fragilità di un dualismo territoriale irrisolto che non appartiene più a nessun Paese europeo.

Per capirci, questa storica malattia italiana, aggravatasi di molto con le tv commerciali e l’inseguimento al ribasso dell’informazione pubblica, produce danni seri in tutti gli ambiti dell’economia e della società. Questo tipo di situazione vale per tutto, ma oggettivamente ancora di più per il nostro Mezzogiorno. L’assenza di un dibattito della pubblica opinione sano, che vuol dire prima di tutto veritiero, fa muro contro le forze sane dell’economia e della società spingendole a rimanere nei loro gusci e, di fatto, impedendole di uscire dalle secche dello stereotipo meridionale per farsi riconoscere e diventare comunità. In questo modo nella coscienza collettiva prevale sempre il solito stereotipo dell’impiego pubblico che è ovviamente un’altra cosa rispetto allo stipendio sottopagato nel turismo.

Quando invece la vera sfida da vincere è proprio quella di un’industria del turismo di livello internazionale che non ha più nulla a che vedere con qualche piccolo o grande datore di lavoro truffatore o logiche da rapina. Quando invece il vero vantaggio competitivo è quello di potere contare su un patrimonio unico al mondo che è la bellezza del territorio, del clima e della sua cucina. Tutte quelle cose, cioè, che non si inventano, ma vanno sfruttate in modo appropriato.

Manca totalmente il racconto di ciò che è stato già fatto, non promesso. Come tutto quello che è stato stanziato e avviato per la spesa negli asili nido come nelle scuole, nella ricerca come nell’Università. Il grande progetto di unire le due sponde del Mediterraneo attraverso una rete di eccellenze universitarie e il porto di Gioia Tauro che può finalmente con un treno dedicato trasferire le merci dall’hub marittimo all’interporto di Bologna e da qui raggiungere finalmente il cuore dell’Europa.

L’opportunità storica del Mezzogiorno di essere già e sempre più diventare l’hub energetico del Mediterraneo per l’Europa intera. Perché non se ne parla, mi chiedo? Perché non si dice tutto quello che è stato già fatto oltre al reddito di cittadinanza e al superbonus? Perché i partiti della coalizione di governo continuano a chiedere di investire ignorando quello che è già stato stanziato e appaltato con il Pnrr, dagli asili nido all’edilizia scolastica fino alla ricerca e all’università? Per non parlare di ospedali e medicina del territorio.

Perché non è scattato mai uno spirito di comunità che vede nel Pnrr del capitale umano e delle grandi reti immateriali e materiali la bandiera della rinascita del Mezzogiorno prima ancora che della ripartenza dell’Italia? Perché non si sottolinea mai che gli investimenti privati sono cresciuti più nel Mezzogiorno che nel Nord del Paese? E che, addirittura, anche l’occupazione, perfino in una stagione segnata dalla più iniqua delle tasse qual è l’inflazione, è cresciuta più al Sud che al Nord? Perché si fa così fatica a rendere pubblico che con la legge di bilancio del governo Draghi per la prima volta si sono fatti i livelli essenziali di prestazione per il welfare all’infanzia e agli anziani di modo che un cittadino di Cosenza non è più arbitrariamente di serie B rispetto a quello di Belluno di serie A?

Perché, mi chiedo, ci si vergogna di questi risultati strepitosi e si entra in competizione nella gara delle promesse dove chi la spara più grossa vince sempre? Forse, se vi ponete queste domande e ci pensate bene un attimo, capirete meglio perché la peggiore delle medicine possibili, che è l’assistenzialismo, incanta così tanta gente e perché la vera sfida è quella di impedire che il popolo meridionale si autocondanni per sempre all’assistenzialismo che domina la scena. Avremmo nuovi baratti, magari con l’assistenzialismo dell’autonomia differenziata, e avremmo spezzato l’incantesimo degli investimenti che ripartono e della fiducia che torna. Sarebbe il solito suicido. Impediamolo costi quel che costi ricordandocelo nel segreto dell’urna.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.

Ospedali del Nord, i migliori con i medici del Sud. I «cervelli in fuga» da un «sistema» rimasto legato a «cancrene» che non vorremmo più vedere, ma che evidentemente resiste. Roberto Calpista su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Settembre 2022.

C’è un mistero tutto italiano che riguarda la sanità. Uno dei tanti senza una spiegazione. O meglio un filo, pur «illogico», ci sarebbe, ma spiegarlo urterebbe molte sensibilità. Il mistero riguarda fatti più o meno noti, ma che in questi giorni sono nero su bianco con la classifica di «Newsweek» sui migliori ospedali specialistici del mondo per il 2023 e che segue di pochi mesi quella globale riferita all’anno 2022. Le migliori strutture sanitarie sono tutte nel Nord, al massimo Centro Italia, ma si tratta di reparti spesso pieni di medici che arrivano dal Sud. I «cervelli in fuga» da un «sistema» rimasto legato a «cancrene» che non vorremmo più vedere, ma che evidentemente resiste.

Prendiamo l’esempio della Urologia di Padova, diretta dal prof. Fabrizio Del Moro. Nell’équipe ci sono Arturo Calpista, primo aiuto, nato a Bari; Giulio Balta di Foggia e Manuela Ingrosso di Taranto. Ebbene, «Newsweek» certifica che si tratta della migliore Urologia d’Italia e della 27ª a livello mondiale. Per realizzare la graduatoria si è fatto ricorso a tre differenti fonti di dati: le risposte ad un questionario sottoposto ad oltre 80mila esperti (medici, dirigenti ospedalieri, operatori sanitari), i dati pubblicamente disponibili sull’esperienza dei pazienti, e i «Kpi», ovvero gli indicatori chiave di performance di prestazione medica dei singoli ospedali. In seguito i punteggi di ogni ospedale sono stati calcolati attraverso la ponderazione di ciascuna di queste tre categorie: peer recommendation (50% nazionale, 5% internazionale), patient experience (15%), medical Kpi (30%). Le graduatorie preliminari così ottenute sono state poi inviate a una rete internazionale di giornalisti specializzati in medicina al fine di avere un controllo di plausibilità. In seguito un consesso composto dai massimi esperti ha convalidato il tutto.

Anche altri reparti specialistici risultano nella classifica, ma nessuno si trova sotto la linea di Roma. Per esempio l’Irccs Ortopedico Rizzoli di Bologna è quinto a livello globale e secondo in Europa. Tra i centri pediatrici , il primo in Italia è il «Bambin Gesù» di Roma, 12° al mondo; in Gastroenterologia il Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma (8°), in Neurologia la Fondazione Irccs Istituto neurologico Carlo Besta di Milano (11° posto e 21° per la Neurochirurgia). In Oncologia spiccano l’Ieo-Istituto europeo di oncologia e l’Istituto nazionale dei Tumori, entrambi a Milano (rispettivamente 12° e 17°), in Endocrinologia il San Raffaele - Gruppo San Donato di Milano (16° posto).

Per la qualità complessiva degli ospedali, invece, i dati al momento disponibili sono quelli del «World’s Best Hospitals 2022». E anche qui la linea rossa è all’altezza della Capitale. Tutto quel che c’è sotto finisce in coda alla classifica che è dominata, sul podio, da strutture «made in Usa»: in terza posizione c’è il Massachusetts General Hospital di Boston, in seconda posizione il Cleveland Clinic di Cleveland e al vertice, premiato come miglior ospedale al mondo da «Newsweek», il Mayo Clinic di Rochester. Completano la «top 5» il Toronto General – University Health Network di Toronto (al quarto posto) e il Charité – Universitätsmedizin Berlin di Berlinio (al 5° posto a livello mondiale, ma primo in Europa).

Per trovare il primo italiano bisogna scendere fino alla 37ª posizione. Sono ben 16, però, gli ospedali della Penisola nella top 250. Dove? A Roma, Milano, Bologna, Rozzano, Padova, Verona, Pavia, Bergamo, Reggio Emilia, Torino, Brescia, Firenze, Parma, Negrar (Verona). In Puglia se la gioca solo la «Casa Sollievo della Sofferenza» di San Giovanni Rotondo (29ª). Anche il Policlinico di Bari, non se la cava malissimo, con la 35ª posizione sulle 112 nazionali, ma è lontanissimo dai livelli europei e mondiali. Il «Perrino» di Brindisi è al 64° posto; al 72° il San Paolo di Bari; all’86° il «Vito Fazzi» di Lecce.

C’è un mistero nella sanità italiana che tanto mistero non è. L’articolo 32 della nostra Costituzione pone la salute come diritto fondamentale di ogni individuo e come interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Per ora al Nord è un diritto, al Sud una speranza.

Fabio Savelli per il “Corriere della sera” il 19 settembre 2022.

Due anni di pandemia: quasi 25 miliardi di ristori a fondo perduto. Due anni terribili per l'economia. Chiusure prolungate di bar e ristoranti, alberghi e sale scommesse, piscine e palestre. Coprifuoco notturno a partire dalle 18 per oltre sette mesi a cavallo tra il 2020 e il 2021 che hanno buttato giù il fatturato di migliaia di partite Iva. Misure di distanziamento, non più di quattro a pranzo allo stesso tavolo, assembramenti vietati, mascherina di ordinanza.

Eppure lo Stato sociale ha tenuto, aumentando il debito pubblico che ha superato il 150% in rapporto al Pil. L'economia però è ripartita se nel 2021 la crescita ha rimbalzato al 6,6%. Grazie ai vaccini certo, ma migliaia di esercenti, piccole e medie imprese, attività turistiche hanno superato l'emergenza anche attingendo ai diversi fondi messi in campo dal governo per affrontare una sfida dalla portata inimmaginabile.

I dati appena pubblicati dall'Agenzia delle Entrate restituiscono una diapositiva fedele di cosa abbiamo vissuto. Oltre 2,45 milioni di beneficiari dei vari aiuti erogati dall'Agenzia, guidata da Ernesto Maria Ruffini, nel 2020, circa 2,25 milioni nel 2021. Oltre 9,38 miliardi dispensati nel primo anno di pandemia, 15,34 miliardi nel secondo. Totale: 24,7 miliardi.

Quasi la metà delle risorse messe in campo dall'esecutivo nei primi due decreti Aiuti contro il caro energia. Poco meno del doppio dell'intervento appena varato, l'Aiuti ter, che movimenta circa 14 miliardi. Tredici i provvedimenti, nei due anni in questione, che hanno dato mandato all'Agenzia delle Entrate di effettuare i pagamenti sui conti correnti dei destinatari a seguito di triangolazione con la Banca d'Italia. Ristori nella gran parte dei casi arrivati in una decina di giorni dalle richieste. Dal primo decreto Rilancio, aprile 2020, ai due Ristori 1 e bis fino ai due Sostegni 1 e bis del 2021, per citare i più rappresentativi.

Procedure in tempi record grazie alla piattaforma informatica dell'Agenzia, gestita in collaborazione con Sogei, la società hi-tech del ministero del Tesoro, che aveva già a disposizione sui suoi cervelloni miliardi di dati degli italiani derivanti dall'anagrafe tributaria, tra dichiarazione dei redditi e fatturazione elettronica. Un cambio di passo applaudito anche dall'allora premier, Giuseppe Conte, dopo le prime criticità manifestate dall'Inps per il primo bonus autonomi di marzo 2020 in cui il portale andò in tilt in pochi minuti.

La regione destinataria della maggiore quota di contributi nel 2021 è stata la Lombardia (3.171.267.365), a seguire Lazio (1.617.317.622), Veneto (1.483.497.511), Campania (1.259.045.717), Emilia Romagna (1.258.814.413) e Toscana (1.245.521.274). Non a caso le più rilevanti in termini di popolazione e di presenza di attività economico-ricettive.

Interessante annotare che il numero dei beneficiari nel 2020 è stato superiore a quello dell'anno dopo ma l'ammontare delle risorse è invertito, con un aggravio sui conti pubblici di circa 6 miliardi nel secondo anno di Covid. Segnale che gli interventi sono cresciuti, ma sono stati anche più selettivi. Mirati su chi ne aveva bisogno. Ora la sfida del caro energia. Che incide sul debito ma produce un extra gettito da inflazione.

Altro che servizio pubblico, la Rai ghettizza il Sud. Ricordiamo che un terzo del canone incassato dalla Rai proviene dalle Regioni del Mezzogiorno. Si torni allo spirito di "Non è mai troppo tardi". PIETRO MASSIMO BUSETTA su Il Quotidiano del Sud il 9 Settembre 2022. 

Il maestro Alberto Manzi, con la sua trasmissione "Non è mai troppo tardi" alfabetizzò milioni di italiani

Dal 1960 al 1968 la Rai mandò in onda un programma televisivo per combattere l’analfabetismo tra gli adulti. “Non è mai troppo tardi” si chiamava il programma, e chiamò a condurlo non un qualunque maestro di scuola elementare, ma Alberto Manzi scrittore insegnante e pedagogista romano.

L’esperimento andato in onda sulla Rai per ben otto anni aiutò 1 milione e mezzo di studenti a conseguire la licenza alimentare. Perché ricordare questo progetto? Per dimostrare che la televisione pubblica prima aveva chiaro di avere un ruolo nel nostro Paese totalmente diverso rispetto alla cosiddetta televisione commerciale.

Per tale motivo è previsto il pagamento di un canone, peraltro con la previsione di un prelievo automatico ed in ogni caso ad un costo indipendente dal reddito di ciascuno.

Per cui considerato che ormai il televisore entra in tutte le famiglie si può ritenere, senza timore di errore, che un terzo del canone complessivo, incassato dalla Rai, provenga dal Mezzogiorno d’Italia, come la popolazione.

Questo investimento che il Sud ogni anno fa si può affermare che torni con un servizio corrispondente alle risorse impiegate? In realtà in molti ritengono che la Rai sia funzionale al cosiddetto Partito Unico del Nord, e che si sia posta in modo strabico rispetto ad una parte del Paese.

Ad un occhio attento non può sfuggire il fatto che nella sua programmazione la presenza di opinion leader appartenenti al nord del Paese sia assolutamente prevalente.

Come pure la dimensione delle realtà produttive della stessa, in termini di fiction e di programmi, sia prevalentemente oltre che a Roma come è naturale poi a Milano, mentre tutto ciò che c’è da Napoli in giù è assolutamente trascurato.

In un processo nel quale si insegue, come forse è giusto che sia, lo spettacolo più cool, la mostra più ricca, il festival di successo, l’evento internazionale più importante, la concentrazione di attenzione rispetto al nord del Paese diventa quasi fastidiosa.

Ma anche laddove il tema diventa quello del confronto scientifico su temi riguardanti la medicina, l’economia, la fisica o le scienze varie la concentrazione degli opinionisti fa riflettere molto sullo strabismo della Rai.

Gli ultimi due anni di pandemia ci hanno fatto apprezzare moltissimo i tanti virologi esistenti in Italia. Molto strano è che tutti quanti avessero sede presso un policlinico o un’università al di sopra di Bologna.

E se poteva essere comprensibile, quando i collegamenti via web erano più complicati, che la scelta avvenisse in realtà più servite e più vicine ai centri di produzione, stupisce notevolmente che invece si è continuato a coinvolgere professionalità, pur di rilievo, del Nord, lasciando totalmente marginale tutte le realtà scientifiche che avessero sede a Napoli, Bari, Palermo o Catania ora che la dislocazione geografica diventa indifferente.

In una forma di discriminazione che se fatta dalla televisione commerciale, pur se non condivisibile, può trovare motivazione nelle cordate e nei gruppi prevalenti, ma che non può essere assolutamente condivisa se portata avanti dalla televisione pubblica.

La spiegazione di tale comportamento è molto semplice. Poiché la televisione pubblica è lottizzata dal Partito Unico del Nord, non è strano che esso promuova i propri “aficionados”, dando quei contentini che poi servono a lanciare libri a coloro che sono più vicini, se si tratta di giornalisti ad avere spazi televisivi pagati molto bene, se si tratta di divulgatori ad aver affidate trasmissioni da gestire.

Ovviamente si tratta di un tradimento assoluto degli obiettivi che dovrebbe porsi un servizio pubblico. Che, come fece nel 1960 quando cercò di unificare l’alfabetizzazione del Paese, negli anni 2000 dovrebbe aiutare a rilanciare le realtà marginali, aiutandole a promuovere le loro attività turistiche, i loro grandi concerti, le loro attività culturali che il Paese conosce poco, da quelle che si svolgono al teatro greco di Siracusa, alla Sagra del mandorlo in fiore della Valle dei templi, fino al festival della Taranta. Ovviamente non solo trasmettendole ma, cosa ben diversa, promuovendole.

Un’attenzione particolare dovrebbe essere rivolta anche all’informazione che arriva da queste realtà ed evitare che sia predominante quella che vuole far passare la parte dirigente dominante del Paese.

Le rassegne stampa che danno prevalenza ai giornaloni nazionali, per altro di proprietà degli imprenditori che indirizzano non solo l’economia ma anche il pensiero della gente, diventa una forma di lavaggio del cervello, per cui se un investimento non è congeniale all’indirizzo prevalente viene criminalizzato e coloro che lo sostengono spesso ridicolizzati.

Quello che è accaduto e che accade ancora con il progetto del ponte di Messina è illuminante di come investimenti importanti vengano trattati. Se poi si pone a confronto con la pubblicistica relativa al Mose di Venezia e alla TAV ci si accorge che quando si tratta di indirizzare le risorse per le infrastrutturazione del Sud del Paese tutto diventa assolutamente spesa sprecata.

Per cui il Mezzogiorno, che non ha voci autorevoli nella panoramica nazionale, sia per quanto riguarda la carta stampata che per quanto riguarda le televisioni generaliste, viene assolutamente silenziato nelle pagine regionali di media marginali e periferici.

Per cui mentre i media privati continuano a perseguire gli obiettivi legittimi che si sono proposti, l’unico media pubblico, che dovrebbe equilibrare in parte il rapporto di forza esistente, non fa altro che aiutare quella concentrazione di posizione dominante per cui una parte del Paese non riesce più ad avere voce.

Tale approccio si ritrova anche rispetto al Governo del Paese, per cui anche se vi dovessero essere ministri con provenienza meridionale, e non dovessero allinearsi rispetto alle posizioni dominanti prevalenti, vengono maltrattati quando non capita quello che è accaduto al presidente Leone, napoletano, costretto a dimettersi da un’inchiesta profondamente ingiusta. Mentre l’energia diventa costosissima ed i tassi esplodono potrebbe sembrare quello trattato un problema minore, ma la democrazia è fatta di pesi e contrappesi, di equilibri anche nell’informazione.

L’eutanasia del sud. Il programma meridionalista di Conte è il suicidio assistito del Mezzogiorno. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 10 Settembre 2022.

Mentre l’Italia si trova al centro di uno dei più straordinari programmi di investimento di cui abbia mai beneficiato, il Movimento 5 stelle continua a crescere al Sud anche grazie al reddito di cittadinanza, richiamando alla memoria tristi precedenti, esempi del più becero assistenzialismo 

Giuseppe Conte, l’ex fortissimo riferimento progressista e unico nome meritevole di succedere a se stesso (ovviamente in nome del “cambiamento”) prima che Renzi inventasse il Governo Draghi, negli scorsi giorni ha ammonito gli ex compagni di strada di destra e di sinistra a «non dire che Putin non vuole la pace».

Cioè a non dire la verità, lasciando che la guerra all’Ucraina e all’Occidente dell’ex beniamino degli uomini di mondo della politica italiana – in primis: Berlusconi e Prodi – sia normalizzata dalle contro-verità moscovite ed esorcizzata dalle recitazioni pacifiste degli ex complici, clienti e attendenti del Cremlino.

Per primi, ovviamente, l’indefesso pacifista di Volturara Appula, per cui agli ucraini aggrediti abbiamo già dato troppe armi e il Capitano del team Savoini, che ben dopo l’annessione della Crimea e malgrado la mattanza degli oppositori politici non si vergognava di dire che la Russia è più democratica dell’Ue.

Rubandogli le parole di bocca, qualcuno dei suoi sodali potrebbe dire: «Nessuno dica che Conte non vuole il bene del Sud», proprio nel momento in cui sta perfezionando – con discreto successo, dicono i sondaggi – la trasformazione del M5S in una Lega Sud neo-borbonica, piangendo la miseria, promettendo l’elemosina e minacciando la rivolta in nome di un meridionalismo opposto a quello delle élite cattoliche, liberali e socialiste del primo Novecento e a immagine e somiglianza di quello dei cacicchi e dei masanielli che, da ben prima dell’Unità d’Italia e fino a questi ultimi anni di Repubblica, hanno reso la fame una rendita, le plebi una massa di manovra, e l’assistenzialismo la vera forma dell’identità politica meridionale.

Il meridionalismo di Conte non ha nessuna parentela con quello di Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini o Antonio De Viti de Marco, discende al contrario da quello dei viceré della partitocrazia vincente, che sulla divisione dell’Italia costruirono l’occupazione e la spartizione dello Stato o, ancora più mediocremente, da quello di Achille Lauro, di Ciccio Franco, di Pino Aprile e dei cacicchi e masanielli che da decenni campano politicamente a sbafo sul rimbambimento dei disperati e sulla loro ingenua devozione per gli innumerevoli epigoni del Re Lazzarone.

Conte sta ideologicamente sulla loro linea, per cui il divario tra Nord e Sud è il prodotto di un’arretratezza sostanzialmente imposta da scelte politiche punitive, quando invece, poggiando purtroppo su solide basi storico-sociali, è andato crescendo proprio per il fallimento di prodighe e insensate politiche assistenzialistiche, cioè proprio per effetto del meridionalismo di potere.

Non può stupire quindi che il capo dei 5 Stelle additi non il lavoro, ma il reddito di cittadinanza come nuovo sole dell’avvenire, che peraltro come tutti i miti ideologici non ha bisogno di funzionare nella pratica per funzionare nelle urne. Anzi, come insegna proprio la storia meridionale, i poveri devono rimare poveri ed espropriati della speranza di un cambiamento reale, per potersi ogni volta votare alla carità del nuovo salvatore.

Infatti il reddito di cittadinanza non funziona, perché la sua rete di protezione esclude la maggior parte di quanti versano in condizioni povertà assoluta, oltre a essere deliberatamente discriminatorio (marchio di fabbrica giallo-verde) prevedendo l’esclusione di chi ha meno di dieci anni di residenza in Italia. Sul fronte del lavoro, poi, l’effetto più rilevante prodotto dal RdC è stato la procurata disoccupazione degli ex navigator.

Eppure il reddito di cittadinanza è diventato il sine qua non del solidarismo perbene, oltre che il crisma necessario del meridionalismo corretto, proprio perché non rappresenta un mero strumento di sostegno, come in precedenza il reddito di inclusione (di cui ora il PD si vergogna alla pari del Jobs Act, pur essendo anche questa farina del suo sacco), ma è diventato un ideale sociale, un vero sogno di giustizia.

Non può sorprendere che in aree a rischio concreto di desertificazione economica e demografica, avviluppate in un circolo vizioso di rinunce e frustrazioni, di servitù politiche dolorose e di accattonaggi elettorali umilianti, un programma di suicidio sociale assistito possa apparire agli occhi di molti una garanzia di sollievo. Il reddito di cittadinanza come alternativa al lavoro – com’era nella originale predicazione grillina, com’è rimasto nel subconscio politico della nazione, in particolare al Sud – è qualcosa di mostruoso, come il diritto all’eutanasia come alternativa al diritto alla salute.

Può apparire paradossale che questa mostruosità torni a riproporsi in modo così seducente mentre il Sud è al centro del più straordinario – e grazie a Dio vincolato e sorvegliato dall’Ue – programma di investimento di cui abbia mai beneficiato in così pochi anni (complessivamente 82 miliardi), quello del PNRR, che prospetta al Mezzogiorno italiano uno scenario alternativo a quello di diventare un hospice di massa e un esperimento di socialismo palliativo.

Però, visto che tutte le idee, anche le più cattive, hanno serie conseguenze, decenni di assistenzialismo e secoli di sudditanza rendono paradossalmente attrattiva, anche in questo scenario eccezionale, la triste normalità dell’ennesimo mestierante del meridionalismo peggiore.

Diritti civili negati al Sud, così l'Italia viola la Costituzione e ora ci mette anche il sigillo. Ma voi ditemi perché io di Foggia devo essere curato peggio e meno di uno di Pavia. Ma voi ditemi perché io di Matera devo avere meno bus di uno di Verona. Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Settembre 2022.

Ma voi ditemi perché io di Foggia devo essere curato peggio e meno di uno di Pavia. Ma voi ditemi perché io di Matera devo avere meno bus di uno di Verona. Ma voi ditemi perché io di Avellino devo avere minore assistenza sociale di uno di Parma. Ma voi ditemi perché io di Crotone devo avere meno ore di scuola di uno di Alessandria. Ma voi ditemi perché io di Campobasso devo avere meno asili nido di uno di Arezzo. Per lo Stato italiano i cittadini hanno pari dignità e sono uguali dinanzi alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali. Ma voi ditemi perché non sono uguali a seconda di dove sono nati. E ditemi perché lo Stato italiano continua a violare la sua stessa Costituzione a danno dei meridionali nati nel posto sbagliato. Ditemi perché dobbiamo avere uno Stato ingiusto e razzista.

Voi dovete dirmi anche perché io non nato a Varese o a Padova devo avere meno lavoro e più povertà, meno benessere e più emigrazione. Problema vostro, è stata finora la risposta, vostro difetto di capacità e di modernità. E se insistete vi rinfacciamo anche di essere nati così. Mentre lo stesso incostituzionale Stato italiano, che fa un colpo di Stato verso se stesso riguardo al Sud, lo ammette nei suoi conti: io spendo molto meno per un cittadino meridionale rispetto a uno centrosettentrionale.

Perché? Perché ci sono italiani e diversamente italiani. E perché c’è un federalismo fiscale che da almeno 21 anni (per parlare solo degli ultimi) continua a derubare il Sud. Lo dicono i Conti pubblici territoriali del Mise (Ministero sviluppo economico, evidentemente sviluppo del solo Centro Nord).

Ma se questo divario di ricchezza è inaccettabile, addirittura immorale è quello dei diritti di cittadinanza, appunto quei servizi che fanno la qualità della vita. Appunto sanità, scuola, trasporti, sostegno agli anziani. E che non possono dipendere dalle condizioni economiche, anzi le determinano. Servizi che danno o non danno dignità all’esistenza. Voi del Sud dovete vivere con meno dignità. Dovete vivere peggio solo perché del Sud. Condannati a morire prima. La Questione Etica di uno Stato non etico, altro che Questione Meridionale. E non meraviglia sapere chi sia stato a sollevarla in una campagna elettorale che di Sud parla solo per bacchettarlo, eh dovete darvi da fare. Rapinati e dileggiati.

Monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio, è vicepresidente dei vescovi italiani e delegato al Mezzogiorno. In Italia il divario civile, ha detto, è più accentuato di quello economico, ed anche più preoccupante. Meno accettabile. Meno accettabile che un calabrese ammalato non possa curarsi nella propria città con la stessa tempestività ed efficacia di un lombardo. Che c’entra una malattia con tutto il resto? Che c’entrano i servizi alla persona, che c’entra l’umanità col conto in banca? Tutto ancora meno accettabile che un calabrese abbia un reddito di appena la metà di quello medio dei lombardi. Perché lo Stato italiano non ha mai calcolato i bisogni civili dei meridionali tanto quanto ha calcolato (e con che fretta) quelli dei settentrionali. Anzi siccome ai settentrionali ha sempre storicamente dato di più, continua storicamente a darlo. Giusto? Ah, ora pensiamo al gas.

Monsignor Savino non cita i neoborbonici in questa sua denuncia dal sapore dell’intemerata nell’indifferenza generale. Cita, fra le altre, Caritas e Legambiente. Su questo scandalo europeo di un Paese neanche lontanamente europeo, ora le forze politiche si accingono a mettere il sigillo definitivo. E lo fanno a destra, a sinistra, al centro: tanto perché nessuna ne perda il merito. Si accingono a sancire una volta per tutte che i più fragili diventino sempre più fragili. L’autonomia differenziata chiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia vuole cristallizzare e legittimare questo golpe continuato. E lo sarebbe quand’anche non pretendessero (come pretendono) di trattenersi le loro tasse perché i ricchi devono essere trattati meglio per un merito: essere ricchi. Anche se per i servizi che vogliono gestire spendessero quanto attualmente spende lo Stato, quella spesa è la spesa storica. Cioè una spesa in più di quanto gli spetterebbe e che viene sottratta ogni anno ai malati, agli studenti, agli anziani del Sud.

Udite, udite: chi nel 2009 denunciò questo colpo di mano continuativo e aggravato ai danni del Sud fu un certo Caldarola, big della Lega Nord. Era indignato anche lui, figuriamoci. Ora deve essere un vescovo a dire che non si venga, per carità, a parlare di vangelo. E biblicamente che non si dica Signore Signore violando la dignità dei più deboli.

LA RIFLESSIONE. Settentrione e Meridione: le ciabatte rubate dalle onde e un mare di differenze. L’altro giorno, in un mare a nord di Roma, ho perduto le mie ciabatte...Marcello Veneziani su la Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Agosto 2022

L’altro giorno, in un mare a nord di Roma, ho perduto le mie ciabatte. Il mare era agitato, con onde anomale, e una mareggiata ha sommerso lo scoglio dove le avevo parcheggiate e le ha trascinate in acqua, portandole velocemente al largo e a picco, fino a perderle di vista.

Sono tornato dal mare scalzo ma nessuno dei presenti al mare o delle persone che ho incontrato lungo la strada mi ha chiesto perché camminassi a piedi nudi. Allora ho pensato: se fosse successo da noi, al Sud, o perlomeno nel Sud che io ricordo, le persone presenti o incontrate avrebbero reagito diversamente. Sarebbe nata una rappresentazione teatrale, una pantomima collettiva.

Il primo mi avrebbe chiesto perché vado scalzo, si sarebbe fatto raccontar tutto e poi mi avrebbe detto che la stessa cosa era successa a suo zio quando lui era piccolo, e sarebbe nata una discussione collettiva sulle scarpe perdute.

Il secondo si sarebbe tuffato subito in acqua per ripescarle e riportarmele.

Il terzo si sarebbe tuffato subito dopo in acqua per ripescarle e portarsele lui.

Il quarto si sarebbe messo a coglionarmi insieme ad altri, trovando argomento di conversazione e derisione.

Il quinto avrebbe approfittato della confusione, cercando di farmi sparire, con la scusa dei flutti, pure l’orologio e il portafogli.

Il sesto avrebbe piantato una lamentela sul mare che non è più quello di una volta, e come il governo ladro, si arruba tutto.

Il settimo avrebbe cercato di vendermi le sue vecchie ciabatte a caro prezzo, approfittando dello stato di necessità.

L’ottavo, invece, mi avrebbe offerto le sue scarpe, dicendo che ne porta sempre un paio di riserva nel borsone.

Il nono per solidarietà avrebbe buttato in mare pure le sue ciabatte, tanto per creare un movimento di carmelitani scalzi, lanciando una moda, una setta, un partito a piede libero.

Il decimo, mosso a pietà, avrebbe convocato il suo parentado per portarmi sulle spalle, a cavacece o in processione, fino a casa sua, dove mi avrebbe offerto un ristoro per consolarmi della perdita e farmi raccontare la disavventura anche ai nonni e alle zie.

L’undicesimo, invece, sarebbe stato zitto, ma io che sono meridionale gli avrei chiesto il perché del suo silenzio: perché era settentrionale, in vacanza da noi.

Questa parabola estiva, poco evangelica e molto pedestre, racconta la differenza tra Nord e Sud, ma non stabilisce supremazie. Sono meglio i settentrionali che si fanno i fatti loro o noi che ci facciamo i fatti degli altri?

Farsi i fatti loro può essere segno di civiltà e discrezione, non voler disturbare o intromettersi; ma può essere anche un fregarsene degli altri, diffidare del prossimo, badare solo ai propri interessi. Così, farsi i fatti degli altri, come succede da noi, può voler dire essere pettegoli, invadenti, furbi e molesti ma anche generosi, socievoli, consorti e più dotati di umanità.

Da noi non esistono i diritti ma i favori, si tira sul prezzo e si vorrebbe vivere gratis. Niente ti spetta per legge o per averlo meritato, tutto è al buon cuore o alla buona creanza; tutto accade per fortuna, malocchio o provvidenza.

È un pregio, è un male? Tutt'e due. Dipende dai punti di vista, in assoluto non si può dire e tantomeno stabilire differenze di razza e di civiltà. Diciamo solo che i nostri comportamenti sono più vari e più fantasiosi rispetto a quelli settentrionali. Da noi è più complicato vivere, ma forse è più divertente.

Però forse vi sto parlando di un Sud che non c'è più, sparito nel mare come le mie ciabatte.

P.S. A chi fosse interessato sapere come è finita, perché è un curioso meridionale, tre giorni dopo il mare ha restituito le ciabatte. Integre. Si erano fatte un giro in mare per conto loro e sono tornate ai miei piedi, prostrate.

Perché il Mezzogiorno non è capace di fare fronte comune e alzare la voce. PIETRO MASSIMO BUSETTA il 18 Agosto 2022 su Il Quotidiano del Sud.

Siamo una società dispersa, ognuno pensa ad avere quel piccolo vantaggio personale che consenta di sopravvivere, perdendo di vista il progetto complessivo. La stessa voce del sindaco di Napoli che lancia l’allarme per l’autonomia differenziata in dirittura di arrivo, che porterà a diminuire le già risorse limitate dovute alla spesa storica, rimane isolata e non riesce a diventare voce comune di un Mezzogiorno di monadi

Nessuno si salva da solo. Questo il mantra che dovrebbe attraversare tutto il popolo meridionale. Una realtà che ormai da anni vive una condizione di emarginazione e di desertificazione tanto da costringere l’Unione Europea a destinare fondi importanti col PNRR per cercare di eliminare il divario sostenuto che la caratterizza e che la pone tra le aree più arretrate e certamente più vaste d’Europa.

Così dichiara esplicitamente in un documento ufficiale: “La Commissione ha preso nota dell’allocazione di ogni piano di ripresa e resilienza all’obiettivo della coesione territoriale che costituisce un elemento del terzo criterio di assestamento previsto nel Recovery and Resilience Facility. La Commissione considera che il piano di ripresa e resilienza dell’Italia debba indirizzarsi all’obiettivo della coesione territoriale in modo sufficientemente adeguato. Particolarmente nell’area delle infrastrutture, il piano deve prevedere maggiori investimenti nelle più svantaggiate regioni del Sud dell’Italia per le quali questa parte del Paese è stata lasciata indietro, così come maggiori investimenti nelle ferrovie o nella connessione dei porti”.

Vedremo nei fatti se queste buone intenzioni troveranno realizzazione come sembra che debba essere, anche se alcuni investimenti che adesso sono previsti con il PNRR erano già finanziati con altri fondi, che in questo modo sono stati liberati. L’esperienza passata che ha avuto il Mezzogiorno non è di quelle che lasciano ben sperare e la caduta del Governo Draghi certamente potrebbe costituire un momento di difficoltà nella attuazione di quel grande progetto di infrastrutturazione ferroviaria che dovrebbe riguardare l’area.

Intanto la presenza di Giorgetti nel Governo sta consentendo uno scippo di un investimento importante della Intel da parte del Piemonte nei confronti del Sud, a parole centrale fin quando non vi é da agire effettivamente. La cosa che stranisce molto è il fatto che in queste condizioni non si riescano ad avere aggregazioni politiche che abbiano sufficiente consenso con l’obiettivo di porsi a difesa degli interessi di un territorio colonizzato.

Mentre tale forza si costituisce, parlo della Lega Nord, a difesa di una realtà che con la spesa storica nonché con investimenti diffusi, grandi eventi localizzati, agenzie internazionali posizionate, è riuscita ad avere vantaggi incredibili ma malgrado questo riesce ad esprimere una forza per la difesa dei suoi interessi. L’intellighenzia locale con l’aiuto delle università al momento opportuno si pone a difesa del territorio, che ormai ha un’occupazione diffusa e la quasi impossibilità di trovare aspiranti al lavoro nella realtà, che non provengano dal sud del Paese o da Paesi comunitari ed extracomunitari.

Si tratti dei professori per le loro scuole, dei medici per i loro ospedali, degli addetti della pubblica amministrazione non riuscirebbero ad andare avanti se non ci fosse il popolo meridionale. Malgrado ciò, in una difesa bulimica delle posizioni acquisite, non fanno passare alcuna decisione che possa prevedere localizzazioni od insediamenti di investimenti dall’esterno dell’area che non vengano fatte nelle loro zone.

Il contraltare è costituito da una società dispersa, nella quale ognuno cerca di sopravvivere come può, non pensando però mai a costituirsi in gruppi organizzati di interessi per avere qualche vantaggio in più. Un esempio per tutti è costituito dai costi maggiori che l’imprenditoria locale siciliana deve affrontare per la mancanza di collegamenti ferroviari adeguati nonché per la perdita di ore all’ imbarcadero di Messina, che pesa con un costo di 6 miliardi e mezzo annuali sull’insularità non risolta.

Le loro lamentele rimangono isolate e non riescono ad arrivare ad iniziative collettive che possano incidere sulla gestione politica della situazione. Ognuno pensa ad avere quel piccolo vantaggio personale che consenta di sopravvivere, perdendo di vista quel progetto complessivo che dovrebbe naturalmente nascere in una situazione così penalizzata.

Niente di tutto questo; si procede per gruppi isolati, spesso in contrasto tra di loro, alcuni che si pongono in forma di sostegno perfino a coloro che lavorano quotidianamente per tenerli ai margini della competizione, in una incomprensione di chi ha la stessa giubba e di chi invece è il nemico. Questi isolati elementi si incontrano anche nelle forze politiche che non riescono mai a convergere su interessi comuni, per cui ogni Regione va in modo singolo a pietire qualche vantaggio col Governo centrale.

È la stessa voce del sindaco della città più importante del Mezzogiorno, che lancia l’allarme per l’autonomia differenziata in dirittura di arrivo, che porterà a diminuire le già risorse limitate dovute alla spesa storica, rimane isolata e non riesce a diventare voce comune di un Mezzogiorno di monadi.

Mentre le famiglie vengono ogni giorno di più derubati dei loro figli migliori, che non hanno alternativa se non quella di un volo low cost che li porti a vivere una vita di lavoro in una realtà distante, pronta ad avvisarli che non sarà più possibile spostarsi per l’epidemia di covid, in modo da liberarsi di una popolazione utile per produrre ma che nel momento del lockdown diventa soltanto un peso. Tutti ricordiamo l’assalto ai treni per il Sud e la conseguente diffusione dell’epidemia in tutto il Paese dovuta ai trasferimenti pilotati.

Cosa dovrà verificarsi più di quello che sta accadendo perché una popolazione, che ha difficoltà a costruire un progetto di vita nella sua terra, possa ribellarsi e trovare un sistema per farsi sentire? Quale mortificazione ulteriore oltre a quella di non avere gli stessi diritti cittadinanza di chi parla veneto dovrà subire perché trovi la forza interna di associarsi e di diventare forza per difendere i propri diritti costituzionali?

Il futuro che si prospetta non è roseo, considerato che il tasso di l’inflazione è crescente, la limitazione obbligata ed annunciata di alcuni sistemi di assistenza come il reddito di cittadinanza sarà indispensabile, la diminuzione della crescita che si prevede, la stretta obbligatoria per evitare l’esplosione di un debito pubblico considerato l’aumento dei tassi di interesse. In tali condizioni la parte più povera sarà quella più penalizzata e forse allora potrebbe finalmente reagire, con un moto di orgoglio e capacità di aggregazione.

Assistenza Socio-sanitaria, un diritto che al Sud è solo un miraggio. GIOVANNA GUECI su Il Quotidiano del Sud il 19 luglio 2022.

Primo il Veneto, ultima la Calabria. Parliamo di tutela socio-sanitaria nelle rispettive regioni di residenza, di tutti quegli indicatori, cioè, che – secondo il Rapporto 2022 di Crea Sanità – contribuiscono a definire (e possibilmente a migliorare) le performance dell’assistenza in senso lato. Quella legata, sì, alle prestazioni sanitarie, ma nell’ambito di una tutela della persona più ampia.

Attenta, quindi, al tasso di ospedalizzazione e a quello di accesso alle cure, ma anche ai numeri dell’assistenza domiciliare erogata dai Comuni, all’inserimento lavorativo delle persone affette da disagio mentale o al riconoscimento di voucher e bonus economici a favore dei cittadini con disagio.

GLI INDICATORI-CHIAVE

La salute, quindi, come inclusione, legata e condizionata dal contesto sociale, economico, culturale e politico, a sua volta dinamico e bisognoso ormai (anche alla luce dell’esperienza pandemica) di investimenti, soprattutto al Sud, di tipo multidisciplinare e integrato.

Gli otto indicatori utilizzati nel rapporto Crea 2022 per tracciare lo stato dell’arte in ogni singola regione (1 di Appropriatezza, 1 Economico-Finanziario, 2 di Equità, 2 di Esiti, 2 di Innovazione) parlano chiaro di un Sud ancora fortemente penalizzato. Un territorio ancora “separato”, rispetto al quale i fondi del Pnrr dovranno garantire, più che in altre zone geografiche ma nell’interesse della sopravvivenza del welfare dell’intero Paese, miglioramenti di efficienza ed efficacia dei servizi.

Nonostante, infatti, le performance regionali 2022 – elaborate grazie a un panel di 100 componenti rappresentativi delle cinque categorie di stakeholder: Utenti, Istituzioni, Professioni sanitarie, Management aziendale, Industria medicale – mettano in evidenza un miglioramento generale di numerosi indicatori al Centro e nel Mezzogiorno, con una riduzione del gap rispetto alle altre ripartizioni geografiche, a lasciare ancora indietro il Sud sono due grandi temi: lo sviluppo della Digitalizzazione e il peggioramento dell’Equità, quest’ultima in grado di esasperare disparità esistenti già molto forti e impedire un riallineamento effettivo al resto del Paese.

Non a caso, per il ranking di “performance regionale”, si oscilla da un massimo del 54% (fatto 100% il risultato massimo raggiungibile) a un minimo del 24%: il risultato migliore, come accennato, lo ottiene il Veneto e il peggiore la Regione Calabria.

La voce “Equità” – vale la pena ricordarlo – comprende cinque indicatori (i peggiori proprio nel Mezzogiorno): “Quota di persone che rinunciano a sostenere spese sanitarie”, “Quota di famiglie che sperimentano un disagio economico a causa dei consumi sanitari privati”, “Quota di cittadini che si ricoverano fuori Regione per patologie oncologiche”, “Quota di cittadini che si ricoverano fuori Regione”, “Quota di prestazioni ambulatoriali della classe di priorità D”.

IL MEZZOGIORNO ARRANCA

L’altro capitolo “nero” del Sud, quello della digitalizzazione, è ricompreso nella “Dimensione Innovazione” con sei indicatori: “Quota interventi eseguiti con tecniche mininvasive (laparoscopiche e/o robotiche)”, “Quota DDD per farmaci innovativi”, “Quota di assistiti che hanno attivato il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE)”, “Quota pazienti vivi dimessi non al domicilio”, “Quota di alimentazione FSE rispetto alle prestazioni erogate relativamente ai documenti del nucleo minimo” e “Tasso di pazienti adulti seguiti a domicilio con intensità assistenziale (CIA) base”.

Con un tema, quello del Fascicolo Sanitario Elettronico, rispetto al quale, secondo Crea «l’Expert Panel ritiene che sarà necessario monitorare l’effettiva alimentazione, specialmente in termini di estensione dei suoi contenuti anche alle prestazioni sociali, come anche a quelle sanitarie erogate dalle strutture private».

Tenuto conto che, nonostante le semplificazioni delle procedure di attivazione messe in atto dal decreto Rilancio 2020, resistono forti differenze regionali in particolare a svantaggio del Sud in termini di abilitazione e utilizzo.

Secondo quanto rilevato ancora dal panel, anche le migliori performance regionali risultano ancora significativamente distanti da una performance ottimale. E il divario fra la prima e l’ultima Regione del ranking è rilevante: quasi un terzo delle Regioni non arriva neppure a un livello pari al 30% del massimo ottenibile.

Ma le Regioni che sembrano avere livelli complessivi di tutela significativamente migliori dalle altre sono tutte al Nord: Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Lombardia, e di queste solo due hanno livelli di performance che superano la soglia del 50% (rispettivamente Veneto ed Emilia Romagna, con il 54% e il 52%). Toscana e Lombardia si posizionano a ridosso delle prime, con una valutazione al 48% e al 44%. Nel secondo gruppo, troviamo quattro Regioni con performance superiori al 40%: P.A. di Trento, Umbria, Friuli e P.A di Bolzano. Nel terzo gruppo troviamo Sardegna, Piemonte, Val d’Aosta, Marche, Liguria, Lazio e Basilicata, con livelli abbastanza omogenei, ma inferiori, compresi nel range 30-40%. Infine, il Mezzogiorno. Sei Regioni – Sicilia, Puglia, Molise, Abruzzo, Campania e Calabria – tutte con livelli che risultano inferiori al 30%.

LA DIMENSIONE SOCIALE

A conferma del peso che ha la dimensione “sociale” – introdotta in questa decima edizione del rapporto Crea – nel raggiungimento di un livello adeguato di tutela sanitaria, c’è il miglior risultato del Veneto e dell’Emilia Romagna e, simmetricamente, il peggiore per la Calabria: negli anni questa Regione rimane stabilmente ultima e non si evidenziano segnali significativi di recupero.

Nonostante, quindi, variazioni su base annuale verso un qualche miglioramento, ciò che anno dopo anno resiste pressoché invariata è la composizione del gruppo delle Regioni che si situano nell’area dell’eccellenza. Così come resta invariata quella del gruppo, più numeroso, delle Regioni (tutte meridionali) che purtroppo rimangono nell’area intermedia e critica.

In questo senso va sottolineato una volta di più che, seppure con alcune apprezzabili differenze quantitative, il “Sociale” non a caso è nelle prime tre posizioni nella Prospettiva di Utenti, Professioni sanitarie e Industria, così come gli “Esiti” è tra le prime tre Dimensioni per tutte le categorie di stakeholder, a eccezione di Istituzioni e Management, che esprimono a loro volta priorità “gestionali”, in termini di risorse, appropriatezza e innovazione.

Per quanto riguarda, in particolare, l’incremento di Appropriatezza e Innovazione, «questa variabile sembra poter essere messa in relazione con il disegno di ammodernamento del Ssn formulato a seguito degli stanziamenti di risorse per investimenti di cui al Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza); e anche all’importanza dell’innovazione organizzativa e tecnologica (vaccini, età:), per contrastare efficacemente la pandemia».

A parità di stipendio resto al Sud perchè al Nord la vita è più cara. FABRIZIO GALIMBERTI su Il Quotidiano del Sud il 13 luglio 2022.

COME l’acqua di un fiume carsico la questione delle differenze nel costo della vita fra i diversi Paesi e le diverse città di uno stesso Paese riemerge regolarmente. E oggi ha molte ragioni per riemergere.

In Italia la questione è molto legata alle famose o famigerate “gabbie salariali”, un’espressione che già dall’inizio si porta dietro una connotazione negativa, di costrizione e cattività. Le gabbie salariali furono create e applicate dal 1954 al 1972. Il sistema divideva l’Italia all’inizio in 14 zone, in cui i salari erano parametrati al costo della vita, e i livelli di questo costo, fra la città più cara e quella meno cara, potevano variare fino al 29%. Nel 1961 il numero di zone fu dimezzato, si passò da 14 a 7, e la forbice tra i salari passò dal 29% al 20%. Tuttavia i sindacati, che all’origine avevano accettato le gabbie, andarono cambiando idea, nel nome dell’uguaglianza a tutti i costi (della vita…), e finalmente le gabbie furono abolite, fra il 1969 e il 1972.

Come stanno oggi questi differenziali? Li pubblica l’Istat, se pure con un certo ritardo. Più tempestivamente, vengono pubblicati da una società – la Numbeo – fondata da un ingegnere informatico ex-Google. L’approccio è originale: milioni di prezzi vengono rilevati in più di 10mila città nel mondo, da centinaia di migliaia di rilevatori, e questo approccio “dal basso” è stato criticato perché non ci sono controlli e si presta ad abusi. Ma è difficile pensare che qualcuno voglia manipolare i dati sul costo della vita o degli affitti: non si vede quale guadagno monetario si possa ottenere da queste manipolazioni, e quindi è legittimo considerare i dati come attendibili.

Per l’Italia, la differenza fra il costo della vita (affitti esclusi) nella città più cara – Milano – e quella meno cara – Catania – è del 26%, non molto discosta da quella riscontrata più di mezzo secolo fa (anche qui, a conferma di una permanente diseguaglianza territoriale). La differenza per il livello degli affitti è molto più alta: gli affitti a Milano sono quasi tre volte più elevati rispetto a Palermo (tutti gli indici sono parametrati a New York = 100). Tutto questo ostacola quella mobilità che è necessaria per un mercato del lavoro flessibile, dove le risorse umane si spostano a seconda delle convenienze e della produttività. Per esempio, gli insegnanti del Sud non vogliono andare al Nord, perché lo stipendio sarebbe lo stesso e il costo della vita e degli affitti è maggiore.

Perché è oggi importante la questione dei differenziali nel costo della vita? Francamente, non è possibile reintrodurre le gabbie salariali. Ma è possibile far leva sul costo della vita come un incentivo alla localizzazione verso l’Italia in generale (vedi le differenze con le altre capitali europee riportate nella tabella) e verso il Mezzogiorno in particolare: la media del Centro-Nord fa risaltare un + 12% rispetto al Sud nel costo della vita e un +19% per gli affitti. Vanno emergendo tre correttivi alla globalizzazione tous azimuts degli anni scorsi. Il primo riguarda i beni strategici: è necessario diversificare per non dipendere troppo da un solo fornitore (ogni riferimento a Italia, Germania e gas russo non è casuale…). Lo abbiamo visto con il materiale sanitario necessario al contenimento della pandemia, e lo vediamo oggi con quel bene strategico per eccellenza che è l’energia, oltre che per le materie di base per l’industria farmaceutica. Bisogna investire per diversificare, e, fra le fattezze della scena italiana che vedono il nostro Paese ben posizionato per produrre beni strategici c’è anche il più basso costo della vita, specialmente nel Mezzogiorno.

Un secondo  correttivo sta nel fatto che i fornitori non devono essere solo convenienti ma anche affidabili. Si è visto come i Paesi autoritari, dalla Russia alla Cina, possono usare delle loro forniture come arma di ricatto geopolitico. Ecco che la “rilocalizzazione” (il “reshoring”, cioè il ritorno in patria delle produzioni precedentemente delocalizzate) acquista così anche la dimensione dell’insediamento verso Paesi amici (il “friendshoring”). E, da questo punto di vista, l’Italia spunta la casella dei Paesi amici (e con un basso costo della vita…).

Un  terzo correttivo sta nel passaggio dal “just in time” (quell’aspetto del processo produttivo che mira a minimizzare le scorte, con le forniture che arrivano al posto giusto nel momento giusto) al “just in case”: nel caso di imprevisti gravi (i famosi “cigni neri”) è bene avere più opzioni per mantenere quella produzione che prima camminava sul filo del “just in time”. Anche qui l’Italia spunta molte caselle: geopoliticamente affidabile, produttivamente flessibile e storicamente abile nel riorientare i flussi di produzione fra i mercati, i prodotti e i processi, può presentare molti atout per le scelte di insediamenti dall’estero.

Autonomia rinforzata al Nord? No, prima vanno ricalcolati i reali bisogni dell’Italia meridionale. Così il Piano di ripresa e resilienza che dovrebbe rifare l’Italia e il Sud (secondo le richieste dell’Europa) finirebbe per riparare a qualche ingiustizia senza eliminare di un millimetro il divario fra i due Paesi. Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Luglio 2022.

Vogliono fare in tempo. Ma come, siamo nel mezzo di una tempesta perfetta: Covid, guerra, inflazione, siccità. Nei cieli dell’estate c’è il caos dei voli. Non si trovano baristi e cuochi. Con i bonus edilizi sono più gli scandali che le ristrutturazioni. Non si producono più auto perché non ci sono i microprocessori. Non si fanno più figli e quelli che ci sono se ne vanno all’estero. Il governo è sempre minacciato da mal di pancia precoci in vista delle elezioni dell’anno prossimo. Il campionato di calcio comincerà a Ferragosto quando ci dovrebbe essere per tutti pax et relax. Quando credi di aver battuto il virus, quello cambia nome e c’è sempre un settembre nero che ci aspetta con gli ospedali che già scoppiano. E in questo ambientino, che fanno le Regioni del Nord? Pretendono l’autonomia rinforzata.

Sono Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, cui si sono ora aggiunte Liguria, Toscana, Piemonte. Vogliono gestire da sole ciò che finora è stato gestito per tutti dallo Stato. Si parla dei servizi pubblici essenziali: dalla scuola alla sanità, dai trasporti all’assistenza agli anziani, dall’università alle infrastrutture. È previsto dalla Costituzione, quindi no problem. Ma pieno di problemi è il seguito. Lo Stato potrebbe dire: visto che finora ho fatto io, e ora volete fare voi, io vi dò quanto ho speso finora, e con le stesse somme lo fate da voi. Sarebbe più liscio del mare in bonaccia, se il diavolo non si annidasse nei dettagli.

Quando ci hanno provato la prima volta, in una atmosfera più misteriosa di un romanzo di Dan Brown, il pensiero recondito (ma non troppo) era: vogliamo tenerci i nostri soldi. Cioè trattenere per nove decimi le proprie tasse. Motivo? Abbiamo diritto ad avere servizi migliori perché siamo più ricchi. Ignorando la stessa Costituzione cui si appellavano. Secondo la quale questi diritti devono essere uniformi su tutto il territorio nazionale, altrimenti non sarebbe un Paese ma una collezione di staterelli. Questa volta non l’hanno ancora detto, né l’ha detto la ministra Gelmini loro tutor. Ma il diavolo compare ugualmente.

Perché finora la spesa dello Stato per questi servizi ha rispettato il criterio iniquo della spesa storica: si dà come e quanto a chi ha sempre avuto, non si dà a chi non ha mai avuto. Reggio Emilia ha gli asili nido pubblici per il 40 per cento dei suoi bambini? Significa che ne aveva bisogno. Reggio Calabria non ne ha neanche uno? Significa che non ne aveva bisogno. Ma questo è avvenuto perché questi bisogni non sono mai stati calcolati. Sicché si è continuato a dare agli uni e a non dare agli altri. Con una spesa pubblica dello Stato che ogni anno toglie al Sud 61 miliardi passandoli al Centro Nord (Conti pubblici territoriali del ministero dell’economia).

Ora che il Sud se ne è finalmente accorto, e che la ministra Carfagna è sul reagisco o no, bisogna appunto fare in tempo. Prendersi ciò che si può prendere prima che, col calcolo dei bisogni (i Lep, livelli essenziali di prestazione), finisca la cuccagna della spesa storica. E che si ricalcoli ciò che spetta al Centro Nord e ciò che spetta al Sud. Entro il 2026 (pensa tu) dovrebbe avvenire per gli asili nido e per gli assistenti sociali. Ma visto che verranno fuori i 61 miliardi non dovuti, cosa si farà (se si farà)? Toglierli al Centro Nord (con un riequilibrio dei servizi ora a suo favore)? O lasciarli perché sfido io a toglierglieli e trovare un altro modo di darli al Sud? E con quali fondi? Ah, beh, c’è sempre il Pnrr, soluzione di tutti i mali come a suo tempo si disse del federalismo fiscale (che di tutti i mali del Sud è stato il peggioramento).

Così il Piano di ripresa e resilienza che dovrebbe rifare l’Italia e il Sud (secondo le richieste dell’Europa) finirebbe per riparare a qualche ingiustizia senza eliminare di un millimetro il divario fra i due Paesi. Anzi accentuandoli, perché non si può dare lo stesso partendo da posizioni ineguali. Il tutto per iniziativa dello stesso governo che a ogni festa comandata proclama di avere a cuore il problema del Mezzogiorno. Ci sono iniziative della società civile più che di quella politica perché l’egoistico progetto dell’autonomia rinforzata non passi. Un Paese che toglie al Sud servizi e infrastrutture per crescere, declina inesorabilmente al Sud come al Nord. Altro che illusioni. Confermato da una classifica europea che lo vede sempre più indietro anche Lombardia e compagni.

Invece di ipotizzare una fine della questione meridionale, e quindi un rilancio dell’Italia, si finirebbe per celebrare la fine dell’Italia. L’autonomia rinforzata è il rigurgito a danno di tutti da parte di chi per il proprio privilegio condanna al declassamento una ex grande nazione.

C'è la siccità e il Nord subito batte cassa per un'emergenza che al Sud è endemica. In molti al di sopra della Linea Gotica non sanno che la situazione che loro ritengono assolutamente eccezionale e drammatica è una di quelle evenienze che al Sud fa parte di una quasi normalità. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 30 giugno 2022.

Chi è sazio non crede alle sofferenze di chi è a digiuno. Così recita un noto proverbio. Lo riporto perché bisogna averli i problemi per crederci. Ha fatto riflettere infatti la grande allerta che il Paese tutto sta lanciando per un problema che sta diventando sempre più cogente e che riguarda la siccità che sta colpendo il nord del Paese. Raccolti che si perdono o che diminuiscono nella loro resa, fino ad arrivare ai problemi di approvvigionamento idrico per gli usi civili ed industriali.

Quindi un problema serio che se non ricomincia a piovere creerà danni non indifferenti. Tanto che il sindaco di Castenaso, vicino a Bologna, che conta 16.000 abitanti, ha chiesto ai parrucchieri di fare un risciacquo in meno perché lui sostiene non sia indispensabile.

“Oggi firmo un’ordinanza per l’emergenza nazionale, prima Regione a farla, per chiedere al Governo 32 milioni di euro per diversi interventi – ha spiegato Bonaccini – autobotti nel parmense, interventi su canali di manutenzione nel piacentino e nel ferrarese”.

Ovviamente Bonaccini, per la regione Emilia-Romagna, è sempre pronto a trovare ragioni per chiedere l’intervento dello Stato ed ulteriori risorse, ma a parte questo il tema che si propone è estremamente serio. Ecco forse adesso anche il Nord capirà il Sud.

Infatti la riflessione che mi viene da fare riguarda la comparazione tra i territori, perché forse in molti al di sopra della linea gotica non sanno che la situazione che loro ritengono assolutamente eccezionale e drammatica è una di quelle evenienze che al Sud fa parte di una quasi normalità.

Nel Mezzogiorno vi sono molti comuni che soffrono per le carenze idriche e certamente non perché non vi sia sufficiente pioggia che cada dal cielo quanto perché non vi sono invasi, non sono stati rinnovate le reti idriche, per cui la maggior parte dell’acqua si disperde a mare.

Il primo risultato è che moltissimi terreni vengono coltivati a piantagioni non irrigue, con conseguente rendimento di gran lunga inferiore rispetto alle potenzialità che i terreni avrebbero.

Si pensi ad un terreno che viene coltivato a grano in modo estensivo quando potrebbe essere probabilmente dedicato a vigneti, a frutteti o a coltivazioni in serra. È chiaro che questa è una perdita per tutto il Paese e che il valore dei terreni è di gran lunga inferiore a quello che potrebbe essere. Senza parlare poi delle esigenze idriche per le attività civili, a cominciare dalle attività imprenditoriali; si pensi ai bisogni degli alberghi, molti dei quali si riforniscono di acqua pagandola a caro prezzo a fornitori che la portano con le autobotti, che magari hanno pozzi privati e che spesso hanno collegamenti con la criminalità.

Si pensi ai privati che spesso, considerato che la distribuzione idrica avviene anche una volta la settimana soltanto, hanno recipienti a casa quando non sono costretti a utilizzare la vasca da bagno per fini impropri, perché essa diventa un contenitore disponibile. Ma non è qualcosa che riguarda soltanto l’acqua, tale problema è presente anche nella fornitura di energia.

In questi giorni moltissimi comuni meridionali sono rimasti senza energia elettrica, perché la fornitura in periodi di grande richiesta di energia dovuta all’aumento delle temperature non corrisponde ai bisogni. Con conseguenze prevedibili rispetto per esempio al mantenimento delle derrate alimentari che erano nella catena del freddo.

La mancanza di infrastrutturazione del Mezzogiorno non riguarda soltanto l’alta velocità ferroviaria piuttosto che le grandi reti di comunicazione autostradali, ma riguarda anche molte delle utilities necessarie come l’energia o l’acqua, o di servizi indispensabili come la raccolta dei rifiuti, che attanaglia molte delle città anche grandi a cominciare da Napoli, Palermo e Catania.

Su quest’evidenza non si troveranno molti a dissentire perché il fenomeno è conosciuto in tutta Italia. Non si fa il passaggio successivo però, quello che tali mancanze sono costi che vengono gravati sulle famiglie meridionali, che devono provvedere autonomamente spesso per esempio ad avere dei generatori che evitino i danni causati dall’interruzione di energia, oppure costruire, sia a livello di condominio che a livello di singole case private, dei contenitori che consentano di raccogliere l’acqua che non essendo continua evidentemente ha bisogno di recipienti.

Così come è evidente che laddove i servizi pubblici non funzionano l’esigenza del mezzo privato diventa cogente, per cui se è pensabile di non avere auto a Milano non lo è assolutamente né a Napoli né a Palermo. Nel costo della vita che molti calcolano per dire che quello del Mezzogiorno è più basso di quello del Nord tali voci sono comprese?

E quando qualcuno dice che i 60 miliardi, che dovrebbero essere dati al Mezzogiorno come ristoro per avere un pro capite uguale tra le varie parti del Paese, non sono tali perché vi è un diverso costo della vita nelle due parti, ha tenuto conto di questi costi sommersi?

Mi pare proprio di no ed allora ben venga che ci si preoccupi di quello che sta accadendo nel nord del Paese, con una crisi idrica che non ha pari e con un abbassamento del livello del Po che anche i più anziani non ricordano, ma senza dimenticare che la problematica dell’approvvigionamento idrico non è stata risolta in tutto il Paese e che vi sono molte parti a rischio desertificazione e che non hanno hanno ancora completato gli impianti per l’approvvigionamento idrico civile, mentre alcune delle dighe già completate non hanno avuto quel collaudo che serve per metterle in funzione.

E speriamo che questa crisi reale non si risolva attingendo a quelle risorse del PNRR che invece erano destinate a diminuire i divari e che sarà facile che funzionino da bancomat per le tante esigenze che man mano si vanno manifestando.

I ministri della Lega non indirizzano abbastanza risorse del Pnrr al sud. Ma chiedono i voti… Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Giugno 2022.

La normativa prevede che il 40% delle risorse del Pnrr con destinazione territoriale sia diretto alle regioni del mezzogiorno. Un obiettivo che deve essere rispettato da tutte le organizzazioni titolari ma che i ministeri guidati da esponenti della Lega sono molto distanti da raggiungere.

Uno degli obiettivi del Pnrr è ridurre i divari territoriali. Proprio per questo il decreto legge 77/2021 ha previsto che  il 40% delle risorse, allocabili territorialmente, del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e del fondo complementare (Pnc) , sia destinato alle regioni del mezzogiorno, ma non solo.

L’obbligo infatti vale per tutte le organizzazioni titolari e non basta che complessivamente il governo raggiunga questo obiettivo. Ogni ministro ha quindi la responsabilità di destinare al sud almeno il 40% degli investimenti di cui è titolare. Leggendo la prima relazione istruttoria sul rispetto del vincolo di destinazione alle regioni del mezzogiorno redatta dal dipartimento per la coesione territoriale emerge che varie delle organizzazioni titolari di risorse del Pnrr raggiungono questa quota (13 su 22), o vi si avvicinano molto (7 su 22).

Questo però non vale per i ministeri guidati dai leghisti Giorgetti e Garavaglia, che in assoluto rappresentano le organizzazioni che arrivano più distanti dall’obiettivo.

I partiti, la Lega e la quota del 40% delle risorse per il sud

Come ormai ben noto ogni misura del Pnrr è attribuita alla responsabilità di un ente titolare, di solito un ministero o un dipartimento della presidenza del consiglio. Alla guida di queste organizzazioni dunque si trova sempre un responsabile politico, ovvero un ministro o in alcuni casi un sottosegretario alla presidenza del consiglio.

Analizzando come le varie organizzazioni stanno distribuendo, o si stima che distribuiranno, le risorse del Pnrr a livello territoriale, e in particolare verso il Mezzogiorno, è dunque possibile aggregarle considerando il partito di appartenenza del ministro responsabile della misura.

I partiti dei ministri e le risorse del Pnrr destinate al mezzogiorno

La quota di risorse del Pnrr e del Pnc destinata da ciascun organizzazione titolare al mezzogiorno distinta per appartenenza politica dei responsabili politici

Da un'analisi di questo tipo emerge come siano i ministri di Forza Italia quelli alla guida di organizzazioni che stanno destinando più risorse al sud (66%). Al secondo posto i ministri tecnici, o indipendenti, (43%) e poi Movimento 5 stelle e Liberi e uguali che raggiungono esattamente la soglia del 40%. Sotto il 40% invece i ministri del Partito democratico, che tuttavia vi si avvicinano abbastanza (37,6%). All'ultimo posto infine la Lega molto distante dall'obiettivo che si è posto il governo. 

I due ministri in questione sono Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia. Rispettivamente al vertice del ministero dello sviluppo economico e del ministero del turismo. Due settori assolutamente cruciali per la crescita economica delle regioni meridionali.

Giancarlo Giorgetti e il ministero dello sviluppo economico

L'obiettivo di destinare il 40% delle risorse del Pnrr al mezzogiorno è ovviamente importante di per sé. Tuttavia assume ancora più rilevanza per quelle organizzazioni che gestiscono una parte considerevole delle risorse complessive. E in effetti è proprio il caso del ministero dello sviluppo economico che con oltre 25miliardi di euro tra Pnrr e Pnc (11,3% delle risorse complessive) è la terza organizzazione a gestire più fondi.

Circa il 97% di queste risorse è considerato avere destinazione territoriale (24,2 miliardi), e dunque è su questa cifra che deve essere calcolata la quota destinata al mezzogiorno. 

Da questo punto di vista quindi il ministero guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti è molto distante dall'obiettivo del 40%. 

Il Mise destinerà alle regioni del mezzogiorno solo il 24,8% delle risorse del Pnrr

Questi I fondi del Pnrr e del Pnc che il MISE, il ministero dello sviluppo economico indirizzerà verso le regioni del mezzogiorno

Le risorse del Mise

Analizzando nel dettaglio le risorse assegnate al Mise emerge però che la maggior parte hanno un vincolo di destinazione al mezzogiorno e che solo una misura non ha questa caratteristica, quella intitolata Transizione 4.0. Tale misura (a sua volta distinta in 5 sotto misure) tuttavia raccoglie quasi i 3/4 delle risorse del Pnrr attribuite al ministero dello sviluppo economico. 

Si tratta in sostanza di vari tipi di crediti d'imposta che, al 31 gennaio 2022, risultavano già attivi e per i quali non è stata fissata alcuna riserva in favore del mezzogiorno. Basandosi sui primi 14 mesi di operatività dell’incentivo il dipartimento della coesione territoriale ha escluso che possa essere raggiunto l'obiettivo, stimando che appena il 20% di queste risorse potrebbe andare al mezzogiorno.

La situazione delineata è già sufficiente a considerare che il Mise non raggiungerà l'obiettivo, e purtroppo le criticità non finiscono qui. Delle rimanenti misure infatti 2 sono state già attivate e prevedono il vincolo del 40%, ma non specificano come intendono applicarlo.

Per quelle ancora da attivare invece il ministero si è impegnato a rispettare l'obiettivo. Tuttavia si tratta anche in questo caso di procedure a bando su base nazionale, ed è quindi fondamentale che venga previsto un meccanismo per garantire la quota mezzogiorno nel caso in cui, in prima battuta, non venga raggiunta. 

L'amministrazione tuttavia sembra aver adottato un approccio diverso. Almeno rispetto a una misura (Partenariati Horizon Europe) infatti il dicastero ha comunicato l’intenzione di prevedere una clausola di salvaguardia per tutelare l’assegnazione totale delle risorse messe a bando. Anche se non dovessero arrivare sufficienti domande dal mezzogiorno. 

Massimo Garavaglia e il ministero del turismo

Presso il ministero del turismo quasi tutte le risorse (95%) hanno una destinazione territoriale. A esclusione di quelle per la misura Hub del Turismo Digitale. Su queste dunque è possibile calcolare la quota di risorse che il ministero indirizzerà al mezzogiorno. 

Si tratta in questo caso di un dato un po' più alto rispetto a quello del Mise, ma comunque molto al di sotto dell'obiettivo, e relativo a una quota di risorse molto più modesta. Il ministero del turismo infatti ha in gestione nell'ambito del Pnrr appena 2,4 miliardi di euro (di cui 2,3 con destinazione territoriale), che rappresentano solo l'1% dei fondi complessivi. Ciononostante si tratta di risorse importanti per un settore assolutamente strategico per il mezzogiorno.

Il Pnrr e le risorse del ministero del turismo destinate al mezzogiorno

I fondi del Pnrr e del Pnc che il ministero del turismo indirizzerà verso le regioni del mezzogiorno

Le risorse del ministero del turismo

Una delle ragioni per cui il ministero ha riservato una quota così bassa al mezzogiorno è legata alla misura Caput Mundi, già interamente territorializzata nell'area di Roma capitale, a cui sono destinati 500 milioni di euro. 

Inoltre per un'ulteriore misura, da 150 milioni di euro, non è prevista alcuna clausola relativa alla destinazione territoriale. Si tratta della partecipazione del ministero al Fondo nazionale turismo di Cassa depositi e prestiti. Rispetto a queste risorse tuttavia la situazione effettiva potrebbe risultare migliore rispetto a quanto sia possibile stabilire fin da oggi.

Dal ministero del Turismo infatti hanno giustificato l'assenza di una clausola di salvaguardia sostenendo che non fosse possibile inserirla per alcune ragioni tecniche, tra cui il fatto che il ministero non è l'unico partecipante al fondo. Tuttavia, sempre secondo il ministero, la politica di investimento del Fondo assegna priorità alle aree con alto potenziale turistico ma ancora poco sviluppate, come varie zone del mezzogiorno.

Si può dunque sperare che una quota considerevole di questi 150 milioni andrà al sud, tuttavia si tratta di un dato tutto da verificare. Inoltre 150 milioni su un totale di 2,3 miliardi non sono molti. Da un lato dunque è vero che le risorse rimanenti (1,6 miliardi di euro escludendo anche quelle destinate a Caput Mundi) prevedono il vincolo del 40% al mezzogiorno. Ma dall'altro, anche in questo caso, affinché la distribuzione territoriale avvenga come previsto è necessario che il ministero sviluppi specifici meccanismi. Altrimenti il rischio è che il vincolo rimanga solo sulla carta. 

Per rispettare l'obiettivo in termini complessivi quindi sarebbe stato opportuno che il ministero aumentasse la quota di risorse da destinare al sud attraverso questi investimenti. In questo modo si sarebbe potuta bilanciare quella parte di risorse già territorializzate nell'area di Roma. Redazione CdG 1947 

L'allarme lanciato dal governatore di Bankitalia. Povero Sud, non ci sono più neanche i meridionalisti. Angelo De Mattia su Il Riformista il 23 Giugno 2022. 

Se si legge l’intervento del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, svolto lunedì per l’apertura del convegno sul Mezzogiorno organizzato dalla stessa Banca e al quale ha preso parte anche la Ministra Mara Carfagna, si potrebbe immaginare che esso sia stato sviluppato in qualsiasi anno dell’iniziale ventennio del Duemila (e anche prima), a dimostrazione dell’annosità dei problemi denunciati e dei perduranti ritardi dell’economia meridionale (ma non solo) confinanti con l’immobilismo che poi conduce ad arretramenti. Allora, “nihil sub sole novi”? Soltanto la citazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e della guerra in Ucraina riporta alla realtà di questi mesi. Visco ha esordito sottolineando la gravità, appunto, del ritardo dello sviluppo del Mezzogiorno da cui conseguono profonde disuguaglianze economiche e sociali, nonché il freno della crescita dell’intera economia nazionale.

Non viene detto, forse per il timore di ripetere quello che a volte è apparso uno slogan: il Mezzogiorno, soprattutto nei meridionalisti di un tempo, come “quistione meridionale”, oggi come vera e propria irrisolta “questione nazionale”. Con la differenza che sembra essersi infragilita la schiera dei meridionalisti anche in una versione aggiornata, probabilmente pure perché, per alcuni di coloro che mirano innanzitutto alla visibilità sui mass-media, il contesto appare poco favorevole, ma anche per la necessità di elaborare una posizione che tenga conto pure dell’integrazione comunitaria. Certo è che non ci sono oggi gli eredi di Gramsci, Salvemini, Fortunato, Dorso, Menichella, Saraceno, per citare alcuni tra i maggiori esponenti nazionali della linea meridionalista, con le differenze nelle rispettive posizioni. Neppure sono prodotte nel dibattito proposte dirompenti quale quella di una nota economista inglese, Vera Lutz, la quale negli anni sessanta del Novecento sosteneva la necessità, per risolvere i problemi del Mezzogiorno, che fosse incentivata una forte emigrazione al Nord, in particolare dei lavoratori impiegati nell’agricoltura: un movimento che effettivamente in quegli anni si verificava con i vantaggi, ma anche con le sue dure conseguenze sociali diffusamente note.

Del resto, negli iniziali anni cinquanta un leader politico della statura di Alcide De Gasperi sosteneva – e ne diede un’esposizione in un famoso comizio ad Avellino – che era bene che i giovani del Sud imparassero le lingue ed emigrassero all’estero. Verso la fine degli anni novanta, anche per corrispondere a spinte elettoralistiche, nel dibattito pubblico entrò quella che, in contrapposizione alla meridionale, venne definita la “ questione settentrionale”, connessa con il pagamento delle imposte e i benefici che ne ricevono al Nord. Su questa base si costruì l’integrazione del famoso Titolo quinto della Costituzione ora oggetto di critiche da diversi versanti. Per tornare a Visco, già nel decennio che ha preceduto la pandemia – ha poi detto il Governatore – il peso economico del Mezzogiorno si era ulteriormente ridotto. Vi hanno concorso e vi concorrono la fragilità del settore privato, la contrazione della popolazione con quella attesa ancor più rilevante, i tassi di partecipazione al mercato del lavoro tra i più bassi nel confronto internazionale, la debolezza del settore produttivo, soprattutto la diffusione dei fenomeni dell’illegalità, in particolare della criminalità delle mafie, della corruzione, dell’evasione fiscale.

Dall’elencazione di queste ed altre cause dei ritardi Visco trae la necessità del miglioramento delle politiche pubbliche, dell’importanza degli investimenti nella conoscenza, del rafforzamento del sistema imprenditoriale, della rilevanza delle classi dirigenti del Sud e degli stessi cittadini. Vanno aggrediti i nodi strutturali che gravano sul Mezzogiorno. Centrale è la funzione che avrà l’attuazione del Pnrr, insieme con altri programmi e con l’apporto del bilancio pubblico, per le riforme che sono previste e per le risorse ingenti stanziate per il prossimo decennio. A questo punto ci si deve chiedere: ci risentiremo tra qualche anno per una quasi simile analisi dei ritardi, secondo il “cronoprogramma” sinora nei fatti applicato? Non sarebbe opportuno, d’ora innanzi, che disamine della specie fossero fondate sulla spiegazione disaggregata e in dettaglio delle ragioni del mancato raggiungimento degli obiettivi e sui modi ugualmente particolareggiati per superare i ritardi? E si può parlare del Mezzogiorno senza dedicare neppure una parola al ruolo del settore bancario e finanziario, al limite anche per escludere ( ma qui non riteniamo affatto fondata una tale esclusione) una sua rilevanza? Non appare, tale mancanza, quella classica del “convitato di pietra”?

Il Governatore, poi, nel parlare delle politiche pubbliche, introduce il concetto di “Stato minimo”, quindi quello di “ Stato complementare”. In effetti l’evocazione dello “ Stato minimo” – oggetto di ampie analisi nella filosofia, nel diritto, nella sociologia – dello Stato come “ guardiano notturno” è proprio quella di una configurazione non necessaria per il Sud o quanto meno tale da generare confusione. Altra cosa è affrontare i temi della sicurezza, dell’amministrazione pubblica, della giustizia., delle infrastrutture. In ogni caso, sarebbe auspicabile che sull’intervento di Visco e sulla ricerca dell’Istituto, nella circostanza presentata, si sviluppasse un fecondo dibattito che coinvolga anche settori dell’opinione pubblica oltre ai partiti, alle organizzazioni sociali, ai necessari saperi e specialismi. Angelo De Mattia 

Classe politica inadeguata e società civile seduta, così il Sud non decolla. Il sociologo premio Nobel indiano Amartya Sen. L’uomo è figlio del suo contesto, ha insegnato il sociologo premio Nobel indiano Amartya Sen. Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Giugno 2022.

Più scontato del solleone d’agosto. Scontata è la signora che interviene alla fine dell’incontro pubblico sul Sud, dibattito o libro che sia. Tu cerchi di far capire che il Sud deve smetterla di auto-processarsi continuamente per i suoi mali, quando la signora si alza: «Eh, ma è tutta colpa nostra». Signora, se ce lo diceva all’inizio evitavamo di farci questa sudata. Signora tipo clone, sembra sempre la stessa, antropologicamente modellata sulla specie sconfittismo, dolorismo, perditismo, sfortunismo meridionale. Signora purtroppo simbolo della società civile del Sud.

Ha ragione il direttore Iarussi quando scrive che senza un sogno non c’è riscatto del Sud. Magari non siamo del tutto convinti che per il Sud non ci sia più nulla da fare. Ma non facciamo nulla come se lo fossimo. Sud per il quale, non essendoci più nulla da fare, allora non si faccia niente. Sud causa persa. Un elemento del paesaggio immutabile come una sentenza definitiva. Così è e così deve andare. Da qualche parte va meglio, da qualche altra peggio. Ma fatalismo che è l’alibi dei mediocri. O degli opportunisti. Inesorabile come la signora-boomerang è il refrain: ma le classi politiche cosa stanno a fare? Tutta (rieccoci) colpa loro. E i forbiti fondi sui giornali: al Sud serve una classe politica. Come raccogliere l’acqua con un pettine. O come quelle squadre che, non sapendo andare avanti, passano la palla indietro: dai, veditela tu. E la mosca riprende a battere sul vetro. Ora è vero (grande De André) che dal fango può nascere un fiore. Ma è anche vero che in Burundi (con tutto il rispetto) difficilmente può spuntare uno scienziato. L’uomo è figlio del suo contesto, ha insegnato il sociologo premio Nobel indiano Amartya Sen. Cambiagli il contesto e troverai al Nord il meridionale efficiente al quale dicono (fra sorpresa e razzismo): tu non sembri meridionale. E poi classe dirigente non è solo classe politica. È anche imprenditoria, sindacati, università, associazionismo, banche, giornali (perché no). Dove puoi anche trovare eccellenza. Ma è più probabile che trovi un livello generale quasi sempre vittima dell’incompleto sviluppo. Un livello culturale che sconta l’insufficiente filiera dagli asili nido alle università. Che parte dagli scarsi mezzi e arriva alle scarse occasioni.

Insomma bisogna distinguere la cause dagli effetti. Ma la classe politica no, deve essere al disopra. Ammesso e non concesso che recluti i migliori. Dovrebbe essere migliore perché rappresenta tutti. Dovrebbe. In un Paese in cui nel settore non trovi aquile neanche in montagna. E classe politica che gestisce soprattutto un bisogno creato dalla iniquità dello Stato, non da chi lo subisce (vero, signora?). E di fronte al bisogno, è più probabile che le si chieda di far arrivare un sussidio più che una strada. Domanda individuale più che collettiva. Se bisogna salvarsi, ciascuno ci prova da solo. La trappola dei vinti e dei subordinati. La trappola della sopravvivenza più che della vita. Sono politici scelti più per maneggiare che per fare i manager. Destinati. Per fare arrivare da Roma, non essendoci a sufficienza di locale. Non mancando però chi estrae di proprio dalle risorse di tutti, per conto personale o dei clienti. E politici che servono il loro partito più che il loro popolo o il loro territorio, cioè il Sud (l’unico sindacato territoriale è stato finora la Lega Nord, che ha spaccato l’Italia). Ma mai, mai che la cosiddetta società civile abbia chiesto prima del voto: cosa farai per il Sud? Chiedendo più probabilmente un posto di lavoro per il figlio. Appunto la trappola del sottosviluppo. E mai che la società civile abbia fatto sentire il fiato sul collo a quella politica.

Anzi: quando il candidato è stato scelto nella società civile, spesso ha deluso. Allora dopo il sogno serve la mobilitazione. Partendo dalla convinzione che al Sud, nonostante tutto, si può. Come del resto tanto Sud conferma (e insegna a tutti). Mai una dimostrazione, mai uno che si sia incatenato a una inferriata, mai uno sciopero della fame, mai una piazzata. Per chi? Non per il posto a me. Ma per il Sud. Dopo di che potrà venire il posto a me a agli altri. Società civile rassegnata e seduta. E se continua così, si emigra. Il male oscuro.

Non contano molto i politici del Sud laddove si decide: minoritari, divisi, considerati col cappello in mano. Anzi dai a loro le colpe e nascondi quelle dello Stato che affama il Sud. Ma c’è chi si è chiesto perché i presidenti delle Regioni del Sud non abbiano mai abbandonato tutti insieme i luoghi istituzionali in cui si decidono le iniquità contro il Sud. Gesti da titoli sui giornali. A poco prezzo, ma probabilmente ad alto rendimento. Sapendo che nulla è perso per il Sud, anzi, altrimenti è persa l’Italia. Ma anche la signora di cui sopra deve finirla di battersi il petto. Il rimpiattino non è un gioco da grandi.

Istruzione, al Sud c'è più stabilizzazione. Il Nord salvato dai precari meridionali. MICHELE INSERRA su Il Quotidiano del Sud il 18 Giugno 2022.

L’ISTRUZIONE al Nord è garantita dai precari, principalmente del Sud. E in gran parte anche senza titoli, vedi il caso delle cattedre di sostegno, e senza aver vinto un concorso. Da sottolineare anche gli studenti dalla primaria alla superiore difficilmente riescono a portare avanti un percorso didattico dall’inizio alla fine con gli stessi docenti. Una formazione, insomma, che spesso è figlia dell’improvvisazione. In poche parole, al Nord l’insegnamento non attira più di tanto e si preferiscono altre tipologie di lavoro.

È innegabile, però, che, in termini di sbocchi lavorativi, il Settentrione offra ai propri residenti una maggiore e, soprattutto, più diversificata offerta occupazionale. Non è un caso, infatti, che in regioni come Lombardia, Emilia- Romagna, Toscana, Piemonte, Friuli Venezia Giulia e Veneto – laddove, cioè, la cattedra di insegnante ha un’attrattiva nettamente inferiore rispetto ad altre e più remunerative professioni – ci sia una massiccia presenza di docenti meridionali.  

Discorso diverso nel Mezzogiorno, dove la stabilizzazione è predominante e il corso didattico è senz’altro più regolare. Ecco uno dei principali motivi della maggiore presenza di docenti precari negli istituti scolastici delle regioni settentrionali. Inoltre l’emergenza cattedre vuote al Nord, tamponata con tanti supplenti meridionali, è un nodo storico della scuola italiana e delle falle del sistema di reclutamento degli insegnanti, che nessun governo sinora è riuscito concretamente a riformare.

Adesso una indagine condotta da “Tuttoscuola”, in riferimento alla situazione degli organici 2020-2021, certifica ciò che già si sapeva: a scuola un professore su 4 è precario (212mila precari rappresentano il 25% di tutti i docenti in cattedra), in cinque anni si è raddoppiato il numero e che le percentuali più alte si registrano nel Nord Ovest e nella scuola secondaria di primo grado.  Numeri che diventano addirittura uno su 3 nelle regioni del Nord Ovest (dove arrivano a quasi uno su 2 alla scuola secondaria di primo grado). Scorrendo i dati ufficiali riportati sul portale unico del ministero dell’Istruzione, Tuttoscuola constata che nel 2015-16 il numero dei docenti precari era meno della metà di quello del 2020-21 e rappresentava il 13,8% di tutti i docenti in cattedra. Il numero dei precari, dunque, “è andato aumentando anno dopo anno e, nonostante un incremento dei posti con l’organico potenziato, la loro incidenza rispetto a tutti i docenti in cattedra, è cresciuta con valori percentuali quasi raddoppiati nell’arco di sei anni”, si rileva nell’analisi.

A fronte della percentuale nazionale media del 25%, nei territori e nei diversi settori l’incidenza di precari in cattedra, secondo Tuttoscuola, risulta notevolmente diversificata. Nelle regioni del Nord Ovest la percentuale sale al 33,7%: un docente precario ogni 3. Nelle regioni del Nord Est è del 30,3%, in quelle del Centro è del 27,5%. Le percentuali delle isole e del Sud, rispettivamente del 17,9% e del 15,8%, sono indice di maggiore stabilizzazione degli organici.

Per quanto riguarda i singoli settori, è la scuola secondaria di primo grado a registrare tassi elevati di precarietà con un valore medio nazionale del 32% che sale al 45,6% nelle regioni del Nord Ovest, del 39,7% in quelle del Nord Est, e del 34,2% in quelle del Centro. Situazione moderatamente meno precaria nelle isole (21,7%) e nelle regioni del Sud (18,9%). Anche il secondo grado della secondaria (media nazionale del 27,7%) registra nelle regioni del Nord Ovest le percentuali più elevate di docenti precari (36,7%), seguite dal Nord Est (33,8%) e dal Centro (30,6%). Più stabili le cattedre del Mezzogiorno rispettivamente con il 21,1% di precari nelle Isole e con il 18,5% nel Sud.

Nella primaria e nella scuola dell’infanzia le percentuali di precariato sono più contenute (rispettivamente del 20,5% e del 16,4%), anche se si conferma un divario di incidenza tra Nord e Centro da una parte e regioni del Mezzogiorno dall’altra. La ridotta disponibilità di posti incide probabilmente sull’anzianità dei docenti, al punto che nella scuola dell’infanzia si registra l’età anagrafica media più elevata.

SOSTEGNO, IL NORD CHIEDE PARITÀ

La formazione per la didattica agli alunni con disabilità è una necessità che si evidenzia ogni anno quando, in occasione delle nomine in ruolo, i posti restano scoperti per mancanza di docenti forniti del titolo e ancor più questo succede quando si assegnano le supplenze. Due mesi fa il ministero dell’Università, di concerto con quello dell’Istruzione, ha ottenuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) l’autorizzazione per avviare 90.000 Tirocinii Formativi Attivi (Tfa) di sostegno nei prossimi tre anni accademici a partire dal 2021/22. Ma questa volta a lamentare la disparità territoriale è il Nord. «Quello che non va, purtroppo ancora una volta, è la disparità negli accessi ai percorsi che si riscontra a livello territoriale, con differenze a volte molto marcate che non si spiegano né si possono giustificare.

Su un’offerta di corsi pari a 25.874, la stragrande maggioranza riguarda atenei del centro sud – spiega Cisl scuola –  per le università del nord invece i numeri sono davvero molto limitati. Ancora una volta si ripropone una disomogeneità che veramente si stenta a comprendere; ancora di più si fa fatica a capire come non siano possibili interventi sulla programmazione degli atenei per determinare una necessaria inversione di rotta”. Gli insegnanti di sostegno forniti di titolo mancano soprattutto al Nord, che quest’anno vantava il 63% del totale dei posti vacanti destinati al ruolo e ne ha coperti sì e no il 20%. Il complessivo dei posti residui è pari 55.952.

“Dalle tabelle allegate al decreto vediamo che la Lombardia offre poco più di 1000 posti, mentre la Campania, la Calabria e la Puglia ne avranno ciascuna il doppio, Sicilia e Lazio cinque volte tanto – sottolinea Cisl scuola  – Cosa manca alle Università del Nord che non riescono ad attivare i posti necessari? Eppure sono università stimate; perché alcuni territori sono più attenti a queste esigenze e altri no? Sono in affanno o dimostrano scarso interesse ai temi dell’istruzione? Denunciamo da anni questa situazione, sempre più insostenibile; finora nulla è cambiato, quindi il tema va nuovamente posto all’attenzione di tutti affinché nei prossimi due anni, che vedranno l’attivazione, finalmente, di altri 64.000 Tfa, si possa raggiungere una distribuzione dei percorsi più equa e rispondente ai bisogni di tutti gli alunni del Paese”.

Tanti alunni con disabilità trovano in classe ogni anno docenti che insegnano sul sostegno privi di titolo. “Per loro sarebbe opportuno prevedere l’accesso diretto e garantito ai percorsi di formazione, per raggiungere la specializzazione e poter essere assunti in ruolo, così da garantire una continuità didattica sempre sbandierata a parole ma negata nei fatti da politiche sulla formazione che si rivelano del tutto inadeguate e prive di lungimiranza” aggiunge la Cisl.

Università, fondi ai dipartimenti: il Sud a secco. L’enigma dei criteri di assegnazione. Gian Antonio Stella per corriere.it il 6 giugno 2022. 

In ballo un tesoretto di 1,3 miliardi. La denuncia del prof De Nicolao: il Miur nega l’accesso agli atti. 

Ditelo: o sono un disastro troppe università meridionali, e allora vanno demolite e ricostruite, o è disastroso il metodo sul quale sono allestite le classifiche per scegliere chi si spartirà un miliardo e 300 milioni di euro. Un mucchio di soldi a rischio. È mai possibile, infatti, che su 119 dipartimenti esclusi per «Zero tituli», per dirla con Mourinho, ben 72 siano nel Sud o nelle Isole? Con la Sicilia che arriva a 25 stroncature avvilenti, cioè quasi il doppio di tutto il Nord messo insieme?

La classifica delle eccellenze

Lo denuncia Giuseppe De Nicolao, il docente ordinario di Modelli e Analisi dei Dati a Pavia, che da una decina d’anni sul sito Roars.it (Return On Academic Research and School, di cui è tra i fondatori) fa le pulci all’università italiana scovando storture che a volte lasciano basiti. Come questa. Punto di partenza, la classifica appena pubblicata dei dipartimenti di eccellenza: una lista di 350 «comparti» universitari su poco meno di 800 che «si contenderanno un jackpot di 1,3 miliardi riservato ai migliori 180. Gli altri, più di 400, sono già stati eliminati». A decidere chi è rimasto in gara non è stata «una banale media dei voti della Valutazione della Qualità della Ricerca» per un tot numero di anni, «ma l’astruso (sic...) e controverso Indicatore Standardizzato di Performance Dipartimentale (ISPD)». Cos’è esattamente? Boh... Materia imperscrutabile a chi non sia uno specialista e, forse, a diversi specialisti.

La «tupla» o la «matrice colonna»

Per il diletto dei nostri lettori ne pubblichiamo qualche riga: «Per ogni dipartimento d, sarà così calcolato il voto standardizzato VSd quale somma normalizzata (2) dei voti standardizzati di ogni singolo prodotto presentato dai docenti del dipartimento stesso dove NPd rappresenta il numero totale di prodotti presentati dal dipartimento d. A partire dal voto standardizzato VSd del dipartimento verrà infine calcolata la funzione cumulativa che rappresenta la probabilità che aggregando un dipartimento con lo stesso numero di afferenti presi negli stessi SSD, ma a caso, questo riceva una valutazione peggiore di quella realmente ottenuta dal dipartimento d....». Il tutto chiazzato, qua e là, tra una riga e l’altra, da formule algebriche che, tornasse in vita, potrebbero risvegliare la balbuzie di Niccolò Tartaglia. Figuratevi il trauma per docenti di filologia romanza o poesia andina, legittimamente ignari di cosa sia una «tupla» o una «matrice colonna». Non bastassero le polemiche sui risultati del primo ranking, che aveva visto la pesante penalizzazione degli atenei del Sud, spiega l’atto d’accusa del Roars, ogni tentativo di far chiarezza e capire il perché di certi squilibri s’era infranto sul No («Privacy!»: sulla gestione di soldi pubblici...) alla richiesta di un accesso agli atti e così «per la seconda volta più di 1,3 miliardi vengono spesi in base a numeri la cui correttezza non è controllabile».

La mattanza dei dipartimenti esclusi

Fatto sta che anche la nuova classifica (in attesa di ulteriori richieste d’accesso agli atti magari destinate a nuovi niet) ha lasciato mille perplessità. Aumentate stavolta da una serie di dati, emersi grazie a una provvidenziale gola profonda, su come era andata l’altra volta. Si è saputo così che tra gli anonimi e indistinti dipartimenti esclusi dall’Anvur e dal Miur, ben «236, cioè circa un terzo di quelli valutati, avevano ottenuto meno di 10 su 100». Una mattanza. Che includeva appunto quei 119 di cui si diceva, schiacciati sotto il macigno di «zero tituli». Un gruppone, pari a un sesto di tutti dipartimenti, nel quale spiccano ad esempio Ingegneria e Scienze Applicate a Bergamo, ingegneria navale a Genova o Scienze Economico-Aziendali alla Bicocca di Milano e altri ancora. Ma soprattutto i numeri ottimi in Umbria, Trentino-Alto Adige e Veneto (nessun escluso per «zero tituli»), molto buoni in regioni quali l’Emilia-Romagna (solo 1% di bocciati «alla Mourinho»), il Piemonte (2%) o il Friuli-Venezia Giulia (5%), scadenti nel Centro (19% di dipartimenti tagliati fuori nel Lazio) e pessimi nel Sud: 26% di trombati in Sardegna, 32% in Calabria, 39% in Puglia, 50% in Basilicata, 51% in Sicilia. Un panorama umiliante. Che spinge Roars.it a scrivere che adesso si capisce perché quella classifica completa con la strage di dipartimenti meridionali era stata così accanitamente nascosta: «Quale sarebbe stata la reazione dell’opinione pubblica nel 2017 se fosse venuta a sapere che ben 119 dipartimenti avevano meritato uno zero tondo tondo?» Altra domanda scomodissima: «Che giudizio dovremmo dare di un’agenzia di valutazione che, nello stesso momento in cui proclama il raggiungimento degli obiettivi prefissati, fa di tutto per nascondere i risultati che la smentiscono?» Di più: «Pur sapendo che ISPD è un termometro impazzito, ANVUR e MIUR hanno occultato i numeri che ne evidenziavano la fragilità perché il fine di travasare risorse da Sud a Nord giustificava i mezzi?».

Una zavorra su cui non vale la pena di investire

Sia chiaro: non si tratta di un generico lamento figlio della frustrazione di uno dei tanti docenti meridionali bravissimi e insofferenti davanti a tante realtà universitarie nate male o cresciute malissimo. L’autore è un professore padovano di famiglia bellunese già critico in più occasioni su certe derive. Quello che mette a fuoco, però, è sacrosanto: «Invece di riportare il sistema al di sopra della soglia di galleggiamento, si organizzano dei ludi gladiatori all’insegna del più classico divide et impera. Con l’aggravante che distribuire risorse solo ai vincitori significa penalizzare le aree più deboli del paese, Sud e Isole per prime, ma non solo. Il tutto all’insegna dell’idea che una parte del Paese sia “a perdere”, una zavorra su cui non vale la pena di fare investimenti che vadano oltre i corsi professionali, la gastronomia e i beni culturali». Purché non si finisca addirittura, come è successo in passato per decenni, in particolare in Sicilia, con il parallelo rilancio di corsi di formazione per «baristi acrobatici» o esperti di merletto macramè. Un andazzo sfociato nello spreco inverosimile (ricordate lo scandalo Ciapi?) di 15.191.274 euro per avviare al lavoro un totale di 18 (diciotto!) apprendisti. Costati alla Regione e all’Europa 843.959 euro l’uno. Anche loro «zero tituli».

GUERRA E FAME, E LORO PENSANO ALL'AUTONOMIA. Le Regioni del Nord vogliono la secessione. Così rendono ingovernabile il Paese e scatenano un'altra guerra: quella civile. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 3 Giugno 2022. 

Ma davvero i Capi delle Regioni del Nord pensano di continuare a chiedere al bilancio pubblico nazionale, con i soldi di tutti gli italiani, di coprire i loro buchi di bilancio, dal trasporto pubblico locale alla sanità, tenendosi il privilegio della spesa storica che rende i loro cittadini di serie A e quelli del Sud di serie B, senza neppure porsi il problema di dovere fare i conti con la situazione di delicatezza estrema della nostra finanza pubblica e dei mercati? Invece di tirare la carretta per fare correre gli investimenti pubblici, a partire dal Sud, e avanzare sulle strade delle riforme del Pnrr, capi partito e mandarini regionali tirano a campare come se nulla fosse, vanno avanti fino a quando si va alle elezioni per vedere che cosa succede. La capacità di ricatto politico che hanno i capi delle Regioni supera quella di qualsiasi grande azienda e di lobby molto potenti ed è una mina vagante per il futuro del Paese

Sono caduti tutti, quasi tutti, nell’irrilevanza del dibattito politico demagogico tra pace o non pace, che invece è una cosa seria, mentre i furbetti dei capi delle Regioni del Nord cercano di fare gli interessi concreti dei loro elettori per pagare qualcosa in più alle loro clientele. Stanno tagliando il ramo su cui sono seduti, perché il mondo di oggi non ha più nulla a che fare con quello di ieri, ma loro nemmeno se ne accorgono e, dunque, brigano per l’ultima devolution che dovrebbe servire a soddisfare le rendite da preservare e le ultime prebende da distribuire dei nuovi capi bastone delle burocrazie regionali.

Questa ultima devolution si chiama Autonomia differenziata e ha le potenzialità, a scoppio ritardato, della vera secessione del Nord che diventa tutta una grande regione ad autonomia speciale rendendo impossibile governare il Paese già oggi cosa complicatissima e ponendo le basi di una nuova guerra civile italiana. Si rimette il Nord contro il Sud e viceversa, dentro una stagione da nuovo ’29 mondiale segnata da una guerra (vera) nel cuore dell’Europa e da tre grandi shock di tipo inflazionistico, energetico e alimentare che pongono la coscienza del mondo intero a fare i conti con la fame crescente e quella italiana con l’immoralità persistente di miopi saccheggi dei bilanci pubblici.

Si fa di tutto per fare l’Europa unita, con un solo ministro dell’economia e un solo debito, con un esercito e una politica estera comuni, e noi complici sottobanco la ministra Gelmini e i Presidenti delle grandi Regioni del Nord e di una parte del Centro, di destra e di sinistra ma tutti uniti dal desiderio bramoso di tenersi un po’ di Iva in più a scapito di chi ha ingiustificatamente meno, vogliamo spezzettare ancora in più macro e micro aree un Paese di 60 milioni scarsi di abitanti, afflitto peraltro da un problema demografico pazzesco? Ma davvero davvero i Capi delle Regioni del Nord pensano di continuare a chiedere al bilancio pubblico nazionale, con i soldi di tutti gli italiani, di coprire i loro buchi di bilancio, dal trasporto pubblico locale alla sanità, solo per fare qualche esempio, tenendosi il privilegio della spesa storica che rende i loro cittadini di serie A e quelli del Sud di serie B, senza neppure porsi il problema di dovere fare i conti con la situazione di delicatezza estrema della nostra finanza pubblica e dei mercati?

Si pongono per lo meno il problema di come reagiranno i cittadini umbri, marchigiani e dell’intero Mezzogiorno? Ma a chi vogliono fare credere che faranno subito dopo i livelli essenziali di prestazione (Lep) finalmente uguali per tutti i cittadini della Repubblica italiana quando costano decine e decine di miliardi che il bilancio pubblico italiano non ha e che potrebbero uscire solo se si ridiscutessero le erogazioni singole per ogni singolo cittadino togliendo a chi riceve infinitamente di più (Nord) per dare a chi riceve infinitamente di meno (Sud)?

Anche questa ultima devolution all’italiana, si chiama autonomia differenziata, come accadde con le leggi Bassanini e Calderoli, prende forma sempre a fine legislatura, ma almeno questa volta – lo gridiamo con forza – è bene che il blitz non passi mai, che sparisca tutto immediatamente dal tavolo, che si chiuda il capitolo prima di aprirlo con molto rossore di vergogna sulla faccia di chi si è permesso di riproporlo.

È uno dei frutti più avvelenati del dramma politico di questo momento dove tutti invece di tirare la carretta per fare correre gli investimenti pubblici, a partire dal Sud, e avanzare sulle strade delle riforme di sistema superando la prova europea decisiva del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr), tirano invece a campare come se nulla fosse, vanno avanti fino a quando si va alle elezioni per vedere che cosa succede. L’Italia della politica e dei suoi mandarini burocratici è un Paese sospeso. Aspettano come andranno le amministrative e poi come andranno le elezioni nazionali. Siamo, per la precisione, un Paese a tre velocità.

Abbiamo Mattarella e Draghi che vogliono fare correre l’Italia in Italia e in Europa e hanno il rispetto per loro e per noi del mondo. Abbiamo i partiti che sono alla ricerca spasmodica di un elettorato e fanno pasticci. Infine, abbiamo una struttura amministrativa dello Stato che non si sa da che parte va, con le burocrazie delle regioni che sono un altro enorme centro di corporativismo abbondantemente governato dai capi dei partiti a livello locale ma che è a sua volta capace di montargli sopra. A ognuno di loro interessa che cosa arriva a loro, non al proprio Paese. L’unità nazionale non esiste più tranne che dove non puoi fare proprio nulla a livello locale come accade per le ferrovie e le risorse energetiche. Con il vizietto in più poi delle Regioni di decidere e di spendere come e dove vogliono loro e poi portare il conto allo Stato chiedendo di fare nuovo debito pubblico che non può che accrescere le diseguaglianze con i rendimenti dei decennali oltre il 3,3% e un’esposizione complessiva di oltre 2700 miliardi.

Tutto questo avviene nonostante che Capi, capetti e mandarini vari avrebbero dovuto almeno imparare la lezione del Trentino che ha fatto e vinto l’ultima battaglia dell’autonomia. Ha detto: lasciateci almeno i nostri soldi. Poi, hanno dovuto chiedere più soldi allo Stato e giustamente non li hanno avuti. Il Trentino ha voluto l’autonomia e ora l’università di Trento ogni volta che batte cassa a Roma come ha sempre fatto in passato, si sente dare la solita risposta: andate dal vostro Stato che è la provincia autonoma.

La capacità di ricatto politico che hanno i capi delle Regioni supera quella di qualsiasi grande azienda e di lobby molto potenti ed è una mina vagante per il futuro del Paese perché, come minimo, ne indebolisce la sua capacità di governo. Non sono state mai messe in campo, anche questo è grave, strutture realmente indipendenti di controllo sulla presunta efficienza di questa o quella Regione su temi decisivi come quelli sanitari dove il Covid ha riservato non poche sorprese e demolito molti luoghi comuni.

Nel momento più difficile della Repubblica italiana alle prese con emergenze globali di ordine economico, sociale, militare evitiamo almeno di percorrere sentieri maledetti già maledettamente percorsi con il groviglio di ricorsi e contro ricorsi alla Corte costituzionale che sono fuori della civiltà giuridica dell’efficienza e della solidarietà e sono, quindi, fuori della storia. Sono altre le cose a cui deve pensare oggi il Paese, altro che autonomia differenziata. Nelle tragedie come quelle che stiamo vivendo esiste anche il senso del ridicolo. Speriamo di non superarlo.

Viaggio nel Mezzogiorno desertificato che vede i giovani fuggire per il Nord. PIETRO MASSIMO BUSETTA su Il Quotidiano del Sud il 21 Maggio 2022.

«ALL’IMPROVVISO la luce è andata via ed è venuto giù tutto» sussurra la signora Giuseppina Montana, che all’alba è stesa su una barella del pronto soccorso di Agrigento. È rimasta per otto ore sotto le macerie della palazzina dove abitava con alcuni familiari. Nella serata di sabato 11 dicembre 2021, a Ravanusa, in provincia di Agrigento, un’esplosione, probabilmente causata da una fuga di gas, ha causato il crollo di almeno quattro palazzine e il danneggiamento di 40 edifici. Le ferite sono ancora tutte aperte e il sindaco Carmelo d’Angelo me le mostra passando per andare nel giardino dell’istituto  comprensivo, dove presenteremo il mio ultimo saggio.  

IL GRANDE ESODO              

Oggi siamo in questa cittadina della provincia, 350 sul livello del mare e a 20 km dalla costa del mare mediterraneo di Licata. Questa cittadina era una volta  un nodo commerciale importante, quando i cereali prodotti nel territorio venivano spediti via ferrovia e quando la miniera di zolfo Trabia-Tallarita era in piena attività e lo zolfo estratto veniva trasportato su rotaie. Aveva 16.369 abitanti nel 1991, 14.115 nel 2001, 12.128 nel 2011, 10.484 nel 2021. In trent’anni la popolazione si è quasi dimezzata. Molti anziani, pochi bambini. È in questo Comune della provincia di Agrigento, ultima per reddito pro capite di quel grande Paese che si chiama Italia, che vengo a presentare il mio ultimo lavoro, “Il lupo e l’agnello. Dal mantra del Sud assistito all’operazione verità” .

Il sindaco Carmelo D’Angelo, un giovane brillante che ha trasformato negli anni questo paesino, ha fatto le cose in grande. Ha invitato i suoi colleghi sindaci di tre Comuni vicini: quello di Grotte, Joppolo Giancaxio, e di Sant’Elisabetta. Un campione significativo di quello che sta accadendo in questa provincia, che progressivamente si va desertificando. Grotte oggi conta 5.000 abitanti, ma nel 1991 ne aveva 7.500: il suo sindaco Alfonso Provvidenza ne testimonia con tristezza il lento decadimento. Il Comune di Joppolo Giancaxio ha 1.100 abitanti, nel 1991 di abitanti ne aveva 1.460. Il suo sindaco, Angelo Giuseppe Portella, mi ricorda che è stato un mio studente e ha seguito il mio corso di statistica economica in anni ormai non troppo vicini, ma che gli sono rimasti impressi nella mente.

Il comune di Sant’Elisabetta, che oggi conta 2.100 abitanti, nel 1991 ne aveva 3.500. Il suo sindaco, l’architetto Domenico Gueli, racconta di quanto difficile possa essere gestire e amministrare un Comune che va lentamente morendo. Senza alcuna speranza che vi possa essere un’inversione di tendenza perché le cittadine vicine, compresa Agrigento, a soli 12 km, soffrono dello stesso male oscuro che le sta spegnendo lentamente.  Il pubblico è attento e di livello. 

Tra gli altri Marilena Giglia, dirigente scolastica dell’istituto comprensivo, che con orgoglio mi dice che nel suo istituto il tempo pieno è una realtà e che con la collaborazione dell’amministrazione comunale, sempre estremamente disponibile, riesce a far frequentare i ragazzi per tutta la giornata.  

NESSUNA LAMENTELA              

Un lavoro importante, ma che sarà utilizzato da altri. I giovani qui partono per frequentare le università del Nord, perché preferiscono studiare là dove potranno trovare un posto di lavoro. Qui non c’è futuro, qui non c’è speranza, qui si può tornare soltanto da vecchi, sperando di poter essere curati adeguatamente, perché i diritti di cittadinanza non sono equivalenti a quelli di  molte altre parti del Paese, e quando vi sono problemi seri conviene utilizzare un volo low cost per essere curati laddove la spesa pro capite per cittadino è molto più alta.

Eppure, invece di inveire contro uno Stato patrigno, molti dei presenti si colpevolizzano affermando che la colpa è loro perché dovrebbero sbracciarsi di più. Sbracciarsi per completare l’anello autostradale ancora incompleto che si ferma in provincia di Ragusa e che non attraversa in nessun modo la provincia di Agrigento? Sbracciarsi per avere un aeroporto che consenta di utilizzare al meglio quel gioiello che è la Valle Dei Templi e che potrebbe essere una localizzazione perfetta per convegni internazionali, se solo fosse raggiungibile e permettesse a chi deve presentare un paper di andare e tornare nello stesso giorno?  O per collegare Agrigento a Palermo in treno, con i suoi 160 km, in mezz’ora come avviene al Nord?

MALTRATTATI E INCONSAPEVOLI

Non inveiscono contro uno Stato che li ha dimenticati e, davanti  alle sollecitazioni che faccio sul fatto che quello del Sud assistito è un mantra che bisogna sfatare, restano quasi interdetti. Il più grande peccato che si deve attribuire al Nord, con i suoi giornaloni, purtroppo, è quello di aver fatto passare una vulgata secondo cui il Meridione giace in questo sottosviluppo diffuso per colpa dei meridionali. E quando, sollecitato dal giornalista che coordinava, Cesare Sciabbarrà, raccontavo di come si decise di fare arrivare l’autostrada del sole A1 solo a Napoli rimangono interdetti. Non vogliono accettare che in realtà vivono in colonia e sono stati maltrattati.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Fondi alle università, Sud penalizzato dal meccanismo iniquo che premia un Nord già ricco. Il sistema ricalca quello aberrante degli asili nido per cui i soldi pubblici vanno alle realtà in cui le strutture già esistono. PIETRO MASSIMO BUSETTA su Il Quotidiano del Sud il 19 Maggio 2022 

Non è forse giusto dare più risorse a chi ha avuto risultati migliori? Il rendimento dei finanziamenti che vengono dati dal pubblico alle università non deve entrare nella valutazione per dimensionare gli importi da assegnare successivamente? Sembrerebbe tutto corretto.

Se approfondiamo però l’argomento ci accorgiamo che vi sono due limiti fondamentali a questo approccio: il primo riguarda il fatto che se dovessimo mettere in concorrenza tutti gli atenei del mondo, in una sorta di classifica unica alla quale fare riferimento, per dare le risorse a chi ha i risultati migliori, probabilmente, visto che gli atenei italiani non sono ai primi posti, sarebbero tutti esclusi dai fondi per le ricerche.

Il secondo è che, valutando il livello delle ricerche prodotte, in realtà si danno i finanziamenti in base non alle esigenze del territorio, quanto piuttosto alla capacità del corpo docente di produrre buone performance. Per cui il territorio verrebbe penalizzato due volte. Una prima per avere dei docenti non all’altezza dei migliori nel Paese, e una seconda perché il corpo docente non avrebbe risorse sufficienti per portare avanti le ricerche.

MECCANISMO PERVERSO

La cosa strana è che gli atenei meridionali, e i rettori che li rappresentano, invece di sollevarsi unanimemente e rifiutare i criteri imposti dal Ministero, si adeguano e cercano di correre con gli altri del Nord, pur avendo una gamba legata.

Si parla di 1,355 miliardi di euro, caratterizzati per «l’eccellenza nella qualità della ricerca e nella progettualità scientifica, organizzativa e didattica», come spiega il ministero guidato da Maria Cristina Messa.

Il meccanismo si ripete ed è come quello dei concorsi a bando per le risorse del Pnrr.

Ma il risultato è di quelli aberranti per cui gli asili nido vanno alle realtà in cui già ci sono. Così adesso le università che saranno avvantaggiate sono quelle che sono localizzate nelle realtà economicamente più evolute, per cui possono, per esempio, avere anche risorse private, considerato che il territorio ha un tessuto economico sviluppato.

Un meccanismo che si ripete in tutti i finanziamenti, anche in quello, per esempio, dei teatri lirici che se possono utilizzare più risorse private hanno diritto anche a più risorse pubbliche.

Un meccanismo che metterà sempre più all’angolo le Università meridionali che, invece di essere aiutate a ottenere risultati di eccellenza da parte di un ministero centrale che dovrebbe dare di più a chi ha più difficoltà, vedono perpetuato un meccanismo per il quale le realtà più disagiate vengono più marginalizzate.

Tutto questo, peraltro, sulla base dei risultati ottenuti nel periodo 2015-2019 che diventa base per il 2023-2027.

GRUPPI DI SERIE A E SERIE B

E allora i risultati diventano di quelli che farebbero cambiare metodo a chiunque avesse un minimo di voglia di evitare che questo Paese sia così ingiusto. Per cui dei 350 dipartimenti italiani in Lombardia sono 62 gli ammessi alla gara per l’eccellenza, e sono 39 in Emilia, che avendo la stessa popolazione della Puglia la surclassa per 39 a 6. La Basilicata non compete, la Sicilia, che ha la stessa popolazione del Veneto, ne ha 3 contro i 45 veneti.

Insomma, una distribuzione che invece di evidenziare i bisogni e in funzione di essi dare le risorse, individua coloro che sono più avanti per farli affermare ulteriormente.

In realtà vi è un progetto ben preciso di distribuire gli atenei italiani in due grandi gruppi: uno che includerebbe tutti quelli meridionali, che diventano super licei, buoni per preparare i giovani che poi andranno a infoltire i lavoratori del Nord. Il secondo gruppo sarà invece quello di eccellenza in cui vi sono quasi solo i dipartimenti del Nord.

E i meridionali stanno guardare, come le stelle di Cronin, invece di far saltare il tavolo e pretendere criteri diversi. Eppure gli Atenei sono parte fondamentale del progetto di sviluppo del Sud.

Perché l’attrazione di investimenti dall’esterno dell’area ha come elemento base che vi siano dipartimenti di eccellenza che possano contribuire, con le aziende che si vogliono localizzare nel sud del Paese, a produrre dei progetti innovativi che consentano di fornire delle produzioni che siano all’avanguardia nei mercati.

L’esempio della St Microelectronics che si localizza a Catania e collabora in modo continuo con l’Università del capoluogo etneo è illuminante di quale dovrebbe essere l’approccio.

Ma sappiamo bene che in Italia è bene che quello che fa la mano sinistra non lo sappia la destra, per cui da un lato continuano le prediche sulla volontà di fare sviluppare il Mezzogiorno, sulla centralità che questo deve avere per il prossimo futuro, sull’esigenza che diventino gli Atenei meridionali attrattivi per tutti gli studenti del Nord Africa che sono a due passi e che possono trovare nel Mezzogiorno la possibilità di prepararsi adeguatamente, in uno scambio virtuoso verso i paesi dell’Africa mediterranea, e dall’altro invece si procede come sempre quando si tratta di passare dalle parole ai fatti privilegiando una parte.

Se le risorse fossero erogate in base alla popolazione come sarebbe corretto, dei 1.400 miliardi, visto che nel Sud abita il 33% degli italiani, ne dovrebbero arrivare più o meno 450. Non so quanti ne arriveranno, ma certamente molto meno di quanti ne toccherebbero.

ITALIA PROVINCIALE

La scusa è l’eccellenza, e allora se così deve essere togliamo le risorse a tutte le università italiane e finanziamo il Mit o Harvard, oppure Oxford che di eccellenza ne hanno da vendere, e poi vedremo come riusciranno a competere quelli che fanno i galletti in un’Italia provinciale. Forse capiranno che il criterio adottato non è proprio quello giusto.

La Gran Bretagna ha selezionato una serie di atenei nel mondo che considera di eccellenza e provenendo dai quali, dopo Brexit, non occorre comunque avere il visto. Non hanno selezionato nemmeno un’università italiana. Questi fanno i gradassi con le università del Sud, ma nel panorama mondiale non esistono.

Ovviamente non si deve dimenticare che i fondi per la ricerca significano anche la possibilità di assumere giovani e di farli lavorare, mentre noi continuiamo, invece che spostare il lavoro là dove i giovani ci sono, a fare spostare i giovani dove creiamo, anche con il contributo del pubblico, il lavoro, facendo emigrare le migliori risorse che contribuiranno allo sviluppo della parte che si pone come madrepatria rispetto a una colonia che viene sempre più emarginata.

Niente treni al Sud, una scelta ideologica non economica. Sembra la domanda dello scemo che, non sapendo di esserlo, l’ha fatta. La diversamente Italia non poteva essere trattata come il resto d’Italia, nel caso il resto d’Italia se la fosse presa. Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Maggio 2022.

Vedete, questa questione dei binari al Sud sarebbe ridicola se non fosse tragica. A cominciare da un vecchio amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, col quale si aveva un dibattito del genere seguente. Perché non mette anche al Sud treni veloci come nel resto del Paese? Perché non ci sono passeggeri. Ma se non mette i treni, come può avere passeggeri? Così il Sud non ha avuto a lungo né treni né passeggeri.

Ma chi mastica un po’ di economia sa che è il servizio a creare il mercato, non viceversa. E che se vuoi far sviluppare un territorio la parola è una sola: treno. Così l’America dei pionieri è diventata America. Così fece da noi lo Stato unitario, dimenticando però il Sud come se già da allora fosse un’altra Italia. Anzi quando si è fatta l’Autostrada del Sole per ricucire il Paese spaccato dalla guerra, la ricucitura è arrivata fino a Napoli, punto. ‘O sole mio, trascurando il resto del sole.

Quindi l’Italia attuale è un’Italia recidiva, così, per coerenza. Di recente confermato, del resto, dalla sottosegretaria Bellanova: investire 45 miliardi per risparmiare 20 minuti fra Lecce e Bologna «rischia di essere uno sperpero di risorse». E magari non lo è per far andare in un’ora da Genova a Milano, come stanno facendo ora. Come se solo per il Sud la possibilità dei cittadini di muoversi potesse essere decisa da un amministratore delegato, non fosse un diritto sancito dalla Costituzione. Un diritto pubblico essenziale come, esempio, la sanità e la scuola. Doveva essere lo Stato a imporsi, non i conti di un’azienda che, fra l’altro, era e resta statale, altro che chiacchiere. Ma allora perché i governi non l’hanno fatto?

Sembra la domanda dello scemo che, non sapendo di esserlo, l’ha fatta. La diversamente Italia non poteva essere trattata come il resto d’Italia, nel caso il resto d’Italia se la fosse presa. Puntare sempre su una, e l’altra avrebbe avuto un po’ di molliche per starsi zitta. Mai sia treni come altrove, si fosse messo in testa il Sud di diventare una forza a sé. Si fosse messo in testa di agevolare i suoi viaggiatori, imprenditori, studenti, turisti. Si fosse messo in testa il Sud di non dipendere più dall’altra Italia. Nord ricco in proporzione diretta al Sud meno ricco. Come se dare a uno significasse sempre sottrarre all’altro, non addizionare per tutti. «No treni» come scelta ideologica spacciata per scelta economica. Per restare in tema, la solita locomotiva del Nord che avrebbe tirato i vagoni del Sud.

Ma ora, udite udite, c’è «Verso Sud». Scrive un collega: ma scusa, le cose che ora hanno detto a Sorrento, non le dici tu (con pochi altri) da sempre? Sud essenziale per far crescere l’intero Paese? Ma ora serve il Sud alla canna del gas, come ha scritto il sulfureo Marcello Veneziani. Serve perché l’energia che mancherà potrà arrivare solo dal Sud, fra pale eoliche sul posto e tubi che lo buchereranno per far arrivare il gas da ogni dove. Quanto ai treni, la «Gazzetta» in questi giorni ha già fatto capire l’aria: Bari-Napoli diretta nel 2027, se va tutto bene; Taranto-Potenza-Battipaglia allo stato di fattibilità; raddoppio Termoli-Lesina appena cominciato dopo anni di stop per l’uccello fratino.

Ma nulla che non sia roba da anni ‘70.

Nulla che riguardi il Pnrr, anche se lo si spaccia. Nulla che faccia dire: si è capita la rendita di posizione del Sud nel Mediterraneo, mettiamola a frutto per il Sud e per l’intero Paese. Nulla che faccia pensare a una visione per il Sud: cosa diventare da grande, non come ci serve ora. Ma non giudichiamo troppo in fretta questo ennesimo «rilancio del Sud», mai nessuno tanto rilanciato da andare solo a sbattere. Non dimenticando mai la «trappola del sottosviluppo».

È il moltiplicatore per cui, se un ragazzo del Sud è costretto ad andare a studiare fuori (perché le università del Sud sono sottofinanziate rispetto alle altre, incredibile), non solo toglie al Sud ma aggiunge al Nord: scappato per un divario che egli contribuisce ad aumentare scappando. E così un malato che va a curarsi fuori (perché anche gli ospedali sono sottofinanziati): più vanno, di meno posti letto avrebbe bisogno il Sud, che così vengono eliminati costringendo altri malati ad andare fuori. Sembra una barzelletta. Un meccanismo automatico che si interrompe cambiando le regole. Cominciando a dare treni, e ospedali, e università che blocchino il meccanismo. Quello che fa mancare al Sud tre milioni di posti di lavoro e il 50 per cento del reddito che ha il Centro Nord.

Questo Sud che vuole essere assistito, ammesso che così fosse. Quando invece, come visto, assiste il Nord. Ma sai, cinicamente: o mi sviluppi, o mi assisti.

Da video.corriere.it il 10 febbraio 2022.  (LaPresse) Scambio di battute fra il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, catturato da LaPresse al termine della conferenza stampa di presentazione dell'accordo fra A2A e Politecnico. Il governatore, rivolto al primo cittadino, dice: «Caro Beppe, è un casino il Pnrr e noi mettiamo a terra un ca**o». E Sala risponde: «È questo, adesso va bene tutto. 

Noi dobbiamo farci un po' più furbi su questa cosa e fare un po' più di sistema obiettivamente tra tutti. Io sono preoccupato del fatto che Sud, Sud, Sud, ho capito, ma l'innovazione… Però io non ho veramente niente da contestare. Voglio chiarezza, perché è evidente che noi abbiamo una progettualità…». Quindi, il presidente della Lombardia conclude: «Voi siete in grado, perché il Comune di Busto Arsizio che ca**o fa? Che non è un Comune piccolo quello di Busto Arsizio…».

I miliardi del Pnrr adesso scatenano la guerra Nord-Sud. Pasquale Napolitano l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il ministro Carfagna replica al sindaco Sala: "I fondi al Meridione aiutano anche voi..."

La torta Pnrr (222,1 miliardi di euro) riaccende lo scontro Nord-Sud. Stavolta l'affondo contro il dirottamento di risorse verso Mezzogiorno non arriva dal leghista di turno. Ma dal fronte progressiva: Beppe Sala, sindaco di Milano e aspirante leader della sinistra del «domani», in un fuorionda - catturato da Lapresse - si lamenta con il governatore della Lombardia Attilio Fontana della «pericolosa» concentrazione delle risorse del Pnrr al Sud. Il primo cittadino di Milano sintetizza i malumori che da tempo serpeggiano tra i ministri del Nord nel governo Draghi. Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega e titolare dello Sviluppo economico, intravede da mesi le difficoltà soprattutto nel settentrione nell'attuazione dei progetti legati ai fondi del Pnrr. Di contro, il ministro del Sud Mara Carfagna, che gode della totale copertura politica da parte del presidente del Consiglio Mario Draghi, fa notare come la suddivisione delle risorse sia chiara: 40% al Sud e 60% al resto.

Anzi, al netto del fair play pubblico tra Carfagna e Sala, dall'entourage del ministro del Sud provocano: «Se si vuole ridurre la quota del 40% al Sud, abbiano il coraggio di chiederlo pubblicamente». E infatti un tentativo, nelle settimane scorse, di bypassare la ripartizione (60/40%) c'è stato con i fondi destinati alle Università. Quelle del Mezzogiorno sono finite sotto la soglia del 40%. Dopo la protesta dei rettori, il ministro Maria Cristina Messa si è giustificata con una «svista di un funzionario». Sala nella conversazione con il governatore Fontana lamenta: «Io sono preoccupato del fatto che Sud, Sud, Sud. Però io non ho veramente niente da contestare. Voglio chiarezza, perché è evidente che noi abbiamo una progettualità». La risposta del ministro è affidata a un tweet: «Caro Beppe Sala, il Pnrr al Sud-Sud-Sud è un'opportunità anche per il Nord. L'innovazione facciamola insieme. Parliamone». Il tema è ufficialmente sul tavolo. Sala ribatte: «Destinare al nostro Sud il 40% delle risorse italiane è una giusta, incontestabile decisione. Sul restante 60% i bandi a volte funzionano con parametri che tendono ancora a favorire le aree più arretrate. Per cui è certo che alla fine al Sud andranno più del 40% delle risorse. Il mio non è egoistico campanilismo. È ora di dire che il Pnrr non sarà la soluzione di tutti i nostri mali, che più della metà di quelle risorse dovranno essere restituite, che la solidità dei progetti presentati è quindi fondamentale».

Si inserisce il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi: «Abbiamo un grosso gap infrastrutturale e di servizi che non consente all'Italia di crescere. C'è una clausola di salvaguardia che prevede che il 40 percento delle risorse almeno vengano destinate al Meridione. Non credo che la frase di Sala abbia fondamenti anti-meridionali, ma mi confronterò con lui». Ritorna sul tema anche il presidente Fontana: «Sul Pnrr l'unica preoccupazione è cercare di fare in modo che i soldi non vengano sprecati, non siano restituiti all'Europa, bisogna fare in modo che non si verifichi quanto accaduto per tanti anni con i trasferimenti ordinari dell'Europa. Il sindaco Sala, credo, volesse dire proprio questo: noi abbiamo delle progettualità, se qualcuno non ha gli strumenti per realizzarle, si ricordi che noi siamo pronti».

La guerra Nord-Sud è ufficialmente iniziata. Pasquale Napolitano

Fuorionda tra Sala e Fontana sul Pnrr: “Sud, sud, sud”. Esplode la polemica. Il Quotidiano del Sud il 10 Febbraio 2022.

UN microfono lasciato acceso e alcune frasi “intercettate” tra il sindaco di Milano Beppe Sala e il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana. Al centro della discussione tra i due i fondi del Pnrr, la quota che spetta al Sud e la gestione dei Comuni.

Il video con la discussione tra i due è stato pubblicato dall’agenzia LaPresse ed è stato registrato al termine di una iniziativa pubblica.

“Caro Beppe, è un casino il Pnrr e noi mettiamo a terra un c…”, dice Fontana. Il sindaco di Milano risponde: “È questo, adesso va bene tutto. Noi dobbiamo farci un po’ più furbi su questa cosa e fare un po’ più di sistema obiettivamente tra tutti. Io sono preoccupato del fatto che Sud, Sud, Sud… ho capito, ma l’innovazione…”.

Dopo qualche parola incomprensibile Sala conclude: “Però io non ho veramente niente da contestare. Voglio chiarezza, perché è evidente che noi abbiamo una progettualità”. La replica di Fontana è la seguente: “Voi siete in grado, perché il Comune di Busto Arsizio che c… fa? Che non è un Comune piccolo quello di Busto Arsizio”.

Parole che hanno subito scatenato la reazione del ministro per il Sud, Mara Carfagna, che ha risposto con un tweet: “Caro Beppe Sala, il Pnrr al Sud-Sud-Sud è un’opportunità anche per il Nord. L’innovazione facciamola insieme. Parliamone!”. Al termine un messaggio chiaro con tanto di hashtag: “Se cresce il Sud cresce l’Italia”.

Controreplica social di Sala: “Destinare al nostro Sud il 40% delle risorse italiane è una giusta, incontestabile decisione”, ha premesso Sala, aggiungendo però “che sul restante 60% i bandi a volte funzionano con parametri che tendono ancora a favorire le aree più arretrate. Per cui è certo che alla fine al Sud andranno più del 40% delle risorse”.

Sala ha definito il suo non un “egoistico campanilismo” e ha evidenziato il rischio che oltre la metà delle risorse del Pnrr vada restituito. Infine ha messo a disposizione del resto del Paese le modalità con cui Milano “lavora allo sviluppo del suo sistema”.

Anche Fontana ha cercato di spegnere le polemiche in una intervista a Rainews24, sostenendo di essere preoccupato perché il Pnrr è stato “pensato sulle spalle dei comuni, ma non tutti i comuni hanno le strutture tecniche per svolgere queste compiti”. Per il governatore leghista “i soldi non devono essere sprecati” e bisogna “cercare di non fare in modo che i soldi ritornino in Europa”.

PNRR, Mastella: “Sala più leghista di Fontana”. Redazione Labtv il 10 Febbraio 2022.  

“Non è la prima volta che il collega Sala si esercita scaricando strali polemici sul Sud. Evidentemente non sa che l’Italia ha avuto tante risorse europee proprio per il Mezzogiorno e la sua condizione di difficoltà. A ciascuno il suo. Al Sud tocca, senza se e senza ma, il 40% degli investimenti. Piuttosto il Governo dia ai comuni personale qualificato che aiuti tante realtà locali dove manca il necessario a poter partecipare

ai bandi del Pnrr. Non conoscessi Sala direi che gli sfuggono spesso frasi un po’ razziste. Probabilmente la sua conversazione con il governatore Fontana lo ha portato culturalmente ad essere più leghista dello stesso Fontana”. Così il sindaco di Benevento e segretario nazionale di Noi Di Centro, Clemente Mastella. 

PNRR, Fontana e Sala pensano a come prendere i soldi del Mezzogiorno: “Tutto Sud, Sud Sud. Dobbiamo farci furbi”. Da Francesco Pipitone il 10 Febbraio 2022 su vesuviolive.it.

A pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina. LaPresse ha catturato un fuorionda tra il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e il sindaco di Milano, Giuseppe Sala. Era in corso la conferenza stampa di presentazione dell’accordo fra A2A e Politecnico quando i due hanno avuto uno scambio di opinioni circa il Pnrr: i due hanno espresso la propria preoccupazione sulla distribuzione delle risorse per le quali priorità è stata data al Sud.

“Caro Beppe è un casino il Pnrr e noi mettiamo a terra un ca***” – ha detto Fontana. La risposta di Sala è eloquente: “È questo, poi va bene tutto. Noi dobbiamo farci un po’ più furbi su questa cosa e fare un po’ più di sistema obiettivamente tra tutti. Io obiettivamente sono preoccupato del fatto che Sud, Sud, Sud. Ho capito, ma l’innovazione… Però io non ho niente da contestare. Voglio chiarezza perché è evidente che noi abbiamo una progettualità”.

Diventare furbi, fare sistema, espressioni che lasciano intendere l’intenzione di prendere più denaro possibile dai fondi del Pnrr. Non è tra l’altro la prima volta che Sala si esprime in questi termini, essendosi sostanzialmente augurato, a dicembre, che Il Mezzogiorno non spendesse tutti i soldi affinché potesse trarne vantaggio Milano. “È molto giusto – dichiarò Sala – il principio di cercare di allargare a tutti e di dare a tutti la possibilità di partecipare. Questa è una grande opportunità per risolvere il problema del Sud”. Ma poiché nella storia d’Italia molte risorse alla fine non sono state utilizzate “ci candidiamo, qualora ci siano realtà non in grado di garantire la possibilità di investire nei tempi corretti, a utilizzare i residui che ci saranno”.

Eppure il Nord ha già ottenuto miliardi che non gli spettano. Il 70% del Recovery Fund è stato assegnato all’Italia a causa dlele condizioni di grave e drammatica arretratezza del Mezzogiorno, ma il Governo ottenuti i fondi ne ha dirottato il 30% verso le altre aree del Paese. Al Sud è stata assegnata una quota del 40% (sulla carta, a meno di ulteriori furti) con uno scippo che potrebbe essere di addirittura 140 miliardi di euro.

Francesco Pipitone. Non dovrei leggere, non dovrei scrivere, non dovrei star troppo dietro al cinema d'essai. Ogni tanto dovrei vietarmi di non vietarmi di fare queste cose, ma non lo faccio mai

Quei 62 miliardi dirottati al Nord che hanno allargato la distanza tra le due Italie. I cittadini del Sud, vale a dire il 34,2 per cento degli italiani, portano a casa appena il 27,8 per cento dei trasferimenti provenienti dallo Stato centrale. VINCENZO DAMIANI su Il Quotidiano del Sud l'11 febbraio 2022.

Al governatore Fontana e al sindaco Sala devono essere sfuggite le molteplici sentenze della Corte costituzionale, l’ultima è la 65 del 2016: è indispensabile – è stato accertato – determinare i livelli essenziali delle prestazioni per garantire servizi uguali da Trieste a Palermo. Per evitare, cioè, che, come accade ormai da almeno due decenni, i soldi per gli investimenti prendano una sola direzione, quella del settentrione.

Vale per la sanità, come per l’istruzione, gli asili e le infrastrutture. Basti pensare che ogni giorno il Mezzogiorno “perde” circa 170 milioni. A tanto ammonta, su base giornaliera, il bottino da 62,3 miliardi che ogni anno, dati del Sistema dei conti pubblici territoriali alla mano, viene sottratto al Sud e dirottato verso il Nord. Parliamo di circa 5,2 miliardi al mese di spesa pubblica allargata, non solo statale. Lo ha svelato il nostro giornale con l’Operazione verità, è stato certificato dalla Corte dei Conti, e lo ha ammesso anche la commissione parlamentare d’inchiesta.

I cittadini del Sud, vale a dire il 34,2% degli italiani, portano a casa appena il 27,8% dei trasferimenti provenienti dallo Stato centrale. Il Centro-Nord, invece, riesce ad accaparrarsi molto più di quello che l’aritmetica consentirebbe: il 65,7% della popolazione accede al 72,1% delle risorse statali. Per un cittadino del Nord lo Stato spende in media 17.506 euro all’anno; per uno del Sud appena 13.144. Sanità, infrastrutture, istruzione, ricerca: sono i settori nei quali le disparità sono accentuate e palesi. Nell’ultimo ventennio, lo Stato ha investito più al Nord che al Sud, lasciando che l’Italia si spaccasse in due.

I numeri sono sotto gli occhi di chi vuol vedere, il primo è il più macroscopico: 62,5 miliardi. Sono le risorse che solo nel 2017 sono state dirottate dall’Italia meridionale a quella del Centro-Nord. Risorse che avrebbero potuto garantire asili nido, cure mediche dignitose, un welfare più equo. Il calcolo è messo nero su bianco dai Conti pubblici territoriali, istituto statistico facente capo all’Agenzia per la Coesione territoriale, che si occupa di misurare e analizzare i flussi finanziari di entrata e di spesa delle amministrazioni pubbliche e di tutti gli enti appartenenti alla componente allargata del settore pubblico. Quei 62,5 miliardi rappresentano uno scarto del 6,4%, in crescita dello 0,4% rispetto al triennio precedente, fra quanto le regioni meridionali avrebbero dovuto ricevere in termini di spesa pubblica, sulla base della popolazione residente, e quanto hanno avuto in realtà. Scendendo più nel dettaglio, ad esempio la spesa per investimenti in sanità è stata del tutto squilibrata territorialmente: dei 47 miliardi totali impegnati in 18 anni (2000-2017), oltre 27,4 sono finiti nelle casse delle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno.

In termini pro-capite, significa che mentre la Valle d’Aosta ha potuto investire per i suoi ospedali 89,9 euro, l’Emilia Romagna 84,4 euro, la Toscana 77 euro, il Veneto 61,3 euro, il Friuli Venezia Giulia 49,9 euro, Piemonte 44,1, Liguria 43,9 euro e Lombardia 40,8 euro; la Calabria ha dovuto accontentarsi di appena 15,9 euro pro-capite, la Campania 22,6 euro, la Puglia 26,2 euro, il Molise 24,2 euro, il Lazio 22,3 euro, l’Abruzzo 33 euro. Asili e welfare: per ogni bambino da 0 a 5 anni un sindaco calabrese può investire, mediamente, circa 126,8 euro per garantire i servizi per l’infanzia. In Liguria, la spesa pro capite dei Comuni per ogni bimbo della stessa età è, invece, di 1.377,9 euro, ben undici volte superiore. Se nasci al Nord, asili, assistenza, welfare, cure non ti mancheranno. Se vieni alla luce nel Mezzogiorno, beh, la strada potrebbe essere in salita. Si perché lo Stato non ti garantirà lo stesso livello di servizi, né qualitativamente né dal punto di vista della quantità: è la Corte dei Conti, nella “Memoria sul bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale”, a ricordare che viviamo in un Paese che viaggia a velocità diverse.

Dagli asili alle strade: è sufficiente osservare la curva degli investimenti pubblici destinati allo sviluppo infrastrutturale del Mezzogiorno per individuare la causa principale di una Italia spaccata in due. Fra il 1950 e il 1960 la dote era pari allo 0,84% del Pil; tra il 2011 e il 2015 è crollata a uno striminzito 0,15%. Nel 2018, stima la Svimez, la spesa in conto capitale è scesa al Mezzogiorno da 10,4 a 10,3 miliardi, nello stesso periodo al Centro-Nord è salita da 22,2 a 24,3 miliardi. Nel Mezzogiorno si contano meno autostrade, a discapito di cittadini e del tessuto produttivo nazionale: nel Meridione ogni impresa può contare su poco meno di 20 chilometri di reti, la metà di quelle a disposizione nel Nord-Ovest. Sulla ricerca la storia non cambia: nella ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario per le Università, nonostante l’introduzione di un fondo perequativo, il 42,3% dei trasferimenti finisce nelle casse degli Atenei del Nord, al Sud il 21,4% (sommando anche Sicilia e Sardegna si tocca il 32,4%), il restante 25,3% al Centro. Se il sistema del federalismo fiscale fosse stato equo, il Comune che avrebbe guadagnato di più sarebbe stato quello di Giugliano, in Campania, dove oggi mancano all’appello 33 milioni di euro (270 euro pro capite). Reggio Calabria avrebbe dovuto ricevere 41 milioni in più, 229 euro a testa. Seguono Crotone (3 milioni, 206 euro a cittadino), Taranto (39 milioni, 198 euro pro capite).

Investire sul Sud è un guadagno per tutto il Paese: ma il Nord non lo capisce. ADRIANO GIANNOLA, Presidente Svimez, su Il Quotidiano del Sud il 12 febbraio 2022.  

Il nervoso Sud-Sud-Sud del “fuori onda” del sindaco Sala rivolto al presidente Fontana viene da persona a conoscenza dei fatti (e delle intenzioni). A noi, accuratamente all’oscuro soprattutto delle intenzioni, tutto ciò suona come un rassicurante indizio del buon lavoro che il governo sta facendo nella allocazione delle risorse del Pnrr.

Il che, forse, è un eccesso di ottimismo, visti vari incidenti di percorso che sembrano dire altro e la fumosità su priorità e impianto strategico. Ma vogliamo credere fino in fondo alle preoccupazioni di Sala, in attesa che un conforto inequivocabile venga da un’informativa puntuale su numeri e – soprattutto – progetti.

MA DI COSA SI LAMENTA SALA?

Sperando che il lamento del sindaco sia pienamente giustificato, viene da chiedergli: di che si lamenta? E anche da chiedergli perché, facendo buon viso a cattivo gioco, con malcelato supponente paternalismo, propone il dialogo alla ministra del Sud con argomenti e autocertificazioni che avocano al nord illuministiche virtù?

Il fuori onda e il post segnalano quanto sia preoccupato il sindaco in nome e per conto del Nord, oltre che di Milano.

Se tutto fosse vero sarebbe da dire che “finalmente” la forza delle cose, e cioè la Ragione, sta andando in soccorso dei governi come ai tempi di Filangieri fece la filosofia. Un ravvedimento che, con venti anni di ritardo, prende atto non solo del disastro italiano ma anche di quella sua singolare dinamica che – imputata al Mezzogiorno- l’Operazione verità conduce invece a Nord, tanto da indurre finalmente l’ Europa a intimarci di ridurre le disuguaglianze e aumentare la coesione sociale.

Ebbene, per questo percorso di salvataggio una sola cura è possibile: Sud-Sud-Sud, non per altro, perché non ci sono altri spazi praticabili per un Paese che non può accontentarsi di riprendere a crescere con una sia pur eccezionale manutenzione smart e green ma deve, invece, letteralmente “rinascere” a scadenza 2026-2030 sia al Nord che al Sud.

Sala elenca le “sue” virtù ancor fidando sulla autorevole diagnosi Bocconiana che la priorità dell’Italia è far correre Milano e lasciare indietro Napoli. Non la pensano così in molti e, particolarmente, l’ Europa.

Conforta davvero se il Pnrr, macinando Sud-Sud-Sud, affianca con realismo, senza illusioni, la manutenzione dell’ opulento e immobile Nord e punta a mettere in moto al Sud una reazione a catena che lo liberi da venti anni di ghettizzazione. Sarà un’impresa difficile anche a causa di come è ormai il Sud, ma indispensabile per avviare un progetto che metta in moto il “secondo motore”, iniziando a disegnare un Southern Range porta d’ingresso da Sud in Europa e – con ciò – alla fruizione della Rendita Mediterranea da conquistare dopo venti anni di dissipazione.

LA VISIONE DI SISTEMA

Un’opportunità che oggi è una necessità di tale evidenza e semplicità che stupisce non sia illustrata agli angoli delle strade che contano e discussa in Parlamento.

Certo, i problemi ci sono, per primo le persistenti illusioni delle classi dirigenti. Al Nord, sedicente ricco e trainante, ancora si celebra come una vittoria la disarticolazione del sistema distrettuale, costretto con sempre minore autonomia strategica all’integrazione di lusso nelle catene del valore mitteleuropee. Al Sud la desertificazione ha inaridito anche la percezione di una visione di sistema. Ogni presidente-governatore, orbo di sane politiche nazionali, trae ruolo e capacità di azione dalla sedicente politica di coesione per costruire il “suo” progetto.

Ben venga una rigorosa organica disciplina-progetto del Pnrr che orienti e motivi gli illusi e i deserti alla cogenza della prospettiva mediterranea.

INFRASTRUTTURE ORGANICHE AL SUD: UNICA CHANCE PER L'ITALIA. Il gap territoriale va colmato al più presto: il treno dell’economia può marciare solo se tutti i vagoni viaggiano alla stessa velocità. Sono sterili le polemiche sui fondi assegnati al Sud tramite Pnrr: solamente grazie al Mezzogiorno il Paese ha ricevuto così tante risorse dall’Europa. ERCOLE INCALZA su Il Quotidiano del Sud il 12 febbraio 2022.  

Ritengo opportuno e indispensabile fare una precisazione: le considerazioni che seguiranno sono essenzialmente una forte provocazione generata da una consuetudine ormai cristallizzata su alcuni presupposti. Ecco quali.

I PRESUPPOSTI DELLA CONSUETUDINE CRISTALLIZZATA

• Il Sud ha ricevuto tante risorse, molte di più delle percentuali più volte condivise a livello parlamentare; ciò è vero ed è vero anche che tali assegnazioni purtroppo non vengono spese e rimangono solo riferimenti percentuali.

• Le risorse assegnate al Sud dal Pnrr sono davvero rilevanti e questo convincimento però non tiene conto che il rilevante contributo comunitario è motivato essenzialmente dall’urgenza di superare, in modo organico, l’eterno gap che allontana sempre più il Mezzogiorno dal resto del Paese e che rischia di compromettere la crescita dell’intero sistema socio economico nazionale.

• La riconosciuta ormai da tutti assenza di organicità sia nelle scelte che nelle opere da avviare nel Sud; una organicità richiesta più volte formalmente dalla Unione europea e disattesa proprio nella definizione delle proposte.

• La necessità di prospettare un’ impostazione programmatica che, senza chiedere risorse aggiuntive ma utilizzando quelle del Pnrr e quelle non spese del Programma 2014 2020 del Fondo di coesione e sviluppo, possa prospettare una possibile iniziativa da assumere in occasione del previsto tagliando al Pnrr che si farà agli inizi del 2023.

Può sembrare, quindi, un titolo folle e, al tempo stesso, utopico ma, per evitare di cadere in facili equivoci, pongo alcuni interrogativi e, al tempo stesso, tento, in modo asettico ed obiettivo, di fornire alcune risposte.

Perché la Ue ha dato un volano di risorse così rilevante all’Italia?

Nell’autunno 2019 si tenne a Palermo un’assemblea di tutte le Regioni periferiche della Unione europea; questa occasione la richiamo sempre perché il Direttore generale delle Politiche regionali della Ue, Marc Lemaitre, precisò: «Spesso ci sentiamo dire che la politica di coesione non produce nulla di positivo per lo sviluppo del Sud. Ma voglio richiamare l’attenzione sulla consistente riduzione degli investimenti nazionali al Sud fino al punto di neutralizzare e rendere vano lo sforzo europeo nelle politiche regionali nel Mezzogiorno. Addirittura l’Italia si era impegnata a realizzare investimenti nel Sud, nel periodo 2014-2017, per un importo pari allo 0,47% del Pil delle Regioni del Mezzogiorno, ma non siamo andati oltre lo 0,38% (cioè il 30% in meno)».

Ho ritenuto opportuno ricordare questo intervento perché Lemaitre è il massimo livello dei funzionari della Ue e, leggendo ancora il suo intervento, rimaniamo colpiti dalla sua ulteriore denuncia: «I Mezzogiorni d’Europa sono vere zavorre per la crescita di tutti i Paesi dell’Unione europea».

Per cui, secondo Lemaitre, sarebbe stato opportuno dare vita ad interventi articolati non in due distinte aree: una nel Centro-Nord e una nel Sud, ma tutto e solo nel Sud. Infatti solo una operazione forte in un arco temporale di 5-7 anni può davvero trasformare questo vincolo alla crescita dell’intero Paese.

Quindi questo grave handicap alla uniformità socio economica di un Paese chiave dell’intero sistema comunitario necessariamente dovrà essere, secondo Lemaitre, «un riferimento determinante nella definizione dei trasferimenti di risorse dall’Unione europea al Sud».

Eravamo nell’autunno del 2019, quindi non c’era ancora il Covid e non si parlava ancora di Pnrr. Tuttavia l’analisi di Lemaitre e il grave peso del Mezzogiorno nell’assetto economico dell’Italia nell’estate 2020 porteranno l’Unione europea a privilegiare in modo davvero imprevedibile il nostro Paese nella assegnazione delle risorse necessarie per attuare il Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Perché la Ue ha posto linee guida così vincolanti con un vincolo temporale, il 2026, così forte?

La Ue, in più occasioni, ci ha ufficialmente ricordato la nostra incapacità nell’attuazione dei Programmi supportati con risorse comunitarie; in particolare, sempre Lemaitre ribadì nell’Assemblea di Palermo, che era davvero inconcepibile che del Fondo di coesione e sviluppo 2014-2020, del valore di 54 miliardi, in cinque anni fossimo riusciti a impegnare solo 24 miliardi di euro e spenderne solo 4.

In realtà dare respiro temporale lungo ai programmi significa offrire una assurda opportunità: programmare, assegnare le risorse e non trasformare le progettualità in opere.

Purtroppo questa soglia del 2026 nel 2020 sembrava quasi accettabile, ma oggi stiamo capendo che, in realtà, siamo incapaci a dare consistenza concreta agli atti programmatici; dopo 21 mesi, almeno per quanto concerne le infrastrutture, non è partito ancora alcun cantiere e al 31 dicembre 2026 rimangono solo quattro anni e mezzo.

Tra l’altro sarebbe bene ricordare anche due altre scadenze: entro il 31 dicembre 2023 dobbiamo spendere 30 miliardi di euro del Programma supportato dal Fondo di coesione e sviluppo 2014-2020 e, entro il 31 dicembre 2027, dobbiamo spendere le risorse relative al Programma supportato dal Fondo di coesione e sviluppo 2021- 2027 che dovrebbe essere di circa 73 miliardi di euro.

Queste scadenze, lo ha ribadito proprio ultimamente la Ue, non potranno essere in alcun modo disattese o prorogate e, quindi, la scadenza temporale diventa finalmente un chiaro e improcrastinabile vincolo a fare e, al tempo stesso, una chiara denuncia nei confronti di chi utilizza le assegnazioni solo come annuncio, solo come promessa politica e non come misurabile occasione di riassetto socio economico.

Qual è l’indicatore più preoccupante che l’azione del Pnrr dovrebbe affrontare in modo organico?

Senza dubbio l’indicatore primario sono i Livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi (Lep) che vanno garantiti in modo uniforme sull’intero territorio nazionale. Questo perché riguardano diritti civili e sociali da tutelare per tutti i cittadini. La Costituzione affida allo Stato, come competenza esclusiva, il compito di definire i Lep (Articolo 117 comma 2 lettera m della Costituzione).

Al netto di quelli già impliciti nelle normative vigenti, sono ancora molti i settori in cui i Lep devono essere definiti, dai servizi sociali al trasporto locale. Ciò rappresenta una questione istituzionale di primaria importanza, perché significa che il dettato costituzionale resta inattuato su un punto dirimente: la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni consegue necessariamente un aggravio di spesa per le casse dello Stato.

In realtà definire i Lep significa stabilire quali servizi e prestazioni devono essere offerte in tutto il Paese, per garantire i diritti sociali e civili dei cittadini. Oggi già disponiamo di dati che denunciano in modo davvero tragico la distanza tra due Regioni come l’Emilia Romagna e la Calabria; in particolare la distanza relativa ai servizi socio educativi adeguati: in Emilia Romagna l’89% dei Comuni garantisce tali servizi, in Calabria solo il 22,8%.

Potrei continuare a elencare queste tragiche distanze ma penso che sia inutile ricordare a noi stessi ciò che conosciamo da sempre. Penso però che sia sufficiente un dato per convincersi che il Pnrr si configura come l’unica ultima occasione per rendere nel nostro Paese, nell’arco di un decennio, omogenei i dati relativi al Prodotto interno lordo pro capite; non possiamo avere un Pil pro capite in una città della Sicilia o della Calabria o della Puglia pari a 17.000-18.000 euro e un Pil pro capite di un Comune della Lombardia o del Piemonte pari o, addirittura, superiore ai 40.000 euro.

Sono queste distanze che dovrebbero davvero farci capire quanto da sempre si sia sottovalutata l’azione “organica” dello Stato nei confronti di una parte essenziale del Paese.

Cosa si intende per “organicità” nell’azione attivata dalla Ue con il Pnrr?

Pensare all’avvio di lotti, anche se funzionali, dichiarare che finalmente è partito qualcosa, rassegnarsi al fatto che l’avvio alla realizzazione di un lotto “è meglio di niente”, sono comportamenti tipici della rassegnazione di una parte del Paese che, con il passare del tempo non sta più mantenendo il suo ruolo di “parte del Paese” ma sta sempre più caratterizzandosi come un “altro Paese”: un Paese del sottosviluppo, un Paese dell’irreversibile immobilismo economico.

Dichiarare che in fondo, però, si è realizzato nell’ultimo ventennio l’autostrada Palermo -Messina o l’autostrada Salerno -Reggio Calabria, significa giustificare e ammettere che contemporaneamente non si è fatto altro, non si è cioè, data “organicità” alla offerta, a quell’offerta infrastrutturale che i cittadini del Sud chiedevano e chiedono da sempre.

L’Unione europea, il Commissario Gentiloni in più occasioni ci hanno ricordato formalmente che le opere del Pnrr devono rispondere prioritariamente alla logica della “organicità funzionale”.

Mi chiedo cosa ci sia di organico nella proposta di un lotto ferroviario ad alta velocità nella linea Salerno-Reggio Calabria, cosa ci sia di organico nella realizzazione di un lotto dell’asse ferroviario Taranto-Metaponto-Potenza-Battipaglia, cosa ci sia di organico nella realizzazione di un lotto della Roma-Pescara o del sistema ferroviario ad alta velocità Palermo-Messina-Catania.

LA PROVOCAZIONE

Purtroppo la risposta è banale: non vi è alcuna organicità ma solo una assurda soddisfazione mediatica, un gratuito recupero di consenso. Voglio per questo fare una provocazione: l’organicità e, al tempo stesso, la possibilità davvero di dare adeguata risposta alla tragica emergenza del Sud, alla tragica assenza di un’offerta infrastrutturale adeguata poteva e doveva contenere il quadro programmatico riportato di seguito. Molti diranno: ma in tal modo avremmo assegnato quasi tutte le risorse per la infrastrutturazione al Sud. La mia risposta è scontata: solo grazie al Sud il nostro Paese ha ottenuto un volano di risorse così elevato.

Sicuramente, di fronte a una simile proposta, o meglio di fronte a una simile provocazione, prenderà corpo un’immediata critica. Molti, infatti, diranno: in fondo questo volano di risorse utilizzerebbe tutte le risorse a fondo perduto del Pnrr. In realtà non si tiene conto che sarebbe opportuno rivedere integralmente l’utilizzo dei 30 miliardi di euro non spesi del Programma del Fondo di coesione e sviluppo 2014-2020 e in tal modo non ci sarebbe bisogno di aggiuntività.

Tuttavia, anche se in tal modo il Sud fagocitasse tutta la quota a fondo perduto del Pnrr saremmo però in grado di:

• Riconoscere finalmente al Mezzogiorno la rilevanza del ruolo posseduto nell’ottenimento delle risorse.

• Dare attuazione completa a un processo di infrastrutture e di azioni organiche.

• Abbattere in otto-dieci anni quell’assurda distanza legata al Pil pro capite tra Centro Nord e Sud.

Questa mia ipotesi, ripeto questa mia assurda provocazione, sarà ritenuta sicuramente utopica, ma spero che almeno che il presidente Draghi e la ministra Carfagna entrino nel merito, perché prima o poi qualcuno chiederà per quale motivo si sia preferito, proprio nel Mezzogiorno, sposare la vecchia logica che trasferisce al futuro la soluzione delle emergenze, la soluzione delle criticità.

Solo oggi abbiamo questa occasione carica di risorse e solo fra dieci mesi faremo un primo tagliando al Pnrr. Ebbene, siccome fra otto mesi non sarà partito ancora nulla, il presidente Draghi mediti sull’opportunità di rileggere integralmente l’approccio seguito nella redazione del Pnrrper gli interventi nel Sud.

È l’ultima occasione che non possiamo e non dobbiamo perdere.

LA POLEMICA. «Cari Sala e Fontana, è giusto che i fondi vadano al Sud». Cerco di astenermi sempre dalle polemiche ma questa volta davvero non resisto. Scrivo per il profondo imbarazzo istituzionale che ho avvertito sulla mia pelle a seguito della pubblicazione del fuo…Pubblicato il 10/02/2022 da Paolo Pappaterra, direzione regionale Pd, su corrieredellacalabria.it.

Cerco di astenermi sempre dalle polemiche ma questa volta davvero non resisto. Scrivo per il profondo imbarazzo istituzionale che ho avvertito sulla mia pelle a seguito della pubblicazione del fuorionda tra il sindaco Beppe Sala e il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana su una loro discussione sul PNRR.

Trovo disdicevole ed imbarazzante non la discussione in sé ma l’idea di Paese che si ha. In quelle parole emerge una forte – ancora – ed anacronistica contrapposizione tra due parti di territorio Nazionale. Scandalizza l’idea delle troppe risorse del PNRR destinate al Sud.

Pensate un po’, noi siamo scandalizzati del fatto che ne vorremmo ancora di più. Non è in gioco la quantità ma la qualità. Ebbene, nel Mezzogiorno d’Italia abbiamo dimostrato più volte di saperci fare autogol clamorosi: mancata programmazione, inefficienza della pubblica amministrazione, una difficile cultura nella cooperazione imprenditoriale e per non farci mancare nulla inefficienza della spesa sui Fondi Europei. Abbiamo avuto i nostri limiti (tanti e gravi), non li nascondiamo. Ma questo non giustifica l’idea di Paese che avete.

Il Mezzogiorno d’Italia ha più risorse sul PNRR per il mero motivo che vi state “impoverendo”, state arrivando al vostro grado di stagnazione economica.

Il moltiplicatore di sviluppo del nord cresce se la ricchezza prodotta nel Mezzogiorno aumenta. Le risorse sono destinate al Sud perché chiediamo ancora l’alta velocità (per voi qualcosa ormai banale). Le risorse maggiori sono destinate al Sud perché abbiamo aziende di eccellenza che non vogliono delocalizzare e vogliono rimanere qui chiedendo sacrosanti diritti, servizi, per creare opportunità occupazionali. Le risorse maggiori sono destinate al Sud perché abbiamo fame di riscatto, sappiamo essere resilienti e perché nel momento di difficoltà sappiamo unirci e dimostrare di essere grandi. Le risorse sono destinate al Sud perché abbiamo dimostrato, nella storia, di essere straordinari innovatori. Le risorse sono destinate al Sud perché sarà l’ultima chance per metterci all’opera e cercare di rimediare agli errori del passato dandoci la possibilità di chiedere scusa ai tanti giovani che sono stati costretti a scappare via dalle nostre meravigliose Regioni. In ultimo, la maggior parte delle risorse sono destinate al Sud, perché forze più lungimiranti di noi – la madre Europa – ha scelto che dovrà essere il Sud a crescere.

Forse ho sbagliato a scrivere, dando l’idea differenziata tra “noi” e “voi”, ma a volte credo sia giusto far notare le differenze di vedute. Noi vogliamo che l’Italia cresca, partendo dal Sud. Voi, non so.

Non sarà uno scontro istituzionale ma è arrivato il momento di combattere marcature politiche che riteniamo fuori luogo ed appartenenti a vedute del passato. In ultimo, se “volete farvi furbi” iniziate a mandarci i tanti ingegneri figli del Sud che si trovano al nord, gli economisti, ragionieri, geometri, personale scolastico, marketing manager, architetti, sviluppatori turistici, etc., perché a noi mancano e ci servono per mettere a terra le risorse del PNRR e magari sceglieranno di rimanere qui, con la loro famiglia, per un’equa distribuzione di chi ha tanto avuto e di chi non ha mai ottenuto.

Se cresce il Sud, cresce l’Italia. Non è una frase fatta o ad effetto ma la banale, semplice e cruda verità.

Ora a lavoro che in questo mese e nel prossimo scadono una marea di Bandi per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e sì, destinati per il Sud.

·        Educazione civica e disservizi.

Terra dei miracoli. In Italia non c’è una cosa che funzioni, non vedo perché la sanità debba fare eccezione. Guia Soncini su L’Inkiesta il 2 Dicembre 2022

Mamme milanesi che si lamentano delle interminabili ore d’attesa al pronto soccorso per il catarro dei figli, ma se il barista medio non sa farti il cappuccino della temperatura giusta e il fattorino medio non ha voglia di fare le scale per consegnarti la cena, per quale motivo medici e infermieri dovrebbero saper fare il loro lavoro?

Potrei partire dall’inverno del 1982 e dalla mia schifa infanzia, ma comincerò invece dall’autunno 2022 e dalle schife infanzie dei vostri figli. Partirò da una serie di tweet di una madre milanese il cui figlio aveva la febbre.

Cronaca di molteplici vane telefonate al pediatra, di ore d’attesa al pronto soccorso con bambini seduti per terra tutti marci di catarro e plausibilmente veicoli di contagio, di questa è Milano signora mia, il tutto con molti tag fotografia del paese reale e della di esso idea di chi siano i risolutori di problemi: Assia Neumann e Report, Myrta Merlino e il comune di Milano.

Sotto, una sleppa di anch’io: anche a me il pediatra privato viene a casa ma quello pubblico no, anche il mio puccettone ha avuto la febbre senza che si mobilitasse il ministro della Sanità, anch’io madre disperata da quando la pediatra come-le-facevano-una-volta è andata in pensione.

Ho letto questa conversazione nella sala d’attesa d’un medico, privatamente retribuito, il quale mi ha visitata con un’ora di ritardo e dopo un quarto d’ora smaniava per concludere la visita. Comunque meglio del medico della mutua (di base, si dice in neolingua) che avevo a Milano, una dottoressa che al terzo minuto in cui le elencavi i tuoi sintomi già stava andando verso la porta per far entrare il successivo paziente della catena di montaggio.

Di recente ho rivisto Il medico della mutua, il film del 1968 in cui Sordi interpretava per la prima volta il dottor Guido Tersilli, all’epoca neolaureato e smanioso di accumulare pazienti non solventi: lo Stato gli avrebbe corrisposto cifre tanto più alte quanti più ne avessero affollato l’ambulatorio. Se ricordo bene nell’ultima scena, che doveva farci capire come ormai il dottor Tersilli fosse diventato avido e disinteressato al benessere dei malati, la sua segretaria gli fissava un appuntamento ogni mezz’ora, poveri pazienti come polli da batteria.

Mi rendo conto che come-si-stava-meglio-nel-Novecento è un’attitudine stucchevole e noiosissima, ma è difficile negare che si stesse meglio quando non eravamo otto miliardi, quando le risorse pubbliche non erano state drenate da gente ipocondriaca quanto me ma determinata a farsi fare gratuitamente tutti gli esami superflui, quando mezz’ora non era un tempo di visita nel quale non puoi sperare neanche se quello specialista lo paghi alcune centinaia di euro.

Il medico della mutua milanese riceveva due pomeriggi a settimana (mai capito cosa facesse il resto del tempo lavorativo che le mie tasse contribuivano a remunerarle, visto che a domicilio abbiamo conferma dalle mamme che non ci vengono neanche in caso di morte imminente), e non sono mai riuscita a farmela passare al telefono: la segretaria di Joe Biden è probabilmente un filtro meno efficace della sua.

Quella di Bologna, non so se perché in mezzo c’è stata la pandemia o perché è giovane e ha più disinvoltura con la tecnologia, un giorno mi ha perfino richiamata: stavo per mettermi a piangere come quando il biondino per cui avevo avuto una cotta per tutte le medie mi dichiarò il suo amore dopo che ero andata a vivere a quattrocento rassicuranti chilometri di distanza.

Purtroppo la giovinezza garantisce familiarità con WhatsApp ma anche una certa qual incapacità di capire alcunché. Il dottore che ho avuto prima di lei sosteneva che il colesterolo a 258 non necessitasse di medicinali (commento mio: ma poverino, è del ‘93, lei si ricorda quant’era scemo a 29 anni?; risposta del mio cardiologo ultrasessantenne: meno di così). A una giovane farmacista (il dramma dei giovani farmacisti inetti potrebbe diventare una grande commedia) ho dovuto spiegare io che no, sul computer a Bologna non le compare la ricetta dell’antibiotico che mi ha scritto un medico romano: la sanità è a gestione regionale, ha fatto di recente le medie, se le ricorda le regioni?

Quand’ero giovane e raccomandata, era tutto più semplice: il medico della mutua era amico di papà, la farmacista era amica di papà, gli specialisti essendo amici di papà non solo ti ricevevano senza appuntamento ma neppure li pagavi. Quando nell’inverno dell’82 il pediatra venne alle undici di sera, appena arrivammo a casa dall’aeroporto, venne perché all’epoca il servizio sanitario nazionale era giovane e tonico, o perché era amico di papà? E quando, dopo dieci giorni di convinzione di tutti – mio padre medico e i quattro primari suoi amici con cui eravamo in villeggiatura africana – ch’io avessi la malaria, spiegò come mai dieci giorni di chinino non mi avessero abbassato la febbre con un icastico «E tu saresti un medico? È varicella», stava forse offrendoci uno squarcio di futuro?

Non è, non vorrei minare le certezze delle mamme di puccettoni con pediatri a chiamata retribuita, neanche un problema di sanità pubblica – che ovviamente è peggio, come tutte le cose illusoriamente gratuite; ma, rispetto a quando sul pianeta eravamo la metà, è peggioratissima anche quella privata. Quest’estate ho dato, a un centro milanese privato, l’equivalente d’un medio stipendio e mezzo per un check-up. A parte l’episodio dell’infermiere Mario, già narrato su queste pagine, mi hanno dimenticata due ore in sala d’attesa, alcuni specialisti erano irritati perché in ritardo per la pausa pranzo e non avevano tempo per ascoltare i miei sintomi, e l’agosto italiano è sacro, quindi i risultati sono arrivati due mesi dopo e gli esami del sangue erano ormai inattendibili e da rifare.

D’altra parte, il barista medio non sa farti il cappuccino della temperatura giusta; il fattorino medio non ha voglia di fare le scale per consegnarti la cena (Just Eat, ancora aspetto il rimborso della sera in cui m’hai lasciata digiuna, ormai due settimane fa); portare i broccoli a domicilio pare sia impresa che richieda un praticantato alla Nasa (Cortilia, ancora aspetto tu mi restituisca i soldi della spesa fradicia e frammista a vetri esplosi, neanche venisse da Beirut, che ti ho rimandato indietro quaranta giorni fa: fai pure con calma); il tassista medio non conosce le strade, l’avvocato medio non conosce i codici, il giornalista medio non conosce la grammatica. Per quale anomalia statistica la sanità dovrebbe invece essere una terra dei miracoli i cui abitanti sanno fare il loro lavoro e in cui tutto funziona come fosse il Novecento e i titoli di studio e le qualifiche professionali significassero qualcosa?

Parcheggia in doppia fila e dice «si faccia gli affari suoi». In quella frase il segno di una sottocultura mafiosa. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Novembre 2022

«Ma, lei, perché non si fa gli affari suoi?» sibila la signora. Ma si capisce che non ha alcuna curiosità di conoscere la ragione per la quale, a sentir lei, «non mi faccio gli affari miei». L’espressione è fraseologica, rientra nell’armamentario di formule che si usano per attutire l’improperio, una specie di eufemismo banale che, a seconda del tono, modula ostilità e rancore, minaccia e sfida, invito a tirare a campare o a tirare dritto: l’elogio dell’omertà o del menefreghismo. Gli è che la signora sta tentando di abbandonare la sua automobile in doppia fila, ad un metro dal semaforo accanto alla mia, parcheggiata regolarmente, intasando il traffico e impedendomi di uscire liberamente.

Gli è che le dico, prima con tono scherzoso, che dovrò andar via e che lei me lo proibisce. Gli è che, nonostante la pacata e innegabile verità che affermavo, obietta testarda che si tratterrà solo pochi minuti, ma io le faccio notare che, comunque, sono troppi perché è proibito fare quello che sta facendo e che il suo tentativo di oberare con il suo veicolo strada e passo pedonale costringendomi a contorsioni per farmi uscire e ostacolando ancora più gravemente il traffico ossessivo del centro della città, è un illecito orribile.

È a questo punto che, da leggero scambio di battute, l’incontro diventa un alterco e arrivano la domanda stupida e micidiale e, immediata e altrettanto micidiale e, forse, stupida, anche la mia reazione di ira e sdegno. «Come si permette di chiedermi perché non mi faccio gli affari miei? Sono affari miei. Eccome. Il traffico, l’ossequio alle regole, l’educazione civica, il rispetto dei diritti degli altri sono affari miei». Lo capirà mai, la dubbia signora? È tempo sprecato: con questa gente l’indignazione è fatica buttata via.

Ad un certo punto, la ex signora sembra esser vittima di uno strano incidente. È stata fulminata da un pensiero (addirittura): aspettare la mia partenza e parcheggiare regolarmente. È più intelligente di quanto sembri, anche perché non potrebbe esserlo di meno. Ma le sono grato perché con la sua domanda: «Ma lei perché non si fa gli affari suoi?» mi ha ricordato la paludosa e mortifera filosofia spicciola annidata in quella frase: un misto di egoismo e autoreferenzialità espresso dal quel «farsi gli affari propri», quel rafforzativo del possessivo, al limite del pleonasmo, che esprime il sospetto per gli altri, la negazione intenzionale della cura per il mondo esterno, la attenzione solo al proprio «particolare».

Un tempo a Bari vecchia, ognuno puliva con cura il quadrato di strada davanti alla propria casa, sicuro che anche gli altri avrebbero provveduto a farlo. E la strada, alla fine, era decente. Oggi, a Bari e in Italia, non solo non si fa pulizia davanti al proprio uscio, ma si cerca di sporcare lo spazio degli altri, salvo, poi, ad insolentire il servizio di nettezza urbana. Perché “si fanno gli affari propri”.

Del resto, annidati nella frase idiomatica, ci sono gli affari. Non a caso. È la mentalità che sorregge la crisi di questo Paese, il non aver cura per la collettività, per il bene comune, quel menefreghismo militante alimentato dalla convinzione che le leggi, le norme, siano solo invenzioni dello Stato per avvilire l’iniziativa privata, tanto privata da spingersi a concepire come legittimi solo gli “affari” propri. È quel sentimento di estraneità alle istituzioni e allo Stato, quel senso di “alienità” che fa abitare il cittadino di queste città, infedele allo spirito dei padri fondatori della civiltà dei lumi, un proprio spazio privato, estraneo alla collettività e arroccato in un egoismo spaventoso.

Privato e armato per sostenere l’assedio delle istituzioni, anche quelle stanche e rinunciatarie che ci obbligano a sopravvivere in città puzzolenti e oberate da un traffico disumano e insolente. E, infatti, fai una passeggiata per le città italiane, soprattutto, ammettiamolo, al centrosud e ti rendi conto della resa della legge all’aggressione degli «affari propri». E, già, perché bene avrebbe fatto la signora ad avvertire me che inveivo contro il suo comportamento incivile, che potevo comportarmi come lei che i suoi affari se li stava facendo benissimo: infischiarmene, abbandonare la macchina in doppia fila e godermi la serata. Ma che mondo è? La sottocultura mafiosa istigata dal familismo perverso agita valori forti che si riducono a nascoste e vigorose radici famigliari, il senso della comunità declina, la convivenza torna a accreditarsi come belluina legge del più forte o del più furbo e si delinea solo un orizzonte gradito: quello del consumo.

Ma la pratica visibile e materiale del consumo diventa solo una componente minima del complesso modello di edonismo individuale che, in gran parte, ha luogo nell’immaginario del consumatore che, oggi, è alle prese con una società delle svalutazioni e delle disparità sempre più accentuate. Chi si farà solo gli affari propri, fatalmente, impedirà agli altri di farsi i loro. La Res pubblica diventa la Res nullius. Andando alle elezioni bisognerebbe ricordarsene e non astenersi dal voto rassegnati. C’entra? C’entra!

Antonio Giangrande: Italia. Educazione civica e disservizi.

Sosta selvaggia e raccolta differenziata dei rifiuti.

Lo scrittore e sociologo storico Antonio Giangrande, nel suo ultimo libro (L’Italia allo Specchio. Il DNA degli italiani. Anno 2019. Prima parte. In vendita su Amazon in formato Book o ebook) parla dei parcheggi e della raccolta e smaltimento dei rifiuti.

Italia. Sosta selvaggia ed incompetenza.

I turisti, nel mettere piede in Italia, la prima cosa che notano è che sulla strada ognuno fa quel che gli pare. E’ abbastanza irregolare la circolazione, ma allucinante è il comportamento di chi si ferma con il suo veicolo. Un codice della strada fai da te, insomma.

Il fenomeno più appariscente è la sosta selvaggia.

Ma è possibile che in Italia ognuno parcheggia come gli pare, con il benestare dei vigili urbani e delle amministrazioni comunali?

La trasmissione televisiva di Mediaset, Striscia la Notizia, da sempre e stranamente si occupa solo dei parcheggi riservati ai disabili, occupati da chi non ne ha diritto.

Addirittura, chi si ritiene il più onesto del firmamento, cade nella tentazione della sosta selvaggia: “Multe per doppia fila al comizio della Raggi. I grillini: è un complotto - scrive il lunedì 23 maggio 2016 Carlo Marini su Secolo d’Italia.- Comizio di Virginia Raggi a Roma. A Piana del Sole, periferia romana, gli slogan sono i soliti: “Onestà, onestà”. Ma basta l’arrivo dei vigili urbani per mandare nel panico l’aspirante sindaco M5S e i suoi sostenitori. Una voce dalla platea lancia l’allarme: «Stanno a fa’ le multe». «Proprio adesso dovevano venì». I grillini, che vedono “microchip sotto la pelle” e “complotti” dappertutto, non hanno dubbi. Li palesa il deputato pentastellato al tavolo della Raggi, Stefano Vignaroli «Cioè a Piana del Sole non si vede un vigile nemmeno…». Virginia tace e sorride imbarazzata. Il rispetto delle regole dovrebbe valere per tutti. Anche per chi sa solo gridare “onestà, onestà”.

Eppure in Italia è consentito parcheggiare, ovunque, anche quando non ci sono le strisce che delimitano l’area di sosta, e comunque, come in doppia fila. Il tutto salvo che non ci sia un espresso divieto di legge od amministrativo e che ci sia qualcuno che lo faccia rispettare.

Quindi, lungo la carreggiata cittadina, anche a doppio senso di circolazione, ove l’area di sosta non è delimitata dalle strisce bianche o blu, auto, camper e roulotte, autocarri con rimorchio ed autoarticolati, autobus ed autosnodati possono parcheggiare come, quando e quanto vogliono, pur se intralciano il traffico?

Per il codice della strada e per la Corte di Cassazione: Sì. Basta che ci sia lo spazio di transito pari almeno a 3 metri.

E per quanto riguarda la sosta in seconda o terza fila?

Il parcheggio in doppia fila è una pratica piuttosto diffusa, soprattutto nelle grandi città dove la carenza cronica di parcheggi crea molti disagi soprattutto a chi ha bisogno di fare una sosta breve, “al volo”, per fare una veloce commissione. Il nostro “5 minuti e poi la sposto” può creare gravi problemi alle auto che risultano bloccate e che non possono muoversi. Oltre ad intralciare la circolazione. “La lascio qui due secondi e torno subito” pensiamo, non rendendoci conto che stiamo infrangendo non solo il Codice della Strada, ma anche il Codice Penale, commettendo un vero reato. Quante volte è capitato di vedere un’auto parcheggiata in doppia fila e di augurarsi che un vigile facesse un’improvvisa comparizione per punire il colpevole?

La sosta in doppia fila è esplicitamente vietata dal Codice della Strada, all’articolo 158, comma 2, lettera c, dove stabilisce, con la stessa occasione, anche la sanzione amministrativa pecuniaria, che oscillerà tra un minimo di 41€ e un massimo di 168€ per i mezzi a quattro ruote, e tra un minimo di 24€ e un massimo di 97€ per le due ruote a motore. L’articolo successivo (art. 159 C.P.) sancisce addirittura la possibilità per gli agenti di Polizia di provvedere ad ordinare la rimozione forzata, nel caso in cui la sosta vietata costituisca un pericolo o un grave intralcio alla circolazione degli altri veicoli. La situazione può però aggravarsi e diventare persino un reato (quindi un’infrazione del Codice Penale), almeno secondo l’interpretazione della Cassazione. I Giudici infatti hanno stabilito con le sentenze 24614/2005 e 32720/2014 che la sosta in doppia fila è idonea ad integrare il reato di violenza privata, proprio a causa dell’ostruzione dell’unica via d’uscita di un altro veicolo.

Quando la legge chiude un occhio. Attenzione però, perché esistono delle situazioni in cui il parcheggio in doppia fila è tollerato. Questo significa che, anche nel caso in cui all’automobilista venga notificata la violazione dell’articolo 158, comma 2, lett. c, del Codice della Strada, egli potrà presentare ricorso e ottenere l’annullamento della sanzione. Ma quali sono questi casi e come individuarli chiaramente? Come è facile immaginare, la legge non specifica i singoli casi in cui sia possibile adottare o meno un certo comportamento, ma si limita a definire i principi fondamentali. I quali, nello specifico, si ritrovano nell’articolo 54 del Codice Penale, che recita: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.

Il caso specifico delle eccezioni. Per passare dai principi generali all’applicazione della legge, quand’è che la sosta in doppia fila è consentita? Si tratta di tutti quei casi in cui si prefigurino:

Carattere d’urgenza e imminenza;

Situazione di pericolo non evitabile (non esistono soluzioni alternative);

Condizione di gravità della situazione che si vuole evitare.

Ci penserà l’italica genialità a trovare l’eccezione e la latina persuasione a porre rimedio.

Rifiuti. Affari, ma non per tutti.

Oggetto di raccolta sono i rifiuti domestici e quelli cosiddetti assimilati ovvero quelli derivanti da attività economiche, artigianali, industriali che possono essere assimilati (con decisione del comune tramite apposita delibera) per qualità a quelli domestici.

Natura della tassa sui rifiuti. Il presupposto della tassa è l'occupazione di uno o più spazi, adibiti a qualsiasi uso e giacenti sul territorio del comune dove il servizio di smaltimento rifiuti è reso in maniera continuativa. Quindi, il presupposto impositivo non è il servizio prestato dal comune, ma la potenziale attitudine a produrre rifiuti da parte dei soggetti detentori degli spazi. Infatti, fatta eccezione per i comuni con popolazione inferiore a 35.000 abitanti, l'importo da corrispondere per questa tassa non è commisurato ai rifiuti prodotti, ma alla quantità di spazi occupati. Tali presupposti danno a questa tassa natura di imposta anziché di tassa, il cui importo viene invece commisurato al servizio prestato. Un altro elemento che lascia propendere verso la natura di tributo è dato dal fatto che la Tassa non è soggetta a IVA, come lo sarebbe invece stato qualunque tipo di servizio.

Ma come mai più si differenzia, più si paga?

Più si conferiva il tal quale indifferenziato, meno si pagava. Che strano ambientalismo!

Prima c’erano i cassonetti dell’indifferenziata. Poche spese e pochi operatori ecologici. In alcune zone scatta l’emergenza dei rifiuti, più per complotti politici e speculazioni economiche per la gestione delle discariche.

Poi ai tradizionali cassonetti si sono aggiunti i contenitori per carta, plastica, vetro, formando le isole ecologiche. Più spese e più operatori ecologici, ma anche più guadagni per la vendita del differenziato. In alcune zone aumenta l’emergenza dei rifiuti, più per complotti politici, ma crescono le speculazioni economiche: per la gestione delle discariche e per gli affari sul differenziato.

La politica si inventa l’ecotassa. Tributo speciale per il deposito dei rifiuti solidi in discarica.

Poi siamo arrivati all’oggi. Raccolta porta a porta dei rifiuti. Distribuzione dei contenitori per il conferimento dei vari rifiuti, divisi per specie. In alcuni paesi cinque, ad altri solo due. I colori sono differenti da paese a paese.

Ogni bidone (utenze non domestiche) o bidoncino (utenze domestiche) avrà il suo giorno stabilito per essere svuotato.

L’utente ha bisogno di una laurea. Finisce come la parodia di Ficarra e Picone nel film: l’Ora legale. Ficarra si mangia la buccia del melone, non sapendo dove buttarla e chiede: “Voi a Milano i tovaglioli sporchi di sugo dove li buttate?”

OGNI BIDONE UN COLORE, OGNI COLORE UN TIPO DI SPAZZATURA, TU LI SAI?

Cerchiamo di capire quali sono i colori più utilizzati per i bidoni della spazzatura nella raccolta differenziata dei rifiuti, non esiste ancora uno standard, ma in linea di massima queste sono le colorazioni più usate.

Pur non essendo ancora ufficialmente uno standard, si può dire che per la raccolta differenziata i vari colori dei bidoni seguono questo schema:

Bianco: Carta, cartone (riviste, giornali e materiali cellulosici in generale)

Verde: Vetro (bottiglie, barattoli, specchi, etc.)

Rosso o marroncino: Organico (umido)

Giallo: Plastica riciclabile (bottiglie di bevande, detersivi, prodotti per l’igiene, etc.)

Blu: Alluminio (lattine, imballaggi, bombolette spray, etc.)

Va comunque detto che essendo i comuni gli assegnatari dei vari colori in alcune zone potrebbero esserci delle variazioni, infatti ci sono zone in cui i bidoni blu sono destinati a carta e cartone, quelli verdi a vetro e lattine, quelli gialli alla plastica, quelli marroni o rossi ai rifiuti non riciclabili, quelli arancioni all'indifferenziata e quelli neri ai rifiuti organici. Ma non è finita qui, ad ogni sacco un colore, ad ogni colore un tipo di spazzatura, secondo voi vale la stessa regola e lo stesso abbinamento di colori che abbiamo appena visto per i bidoni?

Sempre che i bidoni rimangano in nostro possesso in comodato d’uso, perché un nuovo sport prende piede: il furto di bidoni e bidoncini. Le denunce presentate posso riempire centinaia di questi bidoni. E la burocrazia anche in questi casi punisce in modo grave. Dopo la denuncia seguono giorni di attesa e di adempimenti per la sostituzione di un bidoncino di pochi euro di valore.

Poi bisogna combattere anche con l’arroganza degli operatori che ti riprendono per ogni errore: smaltire un certo tipo di rifiuti in giorni sbagliati o in orari sbagliati.

Se poi gli operatori minacciano di sanzione in caso di errore, allora l’ansia cresce.

Intanto le utenze domestiche diventano bombe ecologiche, con tanti contenitori sparsi per casa che non trovano posto.

E che dire delle città e dei paesi che sono delle vere bidonville maleodoranti, ossia strade invase da bidoni perenni posti sui marciapiedi (da 2 a 5 per utenza non domestica, come negozi, ristoranti, attività artigianali e professionali, ecc.).

Dove ci sono loro (i bidoni) è impedito il transito ai pedoni.

Intanto i pseudo ambientalisti osteggiano i termovalorizzatori per meri intenti speculativi.

Rifiuti organici, in Italia un giro d'affari da 1,8 miliardi di euro. Aumenta la raccolta nel 2017, a livello nazionale passa da 107 a 108 kg la raccolta annuale procapite. Lombardia in testa per produzione, scrive La Repubblica il 16 Febbraio 2019.

Sulle tariffe rifiuti, l’Italia non è unita (e i virtuosi sono pochi). I dati sulle tariffe rifiuti fotografano un Paese iperframmentato: i virtuosi pagano meno e solo al top per raccolta differenziata e tariffazione puntuale, scrive Rosy Battaglia il 14.12.2018 su valori.it. Se il giro d’affari dell’industria del riciclo è stimato in 88 miliardi di fatturato, con ben 22 miliardi di valore aggiunto, ovvero l’1,5% di quello nazionale, come riporta lo studio di Ambiente Italia (promosso da Conai e da Cial, Comieco, Corepla e Ricrea) quanto costano, invece, i rifiuti alle famiglie italiane?

I miliardi nel cassonetto: chi vince e chi perde nel grande business dei rifiuti. Un giro d’affari di 11 miliardi: i profitti tutti al Nord e all’estero, dove arrivano centinaia di treni e camion dalle regioni del Centrosud rimaste gravemente indietro, che non possono fare altro che imporre tasse più alte, scrive Daniele Autieri su La Repubblica il 22 maggio 2017.

Raccolta differenziata, tra conflitti di interesse e dati segreti: “Costi a carico delle casse pubbliche”. Tra opacità e critiche dell'Antitrust, il sistema Conai non garantisce la copertura dei costi di raccolta a carico dei Comuni con i prezzi di fatto definiti dai produttori di imballaggi. Una situazione capovolta rispetto a quella di altri Paesi europei, scrive Luigi Franco l'8 Ottobre 2016 su Il Fatto Quotidiano. Domanda numero uno: quanta plastica, carta o vetro da riciclare ha raccolto il tal comune? Domanda numero due: lo stesso comune quanti contributi che gli spettano per legge ha incassato a fronte dei costi sostenuti per la raccolta differenziata degli imballaggi? Due domande le cui risposte sono contenute nella banca dati Anci–Conai prevista dagli accordi tra l’Associazione nazionale dei comuni italiani e il Conai, ovvero il consorzio privato che è al centro del sistema della raccolta differenziata degli imballaggi. Numeri non diffusi ai cittadini, che possono contare solo su un report annuale con dati aggregati. Ma i dati aggregati non sempre vanno d’accordo con la trasparenza. E soprattutto non rendono conto delle incongruenze di una situazione su cui l’Antitrust di recente ha espresso le sue critiche, mettendo nero su bianco che “il finanziamento da parte dei produttori di imballaggi dei costi della raccolta differenziata non supera il 20% del totale, laddove invece, dovrebbe essere per intero a loro carico”. Con la conseguenza che a rimetterci sono le casse pubbliche, visto che tocca ai comuni coprire gran parte di quei costi.

Inceneritori in Italia, dove sono e qual è la differenza coi termovalorizzatori. Diversamente dai primi, i termoutilizzatori producono elettricità e non inquinano. Ma c'è il problema CO2. Da Nord a Sud, la mappa completa, scrive Paco Misale il 19 novembre 2018 su Quotidiano.net. Inceneritori e termovalorizzatori. In molti li identificano come la stessa cosa. In realtà, non è così. I primi sono impianti che bruciano i rifiuti e basta, mentre i secondi sono impianti che bruciano i rifiuti per generare energia. Gli inceneritori sono impianti vecchi, che oggi non si costruiscono più: si preferiscono i termovalorizzatori, che permettono non solo di distruggere i rifiuti, ma anche di produrre elettricità.

Termovalorizzatori e inceneritori, ecco verità e bufale, scrive Nino Galloni su Starmag il 19 novembre 2018. Perché si confondono termovalorizzatori e inceneritori? Ha ragione Matteo Salvini, per due ordini di motivi:

1) né le discariche né la differenziata rappresentano la soluzione del problema;

2) il patto o contratto di governo è fondamentale (come rispettare il sabato) ma se ti cade l’asino nel pozzo lo vai a tirar fuori anche se è sabato.

Tuttavia, sia Salvini, sia la stampa e la televisione hanno parlato di termovalorizzatori e di inceneritori. Bene, quarant’anni fa c’erano gli inceneritori e una discreta mafia se ne interessò, ma la loro capacità di inquinare e rilasciare diossina quando gli impianti si raffreddavano era massima. Vent’anni fa arrivarono i termovalorizzatori – dotati di filtri – riducevano l’inquinamento del bruciare, ma non abbastanza, in cambio fornivano energia elettrica da combustione (legno, rifiuti, gasolio, tutto può bruciare). Oggi esistono gli Apparati di Pirolisi; due brevetti italiani, Italgas e Ansaldo. Oggi, dunque, esistono Pirolizzatori di cui un tipo che emette gas combustibile, inerti ed anidride carbonica; ed un altro che non emette l’anidride carbonica perché svolge al chiuso i processi. Perché non si parla di dotare l’Italia di questi apparati attuali? Perché si confondono termovalorizzatori e inceneritori? Perché la mafia non solo non si è interessata ai Pirolizzatori, ma anzi, li ha osteggiati in tutti i modi entrando nella politica e nell’economia per impedirne la diffusione? Perché a Roma Virginia Raggi ed il suo staff non hanno voluto prendere in considerazione tale proposta? Ci sono anche altre tecniche non aerobiche – in cui, sempre al chiuso, intervengono i batteri – e che consentono di trasformare la risorsa “rifiuti” in concimi, fertilizzanti e gas naturali, combustibili, a impatto ambientale negativo (cioè risolvono più problemi dell’abbandonare i rifiuti – come tali – a sé stessi o cercare di riciclarli in modo non efficiente). Intendiamoci, la differenziata e l’economia circolare sono buonissime idee; ma perché vetro, metalli, plastica eccetera vengano recuperati occorre dotare le città di industrie adeguate, non mandare tali risorse in Svezia o in Germania (che, invece, al pari di alcuni lodevolissimi comuni italiani – ma l’eccezione conferma la regola- sanno approfittare di tali opportunità. Credo che dell’ambiente – e non solo – si debba ragionare in modo non propagandistico, valutando bene, di ogni cosa, l’impatto economico, finanziario e sociale. (Estratto di un articolo tratto da Scenari economici)

Rifiuti. Cosa fanno a Parigi. Scrive il Consorzio Recuperi Energetici. Un termovalorizzatore in parte interrato che tratta 460 mila tonnellate di rifiuti l’anno sull’argine della Senna. Vi sembra una fantasia? No è la realtà dell’impianto di Syctom Isseane, a Issy -les- Moulineeaux, un Comune della cintura di Parigi. Il progetto raggruppa 48 Comuni che hanno aderito ad un medesimo piano e si sono messi insieme per smaltire i rifiuti, realizzando quest’impianto. Dal 2007 il centro tratta i rifiuti prodotti di circa un milione di abitanti...Un’apposita carta della qualità ambientale è stata sottoscritta con il comune di Issy che garantisce le condizioni di qualità, di sicurezza e di protezione dell’ambiente. L’impatto sulla salubrità dell’ambiente è regolato da limiti rigorosissimi. Un impianto simile e forse anche più avanzato è quello di Firenze almeno sul ciclo dei rifiuti. Qui si raggiunge il 54% della raccolta differenziata ed entro il 2020 è previsto il 70%. Il termovalorizzatore di Case Passerini eviterà che i rifiuti residui, ossia quelli non riciclabili, siano inviati altrove producendo energia elettrica equivalente al fabbisogno annuo di 40 mila persone, climatizzando l’intero aeroporto ed eliminando lo smog causato dai camion che trasportano rifiuti nelle discariche.

Copenaghen, l'inceneritore con pista da sci sul tetto. Di Maio: "Ce la vedo ad Acerra..." Tutto pronto per il nuovo termovalorizzatore costato 670 milioni di dollari. Produrrà energia a impatto zero. Attorno un parco con piste ciclabili e impianti sportivi. Sul lato più alto della struttura la parete artificiale d'arrampicata più alta del mondo, scrive Paco Misale il 19 novembre 2018 su Quotidiano.net

·        Quello che siamo per gli stranieri.

Estratto dell’articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 4 novembre 2022.

A dispetto della retorica sovranista, e quindi oltre "l'orgoglio", "la Patria prima delle madri", "la Nazione", "a testa alta", "pensare in grande" e consimili, ecco che "l'italianità", anch'essa menzionata come "valore strategico" nel discorso di presentazione della premier alle Camere, è da sempre e al massimo livello un concetto ambiguo e fuggevole, per non dire ambivalente, per cui addirittura Machiavelli poteva confidare: "Noi altri d'Italia, poveri, ambitiosi et vili". 

Ebbene, fra le pieghe di questa benedetta italianità ha fatto in tempo ad annidarsi una più prosaica, ma ragionevole espressione che torna specialmente utile quando i nostri governanti si presentano all'estero, e ben si adatta dunque all'esordio di Meloni: non facciamoci riconoscere.

Sia consentito notare che tale appello di solito ha poco a che fare con questioni di collocazione ideologica, e molto invece con lo stile, il contegno, la conoscenza del mondo, la mancanza di provincialismo e l'uso delle lingue. Né si tratta di andare o meno "con il cappello in mano". 

(...) il peggior modello può farsi risalire a Vittorio Emanuele Orlando che nel 1919, sempre a Parigi, nel negoziare con gli alleati aveva versato tante di quelle lacrime che Clemenceau, sofferente di prostata: «Che felicità se potessi pisciare come quell'italiano piange!». 

Meloni e i suoi consiglieri possono dunque darsi una ripassata alla storia. Quella delle figuracce all'estero di leader della Prima Repubblica occupa la più ampia aneddotica.

Scelba, per dire, non conosceva né il francese né i suoi colleghi d'Oltralpe per cui tramanda la leggenda che quando gli venne presentato il presidente Pierre Mendès France rispose: «Piacere, Scelba Italia»; così come nel testo del brindisi a Mosca, il discorso di Gronchi scambiava la parola "myr", che in russo vuol dire pace, con "syr", formaggio. 

Negli Usa, d'altra parte, Leone cantò "Anema e core", con la mano sul petto, nello stesso viaggio in cui Moro ebbe avvertimenti niente affatto simpatici. E se Rumor, a Bruxelles, destò la più viva incomprensione nel far presente: «Siamo quasi in zona Cesarini», a Nuova Delhi l'astigiano Goria ottenne il massimo sconcerto spiegando ai suoi interlocutori indiani che gli imprenditori «sono dappertutto dei cani da tartufi». Ancora.

Partito De Mita con i suoi ragionamendi, pare che la Thatcher, ascoltandoli in cuffia, sospettasse di avere l'auricolare difettoso. Quanto a Craxi, decisamente esagerò con il numero degli ospiti, donde la celebre battuta, «Vado in Cina con Bettino e i suoi cari» da parte di Andreotti, uno dei pochissimi leader italiani di cui all'estero non ci si doveva mai vergognare - anche se permane il sospetto che il Divo fosse in prestito dalla Santa Sede.

Però poi arrivò Lui, e altro che farsi riconoscere! Solo il premier belga Di Rupo, l'unico a tenere a cuore la discriminante antifascista, rifiutò di stringere la mano al vicepresidente Tatarella. 

Fra corna, cucù, ostentazione di bandane con Blair, evocazione di kapò con il tedesco Scholz, eloquenti gesticolazioni rivolte alla signora Obama, schiamazzi davanti alla regina Elisabetta, mimo di mitra a sostegno di Putin, bacio della mano a Gheddafi, senza contare la nipotina attribuita a Mubarak, l'epopea internazionale di Berlusconi, pure minimalisticamente ribattezzata "diplomazia della pacca sulla spalla", celebra tuttora il Cavaliere quale supremo gag-man planetario, nonché campione assoluto di arci super mega e turbo italianità. Rispetto a certi brodini che sono seguiti è dubbio se compiacersene o no. 

Ma proprio al cospetto di questa sospetta grandezza, in fondo, l'enfasi patriottarda di Meloni già rischia di scivolare nel precipizio comico di cui in Italia non si arriva neanche a immaginare la profondità.

The Economist fa la caricatura dell'Italia per criticare Liz Truss. Pizza, spaghetti e instabilità. Il Tempo il 20 ottobre 2022

L'Economist mette alla berlina l'Italia con un colpo "di rimbalzo". Il settimanale finanziario prende di mira la premier britannica Liz Truss, che ha sostituito Boris Johnson a Downey Street. "Benvenuti a Britaly"; titola la rivista britannica che in copertina pubblica un’immagine della premier raffigurata con degli spaghetti arrotolati su una lancia a forma di forchetta, un elmo romano e uno scudo a forma di pizza con il disegno della Union Jack. Insomma, l'Italia  spaghetti, mandolino e instabilità politica...

"Un paese di instabilità politica, bassa crescita e subordinazione ai mercati obbligazionari", scrive The Economist ricordando come nel 2012, proprio Liz Turs e l’ex Canelliere dello Scacchiere, Kwasi Kwarteng, avevano usato l’Italia come monito in un opsucolo intitolato ’Britannia Unchained’. "Servizi pubblici gonfi, crescita bassa, scarsa produttività: i problemi dell’Italia e di altri paesi dell’Europa meridionale erano presenti anche nel Regno Unito", avevano avvisato Truss e Kwarteng. Ora, a dieci anni di distanza "Truss e il signor Kwarteng hanno contribuito a rendere il confronto inevitabile".

"La Gran Bretagna è ancora segnata da una crescita deludente e dalla disuguaglianza regionale. Ma è anche ostacolato dall’instabilità politica cronica e sotto il controllo dei mercati obbligazionari. Benvenuti in Britaly", si legge ancora nell’articolo dell'Economist. "Il confronto tra i due paesi è inesatto. Tra il 2009 e il 2019 il tasso di crescita della produttività del Regno Unito è stato il secondo più lento del g7 , ma quello italiano è stato di gran lunga peggiore. Il Regno Unito è più giovane e ha un’economia più competitiva. I problemi dell’Italia derivano, in parte, dall’essere all’interno del club europeo; quelli del Regno Unito, in parte, dall’essere fuori", scrive ancora il settimanale finanziario. 

L'insopportabile spocchia degli inglesi: fanno i superiori pure se affondano. Pietro De Leo su Il Tempo 21 ottobre 2022

Ci risiamo, con quel veleno sotto la maschera del sorriso, che dietro la satira nasconde tanto tanto pregiudizio. Ne sparge ampie gocce l'Economist, magazine britannico mai troppo placido rispetto la politica e la società italiana. Vedasi, in archivio, la famosa copertina di qualche lustro fa in cui Berlusconi venne definito "unfit", non adatto al ruolo di Presidente del Consiglio. Stavolta, però, è diverso. Stavolta il grafico si è buttato nello stereotipo più dozzinale, quello dell'Italia pizza, pasta e tanto caos. E così, il Belpaese viene innalzato ad unità di misura dell'instabilità politica. In questa chiave di lettura viene così raffigurata in caricatura Liz Truss, Primo Ministro conservatore, con tanto di elmo di Scipio ed espressione accigliata. Regge con il braccio destro una pizza a mo' di scudo, da cui è caduto uno spicchio (tanto per sottolineare il senso di disfacimento). Il braccio sinistro, invece, impugna una mega forchetta a mo' di lancia su cui è attorcigliato un rocchetto di spaghetti. Titolo: «Welcome to Britaly», locuzione eloquente per sottolineare che, oramai, la Gran Bretagna si è trasfigurata nell'Italia, e non è un complimento.

L'ambasciatore italiano a Londra, Inigo Lambertini ha diramato una dichiarazione (rilanciata sui social da Giorgia Meloni), che con eleganza ed ironia spiega: «Sebbene spaghetti e pizza siano il cibo più ricercato al mondo, per la prossima copertina vi consigliamo di scegliere tra i nostri settori aerospaziale, biotecnologico, automobilistico o farmaceutico». Tornando alla copertina, mancava qualche riferimento alla mafia, pratica su cui è inarrivabile il tedesco Spiegel con la famosa fotografia, rimasta nella memoria collettiva, della P38 appoggiata sul un piatto di spaghetti (a riprova della scarsa conoscenza della materia dimenticarono la canonica salsa di pomodoro). E come non aggiungere, al campionario di malignità, lo spot televisivo della francese Canal + nelle prime settimane del Covid, con un pizzaiolo che sputava su una funghi e peperoni prima di servirla ai clienti? In quei giorni, drammatici, il virus veniva percepito solo come una questione per lo più cinese e di un'Italia incapace di fronteggiare l'emergenza. Poi si è visto com'è andata.

Perché, in fin dei conti, il tema è sempre quello: lo stereotipo è un comodo rifugio per buttarla in confusione. Magari abbassando l'intensità di un'autoanalisi che non farebbe mai male, prima di guardare in casa altrui. Nel caso specifico, quasi come una nemesi qualche ora dopo l'anticipazione della copertina dell'Economist Liz Truss si è dimessa, gravata dal frontale su progetto di riforma fiscale che ha rischiato di innescare uno tsnunami finanziario, indebolita irrimediabilmente dalle dimissioni di alcuni ministri e sconfessata dal suo partito in un voto sul fracking. Il suo gabinetto è durato appena 44 giorni. E a sua volta subentrò a quello di un Boris Johnson. Anch'egli "smontato" dall'addio di mezzo governo e per di più fiaccato dagli strascichi politico-giudiziari del «party gate», uno scandaletto non devastante (aperitivi interni a Downing Street durante il lockdown) ma sfruttato dagli avversari interni e dagli oppositori. E se si affiancano a tutto ciò un Macron con un supporto parlamentare flebile, un Biden la cui popolarità in caduta, unendo i puntini si ottiene una crisi politica assai diffusa nei governi occidentali. Un tema ben più profondo rispetto all'indigestione da spaghetti. 

Britaly, l'ambasciatore italiano scrive all'Economist: "Vecchi stereotipi". Il Tempo il 21 ottobre 2022

"Leggere l'Economist è un piacere per ogni diplomatico. E, come ambasciatore italiano nel Regno Unito, a maggior ragione dal momento che dedicate un'attenzione costante all'Italia, tanto amata dai britannici. Ma l'ultima copertina sfortunatamente è ispirata a vecchi stereotipi". Lo ha scritto Inigo Lambertini, ambasciatore italiano nel Regno Unito, in una lettera indirizzata all'Economist, uscito in edicola con il titolo Benvenuti a Britaly e l'ormai ex premier Liz Truss raffigurata con una forchetta con gli spaghetti arrotolati e uno scudo di pizza. "Nonostante gli spaghetti e la pizza siano gli alimenti più ricercati al mondo, come seconda industria manifatturiera d'Europa, vi suggerisco per la vostra prossima copertina di effettuare una scelta tra i nostri settori aerospaziale, biotecnologico, automobilistico o farmaceutico. Qualunque sia la scelta, accenderà un riflettore più accurato sull'Italia, anche tenendo conto della vostra non tanto segreta ammirazione per il nostro modello economico", ha scritto l'ambasciatore Lambertini.

L'Economist scherza con la "Britaly". Ma l'Inghilterra sta peggio di noi. Gli errori della Truss e il cliché di pizza e spaghetti per ritrarla. Economia e stabilità politica: Regno Unito in crisi. Davide Zamberlan su Il Giornale il 21 Ottobre 2022.  

Londra. Ha vinto l'insalata. La sfida lanciata venerdì scorso dal Daily Star su chi sarebbe durato più a lungo tra un cespo di iceberg e la prima ministra inglese Truss si è conclusa ieri poco dopo pranzo. Le dimissioni giungono dopo meno di 24 ore da quando la stessa Truss ha dichiarato in parlamento «sono una lottatrice, non una che molla».

Il valore delle parole nella politica inglese degli ultimi mesi è crollato a un tasso enormemente più veloce del livello di inflazione attuale, attestato secondo gli ultimi dati usciti mercoledì al 10,1%, il più alto degli ultimi 40 anni. Il Paese si sta avvitando in una spirale negativa che, agli occhi dell'Economist, vuol dire Italia. Una Truss marziale in posa da dea classica, in una mano una forchetta impugnata a mo' di lancia con spaghetti penzolanti, all'altro braccio una pizza usata come scudo, il titolo «Benvenuti in Britaly»: è la copertina dell'ultimo numero del settimanale inglese, uscito prima delle dimissioni della prima ministra. Che l'Economist usi l'Italia come metro di paragone delle disgrazie inglesi potrà irritare molti commentatori al di qua delle Alpi ma illustra chiaramente il nodo della questione: Londra ha ora un grave problema di credibilità internazionale, simile a quello con cui convive l'Italia da molti anni.

Si potrebbe cominciare a fare il confronto economico dei due Paesi ed evidenziare come il debito pubblico italiano sia del 50% più alto di quello inglese in rapporto ai rispettivi prodotti interni lordi; obiettare che la dinamica dei conti è forse più favorevole a Roma che prevede un deficit al 5.6% per il 2022 contro un 2.6% acquisito per il primo trimestre di quest'anno da Londra a fronte però di un grande punto di domanda per il deficit sull'intero 2022 dovuto alle politiche annunciate e subito ritirate dal governo Truss; si potrebbe sottolineare che la bilancia dei pagamenti italiana è in positivo mentre quella inglese in profondo rosso; evidenziare però che la produttività è più alta oltremanica, così come la dinamica demografica nettamente più favorevole.

Confronti giusti ma che allontanerebbero dal cuore del problema che non è tanto economico quanto politico. O, meglio, di instabilità politica. Quello che succederà a Liss Truss sarà il quinto primo ministro inglese a partire dal 2016, la stessa progressione che si è registrata in Italia nello stesso periodo. La questione Brexit ha esacerbato le divisioni politiche nel Paese, lo ha infettato con i germi del settarismo politico, lo ha avvicinato alle dinamiche politiche italiane senza peraltro averne l'abitudine nè gli anticorpi. La mancanza di una credibile e coerente politica economica, l'incompetenza e la supponenza dimostrate dal governo Truss nel rendere pubbliche le proprie proposte hanno decretato la perdita di fiducia da parte dei mercati, degli elettori, dei parlamentari e minato fortemente la credibilità del partito conservatore e del Paese. Lunga sarà la strada per restituire a Britannia il tridente di Nettuno.

Dagospia il 20 ottobre 2022. E QUESTI SAREBBERO QUELLI "AUTOREVOLI"? - L’ECONOMIST, SETTIMANALE DI PROPRIETÀ DELLA FAMIGLIA AGNELLI, FA UN’ORRENDA COPERTINA CON UNA CARICATURA DI LIZ TRUSS, CHE TIENE IN MANO UNA FORCHETTA CON SPAGHETTI E PIZZA, E TITOLONE “WELCOME TO BRITALY”. IL SIGNIFICATO È CHIARO: IL REGNO UNITO È RIDOTTO MALE, MALISSIMO, COME L’ITALIA - JE PIACEREBBE! AVREMO PURE I NOSTRI GUAI, MA LA BREXIT L’HANNO VOLUTA LORO, MICA NOI: ORA ATTACCATEVE AR CAZZO (E TIRATE FORTE)

«WELCOME TO BRITALY»: LA COPERTINA DELL’ECONOMIST CHE SFOTTE IL REGNO UNITO PARAGONANDOLO ALL’ITALIA. Da open.online il 20 ottobre 2022.

La frase «Welcome to Britaly». E una caricatura di Liz Truss che tiene in mano una forchetta con spaghetti e una pizza. Le copertine dell’Economist hanno spesso fatto la storia (come quella su Berlusconi «unfit to lead Italy»). 

Ma nell’occasione l’obiettivo è il nuovo governo conservatore nato dopo l’addio di Boris Johnson. La nuova premier ha annunciato un taglio delle tasse che ha messo a rischio i conti del paese. E poi se l’è dovuta rimangiare. 

Insieme a gran parte del pacchetto fiscale che doveva costituire il cuore della sua politica economica. 

E mentre si rincorrono le voci sul governo già al capolinea, l’Economist ricorda che proprio Truss, insieme a Kwasi Warteng, era stata l’autrice di un opuscolo chiamato “Britannia Unchained“, nel quale metteva in guardia dal rischio di diventare un paese come l’Italia. Ovvero con crescita bassa, scarsa produttività e conti in disordine. Ebbene, chiosa l’Economist, tutto questo si sta avverando proprio mentre Truss è al governo. Non certo un buon inizio per la premier. E il rischio che la fine sia vicina si fa sempre più reale.

WELCOME TO BRITALY. Articolo di “The Economist” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 20 ottobre 2022.  

Un paese caratterizzato da instabilità politica, bassa crescita e subordinazione ai mercati obbligazionari

 Nel 2012 Liz Truss e Kwasi Kwarteng, due degli autori di un pamphlet intitolato "Britannia Unchained", hanno usato l'Italia come monito. Servizi pubblici ingolfati, bassa crescita, scarsa produttività: i problemi dell'Italia e di altri Paesi dell'Europa meridionale erano presenti anche in Gran Bretagna. 

Dieci anni dopo, nel loro tentativo malriuscito di tracciare un percorso diverso, la Truss e Kwarteng hanno contribuito a rendere il paragone ineludibile. La Gran Bretagna è ancora afflitta da una crescita deludente e da disuguaglianze regionali. Ma è anche frenata da una cronica instabilità politica e sotto il tiro dei mercati obbligazionari. Benvenuti in Britalia – scrive The Economist.

Il confronto tra i due Paesi è inesatto. Tra il 2009 e il 2019 il tasso di crescita della produttività della Gran Bretagna è stato il secondo più basso del G7, ma quello dell'Italia è stato molto peggiore. La Gran Bretagna è più giovane e ha un'economia più competitiva. I problemi dell'Italia derivano, in parte, dall'essere all'interno del club europeo; quelli della Gran Bretagna, in parte, dall'esserne fuori. 

Il confronto tra i rendimenti obbligazionari dei due Paesi è fuorviante. La Gran Bretagna ha un debito più basso, una propria moneta e una propria banca centrale; il mercato pensa che abbia molte meno possibilità di andare in default rispetto all'Italia. Ma se la Gran Bretagna non è una verità statistica, coglie qualcosa di reale. Negli ultimi anni la Gran Bretagna si è avvicinata molto all'Italia sotto tre aspetti.

In primo luogo, e ovviamente, l'instabilità politica che prima contraddistingueva l'Italia ha completamente contagiato il Regno Unito. Dalla fine del governo di coalizione nel maggio 2015, la Gran Bretagna ha avuto quattro primi ministri (David Cameron, Theresa May, Boris Johnson e la signora Truss), come l'Italia. 

È probabile che i Paesi rimangano uniti nel prossimo futuro. Giorgia Meloni dovrebbe prestare giuramento come nuovo primo ministro a Roma; il futuro della signora Truss non potrebbe essere più precario. La longevità dei ministri si conta ormai in mesi: da luglio la Gran Bretagna ha avuto quattro cancellieri dello scacchiere; il ministro degli Interni si è dimesso questa settimana dopo soli 43 giorni di mandato. La fiducia nella politica è diminuita di pari passo con l'aumento del caos: Il 50% dei britannici si fidava del governo nel 2010, oggi meno del 40%. Il divario con l'Italia su questa misura si è ridotto da 17 punti percentuali a quattro.

In secondo luogo, proprio come l'Italia è diventata il giocattolo dei mercati obbligazionari durante la crisi dell'eurozona, così ora sono visibilmente al comando della Gran Bretagna. 

I conservatori hanno trascorso gli ultimi sei anni inseguendo il sogno di una maggiore sovranità britannica; invece hanno perso il controllo. Silvio Berlusconi è stato rimosso dal potere in Italia nel 2011 dopo essersi scontrato con Bruxelles e Berlino; Kwarteng è stato cacciato dal suo incarico di Cancelliere dello Scacchiere a causa della reazione del mercato al suo pacchetto di tagli fiscali non finanziati. 

I trader di titoli di Stato sono gli arbitri della politica del governo britannico in questo momento. Jeremy Hunt, il nuovo cancelliere, ha eliminato la maggior parte dei tagli fiscali e ha giustamente deciso di ridisegnare il sistema di garanzia dei prezzi energetici del governo a partire dall'aprile 2023. Le decisioni che dovrà prendere per colmare il buco rimanente nelle finanze pubbliche sono state progettate tenendo conto dei mercati.

Proprio come gli italiani si preoccupano dello spread tra i titoli di Stato di riferimento e i Bund, così i britannici hanno avuto un corso accelerato su come i rendimenti dei titoli di Stato influenzino tutto, dal costo del mutuo alla sicurezza delle loro pensioni. In Italia istituzioni come la presidenza e la banca centrale hanno a lungo agito come baluardi contro i politici. Ora è così anche in Gran Bretagna. 

Ponendo fine all'acquisto di obbligazioni di emergenza il 14 ottobre, la Banca d'Inghilterra ha costretto il governo a invertire la rotta più rapidamente. Non c'è spazio per il signor Hunt per dissentire dall'Office for Budget Responsibility, un organo di vigilanza fiscale. Prima queste istituzioni erano dei vincoli per i parlamentari eletti, ma ora le catene sono strette e visibili.

In terzo luogo, il problema della bassa crescita in Gran Bretagna è diventato più radicato. La stabilità politica è un prerequisito per la crescita, non un "nice-to-have". I governi italiani faticano a portare a termine qualcosa; lo stesso vale per le amministrazioni brevi in Gran Bretagna. Quando i cambi di leader e di governo sono sempre dietro l'angolo, la pantomima e la personalità sostituiscono la politica. Johnson è stato soprannominato "Borisconi" da alcuni; continuando ad aleggiare sulla scena politica, potrebbe rendere questo paragone ancora più netto.

E anche se la disciplina fiscale dovrebbe calmare i mercati obbligazionari, non aumenterà di per sé la crescita. Hunt sta correndo per far quadrare i conti nell'ambito di un piano fiscale a medio termine che sarà presentato il 31 ottobre. Risparmiare denaro spendendo meno in infrastrutture andrebbe bene per i rendimenti dei titoli di Stato, ma non aiuterà l'economia a crescere. 

C'è poco spazio per tagli drastici ai servizi pubblici. È meglio eliminare gradualmente il "triplo blocco", una formula generosa per aumentare le pensioni statali, e raccogliere fondi in modi più sensati: eliminando lo status di "non-dom", ad esempio, o aumentando le tasse di successione. Un aumento dell'imposta sul reddito sarebbe meglio che ripristinare l'aumento dei contributi all'assicurazione nazionale, che ricadono esclusivamente sui lavoratori.

Per ora, la situazione sta diventando sempre più Britaliana. I deputati Tory sono in disordine, come dimostra il voto caotico sul fracking e le voci di ulteriori dimissioni, e sono di nuovo consumati dall'intrigo su quanto possa durare il loro primo ministro. La signora Truss è diventata l'equivalente umano di Larry il gatto, che vive a Downing Street ma non esercita alcun potere. Se i deputati Tory decidono di eliminarla, devono trovare un sostituto da soli piuttosto che affidarlo ai membri del Partito Conservatore. Le probabilità che le loro fazioni in lotta si accordino su una figura unificante sono basse.

Spaghetti junction

Di conseguenza, si sta rafforzando l'ipotesi di elezioni generali anticipate. È improbabile che ciò accada: perché i deputati Tory dovrebbero votare per la loro stessa fine? L'argomentazione secondo cui la signora Truss o qualsiasi successore non ha un mandato è errata in un sistema parlamentare. Ma se il Parlamento non è in grado di produrre un governo funzionante, allora è il momento di rivolgersi agli elettori. Quel momento si sta avvicinando.

Le elezioni non hanno risolto i problemi dell'Italia. Ma c'è motivo di essere più fiduciosi per quanto riguarda la Gran Bretagna, dove l'instabilità politica è ormai una malattia del partito unico. 

I Tories sono diventati quasi ingovernabili, a causa della corrosione della Brexit e del puro esaurimento di 12 anni di potere. La signora Truss ha ragione nell'individuare nella crescita il problema principale della Gran Bretagna. 

Tuttavia, la crescita non dipende da piani fantasiosi e da grandi colpi di scena, ma da un governo stabile, da una politica ponderata e dall'unità politica. Nella loro attuale incarnazione, i Tories non sono in grado di fornirla. 

Estratto dell’articolo di Luca Cifoni per “il Messaggero” il 22 ottobre 2022.

Britaly? Vi piacerebbe. O meglio, ci piacerebbe. La risposta all'Economist, che nella sua copertina aveva usato il paragone con l'Italia per descrivere gli attuali guai economici e politici della Gran Bretagna, viene sempre da Londra: è il Financial Times a evidenziare una fitta serie di dati che rendono il confronto decisamente sfavorevole per Londra, soprattutto in questa fase. [...] 

E i numeri parlano, soprattutto quelli che invece di supportare le tesi dell'Economist, raccontano una storia un po' diversa. Tanto per cominciare: l'instabilità politica sarà una vecchia tradizione italiana, ma un governo costretto a dimettersi dopo 44 giorni come quello di Liz Truss non si trova nemmeno nel repertorio dei nostri ormai mitologici esecutivi balneari, che comunque avevano ottenuto la fiducia dalle Camere.

[...] Il lassismo fiscale di cui si è resa protagonista Truss [...] si misura sul piano storico soprattutto in termini di saldo primario. Ovvero lo scarto tra entrate e uscite del bilancio pubblico, senza contare gli interessi sul debito. 

A differenza di quanto è accaduto nel Regno Unito, quel saldo per noi è sostanzialmente in avanzo dagli anni Novanta, con limitate eccezioni in corrispondenza dell'esplosione della grande crisi finanziaria e di quella pandemica. Ma proprio nel 2020 il disavanzo primario britannico è stato quasi doppio di quello tricolore e anche quello assoluto è risultato superiore di oltre un terzo. 

Certo, sui conti pubblici italiani pesa l'eredità del passato, ma proprio questa consapevolezza ha portato il nostro Paese su un percorso di rigore, probabilmente inevitabile ma in alcune fasi ovviamente penalizzante per la crescita. 

Il fatto che i problemi italiani vengano da lontano è evidenziato dal primato sullo stock del debito pubblico (con l'eccezione della Grecia). É un indicatore rilevantissimo che nessun governo si può permettere di non tenere sotto controllo. Esiste però anche il debito privato, quello accumulato da imprese e famiglie.

Nel nostro Paese è tradizionalmente contenuto, il che di per sé è una risposta, almeno parziale, all'accusa tradizionalmente rivolta agli italiani di vivere al di sopra delle proprie possibilità. 

Se questo è il metro, il rimprovero andrebbe più correttamente fatto ai sudditi di Sua Maestà: le sole famiglie britanniche hanno un indebitamento che in rapporto al Pil arriva all'85%, contro il 43% del Belpaese. 

La solidità di una nazione non si misura solo dai conti pubblici.

L'Italia soffre da tempo di bassa crescita, è vero, e questo in parte dipende [...] dalla stessa necessità di tenere i Btp al riparo dalle tempeste. Guardando però all'economia reale, l'Italia resta la seconda potenza industriale europea, sebbene la Francia tenti di insidiarla. E la minaccia su questo fronte non viene certo da Londra, che ha partire dagli anni 80 ha rinunciato a una parte del proprio sistema manifatturiero per puntare le sue carte sui servizi.

[...]  Nel confronto con la Gran Bretagna, il nostro Paese si colloca meglio anche per quanto riguarda export e posizione finanziaria netta sull'estero. Indicatori di cui l'Economist non ha tenuto conto. Se osserviamo in particolare il peso delle due economie nel commercio mondiale l'Italia [...] si avvicina ancora ad una quota del 3%, decisamente più rilevante di quella del Regno Unito. La Brexit, che nel 2016 nella propaganda del leave doveva rappresentare la soluzione ai mali della nazione, si è rivelata finora una fase difficilissima da gestire. Forse anche dall'Italia si può imparare qualcosa.

Marzio Breda per il “Corriere della Sera” l'8 ottobre 2022.

Basta una frase di 15 parole, a Sergio Mattarella, per rispondere al cronista che gli pone la questione se, dopo il voto del 25 settembre, l'Italia sarà messa davvero «sotto vigilanza» da parte dei Paesi stranieri (anzitutto quelli della Ue). 

Una replica perentoria, quel «sappiamo badare a noi stessi nel rispetto della Costituzione e dei valori europei», sillabata per zittire quanti alzano il sopracciglio, e la voce, davanti alla prospettiva di aver presto a che fare con un governo del centrodestra guidato magari da una come Giorgia Meloni.

Retropensiero esplicito: non c'è motivo di dubitare che Roma tradisca la propria Magna Charta, non rispetti i diritti civili o abbandoni la sua tradizione europeista. Non succederà. Del resto, abbiamo degli organi costituzionali (il Parlamento, la Consulta e, appunto, il Quirinale, che «veglierà» da garante, come ha sempre fatto in ogni evoluzione del sistema) in grado di assicurare coerenza al percorso democratico. Insomma: chi pretendesse di fare l'esame del sangue, politicamente parlando, al prossimo esecutivo, sappia che ce lo facciamo noi. Da soli.

È una messa a punto delicata - e ciò spiega anche l'asciuttezza con cui è espressa - quella che il capo dello Stato si sente in dovere di compiere. Lo ha fatto perché certe polemiche al limite dell'ingerenza, lievitate a volte anche sul masochismo di alcuni dibattiti di casa nostra, lo hanno reso sensibile al tema. 

Una la sollevò la premier francese Elisabeth Borne il giorno dopo la chiusura delle urne, chiamando in causa perfino la presidente della Ue, Ursula von der Leyen. Sortita subito liquidata da Emmanuel Macron («Il popolo italiano ha fatto una scelta democratica e sovrana la rispetteremo»), probabilmente in virtù degli ottimi rapporti personali tra lui e Mattarella.

Lo stesso schema si è riproposto ieri: una tagliente bordata della ministra per gli affari europei Laurence Boone, seguita da un analogo ripiegamento dell'Eliseo. per evitare che tutto sfociasse in un incidente diplomatico sull'asse Roma-Parigi. Che avrebbe ricreato i gravi imbarazzi della visita di fiancheggiamento ai «gilet gialli» dell'allora ministro, e vicepremier, Luigi Di Maio. 

La faccenda, insomma, ha il sapore del déjà vu, e ci riporta al botta e risposta tra Quirinale e Downing Street di quando Boris Johnson sentenziò che gli italiani avevano «poco amore per la libertà», e per questo motivo potevano accettare di buon grado il lockdown durante la pandemia da Covid.

Sentenza agra e senza rispetto, subito rintuzzata con freddezza dal nostro presidente, al pari di un'infelice battuta sullo spread della governatrice della Bce Christine Lagarde. Interferenze esplicite o minacciate, nelle quali echeggiavano di volta in volta vecchi pregiudizi, con cui dovette confrontarsi pure Oscar Luigi Scalfaro nel 1994, dopo aver tenuto a battesimo il primo governo di centrodestra. 

Quello che vedeva i postfascisti di Gianfranco Fini alleati di Silvio Berlusconi, insieme alla Lega di Umberto Bossi. Molti forse non lo ricordano, ma anche quell'esecutivo incontrò diffidenze in Europa. Un esempio eclatante: il Parlamento di Strasburgo chiese a Palazzo Chigi di «assicurare formalmente il rispetto dei valori dell'antifascismo». Iniziativa alla quale Scalfaro reagì legittimando l'esperimento politico con uno stizzito «non abbiamo bisogno di maestri».

Terremoto nella sanità lucana, Piro e quei rapporti con i clan: «Mia moglie è di Rosarno...». Lunedì l'interrogatorio di garanzia

L’eterno “vizietto” della Francia: tutte le ingerenze di Parigi. Andrea Muratore l'8 Ottobre 2022 su Inside Over.

La vittoria elettorale del centrodestra italiano ha portato con sé il ritorno delle ingerenze politiche della Francia, Paese con cui l’Italia ha una relazione storica profonda e contrastata oltre che un’inevitabile partnership ma ai cui dirigenti, troppo spesso, manca l’acume di considerare l’Italia come un pari. Emmanuel Macron, in questa fase, memore di passati scivoloni è silente. Ma dopo il 25 settembre due autorevoli esponenti del suo governo hanno parlato.

I ministri di Macron contro la Meloni

Ha iniziato il 26 settembre, a risultato ancora caldo, la premier Elisabeth Borne. Intervenuta ai microfoni di RMC-BFMTV, la premier transalpina è stata interpellata sull’esito del voto in Italia. “Mi rifiuto di commentare la scelta democratica del popolo italiano. Spetterà al presidente della Repubblica nominare il presidente o la presidente del Consiglio”, ha dichiarato la Borne, dichiarandosi pronta a collaborare con Giorgia Meloni, prima di assumere toni meno amichevoli: “Francia e Unione europea staranno attente al rispetto dei diritti umani e in merito all’aborto”, ha sottolineato riferendosi alle polemiche del mondo progressista internazionale sulle posizioni di Giorgia Meloni, leader della coalizione.

Il 7 ottobre è stata la volta del ministro francese agli Affari Europei Laurence Boone, che ha detto di voler vigilare sul “rispetto dei diritti e delle libertà in Italia” ricevendo un coro unanime di critiche. “L’era dei governi che chiedono tutela all’estero – ha avvertito la leader di Fratelli d’Italia – è finita”. Una risposta secca, a cui va aggiunta la sintomatica presa di posizione del Quirinale, garante negli ultimi anni della continuità dei rapporti italo-francesi. “L’Italia sa badare a sé stessa nel rispetto della Costituzione e dei valori dell’Unione europea”, le parole fatte filtrare dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

La duplice ingerenza non è una novità, purtroppo. Dalla fine della Seconda guerra mondiale più volte la Francia ha guardato alla “sorella latina”, che in momenti di lungimiranza strategica dovrebbe apparire come la gemella ideale per un’Europa centrata sul Mediterraneo e capace di arginare lo strapotere nordico, come a un partner di Serie B se non, addirittura, come a un satellite. Entrando a più riprese nella vita democratica del sistema-Paese. Poteri e contropoteri dello Stato francese hanno più volte visto nell’Italia un obiettivo su cui “speculare” per poter ottenere posizionamenti privilegiati sul fronte interno.

In principio fu De Gaulle

Già nel 1945 la Francia tornata libera sulla scia della vittoria degli Alleati dopo lo sbarco in Normandia e dell’avanzata dell’esercito della Francia Libera di Charles de Gaulle provò a muoversi per imporre una modifica territoriale alla nuova Italia democratica guidata da Alcide De Gasperi provando, con un colpo di mano, a impossessarsi della Valle d’Aosta.

“Alla formula brutale ma franca di Tito la Francia sostituisce quella plebiscitaria” scrisse a De Gasperi l’Ambasciatore italiano a Parigi e futuro capo dello Stato Giuseppe Saragat paventando una mossa di Parigi per imporre, durante un’occupazione seguita alla caduta della Repubblica Sociale Italiana, l’annessione della Val d’Aosta. Ipotesi poi tramontata solo grazie alla concessione dello Statuto Speciale alla piccola terra del Nord-Ovest, ma che fino al Trattato di Parigi del 1947 a Parigi molti paventarono come possibile.

Una mano francese dietro la morte di Mattei?

Tornato al potere a capo della Quinta Repubblica De Gaulle restò affascinato, dopo il 1958, dall’energia e dalla visione politica del fondatore dell’Eni, Enrico Mattei, che era noto essere tra i maggiori finanziatori del Fronte di Liberazione Nazionale dell’Algeria in lotta contro Parigi. De Gaulle, che capì la natura improba della conservazione dell’ultima colonia d’Africa, poté chiudere un occhio sul fatto che in nome della caccia alle concessioni energetiche il “corsaro” marchigiano lavorava per smantellare la parte finale dell’impero metropolitano di Parigi. D’altro canto, però, non mancò di sottolineare il ruolo d’apripista che Mattei giocava per ridimensionare la prevalenza delle compagnie energetiche anglo-americane, aprendo spazi decisamente ghiotti anche per Parigi.

Non era dello stesso avviso l’Organisation de l’Arméé Secréte (OAS), il gruppo terroristico che desiderava far pressioni sull’Eliseo per preservare a tutti i costi l’Algeria francese. E che per molti osservatori è la vera mano dietro la tragica morte di Mattei nell’incidente aereo di Bascapé del 27 ottobre 1962. Nell’ufficio dell’Eni di Roma in via Tevere la sera di venerdì 25 luglio 1961 giunse, a tal proposito, una lettera inquietante per Mattei: “L’Organisation de l’Arméè secrète, di cui avrete senz’altro sentito parlare in Algeria, e di cui conoscete certamente i mezzi di uccidere le persone fastidiose attraverso attentati (…) ha il piacere di farvi conoscere le decisioni che vi riguardano (…) di considerare come ostaggi e condannati a morte il commendator Mattei e tutti i membri della sua famiglia (moglie, figli eccetera). Questa decisione non sarà applicata che se, dopo questo avvertimento, il Signor Mattei continuerà le sue attività nefaste per la Francia e i suoi alleati”. L’ipotesi di una mano francese dietro la morte del fondatore dell’Eni e di una convergenza tra Oas e Cia per ucciderlo in quello che, lo ha testimoniato la giurisprudenza, non fu un incidente dettato da una tragica fatalità è stata da molti sottolineata.

Giulio Sapelli nel 2012 in un’intervista a Tempi ha dichiarato a tal proposito: “Mattei è stato ucciso dall’estrema destra francese, che lo aveva già minacciato di morte per l’appoggio che aveva dato e dava alla lotta degli algerini per la loro indipendenza”. “Non a caso”, ha scritto l’accademico torinese, “quell’attentato avviene nello stesso periodo dell’attentato a De Gaulle organizzato da quella stessa estrema destra; fortunatamente per il generale e per la storia della Francia quell’attentato non è andato a buon fine, ma quello contro Mattei – nel quale ha un ruolo importantissimo dal punto di vista della sua realizzazione la mafia italiana – invece riesce”.

La “dottrina Mitterrand”

Tra i più continuativi e dolorosi casi di ingerenza francese nella vita pubblica italiana si segnala, invece, l’applicazione continuativa della dottrina giurisprudenziale di François Mitterrand, primo presidente socialista della Quinta Repubblica, che non concedere l’estradizione a persone imputate o condannate, ricercati all’estero per “atti di natura violenta ma d’ispirazione politica” commessi contro qualunque Stato, al di fuori di quello francese, qualora i responsabili avessero concesso esplicitamente di aver detto addio a ogni forma di violenza politica.

La dottrina era dovuta in particolar modo a una concezione propria dell’intellighenzia progressista francese che vedeva nei metodi di lotta al terrorismo di molti Stati europei una violazione dei principi democratici della Republique. Si sostanziò in una serie di decisioni che finirono per concedere di fatto un diritto d’asilo a ricercati stranieri che in quel periodo decisero di trasferirsi in Francia. L’Italia, per congiuntura geografica, fu il Paese più interessato da questa norma che resse dal 1985 al 2002 continuativamente con la protezione di Mitterrand e del successore gollista Jacques Chirac. Nel 2002 fu estradato Paolo Persichetti, ex membro delle Brigate Rosse, ma molti membri delle organizzazioni eversive in fuga da quelli che nei salotti parigini erano ritenuti essere i metodi “fascisti” del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della squadra di combattenti che piegarono l’eversione rossa e nera in Italia trovarono per decenni ospitalità.

Rinnegata nel 2002 dallo Stato francese, la dottrina Mitterrand trovò e trova ancora applicazione giurisprudenziale. Non più tardi di quattro mesi fa, il 29 giugno 2022, la Corte d’Appello di Parigi ha negato l’estradizione di dieci terroristi rossi che Macron aveva promesso di restituire all’Italia richiamandosi agli articoli 6 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (certificanti la necessità di un “Equo processo” e del “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”). Violando dunque i diritti di cittadini e famigliari delle vittime dei terroristi in Italia che aspettano da anni sia fatta giustizia ai loro cari.

2011, il triplice fuoco francese contro Berlusconi

Nel 2011 si ebbe l’apogeo delle ingerenze francesi contro Roma dopo la nascita dell’Euro nel 2002. Nicolas Sarkozy, che si era legato al dito le mosse del governo italiano per togliere all’esclusivo comando francese l’intervento contro la Libia nel marzo precedente, fu decisivo per spingere l’Unione Europea a togliere il terreno sotto i piedi al governo Berlusconi IV, al cui tracollo concorsero il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea guidati da due francesi: Christine Lagarde, oggi alla guida dell’Eurotower, e Jean-Claude Trichet.

Sarkozy spinse, assieme a Angela Merkel, perché l’approvazione della Commissione Europea per gli sforzi di Berlusconi contro la crisi finanziaria venissero invertiti e i decisori francesi alla guida di Bce e Fmi concorsero a scatenare il clima di sfiducia verso Roma. In estate l’’azione del governo Berlusconi e del suo ministro dell’Economia Giulio Tremonti aveva ricevuto dal Consiglio europeo il 21 luglio un appoggio al drastico piano di contenimento di spesa e deficit promosso con la manovra d’emergenza. A ridosso di tale mossa però la Bce prima promosse due incauti rialzi del tasso di sconto, che crebbe dall’1% all’1,50%, mandando nella bufera i Btp italiani in una fase in cui necessitavano di liquidità e poi mandò la famosa “letterina” a Berlusconi sulla necessità di impellenti riforme.

Seguì, al G20 di Cannes, l’affondo della Lagarde, fedelissima di Sarkozy, che evidenziò il “problema Italia”, perorò il commissariamento del Paese sotto la Troika, dichiarò la necessità di piani di emergenza da 70-80 miliardi di dollari per Roma. Il famoso sorriso sardonico di Sarkozy sulla credibilità di Berlusconi fece il resto, contribuendo a costruire il mito dell’isolamento internazionale del Cavaliere che altri protagonisti dell’epoca, dal premier spagnolo José Luis Zapatero al Segretario al Tesoro Usa Timothy Geithner, hanno scritto nelle loro memorie di non aver riscontrato. Ma che risultò decisivo per la “sfiducia” dei mercati, la marea montante dello spread e la sostituzione di Berlusconi con Mario Monti.

Cattivi presagi?

Al confronto con questi quattro casi le parole dei ministri francesi sembrano incidenti di percorso. Ma sono sintomatiche di un modo di pensare che spesso appanna i ragionamenti delle élite francesi. Anche Macron nel giugno 2018, pochi giorni dopo la nascita del governo gialloverde, parlò di “lebbra populista” in diffusione in Europa, salvo poi essere più cauto negli anni successivi. Oggi Roma e Parigi hanno l’interesse a cooperare contro il ritorno del rigore, il caro-energia, le minacce alla sicurezza del fianco Sud dell’Europa e a applicare il Trattato del Quirinale.

Ma se Giorgia Meloni si insedierà avendo di fronte pregiudizi come quelli dei due ministri francesi, sarà legittimo che a Roma torni il timore per settant’anni di rapporti controversi e spesso conclusisi in ingerenze esterne. A cui sommare la corsa, spesso predatoria, del capitalismo francese nella Penisola, che di certo non aiuta l’immagine transalpina in Italia. Chi ben comincia è a metà dell’opera: la Francia rischia di lavorare per fare dell’Italia un alleato meno limpido proprio nella fase in cui la cooperazione Roma-Parigi è più richiesta. E questo può essere un autogol in grado di indebolire l’Europa e l’agenda dello stesso presidente Macron.

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"Povera Italia", "Il fascismo non è mai finito". Il delirio della stampa tedesca contro il centrodestra. Alessandra Benignetti su Il Giornale il 26 Settembre 2022.

Dopo l’endorsement del presidente della Spd, Lars Klingbeil, nei confronti del leader dem Enrico Letta a Berlino e i titoli offensivi, come quello del settimanale tedesco Stern, che definiva "veleno biondo" la leader di FdI, c’era da aspettarselo. Ma stamattina la reazione della stampa tedesca alla vittoria del centrodestra trainata dal partito di Giorgia Meloni è stata più scomposta del previsto, tra gli allarmi sul ritorno del fascismo e quelli sulla tenuta dei conti pubblici.

I titoli sono eloquenti. "Povera Italia, povera Europa!", si legge su Der Spiegel, che si chiede se l’Ue è ad un passo dalla divisione e parla di "catastrofe annunciata". "Sarà l’apocalisse?", si chiede il settimanale. "Forse no", va avanti l’editoriale. Il motivo, tra gli altri, scrive ancora la rivista, è che "non si sa quanto a lungo reggerà questa truppa". La home page del sito è costellata di articoli sul voto italiano: il ricercatore Jörg Krämer, intervistato da Tim Bartz, sostiene che "la nuova coalizione di destra distribuirà soldi che l’Italia non ha".

Il settimanale di centrosinistra Die Zeit parla senza mezzi termini di ritorno al fascismo. Anzi. Precisano, "questa ideologia non ha mai abbandonato il Paese". Si è solamente trasformata in un "fascismo degli italiani per bene", questo il titolo dell’editoriale firmato da Ulrich Ladurner. "Il fascismo in Italia non è mai andato via", scrive il giornalista parlando del mausoleo di Benito Mussolini a Predappio e dei murales nelle città italiane. "Il fascismo è intessuto nel paesaggio architettonico italiano come una trama senza fine di violenza", descrive ancora Ladurner.

Poi c’è l’immancabile attacco a Silvio Berlusconi. Un cliché evidentemente intramontabile per la sinistra a Berlino. Il giornalista lo accusa di aver "sdoganato" il "post-fascista Fini" e di aver "reso socialmente accettabili i successori di Mussolini". "Sono usciti dai loro angoli bui e sono diventati ministri", continua l’articolo con riferimento proprio a Giorgia Meloni. Il quotidiano di Monaco Süddeutsche Zeitung descrive il "trionfo dei post-fascisti". "La sinistra deve rimproverarsi di aver corso divisa", è l’analisi. E osserva: "Mai nella storia dell'Ue un paese fondatore ha avuto un governo formato dalla destra estrema", sottolineando le "radici fasciste" di Fratelli d'Italia.

La linea del conservatore Die Welt non si distanzia di molto. La vittoria del centrodestra è "un successo dell’antipolitica", sentenzia. Fratelli d’Italia raccoglie i voti degli "insoddisfatti, frustrati e stanchi della politica". La Suddeutsche Zeitung parla del "trionfo dei post-fascisti", mentre il quotidiano di Francoforte, Frankfurter Allgemeine Zeitung, è più cauto. Raccontando la "svolta a destra" del nostro Paese, prevede che non ci sarà uno "smottamento politico". L’invito, però, è a scegliere un ministro dell'Economia all’altezza: "Giorgia Meloni adesso deve trovare personale qualificato per una politica economica e finanziaria degna di fiducia. Finora è qui che la casella è vuota".

I siti stranieri esaltano la Meloni. Ma la Cnn già parla del Duce. Marco Leardi su Il Giornale il 26 Settembre 2022.

Il primato elettorale del centrodestra italiano fa già notizia in Europa e nel mondo. In particolare, in riferimento alla vittoria di Giorgia Meloni. I primi dati sul voto nel nostro Paese hanno avuto immediata eco nelle redazioni dei principali media internazionali, che in questi minuti stanno dedicando spazio a quello che viene definito un vero e proprio "terremoto politico". All'estero tutte le testate hanno segnalato la scelta di campo effettuata dai cittadini italiani e in alcuni casi non sono mancati rosicamenti sull'indirizzo della nuova maggioranza politica. 

"L'estrema destra verso la vittoria alle elezioni", ha titolato la breaking news della Bbc. "Giorgia Meloni si avvia essere la prima premier donna in Italia, secondo gli exit poll", ha spiegato l'emittente britannica, sostenendo che - qualora i dati fossero confermati - la leader di Fratelli d'Italia "punterà a formare il governo italiano più di destra dalla seconda guerra mondiale". In Francia, il quotidiano Le Figaro ha informato i propri lettori del fatto che in Italia "la coalizione di destra ampiamente in testa". Tra i già citati rosicamenti stranieri si registra, proprio nel Paese transalpino, quello del quotidiano Le Parisien, che alla vigilia del voto aveva delegittimato il centrodestra e Giorgia Meloni parlando di "ombra di Mussolini" sul voto. "Il partito di estrema destra ha vinto questa domenica, un fatto senza precedenti dal 1945", ha scritto in un articolo il giornale francese, tradendo un certo disappunto per il risultato elettorale italiano.

Ma il leitmotiv stereotipato della destra al governo ha attecchito pure in Spagna. "L'ultradestra vince per la prima volta le elezioni in Italia", apre sul suo sito El Pais, sottolineando "l'astensione storica" nel voto di oggi e parlando di "terremoto politico". La testata tedesca Faz, alla luce dei primi risultati, ha aperto il proprio sito proprio con la notizia dell'affermazione elettorale del centrodestra, parlando di "destra radicale". "Meloni potrebbe guidare il futuro governo come prima donna premier italiana", si legge.

Titolo orientato politicamente per la Cnn. "Giorgia Meloni destinata a essere il primo ministro più a destra dai tempi di Mussolini", ha scritto l'emittente nella sua breaking news.

L’avviso di Ursula. Se in Italia le cose si complicano abbiamo gli strumenti per intervenire, dice von der Leyen. L'Inkiesta il 23 Settembre 2022

«Should Europe Worry?», titola in copertina il settimanale britannico The Economist. La presidente della Commissione Ue interviene a poche ore dal voto italiano ricordando a Meloni e alleati il congelamento dei fondi europei attuato con Polonia e Ungheria. A Bruxelles c’è piena consapevolezza dei rischi legati al possibile insediamento di un governo ostile

«Should Europe Worry?», «L’Europa deve preoccuparsi?», titola in copertina il settimanale britannico The Economist con una foto a tutta pagina del volto di Giorgia Meloni su sfondo tricolore. «A meno che i sondaggi non sbaglino clamorosamente, il 25 settembre gli italiani eleggeranno il governo più di destra della storia post bellica del loro Paese», si legge.

E la risposta a questa domanda arriva da Princeton, a pochi chilometri da New York, nelle parole della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Che, a 48 ore dal voto, manda un messaggio inequivocabile ai partiti italiani che si apprestano a guidare il prossimo esecutivo. «Noi lavoreremo con qualsiasi governo democratico che vorrà lavorare con noi», ha detto, ma «se le cose dovessero andare per il verso sbagliato, abbiamo gli strumenti» per rispondere.

A quali strumenti si stesse riferendo, la presidente della Commissione lo ha lasciato intendere chiaramente. «Ho parlato per esempio di Polonia e Ungheria», due Paesi che sono stati puniti con il congelamento dei fondi. Solo il fatto che von der Leyen abbia associato l’Italia a due nazioni che si stanno distinguendo per la linea sovranista, fa capire quanto il passaggio elettorale sia considerato delicatissimo nell’Ue.

Il riferimento di von der Leyen è alla decisione assunta una settimana fa dal Parlamento europeo, che ha approvato una relazione che condanna «i tentativi deliberati e sistematici del governo ungherese volti a minare i valori europei» e che esorta le istituzioni Ue a prendere misure contro l’Ungheria. Il testo afferma che «valori come la democrazia e i diritti fondamentali sono a forte rischio». Ma è passato con i voti contrari di Fratelli d’Italia e Lega.

Dopo aver pronunciato un discorso incentrato principalmente sui recenti sviluppi in Ucraina e sull’atteggiamento da tenere nei confronti della Russia, von der Leyen ha risposto ad alcune domande degli accademici.

Quando Erica Passoni, dottoranda del dipartimento tedesco, le ha chiesto se fosse preoccupata per il voto italiano e la vicinanza a Putin di alcune figure politiche, la sua risposta è stata: «Vedremo l’esito delle elezioni». Ma poi ha aggiunto: «È interessante vedere come funziona il Consiglio europeo, dove ci sono molte dinamiche di gruppo tra pari. Non può esserci un Paese che arriva e dice “voglio, voglio, voglio!”», è l’avvertimento a chi ha annunciato che «la pacchia è finita». E ancora: «Quando sei nel Consiglio realizzi una cosa: “Oh mio Dio, il mio futuro e il mio benessere dipendono anche dagli altri 26 Paesi”. Ma questo è il bello della democrazia. A volte siamo lenti, parliamo molto, lo so. Ma anche questa è democrazia».

Von der Leyen ha proseguito poi illustrando le due possibili soluzioni: «Vedremo. Se le cose andranno nella direzione sbagliata, e ho parlato per esempio di Polonia e Ungheria, abbiamo gli strumenti. Se invece le cose vanno per il verso giusto, le persone a cui un governo è tenuto a rispondere giocano un ruolo importante».

Eccola la frase sibillina della presidente, che che dall’inizio del suo mandato non si era mai espressa in maniera così netta prima di un’elezione. Una conferma che a Bruxelles c’è piena consapevolezza dei rischi legati al possibile insediamento di un governo ostile. Ma anche che c’è la volontà di mandare un chiaro segnale: in caso di deragliamento, l’Ue è pronta a usare anche con l’Italia la leva economica già azionata per cercare di riportare nei binari Polonia e Ungheria.

Ancor più esplicito di von der Leyen è il francese Stéphane Séjourné, segretario del partito Renaissance e anche capogruppo dei liberali di Renew Europe al Parlamento Ue. «Con questa coalizione di centrodestra guidata da Meloni – spiega alla Stampa – c’è effettivamente il timore che l’Italia si schieri con quei Paesi in cui si registrano derive sullo Stato di diritto e sulla corruzione». Per questo oggi sarà a Roma per chiudere la campagna della lista Azione-Italia Viva: «Abbiamo scelto di sostenere un’alleanza pro-europea che raccoglie l’eredità del metodo Draghi».

Secondo l’Economist, comunque, il possibile governo Fratelli d’Italia-Lega-Forza Italia sarà costretto in ogni caso a destreggiarsi entro i limiti imposti dalla politica europea, «dal mercato e dai soldi». Una vittoria di Meloni, agli occhi della testata britannica, va comunque vista nel segno di una continuità considerata inquietante con il successo conquistato la settimana scorsa della destra in Svezia o con il 41% di voti ottenuti in Francia ad aprile da Marine Le Pen nella sua corsa contro Emmanuel Macron. Sarebbe, scrivono, l’ulteriore segnale «di una poderosa svolta dell’equilibrio politico europeo verso l’estrema destra nazionalista». Un processo che il settimanale spiega del resto come il risultato di «elettori esasperati dai fallimenti dei partiti di establishment» e pronti  a «lanciarsi verso alternative non sperimentate e non collaudate».

Fuori luogo. Perché l’intervento di von der Leyen nella campagna elettorale italiana è stato un errore. Pier Virgilio Dastoli su L'Inkiesta il 24 Settembre 2022

La presidente della Commissione Ue avrebbe potuto risparmiarsi le dichiarazioni da Princeton sulle elezioni del 25 settembre. Perché, tra le altre cose, ci sono delle procedure europee nel caso in cui uno Stato o un governo minacci di violare i valori fondamentali dell’Unione

La Commissione europea non è mai intervenuta in una campagna elettorale nazionale, così come ha evitato per anni di intervenire nelle elezioni europee e nella campagna referendaria che ha aperto la via alla Brexit.

Nel caso delle elezioni europee e della Brexit noi riteniamo che il silenzio della Commissione europea sia stato un grave errore perché sarebbe stato suo diritto e suo dovere intervenire spiegando concretamente il valore aggiunto dell’integrazione europea

Nel caso delle elezioni italiane noi riteniamo che la dichiarazione di Princeton di Ursula von der Leyen sia stato un errore:

– perché ci sono delle procedure europee nel caso in cui uno Stato o, meglio, un governo minacci di violare i valori fondamentali dell’Unione europea;

– perché sono state stabilite di comune accordo delle condizioni per la concessione di prestiti e sovvenzioni legate al rispetto dello Stato di diritto giudicate dalla Corte di Giustizia conformi ai Trattati;

– perché – contrariamente alle sgangherate affermazioni di Salvini – i soldi del Next Generation Eu non sono degli italiani ma fanno parte di un debito pubblico europeo;

– perché il Trattato contiene due principi costituzionalmente vincolanti sulla solidarietà e sulla cooperazione leale.

Meloni, Salvini, Berlusconi e Lupi sono perfettamente coscienti di questi vincoli e non era necessario a nostro avviso ricordarli alla vigilia del voto del 25 settembre, sapendo che molti italiani sono convinti del valore aggiunto dell’integrazione europea a sostegno degli interessi del nostro Paese.

A quarantotto ore dal voto in Italia, Ursula von der Leyen avrebbe dovuto tacere. Quello che noi ci aspettiamo invece dalla Commissione, e che è stato fermamente richiesto dal Parlamento europeo a larga maggioranza, è che essa si batta concretamente perché i sistemi di garanzia dello Stato di diritto vengano resi davvero efficaci come avviene in un sistema federale e che non siano sottoposti al ricatto di un sistema confederale.

Von der Leyen sulle elezioni italiane: eurodeputati della Lega presentano un'interrogazione alla Commissione. Redazione Tgcom24 il 23 settembre 2022.

Gli eurodeputati della Lega Marco Zanni e Marco Campomenosi hanno presentato un'interrogazione alla Commissione europea, dopo le dichiarazioni della presidente Ursula von der Leyen sulle elezioni italiane, pronunciate all'università di Princeton, negli Stati Uniti. Von der Leyen "non ritiene questo intervento lesivo del principio di indipendenza della Commissione?", scrivono i due politici chiedendo un chiarimento. La leader europea aveva affermato che in caso in cui vincesse un partito sovranista, "abbiamo gli strumenti, come con Ungheria e Polonia". Negli ultimi mesi Bruxelles ha minacciato di tagliare i fondi europei ai due Paesi, in caso di leggi contro lo stato di diritto. 

Marco Bresolin per “la Stampa” su Il Corriere della Sera il 23 settembre 2022.

Con il sorriso sulle labbra, e in modo molto pragmatico, Ursula von der Leyen ha mandato dagli Stati Uniti un messaggio inequivocabile ai partiti italiani che si apprestano a guidare il prossimo esecutivo. «Noi lavoreremo con qualsiasi governo democratico che vorrà lavorare con noi», la premessa, ma «se le cose dovessero andare per il verso sbagliato, abbiamo gli strumenti» per rispondere. Quali? La presidente della Commissione lo ha lasciato intendere chiaramente: «Ho parlato per esempio di Polonia e Ungheria», due Paesi che sono stati "puniti" con il congelamento dei fondi (del Pnrr e, nel caso di Budapest, anche del bilancio Ue).

Dopo settimane di silenzio, passate a schivare la questione, Von der Leyen ha fatto la sua prima incursione elettorale. E lo ha fatto dall'Università di Princeton. Dopo aver pronunciato un discorso incentrato principalmente sui recenti sviluppi in Ucraina e sull'atteggiamento da tenere nei confronti della Russia, ha risposto ad alcune domande degli accademici.

E non si è sottratta quando Erica Passoni, una dottoranda del dipartimento tedesco, le ha chiesto se fosse preoccupata per il voto italiano. «Vedremo l'esito delle elezioni» ha esordito la presidente della Commissione. Che poi è andata al sodo: «È interessante vedere come funziona il Consiglio europeo, dove ci sono molte dinamiche di gruppo tra pari. Non può esserci un Paese che arriva e dice 'voglio, voglio, voglio!"» ha scandito sbattendo una mano sull'altra, facendo il verso a chi promette ai propri elettori di andare a sbattere i pugni sul tavolo di Bruxelles.

Spesso per i partiti sovranisti l'ingresso nei centri decisionali dell'Ue si rivela un bagno di realtà. «Quando sei nel Consiglio - ha proseguito - realizzi una cosa: "Oh mio Dio, il mio futuro e il mio benessere dipendono anche dagli altri 26 Paesi'. Ma questo è il bello della democrazia. A volte siamo lenti, parliamo molto, lo so. Ma anche questa è democrazia».

Chiuso il preambolo, l'ex ministra tedesca ha ammesso con molta franchezza le due possibili vie d'uscita: «Vedremo. Se le cose andranno nella direzione sbagliata, e ho parlato per esempio di Polonia e Ungheria, abbiamo gli strumenti. Se invece le cose vanno per il verso giusto...».

Dopo aver sospeso la frase ha aggiunto una frase sibillina che a poche ore dal voto potrebbe avere un significato particolare: «Le persone, a cui un governo è tenuto a rispondere, giocano un ruolo importante». 

L'inatteso intervento di von der Leyen, che dall'inizio del suo mandato non si era mai espressa in maniera così netta prima di un'elezione, conferma che ai piani alti delle istituzioni europee c'è piena consapevolezza dei rischi legati al possibile insediamento di un governo "ostile".

Ma anche che c'è la volontà di mandare un chiaro segnale a chi pensa di entrare a gamba tesa nelle stanze di Bruxelles al grido di "è finita la pacchia": in caso di deragliamento, l'Ue è pronta a usare anche con l'Italia la leva economica già azionata per cercare di riportare nei binari Polonia e Ungheria. E questo perché, pur essendo il nostro Paese un contributore netto del bilancio europeo, la quantità di risorse stanziate dal Recovery ha messo Roma nella stessa condizione di Varsavia e Budapest. Quella di chi ha molto da ricevere da Bruxelles.

Ancor più esplicito di von der Leyen è il francese Stéphane Séjourné, uno degli uomini più vicini a Emmanuel Macron, segretario del partito "Renaissance" e anche capogruppo dei liberali di Renew Europe al Parlamento Ue. 

«Con questa coalizione di centrodestra guidata da Meloni - spiega a "La Stampa" - c'è effettivamente il timore che l'Italia si schieri con quei Paesi in cui si registrano derive sullo Stato di diritto e sulla corruzione». Secondo Séjourné «l'asse tra Draghi e Macron aveva permesso di far progredire l'Europa su temi che ora rischiano di essere messi da parte». Per questo oggi sarà a Roma per chiudere la campagna della lista Azione-Italia Viva: «Abbiamo scelto di sostenere un'alleanza pro-europea che raccoglie l'eredità del metodo Draghi».

Marcello Sorgi per “la Stampa” il 24 settembre 2022.  

Anche se seguite da un chiarimento dopo la dura reazione di Salvini, le parole della presidente della Commissione europea Von der Leyen, che hanno messo sullo stesso piano la possibile Italia del dopo voto con Polonia e Ungheria, rivelano un pregiudizio di fondo delle autorità di Bruxelles nei confronti dell'eventuale governo di centrodestra che potrebbe uscire domani dai risultati delle urne.

Qualcosa che l'ambiguità mantenuta da Meloni e Salvini per tutta la campagna elettorale e il voto a favore di Orban all'Europarlamento di Strasburgo, o sulla mancata riforma fiscale, hanno finito con il radicare, ma che - è inutile nasconderlo - esisteva anche prima e non sarà facile rimuovere. 

Un ostacolo sulla strada dell'attuazione del Pnrr e dell'impiego dei 209 miliardi, che l'Europa ha garantito e di cui solo ieri ha sbloccato la seconda tranche. Il timore è che l'Italia, in mano al centrodestra a trazione meloniansalviniana, possa rinunciare al suo ruolo di membro fondatore dell'Unione alleato di Francia e Germania e scivolare sulla sponda di Paesi considerati reietti, come appunto Polonia e Ungheria.

Ma se l'affermazione di Von der Leyen è stata indubbiamente un errore, occorre chiedersi cosa hanno fatto gli alleati del centrodestra per fugare questa impressione. Due sere fa Berlusconi, correggendosi subito dopo, ha detto che Putin nei confronti dell'Ucraina è stato mosso da buone intenzioni: mettere un governo "per bene" al posto di quello di Zelensky. Come se sia lecito invadere un Paese con l'idea di sostituire un esecutivo scelto democraticamente dagli elettori con uno "fantoccio".

Alcuni giorni prima Meloni aveva pronunciato, rivolta a Bruxelles, la frase "la pacchia è finita", aggiungendo che d'ora in poi gli interessi italiani dovranno sempre essere messi davanti a quelli europei. Quanto a Salvini, si sprecano i suoi interventi contro le sanzioni decise a livello europeo e Nato contro Mosca per l'aggressione a Kiev. Questo per dire che Von der Leyen avrà certamente sbagliato a esprimere un pregiudizio nei confronti di un governo che ancora deve nascere e fare le proprie dichiarazioni programmatiche in politica estera. Ma Meloni, Salvini e Berlusconi, fino all'ultimo, la reazione della presidente della Commissione europea un po' se la sono tirata.

"Interferenze disgustose" Ira leghista contro Ursula. Sit-in e una mozione contro la presidente per la frase sugli "strumenti Ue" dopo il voto italiano. Pier Francesco Borgia il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

Una mozione di censura al Parlamento di Strasburgo, un sit-in davanti alla sede romana dell'Unione europea e un profluvio di reazioni indignate. L'ultimo giorno di campagna elettorale di Matteo Salvini e dei dirigenti della Lega è stato monopolizzato dall'invasione di campo della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.

Nel corso di una conferenza stampa a Princeton la von der Leyen ha mostrato una preoccupazione fuori misura sul risultato del voto di domani. È bastata una domanda sull'Italia perché la von der Leyen replicasse con una frase che somiglia a una velata minaccia: «Abbiamo gli strumenti se le cose vanno in una direzione difficile». E anche la toppa fa peggio del buco visto che, a chiarimento, la presidente delal Commissione ha aggiunto: «La democrazia è un costante lavoro in corso. Non è mai al sicuro».

Fare dell'Italia un Paese dove la democrazia è a rischio non è certo la trovata più efficace per commentare le ultime ore di campagna elettorale. E se c'è un effetto positivo prodotto da queste parole è quello di vedere tutti gli attori di questa campagna elettorale unirsi in un coro perfettamente armonico e senza stonature (a eccezione del Pd). Tutti sulla stessa nota anche se fino al giorno prima erano divisi su tutto.

Salvini si è mostrato il più indignato, tirando in ballo anche il premier Draghi. «Non ho colto reazioni del professore e presidente del Consiglio, Mario Draghi che rappresenta tutta l'Italia», commenta amaro il leader della Lega che poi aggiunge: «È un attacco alla democrazia, oltretutto con il ricatto: Mi fermi i fondi europei se Salvini blocca gli sbarchi o il nutriscore. È un atto di bullismo istituzionale e un vile ricatto».

Gli uffici di Bruxelles ieri hanno cercato di rimediare al pasticcio di Princeton. «La presidente von der Leyen - prova a spiegare Eric Mamer, portavoce della Commissione - ha spiegato che la Commissione lavorerà con tutti i governi che usciranno dalle elezioni e che vogliono lavorare con la Commissione europea». Parole insufficienti per il segretario leghista che chiede alla stessa presidente della Commissione europea di scegliere tra le scuse pubbliche o le dimissioni (che proprio la mozione di censura potrebbe provocare se ad approvarla sia una maggioranza qualificata nell'emiciclo di Strasburgo).

Anche Giorgia Meloni mostra irritazione. Da Napoli, dove ha chiuso la campagna elettorale, ricorda che nel corso di questa campagna elettorale sono state tante le «uscite a gamba tesa» arrivate da Bruxelles. Pur considerando le tardive correzioni della stessa von der Leyen, la leader di Fratelli d'Italia censura un atteggiamento che «nuoce più che altro alla credibilità della stessa Commissione».

Più sfumata la posizione di Forza Italia che, per voce del suo presidente Silvio Berlusconi, cerca di rassicurare sul ruolo di garanzia che il suo partito sarà in grado di ritagliarsi.

Dai grillini agli esponenti del Terzo Polo e persino Luigi De Magistris parlano di interferenze inaccettabili nei confronti. Diverso il caso di Enrico Letta che si è sentito chiamato in causa dalla chiosa del ragionamento della stessa Meloni che («c'è una responsabilità in questa cosa ed è della sinistra italiana che è andata in giro per tutto il mondo a sputare addosso alla sua nazione per cercare di vincere le elezioni»). Il segretario dem però sceglie Salvini come bersaglio della sua reprimenda: «Le sue parole sulla von der Leyen sono gravissime. Chiederne le dimissioni per un equivoco è un tentativo di radicalizzare lo scontro».

Letta cavalca il pregiudizio anti italiano dei tedeschi. La stampa tedesca dipinge la Meloni come la "donna più pericolosa d'Europa", mentre l'Spd rilancia il pericolo fascismo. Letta gongola ma così presta solo il fianco alle ingerenze di Berlino. Andrea Indini il 22 Settembre 2022 su Il Giornale.  

C'è un solo Paese in tutta l'Unione europea ossessionato dalle elezioni italiane e, in modo particolare, dall'eventualità che Giorgia Meloni possa diventare presidente del Consiglio: è la Germania. E c'è un solo leader politico che, dopo essere stato in gita a Berlino per intrattenersi con gli alleati dell'Spd, gongola dei continui attacchi tedeschi: è Enrico Letta. Come se il profluvio di editoriali contro la leader di Fratelli d'Italia o l'endorsement del presidente socialista Lars Klinhgbeil (sconosciuto dalla stragrande maggioranza degli italiani) possano portare qualche voto in più al Partito democratico. Quello che il segretario dem non coglie è che il provincialismo con cui lui e una certa stampa progressista italiana rilanciano le ingerenze di un altro Stato europeo non mina la credibilità del centrodestra ma la considerazione che all'estero hanno del nostro sistema democratico.

I tedeschi non sono nuovi a certi pregiudizi. Nell'aprile del 2020, all'inizio della crisi pandemica, Die Welt invitava la Merkel ad ergersi a paladina del rigore contro l'Italia dove "la mafia stava aspettando i soldi di Bruxelles come una manna" dal cielo. Anni prima lo Spiegel, invece, se ne uscì in edicola con una pistola su un piatto di spaghetti per copertina. Non deve stupire, quindi, se giorni fa lo stesso settimanale ha pubblicato un articolo in cui la Meloni veniva bollata come "l'erede di Mussolini", una "neofascista" che contrasta l'Unione europea e "detesta la Germania". Lo Spiegel non è il solo giornale tedesco a vederla così. Già a inizio settembre la Sueddeutsche Zeitung descriveva la volubilità degli italiani, ora "appassionati" per la leader di Fratelli d'Italia, con una metafora (volgare): "fugace come una scoreggia". Poi, da quando durante un comizio la Meloni ha avvertito che col centrodestra al governo finirà "la pacchia per l'Unione europea", l'allarmismo tedesco si è fatto sempre più pressante. Ieri, ultima in ordine temporale, è arrivata la copertina del settimanale Stern dedicata alla "donna più pericolosa d'Europa". La Meloni viene dipinta come il "veleno biondo" che "vuole trasformare l'Italia in uno stato autoritario, se vincerà le elezioni".

È in questo clima profondamente anti italiano che nei giorni scorsi Letta è andato in pellegrinaggio a Berlino. "Non è andato certo a ottenere un tetto al prezzo del gas", ha spiegato nei giorni scorsi la stessa Meloni. "È andato a barattare l'interesse nazionale italiano con l'interesse del suo partito". Ed è stato, infatti, in quell'occasione che ha incassato l'endorsement di Klinhgbeil. "Sarebbe davvero un segnale importante se Letta potesse vincere - aveva detto, in quell'occasione, il presidente dell'Spd - e non la Meloni che, come partito post fascista, porterebbe l'Italia in una direzione sbagliata". Una scelta o, meglio, un'ingerenza di campo ribadita anche oggi in un'intervista al Corriere della Sera.

Letta, dal canto suo, gongola per tutti questi attacchi alla Meloni. "Non sono andato a Berlino per chiedere un endorsement", ha ribattuto oggi su Rtl 102.5. "Ma per parlare con uno dei nostri principali partner europei sul tema dell'energia e per difendere l'interesse dell'Italia e dell'Europa". Peccato che i suoi commensali, il cancelliere Olaf Scholz in testa, siano i meno allineati a difendere l'interesse dell'Italia e dell'Europa e anzi, dall'inizio della crisi energetica, abbiano più volte tentennato dimostrandosi i più teneri nei confronti di Putin, tentando vie secondarie per mantenere gli accordi con la Russia e opponendosi al price cap. E che dire delle lezioni impartite dall'Spd, se non che in Europa è probabilmente il partito con maggiori interessi (personali) sul gas russo. Insomma, i testimonial del Pd non sono così affidabili e prestargli il fianco finisce solo per minare la stabilità del Paese.

Cari colleghi, attenti ai giornalisti stranieri. Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 5 settembre 2022.

Cari amici giornalisti, state attenti ai colleghi stranieri che in questi giorni, come alla vigilia di ogni elezione, sciamano in Italia e ci chiedono interviste, dichiarazioni, giudizi, commenti. Perché da noi si aspettano — quasi tutti, ci sono le dovute eccezioni — soltanto una cosa: una conferma dell’allarme-fascismo. La provenienza politica di Giorgia Meloni, possibile vincitrice delle elezioni che porta ancora , è una storia per loro troppo ghiotta. Sembra infatti confermare alla perfezione un pregiudizio nei confronti di noi italiani, l’esotismo della nostra politica, il vizio dell’uomo forte che ci portiamo addosso da quando abbiamo inventato, con Mussolini, il fascismo. E — credete a uno che ha fatto quel mestiere — non c’è niente di più attraente di uno stereotipo per un giornalista all’estero. Se noi dunque rispondiamo al collega che il fascismo non ci pare la principale preoccupazione della campagna elettorale, in cui prevalgono altri e per così dire più attuali problemi (le divisioni sulle sanzioni alla Russia, la malriposta speranza che se ci facciamo i fatti nostri le bollette torneranno a costare di meno, la solita tendenza a promettere la qualunque e scaricarne il costo sul denaro pubblico) loro dopo un po’ sbottano: sì, vabbè, ma il fascismo? Ne parlavo ieri con una giornalista francese, Marcelle Padovani, che a differenza di molti suoi colleghi conosce molto bene il nostro Paese per averlo vissuto come una seconda patria. Mi ha raccontato che ha condotto una battaglia ventennale con il suo giornale, chiedendo e alla fine ottenendo che i titoli ai suoi pezzi non contenessero mai l’espressione «à l’italienne». Proprio perché era la conferma di un pregiudizio, e di un certo ingiustificato senso di superiorità. Lei ce l’ha fatta. Ma qualcosa mi dice che per qualche settimana titoli del genere li rileggeremo, nelle varie e numerose lingue europee.

Da liberoquotidiano.it il 4 settembre 2022.

I nostri fini commentatori della stampa Pd-oriented si sono affrettati a definirla «sottile ironia tedesca», ma la sparata comparsa nel titolo di un articolo del noto Sueddeutsche Zeitung è un rutto in faccia a tutti gli italiani. La frase, senza tanti giri di parole, è la seguente: «Fugace come una scorreggia». Si riferisce al fatto che noi italiani, superficialoni, mangia-spaghetti e sregolati, per i tedeschi siamo anche dei campioni di inaffidabilità politica. 

Ci vedono così e non è neppure la prima volta. Adesso, però, c'è l'aggravante delle elezioni che incombono, Giorgia Meloni è in vetta ai sondaggi e per gli analisti stranieri, che mai avrebbero immaginato la caduta di Mario Draghi, una vittoria della destra sarebbe un dramma per l'Europa. Come se ne esce?

Con la convinzione che questo incubo finisca presto perché, intanto, gli italiani cambiano opinione come cambia il vento, pardòn l'aria, infatti è là che i tedeschi vanno a parare, alla volatilità del nostro corpo elettorale, volubile e farfallone. Un governo via l'altro quasi senza accorgersene, come la fuoriuscita di gas intestinale. Si legge, infatti, nell'articolo di Oliver Meiler: «L'Italia si è innamorata di nuovo, questa volta della postfascista Meloni. La cosa positiva è che (gli italiani) si disinnamorano altrettanto velocemente.

In un Paese che evidentemente tutti possono governare una volta». Peccato che Meiler analizzi la situazione in un colloquio con due giornalisti quali Aldo Cazzullo (Corriere) e Filippo Ceccarelli (La Repubblica), e le interviste si basino sulla rapidità con cui cambiamo gusti. «Questo è possibile solo da noi», conferma la firma di largo Fochetti, «da Draghi a Meloni, con massima disinvoltura. Danzando». L'articolo fa il giro del web, monta il caso, si rischia l'incidente diplomatico e una reazione dura di Meloni, che ha sempre criticato chi parla male dell'Italia.

Ceccarelli, da 40 anni osservatore attento della politica italiana, dalla più alta a certa becera Suburra, si giustifica: «La frase di SZ non si riferiva a un partito né a un leader, ma al tradizionale e italianissimo fenomeno del salto sul carro del vincitore, con inni, tamburi- questo nella traduzione- famiglie con la nonna che scoreggia, tutti cantano, ballano, siamo fatti così, sempre chiassosi ed esaltati». Sarà, ed è anche vero che la politica è «sangue e m...», ma l'articolo tedesco è una caduta di stile, l'ennesimo attacco da Berlino per cui siamo ancora quelli là: mafia e mandolino. Pure un po' fascisti.

Come i tedeschi vedono gli italiani: «Non rispettate le regole. Spesso ci sentiamo superiori a voi, ma in fondo vi invidiamo». Paolo Valentino su Il Corriere della Sera l'1 settembre 2022.

Era una mattina d’autunno. E correvo nel bosco di Grünewald, lungo un sentiero largo poco più di un metro, coperto da un tappeto di foglie secche che scricchiolavano sotto il mio peso. Ero arrivato a Berlino da pochi mesi e ancora cercavo di farmi strada nella mentalità dei tedeschi, i miei nuovi padroni di casa. Li vidi da lontano, erano una coppia di mezza età, che si godeva la sua Wanderung, la passeggiata nella natura. Ma mi accorsi che ad un certo punto si erano fermati e mi guardavano venir loro incontro. Avevano lo sguardo stupito e un po’ accigliato. Mi sentii in dovere di fermarmi, salutarli e chieder se fosse successo qualcosa. «Lei sta correndo a sinistra», mi disse l’uomo con fare gentile ma in tono di rimprovero. Ci misi un attimo a capire che lì, in mezzo alla foresta, la mia colpa di viandante era di non tenere la destra. «Ah certo», replicai nel mio tedesco ancora rudimentale. «Lei è italiano, vero?», ribatté la donna. «Si», risposi. Il che mi valse un mezzo sorriso e uno scuotimento di testa di entrambi. Prima lezione: voi italiani non rispettate le regole, fosse pure quella che non stava scritta da nessuna parte.

Alcuni anni fa, uno storico dell’università di Colonia, pubblicò un libro dal titolo volutamente provocatorio. In «Kriminell, korrupt, katholisch? Italiener im deutschen Vorurteil», Criminale, corrotto, cattolico? L’italiano nel pregiudizio tedesco, Klaus Bergdolt racconta e documenta un retroterra gravido di preconcetti nei confronti dell’Italia e dei suoi abitanti. Dove il «senso di superiorità morale», che l’autore attribuisce ai tedeschi, «affonda le sue radici nella Riforma luterana, quando il Nord protestante prese le distanze dal Sud decadente e superstizioso». Da allora, nell’immaginario germanico i cattolici della Penisola e in genere del meridione d’Europa «furono per definizione inaffidabili, infedeli nel matrimonio come nelle amicizie, potenziali delinquenti, disonesti, astuti, indisciplinati e non ultimo incapaci di ogni pensiero profondo sull’arte, la teologia o la filosofia».

Goethe e i viaggi

Il coraggioso messaggio del libro rende conto anche dell’apparente contraddizione, che ha visto intere generazioni di tedeschi, da Goethe in giù, fare del «viaggio in Italia» la pietra angolare della propria formazione, apprezzandone l’arte, la cultura, il paesaggio, il cibo. «Differenziare tra l’Italia e gli italiani era un raffinato trucco psicologico dei viaggiatori tedeschi — dice Bergdolt —, anche Goethe lo ha usato. Lo stupore per la bellezza dei luoghi e il disprezzo per gli abitanti andavano di pari passo. L’arroganza di questo atteggiamento conduceva alla conclusione che tutti i modelli culturali regalati dagli italiani al mondo potevano solo essere descritti come una bizzarria». Parola di un professore renano.

La tesi di Bergdolt è che l’onda lunga di questi stereotipi abbia attraversato il tempo, fino a spiaggiare nel XX e nel XXI secolo. La storia recente dei due Paesi è esemplare: dalla crisi dell’euro, inquadrata come crisi dei Paesi «cicala» colpevolmente indebitati e inclini all’«azzardo morale», alla pandemia, quando la prima reazione tedesca fu di bloccare l’esportazione di mascherine e camici verso l’Italia, è apparso evidente quanto la diffidenza dei tedeschi verso gli italiani covi ancora sotto la superficie e sia sempre pronta a prevalere sui comportamenti solidali e cooperativi. Con le parole di un amico romano che vive da anni in Germania e ha sposato un’aristocratica tedesca: «La rosicata sugli italiani ce l’hanno sempre pronta».

Eppure, quella del pregiudizio non è la sola grammatica sottesa ai rapporti fra i due popoli. Molto, moltissimo è cambiato negli ultimi vent’anni, da quando l’euro, il mercato unico e soprattutto la scelta consapevole di decine di migliaia di giovani italiani e tedeschi di vivere scambiandosi i Paesi, hanno non solo avvicinato gli stili di vita e scrostato le reciproche percezioni, ma hanno anche prodotto una vera e propria osmosi tra le due società. Per quello che possa valere una testimonianza personale, sono tornato a vivere a Berlino nel 2018 dopo un’assenza di dieci anni e ho ritrovato una città molto italianizzata. Non solo nella vita quotidiana e nei rapporti sociali, ma anche in quelli politici. Si può mangiare come a Roma o a Napoli e bere ovunque un espresso come Dio comanda. Visitare gallerie d’arte dove giovani creativi italiani e tedeschi espongono insieme. Incontrare manager italiani che guidano importanti aziende italo-tedesche o start-up di successo. Mentre gli eventi dell’ambasciata italiana sono fra i più ambiti e contesi della social life berlinese. Ogni famiglia tedesca, nessuna esclusa, ha il suo Lieblingsitaliener, il suo ristorante italiano di riferimento, cosa che non succede per nessun’altra cucina nazionale. E si può seguire la politica con quel mix di sorpresa e instabilità che noi conosciamo molto bene: dopo gli anni tranquillizzanti e soporiferi dell’età di Merkel, è sparita dal vocabolario mediatico e pubblico berlinese l’espressione «italienische Verhältnisse», rapporti italiani, che una volta indicava situazioni di emergenza con congiuntura politica caotica, maggioranze a rischio, colpi di scena. Oggi sono la normalità.

Ma c’è di più. I tedeschi hanno cominciato a rendersi conto che il loro «senso di superiorità» nei confronti dell’Italia non ha più basi così solide. «Ci siamo accorti che in Italia i treni vanno a 300 all’ora e in Germania ci mettono ancora 4 ore per andare da Berlino a Monaco, meno di 600 chilometri, oltre ad essere sempre in ritardo. O che da voi la rete Internet funziona meglio e dappertutto, mentre appena esci da Berlino e in molte altre zone del Paese non hai alcuna copertura», dice Jörg Bremer, che è stato attento corrispondente politico da Roma della FAZ, la Frankfurter Allgemeine Zeitung.

La Bild e gli altri

Una delle cose che è cambiata di più è proprio l’atteggiamento dei media. Appartengono alla preistoria, eppure hanno solo 40 anni, le copertine di der Spiegel dove un piatto di spaghetti conditi con una pistola o quelle della Bild sul Mafiastaat riassumevano l’Italia. Certo, le abitudini sono dure a morire. Così, all’inizio della pandemia, quando le bare di Bergamo scioccarono il mondo, proprio la Bild, ineffabile espressione della pancia della nazione, pubblicava una pagina ipocrita e pelosa nei confronti dell’Italia, dove trionfavano tutti i più triti luoghi comuni: il tiramisù, Umberto Tozzi, la pasta, la dolce vita, la passione, mancava solo il mandolino. E concludeva: «Ci rivedremo presto a bere un caffè o un bicchiere di vino rosso in vacanza o in pizzeria. Ce la farete perché siete forti». Cioè da soli. Nessun accenno alla solidarietà, che invece grazie ad Angela Merkel la Germania avrebbe assicurato nei mesi successivi. Ancora più strano forse è che un giornale prestigioso e serio come la FAZ abbia tenuto per vent’anni a Roma un corrispondente economico che non ha mai scritto una frase, un rigo appena positivi o oggettivi verso l’Italia, al punto da diventare una specie di macchietta da talkshow, dove spiegava che in Germania tutto era meglio e inveiva contro l’Italia in preda alla corruzione, furba, incline alla menzogna e ai trucchi sui conti pubblici, restia a ogni sforzo di risanamento anche quando, per esempio, il governo Monti imponeva lacrime e sangue agli italiani. Tant’è: il nostro fra l’altro ha sempre adorato il suo soggiorno romano, chiusosi soltanto con la pensione.

Oggi è diverso. «I vecchi riflessi valgono ancora — dice Oliver Meiler, corrispondente da Roma della Süddeutsche Zeitung —. L’adagio che i tedeschi amano gli italiani ma non li rispettano, è un cliché con un fondo di verità. Ma alla base c’è una sostanziale invidia per la leggerezza, l’informalità nei rapporti umani, la socialità. Quello che i tedeschi cercano quando sono in Italia. Rimane certo lo scetticismo verso i rapporti politici e il modo di stare in Europa, fondato fra l’altro su una convinzione falsa: il 70% dei tedeschi è convinto che l’Italia sia un Paese beneficiario netto del bilancio europeo, mentre invece versa ogni anno nelle casse dell’Ue ben 4 miliardi di euro in più di quanto riceva». E anche se non c’è stata alcuna autocritica per il passato, i media tedeschi dall’Italia fanno in genere un lavoro sistematico e puntuale, raccontando il Paese ai tedeschi molto più di quanto non facciamo noi con la Germania per gli italiani: «Interessa tutto quello che succede — dice Meiler — qualunque cosa propongo di politica o di cultura viene accettata. Nei nostri lettori c’è piena coscienza dell’importanza geopolitica dell’Italia, ricevo molte lettere dov’è chiara una profonda conoscenza delle vicende italiane».

Toni tra gli scaffali

Pochi in Italia conoscono meglio la Germania di Roberto Giardina, storico corrispondente da Bonn e da Berlino per il Giorno e La Nazione, autore di libri importanti come una celebre «Guida per amare i tedeschi». «I vecchi stereotipi non valgono più. La stessa parola Gastarbeiter, lavoratori ospiti, che a lungo connotò negativamente gli italiani e non solo loro, è un termine quasi dimenticato del secolo scorso. La verità è che i tedeschi sono diventati un po’ più come noi. Certo, ogni tanto i pregiudizi saltano fuori, come nel calcio». Così, alcuni anni fa, alla vigilia di un europeo, il gruppo Media Markt lanciò una campagna pubblicitaria dove il protagonista era Toni, italiano con un tedesco molto accentato, macho, unto, capelli lunghi, baffoni e pesante catena d’oro sul petto scoperto e villoso. Era ancora vivo il ricordo della semifinale mondiale di Dortmund, quando l’Italia aveva eliminato la Germania. Ora Toni si aggirava per gli scaffali in cerca di un televisore, ridendo in modo sguaiato e facendo battute del genere: «I tedeschi comprano laptop, gli italiani comprano gli arbitri». Ci fu una protesta formale italiana e lo spot venne ritirato.

Preoccupata soprattutto del proprio bacino elettorale nazionale, la politica tedesca non ha mai dato un grande contributo all’eliminazione dei pregiudizi verso l’Italia. Certo qualche argomento glielo abbiamo fornito. Helmut Kohl chiudeva sempre i vertici bilaterali chiedendo al presidente del Consiglio di turno chi avrebbe incontrato al suo posto la volta successiva. Gerhard Schröder un’estate cancellò la sua adorata vacanza sulle colline di Pesaro, a casa dell’amico pittore Bruno Bruni, per protesta contro un sottosegretario della Lega, tale Stefani, che aveva descritto i tedeschi come degli avvinazzati che ruttano dopo pantagrueliche mangiate. E Angela Merkel mise una croce sui suoi rapporti con Matteo Renzi, quando dopo avergli dato una grande apertura di credito e averne ricevuto grandi promesse di impegno, questi prese ad attaccarla ad alzo zero. Per la figlia del pastore protestante fu la conferma di un grande topos di come i tedeschi vedono gli italiani: tutti nipotini di Machiavelli.

La cancelliera, d’altra parte non hai veramente capito l’Italia e la sua cultura, a parte godersi Ischia e l’Alto Adige. Famosa rimane la reazione al discorso in latino di Papa Francesco, in occasione della cerimonia per i 60 anni dei Trattati di Roma, quando rivolta a chi le stava a fianco Merkel disse infastidita: «Che c’entra il latino?».

Forse l’apice della diffidenza preconcetta verso l’Italia fu la campagna negativa con cui media e politici tedeschi accolsero la candidatura e poi la nomina di Mario Draghi alla guida della Banca Centrale Europea. Campagna che si intensificò negli anni seguenti, quando il salvatore dell’euro divenne Draghila, quasi persona non grata in Germania, dove il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble lo accusava apertamente di azzardo morale. Per fortuna funzionò la moral suasion di Draghi verso Angela Merkel.

Così, è stato un segno dello Zeitgeist di una nuova stagione e di un nuovo pensiero, il fatto che il suo arrivo a Palazzo Chigi sia stato salutato in Germania da unanime soddisfazione ed entusiasmo di politici ed opinione pubblica. «Ora però — commenta Angelo Bolaffi, filosofo e germanista che ha anche diretto l’Istituto di Cultura di Berlino — la cacciata di Draghi rischia di ridare ancora più forza ai pregiudizi». E il paradosso della Torre di Pisa, spesso applicato all’Italia, torna a far breccia nella conversazione nazionale tedesca con un dubbio in più: ce la faranno anche questa volta? Come dicono da queste parti, «ach die italiener», ah questi italiani.

Come i cinesi vedono gli italiani: «Sempre in ritardo e un po' infantili. Noi sogniamo la Bellucci di Malena». Guido Santevecchi su Il Corriere della Sera il 25 agosto 2022. 

Sono «zuqiù», cultura, gondola, genio e lentezza, bella vita e caos, superpotenza artistica e anche le scarpe le parole che vengono in mente ai cinesi quando parlano di Italia. Andiamo con ordine, a volte anche di importanza nella percezione mandarina dell’italianità: «zuqiù» significa piede-palla, il football che è anche espressione di prestigio politico-culturale. Non per niente ha ordinato di costruire ventimila scuole di calcio per inseguire il sogno di vedere la Cina campione del mondo. Si dice che il segretario generale abbia una passione per l’Inter, sbocciata nel 1978, ben prima della nascita del giovane presidente Steven Zhang, quando i nerazzurri sbarcarono avventurosamente a Pechino (volo di 29 ore) per una serie di esibizioni nello Stadio dei Lavoratori e Sandro Mazzola, che si era ritirato da un anno, giocò un tempo rischiando l’infarto. In tribuna c’era l’universitario Xi. Sta di fatto che l’Italia è sempre considerata dai cinesi maestra del calcio, tanto che è stato chiamato a guidare la nazionale rossa per anni, rispettatissimo nonostante i risultati non proprio brillanti. Il Mister ha bellissimi ricordi cinesi: «Il presidente Xi mi mandava complimenti e saluti attraverso i ministri dello sport». Oltre ai saluti, Volpe argentata ottenne un ingaggio favoloso. «Yidalì»: si dice così Italia in cinese. Sembra semplice, ma non lo è. Perché i tre ideogrammi che compongono il suono Yi-da-lì hanno creato ai sinologi qualche incertezza.

Lo segnalava in un saggio del 1961 Giuliano Bertaccioli, diplomatico e accademico: nessun dubbio sul suono «da», fornito dal carattere che identifica «grande»; e su «lì», reso da quello che si usa per «interesse» o anche «guadagno». Il dilemma viene con «Yì»: ci sono diversi omofoni e quindi può dare l’idea di «pensiero» o «giustizia». Ecco che Yidalì può suonare come «Paese che pensa al grande guadagno»; oppure «Paese che dall’essere giusto trae un grande guadagno». Un’Italia di mercanti, oppure di grandi ideali etici. I commerci comunque sono nel Dna dei cinesi, che sanno meglio di noi chi sia stato Marco Polo, lo considerano un «collega» e lo citano spesso.

Amici di Pechino mi ricordano che circola anche un soprannome, per noi, un gioco di parole basato sull’assonanza tra Yidalì e yidaì (senza la elle) che significa «naif, simpatico e spontaneo». Prendiamolo come complimento. Ogni discorso tra politici mandarini e ospiti venuti da Roma parte immancabilmente dall’affermazione che «Cina e Italia sono simili, due superpotenze della cultura accomunate da migliaia di anni di Storia». Seguono ricordi di Marco Polo e Matteo Ricci e un richiamo alla Via della Seta verso Venezia. A Xi piace citare Dante e Petrarca, che ha letto da ragazzo. Ma che cosa pensa in cuor suo del nostro Paese un funzionario governativo di Pechino? «Ho vissuto in Italia e ho avuto problemi con la burocrazia», comincia un amico di cui non possiamo fare il nome («sai, non vorrei mettere in imbarazzo il mio dipartimento»).

Anche io ho conosciuto la burocrazia cinese ed è dappertutto, ribatto. «Sì, ma da noi a Pechino funziona bene e tutto è online». Uno a zero per la burocrazia cinese. Il funzionario però subisce davvero «il fascino per la vostra arte e la cultura, fattori che proiettate benissimo all’estero, anche da noi». Nella classe media cinese (più di 350 milioni di anime) «lo stile di vita italiano è popolare, apprezziamo anche la vostra cucina e non è scontato per noi». Il dirigente ministeriale è un politico navigato: «Vi consideriamo amici, vi abbiamo offerto aiuti all’inizio della pandemia mandando alcuni dei nostri medici che avevano fatto esperienza nei giorni tragici di Wuhan e poi non possiamo dimenticare il vostro sostegno quando ci fu il terremoto terribile nel Sichuan». Ma la gente comune? «Beh, vi pensa passionali, rilassati, creativi, artisti del design ma anche abituati al ritardo: sai, c’è una barzelletta: “In Italia, a parte la Ferrari tutto è lento”».

L’ultima considerazione è una frecciata: «Il problema, visto dal nostro governo, è che non sapete mai bene dove stare, scherzosamente, con ironia, ci ricordiamo il vostro ruolo nella Seconda guerra mondiale, partiti con un’alleanza e arrivati con un’altra». Il riferimento è al grande entusiasmo del nostro governo per l’, proclamato nel 2018 con il Memorandum d’intesa presto abbandonato in archivio: «Sì, in questo non ci sentiamo proprio soddisfatti».

Dopo la politica, avventuriamoci nella psicologia delle masse. Prendiamo in prestito una «indagine sul campo» condotta nelle strade di Pechino da Federico Roberto Antonelli, direttore designato dell’Istituto di cultura italiano in Cina. Il dottor Antonelli, figlio di una sinologa, ha fatto le scuole elementari a Pechino negli anni ‘80, parla il mandarino con accento pechinese ed è stato raffinato e grintoso consigliere giuridico in ambasciata. «Ho raccolto in un taccuino i dialoghi in taxi a Pechino. Come in tutti i Paesi del mondo, anche i tassisti pechinesi amano chiacchierare e siccome nel traffico mostruoso i tempi morti si allungano, i discorsi sono in proporzione. Mi sono divertito a chiedere dell’Italia: gli argomenti in ordine di citazione erano 1) il calcio; 2) le scarpe; 3) la cultura. Un tassista mi parlò di Boccaccio e delle sue novelle tradotte in cinese, un altro di Pavarotti e della lirica, anche L’ultimo imperatore di Bertolucci è nella memoria. Qualcuno mi parlò di un film albanese degli Anni 50 con la citazi “Mussolini ha sempre ragione”. E poi tutti sognano Monica Bellucci di Malena». E le scarpe? «Rappresentano il made in Italy, elegante ma solido». Quali difetti ci rimproverano? «I più esperti ci rimproverano la mancanza di continuità».

Dopo il sondaggio a tassametro, uno condotto dall’Università del Guangdong. Ce lo illustra la professoressa Zhang Haihong, 44 anni, direttrice del Dipartimento di Italiano: «Abbiamo intervistato un campione di donne cinesi nate negli Anni 90: gli italiani sono considerati entusiasti e creativi, ma non sembrano molto seri. Gli uomini risultano simpatici e gentili, ma vivono ancora nell’orgoglio di essere la culla del Rinascimento, sono bravi a comunicare e parlano veloce e ad alta voce, gesticolano, sembra che stiano ballando o persino litigando. Sono abituati a incoraggiare gli altri e fare molti complimenti. Se vogliono, possono elogiare illimitatamente, il che fa sentire che non sono abbastanza sinceri». Chen Ou, giornalista di Pechino, 40 anni, è netto nell’analisi. Difetti: «Sul fronte politico, gli italiani seguono quasi sempre quelle americane; nel welfare, l’onere per il bilancio statale è diventato troppo gravoso; la sicurezza sociale è un problema, ci sono troppi ladri e truffatori per le strade». Meriti: «Siete calorosi e amichevoli, avete un atteggiamento sano nei confronti della vita e amate lo sport. La cucina è favolosa».

Sun Yeli, 60 anni, chief economist dello Shanghai Sunpower investment Group ha un aneddoto: «Nel 1990 ho fatto una vacanza a Venezia. Abbiamo preso la gondola. Il gondoliere era gentile, con un volto scuro, scultoreo e una figura forte. Remava e cantava, ci ha spiegato con entusiasmo le attrazioni di Venezia. Secondo me questo gondoliere era un patrimonio culturale immateriale vivente di Venezia. L’avevamo soprannominato “Il bello sulla gondola”. Ora sto gestendo un progetto di rinnovamento urbano a Xuzhou, nella provincia dello Jiangsu. Qui abbiamo ricostruito Piazza San Marco con un piccolo canale dove ho messo due gondole. Non vedo l’ora di avere qui i veri gondolieri veneziani. Saranno sicuramente un successo sul web!». Ma un difetto lo abbiamo? «Un po’ presuntuosi, un po’ troppo avari sul denaro». Zhang Na, 47 anni, imprenditrice pechinese del settore tech ha viaggiato tra Cina e Italia 50 volte in 20 anni. «Il lifestyle mi ha conquistato, con quella bella abitudine di riunirsi per il caffè al mattino e per l’aperitivo al pomeriggio. Un merito degli italiani è quello di fare una sola cosa alla volta, così vi concentrate meglio, anche se nella percezione cinese questo è spesso considerato come una mancanza di efficienza. Incompatibilità? Noi ceniamo alle 17.30, da voi bisogna aspettare fino alle 20, o addirittura fino alle 21. Anche i professori arrivano spesso fuori orario e dicono che 15 minuti sono “ritardo accademico”».

Blanche Wang lavora nel design: «Siete solari, salutate prima degli altri, attaccate discorso e siete spiritosi. Certo, la lentezza a volte è esasperante ed è inutile cercarvi durante le vacanze di agosto, anche i ministri vanno al mare ad abbronzarsi». Zhang Gangfeng, laureato in sociologia a Trento, è rimasto colpito dal «senso della famiglia che ci accomuna, la mamma italiana si occupa molto dei figli, come le nostre, anche troppo. La cultura conta molto per noi e vi vediamo come i custodi del giardino antico dell’Europa». Zhang dopo Trento ha studiato economia sociale, è passato agli investimenti stranieri in Cina e ora è docente alla School of Management all’università dello Zhejiang: «Voi vi basate sulle piccole imprese, che sono flessibili ma hanno troppo fretta di guadagnare subito, con pochi investimenti strategici. Spesso nella testa dei cinesi siete innovativi e geniali, ma poco perseveranti, per questo siete di seconda categoria rispetto a tedeschi, francesi e inglesi». Zhang ricorda che già negli Anni 90 il premier Zhu Rongji spiegava che gli «italiani sono indubbiamente molto intelligenti, ma mancano di visione di lungo periodo».

Riassume Guido Giacconi, ingegnere, veterano della Cina con la sua società di consulenza In3act e vicepresidente della Camera di commercio europea: «Ci vedono inventivi, geniali, edonisti, politicamente instabili; quando salgo sul palco per una conferenza mi presentano come discendente di una cultura plurimillenaria, naturalmente elegante, poi se siamo preparati nel campo delle nuove tecnologie si sorprendono». Yu Weiwei, che lavora da venti anni nell’ufficio di corrispondenza del ha avuto modo di conoscerci nel bene e nel male. «Esiste un eterno bambino nel cuore degli italiani, che li porta a essere vicini all’essenza della vita. Non amano fingere. Un grande imprenditore cinese mi ha detto una volta che “l’integrazione tra arte e industria rende unica la creatività italiana, un dono da invidiare per tutti gli altri popoli”. Io ho imparato lavorando con voi che “fare bella figura è molto importante”. Gli italiani sono contraddittori. Sembrano molto allegri e persino superficiali ma nel frattempo molto profondi nei loro pensieri e nelle riflessioni, giudicano sempre. Sembrano in ritardo perenne, ma spesso fanno un lavoro di grande qualità all’ultimo momento».

Si è meritata l’encomio della tv cinese la dottoressa Cristiana Barbatelli, da trent’anni consulente per gli investimenti di piccole e medie imprese a Shanghai. Durante il lockdown ha vestito la tuta ermetica bianca e si è impegnata da volontaria nel sostegno agli anziani bloccati in casa. Perché lo ha fatto? «Ho deciso di vivere una storia d’amore con questo Paese che mi ospita, in amore ci sono alti e bassi, incomprensioni che si superano con la fiducia che nasce sempre dall’amore per la gente intorno a noi. Facendo la dabai (grande bianca, nel gergo della lotta cinese al Covid, ndr ho conosciuto tutti gli anziani del mio palazzone, ora ci chiamiamo per nome, li ho conquistati anche con i miei gnocchi al sugo d’anatra». Ultima battuta per l’amico funzionario ministeriale: «Siamo molto vicini, ora lo siamo di più anche nel calcio, niente mondiali per voi e per noi».

Moda, piaceri e disordine: per gli inglesi siamo ancora il Paese delle vacanze. Luigi Ippolito, corrispondente a Londra, su Il Corriere della Sera il 28 Luglio 2022.

Resiste il cliché del film «Camera con vista». L'autore Hanif Kureishi: «Vi ho scoperto grazie alla fidanzata italiana». 

«Bravi a cucinare, ma non sapete fare la coda»: la riassume così la mia consorte britannica, che mi sopporta ormai da 25 anni. È il solito stereotipo, se vogliamo: maestri nell’arte di vivere, ma indisciplinati e disorganizzati. Da Londra ci hanno sempre visto un po’ così: e certe caricature sono dure a morire. D’altra parte, l’immagine dell’Italia sui media inglesi raramente gratta oltre la superficie: la nostra politica dà pochi titoli, per il resto si parla di mafia, del Papa, o di storie sempre in bilico fra il pittoresco e il folkloristico. Un rapido sondaggio nella chat WhatsApp delle amiche di mia moglie lo conferma: «Appassionati, facilmente eccitabili e molto colti. Ma meglio non seguire le loro scenate politiche e ammirarne il gusto unico nella moda e nel design», sintetizza Julia, che è l’ex coniuge del noto compositore armeno-iraniano Loris Tjeknavorian. E il giudizio delle giovani generazioni non si discosta di molto: «Chiassosi, appassionati, attaccati alla famiglia, sbaciucchiatori, generosi, attraenti, religiosi», sono gli aggettivi che mettono in fila le ex compagne del liceo di South Hampstead di mia figlia, ormai neo-laureate nelle più prestigiose università inglesi.

«Quando sono venuta per la prima volta a studiare a Cambridge, quasi 60 anni fa — rammenta Simonetta Agnello-Hornby, la nostra popolare scrittrice siciliana, che ha trascorso una vita sulle rive del Tamigi — c’era grande ammirazione per la cultura e l’arte italiane: un po’ meno per gli italiani come popolo, di cui si riteneva non ci si potesse fidare». Anni dopo, avendo sposato un inglese, la baronessa e avvocatessa Agnello si vide accettata socialmente, dalla cerchia di amici: ma nel contesto più ampio rimaneva una certa distanza nei suoi confronti, che si manifestava in battute e osservazioni sul suo accento e la sua origine: «E mio figlio veniva preso in giro perché era molto scuro di pelle», ricorda tuttora. «Oggi i giovani educati non hanno più pregiudizi — conclude —. Quanto agli altri, non lo so».

«In questi anni ho riscontrato un grosso cambiamento»: mette le cose in prospettiva Guido Bonsaver, che insegna al dipartimento di Italianistica dell’Università di Oxford ed è in Gran Bretagna da più di 30 anni. «Allora c’era una certa italofilia fra le classi colte, che si rapportava alla nostra storia e alla nostra cultura, in particolare quella del Rinascimento: ma nell’opinione pubblica comune restavano molti stereotipi negativi, quelli degli immigrati con la valigia di cartone, di gente inaffidabile». Cliché che sono cambiati nell’epoca di Tony Blair, gli anni Novanta e Duemila, la stagione della Cool Britannia : quando la Gran Bretagna ha conosciuto una svolta «edonistica», grazie a cui si è dato sempre più peso al cosiddetto lifestyle. «E così l’Italia è diventata un modello — sottolinea il professor Bonsaver — ma in realtà si è creato un nuovo cliché, quello del Paese della vita felice, dove la gente sa come vivere».

Negli Stati Uniti ci amano, ma oltre a cibo e arte sopravvive ancora lo stereotipo del Padrino

«Tanti italiani hanno avuto successo e ottenuto rispetto a Londra — concorda Simonetta Agnello-Hornby — ma ci sono ancora tanti stereotipi, magari di tipo nuovo, come quello della moda: e gli inglesi li condiscono sempre con una dose di humour e sarcasmo». Bonsaver porta a esempio il grande successo Oltremanica della cucina italiana: una volta in Inghilterra il cibo di qualità era solo quello francese, poi c’è stato il boom dei cuochi televisivi sulla scia del nostro Antonio Carluccio, che ha ispirato generazioni di chef britannici, a partire da Jamie Oliver. «Ma è una visione ancora in qualche modo legata alle memorie del Grand Tour — prova a storicizzare il docente di Oxford —. L’Italia come luogo dei sensi e del piacere: e permane l’idea di una cultura latina come irrazionale, facile ai sentimenti».

Anche se «non bisogna demonizzare gli stereotipi», sostiene Gabriella Migliore, responsabile del desk Brexit all’ufficio di Londra del nostro Istituto per il Commercio Estero: «Vanno aggiornati, perché poi fanno da traino a tutto il resto del sistema Italia. Se siamo bravi a fare cibo e vestiti, allora magari siamo bravi a fare anche altro». Ma poi c’è la politica: quando i commentatori sui giornali stigmatizzano le intemperanze di Boris Johnson, scrivono che non somiglia tanto a Donald Trump, ma ricorda piuttosto Silvio Berlusconi. E se lamentano la stagnazione dell’economia britannica, dicono cose tipo «eravamo la Germania, abbiamo fatto la fine dell’Italia». «Dopo gli anni di Berlusconi siamo scaduti nella considerazione generale — lamenta la Agnello-Hornby — e su questo c’è poco da fare». A Londra avevano pure aperto un ristorante chiamato «Bunga Bunga»: «Pochi si ricordano di Prodi o dei governi tecnici — ammette il professor Bonsaver —. I vecchi cliché hanno bisogno di generazioni prima di cambiare. E se gli si faceva presente Draghi, rispondevano: avete dovuto tirare fuori un tecnocrate, perché i vostri politici sono incapaci». 

«I primi ministri italiani sono come gli autobus: basta aspettare un po’ e ne arriva un altro. È una vecchia battuta che è stata fatta a Londra per molti anni», ricorda James Landale, volto noto della Bbc di cui è Diplomatic Edi tor, ossia responsabile del servizio diplomatico, e che è ospite fisso del Seminario di Venezia organizzato ogni anno dall’Ambasciata italiana a Londra. «Ma il tempo è passato e i ricordi di Berlusconi sono distanti. Il pubblico rammenta quando ha invitato i Blair in Sardegna con la bandana in testa: ma le memorie sono andate avanti da allora e gli atteggiamenti sono più contemporanei. La gente era consapevole di Draghi come di un tecnocrate: nel Pantheon dei leader europei abbiamo Macron, i giovani premier baltici, gli autocrati come Orbàn e poi i tecnocrati. Draghi era visto come il leader di questo gruppo».

L’Italia non è magari più una barzelletta politica, secondo Landale, ma «nei media è vista primariamente attraverso un prisma culturale. Quando la gente pensa all’Italia pensa a una destinazione di vacanze: alla lingua, alla cultura, alla Toscana, a Venezia. Una certa generazione di inglesi è ancora innamorata di Helena Bonham Carter in “Camera con vista”: è da lì che viene lo stereotipo. Questo è il nesso fondamentale, più che la politica». Il rischio allora è di essere solo il Belpaese, un magnifico posto dove trascorrere l’estate ma sostanzialmente irrilevante sul piano geo-politico. «Non direi irrilevante — precisa il giornalista della Bbc — direi piuttosto che l’Italia non è vista come parte dell’asse franco-tedesco, è percepita come laterale rispetto a esso». Il problema, semmai, è un altro: «L’altra immagine che la gente ha dell’Italia nei circoli politici e diplomatici è come avente una profonda connessione con la Russia: questo è qualcosa che è storico, ma che è stato messo più a fuoco a causa del conflitto in Ucraina. Anche prima della guerra, ogni volta che si discuteva della possibilità di togliere le sanzioni a Mosca, ci si chiedeva sempre: che ne pensa Roma? Perché l’Italia era sempre vista come oscillante, c’era il timore che Roma fosse troppo vicina alla Russia».

Sono criticità che dall’ambito politico-diplomatico si possono estendere a quello socio-culturale. Come si legge in «Cosa è successo?», l’ultimo libro del celebre scrittore britannico Hanif Kureishi, dove c’è un capitolo dedicato alI’Italia che si intitola «Dove sono tutti?»: accade che Kureishi stia seduto all’aperto in un ristorante di Trastevere e si renda conto di una cosa ai suoi occhi bizzarra, e cioè che dovunque guardi ci sono attorno a lui solo facce bianche, a parte il bengalese che cerca di vendergli le rose. E per un momento lo scrittore immagina che Roma sia stata soggetta a uno strano fenomeno di fantascienza, come in un film, in cui tutte le persone di colore sono state teletrasportate in un’altra galassia. Perché in effetti è questa la sensazione straniante che si avverte arrivando in Italia dopo aver vissuto anche solo per un po’ nella Londra multietnica e multiculturale: quella di essere stati catapultati in un universo parallelo monocromatico. «I britannici hanno sempre amato l’Italia — spiega Kureishi — abbiamo una lunga storia d’amore con l’Italia, in particolare con la cultura italiana : ma c’è una differenza fra l’Italia da un lato e la Francia o la Germania o il Regno Unito dall’altro, ed è che quelle altre nazioni hanno avuto un trauma che ha a che fare con la razza, con lo schiavismo, il colonialismo, l’impero . Questo ha avuto un effetto profondo sulla Gran Bretagna, mentre quando vai in Italia vedi un Paese monoculturale. Questo la rende diversa da noi in una maniera significativa».

Ciò non diminuisce il fascino storico del nostro Paese: «Dopo la guerra l’Italia ha avuto un grande impatto culturale col cinema, la pubblicità, il cibo — ricorda Kureishi —. I mods, con le loro Lambrette, si ispiravano all’Italia. Era la gente più bella del mondo per il loro senso dello stile, come si vede ne “La dolce vita”. Il fascino dell’Italia è che per noi appare abbastanza old fashioned, vecchio stile: è molto più formale, gli uomini vestono in giacca, la gente è più cortese. È un posto più provinciale, ma sembra pure un Paese più felice, anche se questa è un po’ una nostra fantasia: bel tempo, ottimo cibo, famiglie unite, città bellissime». Insomma, un grande museo all’aperto, nell’idealizzazione britannica: «È il più bel Paese del mondo — continua Kureishi — ma dal nostro punto di vista è una destinazione turistica: siedi su una terrazza in Toscana, mangi pasta e bevi il miglior vino del mondo. Ma probabilmente se vivi lì come giovane diventi pazzo: c’è differenza fra vivere in un posto e goderselo come turista». 

«Amo il romanticismo di Roma — annota infatti lo scrittore nel suo libro — ma non vorrei mai che i miei figli provassero a sopravvivere lì. L’abbandono può essere bellissimo per un visitatore, ma non tutto ciò che è antico è carino». Ed è una questione anche di stimoli: «In Gran Bretagna le cose più interessanti culturalmente sono quelle che vengono dal di fuori — continua Kureishi — e mi chiedo cosa di nuovo può venir fuori dall’Italia. Se vivi lì magari non ti importa affatto, puoi sedere nella tua biblioteca a leggere Dante, ma io sono cresciuto in una cultura dove la gente fa cose nuove ed è quello che mi eccita: voglio sapere cosa stanno facendo i nuovi scrittori neri, asiatici, soprattutto donne. Questo per me rappresenta la vivacità». Kureishi è tutt’altro che un forestiero, visto che da anni convive con una compagna italiana: «Tramite Isabella — confessa — ho scoperto la qualità della vita, passo del tempo con lei a Roma e con la sua dolce famiglia, mi sento davvero rilassato in Italia: mi fa rallentare, sono lontano dalla cultura accelerata e dall’agitazione di vivere in questa dannata città che è Londra. Come outsider è rilassante, per goderne la bellezza: ma non cerco di guadagnarmi da vivere lì come scrittore. Non credo che uno come me — lui, che è di origine anglo-pachistana — sarebbe mai riuscito a guadagnarsi da vivere in Italia come autore».

Forse è quello che pensano anche i tantissimi giovani italiani che continuano a sbarcare a Londra, attratti da un posto dove non importa da dove arrivi ma dove conta quello che sai fare. Bellissima l’Italia, direbbero con gli inglesi: ma da lontano.

Questa crisi di governo, vista dall’Europa, conferma i peggiori stereotipi sull’Italia. Frank Baasner su L'Espresso il 25 Luglio 2022.

La parabola dell’esperienza Draghi sembra autorizzare il pregiudizio di inaffidabilità sul nostro Paese. Che aveva recuperato prestigio e credibilità.

«Crisi di governo in Italia» questa notizia probabilmente non stupisce, né a Berlino, né a Monaco o a Parigi, coloro che comunque non hanno mai creduto che l’Italia possa essere un partner europeo chiave per affrontare le enormi sfide che ci troviamo davanti. I peggiori stereotipi, ancora presenti nelle menti di molti cittadini europei, sembrano confermati: Italia ingovernabile, Italia autoreferenziale, Italia che prende i soldi degli altri e guarda solo ai giochi politici domestici.

Un vero peccato, perché l’immagine dell’Italia non aveva mai visto un miglioramento come negli ultimi tempi con il governo Draghi. L’Italia, Paese di sogno per la maggioranza di cittadini europei che non hanno la conoscenza delle reali forze e debolezze del «Belpaese», si era schierata dalla parte degli attori seri dell’Ue. Nel corso della pandemia i partner hanno guardato all’Italia con un atteggiamento di partecipe solidarietà, ma anche di ammirazione per la capacità di reazione e resistenza nella crisi gravissima e per l’organizzazione più che prussiana delle misure di lockdown. Senza l’emancipazione degli stereotipi trasmessi da decenni sulla scarsa affidabilità degli italiani, senza l’autorevolezza internazionale di Mario Draghi, i 26 Paesi dell’Ue non avrebbero mai accettato l’immenso piano di investimenti Next Generation Eu che vede gli italiani maggiori beneficiari con miliardi di euro donati al Paese particolarmente colpito dalla pandemia, permettendo all’Italia gli investimenti e le riforme strutturali necessarie da tempo. Come spiegare al contribuente tedesco, francese o olandese che deve spendere per un Paese che, invece di mettere in atto l’agenda politica urgente, si diverte a giocare il vecchio gioco delle vanità politiche? 

Ma non parliamo solo di immagini. La Francia e la Germania, tradizionalmente considerate il motore dell’Ue, si erano aperte all’idea di un terzo partner importante, per il suo peso economico, per il numero dei suoi cittadini e per il valore storico della sua cultura e civiltà. Nel 2021 la Francia e l’Italia hanno firmato il trattato del Quirinale, preparato da anni, che dà una risposta al trattato franco-tedesco di Aquisgrana del 2019. Rendere più strutturata e stabile la cooperazione in molti campi, dalla difesa alla scuola, per poter pesare di più a livello europeo, ecco l’obiettivo. La Germania dal lato suo si è sentita costretta a reagire per non lasciare nascere un secondo centro di potere europeo, soprattutto in vista di un’eventuale riforma del patto di stabilità che per la Francia e l’Italia va rifatto, per la Germania invece mantenuto. Il governo tedesco attuale sta dunque preparando un accordo di cooperazione rafforzata con l’Italia - meno di un trattato formalizzato, ma segno di un impegno forte e di un rapporto basato sulla fiducia. Tutto questo è rimesso in discussione con la fine del governo Draghi e con esso l’immagine dell’Italia adulta.

Molti italiani sottovalutano il peso e l’immagine positiva che il loro Paese ha attualmente in Europa. E questo è merito di Draghi innanzitutto. Certo che una crisi di governo fa parte dei sistemi democratici. Ma far cadere un governo senza pensare alle conseguenze, senza misurare l’impatto che un Paese importante come l’Italia ha sulla situazione europea e internazionale è semplicemente irresponsabile e contrario agli interessi dell’Italia stessa.

La reputazione si distrugge in un secondo, ricostruirla può richiedere anni. E che non ci si venga a dire che l’Italia non accetta lezioni o ordini da nessuno - guardare il proprio ombelico non basta nel contesto delle interdipendenze globali.

Frank Baasner è direttore dell’istituto franco-tedesco a Ludwigsburg

Negli Stati Uniti ci amano, ma oltre a cibo e arte sopravvive ancora lo stereotipo del Padrino. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 13 luglio 2022.

Elon Musk non è un tipo impressionabile. Eppure quando ha visto i numeri della nostra denatalità l’imprenditore più ricco del mondo ha reagito con sgomento: «Se continua così un giorno l’Italia non avrà più abitanti». Questo tweet recente del capo della Tesla si può leggere in positivo. Se dovessimo sparire davvero, gli mancheremmo. Cosa che non è vera per i cinesi o i russi, forse neppure per i francesi.

Un viaggio alla scoperta di quel che gli americani pensano di noi, offre tante notizie confortanti. Ci amano più che mai. Forse per ragioni un po’ scontate. A formare l’immagine del nostro carattere nazionale contribuiscono in modo sproporzionato l’arte e la cultura, la storia e il turismo, la moda, la gastronomia. Su altri fronti non hanno una grande opinione di noi. Negli ultimi mesi uno dei titoli più visibili sul notiziario Bloomberg era: «L’Italia è frenata da 2,6 milioni di persone che hanno rinunciato a lavorare» (il dato era ripreso dalla relazione del governatore della Banca d’Italia). Il fattore Draghi è stato finora un segno più, nella percezione dell’establishment politico e finanziario. Ma già spuntano nubi all’orizzonte, i rialzi dei tassi d’interesse hanno riportato l’attenzione sul debito pubblico italiano nei giornali che contano come The Wall Street Journal.

La nostra burocrazia ha una fama repellente. In economia e nella tecnologia non ci sappiamo vendere. Qui gli americani hanno un’idea precisa dei nostri difetti. Il sito businessculture.org che offre consulenza a chi investe all’estero mette in guardia imprenditrici e manager americane sul fatto che «in Italia è ancora inusuale trovare donne al vertice delle aziende e solo il 38% delle italiane lavora, una delle percentuali più basse in Europa». Un altro sito rivolto ai manager americani descrive così alcuni tratti della nostra business mentality: «Costruire rapporti personali molto stretti è importante nel mondo degli affari italiano. Vi serve una persona bene introdotta, per creare i legami di cui avete bisogno. L’apparenza, lo status e la gerarchia contano spesso più del contenuto. I processi decisionali possono essere lenti, e le pressioni per velocizzarli non sono gradite. Non cercate di organizzare riunioni di lavoro ad agosto...».

Noi e il Padrino

Non è vero tutto quel che pensano di noi. Gli stereotipi abbondano, e ci irritano. Più ci si allontana dalle coste e ci si addentra nella provincia americana, più affiorano le eredità del Padrino o dei Soprano, immagini datate e legate alla storia degli italo-americani. Per scavare sotto la superficie, dò la parola a testimoni d’eccezione. Sono grandi talenti italiani che lavorano da anni negli Stati Uniti e percepiscono ogni giorno il parere degli americani su di noi. Ho interpellato anche qualche americano speciale che funge da ambasciatore della nostra cultura qui. Renzo Piano ha disseminato delle sue opere il territorio Usa. Ammette che la sua visione è parziale perché ha contatti soprattutto con americani «illuminati» che dirigono università, musei, ospedali. La cosa che più apprezzano di noi? «Ci riconoscono un umanesimo istintivo. Pensano che siamo portatori di un pensiero trasversale e multiforme, interdisciplinare, ricco di valori. Voi italiani — dicono spesso — siete capaci di pensare fuori dagli schemi».

Riccardo Muti ha diretto per dodici anni l’orchestra di Philadelphia, da tredici dirige quella di Chicago. «Ricordo un’epoca in cui l’italianità era sinonimo di urlo, cuore in mano, lacrima facile, sbracatura, l’accezione peggiore dell’aggettivo melodrammatico. Oggi gli americani colti ci ammirano più di prima perché hanno una percezione più raffinata del nostro patrimonio». Muti apre una finestra su un altro tema da approfondire: «A Chicago oggi, per determinare quel che gli americani pensano di noi, contano le centinaia di nostri scienziati, ricercatori, medici, che lavorano qui».

Un altro direttore d’orchestra che ha consuetudine americana è Gianandrea Noseda, confermato alla guida della sinfonica nazionale di Washington. Aggiunge questa osservazione: «Nel campo artistico ci vedono come portatori di una tradizione illustre. Ma sono stupiti quando scoprono che oltre all’improvvisazione creativa possiamo essere disciplinati, organizzati, capaci di fare squadra, con attitudini manageriali applicate alla cultura. Queste sono qualità che non associano al carattere nazionale».

Nel cinema un frequentatore di lunga data dell’America profonda è il regista Pupi Avati. Trent’anni fa mise radici nel Mid-West americano, vi girò sei film. Dopo aver realizzato nel 1991 la biografia del jazzista Bix Beiderbecke, ha comprato la sua casa natale a Davenport nell’Iowa: uno Stato agricolo, lontano anni luce dalle élite di New York o Los Angeles. Sa quel che provano gli americani provinciali a contatto con noi: «Stupore per la nostra elasticità, la capacità italiana di immaginare sempre un piano B quando il piano A va a cozzare contro un ostacolo. Li colpisce anche l’ostentazione dei nostri limiti, l’ammissione dei nostri errori, al confronto con la loro autostima, il loro senso di appartenenza a una comunità o a un’impresa».

L’amore per la lingua

Un’ambasciatore della nostra cultura è lo scrittore Michael Frank, perfettamente bilingue, che divide la sua vita tra la California natale, il Village di New York, e Camogli. Parla di «una nuova ondata d’interesse per gli autori e soprattutto le autrici italiane, aperta da Elena Ferrante». Jonathan Galassi se ne intende, sia come presidente della casa editrice Farrar Straus & Giroux, sia come traduttore individuale di Leopardi, Montale, Primo Levi. «Il nostro Jonathan Franzen — dice — scrive una trilogia che è ispirata dalla Ferrante. Quello che piace è un’italianità che non si appiattisce sulle tendenze letterarie globali, e questa è la cifra distintiva di un’intera generazione di nuovi autori». Ne sa qualcosa anche un altro traduttore seriale di opere italiane in America, Michael F. Moore, che ha appena finito una nuova versione dei «Promessi Sposi» ed è subissato dalle richieste degli editori Usa.

Un segnale stupendo è il continuo aumento di coloro che decidono di studiare la nostra lingua. A differenza di lingue globali e «utilitaristiche» come mandarino o arabo, lo studio dell’italiano è disinteressato. Jhumpa Lahiri, autrice americana di origine indiana che vive a New York, spiega così la sua scelta: «Io scrivo in italiano per sentirmi libera».

Su cosa si nasconde dietro l’amore per la lingua, ho potuto organizzare un focus group in casa. Mia moglie è docente dell’Istituto di cultura italiano e ho intervistato i suoi studenti. Tracy, professoressa di francese, impara l’italiano «per avere accesso diretto alla vostra cultura, i film e la musica». Natasha, americana di origine russa: «Siete il popolo più simpatico, siete ospitali, vi piace condividere il vostro paese con gli altri». Vika, americana di origine ucraina: «Solo quando vengo in Italia mi sento rinascere, mi date una carica di energia». Il tono cambia quando la domanda non riguarda il loro parere, bensì ciò che pensa di noi l’americano medio. Phyllis confessa: «I miei amici americani pensano che siete ossessionati dalla moda, dal cibo, da una filosofia di vita godereccia». Elizabeth: «Per la massa degli americani siete il Padrino la Ferrari e Gucci; più tanta corruzione e inefficienza al governo».

In venticinque anni di vita newyorchese ha fatto collezione di luoghi comuni Emanuele Della Valle, figlio di Diego. «Uno stereotipo permanente — racconta — è che tutto in Italia deve essere idilliaco ed estremamente elegante. Vedi certe pubblicità: l’azione è lenta, avviene sotto una pergola, i giovani attori devono sembrare Marcello Mastroianni e Sophia Loren, con una linea genetica tracciabile a Lorenzo il Magnifico». Della Valle osserva che negli ultimi anni anche grazie a Milano come motore creativo europeo certi pregiudizi stanno cambiando, «Slow World e Modern Nation convivono nell’immagine che proiettiamo».

Un settore dove abbiamo vinto la sfida della seduzione è il cibo. Giovanni Colavita è il più grande importatore di prodotti alimentari made in Italy. La sua azienda creò nel 2001 un centro di formazione che sforna chef specializzati nel Culinary Institute of America. «A tavola — spiega Colavita — l’Italia è da tempo sinonimo di genuinità, semplicità, salute. Il vero trionfo è aver conservato questi tre elementi conquistando il settore della cucina alta. Nella ristorazione di lusso abbiamo spodestato i francesi».

Non solo moda

Riusciamo a spingerci oltre l’arte, la moda e la gastronomia? Un diplomatico italiano descrive la fatica per convincere gli americani che il made in Italy è anche tecnologia, che siamo una potenza nei macchinari, nella robotica. Questo è il terreno dove si addensano cattive notizie per la nostra reputazione. Lo conferma Guerrino De Luca, per molti anni chief executive della Logitech nella Silicon Valley. «Nel settore Big Tech dell’Italia non pensano nulla — dice — perché le nostre aziende sono poca cosa. Nella mappa globale delle tecnologie avanzate l’Italia non pesa quanto Israele o Taiwan. Il giudizio sul Paese non si applica agli individui italiani: abbiamo espresso il numero due di Amazon e il direttore finanziario di Apple». È d’accordo Pierluigi Zappacosta, che con altri ha fondato l’Issnaf, il network di scienziati italiani del Nordamerica. «Paghiamo il fatto che non esiste più nulla di paragonabile a ciò che fu l’Olivetti in California fino a quarant’anni fa. I nostri giovani ingegneri, pagati troppo poco in Italia, qui sono apprezzatissimi. Ma dopo aver ricevuto borse di studio e finanziamenti, se vogliono fondare una start-up la creano dove hanno fatto ricerca. Si americanizzano».

Un’angolatura molto particolare è l’immagine del nostro paese veicolata attraverso il successo degli italo-americani, una schiera che ormai include gran parte dell’establishment di sinistra (la presidente della Camera Nancy Pelosi) e di destra (il governatore della Florida Ron DeSantis o il giudice costituzionale Samuel Alito). L’effetto che ha il «loro» successo sulla «nostra» immagine? Lo riassume così la più celebre giornalista televisiva italo-americana, Maria Bartiromo di FoxNews: «Tutto questo successo viene attribuito all’educazione italo-americana, che è sinonimo di una forte etica del lavoro».

Una visita all’establishment Usa per sintetizzare ciò che pensa di noi, la faccio in compagnia di Nathalie Tocci. Esperta di geopolitica, direttrice dell’Istituto affari internazionali, la Tocci ha un incarico a Harvard. È una pendolare dell’Atlantico con accesso alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato. Per i suoi interlocutori l’Italia «rimane un enigma, a Washington ne vedono il ruolo potenziale in Europa e nel Mediterraneo, ma questo non si traduce in una politica estera con mezzi all’altezza delle ambizioni». È frustrante per noi, riconosce la Tocci, che «il ruolo dell’Italia nella guerra ucraina sia quasi invisibile a Washington e sui media Usa». Nessuno qui ha ripreso l’idea che Draghi abbia spinto Emmanuel Macron e Olaf Scholz ad accettare la candidatura di Kiev all’Ue. «Il premier — dice la Tocci — ha un bagaglio positivo enorme e il suo atlantismo è apprezzato. Ma pesa la paura che l’incantesimo Draghi possa spezzarsi».

Federico Mennella, managing director alla banca Rothschild & Co., è convinto che Draghi non basta a far rivalutare il sistema paese. «Trent’anni fa una banca italiana come la Comit pesava a Wall Street quanto la maggiore banca tedesca, oggi la maggioranza delle nostre aziende di credito sono sparite. Si unisce il tramonto di Fiat, Olivetti, Ferruzzi, Montedison. In più gli italiani non sanno promuovere il proprio paese come terra d’investimento. Tant’è, gli imprenditori americani adorano l’Italia per le vacanze, ma al momento di creare nuove attività guardano prima all’Inghilterra, alla Germania e alla Francia».

Un top manager che ha fatto la sua carriera in America è il chief executive della multinazionale cosmetica Estée Lauder, Fabrizio Freda. Anni fa lanciò un tentativo personale: contattò gli ultimi capi delle dinastie del lusso ancora in mani italiane, per convincerli ad allearsi fra loro e creare un gigante come Lvmh o Pinault. Dovette rinunciare. Le rivalità personali erano più forti del desidero di difendere il made in Italy dagli assalti stranieri. Siamo ancora l’Italia di Francesco Guicciardini, siamo quelli del «particulare» e delle faide, Capuleti e Montecchi. Gli americani ce lo perdonano. Perché anche questo fa tanto «colore».

Il vizio. L’Italia deve smettere di chiedere altri soldi all’Europa. Istituto Bruno Leoni su L'Inkiesta il 12 aprile 2022.

Troppo a lungo abbiamo approfittato del nostro ruolo di Paese too big to fail per chiedere finanziamenti, promettere riforme e poi non fare nulla. È successo con il Covid, ci si riprova con la guerra, ma non funzionerà perché questa colpisce tutti in modo uguale. L’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni su Linkiesta.

Mentre la crescita economica rallenta, i vincoli di finanza pubblica cominciano a mordere. Il governo italiano è tra quelli che hanno meno spazio fiscale per compensare il rallentamento dovuto sia agli alti prezzi dell’energia, sia alla guerra in Ucraina. Comincia, così, a sollevarsi il consueto coro: servono “misure europee” che compensino gli Stati più colpiti e, in particolare, quelli maggiormente esposti verso la Russia. Sottotitolo: l’Italia.

Purtroppo non funziona così. Peggio: se anche fosse così, questa volta non ci sarebbe l’Italia al centro delle manovre di soccorso Ue. Da anni il nostro Paese approfitta di ogni occasione per evitare di rispettare gli obblighi che abbiamo assunto nei confronti dei partner europei.

Prima ci abbiamo provato con la flessibilità: l’idea, cioè, che il rinvio del pareggio di bilancio avrebbe creato condizioni favorevoli alle riforme. Sicché, il deficit ha continuato a galoppare, mentre le riforme o non le abbiamo fatte, oppure le abbiamo disfatte il giorno dopo. Poi è arrivato il Covid, che ha messo in ginocchio l’economia italiana più del resto d’Europa: e anche qui c’è stata una presa d’atto che un nostro default avrebbe avuto effetti devastanti per tutti. È in questo contesto che è nato Next Generation EU, un programma da oltre 700 miliardi di euro in teoria diretto a tutte le economie in crisi, in pratica rivolto soprattutto a noi. E infatti Roma è stata tra i pochissimi ad attivare integralmente non solo i finanziamenti a fondo perduto ma anche tutti i prestiti, e anzi ad aggiungerci una trentina di miliardi di “fondo complementare”. Ancora una volta, però, mentre siamo stati solleciti nel battere cassa, gli investimenti promessi vanno a rilento mentre le riforme sembrano quasi uscite dal radar.

E, adesso, vorremmo altri soldi? Rispetto al passato ci sono almeno tre difficoltà in più. La prima: come possiamo pretendere la fiducia degli altri Stati membri, se la stiamo tradendo così vistosamente persino sul piano di “ripresa e resilienza” sul quale avevamo giurato che sarebbe stato diverso? La seconda: la crisi energetica sta colpendo praticamente tutta l’Europa allo stesso modo. Non c’è alcuna eccezionalità italiana. Come gli altri si rimboccano le maniche, così dovremmo fare anche noi: invece di spendere a pioggia decine di miliardi nella speranza che le cose si risolvano da sé, dovremmo focalizzare gli aiuti e orientarli al lungo termine. Infine, è vero che l’Italia presenta fragilità aggiuntive ma in gran parte dipendono da scelte che noi stessi abbiamo compiuto e che continuiamo a compiere: non è colpa dell’Europa o della globalizzazione se abbiamo la burocrazia più lenta d’Europa, se da anni non rilasciamo permessi per la produzione di petrolio e gas, se i conti delle imprese sono appesantiti da tasse e contributi proibitivi.

Prima di chiedere altri denari con atteggiamento sempre più vittimistico, dovremmo forse interrogarci su cosa possiamo fare per cavarci d’impaccio. La soluzione non può arrivare sempre da fuori.

Luca josi per "La Stampa" il 7 gennaio 2022. Un episodio della serie Emily in Paris ha scatenato una polemica planetaria per un ritratto un po' diffamante con cui è descritto un personaggio secondario di nazionalità ucraina della fiction. Controversia interessante, se non fosse che nei giorni scorsi ne è sfuggita, in Italia, una ben più rilevante (almeno per noi). Nelle relazioni internazionali un buon esercizio per valutare la simmetria dei comportamenti è quello del provare a ribaltare le situazioni per valutarne l'impatto. Diciamo la reciprocità degli effetti. Proviamo.

Cosa sarebbe accaduto se sul primo canale pubblico, Rai Uno, fosse andata in onda una parodia, in salsa criminale, della Russia? Come avrebbe reagito l'elastica e tollerante democrazia ex sovietica? Un mio amico che si occupa di relazioni internazionali, sorridendo, mi ha risposto: «Ci avrebbero invasi». 

Si tratta del secondo anno consecutivo in cui un simpatico contenitore, Ciao, si occupa del nostro Belpaese e se nel 2020 aveva fatto gridare a un atto di amore, in tono ironico, alla nostalgia degli Anni 80 (esclusa, forse, la gag della telenovela tricolore Quattro puttane) quest' anno, come ogni replica, sembra derapare in un manierismo dell'insulto (con tanto di Ciao, logo del programma, cangiante, in luminarie tricolori, in onore alla nostra bandiera).

Un Paese raccontato solo di meridionali; nulla in contrario, ma, per esempio, io sono ligure (non siamo tutti perfetti). Joyce, un secolo fa, ci perculava, mostrandoci come degli eredi di una grandezza sfranta: «Roma (e l'Italia) fa pensare a un uomo che si mantiene mostrando ai viaggiatori il cadavere di sua nonna» e oggi, potesse vedere ciò di cui si scrive, chioserebbe: «La vita è come un'eco: se non ti piace quello che ti rimanda, devi cambiare il messaggio che invii». Chi semina vento, insomma, raccoglie tempesta.

Siamo stati i migliori spacciatori di questa terza internazionale della mafiosità (era Falcone che rispondeva a una stupefatta giornalista che la nostra, «no, non era la mafia più potente del mondo», ma che a lei risultava come tale «perché unica - a quei tempi - a godere di letteratura (e cinematografia)». 

Sì, perché nell'autodistruzione non ci siamo mai fatti mancare nulla, distribuendo per anni, nel mondo, fiction dove ogni genere di criminalità veniva lucidata agli occhi del pubblico internazionale in un lavacro penitenziale in cui si faceva a gara a mostrare il peggio di noi (e se non c'era, a immaginarlo).

Quindi, mentre i francesi, nonostante Charlie Ebdo, Bataclan, gilet gialli e criminalità competitive con le nostre, si promuovono, appunto, con Emily in Paris, noi procediamo con questa mitridatizzazione di avvelenamento comunicativo, che retrodata il nostro Paese a un immaginario che, se accoglie Spiderman a Venezia, gli fa incontrare alberghi e imbarcazioni poeticamente disfatti, se arriva James Bond in Italia, manifesta Roma come una città di polvere e penombre, mentre nel film successivo, l'Italia, è ferma al presepe di Matera. E anche se nel mondo Il Diavolo veste Prada, in Ciao 2021 dobbiamo sguazzare in una caricatura del film denominata (A)Gucci tutta mafia e mandolino.

Segue poi la fiction Il Commissario di Como che prima di morire, dopo essere stato travolto da una raffica di mitra della malavita organizzata, mangia prima un piattone di spaghetti, poi legge La Gazzetta dello Sport e, infine, chiama l'amante, in un estenuante esercizio di protagonismo melodrammatico (crasi di una sceneggiata di Mario Merola sul lago manzoniano e del Peter Sellers della scena iniziale del film Hollywood Party).

Ma non abbiamo niente da rivendicare, con tutti i soft power a disposizione, che almeno quando il nostro presidente parla a reti unificate rinuncino a sfotterci descrivendoci come un Paese di mignotte, mafiosi, corrotti, vestiti da un sarto sotto allucinogeni e gravi problemi di daltonismo? Oppure possiamo rinfrescare quella capacità al lazzo, ricordando che quando noi avevamo già avuto Lucilio, Orazio, Ovidio, loro stavano ancora a contare i buoi muschiati? E per ribadire tutto ciò occorre essere inquadrati per italici, autarchici, fascisti o semplicemente permalosi o sarebbe sufficiente un minimo di decoro patrio? 

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Italioti antifascisti.

Francesco Storace per 7colli.it il 18 novembre 2022.

Improvvisamente, D’Alema e Storace. Un aneddoto sconosciuto ai più che l’ex premier decide di rivelare. È un avviso alla classe dirigente politica, probabilmente. 

Massimo D’Alema tesse le lodi dell’opposizione, anche se, avverte “un partito che sta sempre all’opposizione è come una persona che non fa mai l’amore. A un certo punto gli vengono i brufoli”.

Alla presentazione del libro di Goffredo Bettini a Napoli, con Dario Franceschini, l’ex presidente del consiglio ragiona del futuro del Pd. Il partito di Enrico Letta si trova dopo molti anni di governo a rivestire il ruolo di oppositore al governo Meloni.

 “Può essere una buona occasione, un esercizio utile”, dice anche se confessa che secondo lui un partito deve puntare alla prova del governo. In ogni caso ora l’opposizione può servire ai Democratici in primo luogo “per richiamare i dirigenti a occuparsi del partito e non del governo. E poi a occuparsi di se stessi, incamerare energie, e fare un po’ di pulizia”, a cominciare dal “conformismo di quelli che vengono da te proprio perché’ sei al governo”.

D’Alema ricorda quella lezione di Storace

In questo senso D’Alema cita una lezione “di sociologia italiana” ricevuta da Francesco Storace, “un fascista, ma simpatico”. Correva l’anno 1996 e il centrosinistra era appena arrivato al governo con Romano Prodi. D’Alema e Storace, entrambi sostenitori della prima squadra della Capitale, si incrociarono allo stadio. “Ora ti do l’elenco di quelli che verranno da te, ti abbracceranno e ti diranno con le lacrime agli occhi ‘finalmente abbiamo vinto'”, disse Storace a D’Alema, a margine di una partita della Roma. E aggiunse: “Sono gli stessi che sono venuti da noi”.

Il trasformismo che non bisogna mai dimenticare

D’Alema col sorriso spiega di non aver mai dimenticato quella lezione: “L’ho sempre tenuta a mente perché quando sei all’opposizione vengono meno persone a trovarti”.

C’è un metodo nelle uscite grottesche del governo. La maglietta di Enrico Montesano e la lettera di Valditara: così la destra rimuove l’antifascismo. Michele Prospero su Il Riformista il  15 Novembre 2022

Con la sua maglietta intonata alla nostalgia fascista, Montesano non è solo il giullare a corto di creatività che balla con i ritmi dello spirito nuovo. Il suo gesto rientra a pieno titolo in un clima. Magari il discorso sul fascismo fosse per intero una questione di “archeologia”, come ama ripetere qualche filosofo. Nel tratto pittoresco dei suoi interpreti di governo, la destra sta procedendo in maniera del tutto organica nel lavoro di rimozione del fondamento politico-ideale della Repubblica. C’è un metodo nelle uscite grottesche concepite da improbabili reincarnazioni di Gentile o Rocco: cancellare la genesi, confondere i princìpi.

La lettera del ministro Valditara è la sintesi perfetta della nuova verità di Stato che la destra intende imporre con le armi del potere. Dopo gli imbarazzanti silenzi nel centenario della marcia su Roma, il governo pare finalmente aver ritrovato l’inchiostro che serve per rinfrescare la memoria sui fatti del secolo scorso. Solo che, nelle parole della missiva ministeriale, non è più l’antifascismo il sostrato storico della democrazia italiana, ma la caduta del muro di Berlino. L’evento simbolico, provocato peraltro dalla visita liberatoria di Gorbaciov in quelle terre oppresse, non viene interpretato come la data della riunificazione tedesca. È presentato, piuttosto, come lo spartiacque cruciale che consente di ridefinire su basi del tutto alternative la storia delle idee e delle istituzioni occidentali.

La Germania riunificata diventa così il paradigma della liberazione europea dal comunismo, bollato seccamente nel documento come una “via che si lastrica di milioni di cadaveri”. Una tale narrazione, che fa di un singolo Stato come la Germania la cifra dell’intera vicenda europea (sono strani questi patrioti sovranisti che si sono accasati a Palazzo Chigi per vendicare la subalternità verso l’asse franco-tedesco), sostituisce con decreto il fondamento storico effettuale delle democrazie occidentali. Le carte bollate dei ministeri intendono rimuovere la verità storica per cui le esperienze di libertà del secondo dopoguerra sono sorte dalle rovine del nazifascismo. La sconfitta dell’Asse fu determinata dalla grande alleanza tra i pochi liberi Stati rimasti in occidente e l’Unione Sovietica. Con il suo revisionismo di Stato, l’Italia si accoda alle esigenze di legittimazione delle classi dirigenti di Stati entrati inopinatamente nel consesso politico europeo senza vantare alcuna esperienza democratica precedente. Negli anni Trenta i paesi dell’Est, che hanno recentemente indotto la vecchia Europa ad adottare in una risoluzione la categoria unificante di “totalitarismo”, erano in gran parte dominati da sistemi reazionari di destra. Nella loro ricusazione del comunismo riemerge, più che uno spirito di libertà, la memoria del vecchio cedimento dei loro avi alle pratiche illiberali dei regimi dispotici. Si tratta, spesso, di lontani nipotini delle giunte polacche della Sanacja, dell’ammiraglio ungherese Horthy, del dittatore lettone Kārlis Ulmanis, con le sue spietate retate di massa, o dell’autocrate lituano Antanas Smetona.

La lettera di Valditara persegue le stesse finalità delle classi dirigenti delle nuove destre dell’Est artefici di contagiose democrazie a bassa intensità. Da questi paesi, privi di una radicata tradizione liberal-democratica, e in molti casi con una storia semplicemente rimossa di collaborazionismo al soldo nazifascista, viene il movimento culturale per la riscrittura delle vicende del ‘900. Il governo italiano, con la sua rilettura à la carte del secolo scorso, mostra di avere le stesse esigenze dei discendenti di Corneliu Zelea Codreanu e del Conducător fascista Ion Antonescu, del bulgaro Filov alleato dei tedeschi, del regime filonazista ungherese delle Croci Frecciate, dei nazionalisti lituani delle Ypatingasis būrys, dei collaborazionisti estoni che edificarono nel ’41 uno Stato “judenfrei” (“libero dagli ebrei”), degli Ustascia croati di Ante Pavelić o del sacerdote antisemita slovacco Tiso. Per costoro la categoria di “totalitarismo” è una vera benedizione che condona il terribile passato dei regimi autoritari e collaborazionisti. La destra italiana coltiva la stessa esigenza di archiviare il cordone ombelicale che riconduce al fascismo come regime tirannico, e per questo la riscrittura della storia diventa un esercizio cruciale per l’egemonia. La Costituzione, i principi della Repubblica, sono destinati a crollare dinanzi all’operazione identitaria dei nuovi inquilini del governo. Kelsen spiegava che “la costituzione è un documento che attesta la situazione di equilibrio relativo nella quale i gruppi in lotta per il potere permangono fino a nuovo ordine”. Questo equilibrio, sorto con l’onda della Resistenza, pare ora infranto, almeno sul piano storico-valoriale.

Rilevante spia del mutato contesto è anche l’atteggiamento dei giornali dinanzi alle prime prove dell’esecutivo Meloni. Oltre al Corriere, luogo genetico del revisionismo storico ostile al paradigma antifascista, spicca la trasformazione del Messaggero in un foglio sempre più organico alle idee della destra radicale di governo. Il linguaggio del quotidiano romano è mutato in maniera molto evidente negli ultimi tempi. In un pezzo del raffinato politologo Campi si recupera una locuzione desueta e, riferendosi ai migranti, si parla di “allogeni”. “Allogeni”, spiega il vocabolario della Treccani, significa “di altra stirpe o nazione”. Il ritorno alle immagini della “stirpe” si congiunge con le parole dell’importante storico Pombeni, che sul giornale se la prende con le “navi che vanno alla ricerca di naufraghi per salvarli (e spesso anche di potenziali naufragandi)”. Il Messaggero pare lontano un miglio dal grande progetto editoriale di Vittorio Emiliani, che lo collocò a fianco dei nuovi diritti e dei movimenti progressivi che fiorivano nell’Italia tra fine anni Settanta e primi Ottanta. Il vecchio direttore, socialista nenniano, si sarà sentito colpito al cuore da un articolo di Luca Diotallevi che, in omaggio al brutto tempo nuovo, parla di “antifascismo da non mitizzare” e schiaffeggia “i social-comunisti” come nemici della democrazia. Per l’autore, nemico di un “antifascismo imbalsamato”, la vergogna della storia italiana sarebbero Nenni, Basso, Togliatti, Terracini, Pertini, Napolitano, Iotti, Craxi, Ingrao.

In ossequio ai reiterati bisticci del nuovo governo con la lingua italiana (tra articoli determinativi, nomi nuovi dati ai ministeri, norme scritte male e ricorso tecnicamente improprio a parole come “Nazione”), Diotallevi non si accontenta di pontificare che non è credibile “un anti-fascismo che non sia anche anti- comunismo”. Oltre a graffiare “i social-comunisti” del Fronte come potenziali carnefici politici, egli aggredisce la grammatica e scrive “camice nere” (sic). Con il suo tentativo di ricostruzione storica voleva mettere i puntini sulle i, ma ha proprio dimenticato di usufruire del contributo della preziosa vocale. Almeno l’ortografia è bene che conservi le sue regole “imbalsamate”. Quest’ultima, infatti, proprio come l’anticomunismo, non cambia mai, resiste al passaggio dei governi. E neppure mutano gli infelici comici in declino che, per farsi notare, annusano l’aria che tira e esibiscono la maglietta del fascio per accarezzare il potere che dura.

Michele Prospero

La storia insegna: chi toglie la libertà è sempre comunista. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2022.

Si può fare una statistica ormai quasi secolare delle libertà violentate nel mondo. E da quella statistica spicca una verità senza rendiconto: vale a dire che quando c'è massacro di libertà, praticamente sempre c'è un comunista che lo compie, o lo nasconde, o lo giustifica. E mai, quando nel mondo le libertà sono state aggredite, mai il comunista si è posto a difenderle. Mai nel mondo il comunista ha combattuto il potere che di volta in volta reprimeva quelle libertà, se non per sostituirvisi impiantando un potere che a sua volta ne faceva sacrificio.

Sul grosso delle libertà sopraffatte nel mondo c'è la grinfia del comunista. C'è la censura del comunista a rendere impunita quella sopraffazione. C'è la propaganda del comunista a giustificarla. Non c'è solo l'aguzzino che a migliaia di chilometri da qui fa rogo di una iurta mongola piena di bambini: c'è anche il comunista di qui che contestualizza. Non ci sono solo i milioni di bambini denutriti nei paradisi del socialismo asiatico: c'è anche il comunista di qui che li oppone ai senzatetto di New York. Non c'è solo l'omosessuale con i testicoli spappolati nel carcere cubano: c'è anche il comunista di qui, con appeso il ritratto del "Che", che si leva a difesa dei diritti civili minacciati dal neoliberismo. Non c'è solo il male assoluto perpetrato in mezzo mondo da decenni di violenza comunista: c'è anche di chi quel male è patrono, procuratore, avvocato.

Le cose buone fatte dal Pci? Ecco come ha devastato l'economia. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 15 novembre 2022

Siccome ho scritto che in Italia non ci sono state cose buone fatte grazie ai comunisti, né cose cattive che siano state fatte senza il loro contributo, il mio amico Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, mi ha rinfacciato l'elenco di positive acquisizioni che si dovrebbero all'iniziativa di quella tradizione politica. Scrive Sansonetti: «Divorzio, aborto, riforma sanitaria, riforma psichiatrica, 150 ore...». 

Ora, divorzio e aborto (che non tutti giudicano cose buone) non solo non si ottennero per iniziativa comunista, ma anzi quel partito assai malvolentieri, e non per convinzione, si risolse infine a non avversare quelle due riforme. La riforma sanitaria, appunto una delle cose pessime cui il Pci contribuì, ha devastato la pubblica economia e ha imposto un monopolio illiberale e anti-concorrenziale anche più ingiusto e inefficiente rispetto al pregresso sistema mutualistico, e in nome dell'universalismo ha prodotto l'intreccio di corruzione e malaffare di cui fanno le spese proprio i più bisognosi tra gli obbligati a sottoporvisi. 

La riforma psichiatrica sarebbe pietoso lasciarla da parte, una legge antireferendaria ripudiata dallo stesso (Basaglia) cui continua demagogicamente a essere riferita. Infine, le cosiddette «150 ore per il diritto allo studio», una specie di presidio di tipo cubano che non aveva nulla a che fare con ciò che si fa nelle democrazie decenti, cioè apprestare un sistema scolastico e dell'istruzione capace di tirar su la gente senza mezzi, ma era rivolto a riaffermare "il diritto operaio al sapere", ovviamente nel quadro della retorica operaista che ha garantito agli operai italiani i salari più bassi dell'Occidente avanzato. 

Non voglio dilungarmi, e ovviamente il discorso meriterebbe ben altro spazio di approfondimento. Ma sono parole contrarie ai fatti le cose buone apportate dai comunisti a questo Paese. E sono fatti contro le parole quelle invece cattive.

Viola Giannoli, Ilaria Venturi per repubblica.it il 9 novembre 2022. 

Il primo messaggio a studenti e studentesse del ministro dell'Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara è una lettera sul comunismo, "una grande utopia che si converte in un incubo altrettanto grande". La lettera è arrivata alle scuole stamattina, nell'anniversario della caduta del Muro di Berlino, "Giornata della libertà", per ricordare "l'esito drammaticamente fallimentare" di quella ideologia.  

La polemica delle opposizioni

Nessun cenno, invece, sottolinea il presidente Anpi Gianfranco Pagliarulo, "al fatto che il 9 novembre è anche la giornata mondiale contro il fascismo e l’antisemitismo proclamata dalle Nazioni Unite”. La ricorrenza è rimossa, resta solo la caduta del Muro. Che "se pure non segna la fine del comunismo – al quale continua a richiamarsi ancora oggi, fra gli altri paesi, la Repubblica Popolare Cinese – ne dimostra tuttavia l’esito drammaticamente fallimentare e ne determina l’espulsione dal Vecchio Continente", scrive Valditara.

Attacca anche il Pd: "Alla denominazione 'merito', da oggi bisogna aggiungere "e della propaganda". Come altro definire il ministero dell'Istruzione dopo la lettera fuori luogo inviata da Valditara alle scuole con una lettura strumentale della caduta del Muro di Berlino? Ma perché il ministro non si occupa di scuola?", scrive Simona Malpezzi su Twitter. Per Francesco Sinopoli della Flc Cgil "la lettera di Valditara è da Minculpop" e le "lezioni di storia spettano ai docenti, non certo al ministro". 

La replica del ministro

A Repubblica arriva la replica di Valditara: “Assolutamente nessuna contrapposizione”, spiega. “Ci sono tante giornate e in ciascuna si celebra un evento di particolare rilievo: il 27 gennaio la liberazione del campo concentramento di Auschwitz dal mostro dell’antisemitismo, il 25 aprile la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo e il 9 novembre la liberazione dell’Europa dal comunismo – dichiara Valditara - Non vedo il problema, sono figlio di partigiano della Brigata Garibaldi, non accetto lezioni da chi non ha mai rischiato la vita per combattere il nazismo. C’è chi è amico di Israele e chi è amico di Hamas. Io sono amico di Israele”. 

Il testo della lettera

Ma cosa dice la lettera? "Il comunismo - prosegue - è stato uno dei grandi protagonisti del ventesimo secolo, nei diversi tempi e luoghi ha assunto forme anche profondamente differenti, e minimizzarne o banalizzarne l’immenso impatto storico sarebbe un grave errore intellettuale", si legge nella lettera. 

La circolare prosegue spiegando che il comunismo "nasce come una grande utopia, sogno di una rivoluzione radicale che sradichi l’umanità dai suoi limiti storici e la proietti verso un futuro di uguaglianza, libertà, felicità assolute e perfette. Che la proietti, insomma, verso il paradiso in terra". Tuttavia, continua Valditara, "si converte inevitabilmente in un incubo altrettanto grande: la sua realizzazione concreta comporta ovunque annientamento delle libertà individuali, persecuzioni, povertà, morte". 

Per il ministro "perché l’utopia si realizzi occorre che un potere assoluto sia esercitato senza alcuna pietà, e che tutto – umanità, giustizia, libertà, verità – sia subordinato all’obiettivo rivoluzionario". E pertanto, si legge sempre nella circolare, "prendono così forma regimi tirannici spietati, capaci di raggiungere vette di violenza e brutalità fra le più alte che il genere umano sia riuscito a toccare". 

Per questo "il 9 novembre resterà una ricorrenza di primaria importanza per l’Europa: il momento in cui finisce un tragico equivoco nel cui nome, per decenni, il continente è stato diviso e la sua metà orientale soffocata dal dispotismo" e che "questa consapevolezza è ancora più attuale oggi, di fronte al risorgere di aggressive nostalgie dell’impero sovietico e alle nuove minacce per la pace in Europa".

"Il crollo del Muro di Berlino - conclude Valditara - segna il fallimento definitivo dell’utopia rivoluzionaria. E non può che essere, allora, una festa della nostra liberaldemocrazia. Un ordine politico e sociale imperfetto, pieno com’è di contraddizioni, bisognoso ogni giorno di essere reinventato e ricostruito. E tuttavia, l’unico ordine politico e sociale che possa dare ragionevoli garanzie che umanità, giustizia, libertà, verità non siano mai subordinate ad alcun altro scopo, sia esso nobile o ignobile".

Condanna il comunismo. Valditara subito "purgato". Domenico Di Sanzo il 10 Novembre 2022 su Il Giornale.

Circolare del ministro dell'Istruzione per l'anniversario della caduta del Muro. Furia Anpi e Pd: "Minculpop"

A ogni azione del governo di centrodestra corrisponde una reazione sempre uguale della sinistra che urla al fascismo. Qualunque occasione è buona e tutti i giorni ce n'è una. L'ultima riguarda le celebrazioni per la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre di trentatrè anni fa. Comincia il premier Giorgia Meloni, che sceglie di ricordare la fine del comunismo con un video condiviso dai canali social di Palazzo Chigi, anche se il tic antifascista scatta con una circolare inviata agli studenti dal ministro dell'Istruzione e del merito Giuseppe Valditara.

Ma partiamo da Meloni, che istituisce «Il Giorno della Libertà». Il crollo del muro «segna il tramonto del comunismo sovietico e con esso dei regimi totalitari che avevano dominato il '900 europeo e che avevano conculcato quei valori e quei diritti fondamentali che sono diventati patrimonio comune delle democrazie occidentali», spiega il presidente del Consiglio. E ancora Meloni: «La legge con cui si è istituito il 'Giorno della libertà' condanna non soltanto i regimi del passato ma anche il rischio di insorgenza di nuove forme di repressione della libertà». Il premier poi parla del popolo ucraino e della sua «lotta per la libertà». Sembra filare tutto liscio, fino a quando l'Anpi e la sinistra non cominciano di nuovo a bisticciare con la storia.

L'opposizione intravede un'opportunità per creare il caos in una circolare firmata da Valditara, titolare dell'Istruzione e del merito. La colpa del ministro? Aver raccontato l'ovvio agli studenti e cioè che «il comunismo voleva il paradiso in terra, ma ha prodotto solo morte e brutalità». Il poco che basta per rinnovare l'accusa di filo-fascismo. «Il comunismo nasce come una grande utopia ma ha preso forma in regimi tirannici spietati, capaci di raggiungere vette di violenza e brutalità fra le più alte che il genere umano sia riuscito a toccare», scrive Valditara, raffinato professore di diritto romano. Il ministro spiega che il comunismo «ha assunto forme anche profondamente differenti». Ma non è sufficiente per silenziare le sirene anti-fasciste.

Parte l'Anpi. Il presidente dell'Associazione dei partigiani Gianfranco Pagliarulo butta la palla in tribuna: «Nella lettera si rimuove il fatto che il 9 novembre è la giornata mondiale contro il fascismo e l'antisemitismo proclamata dalle Nazioni Unite». Pagliarulo insiste, bolla la lettera come «scorretta», «tendenziosa». Rincula il Pd. «Alla denominazione "merito", da oggi bisogna aggiungere "e della propaganda», twitta Simona Malpezzi, capogruppo dem al Senato. Non può mancare Nicola Fratoianni, deputato dell'alleanza Verdi-Sinistra, che definisce la lettera come «una lezione quanto mai stantia sul comunismo». Arturo Scotto, deputato bersaniano eletto con il Pd, tira in ballo il «Minculpop» di epoca mussoliniana.

Doverosa la replica di Valditara. «Ci sono tante giornate e in ciascuna si celebra un evento di particolare rilievo, il 9 novembre la liberazione dell'Europa dal comunismo». Il ministro reagisce: «Sono figlio di partigiano della Brigata Garibaldi, non accetto lezioni da chi non ha mai rischiato la vita per combattere il nazismo». Valditara ricorda a Pagliarulo i cortei dell'Anpi con i gruppi di manifestanti inneggianti ai terroristi palestinesi di Hamas: «Mi limito ad osservare solamente che c'è chi è un fiero e sincero amico di Israele e chi è amico di Hamas. Io sono amico dello Stato ebraico». Polemica chiusa, forse.

Il Lenin che è in noi. L’incapacità tutta italiana di condannare le ideologie di cui avremmo dovuto liberarci molti anni fa. Alberto De Bernardi su L’Inkiesta l’11 Novembre 2022.

Solo qui antifascismo e anticomunismo sono ancora tabù per una parte della popolazione e della classe politica: destra e sinistra hanno conservato nel proprio pantheon i protagonisti delle dittature totalitarie del Novecento, nonostante tutto

Ieri intorno al comunismo sono avvenuti eventi esemplari che chiariscono meglio di ogni altra presa di posizione il rapporto irrisolto della sinistra con quell’ideologia e con la serie di eventi, che sono scaturiti dalla rivoluzione d’Ottobre fino ad oggi, che ad essa si richiamano.

Cavriago: l’ultimo avamposto del bolscevismo

Partiamo dal meno rilevante, ma per molti aspetti molto significativo. Come pochissimi italiani sanno, nella piazza di Cavriago, un piccolo comune emiliano, è esposto un busto di Lenin che l’ambasciatore dell’Urss in Italia donò alla cittadina forse per ricordare la colletta fatta dai suoi cittadini per sostenere la rivoluzione bolscevica.

Dal 22 novembre, il busto autentico (quello nella piazza e ormai da tempo una copia) verrà esposto in comune e attorno a questa decisione sarà organizzata un serie di iniziative che come dice la sindaca della città sarà finalizzata per una settimana a «un confronto senza pregiudizi e semplificazioni», «che guardi avanti e non indietro» sulla figura di Lenin e sul comunismo proposti come antidoti «all’individualismo imperante e agli egoismi».

L’insieme degli eventi sarà concluso da un convegno appaltato alla rivista Limes che guarderà la storia della Russia in una prospettiva geopolitica dal titolo “Putin e il putinismo in guerra”: insomma da Lenin a Putin.

Senza fare un processo alle intenzioni sugli obbiettivi politici che la proposta sottende (ma che risultano del tutto evidenti solo dai titoli delle diverse iniziative), quel che sorprende è che tra le parole utilizzate per lanciare il programma lanciato da molti siti ufficiali delle diverse istanze istituzionali a livello cittadino e regionale, non ci sia «condanna».

A Cavriago dunque si riflette sul comunismo senza condannarlo; anzi sembra del tutto normale mescolare Lenin e Vladimir Putin quando è in corso una guerra spietata proprio contro l’Ucraina, il paese dove nel 1922 alcuni operai avevano fuso quello stesso busto. Invece di restituirlo a Mosca, proprio per questa ragione, come avevano suggerito alcuni cittadini, quel busto viene un secolo dopo ancora brandito come fondamento inossidabile dell’identità di quella piccola comunità, prima ancora che contro il buon senso e il senso del ridicolo, contro la storia stessa, come se essa si sia fermata all’epoca della guerra fredda nella quale venne esposto nel giardino della città.

Dalla parte giusta della Storia

In compenso immagino che gli ideatori dell’evento si riconoscano in quelli che hanno protestato contro l’ennesima sfilata a Predappio dei nostalgici del fascismo e ritengano esecrabile che Ignazio La Russa tenga a casa sua sulla sua scrivania un busto di Mussolini. Ma così si entra in un cortocircuito ideologico spaventoso per il quale in fascismo è condannabile come crimine della storia e il comunismo no perché stava dalla parte giusta della storia in quel lontano 1917 e nonostante le sue tragiche degenerazioni appartenga ancora al progressismo e rappresenti ancora un’eredità per la sinistra sulla quale riflettere senza pregiudizi.

Ma in realtà è vero invece il contrario: Lenin stava dalla parte sbagliata della storia, come Mussolini, e il comunismo rappresenta una variante del totalitarismo altrettanto spaventosa e sanguinosa del nazismo. Non si può oggi essere antifascisti se non si è anche anticomunisti, con buon pace della sindaca di Cavriago, perché entrambi nascono dallo stesso ceppo ideologico: la palingenesi rivoluzionaria come fine della storia, la violenza come pratica politica, l’ideologia come religione totalitaria che non ammette il dissenso e la liberaldemocrazia e il socialismo riformista con nemici da distruggere.

Il ministro anticomunista

La stessa logica è emersa nei commenti al secondo evento – questo di livello nazionale – che si e verificato ieri: la lettera che il ministro Giuseppe Valditara ha mandato agli studenti per ricordare la caduta del muro di Berlino e il collasso del comunismo.

In essa era espresso un giudizio di condanna inappellabile di quella esperienza storica: una grande utopia che in ogni luogo dove si sia trasformata in un governo effettivo ha comportato non solo la fine della libertà, ma una scia di sangue seconda solo allo sterminio degli Ebrei. «Il comunismo – scrive il ministro – è stato uno dei grandi protagonisti del ventesimo secolo – scrive ancora il ministro – nei diversi tempi e luoghi ha assunto forme anche profondamente differenti, e minimizzarne o banalizzarne l’immenso impatto storico sarebbe un grave errore intellettuale.

Nasce come una grande utopia: il sogno di una rivoluzione radicale che sradichi l’umanità dai suoi limiti storici e la proietti verso un futuro di uguaglianza, libertà, felicità assolute e perfette. Che la proietti, insomma, verso il paradiso in terra.

Ma là dove prevale si converte inevitabilmente in un incubo altrettanto grande: la sua realizzazione concreta comporta ovunque annientamento delle libertà individuali, persecuzioni, povertà, morte. Perché infatti l’utopia si realizzi occorre che un potere assoluto sia esercitato senza alcuna pietà, e che tutto – umanità, giustizia, libertà, verità – sia subordinato all’obiettivo rivoluzionario. Prendono così forma regimi tirannici spietati, capaci di raggiungere vette di violenza e brutalità fra le più alte che il genere umano sia riuscito a toccare. La via verso il paradiso in terra si lastrica di milioni di cadaveri.

Gli Irriducibili alfieri dell’utopia

Di fronte a questa constatazione inconfutabile che comporta dal punto della formazione civile dei cittadini di una nazione democratica una condanna severa come quella del fascismo, e che tra l’altro sintetizza i risultati della ricerca storica mondiale, da più parti del mondo della sinistra è montata una levata di scudi sulla base del principio che siccome in Italia il Pci è stato un grande partito democratico – per fortuna nostra mai messo nelle condizioni di governare – ogni riflessione critica sul comunismo è improponibile, come se le immagini del carcerato Antonio Gramsci, di Luciano Lama e Enrico Berlinguer consentissero di stendere un velo pietoso su Stalin, Breznev, Mao, Castro, Pol Pot, Ceausescu, Honnecker e via elencando.

Scrive infatti il segretario della Cgil Scuola Francesco Sinopoli: «Nessuno, oggi, può e deve sentirsi orfano del Muro di Berlino, ovviamente. Tuttavia, rappresentare la storia del comunismo come male storico radicale, e come caduta dell’utopia della liberazione, ancora minacciosamente presente in Cina, ad esempio, non è un’analisi, è un giudizio, e pure falso. Quell’impatto storico, di cui parla il professor Valditara, non dice nulla sull’esperienza di quei comunisti italiani (e francesi, e tedeschi, per citarne solo alcuni) che hanno liberato l’Europa dal nazifascismo e contribuito a scrivere la nostra Costituzione, o a debellare la mala pianta degli estremismi terroristici che hanno insanguinato la storia recente, o a governare in modo progressivo e moderno lo sviluppo di grandi città. Provengo da un’altra storia politica e culturale, non sono mai stato iscritto al Pci o alla Fgci, ma trovo inaccettabile questa semplificazione della storia del comunismo europeo, che ha avuto tra i suoi artefici personalità come Gramsci, Giuseppe Di Vittorio, Lama, Berlinguer, Pietro Ingrao, Alfredo Reichlin, (e potrei citarne all’infinito), la cui vita resta ancora oggi modello di riferimento per tante generazioni».

Cioè per Sinopoli il muro di Berlino, i milioni di morti nei gulag e negli esperimenti economici dei piani quinquennali, la povertà cui furono costretti i sudditi dell’impero sovietico non sono sufficienti per «rappresentare la storia del comunismo come male storico radicale e come smentita irriducibile dell’utopia della liberazione», perché qui da noi c’erano Ingrao e Berlinguer che sono passati alla storia come dirigenti democratici quanto più si sono allontanati da quei modelli e da quella utopia, seppur avessero evitato di dirlo, sennò avrebbero perso il voto del signor Sinopoli.

L’anti-anticomunismo come critica alla liberaldemocrazia

Mentre viene fatta passare per propaganda la visione del comunismo presentata dal ministro, quella di Sinopoli dovrebbe rappresentare la «libertà del pensiero», una versione della storia scevra da ideologie; rappresenta piuttosto un’ultima thule di chi non riesce a fare i conti con la storia esattamente speculare a quella di quanti continuano a dire che il fascismo «ha fatto anche cose buone» e Mussolini ha fatto rispettare l’Italia nel mondo.

Ma il retroterra ancor più pericoloso del ragionamento di Sinopoli è racchiuso nel commento finale alla lettera del Ministro che invitava gli studenti a tenere in gran conto la democrazia liberale laddove sostiene con spezzo del pericolo che «contrapporre come fa il professor Valditara, il crollo del Muro di Berlino alla vittoria delle sorti magnifiche e progressive della liberaldemocrazia non è altro che l’introduzione nelle nostre scuole di una indicazione e una mistificazione ideologica»: cioè nelle scuole non si deve esaltare la liberaldemocrazia contro i totalitarismo, che costituisce l’esito compiuto della lotta antifascista, perché è mistificatorio, ma si può invece sostenere legittimamente che nel «lampo del ’17» era racchiusa l’utopia della liberazione umana che deve costituire ancora un punto di riferimento per le giovani generazioni.

Ma propaganda di cosa?

Se dunque l’eredità comunista irrisolta aleggia nel pensiero del segretario della Cgil scuola riemerge anche in quello del Presidente dell’Anpi, che attacca il ministro per non aver ricordato il fascismo e l’antisemitismo senza dire nulla però del giudizio sul comunismo. Anche Gianfranco Pagliarulo, crede come Sinopoli, che dire che il comunismo sia stata una tragedia del XX secolo leda la «libertà d’insegnamento» oppure ritiene che fascismo e comunismo vadano condannati allo stesso modo e che lo Stato debba stimolare proprio in un paese come l’Italia il più grande partito comunista che è crollato senza mai averlo condannato, una memoria pubblica antitotalitaria e non solo antifascista? Non lo sapremo mai.

Ma la stessa domanda dovremo rivolgerla anche a Simona Malpezzi, capogruppo del Partito democratico al Senato, che ha accusato il ministro di fare propaganda; ma propaganda di cosa: dell’anticomunismo? Ma condannare il comunismo non ha niente a che vedere con la propaganda, esattamente come condannare il fascismo; altrimenti si diventa uguali a Giorgia Meloni che non condanna il fascismo, mentre la sinistra non condanna il comunismo.

Mentre l’identità repubblicana che Meloni e Malpezzi dovrebbero condividere dovrebbe fondarsi su una condanna unanime di entrambe le dittature totalitarie, invece che tenerle ciascuna nel proprio pantheon ideologico, da cui prendere distanze ambigue e contorte, ma da non rimuovere completamente perché la faccia di Mussolini e di Lenin sono inestricabilmente ancora rappresentative della loro più oscura identità. È qui che riemerge purtroppo come nelle identità politiche dei partiti italiani comunismo e fascismo costituiscano ancora dei macigni che pesano drammaticamente sulle loro visioni del mondo e impediscano all’Italia di uscire definitivamente dal XX secolo.

Gli analfabeti del comunismo. La pletora di antifascisti in assenza di fascismo non riesce a dichiararsi anticomunista neppure a trentatré anni di distanza dalla caduta del Muro. Alessandro Gnocchi il 10 Novembre 2022 su Il Giornale.

La pletora di antifascisti in assenza di fascismo non riesce a dichiararsi anticomunista neppure a trentatré anni di distanza dalla caduta del Muro (9 novembre 1989). Per appartenere alla famiglia liberal-democratica è necessario essere antifascisti e anticomunisti. Il concetto è semplice, infatti si è affermato in tutto il mondo occidentale, tranne in Italia.

Ieri abbiamo assistito a una polemica grottesca contro Giuseppe Valditara, il ministro dell'Istruzione e del Merito, colpevole di aver scritto una lettera agli studenti in cui si dice: la caduta del Muro di Berlino ci ha consegnato un mondo più libero, il comunismo voleva creare il paradiso in terra invece ha fatto milioni di morti. Qualcuno, per ignoranza o in cattiva fede, si sorprende del comunicato, insinuando sia una direttiva da Minculpop. I ministri hanno sempre scritto lettere agli studenti in occasione del ricordo di un evento storico. Basta andare sul sito del ministero, se ne trovano decine: nessuno è mai stato accusato di fare politica. Quindi il problema deve essere proprio il contenuto della lettera. Un'ovvietà per tutti, ma non per i nostalgici che vorrebbero vivere in un eterno dopoguerra. Paradossalmente, la reazione avvalora il messaggio del ministro. In effetti, per avere più libertà, ci sarebbe bisogno di intellettuali consapevoli di quello che dicono.

L'equazione democrazia uguale antifascismo è stata inventata dalla propaganda del Partito comunista italiano. L'altra equazione sbagliata è Resistenza uguale Partito comunista italiano. Molti comunisti erano antifascisti ma non democratici, fedeli alla linea più che all'Italia. Deposero le armi per ordine del Partito. Il segretario Togliatti non fece altro che adeguarsi alla volontà di Stalin. Il tiranno sovietico era impegnato a consolidare il potere sull'Europa orientale e non voleva aprire un nuovo fronte. Nella Resistenza, poi, c'erano anche i cattolici, i militari, i monarchici, i liberali, gli anarchici, gli azionisti. Sulle vittime del comunismo, inutile discutere: le cifre possono essere discordanti ma è impossibile negare sia stato una tragedia.

Ci sono fior di studi su ogni questione, a partire da quelli di Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky sulla puramente strategica «svolta democratica» del Pci. Se ne consiglia la lettura a membri dell'Anpi fuori dal tempo, storici a senso unico, politici analfabeti di ritorno ma anche di andata, ideologi della domenica, laureati all'università della vita, opinionisti esperti di tutto e niente.

I fatti di ieri sono anche una lezione per il centrodestra: la cultura conta. Il centrodestra non ha mai saputo creare un clima favorevole alla libertà. Anche per questo oggi deve difendersi da accuse al limite (superato) dell'idiozia.

Bugie storiche. La sinistra è vera maestra. Giuseppe Valditara, ministro dell'Istruzione e del Merito, due giorni fa, in coincidenza con il 33esimo anniversario della caduta del Muro, ha mandato una lettera agli studenti in cui diceva: il comunismo è stata un'ideologia liberticida e assassina. Alessandro Gnocchi l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.

Leggere i giornali di ieri è stata una esperienza divertente, al limite del comico. Riavvolgiamo un attimo il nastro per capirci. Giuseppe Valditara, ministro dell'Istruzione e del Merito, due giorni fa, in coincidenza con il 33esimo anniversario della caduta del Muro, ha mandato una lettera agli studenti in cui diceva: il comunismo è stata un'ideologia sempre liberticida e spesso assassina. Capirai che scandalo, sono fatti ormai noti anche ai sassi ma non ai nostalgici della bandiera rossa, che si sono inalberati. Sui giornali di ieri, per proseguire la polemica, si rimproverava al ministro di raccontare la storia a metà. Il 9 novembre è l'anniversario del Muro ma anche della Notte dei cristalli, selvaggia esplosione di antisemitismo nella Germania nazista. La seconda ricorrenza è riconosciuta dall'Unione europea. Come si è permesso il ministro di ometterla? Nel 2021, il ministero non ha pubblicato alcuna lettera in merito. Nel 2020, il ministero non ha pubblicato alcuna lettera in merito. Nel 2019 e nel 2018... avete già capito. La sinistra non ha avuto niente da dire in questi anni. La polemica è strumentale. Farebbe pena se non scatenasse le risate: la sinistra post comunista accusa qualcuno di manipolare e nascondere la storia. Il Partito comunista italiano è stato maestro in questo campo: ha fatto credere agli italiani che l'antifascismo e la Resistenza fossero sinonimi rispettivamente di democrazia e comunismo; ha protetto e giustificato i criminali gappisti sterminatori di partigiani bianchi; ha cercato di minimizzare la violenza delle foibe e la catastrofe dell'esodo; ha sporcato il pacifismo sfruttandolo in chiave filosovietica e antiamericana; ha taciuto le sanguinarie vendette nel Triangolo rosso; ha sostenuto l'Armata rossa nei giorni di Praga e Budapest; ha promosso la censura di scrittori come Boris Pasternak; ha trasformato la militanza in carrierismo in ogni settore della cultura, dall'intellettuale impegnato a quello impiegato; ha negato di essere finanziato dai sovietici. Gli eredi hanno buttato il comunismo senza fare i conti con il passato e perpetuato le «lacune» storiche... Ora fanno lezione agli altri: giudicate voi con quale autorevolezza.

Il «canto triste» dei giovani di Praga. La protesta in strada e la repressione sovietica. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Novembre 2022

È il 15 novembre 1968: nelle pagine degli Esteri de «La Gazzetta del Mezzogiorno» compare un reportage da Praga di Vito Maurogiovanni, collaboratore del quotidiano. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici erano entrati nella capitale cecoslovacca e avevano messo fine alla cosiddetta Primavera di Praga.

Le truppe del patto di Varsavia avevano, così, stroncato il tentativo compiuto da Alexander Dubcek di riformare dall’interno il regime comunista. Salito al potere nel gennaio 1968, Dubcek aveva portato avanti un programma di moderate riforme, ma i Russi temevano che il suo esempio di «socialismo moderato» potesse diffondersi nel resto dell’Europa orientale. I carri armati sovietici avevano provocato morti e feriti tra i civili: il primo ministro e gli altri membri del governo erano stati arrestati. Maurogiovanni si trova a Praga il 7 novembre, pochi mesi dopo quelle vicende: quel giorno si celebra il cinquantesimo anniversario della rivoluzione russa e scoppiano gravi incidenti tra i manifestanti. Scrive Maurogiovanni, arrivato in piazza San Venceslao: «Ad un tratto avvertiamo dal fondo della piazza un mormorio che sale sempre più e non ci è difficile scorgere un corteo di dimostranti che avanza lentamente con bandiere e cartelli. Sono giovani operai, studenti, ragazze in minigonna o in lunghi impermeabili, capelloni, apprendisti in tuta: ripetono ritmicamente slogans antirussi ed avanzano compatti, sul lato sinistra della piazza in fila serrate e senza quel pittoresco disordine che caratterizza le dimostrazioni giovanili. Giunti davanti al monumento, i ragazzi si fermano: cessano d’incanto le loro grida e, all’improvviso, echeggia un canto triste. Sono mille e mille bocche che cantano, un inno lento espresso con l’intensità dei cori che si levano sotto le immense navate delle cattedrali gotiche. Il canto copre i rumori della strada, ferma i passanti, rivela nell’anonima colonna dei dimostranti l’esistenza di una grande tensione ideale». Pochi istanti dopo, racconta il cronista, quando il corteo riprende la sua marcia, arrivano i poliziotti armati di manganelli che caricano con impeto la folla che si riversa in tutte le direzioni. Maurogiovanni racconta le terribili violenze contro i manifestanti, di cui è testimone. La sera stessa, dopo una riunione degli studenti di economia e commercio, assiste ad un altro faccia a faccia con i poliziotti: «Senza manganelli, questa volta. In compenso hanno gli idranti che sparano acqua gelida nella fredda notte non appena gli studenti e gli operai si uniscono per gridare ancora la loro protesta, la loro fede in un socialismo più umano». È il «fiero novembre dei giovani di Praga».

"Praga, Stalin e le omissioni del Pci". Dopo le polemiche su Valditara, lo storico analizza le amnesie dei comunisti e dei loro eredi. Matteo Sacchi l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.

La memoria delle forze politiche italiane sulla Storia è piuttosto ondivaga. Partiti che non si sono mai ricordati della Kristallnacht (la più nota delle molte aggressioni dei nazisti agli ebrei tedeschi) se ne ricordano di colpo se il ministro Giuseppe Valditara, scrive a proposito di quell'enorme svolta libertaria che è stata la caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989. Se ne ricordano invocando una sorta di par condicio per cui se si evoca la fine (parziale) di una dittatura si dovrebbe, per forza, evocare anche un evento relativo alla dittatura ideologicamente opposta (anche se sappiamo che nazismo e comunismo non ebbero difficoltà ad essere anche alleati). Abbiamo fatto una chiacchierata sul tema con il professor Roberto Chiarini, storico contemporaneista e Presidente del Centro studi e documentazione sul periodo storico della Repubblica sociale italiana.

Professor Chiarini ma come mai solo ora ci si accorge della Notte dei Cristalli? Esiste un calendario della memoria storica che cambia nel tempo?

«Certamente, l'Italia liberale ha avuto le sue ricorrenze, l'Italia fascista le sue, celebrando a esempio la Marcia su Roma, e poi, a seguire, la Repubblica ha creato le sue come il 25 aprile. Se dobbiamo essere onesti la Notte dei cristalli non ha mai avuto una particolare attenzione in Italia. E del resto, pur essendo un evento tragico, perché porre l'accento più su quella e non sull'incendio del Reichstag, o sul Putsch di Monaco? Mi sembra che la polemica sia pretestuosa e nasca dal fatto che le ambiguità sul crollo del Muro di Berlino siano ancora forti...».

Ecco, quali sono le date o i fatti con cui la sinistra italiana, o più precisamente gli eredi del Pci, non hanno ancora fatto i conti?

«Se guardiamo alla Caduta del muro, proprio allora il partito comunista ha mandato al macero l'ideologia comunista, ma non ha affatto portato avanti un riesame della Storia alla luce di quel cambiamento. Il comunismo in Italia ha dei meriti nell'avvento della democrazia ma si è guardato bene dal prendere in esame i suoi errori o la sua adesione ad un'ideologia completamente sbagliata che invocava continuamente una crisi del capitalismo mai avvenuta».

Qualche esempio?

«L'anno scorso si celebrava la nascita del Partito comunista italiano. C'è stato qualcuno che ha rivalutato le posizioni di Turati che criticò la fuga in avanti verso il bolscevismo. Ma non c'è stata un'analisi seria dell'errore che venne commesso allora rinnegando il riformismo e contribuendo a spingere l'Italia verso l'estremismo che favorì l'ascesa del partito fascista e di Mussolini. E tra le responsabilità di Togliatti ci fu anche quella di rompere poi l'unità delle forze antifasciste, almeno sino a quando daStalin non arrivò l'ordine di fare fronte comune. Tutte questioni finite nel dimenticatoio».

Così anche per il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale?

«Continuò come prima l'abbaglio del modello sovietico, basta pensare a tutte le false accuse a Giuseppe Saragat di essere un traditore della classe operaia al soldo dei sindacati americani per la sua scelta convintamente atlantista. Una scelta ovviamente saggia e doverosa in quell'epoca. Togliatti non fece nulla per aiutare il centrosinistra di allora, l'unico che abbia fatto vere riforme sociali nel Paese, anzi lo boicottò. E ancora più drammatico fu l'incrocio con il socialismo di Craxi. A cui fu negato anche dopo la caduta del Muro il merito di aver sepolto per primo l'armamentario ideologico marxista.Craxi arrivò a teorizzare in Italia quello che i socialisti tedeschi avevano già messo in pratica dagli anni Cinquanta. Il Pci ci è arrivato solo, e costretto, dopo il 1989 e anche così anche nei cambi di nome del partito si sono guardati bene dall'usare la parola socialismo, e questo non è un caso, è stato un modo di non fare i conti con la storia».

E poi ci sono le questioni relative alle scelte di campo internazionali. Come il caso dell'Ungheria e poi dell'occupazione sovietica della Cecoslovacchia...

«L'Ungheria nel 1956 è un caso emblematico. Persino Napolitano arrivò a giustificare l'invasione e tutti gli intellettuali che si ribellarono a questo appiattimento su Mosca vennero cacciati dal partito. Nel caso di Praga, nel 1968, Berlinguer fu più coraggioso, ma nemmeno in quel caso si arrivò a liberarsi dall'idea completamente anacronistica del crollo del capitalismo e a fare i conti col passato. E il problema è ancora lì in buona parte».

Cortina di ferro, addio! Tedeschi liberi di correre a ovest. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Novembre 2022.

È il 10 novembre 1989. La notizia in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» è sensazionale: «Si è aperto il Muro». Così scrive Mario Barbi, corrispondente da Bonn: «Ha avuto l’effetto di una bomba la notizia data dal responsabile dell’informazione del Pc Schabowski: la Germania Est ha aperto le frontiere con la Germania Ovest».

La sera prima, il 9 novembre 1989, il portavoce della Repubblica democratica tedesca, illustrando la nuova legge sui viaggi all’estero appena approvata dal Consiglio dei Ministri, ha sorpreso i giornalisti annunciando che, in base alle nuove disposizioni, tutti i cittadini della Germania orientale avrebbero potuto ottenere in tempi brevi il permesso per espatriare. L’autorizzazione sarebbe stata valida anche per passare da Berlino est a Berlino ovest: a dividerle c’era il Muro, costruito a partire dall’agosto 1961 per bloccare l’esodo di decine di migliaia di tedesco-orientali verso l’occidente. Un giornalista chiede la data di entrata in vigore del provvedimento: la risposta di Schabowski lascia tutti sbigottiti: «Da adesso». La notizia corre: migliaia di berlinesi dell’Est scendono per strada e si avviano verso la frontiera con Berlino ovest. Le guardie di confine non hanno ancora ricevuto ordini precisi: le barriere, alla fine, si aprono.

In ventotto anni più di un centinaio di persone hanno perso la vita nel tentativo di attraversare quel confine: adesso, per la prima volta, i berlinesi dell’Est possono recarsi liberamente dall’altra parte del Muro. È il crollo della Cortina di ferro. «Tutti i tedeschi orientali potranno così liberamente andare all’estero, senza più bisogno di permessi e di visti. Lo storico annuncio ha in pratica abbattuto il Muro di Berlino e mette fine alle fughe attraverso la Cecoslovacchia e la Polonia. Accanto a questa decisione c’è da registrare la promessa di Krenz di indire subito libere elezioni. Accontentati anche i più accesi sostenitori delle riforme che chiedevano un congresso straordinario del Pc: a dicembre si svolgerà una conferenza di partito. L’abbattimento delle frontiere ha avuto larga eco anche in Germania Ovest: appena il cancelliere Kohl tornerà da Varsavia deciderà per un vertice con Krenz. In Polonia il cancelliere ha incontrato il premier Mazowiecki e Lech Walesa, domenica visiterà il lager di Auschwitz».

Enrico Jacchia così commenta in prima pagina: «Abbiamo chiesto per decenni l’abbattimento del muro di Berlino e adesso che lo stanno buttando giù per davvero lo fanno così in fretta che non riusciamo ad immaginare tutte le conseguenze». Le conseguenze, in effetti, saranno sorprendenti. Trentatré anni fa cambiava per sempre la storia dell’Europa.

Quell'inversione in una notte. E l'Italia si svegliò antifascista. Nel suo ultimo libro, Vespa ripercorre le ore successive alla caduta di Mussolini: "I sostenitori si disciolsero nell'aria". Bruno Vespa il 5 Novembre 2022 su Il Giornale.

Esce oggi edito da Mondadori Rai Libri il libro di Bruno Vespa La grande tempesta. Mussolini, la guerra civile. Putin, il ricatto energetico. La Nazione di Giorgia Meloni, pagine 390, 21 Euro. Pubblichiamo un brano tratto dal primo capitolo («Da Villa Savoia al Gran Sasso»).

Proprietario dell'agenzia Stefani era Manlio Morgagni, fascista e amico di Mussolini dalla prima ora. All'inizio della storia aveva aiutato il Duce a ottenere finanziamenti dalla Francia e nel 1924 lui lo aveva ricompensato consentendogli di comprare l'agenzia di stampa che era stata fondata da Guglielmo Stefani ai tempi di Cavour. Quando Suster gli diede la notizia del cambio di governo, Morgagni gli chiese consiglio sul da farsi. L'altro gli suggerì di andarsene a dormire: si sarebbe deciso l'indomani. Dopo aver detto alla moglie di disfare i bagagli pronti per la villeggiatura, Morgagni raggiunse la camera da letto, si sdraiò e si uccise con un colpo di rivoltella alla testa. Lascio una straziante lettera d'addio a Mussolini: «Mio Duce! La mia vita era tua. Ti domando perdono se sparisco. Muoio col tuo nome sulle labbra e un'invocazione per la salvezza dell'Italia ». Morgagni fu l'unico suicida del 25 luglio. E il suo suicidio fu l'unico gesto di dignità alla caduta di un regime che, quella notte, sembro sciogliersi come se i vent'anni precedenti non fossero mai esistiti.

I primi a conoscere la notizia furono dunque i redattori della Stefani. «Non si nasconde la gioia» racconta Suster in Per una storia d'Italia del 1943. «Si dice che il Duce conduceva ormai il Paese fatalmente alla catastrofe e l'essersene liberati può forse offrire una possibilità di ripresa o di salvamento per l'Italia. Fra tutti però i più felici sono i carabinieri. Il brigadiere che li comanda sale egli stesso sulla seggiola per togliere da tutte le stanze i ritratti di Mussolini, affermando ch'egli aveva tentato d'inquinare la stessa Arma». Dopo la trasmissione dei comunicati alla radio, «subito la città e le strade sembrano percosse da un sussulto. Porte e finestre si spalancano. Un uomo in camicia da notte attraversa piazza di Spagna gridando come impazzito e agitando una bandiera tricolore. Ragazze, donne, soldati si precipitano fuori: tutti gridano, si abbracciano, corrono. Il brusio sale come una marea, lontana e minacciosa».

Suster descrive anche l'entusiasmo della Firenze letteraria, dove Manlio Cancogni andava a svegliare Vasco Pratolini e Romano Bilenchi, e persino i prudentissimi poeti Alessandro Parronchi e Mario Luzi «sentivano l'appello dell'ora», perché «era sottinteso, pareva, che in Italia tutto, fin dall'indomani, sarebbe cambiato». E pure Pietro Ingrao, 28 anni, membro del Partito comunista clandestino, nascosto a Milano fu svegliato di soprassalto, come ha ricordato nel suo libro di memorie Volevo la luna: «A Porta Venezia trovammo Milano illuminata, ebbra e in tumulto. Per la prima volta mi trovavo in una furia di popolo che urlava, sfasciava, esultava: alla caccia delle sedi fasciste, dei segnacoli del regime, a gridare lo scatenarsi della gioia e la voglia di vendicarsi». Divertente ed emblematica la testimonianza di un bambino, Dario Oitana, riportata nel maggio 2003 dal Foglio con il titolo Quel magico 26 luglio: «Dario, Dario, il Duce non c'è più, il Re l'ha mandato a spasso, ora c'è il Maresciallo Badoglio». Questa fu la sveglia di Dario il 26 luglio 1943. «Fui preso dal panico. E come se mi avessero detto: il sole non c'è più». E il saluto al Duce? E il braccino teso per il grido: «A noi!»? La zia, che fino a qualche giorno prima inneggiava ancora a Mussolini come al Salvatore della Patria, ora gli spiegava che era stato causa di ogni disastro, ma che il re e Badoglio li avrebbero salvati. «Come altri milioni di italiani feci una conversione a U, e da piccolo fascista diventai un convinto antifascista. Mi procurai un gessetto, scrissi alcune M e poi vi feci una croce sopra. Non potendo abbattere i busti, mi dovevo accontentare. Poi scrissi alcune B (Badoglio) precedute da un Viva. Mi recai nella piazza del paese, piena di uomini con baffi e cappello (era la divisa dei contadini), che si congratulavano per la notizia sorprendente ed entusiasmante. Anche loro erano diventati tutti antifascisti».

I fascisti si dissolsero nell'aria come se non fossero mai esistiti. Mentre venivano abbattuti i busti di Mussolini, milioni di mani toglievano dall'occhiello della giacca un distintivo (la «cimice») prima inseguito e poi a lungo ostentato. In quel momento erano tre gli uomini chiave del regime fascista: Carlo Scorza, segretario del partito; Enzo Galbiati, comandante della Milizia; Umberto Albini, sottosegretario al ministero dell'Interno (il ministro era Mussolini). Ad Ambrosio, che cercava Scorza, rispose il suo vice, Alessandro Tarabini: aveva avuto l'ordine di diramare fonogrammi per tranquillizzare le federazioni e li aveva firmati con il nome del segretario. Lo stesso Scorza, al generale dei carabinieri che era andato ad arrestarlo, chiese la libertà sulla parola e si disse disposto a collaborare. Il 27 luglio scrisse a Badoglio: «Dopo due giorni di silenzioso lavoro ritengo di poter considerare esaurito il compito di persuasione e disciplina tra i fascisti impostomi dalla mia coscienza, come sacro dovere di soldato, in seguito al cambiamento di governo».

Galbiati aveva a disposizione la divisione corazzata M (Mussolini), impegnata in esercitazioni a Campagnano, a pochi chilometri da Roma. Ricostituita nel maggio 1943 con nuovi reparti affiancati ai reduci dalla Russia, era stata dotata da Heinrich Himmler dei formidabili carri armati Panzer per la personale tutela del Duce. Per fortuna non si mosse, ma se avesse voluto reagire, Galbiati avrebbe potuto attaccare alcuni centri nevralgici (la sede dell'Eiar in via Asiago era presidiata soltanto da una ventina di carabinieri). E invece attese nel suo ufficio la visita del generale Quirino Armellini, suo successore, senza battere ciglio. («Io aspetto qui il mio successore» raccontò al giornalista fascista Bruno Spampanato. «Lui crederà che io lo accolga a bombe a mano e io gli offrirò queste» disse, indicando un pacchetto di caramelle che aveva già distribuito ai collaboratori presenti). Al console generale Alessandro Lusana, che comandava la divisione M e gli chiedeva ordini, rispose: «Nulla». E quando Lusana si rivolse al nuovo capo di Stato maggiore della Milizia, Armellini, si senti dire: «Continuate con le esercitazioni». Il fascio cucito sulle divise fu sostituito dalle stellette militari e la divisione M divento divisione Centauro. Senza colpo ferire.

Il terzo uomo era Albini, che aveva votato a favore dell'ordine del giorno Grandi. Subito dopo l'arresto del Duce, Castellano andò a trovarlo al Viminale accompagnato dal colonnello Luigi Marchesi, che avrebbe poi raccontato la scena a Sergio Zavoli, autore con Arrigo Petacco del libro Dal Gran Consiglio al Gran Sasso. «Si alzi in piedi e non faccia movimenti» gli ingiunse Castellano, sapendo che sotto le scrivanie dei gerarchi c'erano bottoni d'allarme attivabili con il ginocchio. «Mussolini è stato arrestato. Lei decida subito se collaborare o non collaborare». «Sono pronto a collaborare» rispose un pallidissimo Albini, che diramò subito alle prefetture le disposizioni d'ordine pubblico dettategli da Castellano.

In Italia non c’è rischio di fascismo ma è pieno di antifascisti…Paolo Guzzanti su Il Riformista il 30 Ottobre 2022 

È curioso: non esiste più un fascismo sulla faccia della Terra, ma crescono si moltiplicano gli antifascisti. Specialmente in Italia. Essendo nato nel 1940, quando andai all’università era pieno di fascisti o meglio di neofascisti guidati dai vecchi fascisti come Caradonna e lo stesso Almirante che compariva nelle grandi fotografie degli assalti all’università La Sapienza di Roma e io i miei coetanei eravamo lì a prendere botte sia dalla polizia sia dai neofascisti. Il mondo intorno a noi era tutto fascista perché erano vivi tutti coloro che erano stati giovani sotto il fascismo, anche se molti poi erano diventati antifascisti militanti. C’era il fascismo in Spagna con il generalissimo Francisco Franco che faceva garrotare gli anarchici in piazza dal boia.

C’era il fascismo portoghese di Salazar e dei suoi feroci militari. Nel 1967 il colpo di Stato dei colonnelli installò un regime di fascismo militare ad Atene per cinque anni e noi combattevamo per l’eroe Alexandros Panagulis a rischio della pelle. Poi la giunta militare fascista di Buenos Aires e col colpo di Stato contro Salvador Allende l’aggiunta militare del generale Pinochet. Guardatevi intorno, tutto questo è sparito. È finito quello europeo. Gli americani hanno uno sfrenato orgoglio nazionale e cantano con la mano sul cuore e la lacrima sul ciglio il loro inno nazionale The Star-Spangled Banner. E quando vogliono indicare lo spazio del loro paese lo chiamano country e quando parlano del loro popolo dicono “our nation”. I Curdi, privi di una loro country, sono una nazione.

Eravamo d’accordo che i partigiani fossero patrioti, di sinistra o di destra come la medaglia d’oro Edgardo Sogno. Eravamo d’accordo che il tricolore fosse un oggetto collettivo come l’Union Jack degli inglesi: e i marsigliesi cantavano “Allons enfants de la Patrie”, In Russia non è mai esistita una Seconda Guerra Mondiale ma una Grande Guerra Patriottica. La sedia su cui siede la statua di Abraham Lincoln è tutta decorata di fasci littori perché erano l’emblema repubblicano adottato dalla Rivoluzione francese e da tutti i movimenti socialisti europei. Mai sentito parlare dei Fasci Siciliani?

E il brutto ceffo Benito Mussolini con le sue bande assassine al soldo degli agrari non era forse stato il darling di tutte le sinistre mondiali, il sindacalista ricercato da tutte le polizie, cacciato dal partito socialista perché come tutti i leader mondiali di sinistra voleva fare la guerra per arrivare alla rivoluzione? Con lui c’erano Palmiro Togliatti, Emilio Lussu, Pietro Nenni ancora repubblicano, tutti in prima linea con le migliaia di italiani ebrei che avevano combattuto per il Risorgimento. Quando arrivarono le infami leggi antisemite del 1938 gli italiani ebrei ebbero come prima reazione non la paura, ma il disprezzo nei confronti di un traditore.

Ma che soltanto le bande nere usassero la violenza armata e paramilitare contro inermi operai e contadini è metà della verità: basta sfogliare i tre volumi di Roberto Vivarelli sulla Storia delle origini del fascismo. L’uccisione, la violenza, le bande armate nazionaliste con la camicia blu, gli arditi del popolo con la camicia rossa, i fascisti con la camicia nera, più settori dell’esercito e della polizia disegnano un panorama lontanissimo dal cliché di un’Italia liberale in cui una banda di malfattori prese il potere. Mussolini era un giocatore spregiudicato e sanguinario tanto quanto Lenin, Trotskij e lo stesso Togliatti che metterà a morte a Mosca su ordine di Stalin i comunisti italiani rifugiati in Unione Sovietica. E gravissime furono le colpe di un Parlamento che anziché dare battaglia sul campo di battaglia si rifugiò nelle aule aventiniane, cosa riconosciuta assolutamente da tutti. Il fascismo è morto, stramorto, non c’è più un paese fascista, non c’è un partito fascista, non c’è un leader fascista che voglia instaurare il fascismo da nessuna parte del mondo.

Ma tutti vogliono cantare la loro Bella Ciao, benché si tratti di una canzone composta nel 1948 per essere presentata al Festival della gioventù comunista di Praga. Quando prese vita la CEE, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, i comunisti erano violentemente contrarti e rievocavano lo spettro dello Zollverein tedesco. Non c’è mai stata in Italia una Bad Godesberg che, come in Germania, avesse fatto ammenda del comunismo per trasformarsi in socialdemocrazia. La parola “nazione” dovrebbe contenere come una matrioska il nazionalismo e quindi il fascismo e l’autoritarismo? Quest’idea fa a pugni con tutte le esperienze dei paesi floridi nelle istituzioni, a meno che per nazionalismo non si intenda l’idea idiota per cui il proprio paese vale più altri per il fatto che ci sei nato tu.

Ma il concetto di nazione come popolo unito da caratteristiche comuni, che vanno dalla lingua alle sue tradizioni, è un fatto incontestato in ogni paese del mondo. Putin pretende di legittimare l’invasione dell’Ucraina per difendere i nazionalismi delle minoranze. Il populismo fu inventato dall’Uomo Qualunque di Giannini e rappresentava il povero cristo spremuto da uno stato che lo vuole privare di ogni diritto. Questo è il retroterra di tutte le rivoluzioni, dalla francese alla sovietica, veri monumenti del populismo più becero, con le tricoteuses che facevano la calza accanto alla ghigliottina per il piacere di vedere la faccia dei decapitati.

Siamo sicuri che il problema dell’Italia da un punto di vista democratico non stia nel fatto che non esiste più – da quando è crollata l’Unione Sovietica – un partito in grado di crearsi le sue proprie radici identitarie e proporsi come interprete di tutti i lavoratori e di tutti coloro che chiedono giustizia sociale? Si avverte una libido di resistenza in chi non ha la più pallida idea di che cosa sia stato il fascismo perché non era nato.

Mio nonno Primo Balducci, redattore capo della Nuova antologia e socialista, fu assassinato nel 1921 e il suo assassino fu amnistiato dal fascismo. L’altro mio nonno, Vincenzo Guzzanti, antifascista storico fra i docenti del liceo Visconti e poi agente degli americani per la liberazione di Roma, fu arrestato e torturato a via Tasso. Io, senza farmene alcun vanto, ho preso un sacco di botte dai neofascisti negli anni ‘60 e ‘70 in cui oltre alle Brigate Rosse c’erano anche le Brigate Nere dei Nar. Tutto ciò è finito. Svegliamoci, signori: la guerra è finita. E se non lo fosse, saremmo noi a darvi l’allarme.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

25 Aprile, la Liberazione è la festa di ambiguità e mistificazioni. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano l'1 novembre 2022

Il 25 Aprile non ha mai rappresentato la festa di tutti gli italiani perché essi, per quanto confusamente e oscuramente, ne hanno sempre percepito il carattere falso e demagogicamente orientato. Le menzogne possono imporsi, possono ufficializzarsi in una storiografia obbligatoria, possono persino diventare l'unica verità disponibile dopo la cancellazione di quelle osteggiate e censurate: ma non riescono mai a imprimersi nei sentimenti di un sistema civile, non riescono mai a trasformarsi nella struttura emotiva di un corpo nazionale. Ed è appunto quel che è successo con la menzogna della resistenza "democratica" opposta al regime nazifascista, costituita sì da cattolici, liberali, azionisti, eccetera, ma anche, e in larghissima misura, da comunisti stalinisti che non combattevano contro un regime dittatoriale perché era dittatoriale, ma perché ne avrebbero voluto un altro e, se fosse stato per loro, lo avrebbero imposto al nostro Paese trasformandolo in uno dei tanti infestati dalla peste comunista. 

Se oggi tu dici queste cose, e cioè che la resistenza partigiana è stata in buona parte condotta da stalinisti, peraltro impegnati anche a far fuori i partigiani di altro colore, il comunista di oggi ti risponde: «Ma non è vero! C'erano i liberali, i cattolici, gli azionisti!». Ma a quel comunista non si replica mai questo: «Sì, va bene c'erano anche quelli: ma tu avresti fatto parte di quegli altri, gli stalinisti». Avrebbe cioè fatto parte di quelli pronti a conculcare tutte le libertà esattamente come aveva fatto il regime pregresso, e forse più ferocemente, ma in nome e per ordine della diversa tirannide. E la Costituzione più bella del mondo, quella che si vuole figlia della Resistenza, è figlia semmai del tentativo delle forze anticomuniste - purtroppo non completamente riuscito, perché la Costituzione è maculata di illiberalità collettivista- di arginare il fiume di violenza e sopraffazione che altrimenti avrebbe travolto tutto ingolfandosi nell'ennesimo inferno del socialismo reale. Il 25 aprile è la festa di questa ambiguità, di queste irrisolte mistificazioni: e nel perseverare di quell'ambiguità, nel persistere di quelle mistificazioni, non sarà mai la festa di tutti gli italiani. 

·        Italioti vacanzieri.

Gli italiani? «Sono formichine». Hanno paura del futuro ma spendono per le vacanze. Paolo Foschini su Il Corriere della Sera il 4 Novembre 2022

L’edizione 2022 della ricerca Acri-Ipsos per la Giornata Mondiale del Risparmio. Ora prevale la preoccupazione. Priorità a welfare e Terzo settore, i donatori resistono anche se gli importi calano

Il primo dato è una conferma: siamo un «popolo di formiche», il risparmio ce l’abbiamo nel sangue e né la pandemia né la guerra sono riuscite almeno in questo a cambiarci, siamo ancora gente che se può mette via. Il punto sta nel perché: prima risparmiavamo perché avevamo un sogno, un desiderio. Ora perché abbiamo paura. E infatti - la contraddizione è solo apparente - nonostante le bollette da urlo stiamo spendendo alla grande in vacanze e ristoranti: non è voluttà, è bisogno di tornare a vivere dopo la clausura e di farlo adesso, finché il presente c’è, perché domani chissà. A costo di rompere il vecchio salvadanaio. Di qui anche la considerazione sull’«uso» del risparmio a favore del prossimo: siamo ancora altruisti, per fortuna. Ma doniamo importi più piccoli. Un anno fa il risparmio era una vela su cui soffiare. Oggi è un salvagente cui stare aggrappati.

Sono queste alcune tra le conclusioni emergenti dalla fotografia scattata grazie all’edizione 2022 dell’indagine realizzata da Acri, l’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria e delle Casse di Risparmio italiane, in collaborazione con Ipsos per la Giornata Mondiale del Risparmio. Una ricerca effettuata nelle ultime due settimane di settembre, a cavallo delle elezioni, con circa mille interviste telefoniche. E che non fa la somma di «quanto risparmiamo», intendiamoci, ma cerca di cogliere «come cambia il nostro atteggiamento» rispetto al tema. Ne esce la conferma di un comportamento che è ancora considerato virtuoso, certo. Ma la ventata di ottimismo del 2021, a seguito di più fattori che vanno dalla guerra in Ucraina all’incertezza politica degli ultimi mesi, dalla crisi dell’energia al vorticoso aumento dei prezzi, è stata in buona parte spazzata via e sostituita da un generale senso di preoccupazione per il futuro. Perfino i miliardi del Pnrr, che un anno fa erano guardati come pompa per lo sviluppo, oggi sono attesi da molti come tampone per non affondare.

Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos, commenta i dati del sondaggio rilevando in primo luogo la confermata «propensione italiana al risparmio» di cui sopra, abbinata però un elemento di «ansia» che in poco tempo ha sostituito il fattore «progettualità». Il secondo punto è la duplice divaricazione ulteriore della forbice sociale: non solo tra ricchi e poveri ma tra garantiti e non. «A parità di livello, durante la pandemia, un bidello o un pensionato hanno sempre ricevuto i loro soldi a fine mese e magari risparmiato qualcosa - esemplifica Pagnoncelli - mentre un cameriere ha perduto il posto. E lo stesso si può dire, salendo verso l’alto, se si confrontano un dirigente d’azienda e un libero professionista. Naturalmente questa frattura incrocia quella più orizzontale tra abbienti e non. Aggiungiamo il fatto che in Italia il 69% dei 18-35enni vive ancora con i genitori. E chiaro che con queste premesse la domanda “pensa di risparmiare qualcosa nel prossimo futuro?” non può che ottenere molte risposta negative».

Eppure la famosa propensione resiste. Nel 2020 - questi invece sono dati Istat - in Italia c’è stato un incremento dei risparmi privati di 70 miliardi. Per forza: la gente era chiusa in casa. Ma la cifra è salita a 80 miliardi nel 2021: «Una massa di denaro enorme», sottolinea Pagnoncelli. Il dato preoccupante è che molti preferiscono tenerli lì fermi, i loro soldi, piuttosto che investirli. E il motivo è sempre quello: «Perché prevale la paura di perderli». Specie tra i giovani, paradossalmente, perché quelli sotto i trent’anni non avevano mai sperimentato in vita loro cos’è l’inflazione. Oggi sono scioccati di fronte all’aumento dei prezzi e nessuno ha spiegato loro che la peggior forma di risparmio possibile, in questi momenti, è proprio quella di tenere i soldi in un cassetto. Ci sarebbe molto spazio, a questo proposito, per investire su una massiccia campagna di educazione finanziaria».

Ma vediamo un po’ di percentuali. L’anno scorso, in generale, in Italia gli «ottimisti» sul futuro dell’economia erano il 20% in più dei «pessimisti» (50% contro 30): quest’anno parlare di ribaltamento è perfino poco, visto che gli ottimisti sono crollati al 32% in meno (26% contro 58). Fanno eccezione per fortuna i 18-30enni: molti di loro pensano che le cose miglioreranno. Ma il tenore di vita è peggiorato in generale per il 19% degli italiani. E d’accordo, ancora oggi 38 su cento associano la parola «risparmio» al concetto di «tranquillità»: però nel frattempo sono saliti a 25 quelli che invece la accostano all’idea di «sacrificio». Si risparmia per prepararsi al fatto che «i prezzi continueranno a salire» e due italiani su tre hanno già messo in atto rinunce più o meno consistenti. «Ma non su viaggi, vacanze e ristoranti», ripete Pagnoncelli: il che paradossalmente, come si diceva, è una conferma di pessimismo sul domani. Resiste per ora il pensiero dell’Europa: uscirne sarebbe visto come un «grave errore» dal 69% degli italiani. Ma attenzione, anche qui, perché c’è comunque un 43% che delle scelte di Bruxelles «non si fida» del tutto.

Resta però un punto fermo, nonostante tutte le difficoltà, e vogliamo chiudere proprio su questo: il 75% continua a vedere un legame forte tra risparmio e sviluppo di una «società civile». Per il 20% questo fattore è «fondamentale». E dall’anno scorso a oggi sono addirittura raddoppiati (dal 10 al 20%) gli italiani secondo cui è importante investire le risorse del Pnrr sulla lotta alle disuguaglianze, sul welfare, sul Terzo settore. «Anche perché se non si interviene su questo - conclude Pagnoncelli - la vera sfida del governo appena nato sarà quella di mantenere la pace sociale»

Altro che caro bollette. Gli italiani sono alla caccia della vacanza di Natale. Barbara Massaro il 12 Ottobre 2022 su Panorama.

Dati in forte crescita rispetto agli anni passati per le vacanze di Capodanno, con il ritorno dei viaggi al lungo raggio dove è già difficile trovare posti malgrado i prezzi, causa caro energia, siano ai massimi.

Maldive, Egitto, Grecia, Turchia, Spagna, ma anche Dubai, Messico e Costa Rica. Se è vero che l’energia fa girare il mondo quest’anno la voglia di girare il mondo non viene frenata dal caro energia. Nonostante il mix letale di inflazione e guerra del gas abbia fatto impennare tutte le voci di spesa del capitolo “vacanze” (biglietti aerei, navi, traghetti, treni, hotel, pensioni, case vacanze, ristoranti, bar etc) sembra che gli italiani non abbiano la minima intenzione di rinunciare a viaggiare. Anzi.

Capodanno tutto esaurito. Già a metà ottobre buona parte delle località meta del classico Capodanno al caldo segnano il tutto esaurito. Vanno alla grande le Maldive, ma anche Dubai e l’Egitto sono in netta ripresa come conferma Pier Ezhaya, Presidente ASTOI Confindustria Viaggi che a Panorama.it dichiara: “Alcune mete che sono amatissime dagli italiani rimangono molto richieste come ad esempio le Maldive e anche l’Egitto che, oltre ad essere un meta da sempre gradita, rappresenta anche una destinazione accessibile in termini di prezzo. Le altre destinazioni stanno iniziando a macinare numeri." E’ ancora presto per avere un quadro dettagliato delle percentuali di viaggiatori d’inverno, ma i numeri che arrivano dai diversi enti turistici nazioni e dai tour operator lasciano ben sperare.

Un inverno che fa ben sperare. Viaggi verso mete esotiche, lontane, calde ed esclusive; ma anche tante crociere che segnano il tutto esaurito nonostante il costo del carburante sia praticamente raddoppiato imponendo notevoli adeguamenti delle tariffe: in media tra i 10 e i 25 euro a persona al giorno sul prezzo iniziale di listino. Nonostante questo, però, la gente fa la fila per aggiudicarsi le vacanze in crociera e lasciarsi alle spalle problemi e preoccupazioni permettendo di dare una boccata di ossigeno al settore del turismo, tra i più colpiti da Covid, inflazione e congiuntura economica.

Il prezzo della crisi. Sono, infatti, le imprese quelle destinate a pagare il prezzo più alto alla crisi energetica. Basti pensare che Confindustria ha calcolato che solo in Italia la guerra del gas quest’anno costerà alle imprese circa 110 miliardi in più di energia rispetto a 12 mesi fa. E le aziende del settore dell’accoglienza non sono certo immuni a questo trend, anzi. Diverse associazioni lamentano, ad esempio, il fatto che a fronte di un fatturato in indubbia crescita il margine di profitto si sia assottigliato entrando nella paradossale situazione di fatturare di più, ma guadagnare di meno. Complici inflazione e caro carburante, carenza di materie prime e guerra del gas quindi andare in vacanza – specie dall’altra parte del mondo – costa già molto caro. Una recente indagine Consob ha analizzato i prezzi medi di un biglietto aereo dall’Italia verso alcune capitali mondiali. Oggi come oggi, ad esempio, andare a Pechino da Roma costa circa 4.700 euro per un biglietto di sola andata. Gli ultimi dati Istat dicono che su base annua i prezzi dei voli intercontinentali sono aumentati del 176%, quelli internazionali del 128,1% mentre i voli europei costano il 110,8% in più. Ma i rincari sono generalizzati e dal noleggio di mezzi di trasporto, all'affitto di garage e posti auto (con un +24,3%) il salasso delle vacanze non si ferma. Rincari a due cifre per hotel, pensioni e ristoranti fanno sì che il viaggio torni lentamente a essere un privilegio per chi se lo può permettere.

Voglia di vacanza più forte della crisi. Pier Ezhaya, Presidente ASTOI Confindustria Viaggi sul tema ha precisato: “Le prenotazioni stanno andando bene, ma affermare che stiano andando ‘molto’ bene è un pò un’esagerazione in quanto - se la voglia di vacanza è molto forte e beneficia ancora oggi dell’effetto “rimbalzo” post lockdown - bisogna inevitabilmente fare i conti con l’inflazione che, non solo ha impatti sul costo dei pacchetti turistici, ma attacca fortemente anche il potenziale di spesa dei consumatori alle prese con aumenti generalizzati di quasi ogni settore merceologico”.

Aumenta il divario ricchi e poveri. Il divario ricchi-poveri, quindi, si fa sempre più profondo con gli italiani che si dividono tra chi si può permettere il lusso di una vacanza perché ha giorni liberi a disposizione e potenziale economico e e chi invece di ferie non ne ha e anche se ne avesse non potrebbe comunque permettersi di svernare in un atollo delle Maldive. Per capire davvero stagione invernale bisogna aspettare i numeri del ponte di Halloween e poi dell’Immacolata, ma la sensazione è che anche gli italiani non abbiano voglia di badare a spese per andare in vacanza facendo registrare il tutto esaurito nelle principali località turistiche. Sergio Testi Direttore Generale Gattinoni Group commenta così a Panorama.it l’atmosfera che si registra nelle agezie di viaggio in queste settimane: “Con i ponti di Ognissanti e dell’Immacolata alle porte siamo in ritardo con le prenotazioni delle festività di fine anno che si attestano ad oggi intorno al 5%; numeri che sicuramente si consolideranno nelle prossime settimane. In ogni caso confermiamo che in questo momento abbiamo degli ottimi segnali sulla domanda invernale a cominciare dal Capodanno ed Epifania e anche per febbraio abbiamo numeri molto positivi. Le mete più richieste al momento sono Oceano Indiano, Repubblica Dominicana, Emirati Arabi e segnali di crescita su Zanzibar e l’Egitto che è tornata ad essere la destinazione più richiesta in tutti i periodi dell’anno”.

Salvarsi dalle vacanze. TONINO CERAVOLO su Il Quotidiano del Sud il 31 luglio 2022.

La “moda della vacanza”, l’hanno definita Alessandro Martini e Maurizio Francesconi in un volume uscito lo scorso anno per Einaudi sulle tracce di reali, politici, scrittori e musicisti nei luoghi simbolo del divertimento élitario tra 1860 e 1939.

La vacanza come obbligo sociale, diventata, nel Novecento, da mito aristocratico un fenomeno di massa, alla portata di tutti anche grazie al last minute e alle offerte all inclusive. Un termine, peraltro, che designa realtà molto diverse e finanche opposte, se rinvia, contemporaneamente, al “vuoto”, alla vacatio, all’otium, di chi ricerca una pausa dalle incombenze quotidiane, ma pure al “pieno” di chi, invece, si abbandona a un surplus di attività vacanziere che perfino sovrasta il cumulo di impegni della vita feriale.

E però la vacanza e l’estate come suo luogo di elezione non generano soltanto attesa e desiderio, bensì anche rifiuto, rinuncia, ripulsa. “Odio l’estate”, cantava Bruno Martino nel 1960 in un brano che sarebbe stato ripreso, tra gli altri, da Michel Petrucciani e da Chet Baker: l’estate come momento del dolore, con il suo sole e con gli “splendidi tramonti”, l’estate che fa, addirittura, invocare l’inverno, in cui “cadranno mille petali di rose / la neve coprirà tutte le cose” e il cuore troverà la pace. Né bastano per riscattare questo mito della modernità le invenzioni snob come le “vacanze intelligenti” che ci afflissero dalle pagine dei giornali, tra borghi sperduti da scoprire e mostre d’arte invariabilmente di nicchia.

Ci voleva il sarcasmo feroce del Manganelli di Improvvisi per macchina da scrivere (Adelphi, 2003) per metterci una pietra sopra, fino a seppellire il concetto stesso di vacanza: “Detesto il concetto di vacanza intelligente, che recentemente ha avuto gran successo; mi pare presupponga che l’anno sia tutto idiota, eccetto quei quaranta giorni […]. Sappiamo che le vacanze sono per lo più intellettualmente moleste; ché non sarebbe gran danno, non fosse che sono chiassose, afose, ciarliere, euforiche, prodighe […]. Chi si voglia tenere sul sicuro si chiuderà in casa, meglio se in una unica stanza, con scuri abbassati, catenaccio alle porte, telefono staccato, camminar solo di pantofole, strascicato e morbido, parlare seco o con incarogniti complici a voce bassissima, meglio se per allusioni e strizzar d’occhi”.

Salvarsi dalle vacanze, questo suggerisce Manganelli. Le vacanze come un incubo da cui fuggire o, in taluni casi, come premessa a un diverso incubo, che è quel che accade in uno straordinario racconto di Julio Cortázar contenuto in Tutti i fuochi il fuoco, con i parigini prigionieri un pomeriggio di domenica d’agosto, si suppone dopo un week-end vacanziero, dell’autostrada del sud in direzione della loro città a cui non si arriva. Metafora di un’umanità che, a furia di muoversi freneticamente per turismo, rimane ferma dentro una trappola.

Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 12 Luglio 2022.

Da una parte c'è la (sacrosanta) voglia di tornare alla normalità che, in questi mesi, vuol dire ombrellone, bagno di sole e scorpacciata di pesce. Stessa-spiaggia-stesso-mare: quello di tre anni fa, però, perché le vacanze 2020 e 2021 son state "ristrette" un po' per tutti. 

Dall'altra i rincari, ché qui è aumentato tutto: dal lido, al ristorante, alla camera vista Mediterraneo, su su fino addirittura alla spesa del super che, siamo onesti, risparmi a metà se decidi per l'appartamentino in affitto con uso privato della cucina.

E nel mezzo ci sono loro, gli italiani che alle ferie non vogliono proprio rinunciare e che, pur di farle, hanno deciso di chiedere un prestito. Vuoi mica passare l'estate in città, con questo caldo, l'ufficio chiuso e il quartiere che sembra il deserto del Negev (sia per via dell'afa che porta siccità sia perché i colleghi son già partiti alla volta di località più fresche)? 

Secondo un'indagine commissionata dal portale Facile.it alla società Emg Different, il valore dei prestiti personali che abbiamo domandato, nel primo semestre di quest' anno, cioè da gennaio a giugno, per far fronte alle spese legate alle vacanze, ammonta alla bellezza di 160 milioni di euro e quasi tre persone su dieci (il 27,5%) userà quanto è riuscito a ottenere per farsi quel viaggetto che la pandemia gli ha rimandato fino a ora. 

Non è una questione da poco. Significa che l'intenzione di lasciarci questo benedetto (si fa per dire) coronavirus alle spalle c'è ed è reale.

Non a caso il peso percentuale di questi prestiti è praticamente raddoppiato (cioè è cresciuto del 96%) rispetto allo stesso periodo del 2021. E nello stesso periodo del 2021 Omicron non sapevamo neanche come fosse fatta: ci eravamo appena vaccinati, avevamo una copertura di massa tra le migliori del mondo e i contagi (basta mettere i bollettini a confronto: quello di domenica 10 luglio 2022 ha registrato 79.920 nuove infezioni, quello di sabato 10 luglio 2021 appena 1.400) erano sicuramente più contenuti. 

Per fattori molto diversi tra loro (varianti meno impattanti dal punto di vista della trasmissibilità, fiale al massimo della loro capacità, restrizioni ancora in essere), ma il punto non è quello. Il punto è che, dodici mesi fa, preparare la valigia e partire non era ancora tra le nostre priorità. Ora è cambiato tutto. 

Su un campione di oltre 70mila domande di finanziamento raccolte, gli analisti di Facile.it e di Emg Different sottolineano che chi è disposto ad aprire un mutuo pur di andare in vacanza chiede, in media, quasi 6mila euro (5.597, precisi al centesimo) e si impegna a restituire la somma in 52 rate. Che fanno quattro anni secchi a poco più che 107 euro al mese.

Questa tipologia di prestito fa gola specialmente ai giovani e, pure qui, la cosa non dovrebbe sorprendere: tra i viaggi che son ripartiti (nel senso letterale del termine, check-in in aeroporto e via verso mete esotiche) ci sono anche quelli di nozze che fino all'altro ieri erano completamente fermi. 

In genere chi si rivolge a una società di credito, in Italia, ha 41 anni, ma la media per le vacanze sono appena 36 e il 35% di quelli che preferiscono "far debito" pur di sbarcare su un'isola greca in un resort a cinque stelle o di approdare in un bungalow alle Maldive non ha neanche trent' anni. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di uomini (il 75%) e di lavoratori dipendenti con un contratto a tempo indeterminato nel cassetto della scrivania (il 72%).

«Dopo due anni di forti limitazioni alla mobilità», fa sapere Aligi Scotti, che è il direttore del settore business di Facile.it, «finalmente molti italiani potranno tornare a viaggiare». Ché anche quello fa la differenza: via il green pass, via le mascherine sull'aereo, alberghi a pieno regime e discoteche aperte. 

«In alcuni casi», continua Scotti, «c'è chi lo farà sfruttando le opportunità offerte dal mondo del credito al consumo». E allora va bene così, perché chi viaggia mica fa girare solo se stesso, mette in moto pure il turismo, l'economia locale, quella della ristorazione e quella alberghiera. Hai detto poco.

·        Italioti esploratori.

Italiani straordinari. I nostri esploratori dimenticati. Marco Valle l'11 Agosto 2022 su Inside Over.

A border is always a temptation, una frontiera è sempre una tentazione. Con queste secche parole James Cook liquidava gli scocciatori che lo importunavano con domande su “cosa” lo spingesse ad attraversare gli oceani, a cercare nuove stelle e altri orizzonti. Una lezione di stile, ma non solo. La consegna del comandante de l’Endeavour – autentico master and commander – riassume meglio d’ogni dotta analisi o indagine psicologica le motivazioni profonde che, in ogni epoca e momento, hanno ispirato un particolare tipo d’uomo: l’esploratore, una figura enigmatica, fascinosa e senza tempo.

Autentico paradigma dell’avventura, l’esploratore conobbe nell’Ottocento – l’epoca d’oro delle grandi spedizioni africane e del “grande gioco” in Asia centrale – la sua consacrazione definitiva. L’iconografia popolare raccontava al pubblico europeo e nordamericano gesti mirabolanti di personaggi eccezionali, di uomini spersi in immensità sconosciute, con in testa il casco coloniale e nelle mani una mappa, un sestante o un fucile; tipi duri, disincantati, talvolta ironici ma sempre pronti ad affrontare ogni pericolo: animali feroci, cannibali affamati, schiavisti arabi, crudeli re indigeni, ottusi burocrati europei. Nel nome della Civiltà e della bandiera. Un ritratto ingenuo e rassicurante. Forte.

Intere generazioni in Europa (e non solo) si appassionarono alle avventure d’oltremare di Jules Verne, Emilio Salgari, Karl May e Edgar Wallace. E poi, Rudyard Kipling, Robert Stevenson e Joseph Conrad. Letteratura popolare e/o letteratura “alta”: Kim e La regina del Dahomey, Lord Jim e Bosambo, King Salomon’s Mines, L’isola misteriosa e i Racconti dei mari del Sud.  E poi, il ciclo del mitico Tarzan, creato esattamente un secolo fa dalla fantasia di uno squattrinato Edgar Rice Burroughs. Un oceano di storie: scorrendo quelle pagine, divorando quei libri, milioni di ragazzi sognarono mondi segreti, imprese impossibili, amori esotici.

Immagini, suggestioni, fantasie, sicuramente. Eppure quanti imberbi (e non solo) immaginarono di condividere le gesta di Allan Quatermain, il rude protagonista de Le miniere di Salomone, il capolavoro di Henry Ridder Haggard sul “mondo perduto”? E chi, tra i sessantenni di oggi, non rimase colpito dalla trasposizione cinematografica del libro (vincitore, tra l’altro, di due meritati Oscar nel 1951) e s’immaginò almeno per un attimo al posto di Stewart Granger, il burbero capo spedizione, abbracciato, tra una zagaglia e l’altra, a una meravigliosa Deborah Kerr?

Persino oggi, in questo presente globalizzato da internet e telefonini, in un mondo punteggiato da aeroporti e villaggi turistici, restiamo intrigati dai “viaggiatori straordinari” di ieri e dell’altro ieri; l’avventuroso sapiente (magari un po’ gaglioffo ma sempre intrigante…)  rimane un mito potente e testardo che – come dimostrano il successo della saga di Indiana Jones o della trilogia de La mummia (e le tante imitazioni), le tavole di Hugo Pratt, i romanzi “coloniali” di Giorgio Ballario, i libri sul great game di Peter Hopkirk e il Tin Tin di Hergé riproposto da Spielberg… – nemmeno le play station e il “politicamente corretto” sono riuscite ad espellere dall’immaginario diffuso. Romanticismo, certo.

Nella realtà, l’esploratore è stato un personaggio ben più complesso, espressione, magari contradditoria, di un’epoca e di una cultura

Come ricordano i tanti (forse troppi…) critici del colonialismo, i viaggiatori del tempo avevano una precisa funzione sociale e politica: informare i contemporanei sullo stato del mondo, portar loro informazioni su luoghi misteriosi e inaccessibili, rappresentare la Civiltà in aree selvagge, cercare risorse, ricchezze, mercati. Tutto vero o quasi.

Al tempo stesso, scorrendo le biografie e i diari, scopriamo uomini inquieti, sempre a disagio, se non in totale rottura, con la società da cui provenivano. Autentici cuori ribelli, insofferenti delle convenzioni e irriducibili romantici, nelle “terre incognite” gli esploratori cercavano non solo fama o ricchezze ma, innanzitutto, la possibilità di dare un senso “alto”, eroico alla propria vita.

Appena abbandonato l’ultimo avamposto, il protagonista dell’avventura – ormai fabbro del proprio destino – poteva riscrivere regole, ritmi, comandamenti, conquistare regni e popoli. Una sensazione di assoluta libertà che valeva ogni rischio: il “viaggiatore straordinario” poteva ammalarsi o cadere prigioniero, languire e spegnersi in modo atroce in qualche angolo sperduto, ogni spedizione poteva trasformarsi – per una micidiale “roulette russa” – in un disastro, eppure ogni imprevisto, anche il più tragico, era preferibile alle atmosfere asfittiche della madrepatria.

Una visione del mondo che ritroviamo nelle lettere di un esploratore perugino, il marchese Orazio Antinori: “Meglio cento volte la tenda del beduino, meglio il dorso del cammello, meglio la continua lotta e la sublime incertezza dell’indomani. In Africa, in Africa! Io voglio morire libero come la sua natura!”. Antinori non millantava. La “nera signora” lo colse durante una spedizione a Lèt Marefià, nel cuore dell’Abissinia. Era il 26 agosto 1882.

Di quel tempo ormai lontano il cinema e l’editoria ci hanno consegnato una lettura quasi esclusivamente anglosassone, imperniata principalmente sui nomi di Livingstone, Stanley, Burton e Speke e pochi altri. Un’impostazione comprensibile, persino legittima in un’ottica d’oltre Manica, ma decisamente parziale e storicamente incompleta e, dunque, più volte contestata (in modi diversi e con risultati contradditori) dagli storici francesi, olandesi, belgi, portoghesi, spagnoli, persino tedeschi.

Solo in Italia – per una buffa ritrosia o per mero provincialismo – sui protagonisti italiani di quella grande stagione dell’esplorazione geografica e naturalistica, per decenni si è preferito tacere. Per i ragazzi d’oggi, Vittorio Bottego, Romolo Gessi, Pietro Brazzà e tutti gli altri sono ormai solo un ornamento toponomastico o l’oscura titolazione di qualche vecchia scuola. Nulla di più.

Ecco perché riteniamo doveroso ricordare quella straordinaria quanto bizzarra “comunità avventurosa” che percorse tra Ottocento e Novecento le zone più selvagge e inesplorate dei cinque continenti: dal Corno d’Africa al Borneo, dalla Lapponia all’Amazzonia, dall’Alaska al Congo. Ecco perché riteniamo interessante, importante rivisitare personaggi e scenari, ritrovare storie e avventure. Raccontare vite straordinarie quanto dimenticate. Da qui questo dossier di Insider Over dedicato a tredici figure emblematiche di viaggiatori italiani vissuti tra il Settecento e il Novecento. Che l’avventura abbia inizio.

·        Italioti misteriosi.

«Nebbia», il nuovo podcast del Corriere. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 13 gennaio 2022. 

Da lunedì parte la serie «Nebbia»: 10 puntate dedicate ad alcune delle pagine più nere della cronaca italiana, scritte dall’inviato del Corriere Giovanni Bianconi con Alessandra Coppola. Saviano: «Un podcast importante perché smonta i depistaggi e rimette le cose in ordine» 

Perché è importante ascoltare «Nebbia», il podcast scritto da Giovanni Bianconi con Alessandra Coppola (in collaborazione con Debora Campanella e Francesco Giambertone)? 

Perché questa serie — che parte lunedì, e che troverete all’indirizzo corriere.it/podcast/nebbia — riesce nell’impresa, difficilissima, d’essere riepilogativa dando allo stesso tempo nuove coordinate interpretative. 

La può ascoltare chi già conosce queste storie e non troverà nulla di ridondante perché fornisce nuovi elementi; e la può ascoltare chi non sa cosa sia accaduto in Italia negli anni di piombo perché riepiloga, spiega, fa sintesi. 

La puntata su piazza Fontana esplode sui timpani come la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Milano, il 12 dicembre 1969. E attraverso la ricostruzione delle dinamiche, delle responsabilità, delle connivenze, dei depistaggi, dei processi, delle vittime, dei magistrati, dei servizi segreti e di chi ha sempre cercato a ogni costo una verità che potesse spiegare sangue e sofferenza, questo podcast racconta il Paese, le sue corruzioni, le anomalie, gli imbrogli. 

Storie che ci sembra non abbiano mai raggiunto la verità. Invece le verità storiche ci sono, eccome... eppure, nel percepito, siamo ancora al grado zero. 

Se a qualcosa sono serviti i depistaggi — i veri obiettivi smascherati da questo lungo racconto — è stato certamente a confondere il sentire comune. Se su piazza Fontana o piazza della Loggia si chiede: sai dirmi chi è stato? Ancora oggi «si è trattato di attentati neofascisti» non è la prima risposta che si ottiene.

Nebbia, appunto.

Nella nebbia tutto si confonde. Nella nebbia tutto sembra uguale, indistinto. Ogni ostacolo percepito come pericolo. 

La pista anarchica ha fornito il più longevo degli alibi alle forze eversive neofasciste con la complicità di quei comparti dei servizi segreti che siamo soliti definire «deviati». «Deviati» perché credere che non lo fossero ci spaventa come cittadini. 

«Nebbia» racconta come la violenza neofascista in questo Paese sia stata profondamente egemone e come sia stata sempre utilizzata per impedire un percorso democratico e riformista. 

Ma il racconto non ha nulla di ideologico. 

Viene infatti raccontato molto bene il codardo attentato di Primavalle alla famiglia missina dei Mattei, attraverso la viva voce dell’ultimo dei fratelli, Giampaolo, sopravvissuto al rogo in cui morirono morti Virgilio (22 anni) e Stefano (8 anni). 

Questo podcast mette in ordine gli eventi, tiene viva l’attenzione di chi ascolta grazie alle voci dei testimoni che non raccontano solo ciò che accadde, ma restituiscono un clima politico da cui non si può prescindere per comprendere il presente. 

Lo trovo un ottimo strumento che i docenti potranno utilizzare per introdurre le studentesse e gli studenti di oggi a un momento storico su cui pesano valutazioni e giudizi politici che spesso impediscono di parlarne senza pregiudizi. E poi c’è la potenza della parola pronunciata e ascoltata, della parola impressa su nastro e restituita all’orecchio di chi, ascoltando, ricrea un mondo. 

I podcast a differenza di un articolo o di un video hanno una caratteristica: relazionandoti con la parola puoi ascoltare e quindi concentrarti immaginando. Il podcast conserva quella dinamica che in genere viviamo con i libri: leggiamo e immaginiamo. 

Un documentario possiamo guardarlo, può commuoversi, naturalmente informarci.

Con il podcast è diverso, perché a creare tutto siamo noi. Il podcast conserva, della lettura, la capacità di immaginazione. 

La puntata sul sequestro Moro è esplicativa del metodo utilizzato: mettere in relazione le diverse teorie. C’è chi sostiene che i brigatisti non potevano aver fatto da soli l’agguato di via Fani e c’è chi propone la tesi opposta, ovvero che abbiano agito senza aiuti e, infine, tutto viene messo a confronto con la posizione, alternativa alle prime due, per cui i brigatisti, pur agendo da soli, siano stati in qualche modo giocati dall’esterno. La voce di Giovanni Bianconi qui si sente forte e chiara, perché questo è stato sempre il suo metodo impeccabile, dagli articoli ai numerosi romanzi di non-fiction: affrontare la Storia italiana, affrontarla in senso letterale, cioè faccia a faccia, fronte contro fronte, per vedere alla fine chi resta in piedi, chi l’avrà vinta:il racconto della storia o gli inestricabili sentieri percorsi da chi la storia la fa. 

Infine, questo podcast ha la capacità di riportare al centro i delitti politici di mafia, che sono completamente smarriti dalla memoria pubblica, dal dibattito pubblico: quanto le organizzazioni criminali siano state e continuino a essere una forza economica in grado di condizionare la politica spesso si rischia di archiviarlo come storia collaterale. 

Di qui la scelta di far iniziare la serie, sul Corriere.it, proprio dalla puntata dedicata all’omicidio del presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, di cui il 6 gennaio è ricorso il 42esimo anniversario, assieme agli assassinii del segretario siciliano del Pci, Pio La Torre, e del generale neoprefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. 

Il podcast affronta la questione mostrando quanto peso abbiano avuto, sul piano nazionale, le scelte della Comissione di Cosa Nostra e quanto sia stato un errore considerare queste scelte locali, meridionali. Arricchiscono queste puntate le testimonianze, le interviste di vittime, parenti, magistrati che si sono occupati dei vari casi. La sensazione di trovarsi ad affrontare una discesa nell’irrisolto viene bilanciata dall’attenzione geometrica a mettere in fila tutto ciò che si ha a disposizione e che spesso sono fatti incontestabili. E non parlo solo di verità giudiziarie, di sentenze. Ci sono stragisti che se la sono cavata, assassini che collaborando sono riusciti ad avere una vita normale, e vittime che non riescono uscire dal dramma della propria ferita. 

C’è un’immagine che lascia il segno. Paolo Dendena racconta di quando, non ancora ventenne, con la sorella Francesca (fondatrice dell’associazione parenti delle vittime di piazza Fontana, morta nel 2010) attraversavano a bordo di lentissimi treni l’Italia, per assistere alle udienze di un processo inspiegabilmente trasferito a Catanzaro. Per spiegare al magistrato le ragioni di quello sforzo costante, Francesca Dendena pronuncia questa frase: «Ho bisogno di avere qualcuno da perdonare». 

Per dire di voler conoscere chi aveva ucciso suo padre, lasciandola orfana a 17 anni, dice «ho bisogno di qualcuno da perdonare». 

Ecco: in quella frase c’è esattamente tutto il senso del podcast. Non è possibile trovare pace se non c’è verità. 

Questa serialità racconta il continuo tentativo di chi in questo Paese così confuso, stratificato, così facile all’illusione e con la stessa facilità alla delusione, sia ossessionato dal cercare la verità, e continui a farlo. La «nebbia» è il termine esatto con cui descrivere questo clima. La luce non sconfigge la nebbia: permette solo di vedere dove mettere il passo. Quello che sconfigge la nebbia è solo la mutazione delle condizioni. E questa mutazione chissà se sarà possibile ottenerla, non ho molta speranza. Ma spero nella conoscenza. E quindi confido di poter andare avanti nella nebbia. Questo sono persuaso sia ancora possibile. 

E questa serialità ascoltata tutta di seguito crea un senso di paura, vertigine, sconforto, ma ti dà anche strumenti: l’elmetto e la torcia che, nella nebbia, mettono al sicuro il tuo passo. 

Le puntate

1. L’attentato di piazza Fontana, del 12 dicembre 1969

2. Piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio 1974

3. Il sequestro del leader della Dc Aldo Moro, rapito delle Br nel ‘78

4. La violenza politica degli Anni Settanta

5. Chi, che cosa, ha abbattuto il DC9 Itavia sul cielo di Ustica il 27 giugno del 1980?

6. La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980

7. L’omicidio di Piersanti Mattarella e gli altri delitti di mafia con sapore politico

8. I misteri della Loggia P2

9. Le indagini sull’omicidio Borsellino e i depistaggi

10. Cosa resta di Mani pulite?

«Nebbia. Le verità nascoste della Storia della Repubblica» è un podcast del Corriere con Audible. Scritto da Giovanni Bianconi con Alessandra Coppola, in collaborazione con Debora Campanella e Francesco Giambertone, letto da Luca Lancise, musiche di Federico Chiari. Il progetto grafico è di Michele Lovison. Lo si trova qui: corriere.it/podcast/nebbia

·        Italioti Ignoranti.

 Solo 1 su 3 ha una laurea. FILIPPO TEOLDI su Il Domani il 18 agosto 2022

In Italia il 28 per cento della popolazione che ha fra i 25 e i 34 anni possiede un titolo di studio terziario (laurea triennale o magistrale). Un dato impressionante se messo a confronto con gli altri paesi a noi più simili. La media europea è del 44 per cento (in Francia quasi il 50 per cento). FILIPPO TEOLDI

SENZA CULTURA L’ITALIA SAREBBE FINITA IN MANO AI CRETINI, CI DISSE FLAIANO. ROBERTA ERRICO il 22 ottobre 2018 su thevision.com.

Nel 1954 Ennio Flaiano, scrisse il racconto breve “Un marziano a Roma”. Il racconto, inserito nell’antologia di aforismi Diario notturno, è un ironico avvertimento rivolto ai suoi contemporanei e alle generazioni future: ci annunciò la fragilità della modernità e il cinismo della società dei consumi. Flaiano nacque a Pescara nel 1910 ma, per sua stessa ammissione come scrisse nel libro postumo La solitudine del satiro, fu un italiano atipico. Non si sentiva legato alla città in cui era nato, aveva scelto Roma per vivere: la raggiunse nel 1922 e lì morì nel 1972. Non si sentiva né fascista né comunista né democristiano.

Odiava il gioco del calcio, la cronaca nera e la vita mondana. Considerava quella italiana “Più una professione che una nazionalità.” Flaiano fu sui generis anche se paragonato alle mode letterarie dell’epoca: in totale antitesi con il romanzo-fiume novecentesco e con il neorealismo imperante, si esprimeva in elzeviri, aforismi e racconti brevi perché meglio si adattavano alla sua visione acre della vita. Ma come ogni grande artista anche lui viveva di eccezioni, e il suo unicum fu il romanzo È tempo di uccidere, vincitore della prima edizione del Premio Strega nel 1947. Era maestro della satira soprattutto quando era rivolta nei confronti degli ambienti borghesi che frequentava abitualmente. Un tema preminente della sua poetica fu infatti la discussione sul ruolo dell’intellettuale nella società di massa, un disagio che viveva quotidianamente sulla sua pelle. È indimenticabile la risposta tranchant che diede a chi gli chiedeva se secondo lui radio e televisione abbassassero il livello culturale degli spettatori: “No, penso che se mai abbassano il livello culturale degli intellettuali.” La sua grande forza è sempre stata il lucido e onesto distacco con il quale riusciva a descrivere il mondo in cui viveva, senza snobismo ma con serena analisi critica. Il club di intellettuali di cui Flaiano era un illustre esponente poteva contare al suo interno nomi del calibro di Fellini, con il quale scrisse le sceneggiature de La Dolce vita, La strada e 8½ , ma anche Monicelli, Petri, Antonioni, Pietrangeli, Rossellini, Germi e De Filippo. Diario notturno è la sintesi più completa del suo pensiero e “Un marziano a Roma”, di cui successivamente venne elaborata una trasposizione teatrale e una cinematografica, è la sua presa in giro definitiva sulla società di massa, sulle sue contraddizioni e la sua ostile indifferenza.

Il racconto è scritto in forma di diario. Il 12 ottobre un’astronave atterra sul prato del galoppatoio di Villa Borghese e ne discende un marziano dai modi gentili e dalle sembianze umane, suscitando il visibilio in tutta la città di Roma. Il diario è così verosimile che l’autore racconta le reazioni dei suoi illustri amici. Incontra Fellini che, “Sconvolto dall’emozione”, lo abbraccia piangendo. “Le prospettive sono immense e imperscrutabili”, dice il regista. “Forse tutto: la religione e le leggi, l’arte e la nostra vita stessa, ci apparirà tra qualche tempo illogico e povero”. La città eterna applaude commossa all’avvento di una nuova epoca. La tecnologia che ha condotto il marziano sulla terra è la prova che l’universo è differente da come lo abbiamo sempre immaginato, che i limiti che pensavamo di avere non sono che una condivisa finzione, anche un po’ grottesca: “Tornando a casa mi sono fermato a leggere un manifesto di un partito, pieno di offese per un altro. Tutto mi è sembrato di colpo ridicolo. Ho sentito il bisogno di urlare”, confessa Flaiano nel racconto. Lo scrittore racconta della deferenza che la città riserva al marziano Kunt: il Presidente della Repubblica lo accoglie al Quirinale, il Papa lo aspetta in Vaticano. Tutti, dalla persona più umile alla più colta, sentono finalmente di appartenersi. “Ogni cosa ci appare in una nuova dimensione,” scrive, “Quale il nostro futuro? Potremo allungare la nostra vita, combattere le malattie, evitare le guerre, dare pane a tutti? Non si parla d’altro”. Il popolo ritrova il vero significato delle parole democrazia, libertà e fratellanza grazie al pacifico confronto con lo straniero. 

I giorni passano e un impensabile meccanismo si innesca. Il marziano è gentile, disponibile a presenziare a tutti gli eventi più importanti, permette addirittura che si visiti la sua astronave e che venga pagato un biglietto il cui incasso è devoluto in beneficenza. Ma è Roma a cambiare il marziano e non viceversa. La città lo assorbe nella sua melliflua indolenza. Anzi, la purezza di Kunt diventa una caratteristica stucchevole agli occhi degli umani e Flaiano stesso non si sottrae al gioco, scrivendo di aver pensato che gli sembrava un placido anziano, uno di quelli: “Che nel loro fanciullesco sorriso svelano una esistenza trascorsa senza grandi dolori e lontana dal peccato, cioè totalmente priva di interesse ai miei occhi”. Dopo neanche tre mesi dall’arrivo dell’astronave, tutto è cambiato. Il marziano non è più la novità, Roma ha masticato e digerito questo straniero ed è tornata al suo conformismo, prendendosi addirittura gioco di un povero esule senza più patria né amici. La colpa più grave Flaiano l’addossa agli intellettuali e quindi, scevro di ogni moralismo, anche a se stesso. Le persone di cultura hanno, tra gli altri, il compito di interpretare gli accadimenti della vita: attraverso il processo artistico e l’analisi critica i sentimenti, le emozioni, le passioni vengono rese fruibili passando dalla sfera strettamente individuale a quella sociale, cioè comprensibili a tutti. Quando, però, anche gli intellettuali non riescono a esimersi dal seguire le mode del momento riguardo, ad esempio, il tipo di linguaggio da usare per avere maggior seguito oppure i temi da trattare per accattivarsi l’attenzione del grande pubblico, l’intera società diviene insensibile persino al progresso, perché sarà continuamente distratta da altri argomenti, spesso dal contenuto più frivolo e effimero. Di lì a poco Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale dissidente friulano, avrebbe descritto nella sua raccolta di articoli Scritti corsari la differenza tra sviluppo e progresso: il primo, è appannaggio degli industriali che producono beni superflui e si configura come apripista di un’industrializzazione selvaggia e illimitata votata solo al profitto; il secondo, è un concetto ideale: “Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare.” Pasolini contestava alla società italiana di essere progredita sulla via dello sviluppo e non del progresso e questo aveva generato un’ideologia da lui definita “edonismo consumistico” che non aveva risparmiato nessuno, intellettuali compresi. Pasolini e Flaiano erano certamente diversi sia per esperienza politica sia per produzione artistica e, a detta dei commentatori dell’epoca, non si stavano neanche molto simpatici, ma la loro laicità in contrapposizione alla religione del consumismo ha consegnato ai posteri immagini tra loro speculari e allarmanti sulla tanto osannata modernità. 

Pasolini la criticava dall’esterno della società, da dove aveva dichiarato guerra alla borghesia, mentre Flaiano la indagava dall’interno. Gli intellettuali, oggigiorno, sono schiacciati dalla mercificazione delle proprie opere, e quindi tralasciano di adempiere il loro ruolo nella società per intercettare i gusti di una platea perlopiù distratta e ingorda, e i social network hanno amplificato questa gara al ribasso. Un esempio drammatico della mancanza di intellettuali capaci di condurre riflessioni utili ad evolvere come comunità, sono le strazianti tragedie che avvengono nel Mar mediterraneo. Ognuno di questi dolorosi avvenimenti è contraddistinto dall’indifferenza dell’opinione pubblica, dovuta alla diffusa assenza di empatia. L’empatia è la capacità di comprendere pienamente lo stato d’animo dell’altro ed è l’arte che, spesso, fornisce gli strumenti per rafforzarla.   Un naufragio in particolare è stato emblematico, quello del 3 ottobre 2013 al largo delle coste di Lampedusa dove morirono 368 persone. Quella tragedia commosse tutti: l’allora presidente della Commissione europea Manuel Barroso si recò a Lampedusa per portare le sue condoglianze, il Consiglio dei ministri proclamò una giornata di lutto nazionale e un anno dopo l’Unione europea diede il via all’operazione Mare nostrum, una missione umanitaria che aveva il fine di prestare soccorso ai migranti prima che potessero ripetersi altri tragici eventi. Solo cinque anni dopo, l’Italia chiude i porti alle navi che soccorrono i naufraghi e Mare nostrum non esiste più. Una grande emozione svanita nel nulla, come in “Un marziano a Roma”. Poteva essere l’inizio di una nuova stagione all’insegna dell’integrazione e dell’arricchimento reciproco, un momento di riflessione che, se guidato adeguatamente da uomini dal pensiero libero, sia nella politica sia nel dibattito pubblico, si sarebbe rivelato un’opportunità. E invece è stata un’altra occasione persa. La società di massa è sempre pronta a creare miti per poi avere il gusto di abbatterli. È un gioco perverso le cui regole, però, sono considerate indiscutibili. Ed è qui che emerge la forza di tutti i liberi pensatori che si ribellano quotidianamente a questo ricatto. Flaiano utilizzò l’umorismo per distruggere i luoghi comuni del consumismo e infondere nei suoi lettori uno spirito critico che, oggi più che mai, deve essere alimentato per combattere il servilismo verso la macchina culturale. Se molti intellettuali hanno abdicato alla guida dell’evoluzione sociale, le persone comuni, che a differenza del passato appartengono ad una società con più informazioni a disposizione, devono essere d’impulso per invertire la tendenza. Bisogna porsi continuamente domande e avere la pazienza di soffermarsi sui ragionamenti, perché è impensabile che si rimanga indifferenti a tantissimi contenuti di importanza fondamentale per il nostro progresso, del quale abbiamo un disperato bisogno.

L’enciclopedia nella polvere dello scaffale. Il volume del Sapere fa lo status del salotto. Internet ha spazzato via il rituale della conoscenza stipata nei tomi ben rilegati. ELVIRA FRATTO su Il Quotidiano del Sud il 15 Maggio 2022.  

C’è stato un tempo in cui l’aggettivo “enciclopedico” non richiamava soltanto a qualcosa di ingombrante, troppo grande e invadente e custode di strati e strati di polvere. C’è stato un tempo in cui le enciclopedie erano sinonimo di regali di nozze, investimenti per l’età adulta dei figli, complementi d’arredo e fonte del sapere: una maestosa collezione di volumi elegantemente rilegati che hanno per anni testimoniato il benessere e la cultura di una famiglia e che adesso le giovanissime generazioni, tra i banchi, chiedono che cosa sia un’enciclopedia. Una linea temporale, quella delle enciclopedie, tracciata in maniera molto netta e calcata fin dall’antica Roma, con la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio che inaugura il concetto di “sapere monumentale”.

Del resto, “enciclopedia” discende dal greco “enkyklios” e “paideia”, che significa “educazione circolare” ed esprime appieno la concezione del “sapere rotondo”, a trecentosessanta gradi.

L’enciclopedia come vero e proprio volume, invece, s’intravede per la prima volta nell’Illuminismo, accanto ai Trattati che contraddistinguono l’Età dei Lumi. La prima compare infatti proprio a Parigi, tra il 1751 e il 1772, forgiata dalle conoscenze da più di cento intellettuali (tra cui Rousseau e Montesquieu) che mettono per iscritto il proprio sapere. Per la prima volta la conoscenza era a portata di mano, nonostante le pressioni della Chiesa che accusava i costruttori dell’opera di eresia, incontrando la resistenza di Diderot che pubblicò l’enciclopedia. In Italia il baluardo delle enciclopedie che ancora regge il colpo di internet e ha virato egregiamente verso una dimensione dell’enciclopedia e dei vocabolari online è proprio la Treccani. Non a caso, l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana vide la luce il 18 febbraio del 1925 a Roma, su iniziativa di Giovanni Treccani. Prima di quel momento non vi era stato mai, in Italia, un così ampio riferimento dal punto di vista culturale, e l’Istituto Treccani riuscì nell’impresa di pubblicare la prima versione dell’enciclopedia nel 1929: trentacinque volumi da migliaia di pagine l’uno, che immediatamente raggiunse un successo folgorante.

Oggi l’enciclopedia è diventata perlopiù un ricordo ereditato dai nonni o un investimento sull’istruzione dei figli che la generazione cinquantenne di oggi ricorda con nostalgia e piacere. C’è chi possiede la Einaudi, realizzata tra il 1977 e il 1984, chi più avanti utilizzò la Utet che vide la sua prima edizione originale nel 1933. L’enciclopedia era davvero considerata un bonus nelle case degli italiani, lo è probabilmente perfino adesso che rimane un ricordo che calca gli scaffali dei salotti moderni. Ce li immaginiamo facilmente, quei volumi così ben rilegati, attaccati l’uno all’altro perché così sono stati concepiti: per essere sfogliati insieme, uno alla volta, ma insieme, come fossero un unico contenitore, forse azzarderemmo anche un unico concetto.

Treccani oggi è un sito internet che ricalca la propria granitica storia ripercorrendone le tappe. Adesso il sito contiene una sezione dedicata all’e-commerce (che meriterebbe un posto in ogni enciclopedia) all’interno della quale si possono acquistare anche le più disparate varianti dell’enciclopedia, da quella per ragazzi a quella medica, fino anche a quella psicologica. Riguardo quella medica è il caso di aprire una parentesi indissolubilmente legata alla pratica universalmente diffusa delle autodiagnosi su Google, vale a dire: orde di sedicenti medici a costo zero che digitano online i propri sintomi per scoprire cos’hanno, ritrovandosi a fare i conti con gli orrorifici risultati di ricerca che danno loro al massimo tre giorni di vita. L’enciclopedia medica non ci salverà forse dal bisogno frenetico di sfuggire ai consulti medici che a quanto pare mostriamo in tanti, ma di certo, grazie all’Almansore, trattato di dieci libri che ha costituito la prima vera enciclopedia medica d’Italia, ha rappresentato una delle più importanti ramificazioni del mondo del sapere su carta.

Da lì, il Delta dell’enciclopedia ha preso il volo anche in àmbito strettamente letterario, con i volumi di Ludovico Geymonat che abbracciano tutta la filosofia da Parmenide all’età moderna. Un sapere così esteso e condiviso, quello dell’enciclopedia, che non può non richiamarci alla mente due personaggi che di quel sapere si fecero portavoci, ovvero il venditore di almanacchi e il “passeggere” protagonisti dell’omonima Operetta Morale di Giacomo Leopardi. Simbolicamente, il passeggere rappresenta colui che si pone le domande, che forse cerca le risposte là dove difficilmente potrebbe trovarne. A stretto giro potremmo definirlo quasi un filosofo che non si accontenta delle mezze risposte e dei mezzi concetti, qualcuno che vorrebbe saperne molto di più sulla natura dell’uomo e che incalza, per questo, il venditore di almanacchi il quale, invece, si limita a rispondere alle domande senza premurarsi di guardare oltre.

Fortunatamente per noi, il discorso tra il venditore di almanacchi e il passeggero andava virando verso il concetto della felicità e della sua attesa, fintanto che si prende consapevolezza della propria infelicità. Nel nostro caso, le risposte alle domande finivano sempre per essere trovate tra le pagine delle enciclopedie. Tutto questo prima che intervenisse a gamba tesa il sapere “salvaspazio” di Wikipedia e di internet, grazie al quale oggi le ricerche a scuola sono spesso svolte per mezzo di un asettico copia-incolla dalle pagine per studenti più accreditate e diffuse – stessa sorte delle versioni di latino e greco, del resto: più che almanacchi, pare che qui si stia vendendo tanto oro quanto pesano le verifiche in classe.

C’è stato perfino un tempo in cui le enciclopedie facevano parte di vere e proprie condizioni contrattuali: negli anni Novanta, quando spopolavano famose competizioni canore per bambini, per procedere nell’iter di selezione dei piccoli fortunati che sarebbero arrivati a cantare attraverso gli schermi della televisione era necessario passare per l’acquisto di alcuni volumi di enciclopedie. Vogliamo illuderci che sia quasi un messaggio subliminale che vuole dire: se non studi, non passi, anche se sappiamo che non è esattamente così. Il valore delle enciclopedie, anche economicamente parlando, era abbastanza alto e prestigioso da poter vincolare i genitori dei bambini che procedevano nelle selezioni canore. Insomma, l’enciclopedia era una cosa seria. Quasi ci rammarica che ci siano generazioni che non sapranno mai cosa si prova a salire su una sedia per recuperare un volume di mille pagine dagli scaffali più alti, pensiamo a quelle che dovranno “googlare” l’enciclopedia per sapere cosa sia e quasi speriamo che, aprendone una, compaia magicamente una pagina dedicata perfino a loro, a un mondo tecnologico e avanzatissimo che quel sapere così sconfinato non poteva ancora conoscere, ma che ci dava l’impressione di stare già aspettando, saggiamente, prima di chiunque altro.

Dagospia il 16 maggio 2022. La prefazione di Pino Corrias al libro di Luciano Bianciardi “Non leggete i libri, fateveli raccontare” pubblicata da Tuttolibri – la Stampa.

È un Bianciardi in purezza quello che sgocciola dalle righe di questo manuale dedicato ai giovani, purché «particolarmente privi di talento», che vogliano intraprendere la bella carriera dell'intellettuale. 

Suggerendo loro i vestiti e i gesti adeguati. Le strategie sulla conversazione in casa editrice o nei salotti, «tra un whisky e l'altro». Meglio se con la pipa per fare fumo e nascondercisi dentro. Svelti nel dire e nel disdire. Capaci di stare sul vago in politica. Di non leggere libri, ne escono troppi, ma di farseli raccontare.

Di mostrarsi tolleranti sui costumi sessuali altrui, ma severi se il discorso «cade sul prossimo più immediato». Di marcare i colleghi a uomo o a zona, come nel calcio. Di presentarsi sempre fresco, riposato, scattante, sapendo che l'intellettuale di successo non va in ufficio, ci passa. Non ha la segretaria, ma usa quella degli altri. Non evita il padrone, lo cerca. Discute. Ammette di preferire «in prospettiva» l'operaio carico di valori, al ceto medio miope e grigio, sorvolando sul dettaglio che l'operaio, magari siderurgico, non vede l'ora di diventare ceto medio. 

Il manuale è uno spasso. Esce in sei puntate su Abc, settimanale di attualità eccentrico, fondato da Enrico Mattei, il patron dell'Eni e del Giorno, il quotidiano che fiancheggerà il centrosinistra. Il rotocalco è da battaglia radical-socialista. Ingaggia scrittori di grido. Pubblica inchieste sociali, cavalca scandali politici, si batte per il divorzio, predica la rivoluzione dei costumi, compresa quella di toglierli alle soubrette fotografate al mare nel paginone centrale.

Siamo nell'anno 1966. E Luciano Bianciardi ha già macinato gran parte della sua parabola. Viene da Grosseto, viene dalle Maremme agricole. È cresciuto divorando libri. È anarchico. È ironico. Ma è anche affetto da disincanto e da umor nero. Ha fatto la guerra risalendo la penisola con gli inglesi, e ha fatto il professore di filosofia. 

Per fame di ossigeno, nell'anno 1954, si è lasciato alle spalle la provincia grande dei minatori e dei braccianti e quella piccolissima degli eruditi di paese e dei bottegai per trasferirsi nella grande Milano delle banche, delle mille aziende metalmeccaniche e della nascente industria culturale che vuol dire giornali, case editrici, agenzie pubblicitarie.

Vuol dire il Piccolo Teatro di Giorgio Strehler e il cinema di Ermanno Olmi, il Design, gli Uffici studi per il marketing e le relazioni umane. Lui arriva assunto da Giangiacomo Feltrinelli per «la grossa iniziativa», la nascente casa editrice, fiore della sinistra non ortodossa. Ma la sua camminata lenta e la sua risata larga sono ingranaggi fuori misura. Detesta gli orari e i conformismi del quieto vivere. 

Si licenzia. Per scalare il fine mese diventa traduttore a cottimo, 120 libri tradotti in 18 anni, battuti a macchina di notte con la sua donna, Maria Jatosti, compagna dello scandalo, visto che Luciano si è lasciato per sempre alle spalle una moglie e due figli a Grosseto.

La loro Bohème inizia nella camera ammobiliata in Brera, dentro la «cittadella dei pittori», inseguiti dalle cambiali che scadono, dai soldi che non bastano mai, meno male che sotto casa non chiude fino all'alba il Bar Giamaica per il rifornimento di grappa gialla. 

Gli anni di stenti e rabbia diventano La vita agra che esce nel 1962, romanzo in prima persona singolare, storia della «solenne incazzatura » contro «la diseducazione sentimentale al tempo del Miracolo Economico», scritta «in lingua dotta popolare e carognona».

Invettiva contro Milano e la frenesia calvinista dei milanesi per i soldi «che ti corrono dietro e poi ti scappano davanti». Montanelli lo recensisce entusiasta sul Corriere della Sera, dirà «mai letto un libro così divertente». Il libro vola. Il primo a stupirsene è Bianciardi: «Invece di mandarmi via da Milano a calci nel culo, come meritavo, mi invitano a casa loro». L'aggettivo «agro» diventa di moda, «lo usano persino gli architetti». Scrive: «Finirà che mi daranno uno stipendio solo per fare l'arrabbiato». 

Lui quello stipendio non lo vuole, gli sembra un cedimento, un altro passo verso la definitiva integrazione piccolo-borghese in una Italia che gli piace sempre meno. Intuisce, molto prima di Pasolini, anche se più confusamente, i veleni del consumismo, il vuoto della omologazione, la solitudine dell'uomo dentro al rumore della folla.

E mentre tutti cantano le lodi del supermercato e dei grattacieli, dell'utilitaria e delle creme solari, lui scrive da guastafeste.

Il successo lo spiazza e gli fa paura: «Per me è solo il participio passato di succedere». 

Non gli piacciono le amicizie di convenienza, le piccole mafie dei premi, le virgole dei letterati da convegno, le cordate. Rifiuta un ingaggio al Corriere della Sera che gli ha offerto Montanelli. Sceglie di collaborare al Giorno, a Abc, ai settimanali sportivi. Bazzica i notturni milanesi, Jannacci, il Santa Tecla, il Derby Club. Frequenta pittori matti, fotografi squattrinati. È amico di Giancarlo Fusco e di Giovanni Arpino, gli piace Lucio Mastronardi, un altro solitario di provincia che finirà suicida. Nell'Italia bigotta scrive di rivoluzione sessuale. Elogia l'ozio. Traduce i due «Tropici» di Henry Miller, che fanno strillare la censura, e invaghire la sua fantasia fino a immaginarsi l'alter ego dello scrittore americano.

Ma quando inizia davvero la rivoluzione dei costumi, decide, sventatamente, di voltare le spalle all'esilio milanese per infilarsi in quello di Rapallo. Dove prova a smaltire la bronchite cronica e le venti Nazionali senza filtro al giorno. La solitudine si volta in malinconia. Idealizza le Maremme «che sono il posto più bello e più pulito del mondo». Ma intanto si perde nelle piogge di entroterra e nei Campari coi pensionati. 

Il mondo sta cambiando e lui non se ne accorge più. Scrive di Risorgimento e dell'esilio di Garibaldi, l'eroe della sua infanzia, per non parlarci del suo. Questo Manuale in sei stanze e in sei risate è uno degli ultimi pezzi di bravura, declinati in un presente che ancora ci riguarda. Stesso sguardo sperimentato ne Il lavoro culturale e nell'Integrazione che con La vita agra formano la sua trilogia della rabbia disarmata. Proverà a salvarsi tornando a Milano. Ma è troppo tardi. Nell'anno 1971, seduto al fondo di un bicchiere, perderà per sempre la testa. E poi la vita.

·        Italioti giocatori d’azzardo.

Ha bruciato al gioco 400 mila euro: in casa conserva tutti i Gratta e vinci. Pietro Gorlani su Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022.

L’incredibile vicenda di un cittadino della provincia di Brescia: ha tenuto nella propria abitazione 362mila euro di tagliandi impilati in una libreria, altri 90 milioni di lire in un enorme baule in legno con borchie e lucchetto.

Ha conservato in casa le migliaia di Gratta e vinci acquistati in una vita, che andava la pena di essere vissuta e non «grattata»: 362mila euro di tagliandi impilati in una libreria, altri 90 milioni di lire in un enorme baule in legno con borchie e lucchetto, a conservare un tesoro di disperazione. «Li prenda, li usi per la sua iniziativa, faccia capire dove finisce chi imbocca questo tunnel» ha detto il settantenne (logicamente esige l’anonimato) al regista Pietro Arrigoni, che da quattro anni sta portando nei mercati della bassa bresciana e cremonese il suo flash mob per sensibilizzare la popolazione sulla piaga della ludopatia: sparge a terra, tra i banchi dei salumi e della frutta, decine di gratta e vinci usati mentre gli attori della cooperativa BeNow narrano storie di persone e famiglie distrutte da un vizio che diventa malattia, rosicchia cervello e cuore al pari di una droga pesante.

Nel frattempo le operatrici delle cooperative gli Acrobati, Bessimo, Mago di Oz distribuiscono volantini con indicazioni e numeri di telefono utili a uscire dall’incubo (345/0159509, 329/2781458, 329/7391614). Un incubo costoso. Sono stati 2,2 i miliardi di euro spesi nell’azzardo nella ricca terra bresciana lo scorso anno, 111 i miliardi in Italia: 2.229 euro per ogni maggiorenne. Una cifra che vale mezzo Pnrr, più di tutti i rincari energetici che hanno messo in ginocchio famiglie e imprese. «Quando ha visto il nostro evento in una piazza di un paese dell’hinterland è scattato in lui un meccanismo di liberazione» dice il regista Arrigoni in relazione al collezionista seriale di gratta e vinci: «mi ha invitato a casa sua e mi ha consegnato 362mila euro di biglietti oltre a 25 mila gratta e vinci da mille lire suddivisi in mazzette legate con un elastico, atri 12.500 tagliandi da duemila lire e 16.000 tagliandi da duemila e cinquecento lire, per un totale di 90 milioni delle vecchie lire. La volontà di mantenere la prova del suo senso di colpa in ambito domestico mi ha scioccato. Ma prende ancora più senso, ora, il nostro spettacolo: i gratta e vinci che gettiamo nelle piazze, suscitando reazioni ambivalenti nei passanti (c’è chi si scioglie in pianto e chi chiama i carabinieri), sono tutti tasselli di un mosaico fatto di sogni infranti, di una vincita milionaria che non arriva mai».

Arrigoni, una vita spesa per dare al teatro una funzione educativa e sociale, non dimentica gli occhi dell’uomo vittima del gioco il giorno in cui è uscito da casa sua con gli scatoloni pieni del fallimento di una vita: «Mi ha aiutato ad impacchettare i tagliandi e a caricarli in macchina. Sa che potranno contribuire a salvare altre persone, a fermarle prima che sia troppo tardi». I gratta e vinci sono solo una fetta dell’azzardo di Stato, che riguarda le persone più anziane e di mezza età. Azzardo che si palesa in più modalità: nel Superenalotto dai jackpot faraonici (l’ultimo è i 318 milioni), nelle slot machine dei bar e delle sale da gioco sorte come funghi nelle grigie periferie, nelle app pervasive apparse sugli smartphone di troppi giovani che dal lockdown in poi dedicano più tempo al poker online che ad amici e famigliari. Così come per l’alcolismo, solo una piccolissima percentuale dei malati (e dopo in media 10 anni) decide di rivolgersi a delle strutture per curare il gioco d’azzardo patologico, sintetizzato dagli specialisti nell’acronimo GAP. Tre lettere che in inglese hanno più significanti: «divario», «vuoto», «lacuna».

Ed è davvero un divario con gli altri quello che si crea, ed è davvero un vuoto profondo quello in cui sprofondano le persone che inseguono la loro malattia, anche spinti inconsciamente nella ricerca degli ormoni rilasciati durante l’azzardo (dall’arabo az-zahr, dado): serotonina e endorfine che scatenano la coazione a ripetere dando l’effimera sensazione di benessere alla quale subentra stanchezza, depressione, irascibilità o apatia, innescate da un altro ormone: il cortisolo. La vita vale la pena di essere vissuta, non «grattata».

Andrea Cuomo per “il Giornale” il 17 maggio 2022.

Ci sono tanti lavori al mondo ed essere l'erogatore della felicità non è certo il peggiore. Non possiamo fare il suo nome. Accontentatevi di sapere che è l'uomo che stacca gli assegni ai vincitori di cifre consistenti dei concorsi Sisal. 

Lavora all'ufficio vincite di Milano da 14 anni e dopo 38 di carriera il 30 giugno andrà in pensione. Il suo unico sogno è riuscire, prima di tornare nella sua Firenze, di chiudere premiando chi si aggiudicherà il jackpot del Superenalotto, che oggi vale 204 milioni, il record assoluto è di 209 milioni.

Bel lavoro stare dalla parte del sorriso...

«Un lavoro che emoziona anche se la nostra priorità in quel momento è un'altra». 

E qual è?

«Il vincitore è spesso disorientato e dobbiamo tranquillizzarlo, farlo sentire a suo agio». 

Partiamo dall'inizio. Chi viene da voi?

«In genere arriva solo chi ha premi consistenti da incassare, ha un trattamento particolare, viene accolto in una sala riservata. Il tagliando è l'unico titolo valido, se tutto è a posto il cliente esce con una ricevuta, con l'importo e con la data del bonifico. Sopra il milione è il 91° giorno dalla data del concorso, dopo si perde ogni diritto. Ma non capita mai». 

Chi arriva ha paura che non sganciate i soldi?

«No, ha paura di sbagliare qualcosa nel compilare i documenti. Per questo spesso arriva accompagnato da un parente o da un consulente. A volte addirittura dal ricevitore stesso. È frastornato e sembra volersi liberare al più presto di un peso. La scheda prima uno se la toglie dalla tasca e meglio è. C'è chi tra la vincita e l'incasso non esce di casa per giorni per non perderla di vista. Chi si fa cucire delle tasche segrete nella giacca. Chi la mette in una scarpa. Comunque nessuno arriva qui spavaldo». 

Poi si rilassa?

«È il nostro lavoro. Chiediamo come hanno scelto i numeri. Qualcuno ha giocato gli stessi per quarant'anni, altri li hanno presi dalla targa dell'auto che li ha sorpassati la mattina. E poi chiediamo cosa ne faranno». 

E che cosa ne fanno?

«Molti finché non hanno i soldi sul conto corrente non hanno le idee chiare. Tutti vogliono sistemare la famiglia o estinguere il mutuo. Ma una signora di 77 anni che aveva vinto tre milioni ci disse che avrebbe finalmente potuto lanciarsi con il paracadute e poi ci fece sapere che l'aveva fatto. Un'altra donna piemontese ci confessò: così finalmente potrò andare a Roma a conoscere il Papa». 

Qualche storia l'ha commossa?

«Una signora che aveva vinto qualche milionata mi disse: finalmente posso far tornare in Italia mio fratello che non vedo da dieci anni perché è andato a lavorare in Brasile. Un'altra vinse un jackpot da 14 milioni e arrivava dall'Emilia del terremoto. Ci rivelò che finalmente avrebbe potuto risistemare le tubature del riscaldamento e passare un inverno non al freddo. E risistemare la scuola del paese».

E quelle che l'hanno colpita?

«C'era una vincita da 77 milioni e il fortunato dopo due mesi ancora non si era visto. Si presentò a fine settembre, serafico. Era un ragazzo, ci raccontò che stava lavorando in una pizzeria sulla riviera romagnola e che non aveva voluto mettere in difficoltà il titolare lasciandolo a metà stagione».

·        Italioti truffatori.

Reddito di cittadinanza e “lagnusia”. Michele Gelardi r Redazione L'Identità il 2 Novembre 2022

La saggezza popolare siciliana ha saputo cogliere il nesso fondamentale, che sussiste sempre e in ogni caso, tra la pigrizia umana e l’inclinazione al lamento perpetuo. In dialetto siciliano una sola parola significa le due cose: il pigro viene chiamato “lagnusu”, per indicarne appunto l’attitudine alla lagna, coniugata con l’indolenza. Il prototipo moderno del “lagnusu” percepisce il reddito di cittadinanza e non vuole disfarsene; fa del lamento la sua ragione di vita, giacché deve pur giustificare al suo prossimo e a se stesso la rinuncia al lavoro e all’iniziativa privata; cerca mille pretesti per autoassolversi, vestendo i panni della vittima; dà la colpa alla società, che non gli offre le giuste opportunità, e al governo che non sa gestire la cosa pubblica; ritiene che il “sistema” sia corrotto e per ciò stesso ostile ai puri come lui. Non può cercare le ragioni giustificative della sua pigrizia in quelle dottrine politiche che esaltano la libertà umana e l’iniziativa privata; né cercare rifugio nella fede religiosa che lo pone innanzi alla responsabilità individuale, giacché si ritroverebbe immediatamente nel girone infernale degli ignavi; è attratto inevitabilmente dalle dottrine politiche che prefigurano il “mondo nuovo”. Trova nell’ideologia “perfettista”, che annuncia il futuro radioso dell’umanità, la sua agognata summa teorica, che consola le sue afflizioni e motiva l’inazione. Ovviamente i “perfettisti”, i quali si relazionano all’”uomo come dovrebbe essere”, piuttosto che all”’uomo com’è”, si guardano bene dall’indicare un traguardo più o meno immediato. Come minimo la meta dista 30 anni, giacché la loro agenda è tanto corposa da postulare il compimento nel 2050; ma potrebbe anche essere confinata in un domani indeterminato, chiamato “città del sole” o “sole dell’avvenire“ o “dittatura del proletariato” . Poco importa che il nunzio si chiami Campanella, Proudhon, Marx o perfino Grillo; che sia erudito o abile solamente a fare battute; ciò che veramente attrae il “lagnusu” e non può mancare in alcuna proposta politica, che annuncia la futura “perfezione”, è il sentimento del “gregge”. Le pecore, all’interno del gregge, perdono la loro individualità, sicché uno vale uno; inoltre il gregge non decide da sé la strada da percorrere, è guidato da un pastore, che sorveglia e tutela. Ebbene il “lagnusu” vuole sentirsi parte di un gregge proprio per queste ragioni: si consola, perché può rappresentarsi uguale agli altri; si appaga della tutela altrui, perché rinuncia all’iniziativa personale. Insomma il pigro, al contempo lagnoso, ha bisogno di un “elevato” per coltivare il sentimento del gregge e autoassolversi; e l’elevato di turno può identificarsi in una persona, ma anche in un partito; l’importante è che il programma politico dell’elevato giustifichi l’inazione, proiettando l’annunciata perfezione in un domani lontano. Ovviamente non tutti i percettori del reddito di cittadinanza sono pigri e lagnosi. Non mancano le persone volenterose, che cercano seriamente il lavoro e non si appagano della provvidenza di Stato. Ma indubbiamente il reddito di cittadinanza, nell’attuale configurazione, premia e incentiva la pigrizia, piuttosto che la ricerca di lavoro. Non può stupire dunque che il totem della “difesa” del reddito di cittadinanza, ossia l’intendimento di impedirne qualsivoglia riforma, abbia premiato la forza politica che, meglio e più delle altre, attrae i predisposti alla lagna, perché ne lusinga il loro sentimento del gregge, declinandolo in moralismo dei presunti puri, democrazia plebiscitaria, ispirata alla dottrina di Rousseau, “decrescita felice” e neoegualitarismo (dei poltronari da play station) dell’uno vale uno. 

Estratto dell’articolo di Andrea Bassi per “Il Messaggero” il 27 Ottobre 2022.

Ci sono le Ferrari. Di ogni epoca. E sempre di grande valore. Ma false. Non passa anno che l'Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli non ne sequestri qualche esemplare. Ma l'industria del falso, la Falso spa, trova sempre nuove vie e nuovi marchi, soprattutto del Made in Italy, da riprodurre. 

A Segrate, Milano, ad aprile di quest' anno sono state sequestrate sei Vespa elettriche. Identiche, quasi, alle originali. Solo che erano anche queste false. E poi ci sono gioielli, orologi (persino un preziosissimo Patek Philippe in oro), borse, bottiglie di vino e farmaci.

Solo nel 2021, si legge nel Libro Blu presentato ieri dall'Agenzia guidata da Marcello Minenna, sono stati sequestrati 108 milioni di pezzi, per un valore totale pari a 623,51 milioni di euro e un peso complessivo di 29.315 tonnellate. I soli prodotti sequestrati dalla Dogana che rientrano nella categoria Made in Italy sono stati 1,55 milioni di pezzi per un valore di quasi sei milioni di euro. Ad essere maggiormente contraffatte sono state le calzature e i materiali da imballaggio. Ma anche la componentistica auto sta diventando un filone ricco della contraffazione.

L'Agenzia non è però solo lotta alla contraffazione. I compiti che svolge sono molti e articolati. Come dimostrano le tre tavole rotonde che si sono svolte ieri durante la presentazione del Libro Blu e che hanno coinvolto i vertici dell'industria del tabacco, di quella energetica e di quella dei giochi. 

Tutti comparti sui quali l'Adm sovrintende e che hanno permesso all'Agenzia di contribuire con oltre 73 miliardi di euro al gettito dello Stato. Un dato cresciuto del 16 per cento in un solo anno. 

La gran parte del gettito deriva dal settore dell'energia (30,52 miliardi), seguito dall'ambito doganale (18,23 miliardi), dai tabacchi (14,41), dai giochi (8,41) e dagli alcolici (1,42 miliardi). Inoltre per il 2022, grazie all'azione di contrasto all'illegalità nel settore del Gioco pubblico, ha spiegato lo stesso Minenna, l'Agenzia stima un aumento della raccolta del 30%, «per un controvalore complessivo di circa 135-140 miliardi di euro, record assoluto nella storia dell'Agenzia». […]

La grande truffa dell’inesistente Stato Teocratico Antartico, scoperta a Catanzaro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Agosto 2022.

Tra le persone agli arresti domiciliari compaiono l' ex generale della Guardia di Finanza, Mario Farnesi (72 anni), e un ex maresciallo dei carabinieri, Emanuele Frasca (56 anni), entrambi in pensione. Farnesi figurava come “principe” dello stato farlocco ed era in sostanza uno dei capi insieme a Damiano Bonventre, un ex commissario nel corpo militare della Croce Rossa di 71 anni che veniva indicato come “Luogotenente Generale dello Stato” di San Giorgio. Anche lui è agli arresti domiciliari.

“Esistenza  di un apparato organizzativo apparentemente simile, per forma e struttura, a quella degli Stati sovrani, caratterizzato da presunte istituzioni governative, simboli ufficiali e cittadini. Emissione, in apparenza, di strumenti nazionali formali come francobolli, passaporti, titoli di studio, documenti di identità, partite iva, onorificenze, titoli nobiliari. Pretesa di esercitare prerogative sovrane rise1vate esclusivamente alle nazioni autonome riconosciute a livello internazionale, quali l’immunità diplomatica, l’extra – territorialità, il potere di assoggettamento a tassazione i propri cittadini con esenzione dall’imposizione da parte degli altri Stati, la costituzione dì organismi cli vigilanza e di pubblica sicurezza e financo l’attuazione di un sedicente organo di intelligence governativa”. Sono questi i primi motivi che hanno indotto il Gip  del Tribunale di Catanzaro, Matteo Ferrante, ad accogliere le richieste della Procura di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri, e quindi firmare un’ordinanza con ben 30 misure cautelari di vario genere a carico di altrettanti soggetti, indagati nell’operazione condotta dagli uomini della Digos, agli ordini del vice questore aggiunto Antonio Caliò, della Questura di Catanzaro guidata da Maurizio Agricola.

Osserva il pubblico ministero che “in cambio delle più disparate promesse di benefici economici, un numero obiettivamente impressionante di soggetti (circa 700 persone accertate al momento), sono stati indotti ad acquistare la cittadinanza del sedicente Stato antartico, versando contributi con importi variabili dai 200 euro alte migliaia di euro (in due casi è stata accertata la vendita di terreni in Antartide, con annessi titoli nobiliari, per importi superiori ai 1000,00 euro) proprio perché ammaliati dai possibili vantaggi connessi allo status di cittadini sangiorgesi; vantaggi che hanno costituito, per stessa ammissione degli acquirenti, la molla che li ha spinti ad acquistare le cittadinanze.

La sistematica attività di proselitismo per l’acquisto delle cittadinanze, posta in essere su tutto il territorio nazionale italiano, come meglio si evidenzierà in sev1ito, è stata accompagnata dalla prospettazione di vantaggi inesistenti a volte anche illeciti, quali esenzioni fiscali ed immunità extra territoriale (quest’ultima offerta anche al popolo NO Vax in questo particolare momento di pandemia) da possibili azioni esecutive poste in essere dallo Stato Italiano, possibilità di libera circolazione con i documenti “antartici” in ambito internazionale, oltre che) molto più semplicemente, possibilità di ottenere lavoro”.

L’ex generale della Fiamme Gialle in pensione Mario Farnesi , pluripregiudicato per reati minori, si era riciclato come un vero e proprio «principe» della truffa. L’ex ufficiale e la sua organizzazione erano riusciti a far credere alle persone credulone che avevano aderito allo “Stato Teocratico Antartico di San Giorgio”, di aver acquistato l’isola di Koneli, in Grecia. Le persone indagate vengono da diverse parti d’Italia, ma i nuclei principali della truffa sono stati individuati a Catanzaro (Calabria), Alcamo (Sicilia) e Teramo (Abruzzo). La truffa era stata costruita principalmente attraverso un sito internet, che ora è irraggiungibile, e una pagina Facebook.

Ai creduloni bastava versare dai 200 ai 1.000 euro per diventare “cittadini sangiorgesi” e quindi ottenere il rilascio di documenti falsi:  patenti di guida, passaporti, attestati, titoli onorifici, sgravi fiscali e l’inserimento in albi professionali, qualora gli iscritti fossero stati radiati o sospesi, come il medico no vax Roberto Petrella, arrestato a Catanzaro un anno fa per avere “consigliato” ad un paziente, successivamente morto, di prendere “medicine alternative” da prendere per combattere il Covid.

Per dare una parvenza di ufficialità ai documenti, la maggior parte veniva pubblicata con l’intestazione di una presunta “gazzetta ufficiale”: con questo metodo era stata pubblicata anche una “carta costituzionale” composta da 94 articoli, oltre a molte altre comunicazioni indirizzate ai presunti cittadini dello stato. Si tratta comunque di documenti piuttosto raffazzonati ed evidentemente falsi a uno sguardo un po’ attento, così come lo erano due finti giornali che lo Stato di Sangiorgio diceva di avere, e di cui pubblicava alcune pagine sui suoi canali: “La Teocrazia” e “The Antarctic Tribune”.

Non è ancora del tutto chiaro da quanto tempo andasse avanti il sistema di truffe: l’anno di fondazione dichiarato nei documenti fittizi del Sovrano Stato Antartico di San Giorgio è il 2011, ma è possibile che fosse una data inventata, mentre è certo che la pagina Facebook esiste dal 2015.

Erano 700 le persone che avevano aderito allo Stato Teocratico Antartico   i quali erano convinti che sarebbero stati considerati cittadini di una nazione indipendente, con vantaggi inaspettati. La conformazione giuridica dello Stato di San Giorgio altro non era che un “entità astratta”, da cui il nome “dd che non c’è” dato all’inchiesta che ha mandato ai domiciliari dodici persone, 11 delle quali accusate di associazione a delinquere, truffa e riciclaggio. L’organizzazione truffaldina era stata strutturata sulla falsariga del principato di Andorra. Ma più verosimilmente lo Stato di San Giorgio, che si era fatto credere fosse territorialmente in Antartide, all’estremo Polo Sud, proprio per far allontanare i sospetti, era stato concepito dagli organizzatori come una novella Isola delle Rose , la piattaforma artificiale nell’Adriatico che l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa, nel 1968, proclamò Stato indipendente senza mai essere riconosciuta da nessun Paese al mondo.

Ma cascare o approfittare della truffa non sono stati solo ignari cittadini, ma persino almeno un paio di organismi internazionali. È il caso dell’Ecowas (Economic community of West African States, organizzazione internazionale istituita con il trattato di Lagos nel 1975) che con soddisfazione ha firmato e diffuso persino sui suoi social la firma di un accordo con lo Stato Antartico di San Giorgio. O meglio, con il suo Segretario agli affari Esteri, Benedetto Graziano, legale del foro di Foggia con un passato da avvocato d’affari a Kiev e dintorni, negli ultimi anni al lavoro per far riconoscere l’effimera nazione sangiorgese da Ossezia del Sud, Abkahzia, Transinitria e Ucraina.

Gli investigatori della Digos di Catanzaro, guidati dal dirigente Antonio Calio, è arrivata per puro caso a scoprire lo Stato di San Giorgio. Il 7 aprile del 2021 la Polizia si presentò in uno stabile di Catanzaro Lido per fare una perquisizione, dopo aver ricevuto una “soffiata” che indicava quel luogo come ritrovo di spaccio. Alla porta trovarono due distinti signori con documenti diplomatici e timbri dell’ambasciata dello Stato di San Giorgio. Inizialmente lo stupore fu enorme.

E’ arrivato così al capolinea a Catanzaro il “sistema” svelato dall’operazione “Isola che non c’è” coordinata dalla Procura di Catanzaro e condotta dalla Polizia di Stato con l’ausilio della Direzione Centrale Polizia di Prevenzione e dalle Questure di Cosenza, Genova, Lucca, Perugia, Padova, Teramo e Trapani. La Digos di Catanzaro, nell’ambito delle indagini, aveva arrestato a Teramo, un medico no vax, Roberto Petrella, che assieme ad altri suoi colleghi per avere tentato di creare un albo dei medici di San Giorgio reclutando colleghi radiati o sospesi dall’albo. Il professionista si dichiarava cittadino dello Stato Teocratico Antartico di San Giorgio.

Tra le persone agli arresti domiciliari compaiono l’ ex generale della Guardia di Finanza, Mario Farnesi (72 anni), e un ex maresciallo dei carabinieri, Emanuele Frasca (56 anni), entrambi in pensione. Farnesi figurava come “principe” dello stato farlocco ed era in sostanza uno dei capi insieme a Damiano Bonventre, un ex commissario nel corpo militare della Croce Rossa di 71 anni che veniva indicato come “Luogotenente Generale dello Stato” di San Giorgio. Anche lui è agli arresti domiciliari.

Il dirigente della Digos volle vederci chiaro e qualche settimana dopo guidò personalmente una squadra con l’intento di perquisire l’appartamento, che era arredato con salotti liberty e quadri d’autore, con tutte le caratteristiche di una sede diplomatica, anche se era ovviamente incredibile immaginarla a Catanzaro Lido. L’accurata perquisizione della Digos portò alla luce una sede clandestina per affari illeciti. La verifica della documentazione sequestrata, le intercettazioni effettuate sulle utenze delle dodici persone arrestate e le decine di interrogatori disposte dal sostituto procuratore della Repubblica Saverio Sapia a cui sono stati sottoposti le persone truffate hanno dato corpo alla storia di uno Stato che non è mai esistito, se non in una fervida fantasia truffaldina.

E’ stato così scoperto che centinaia di imprenditori dichiaravano spontaneamente di aver perso i documenti per diventare “cittadini” dello Stato di San Giorgio con l’illusione di poter ottenere benefici fiscali con mirabolanti aliquote del 5%. L’inchiesta ha, inoltre, scoperto una presunta frode finanziaria pari ad almeno 400 mila euro, depositati dall’organizzazione in una banca di Malta.

Sempre nell’ambito del procedimento – convenzionalmente denominato “L’isola che non c’è” – il gip ha riconosciuto la sussistenza della gravità indiziaria anche per i delitti di illecita fabbricazione e possesso di documenti falsi. Gli indagati avrebbero infatti adottato dei documenti di riconoscimento contraffatti (passaporti, carte d’identità diplomatiche), totalmente corrispondenti ai format internazionali, utilizzati in diverse strutture alberghiere, sul territorio nazionale ed estero, nonché nel corso di controlli di polizia, come avvenuto a Catanzaro e in alcuni aeroporti, anche per gestire traffici illeciti di sostanza stupefacente.

In almeno un caso, è emerso l’utilizzo di una patente di guida dello Stato Antartico per superare un controllo stradale di Polizia. I proventi illeciti acquisiti, quantificati in un importo superiore a 400.000 euro, sarebbero stati poi oggetto di successive condotte di riciclaggio attraverso un conto estero situato in territorio maltese, dove avrebbe sede una rappresentanza dello Stato. 

Questi i nomi degli indagati nell’ambito dell’operazione “L’isola che non c’è” in esecuzione di un’ordinanza emessa dal gip di Catanzaro Matteo Ferrante.

Ai domiciliari:

Damiano Bonventre, di Alcamo

Mario Farnesi, nato a Viareggio e residente a Todi

Liliya Koshuba, nata in Uzbekistan e residente ad Alcamo (TP)

Paola Dalle Luche nata a Viareggio e residente a Todi

Giuliano Sartoson, alias Giuliano Medici, di Venezia

Federico Lombardi, di Livorno

Enrico Gambini, di Teramo

Emanuele Frasca, nato a Imperia e residente a Squillace (CZ)

Lorella Cofone, di Cosenza

Nicola Pistoia, di Catanzaro

Roberto Santi di Sestri Levante (Ge)

Fabrizio Barberio, di Catanzaro

Obbligo di Presentazione alla Polizia giudiziaria 

Carmina Talarico di Cropani.

Altri indagati, senza alcuna misura cautelare:

ATTARD Charles (Carmelo) residente a Malta

BENEDETTO Graziano di Guardiagrele (Chieti)

BRUNO Domenico detto Mimmo di Tiriolo (CZ)

CASARA Manuel di Malo (VI)

CHIRCOP Philip di Malta

CIAMBRONE Luigi Tommaso, di Catanzaro

DENI Silvio, di Crotone

LACALANDRA Christian, di Luca

LAURIA Baldassare di Alcamo

MARTINO Claudio di Roma

MARTUCCI Luigi Achille di Solaro Milanese

MAZZAGLIA Anna Maria di Messina

PETRELLA Roberto di Teramo

PIATTELLI Aldo di Roma

ROTTURA Pierluigi detto Piero residente a Catanzaro

SANTI Roberto di Roma

VIVA Rocco di Ruffano (Lecce)

Sono fissati per lunedì i primi interrogatori di interrogatori di garanzia per gli indagati coinvolti nell’inchiesta “L’isola che non c’è” sui presunti appartenenti fantomatico Stato Teocratico Antartico di San Giorgio. Davanti al gip dovranno comparire due indagati attualmente sottoposti alla misura degli arresti domiciliari, Emanuele Frasca, difeso dall’avvocato Lorenza Piterà, e Nicola Pistoia, difeso dall’avvocato Anselmo Mancuso, oltre che Carmina Talarico, difesa dall’avvocato Carmela Germanò, sottoposta alla misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

Sempre lunedì è fissato davanti al gip di Trapani, per rogatoria, l’interrogatorio dell’alcamese Damiano Bonventre, considerato il capo dell’organizzazione, anche lui rappresentato dall’avvocato Anselmo Mancuso, che difende anche Lilia Kuscioba moglie di Bonventre, e Fabrizio Barberio, che si sono resi irreperibili. 

Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2022.

Il «principe» della truffa era un generale della Guardia di finanza in pensione. Colto, diplomatico e convincente nei modi. Chissà se ispirati dalla commedia «Totò truffa 62», l'ex ufficiale Mario Farnesi e la sua organizzazione sono riusciti a far credere ai «cittadini» che avevano aderito allo «Stato Teocratico Antartico di San Giorgio», di aver acquistato l'isola di Koneli, in Grecia. 

Bastava pagare dai 200 ai 1.000 euro per diventare «sangiorgesi» e ottenere documenti, patenti di guida, passaporti, attestati, titoli onorifici, sgravi fiscali e l'inserimento in albi professionali, qualora gli iscritti fossero stati radiati o sospesi. Come nel caso del medico no vax Roberto Petrella, arrestato a Catanzaro un anno fa per avere «consigliato» ad un paziente, poi morto, «medicine alternative» per combattere il Covid.

I soggetti che avevano aderito allo Stato Teocratico Antartico erano 700 ed erano stati convinti che sarebbero stati considerati cittadini di una nazione indipendente, con vantaggi inaspettati. La conformazione giuridica dello Stato di San Giorgio altro non era che un «entità astratta»: da qui il nome «L'isola che non c'è» dato all'inchiesta che ha mandato ai domiciliari dodici persone, accusate di associazione a delinquere, truffa e riciclaggio. 

La struttura era stata concepita sulla falsariga del principato di Andorra, retto da due «coprincipi», il vescovo della diocesi catalana di Urgell e il presidente della Francia. Ma più verosimilmente lo Stato di San Giorgio, che si era fatto credere fosse territorialmente situato in Antartide, all'estremo Polo Sud, proprio per far allontanare i sospetti, era stato concepito dagli organizzatori come una novella Isola delle Rose, la piattaforma artificiale nell'Adriatico che l'ingegnere bolognese Giorgio Rosa, nel 1968, proclamò Stato indipendente. Mai comunque riconosciuta da nessun Paese al mondo.

Allo Stato di San Giorgio la Digos di Catanzaro, guidata da Antonio Calio, è arrivata quasi per caso. Il 7 aprile del 2021 la polizia bussò alla porta di uno stabile di Catanzaro Lido per fare una perquisizione, dopo una soffiata che indicava quel luogo come ritrovo di spaccio. 

Sull'uscio si presentarono due distinti signori con documenti diplomatici e timbri dell'ambasciata dello Stato di San Giorgio. Lo stupore fu enorme. Il dirigente della Digos volle vederci chiaro e qualche settimana dopo guidò personalmente una squadra con l'intento di perquisire l'appartamento. 

Arredato di tutto punto, con salotti liberty e quadri d'autore, l'appartamento aveva tutte le caratteristiche di una sede diplomatica, anche se era ovviamente farsesco immaginarla a Catanzaro Lido. L'accurata perquisizione della Digos portò, invece, a scoprire una sede clandestina per affari illeciti.

La verifica della documentazione sequestrata, le intercettazioni sulle utenze delle dodici persone arrestate e le decine di interrogatori cui sono stati sottoposti le persone truffate dal sostituto procuratore della Repubblica Saverio Sapia hanno dato corpo alla storia di uno Stato che non è mai esistito, se non sulla carta. Ed è così venuto fuori che centinaia di imprenditori spontaneamente dichiaravano di aver perso i documenti per diventare «cittadini» dello Stato di San Giorgio con l'illusione di ottenere benefici fiscali con mirabolanti aliquote del 5%. L'inchiesta ha, inoltre, scoperto una presunta frode finanziaria pari ad almeno 400 mila euro, depositati dall'organizzazione in una banca di Malta. 

Maurizio De Giovanni per “la Stampa” il 19 agosto 2022.

La definizione è netta e anche un po' fredda: reato ai danni del patrimonio altrui eseguito mediante falsificazioni o raggiri, allo scopo di trarne profitto. Un perimetro, diciamo la verità, così vasto da risultare quasi indefinito nei confini; e la mente viene attraversata da immagini celebri e talvolta leggendarie, come Totò che vende la fontana di Trevi o Clooney e Pitt che inscenano complicati intrecci ai danni di Andy Garcia nei vari Ocean's movies. 

Ma anche realtà assai meno divertenti o epiche, come le famiglie in fila alla reception dell'albergo di Rimini, con in mano una prenotazione pagata a vuoto; o anziani irretiti da finti promotori finanziari, peggio ancora raggirati con urgenti e immaginarie richieste da parte di nipoti lontani in difficoltà. 

Abbiamo sempre provato un certo disagio, di fronte al racconto delle truffe. Non le abbiamo mai trovate divertenti, né nelle trasposizioni cinematografiche o letterarie né nei racconti magari un po' sorridenti che evocavano astuzie messe in pratica con destrezza. Al di là del giudizio morale o della perseguibilità penale, siamo convinti che non ci sia niente di narrativamente attraente in un furbo che approfitta di un ingenuo. 

Un mattone venduto come autoradio, un veloce passaggio di mano con tre carte su un banchetto, una pensione che a stento basta per sopravvivere trafugata con una storia triste o con la prospettiva di un miglioramento che non ci sarà sono solo reati, da punire con mano forte. 

Diverso però è il complesso delle considerazioni che, a valle di una truffa, si possono fare. Perché in realtà, al di là della definizione e della condanna etica, c'è truffa e truffa. E ci sono diversi stadi di ingenuità, il che dà da pensare. Molto.

Stavolta la storia è interessante, perché dura da anni e coinvolge personaggi rilevanti come un ex generale della Guardia di Finanza e un ex maresciallo dei carabinieri, tra i dodici agli arresti domiciliari e tra i trenta indagati dalla procura di Catanzaro. Riguarda l'inesistente Stato Teocratico Antartico di San Giorgio. No, no: non sorridete. Il fatto è serio. Perché la cittadinanza di questo Stato, con i relativi benefici di vario ordine, è stata venduta in questo biennio di Covid e di paura del futuro e del presente a oltre settecento persone (almeno tanti sono quelli venuti fuori finora), per una cifra variabile tra i duecento e i mille euro.

Che cosa compravano gli incauti acquirenti? Semplice: l'appartenenza a uno Stato che offriva una flat tax al cinque per cento, una burocrazia snella e velocissima, anche perché inesistente, e perfino la possibilità di ricevere sostegno finanziario a progetti di ricerca e di sviluppo. In alcuni casi, e per somme molto modiche, titoli nobiliari e appezzamenti di terreno. Un po' gelato, magari, perché in Antartide, ma pur sempre terreno. Non sogni, ma solide realtà. 

L'attinenza alla stretta attualità non era certo sottovalutata, dalle istituzioni teocratiche e antartiche. Era stato istituito un albo della professione medica, così che fosse consentito esercitare la professione anche ai no vax e ai sospesi dall'esercizio; ed era assicurata la sottrazione, in quanto cittadini di un altro Stato, da possibili esecuzioni da parte del sistema fiscale italiano. Con tanto di rilascio di documenti che consentissero la libera circolazione nella comunità europea. Non male, vero?

Certo, viene da ridere. Chi potrebbe credere a cose del genere? Tasse così basse, la possibilità di sottrarsi in un solo colpo a rigide normative sanitarie e alle cartelle persecutorie dell'Agenzia delle Entrate. E nel contempo, immaginarsi proprietari di esotici territori da lasciare come sorprendente eredità a figli ignari. Eppure c'è chi ci ha creduto, magari abbagliato dall'autorità pregressa di personaggi noti, di cui fidarsi. 

Ora, solo per gioco, mentre la Digos di Catanzaro porta a termine la propria retata e chi ha truffato verrà giustamente processato, poniamo una ingenua domanda a chi mentre legge queste note si sente al sicuro perché pensa che no, lui non è così sciocco e non ci sarebbe mai cascato. 

E se lo Stato Teocratico Antartico di San Giorgio non fosse stato uno Stato, ma un partito politico? E se il prezzo richiesto non fosse stato un paio di centinaia di euro ma una semplice croce su una scheda?

Se quelle promesse, quella serie di sogni, non fossero state rappresentate da una pergamena piena di caratteri svolazzanti ma da un programma elettorale, venduto con smaglianti sorrisi e piglio deciso mostrato durante un telegiornale, magari condito da credibili contumelie nei confronti di avversari meno bravi a proporre la cittadinanza del Paradiso Terrestre? Vi sentite ancora così al sicuro? Benvenuti nello Stato Teocratico Antartico. Ne siete appena diventati cittadini onorari.

Da repubblica.it il 18 agosto 2022.

Trenta indagati con dodici persone arrestate e poste ai domiciliari e una sottoposta all'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. È il bilancio dell'operazione denominata "L'isola che non c'è", condotta dalla Digos di Catanzaro e che ha portato alla luce la truffa dello "Stato Teocratico Antartico di San Giorgio". I provvedimenti sono stati emessi dal Gip del Tribunale di Catanzaro. Ci sono anche un ex generale della Guardia di finanza Mario Farnesi, di 72 anni, e un ex maresciallo dei carabinieri Emanuele Frasca (56) entrambi in pensione, tra le persone finite ai domiciliari. 

Le altre persone ai domiciliari sono Damiano Bonventre (71); Liliya Koshuba (66); Paola Dalle Luche; Giuliano Sartoron (50); Federico Lombardi (65); Enrico Gambini (56); Lorella Cofone (59); Nicola Pistoia (64); Roberto Santi (69); Fabrizio Barberio (50). Per Carmina Talarico (60) disposto l'obbligo di firma alla polizia giudiziaria. Altre 30 persone risultano indagate senza provvedimento. Nell'ambito di questa operazione un anno addietro venne arrestato a Teramo, dalla Digos di Catanzaro, un medico No Vax, Roberto Petrella, divenuto famoso assieme ad altri suoi colleghi per avere tentato di creare un albo dei medici di Sangiorgio reclutando medici radiati o sospesi dall'albo. Petrella si dichiarava cittadino dello Stato Teocratico Antartico di San Giorgio. L'indagine è partita il 7 aprile del 2021 da una perquisizione in un immobile di Catanzaro indicato come la sede diplomatica del presunto "Stato".

A seguito degli approfondimenti investigativi è emersa così l'esistenza di un'associazione a delinquere operante su tutto il territorio nazionale con principali nuclei territoriali a Catanzaro, Alcamo e Teramo, finalizzata alla commissione di un numero indeterminato di truffe basate sul raggiro basato proprio sull'esistenza dello "Stato Teocratico Antartico di San Giorgio" come soggetto dotato di un'autonoma sovranità e di connessi privilegi "in forza del Trattato Antartico del 1959". 

Secondo l'ipotesi accusatoria, per dare credibilità agli occhi di ignari cittadini, i componenti del gruppo criminale avrebbero utilizzato una serie di artifizi, quali l'apparente creazione di istituzioni varie (Capo di Stato, Governo e relativi Ministri, Corte di Giustizia, Tribunale Supremo, Delegazioni territoriali), di una gazzetta ufficiale, di siti internet e, soprattutto, il confezionamento di documenti d'identità anche validi per l'espatrio.

Avevano anche un profilo Facebook con stemmi e regolamenti. In tal modo  avrebbero indotto in errore oltre 700 persone residenti in tutta Italia circa l'acquisizione della cittadinanza dell'inesistente Stato Antartico, previo pagamento di una somma di denaro variabile tra i 200 e i 1000 euro, prospettando loro i vantaggi più disparati: dalla possibilità di ricevere finanziamenti per i propri progetti di ricerca, alla possibilità di fruire di una burocrazia più snella per le proprie imprese o di utilizzare i documenti dello Stato per circolare liberamente in Italia e all'estero, alla possibilità di consentire l'ingresso sul territorio nazionale di cittadini stranieri o ottenere l'esenzione per i vaccini anti Covid. 

Vendono proprietà e onorificenze di uno Stato che non c'è: trenta indagati a Catanzaro, c'è anche un ex generale della Finanza. La Repubblica il 18 Agosto 2022. 

Smantellata un'organizzazione che si era  inventata lo "Stato Teocratico Antartico di San Giorgio", dotato di sovranità autonoma. Dodici ai domiciliari

Trenta indagati con dodici persone arrestate e poste ai domiciliari e una sottoposta all'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. E' il bilancio dell'operazione denominata "L'isola che non c'è", condotta dalla Digos di Catanzaro e che ha portato alla luce la truffa dello "Stato Teocratico Antartico di San Giorgio". I provvedimenti sono stati emessi dal Gip del Tribunale di Catanzaro.

Ci sono anche un ex generale della Guardia di finanza Mario Farnesi, di 72 anni, e un ex maresciallo dei carabinieri Emanuele Frasca (56) entrambi in pensione, tra le persone finite ai domiciliari. Le altre persone ai domiciliari sono Damiano Bonventre (71); Liliya Koshuba (66); Paola Dalle Luche; Giuliano Sartoron (50); Federico Lombardi (65); Enrico Gambini (56); Lorella Cofone (59); Nicola Pistoia (64); Roberto Santi (69); Fabrizio Barberio (50). Per Carmina Talarico (60) disposto l'obbligo di firma alla polizia giudiziaria. Altre 30 persone risultano indagate senza provvedimento.

Nell'ambito di questa operazione un anno addietro venne arrestato a Teramo, dalla Digos di Catanzaro, un medico No Vax, Roberto Petrella, divenuto famoso assieme ad altri suoi colleghi per avere tentato di creare un albo dei medici di Sangiorgio reclutando medici radiati o sospesi dall'albo. Petrella si dichiarava cittadino dello Stato Teocratico Antartico di San Giorgio.

L'indagine è partita il 7 aprile del 2021 da una perquisizione in un immobile di Catanzaro indicato come la sede diplomatica del presunto "Stato". A seguito degli approfondimenti investigativi è emersa così l'esistenza di un'associazione a delinquere operante su tutto il territorio nazionale con principali nuclei territoriali a Catanzaro, Alcamo e Teramo, finalizzata alla commissione di un numero indeterminato di truffe basate sul raggiro basato proprio sull'esistenza dello "Stato Teocratico Antartico di San Giorgio" come soggetto dotato di un'autonoma sovranità e di connessi privilegi "in forza del Trattato Antartico del 1959".

Secondo l'ipotesi accusatoria, per dare credibilità agli occhi di ignari cittadini, i componenti del gruppo criminale avrebbero utilizzato una serie di artifizi, quali l'apparente creazione di istituzioni varie (Capo di Stato, Governo e relativi Ministri, Corte di Giustizia, Tribunale Supremo, Delegazioni territoriali), di una gazzetta ufficiale, di siti internet e, soprattutto, il confezionamento di documenti d'identità anche validi per l'espatrio. Avevano anche un profilo Facebook con stemmi e regolamenti.

In tal modo  avrebbero indotto in errore oltre 700 persone residenti in tutta Italia circa l'acquisizione della cittadinanza dell'inesistente Stato Antartico, previo pagamento di una somma di denaro variabile tra i 200 e i 1000 euro, prospettando loro i vantaggi più disparati: dalla possibilità di ricevere finanziamenti per i propri progetti di ricerca, alla possibilità di fruire di una burocrazia più snella per le proprie imprese o di utilizzare i documenti dello Stato per circolare liberamente in Italia e all'estero, alla possibilità di consentire l'ingresso sul territorio nazionale di cittadini stranieri o ottenere l'esenzione per i vaccini anti Covid. 

Medici radiati, avvocati d'affari e un generale diventato principe, ecco il governo dello Stato teocratico antartico. Alessia Candito La Repubblica il 19 Agosto 2022. 

Capitale "virtuale" a Catanzaro, sede legale a Lugano, la sedicente micronazione prometteva flat tax, documenti diplomatici ed esenzione dai vaccini. E con il suo ministro degli Esteri ha truffato persino organizzazioni internazionali e governi

Duecento euro bastavano per diventare cittadini, con mille euro si diventava nobili con tanto di feudo in teoria collocato fra i ghiacci. Ma davanti alla legge del Sovrano Stato Teocratico Antartico di San Giorgio avevano tutti gli stessi diritti: tasse congelate al 5% per i beni trasferiti (sulla carta) al polo, esenzione dell’Iva, documenti tarocchi con tanto di immunità diplomatica, albi nuovi di zecca buoni per permettere a professionisti radiati di esercitare comunque, scappatoie per vaccini o altri obblighi.

"Erano davvero convinti di aver creato uno Stato". L’isola che non c’è, la truffa dello Stato Antartico (no vax) a 700 italiani: tasse al 5%, terreni e titoli nobiliari. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 18 Agosto 2022 

Tassazione al 5%, titoli nobiliari e terreni venduti a prezzi convenienti nel fantomatico Stato Teocratico Antartico di San Giorgio, dove c’era anche la possibilità di preservarli da possibili azioni esecutive dello Stato italiano. Altra possibilità assai allettante era quella di continuare a esercitare la professione medica nonostante l’avvenuta radiazione o sospensione dall’albo e di poter essere esentati dagli obblighi vaccinali. Tutto bellissimo se non fosse che altro non era che un raggiro messo in piedi da un’associazione a delinquere smantellata nelle scorse ore dalla Digos di Catanzaro al termine delle indagini coordinate dalla procura che hanno portato all’esecuzione di un’ordinanza emessa dal Gip nei confronti di 12 persone sottoposte agli arresti domiciliari, più un obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

Trenta in totale le persone indagate e accusate a vario titolo di associazione a delinquere, truffa, fabbricazione e possesso di documenti falsi validi per l’espatrio e riciclaggio nell’ambito di una inchiesta denominata, appunto, “L’isola che non c’è”. Uno Stato fantomatico quello Teocratico Antartico di San Giorgio con tanto di Capo di Stato, un governo e relativi ministri (erano gli stessi indagati), una Corte di giustizia, un Tribunale supremo, una gazzetta ufficiale e la possibilità di rilasciare documenti di identità validi anche per l’espatrio. Ma le oltre 700 persone residenti in tutta Italia che hanno pagato dai 200 ai 1.000 euro per ottenerne la cittadinanza hanno scoperto sulla propria pelle che lo Stato esisteva solo per i componenti dell’organizzazione.

In almeno due casi è emersa inoltre la vendita di terreni in Antartide con annesso titolo nobiliare. E un’ulteriore somma di denaro sarebbe stata chiesta ai neocittadini “antartici” per l’acquisto dell’isola di Kouneli, in Grecia, utile a dare una concreta territorialità allo Stato. 

Tutto è nato il 7 aprile 2021 dalla perquisizione di un immobile di Catanzaro, sedicente sede diplomatica dello “Stato Teocratico” e hanno progressivamente portato a delineare l’esistenza di un’associazione a delinquere operante su tutto il territorio nazionale, con ‘basi’ a Catanzaro, Alcamo e Teramo, finalizzata alla commissione di un numero indeterminato di truffe basate appunto sull’esistenza dello Stato, dotato di un’autonoma sovranità e di connessi privilegi, asseritamente in forza del Trattato Antartico del 1959.

Ai neo cittadini, poco più di 700, veniva prospettata la possibilità di ricevere finanziamenti per i propri progetti di ricerca, di fruire di una burocrazia più snella o di utilizzare i documenti dello Stato per circolare liberamente in Italia e all’estero. Secondo quanto emerso nelle indagini, gli indagati avrebbero infatti adottato dei documenti di riconoscimento contraffatti (passaporti, carte d’identità diplomatiche), totalmente corrispondenti ai format internazionali, utilizzati in diverse strutture alberghiere, sul territorio nazionale ed estero, nonché nel corso di controlli di polizia, come avvenuto a Catanzaro e in alcuni aeroporti, anche per gestire traffici illeciti di sostanza stupefacente.

In un caso è emerso l’utilizzo di una patente di guida dello Stato Antartico per superare un controllo stradale di Polizia. I proventi illeciti acquisiti, quantificati in un importo superiore a 400.000 euro, sarebbero stati poi oggetto di successive condotte di riciclaggio attraverso un conto estero situato in territorio maltese, dove avrebbe sede una rappresentanza dello Stato.

Scrive il Gip nell’ordinanza: “Per quanto possa sembrare paradossale e a tratti grottesco, gli odierni indagati o, almeno, la maggior parte di essi sono davvero convinti di aver dato vita, o quantomeno di star tentando di avviare effettivamente uno Stato autonomo, ragion per la quale il semplice proselitismo, quand’anche accompagnato da attività di raccolta del denaro, non potrebbe ritenersi dolosamente preordinato alla truffa”. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

·        Italiani Cafoni.

Dal profilo Facebook di Christian De Sica il 18 agosto 2022.

“Ma certe persone non si sono rotte le palle di pubblicare quello che mangiano, mentre ballano abbracciati e poi si odiano, le panoramiche nelle discoteche tutte uguali, i tuffi dai motoscafi di lusso comprati facendo i buffi. E basta. Ma possibile essere diventati cosi cafoni?”

Estratto dell’articolo di Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 18 agosto 2022.

C'è chi ha il megaschermo da cinema nei giardini della villa iper-lusso. E chi si tuffa, rigorosamente in micro-bikini e da un maxi-yatch, per assicurarsi il capogiro di chi guarda. C'è chi si immerge in acque cristalline in resort da migliaia di euro a notte. E chi documenta, foto su foto, i propri eccessi, tra cibo e serate in discoteca. Guardando le foto dei profili di questo o quell'influencer su Instagram sembra proprio che le vacanze da sogno siano tutte lì, in una sorta di catalogo extra-lusso, offerto agli occhi di tanti ma per le disponibilità rigorosamente di pochissimi.

Da ieri, però, ad accompagnare gli scatti, pare esserci anche la voce familiare, inconfondibile, inclemente di Christian De Sica: «Ma che è sta cafonata?», diceva in una scena di Vacanze di Natale 2000, frase poi diventata tormentone, una firma. Ora De Sica l'ha usata, sui social, proprio contro gli influencer. (…) 

IL TREND Chiara Ferragni, da Ibiza, alterna foto con i bambini a baci appassionati, con lingue bene in vista, con il marito Fedez. Non mancano immagini della villa con piscina, area cinema all'aperto con grande schermo vista mare e corner per i popcon. Poi, gli outfit, tra topless e abiti con il corpo radiografato. La sorella Valentina rilancia con foto di paella da Ibiza, accessori griffati da Saint-Tropez, terrazze, hotel, locali, auto sportive. A Ibiza, anche Gilda Ambrosio, che mostra la sua villa esclusiva, nonché i weekend di sole a Bodrum e la movida parigina. In materia di serate, però, sul podio rimane Wanda Nara - lo scenario è sempre Ibiza - baciata sul seno da uno sconosciuto in discoteca, in una sequenza divenuta virale.

Paola Turani pubblica foto della vacanza in Sicilia, parla di libri mostrando outfit griffatissimi, tra piatti di pasta, piscina nel verde e baci. Aurora Ramazzotti sceglie foto della vacanza con fidanzato e amici a Panarea. Gianluca Vacchi non dimentica i balletti, non di rado divenuti virali. Federico Fashion Style mangia il cocomero, in piscina, tra unicorni e fenicotteri gonfiabili. E così via, di personaggio in personaggio, in una collezione di foto che pare pronta per farsi storyboard di una nuova Italia da film. E panettone, s' intende.

Estratto dell’articolo di Stefano Baudino per il “Fatto quotidiano” il 21 agosto 2022.  

Lussuose ville con piscina, aerei privati dotati di ogni comfort, muscoli illuminati da sole: è il magico mondo della "cafoneria" social trasmesso in diretta dai Vip del web, che anche quest' estate ha trovato il suo palcoscenico quotidiano negli smartphone di milioni di followers […] "Certe persone non si sono rotte le palle di pubblicare quello che mangiano, mentre ballano abbracciati e poi si odiano, le panoramiche delle discoteche tutte uguali, i tuffi dai motoscafi di lusso comprati facendo i buffi?", "tuonava" alcuni giorni fa dal suo profilo Instagram Christian De Sica a proposito dello sfrenato esibizionismo degli influencer "de noantri".

Insomma, "è possibile essere diventati così cafoni?", si è chiesto […] forse […] tutti i torti non li ha. Una delle indiscusse regine di questa tendenza è senz' altro Sonia Bruganelli, moglie del conduttore Paolo Bonolis, che su Instagram sta aggiornando i fan sui dettagli delle sue avventure estive. […] Lo stile di vita pomposo di Lady Bonolis è stato bersaglio di forti critiche anche in passato, in particolare per la sua abitudine di condividere online i preziosi frutti del suo shopping selvaggio. 

[…] Ci sono poi i "soliti" Fedez e Chiara Ferragni, che in vacanza a Ibiza danno il meglio. […] In una foto, corredata dalla solenne e raffinatissima caption "tettine", la Ferragni si mostra in topless sulla barca […] in un'altra immagine, le lingue dei coniugi si intrecciano […] Ad Ibiza, come sempre, anche molti calciatori, tra cui il neo-acquisto della Juventus Angel Di Maria, che ha postato una serie di foto della villa con piscina […] […] Lionel Messi, che si è fatto fotografare mentre bacia la sua dama in una mega villa […] 

Sulla stessa isola c'era anche Wanda Nara […] si è invece mostrata molto rilassata, offrendo in pasto ai followers video di gite in barca al largo […] Il partito della "cafonaggine" social ha poi una new-entry: Salvatore Aranzulla, il "divulgatore informatico più letto d'Italia” […]il blogger appare ossessionato dalla rappresentazione del suo status symbol su Instagram, dove pubblica selfie che lo ritraggono in sfarzosi centri vacanze o su aerei extra-lusso […] Meglio se a petto nudo, così da far ben osservare i suoi addominali scolpiti […] 

·        Italioti corrotti e corruttori.

Le 10 conseguenze della corruzione. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 13 Dicembre 2022

La percezione di vivere in un Paese corrotto, tra gli italiani, cala e cresce, ma neppure una volta il nostro è riuscito a entrare tra i trenta Paesi più virtuosi

Ammesso che siano stati i disinvolti nababbi quatarioti a svuotare barili di banconote nei sacchi di juta di vari italiani, italo-belgi per emigrazione e italo-greche per amore tutti nel giro dell’Europarlamento, chi mai avrà messo in testa ai corruttori che i nostri connazionali potevano essere più aperti rispetto ai danesi o ai finlandesi nei confronti degli aspiranti distributori di mazzette? C’è poco da buttarla sull’ironia: chi odia gli stereotipi razzisti contro gli italiani (la pistola sul piatto di spaghetti di una rivista tedesca, la prima pagina del Süddeutsche Zeitung con un vecchio e malconcio stivale da donna intitolata «Stivale puzzolente», le malignità sul comandante Schettino additato a simbolo della superficialità di tutti noi?) vive con fastidio intollerabile il coinvolgimento di tanti politici e para-politici e lobbisti nostrani in queste oscene vicende di tangenti. E si chiede fino a che punto tanti connazionali non abbiano contribuito a far crescere questo osceno stereotipo dando sempre minore importanza alla corruzione al punto di scandalizzare Papa Francesco che pochi anni fa attaccò frontalmente il corruttore: «Dio ci ha comandato di portare il pane a casa col nostro lavoro onesto! Ma quest’uomo, amministratore, come lo portava? Dava da mangiare ai suoi figli pane sporco! E i suoi figli forse educati in collegi costosi, forse cresciuti in ambienti colti hanno ricevuto dal loro papà, come pasto, sporcizia, perché il loro papà, portando pane sporco a casa, aveva perso la dignità!».

La classifica di Transparency dal 1995 a oggi, del resto, dice tutto: la percezione di vivere in un Paese corrotto, tra gli italiani, cala e cresce, cala e cresce ma neppure una volta il nostro è riuscito a entrare nella trentina dei Paesi più virtuosi. Neppure una. Con danni pesanti per tutti i cittadini perché, come scrive ne L’Atlante della corruzione Alberto Vannucci, «La corruzione 1) demolisce la fiducia dei cittadini e la coesione sociale, 2) lede il principio di uguaglianza, 3) distrugge la giustizia sociale, 4) contraddice il principio di trasparenza e non crea allarme sociale, 5) mina la decisione pubblica e orienta i procedimenti legislativi, 6) distorce la competizione politico-elettorale, 7) espone il politico al ricatto, 8) favorisce l’incompetenza a scapito del merito, 9) rafforza le mafie, 10) uccide». Ce la meritiamo, la pioggia di battutine insultanti di questi giorni? Mah... Certo non basta indignarsi contro chi ridacchia ...

·        Italioti ladrosi.

Da ansa.it il 13 agosto 2022.

Peggiorano le condizioni di A.G., il romano di 34 anni che ieri è stato messo in salvo dopo essere rimasto bloccato in un cunicolo in via Innocenzo XI, a Roma, ad una profondità di circa sei metri. 

L'uomo, che non è piantonato, non sarebbe comunque in pericolo di vita. 

Sulla vicenda, per la quale sono in corso indagini, c'è il forte sospetto che possa trattarsi di un tentativo di scavare un tunnel per un furto nello stile di una banda del buco. Dato il peggioramento delle condizioni, a causa di una sindrome da schiacciamento, la prognosi resta riservata. Il 34enne è ricoverato all'ospedale San Camillo di Roma, è vigile ma non avrebbe parlato con nessuno. 

Tornano liberi le due persone arrestate ieri in via Innocenzo XI a Roma nell'ambito della vicenda sulla presunta banda del buco. Al termine del processo per direttissima il giudice ha convalidato l'arresto non applicando la misura cautelare a carico dei due. Fissato il processo al prossimo 20 dicembre.

"Stavamo passando in macchina per caso e abbiamo visto un ragazzo che chiedeva aiuto e quando abbiamo visto il tunnel abbiamo avuto paura e ce ne siamo andati via". E' quanto hanno raccontato nel corso dell'udienza per direttissima. 

Intanto sarà dimesso oggi dall'ospedale Gemelli l'uomo che ieri è stato messo in salvo dopo essere rimasto bloccato nel cunicolo in via Innocenzo XI, ad una profondità di circa sei metri. Sulla vicenda, per la quale sono in corso indagini, c'è il forte sospetto che possa trattarsi di un tentativo di scavare un tunnel per un furto nello stile di una banda del buco. L' 'uomo-talpa', un trentenne romano che sarà ascoltato nei prossimi giorni, è stato denunciato per danneggiamento e crollo colposo, così come le altre tre persone che erano state fermate ieri nei pressi del luogo del salvataggio.

Alcuni degli indagati hanno precedenti specifici anche per furto. Sono appena all'inizio le indagini per capire le motivazioni di quei lavori e quale fosse l'obiettivo del presunto colpo. Nei prossimi giorni sarà ascoltato anche il proprietario del locale vuoto dove il gruppo stava eseguendo dei lavori e che forse sarebbe stato preso in affitto. Nelle vicinanze di via Innocenzo XI ci sono infatti due banche distanti per alcune centinaia di metri. 

Le operazioni di salvataggio sono state accolte da un lungo applauso ieri delle tante persone che da almeno otto ore stavano seguendo le operazioni. L'uomo si trovava a circa metà della carreggiata a una profondità di circa sei metri. Una volta estratto è stato affidato al 118.

Sarebbero partiti da un negozio sfitto gli scavi del tunnel effettuati dalle quattro persone sospettate di fare parte di una banda di ladri. Parallelamente ai soccorsi di una persona, probabilmente un componente della banda, rimasta incastrata nel tunnel sono in corso indagini per capire quale fosse l'obiettivo del presunto colpo: nelle vicinanze di via Innocenzo XI ci sono infatti due banche distanti però alcune centinaia di metri. Tra le ipotesi non si esclude che la banda volesse procedere per step: ovvero scavando un po' alla volta approfittando della città svuotata dal weekend di Ferragosto.

La ricostruzione del fatto

Un colpo da film che ha rischiato di trasformarsi in tragedia quello tentato dalla presunta banda a due passi dal Vaticano. Un colpo apparentemente progettato nei minimi particolari, approfittando appunto di una Roma svuotata dalle ferie, partito da un locale sfitto da dove erano iniziati gli scavi del tunnel che, presumibilmente, li avrebbe dovuti portare al caveau di una delle due banche vicine. Alcune centinaia di metri sottoterra per mettere a segno il colpo di Ferragosto.

Ma qualcosa è andato storto ed è stato un flop: nel mezzo degli scavi è venuto giù una parte di asfalto che ha bloccato uno dei ladri a circa 6-7 metri di profondità. "Aiuto, vi prego liberatemi", il disperato appello dell'uomo ai soccorritori giunti sul posto con unità speciali per tentare di salvargli la vita. Dopo otto ore i vigili del fuoco sono riusciti a portare in superficie l'uomo tra gli applausi delle tante persone che si erano accalcate per seguire le delicate fasi del recupero. I tre complici invece sono riusciti a salvarsi dal crollo ma sono stati bloccati dai carabinieri: tutti con precedenti specifici come furto sono già stati ascoltati dai militari e ora le loro posizioni sono al vaglio.

Tutto è cominciato questa mattina quando al 112 arriva una telefonata che lancia l'allarme: alcune persone sarebbero rimaste incastrate in un cunicolo in via Innocenzo XI, una delle traverse della più conosciuta Gregorio VII, non molto distante dalla Basilica di San Pietro. I vigili del fuoco intervengono sul posto anche con l'ausilio delle forze speciali ed individuano presto il punto esatto del crollo, di fronte ad un negozio sfitto. 

Da sotto l'asfalto arriva la voce di una sola persona che chiede aiuto. I soccorritori si mettono al lavoro intervenendo con una ruspa per aprire un tunnel parallelo in modo da raggiungere l'uomo che però è sepolto vivo dalle macerie. Secondo le prime indagini è probabile che a fare la chiamata sia stato un altro membro della banda, forse uno dei tre fermati dai carabinieri mentre si aggirava nella zona del colpo.

I complici, tutti italiani con precedenti, si erano dati alla fuga, ma sono stati bloccati dai carabinieri non lontano dal luogo del crollo. Portati nella caserma di Trastevere, sono stati interrogati per ore. Gli investigatori, infatti, stanno cercando di ricostruire con esattezza la dinamica dei fatti per risalire anche alla data di inizio dei 'lavori'. Le indagini sono coordinate dalla Procura di Roma e ora si dovrà chiarire anche se la banda non fosse più numerosa e contasse anche su eventuali altri complici e basisti. 

Rinaldo Frignani per corriere.it l'11 agosto 2022.

È rimasto nove ore sotto terra, in un cunicolo a circa sei metri di profondità in via Innocenzo XI, all’Aurelio. «Tiratemi fuori di qui!» ha gridato per tutto il pomeriggio imprecando anche un uomo di 30 anni ai vigili del fuoco delle squadre speciali Saf e Usar, con il Gos, i Gruppi operazioni speciali, che hanno utilizzato mezzi speciali comparsi più volte in scenari tipo terremoto per il salvataggio di persone bloccate sotto le macerie. 

Alle 19.40 lo hanno tratto in salvo e poi un’ambulanza dell’Ares 118 lo ha trasportato al Policlinico Gemelli dove è stato ricoverato in prognosi riservata: si tratta di un individuo sul quale i carabinieri stanno svolgendo accertamenti per capire per quale motivo giovedì mattina sia rimasto sotto un tunnel crollato improvvisamente, dopo il cedimento del pavimento di un negozio non in attività che si affaccia sulla strada.

Si teme per le sue condizioni di salute: il materiale che lo ha sepolto è parecchio e i medici sul posto lo hanno stabilizzato prima di estrarlo dal cunicolo perché c’è il rischio che il ritorno in superficie possa provocare embolie fatali. La sua posizione è a ridosso della strada, oltre il marciapiede, a circa cinque metri di distanza dall’ingresso del negozio. Parla con i soccorritori, ma si muove sempre meno. I pompieri dei reparti speciali lo hanno a vista.

Con l’uomo, alimentato con liquidi e assistito anche con una bombola d’ossigeno, si trovavano almeno altre tre persone che sono riuscite a fuggire da sole dal tunnel ma che alla vista delle pattuglie dei carabinieri che accorrevano sul posto hanno tentato di allontanarsi a piedi: hanno precedenti di polizia di vario genere, anche per furto, e sono state fermate dai militari dell’Arma della compagnia Trastevere davanti ai residenti che riprendevano la drammatica scena dai balconi. 

Loro non erano sporche di terra. Dal loro comportamento e dalla profondità della galleria scavata sotto il negozio, in direzione di una banca che dista anche centinaia di metri da via Innocenzo XI, nasce il sospetto che in realtà il gruppo stesse progettando un furto con il buco al caveau, da mettere a segno nel fine settimana di Ferragosto, come spesso accade in queste circostanze.

In realtà già in mattinata, verso le 11, al centralino d’emergenza dei vigili del fuoco era arrivata una richiesta di soccorso da parte di persone rimaste bloccate proprio in via Innocenzo XI. «Aiuto, siamo rimasti bloccati in un cunicolo», l’allarme lanciato dal gruppo di sospetti ladri che si era introdotto nel negozio di via Innocenzo XI.

Successivamente, a metà pomeriggio, i pompieri sono stati impegnati per ore a cercare di liberare l’ultimo del gruppo rimasto sepolto a circa sei metri di profondità: dopo l’intervento di una ruspa che ha aperto un buco in mezzo alla strada, adesso i soccorritori stanno utilizzando un enorme aspiratore per togliere la sabbia argillosa che ricopre il sottosuolo in quel punto per arrivare all’uomo, che parla e viene alimentato con liquidi e assistito con ossigeno. 

Non si esclude che a dare l’allarme qualche ora prima possa essere stato il palo della banda che si è accorto che qualcosa non stava andando per il verso giusto. A quel punto l’uomo ha deciso di rivolgersi al 112 che ha girato subito la chiamata ai pompieri.

Sul posto sono intervenuti alcune squadre di soccorritori che hanno individuato il cunicolo scavato dai ladri: per motivi in corso di accertamento una parte del soffitto del tunnel è crollata sui malviventi bloccandoli in un anfratto largo solo pochi metri rischiando di farli soffocare. Fra le ipotesi tuttavia c’è anche quella di lavoratori clandestini impegnati in un intervento in un cantiere abusivo. Ma su questo punto sono tuttora in corso accertamenti.

La posizione delle persone fermate in mattinata dai militari dell’Arma giunti sul posto con alcune pattuglie in borghese è tuttora al vaglio per capire quale sia il loro ruolo nella vicenda e perché siano fuggite dal negozio dove era stato aperto un tunnel. 

Si è parlato di lavori di ristrutturazione nell’esercizio commerciale chiuso al pubblico da qualche tempo, ma il sospetto in realtà è che la galleria sotterranea nella quale è finito l’uomo soccorso dai pompieri non sia collegata ai lavori nel negozio. Ecco perché si indaga sulla presenza di persone nel locale e sulla loro precipitosa fuga dopo che era stato lanciato l’allarme per soccorrere chi non era riuscito a tornare in superficie.

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” il 12 agosto 2022.

Nove ore passate sotto terra, sepolto da quintali di sabbia argillosa. Poco prima delle 8 di sera una luce in fondo alla galleria che stava per crollargli addosso ancora una volta, da un momento all'altro: le mani di un vigile del fuoco dei reparti speciali lo agguantano e lo tirano fuori dall'imbuto e la salvezza. «Grazie a tutti, vi voglio bene!», grida l'uomo-talpa, romano, di 50 anni, portato via su una barella spinale dai soccorritori. 

Ha lo sguardo spiritato, sprizza gioia dappertutto nonostante la sedazione alla quale è stato sottoposto per evitargli lo choc del ritorno in superficie. Addosso ha una tuta bianca sporca di terra. È ricoverato in prognosi riservata al Policlinico Gemelli: ha difficoltà respiratorie e qualche contusione. Ma è vivo. E piantonato: è stato denunciato per crollo colposo e danneggiamento. 

Adesso toccherà ai carabinieri della compagnia Trastevere capire cosa ci facesse sotto via Innocenzo XI, nel quartiere Aurelio, dopo aver scavato un buco fra parete e pavimento di un negozio sfitto, forse per raggiungere una conduttura di servizio che porta a una banca a poche centinaia di metri di distanza.

Il sospetto è concreto, anche perché al loro arrivo, dopo l'allarme lanciato alle 11 da un anonimo che ha chiamato il 112 per richiedere l'intervento dei pompieri per «persone rimaste sotto terra», le pattuglie dell'Arma hanno bloccato tre persone in fuga che erano uscite dallo stesso negozio. 

«Le hanno atterrate pistole in pugno. Erano in borghese», raccontano i residenti che si sono affacciati dopo aver sentito le grida. Due sono state fermate e ammanettate subito, un'altra poco dopo. Si tratta di pregiudicati per vari reati, anche per furto. Tutti e tre sono rimasti in caserma fino a tarda sera: nessuno avrebbe ovviamente ammesso che si erano introdotti nell'esercizio commerciale, non interessato da lavori di ristrutturazione, per commettere un furto.

Due sono stati arrestati per resistenza a pubblico ufficiale (sono entrambi 55enni napoletani), un altro romano 50enne è stato invece denunciato. Si ipotizza che l'obiettivo potesse essere il caveau della banca a circa 300 metri da via Innocenzo XI: un colpo milionario da mettere a segno nel fine settimana di Ferragosto. 

Un'azione da manuale, da «soliti ignoti». Un classico estivo che si è scontrato però con un imprevisto che ha creato peraltro molte difficoltà agli stessi soccorritori. «Ogni metro che facevamo per raggiungere il ragazzo sepolto, ci accorgevamo che veniva giù un pezzo di argilla», commentavano mentre allestivano in pochi minuti un enorme cantiere nel quale si sono calati a più riprese le squadre di Saf e Usar, e anche i gruppi speciali Gos dei pompieri. I soccorsi sono partiti quando il tunnel precario, profondo sei metri, ormai a centro strada, è franato su chi lo stava scavando.

Non è chiaro se all'interno ci fosse solo l'uomo-talpa. Fra le piste seguite in second'ordine quella di lavoratori clandestini che non volevano farsi trovare in un cantiere non in regola, ma la loro reazione (e di conseguenza quella di chi li ha fermati) al momento fa pensare a tutt' altro. Le verifiche sono soltanto all'inizio e chi indaga attende l'ok dei medici per poter interrogare il ferito trattenuto in ospedale. «Per ore ha imprecato, implorava di tirarlo fuori, è un miracolo che sia vivo», racconta chi lo ha salvato.

Grazia Longo per “la Stampa” il 12 agosto 2022.

Avete presente il film di Mario Monicelli «I soliti ignoti» con la banda del buco che per rapinare il Monte del Pegni pratica un foro enorme nella parete ma sfonda il muro sbagliato? Stavolta l'errore è stato ancora più grave: il soffitto di un tunnel scavato per raggiungere una banca è crollato e un uomo è rimasto intrappolato sotto le macerie per 8 ore. 

Estratto vivo dai vigili del fuoco, è stato ricoverato al policlinico Gemelli ma non è in pericolo di vita.

E mentre si svolgevano le operazioni di salvataggio, due suoi complici hanno provato a fuggire ma sono stati bloccati dai carabinieri non lontano dal luogo del crollo. Si tratta di due napoletani che in serata sono stati arrestati per resistenza a pubblico ufficiale. Il terzo complice, romano, è stato invece denunciato insieme all'uomo sprofondato nel tunnel per danneggiamento e crollo colposo. 

Al momento la procura di Roma non ha contestato il reato di tentato furto perché non si conosce ancora con esattezza l'obiettivo dei malviventi. Per ora si possono solo fare ipotesi e la più accreditata è appunto quella di una banda del buco maldestra all'inverosimile. Con molta probabilità i quattro entrano in azione ieri mattina dentro un locale sfitto di via Innocenzo XI, a due passi dal Vaticano. L'obiettivo probabile è quello di procedere a tappe, scavando un tunnel un po' al giorno fino a raggiungere una galleria di servizio che porta alla vicina Banca di piazza Pio XI, dove mettere a segno il colpo nel caveau a Ferragosto. 

Un'idea studiata a tavolino ma che si scontra subito con la realtà. Qualcosa infatti va storto, il soffitto della prima parte del tunnel frana e uno dei quattro uomini, tutti tra i 40 e 50 anni, con precedenti per furto e rapina, rimane intrappolato sotto una coltre di macerie e di terreno argilloso. La situazione è complicata perché l'uomo è bloccato a una profondità di oltre 6 metri. 

Gli altri tre, invece, si salvano e, preoccupati per l'amico, verso le 11,30 danno l'allarme al 112. I carabinieri contattano subito i vigili del fuoco che arrivano sul posto con le squadre speciali e scavano un pozzo parallelo al buco dove è intrappolato un romano cinquantenne per cercare di liberarlo. Ci riescono, dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro, alle 19,40 tra gli applausi delle tante persone che si erano accalcate per seguire le delicate fasi del recupero.

«Aiuto vi prego liberatemi» l'accorato appello dell'uomo al quale si alternavano anche imprechi e bestemmie perché temeva di non essere salvato. 

Per permettergli di respirare gli è stata fornita una bombola di ossigeno e gli è stata somministrata per tutto il tempo alimentazione liquida. Prima che riemergesse in superficie è stato, inoltre, necessario l'intervento dei medici per stabilizzarlo allo scopo di evitare possibili fatali embolie.

Gli investigatori stanno ora cercando di ricostruire con esattezza la dinamica dei fatti per risalire anche alla data esatta di inizio dei «lavori»: l'ipotesi è che volessero procedere giorno dopo giorno fino all'obiettivo del colpo, probabilmente il caveau della vicina banca, contando di agire indisturbati approfittando della città svuotata dal Ferragosto imminente. Le indagini puntano inoltre a chiarire anche se la banda non fosse più numerosa e contasse anche su eventuali altri complici e basisti.

"Banda del buco? Passavamo per caso". Già liberi i fermati (tutti con precedenti). A giudizio i due napoletani. Mazza è noto, maestro di scavo e apertura caveau: 15 colpi in Liguria e alle gioiellerie di Napoli. Stefano Vladovich il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

«Passavamo di lì per caso». Processati per direttissima, Mario Mazza e Antonio Pinto, 57 e 46 anni, i due napoletani della banda del buco, sono tornati liberi. Il giudice, convalidando l'arresto per resistenza a pubblico ufficiale, li ha rimessi in libertà e fissato il processo al 20 dicembre.

«Stavamo passando in macchina e abbiamo visto un ragazzo che chiedeva aiuto. Quando abbiamo visto il tunnel abbiamo avuto paura e ce ne siamo andati. Mentre andavamo via si è accostata un'auto, abbiamo visto le pistole ma non abbiamo capito che erano carabinieri perché era un'auto civetta». «Il romano sotto le macerie? E chi lo conosce?». E così, senza prove, i due pregiudicati partenopei arrestati in via Innocenzo XI sono stati rilasciati. David Sciavarrello, il palo, è stato denunciato per crollo colposo e sarà ascoltato nei prossimi giorni mentre il quarto della banda, Andrea Grassi, 33 anni, rimasto 9 ore sotto il tunnel, è ancora ricoverato al San Camillo per lesioni da schiacciamento anche se non corre pericolo di vita.

Una storia incredibile. Un negozio chiuso da tempo, preso in affitto da pregiudicati, strani lavori di ristrutturazione e poi quel tunnel scavato in direzione di due banche a poche decine di metri dall'impianto fognario. Sembra davvero la sceneggiatura di un film, se non fosse tutto vero. Una vicenda caratterizzata da troppe coincidenze. A cominciare dalla presenza dei due pluripregiudicati campani già finiti dietro le sbarre proprio per lo stesso reato. Mazza, il Dante Cruciani de I soliti ignoti, nella realtà detto Maritiello o' Ngignere, maestro di scavo e apertura caveau, sarebbe stato chiamato appositamente per dirigere le operazioni. Sarà un caso che Mazza si trovasse proprio a pochi metri dal «traforo» scavato al 42 di via Innocenzo XI dai due romani. E sarà sempre un altro caso che mentre i due se la davano a gambe levate subito dopo il crollo della parete, passassero dei carabinieri in borghese pronti ad arrestarli. L'ipotesi è che i militari seguissero da giorni gli strani lavori e allacci abusivi. Insomma, doveva essere la rapina di Ferragosto e, probabilmente, l'operazione dell'anno se il terreno argilloso e molto instabile non fosse franato.

Maritiello o' Ngignere, residente nel rione Sanità di Napoli e appartenente al clan Misso, era stato arrestato a Genova nel 2004 con altri nove concittadini. Assieme, tra gli altri, a Raffaele Galiero, detto Lele o' Architetto, prendeva in affitto appartamenti adiacenti a banche e uffici postali, bucava i muri di confine, per poi far irruzione all'interno degli istituti di credito, armi in pugno, e svuotare le casse. In meno di un anno la banda del buco riesce a fare 15 colpi in Liguria per un bottino di un milione di euro prima di essere fermata. Quattro anni dopo Mazza viene di nuovo arrestato, questa volta dalla squadra mobile che indaga su varie furti nelle gioiellerie del centro storico di Napoli, tutti portati a segno con la tecnica del buco alla parete. Ma su via Innocenzo XI, come si è difeso Mazza in Tribunale, ci sarebbe passato per caso.

Pinto, invece, viene arrestato con altre 10 persone, fra le quali un finanziere, per contrabbando di sigarette. Passando per la Grecia la banda immette sul mercato italiano in pochi mesi 50 tonnellate di bionde. Le indagini sul tunnel di San Pietro non sono affatto concluse. Da capire ancora quale l'obiettivo esatto dei malviventi e se ci sono altri personaggi coinvolti.

Sepolto vivo dalle macerie dopo il crollo del pavimento. Banda del buco in azione, ladro resta intrappolato nel tunnel: “Vi prego, salvatemi!” Vito Califano su Il Riformista l'11 Agosto 2022

Per otto ore è rimasto lì sotto, intrappolato a circa sei metri di profondità, nel tunnel scavato abusivamente in via Innocenzo XI. È stato estratto vivo intorno alle 20:00 di oggi uno dei membri di quelli che si ipotizza possa essere una banda del buco. Malviventi in azione che avrebbero provato a scavare un passaggio sotterraneo – non c’è la certezza ma è l’ipotesi più sostenuta e rilanciata dai media. In tre sono stati fermati dai carabinieri, l’uomo intrappolato e salvato è stato trasportato da un’ambulanza Ares 118 al Policlinico Gemelli.

La zona nelle ultime settimane è stata colpita da diversi furti in appartamenti. Il tunnel sarebbe stato scavato a partire da un negozio sfitto. Repubblica scrive che erano presumibilmente quattro i membri della presunta banda. “Aiutatemi, tiratemi fuori, vi prego!”, le urla dell’uomo rimasto intrappolato per ore. È stato alimentato con liquidi e assistito con una bombola d’ossigeno. E una volta salvo ricoverato con prognosi riservata.

È un 35enne, rimasto presumibilmente intrappolato, sepolto vivo sotto le macerie, dopo che il pavimento del negozio è sprofondato, e lo ha travolto. Gli altri tre hanno allertato i soccorsi e appena fuori, usciti da un tombino, sono stati intercettati dai militari della compagnia Trastevere. Tutti sono stati trasportati in caserma, tutti hanno precedenti. Altre persone potrebbero essere state nel locale nei momenti immediatamente precedenti all’incidente. E fuggite quando la situazione è precipitata.

L’incidente si è verificato questa mattina intorno alle 11, il traffico è rimasto chiuso per ore. Risulta che il locale fosse stato preso in affitto da quattro persone, due romani e due campani, con precedenti per droga e reati contro il patrimonio. Avrebbero dovuto aprire una non meglio specificata attività commerciale. Si ragiona anche di lavori di ristrutturazione, forse clandestini, nell’esercizio commerciale chiuso al pubblico da qualche tempo.

I nuclei speciali dei vigili del fuoco Saf e Usar, con il Gos, i Gruppi operazioni speciali sono stati impegnati per oltre otto ore, una corsa contro il tempo durante la quale è stata sventrata parte della strada, utilizzata una ruspa. I pompieri hanno anche scavato a mani nude. Sul posto è intervenuto anche un supporto psicologico per l’uomo. Gli investigatori al momento non escludono alcuna pista. In zona sono presenti banche e un ufficio postale.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Alessio Campana per “la Repubblica - Edizione Roma” il 9 agosto 2022.

Passeggiava in via del Corso quando è stato aggredito da tre persone che volevano portargli via il Rolex. La vittima, un uomo di 34 anni, adesso si trova all'ospedale Santo Spirito con due costole rotte. 

Sarebbe dovuta essere una serata piena di leggerezza, una notte d'agosto da trascorrere con un'amica fidata per festeggiare assieme i compleanni appena trascorsi, uno a giugno e l'altro a luglio. Una cena nel cuore di Roma e una passeggiata tra le spettacolari scenografie che soltanto il centro della città eterna sa donare. Piazza di Spagna, via del Babuino, il centralissimo Corso.

E invece, intorno all'una di notte, il branco ha colpito. A passeggiare tra piazza del Popolo e piazza di Spagna c'erano moltissime persone e alcune di loro, quelle che si trovavano nei pressi di via della Croce, sono diventate possibili testimoni. 

Il 34enne, una volta colpito (sembrerebbe con un calcio) è caduto a terra e, senza cedere al dolore, è riuscito a salvare il prezioso orologio lasciando a mani vuote gli aggressori. Il 34enne avrebbe cercato aiuto gridando ma nessuno lo ha aiutato. Poi l'intervento delle forze dell'ordine giunte sul posto.

I tre responsabili sono fuggiti e la polizia, adesso, è sulle loro tracce.

Sono serrate le indagini degli agenti della Questura di Roma che, dopo aver sentito alcune persone, stanno cercando elementi utili dagli occhi elettronici posizionati in centro. Le parole dell'amica che erano con lui potrebbero essere importanti. Da quanto si apprende, i tre uomini che hanno provato a rapinare l'orologio - che si trovava al polso del trentaquattrenne - sarebbero stranieri, ma le indagini sono ancora nelle prime fasi. I poliziotti stanno cercando di dare un nome agli aggressori attraverso i video delle telecamere di zona. 

Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” l'8 agosto 2022.

Se vai in giro con un'auto da 50.000 euro in su e scendi con bagagli firmati in un hotel a 5 stelle stai sicuro che il tuo polso non passerà inosservato agli specialisti del furto con strappo di orologi di lusso. Se poi porti un Rolex, un Patek Philippe, un Hublot o un Richard Mille, le possibilità di sfuggire alle nuove bande che, da Milano a Firenze, da Venezia a Roma, stanno provando a rubare la scena alla vecchia e imbattibile scuola napoletana sono davvero poche. Ti accerchiano alle spalle in tre e ti abbracciano da dietro se passeggi a piedi, ti affiancano in scooter e mettono in campo le collaudate tecniche dello specchietto o della ruota bucata se sei in macchina.

Li chiamano gli «strappatori». In campo, o meglio nelle strade delle città italiane, ce ne sono a centinaia, divisi in batterie. 

«Questione di un attimo, fanno pressione sui gancetti e con la tecnica dello strappo portano via orologi da decine ma anche centinaia di migliaia di euro che hanno già adocchiato e verificato siano nella lista di quelli che si piazzano facilmente sul mercato nero», spiega un investigatore che se ne intende assai come Marco Calì, napoletano ma oggi dirigente della squadra mobile di Milano che, negli ultimi mesi, ha guadagnato la testa della classifica dei furti di orologi preziosi anche oltre la norma come il Richard Mille da 700.000 euro rubato ad un facoltoso uomo d'affari kazako che passeggiava in corso Venezia. «Ecco, quello lì certamente è un oggetto che sul mercato nero non lo piazzi facilmente - osserva Calì - ma magari finisce all'estero in una delle piazze dove c'è l'offerta più ricca, dai Paesi arabi al Sudamerica».

(…) Da qualche tempo anche i centroafricani si sono dati ai furti di orologi preziosi nelle grandi città: gambiani, senegalesi, maghrebini prediligono le zone della movida in orari notturni, approfittano del calo di attenzione delle vittime che hanno adocchiato dentro i locali e che magari hanno bevuto e portano via gli orologi. 

I Rolex sono i più richiesti dal mercato e dunque i più facili da piazzare. «C'è una grandissima domanda - spiega ancora Calì - e anche se nel passaggio dal ricettatore perdono fino al 70-80% del loro valore per chi li ruba è un ottimo guadagno. Se porti via un orologio da 10.000 euro, il ladro ne incassa 7-800 e il ricettatore lo rivende a 3-4.000 euro. Chiaramente se becchi un Daytona o un Submariner tiri su di più, ma anche i Patek Philippe Aquanut e i Richard Mille hanno un ottimo piazzamento».(…) 

«Chiaramente - osserva il dirigente della mobile di Milano - chi compra un orologio rubato sa che la provenienza non è quella ufficiale, si accontenta di una garanzia falsa o nulla che non gli permetterà mai di poter usufruire dell'assistenza della casa». Quei pezzi lì finiscono alla Fiera di Monaco, in Brasile, a Dubai dove i compratori arabi e sudamericani sono disposti a fare follie. 

Milano, i «furbetti» del salto del tornello in metropolitana sono quadruplicati. Atm: «Barriere più alte con allarme sonoro». Luca Caglio su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.

L’evasione sui titoli di viaggio è passata in tre anni dall’1 al 4 per cento. La prima contromisura è l’aumento dei controllori da 130 a 150. Entro l’estate 2023 via ai lavori per installare barriere «a schermo» alte 180 centimetri a Duomo, Cadorna, Rogoredo, Garibaldi e Centrale. Poi su tutta la linea gialla

Oplà. Dentro. Senza sforzo, nemmeno il brivido di un dribbling al controllore, evitando di scattare perché tanto manca chi «marca», con lo sguardo di chi fa gol di mano ma rimane a testa alta, senza scomporsi, perché magari lo convalidano. Ai saltatori di tornelli nel metrò la «giocata» è quasi sempre permessa: slancio minimo, le braccia a fare da perno, le gambe sollevate oltre l’ostacolo. Hanno, ormai, la tranquillità data dall’esperienza, di chi ha fatto del viaggiare gratis una preziosa abitudine, una conquista. Balzo all’ingresso e balzo all’uscita, poi di nuovo in superficie. Canguri. I meno sportivi preferiscono il «limbo» passando sotto la sbarra. Altri il «trenino» quando il varco è una barriera a schermo: ingresso doppio o triplo al prezzo di uno. Il pubblico pagante osserva, qualcuno protesta invano, il film è sempre lo stesso ma resta impresso. Se ne poteva scrivere una settimana fa, un mese prima o l’anno scorso. Se ne scrive oggi perché nulla è cambiato e il vizio è diventato rito, un fenomeno tutt’altro che passeggero che potrebbe determinare un rincaro dei biglietti.

Io viaggio gratis

La squadra degli «elevati» è una Internazionale multiforme: italiani, sudamericani, africani, rom. Uomini e donne. Prevedibili e improbabili. Persone un po’ trasandate insieme a soggetti con vesti griffate in viaggio verso il centro, dove si presume spenderanno soldi. Ne restano fuori i pendolari in giacca e cravatta con una reputazione da difendere. Variabile anche l’età, ma il pallino del malcostume sembra gestito da compagnie di giovani e singoli under 35. «Non capisco, parlo poco l’italiano» si giustifica uno sbarbato appena entrato senza titolo a Sesto San Giovanni, capolinea della linea rossa, con l’agente di cabina al mezzanino beffato ma consapevole: «Ne vedo di ogni tutti i giorni — dice roteando la mano in segno di abbondanza —, ma solo i controllori possono fare multe, il personale di cabina sorveglia su schermo le aree della metropolitana, qualche volta capita di uscire per un vano rimprovero ma c’è il rischio di incontrare la persona sbagliata. Saputo del collega aggredito lo scorso giugno a San Donato e del nostro conseguente sciopero?». Non un caso isolato. Lo scorso maggio, a Loreto, la vittima era stata una dipendente Atm «colpevole» di avere fermato una coppia che aveva obliterato un solo biglietto. Una mossa che le è costata spintoni e insulti da parte della donna coinvolta: «Se ti metto le mani addosso ti sfascio e non farai più figli. Ti sei svegliata solo ora a lavorare?».

Dove c’è più afflusso c’è maggiore incentivo al salto. Lo scorso sabato sera, alla stazione di Lambrate, due ragazze hanno salutato i tornelli dal basso, accovacciate tra risate e imbarazzo, «veloce, muoviti», proprio mentre un’altra viaggiatrice «punk» li scavalcava nell’altro senso di marcia. Acrobati. Poi l’accelerata per mischiarsi ai «giusti» tornando invisibili, con un risparmio di 2 euro che raddoppia in caso di andata e ritorno a ufo . Che se moltiplicati per 30 giorni fanno 120 euro (l’abbonamento mensile urbano costa 39, l’interurbano varia da 60 a 87): la multa, invece, se pagata subito vale 39 euro, mentre dopo cinque giorni è pari a 54, dopo sessanta giorni lievita a 70.

I numeri dell’evasione

L’azienda che gestisce il trasporto pubblico a Milano, Atm, conferma l’aumento del tasso di evasione sui titoli di viaggio, compresi quelli per gli spostamenti via autobus e tram, e lo quantifica al 4%, ricordando che prima della pandemia i «canguri» rappresentavano l’uno per cento, un residuo «fisiologico» che si anniderebbe anche in altre metropoli europee. La crescita del numero di trasgressori, secondo la società, risiede nei controlli giocoforza limitati durante il biennio Covid, quando la regola aurea era una: distanziamento. Che alcuni utenti hanno tradotto con «liberi tutti», abituandosi giorno dopo giorno, sera dopo sera, alla passività del padrone di casa.

Le strategie di Atm

Ora Atm è pronta alla controffensiva. Innanzitutto assumendo nuovi controllori: «Entro la fine dell’estate passeranno da 130 a 150, ma non è percorribile l’idea di un presidio fisso in ogni stazione, perché con 25 mila corse al giorno tra sottosuolo e superficie c’è bisogno di ispezioni a campione con l’ausilio di security e forze dell’ordine». La svolta potrebbe arrivare dall’installazione di nuovi tornelli, per cui è in corso una gara che si chiuderà in autunno, con l’obiettivo di sostituire quelli a «sbarra» con barriere «alte 180 centimetri che saranno dotate di un sensore per rilevare il passaggio di una seconda persona facendo scattare una sirena». Sulla linea lilla, l’M5, sono già in uso ma senza allarme sonoro. Tra primavera ed estate 2023 è previsto l’inizio dei lavori in sette stazioni tra verde e rossa, certamente a Duomo, Cadorna, Rogoredo, Garibaldi e Centrale, con successivo interessamento dell’intera linea gialla. Musica per le orecchie della gente onesta.

Da Mediaset. Le Iene, lo speciale Un paese di furbetti domenica 17 luglio 2022 su Italia 1.

Il reportage di Giulia Golia ripercorre i raggiri più incredibili individuati dagli inviati in 25 anni di trasmissione.

Domenica 17 luglio in prima serata dalle 21.20 su Italia 1, va di nuovo in onda lo speciale de Le Iene condotto da Giulio Golia dal titolo Un paese di furbetti. La puntata, dal titolo così esplicativo, è interamente dedicata all'arte dell'affabulazione: una raccolta di soggetti individuati dagli inviati della trasmissione, nell’arco dei 25 anni di messa in onda.

Le Iene: le storie di Un paese di furbetti

Con contenuti inediti, testimonianze di tutti i principali protagonisti, sia di chi ha subìto ingiustizie che di chi le ha ideate, indagini delle forze dell’ordine e ricostruzioni dei fatti, lo speciale ripercorre, dal 1998 a oggi, le vicende che hanno più colpito l’attenzione, occupando le pagine di cronaca nazionale, che hanno dato il via a inchieste giudiziarie e che hanno suscitato più reazioni. Dal re della truffa arrestato nel 2018 ai ladri di monopattini di questi giorni, a chi ha frodato finanziariamente per uno stile di vita al di sopra delle proprie possibilità. Tutti impostori che, il più delle volte, colti sul fatto, non solo hanno continuato a negare, ma sono andati avanti nella ricerca del prossimo malcapitato. 

Nella serata saranno raccontati i raggiri più incredibili, potenziali o portati a compimento, di fronte ai quali si sono trovati molti degli inviati in questi anni, ma anche soggetti il cui operato presenta delle possibili anomalie che meritano approfondimento. Infine, si cercherà di fare un passo in avanti con l’intento di capire le motivazioni di questo modo di agire. A commentare con Giulio Golia comportamenti e atteggiamenti dei furbetti la criminologa Anna Maria Giannini, direttrice del servizio di Psicologia Forense dell’Università La Sapienza di Roma.

Stefano Ramunni, re della truffa. Fu arrestato grazie a Le Iene: furto d’identità e…Emanuela Longo su Il Sussidiario.it il  17.07.2022. 

Stefano Ramunni, tra i truffatori seriali scoperti da Le Iene: grazie al programma fu arrestato nel 2018. E’ considerato il ‘re della truffa’

Nel corso degli anni la trasmissione Le Iene si è occupata di vari truffatori seriali e proprio a loro oggi, domenica 17 luglio 2022 dedica uno speciale in onda nella prima serata di Italia 1 e condotto da Giulio Golia. Tra coloro che sono stati individuati dalla trasmissione c’è anche Stefano Ramunni ribattezzato come il ‘re della truffa’ ed arrestato nel 2018 proprio dopo che Giulio Golia lo aveva trovato e intervistato. A lui il programma ha dedicato diversi servizi. A carico dell’uomo erano state segnalate una serie di truffe che sarebbero avvenute ai danni di negozi della zona di Treviso. 

Nel luglio del 2019 proprio il sito della trasmissione aveva annunciato a suo carico un nuovo processo relativo alla prima truffa grazie alla quale Le Iene avevano reso nota la storia di colui che è stato definito il ‘mago dalle mille identità’. Nel dettaglio, Ramunni avrebbe rubato l’identità di Marco Quarta, un quarantenne per vent’anni costretto a letto a causa della distrofia muscolare e deceduto nell’ottobre del 2019. Marco era stato il primo a cadere nella rete di Ramunni che aveva approfittato proprio della sua grave malattia per truffarlo.

Matteo Griggio, Mr Truffa/ “E’ come una droga”: a Le Iene si disse pentito ma poi…

Stefano Ramunni e la truffa ai danni della famiglia Quarta

Proprio dalla testimonianza dei genitori di Marco Quarta era partita l’inchiesta de Le Iene culminata con il suo (secondo) arresto proprio a favore di telecamere. Per truffarlo, Stefano Ramunni avrebbe usato un’altra identità ancora, quella di un prete. Proprio a causa della grave malattia del figlio, i genitori avevano fatto diversi appelli in tv fino a quando un giorno a contattarli fu un prete, tale Don Vito Piccinonna, che si offriva di donare mille euro alla famiglia Quarta. Dopo averlo contattato però arrivò una strana richiesta: “Mi diceva di mandargli la carta d’identità di Marco con il codice fiscale e lo stato di famiglia”, raccontò il padre a Golia. Pur eseguendo quanto chiesto, il bonifico non arrivò mai. Di contro giunse un telegramma dell’American Express che indicava di contattare i propri uffici poiché era stata aperta una carta di credito a nome del figlio.

Alessandro Proto/ Anna Molli morta di cancro: sua storia a Le Iene portò all’arresto

Si sarebbe scoperto in seguito che a rubare i dati del ragazzo sarebbe stato proprio Stefano Ramunni al fine di attivare una carta di credito e successivamente svuotarla. Le Iene attraverso la loro inchiesta scoprirono che Don Vito esisteva davvero ma anche lui era stato vittima del furto di identità. Solo dopo una lunga ricerca fatta da vicini di casa dove Ramunni – sempre sotto falso nome – aveva fatto il badante e un vecchio complice che poi ha deciso di cambiare vita, Giulio Golia riuscì ad arrivare a Stefano Ramunni, l’uomo dalle mille identità, che nel corso della sua ‘carriera’ arrivò anche a spacciarsi per un funzionario del Vaticano.

Fabrizio Pignalberi, leader Più Italia. Assolto dopo accusa di truffa per un assegno. Emanuela Longo su Il Sussidiario.it il  17.07.2022. 

Fabrizio Pignalberi, leader del movimento Più Italia era stato preso di mira da Le Iene per una presunta storia di truffe. Il politico è stato di recente assolto.

C’è anche Fabrizio Pignalberi nella lista dei “furbetti” presi di mira da Le Iene nel corso del loro lavoro di inchiesta dal 1998 ad oggi ed oggi protagonista dello speciale condotto in prima serata su Italia 1 da Giulio Golia. Pignalberi, fondatore del movimento Più Italia, secondo le testimonianze raccolte da Le Iene si sarebbe approfittato di molte persone creando alcuni danni tuttora irrisolti. Ad occuparsi del caso nei mesi scorsi era stato proprio Giulio Golia che aveva ricostruito l’intera vicenda seguita nell’ultimo anno. La trasmissione ovviamente aveva raccolto anche nel suo caso le numerose testimonianze di presunte persone truffate dall’uomo.

L’uomo, secondo quanto svelato dalla trasmissione Le Iene, si sarebbe spacciato per avvocato riuscendo a carpire la fiducia delle persone ed intascando i loro soldi. C’era chi ai microfoni del programma svelava di aver perso tra i 14 ed i 15 mila euro, chi “una montagna di assegni” attraverso presunti vari magheggi. Ai microfoni de Le Iene, affranto, aveva detto: “Ci sono rimasto male, avete fatto un abbaglio”.

Fabrizio Pignalberi assolto dall’accusa di truffa

E’ notizia dello scorso 11 luglio 2022, ripresa da CiociariaOggi.it, l’assoluzione per rimessione di querela e per non aver commesso il fatto a favore di Fabrizio Pignalberi. La vicenda in questione, si legge sul quotidiano, vedeva coinvolto il leader di Più Italia dopo una denuncia per truffa “perché secondo l’accusa avrebbe manomesso un assegno, al fine di trarre un guadagno”. Nella precedente udienza il denunciante aveva manifestato la volontà di rimettere la querela nei confronti del politico, come poi è accaduto.

Stefano Ramunni, re della truffa/ Fu arrestato grazie a Le Iene: furto d’identità e…

Tuttavia, la querela sporta restava comunque perseguibile d’ufficio, motivo per il quale sono stati sentiti il beneficiario del titolo e lo stesso imputato che ha negato di aver modificato l’assegno contestato. Alla fine è giunta la sua assoluzione in seguito alla quale Pignalberi ha commentato: “La verità viene sempre a galla, sono stato sereno dal primo giorno, tale serenità proviene dall’estraneità ai fatti contestati, non può e non deve essere una trasmissione ad emettere una sentenza, questo è l’unico errore grande, perché è inspiegabile tutto ciò, ma con il sorriso continuerò a difendermi dalle accuse infondate”.

Matteo Griggio, Mr Truffa. “E’ come una droga”: a Le Iene si disse pentito ma poi… Emanuela Longo su Il Sussidiario.it il  17.07.2022. 

Matteo Griggio, il truffatore che tentò di incastrare anche Le Iene: l’intervista con il finto pentimento dopo le numerose vittime collezionate.

Di Matteo Griggio, detto Mr. Truffa, la trasmissione Le Iene aveva avuto già modo di occuparsi in passato. Anche per questo oggi sarà uno dei protagonisti dello speciale del programma di Italia 1 che si baserà proprio sulle gesta dei “furbetti”, truffatori seriali e impostori di cui la stessa trasmissione si è occupata nel corso degli ultimi 25 anni di servizi. Di lui si era occupato negli anni passati Matteo Viviani che aveva ripercorso la sua storia e le sue gesta. “Si chiama Mattia Griggio, fa il truffatore e la sua storia è degna di un film hollywoodiano”, diceva l’inviato alcuni anni fa. Tante le persone che nel tempo si erano fidate di lui dandogli molti soldi e ritrovandosi alla fine a mani vuote.

Secondo quanto emerso nel corso de Le Iene, l’attività principale di Matteo Griggio era quella del finto promotore finanziario che tramite una serie di trucchi riusciva a raccattare soldi in giro. Tra le sue vittime anche Giuseppe, intervistato dal programma ed al quale Griggio era riuscito a spillare oltre 200 mila euro. “Una sera ho tentato anche il suicidio”, aveva detto. Era il 2013 quando Viviani incontrò per la prima volta Matteo Griggio mettendolo davanti alle sue responsabilità: “Va bene, mi sono intascato dei soldi, mi prendo l’impegno di ridare almeno un tot di soldi”, aveva detto, con tanta di stretta di mano a Viviani.

Alessandro Proto/ Anna Molli morta di cancro: sua storia a Le Iene portò all’arresto

Matteo Griggio: truffatore pentito?

Da allora Matteo Griggio non solo non aveva mai mantenuto la sua promessa fatta davanti alle telecamere de Le Iene, ma aveva continuato indisturbato a truffare altre numerose vittime. A distanza di un anno Matteo Viviani lo aveva nuovamente raggiunto ma anche in quel caso si era mostrato pentito ma aveva negato le accuse. Ancora nel 2014 Le Iene erano tornate sulle sue tracce dopo un nuovo tentativo di truffa. Fino a quando, a sorpresa, si era presentato direttamente lui in trasmissione in cui raccontò tutti i retroscena della sua vita da truffatore. “Organizzavo dei veri e propri finanziamenti che di fatto non potevano essere erogati e mi facevo dare dei soldi”, aveva ammesso, fino alle false documentazioni. “Ho fatto tutto da solo”, disse ancora.

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Nel corso dell’intervista Matteo Griggio aveva ammesso di aver falsificato i documenti e di aver truffato circa 70 persone, passando per la scelta delle vittime. “E’ come una droga”, aveva aggiunto. In tutto avrebbe ottenuto 300mila euro tutti spesi per fare la bella vita. A Le Iene aveva detto che aveva voglia di riprendere il suo lavoro  devolvendo il 20% alle sue vittime: “Non voglio più fare cavolate”, aveva aggiunto. Dopo essersi mostrato pentito e aver spiegato a Viviani di aver smesso con le truffe un anno prima, alla fine la trasmissione scoprì l’ennesima truffa ai danni di una ragazza sudamericana avvenuta appena pochi mesi prima. La 28enne dopo avergli dato fiducia si sarebbe ritrovata nei guai. Il suo finto pentimento, dunque, sarebbe servito solo a ricominciare a fare esattamente quello per cui Le Iene erano arrivate da lui. Dopo la scoperta del piano di truffare anche le Iene, per lui si erano aperte le porte del carcere sebbene sia poi uscito scontando pene alternative a seguito di una assoluzione.

Alessandro Proto. Anna Molli morta di cancro: sua storia a Le Iene portò all’arresto. Emanuela Longo su Il Sussidiario.it il  17.07.2022. 

Alessandro Proto, l’inchiesta de Le Iene partita dalla storia drammatica di Anna Molli, la donna truffata morta di cancro nel 2020

Negli ultimi 25 anni la trasmissione Le Iene si è occupata spesso di “furbetti”, impostori e veri e propri truffatori seriali. A loro nella prima serata di oggi dedicherà uno speciale condotto da Giulio Golia, durante il quale non mancherà un approfondimento anche sul conto di Alessandro Proto, autore di un eloquente libro dal titolo “Io sono l’impostore” e spesso protagonista di diversi servizi del programma di Italia 1.

L’uomo fu ribattezzato dal medesimo programma come il ‘re delle fake news’. Ad occuparsi del sedicente finanziere, immobiliarista, imprenditore con finti affari con personaggi del calibro di Donald Trump, George Clooney e Johnny Depp e già condannato per truffa, era stata la iena Veronica Ruggeri, la quale aveva raccolto varie testimonianze di donne che sostengono di avergli dato dei soldi. Le ultime notizie rese note dal portale de Le Iene sul conto di Alessandro Proto risalgono al giugno dello scorso anno quando l’uomo era stato condannato a 6 anni e 8 mesi per aver raggirato una donna a cui avrebbe spillato in poco più di un anno la somma di 542 mila euro. Una storia molto simile a quella di Anna Molli, la donna malata di cancro e morta nel 2020, la quale sempre a Veronica Ruggeri aveva raccontato del suo raggiro da parte di Proto.

Proprio dalla storia drammatica di Anna Molli era partita l’inchiesta de Le Iene su Alessandro Proto. La donna, malata di cancro, aveva raccontato a Veronica Ruggeri di essere stata truffata da Proto facendo così emergere una brutta storia con molte altre vittime alle spalle. Prima di andarsene, Anna aveva lasciato una lettera: “Grazie a me stessa per averlo denunciato pubblicamente ed averne interrotto l’attività criminale”. Secondo il racconto della donna, l’imprenditore che raccontava di aver fatto affari con molti vip, le avrebbe spillato 130mila euro, soldi che la donna avrebbe dovuto usare per una chemioterapia sperimentale in America.

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Anna raccontò a Le Iene di aver conosciuto Proto sui social e di avere prima finto di avere una figlia morta alla quale non riusciva a pagare i funerali e poi un figlio malato a cui non riusciva a pagare le cure. “Sono caduta in un baratro fatto prima di pressanti richieste di denaro e poi di minacce legali a me e ai miei cari”, aveva detto Anna a la iena. La storia di Anna Molli aprì il vaso di Pandora da cui uscirono allo scoperto molte altre vittime di Alessandro Proto con le quali l’uomo avrebbe sempre tirato in ballo malattie, figli, funerali che non riesce a pagare, seguito dalle minacce. Poche settimane dopo il servizio la Guardia di Finanza avrebbe proceduto al suo arresto per truffa.

Sequestrati oltre 23 milioni di euro per “bonus” da canoni di locazione per beneficiari richiedenti il reddito di cittadinanza ed extracomunitari. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Novembre 2022. 

I finanzieri del Gruppo di Frattamaggiore della Guardia di Finanza hanno eseguito un provvedimento di sequestro preventivo avente ad oggetto crediti derivanti da canoni di locazione per oltre 23 milioni di euro vantati da 29 soggetti.

A seguito di un’articolata attività investigativa diretta dalla Procura della Repubblica di Napoli Nord guidata dal procuratore Maria Antonietta Troncone, questa mattina personale del Gruppo della Guardia di Finanza di Frattamaggiore ha dato esecuzione a un provvedimento di sequestro preventivo, emesso dal GIP del Tribunale di Napoli Nord, avente ad oggetto crediti derivanti da canoni di locazione per oltre 23 milioni di euro, vantati da 29 soggetti, tra persone fisiche e giuridiche, rispettivamente residenti o aventi sede per la maggior parte tra le province di Napoli e Caserta. 

L’attività d’indagine fa seguito ad analoghe operazioni, già condotte nei mesi di marzo e giugno scorso, che hanno consentito di sottoporre a sequestro crediti fiscali connessi alle agevolazioni introdotte dal Decreto “Rilancio”, di natura fraudolenta, per complessivi 880 milioni di euro. ln particolare, sono emersi ulteriori negoziazioni fraudolenti, connesse per lo più alla fruizione di canoni di locazione previsti dal medesimo decreto rilancio, rivelatisi del tutto inesistenti. I cessionari, per la quasi totalità extracomunitari già segnalati irreperibili sul territorio nazionale, avevano infatti comunicato all’ Agenzia delle Entrate, attraverso l’inserimento di moduli di cessione al portale Entratel, la disponibilità cli crediti per l’ammontare di svariati milioni di euro, ricevuti a fronte di fantomatiche locazioni immobiliari, per lo svolgimento di attività d’impresa, che in realtà non sono mai avvenute.

Nel corso delle indagini, oltre ad essere stata ricostruita l’articolata filiera delle cessioni a catena eseguite dai responsabili, è stato anche accertato che tra questi quasi il 50% risultava percettore o comunque richiedente il reddito di cittadinanza, aspetto evidente dell’incompatibilità tra la effettiva dimensione economico-imprenditoriale cui appartengono gli indagati e le movimentazioni delle ingenti risorse finanziarie delle quali, solo apparentemente, disponevano.

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Ulteriore conferma della natura illecita delle provviste creditizie certificate all’Agenzia delle Entrate è stata poi desunta dalla ricostruzione di alcune movimentazioni che, solo formalmente, sarebbero state eseguite da un soggetto in realtà deceduto in data antecedente alle negoziazioni eseguite a suo nome sul portale Entratel, per un ammontare pari a Euro 138.000,00. Per tale evidenza sono in corso accertamenti mirati all’esatta identificazione del responsabile.

La Procura della Repubblica di Napoli Nord, pertanto, all’esito della ricostruzione della vicenda, ha richiesto ed ottenuto dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale in sede, il sequestro preventivo di crediti per un importo complessivo pari a 23.186.436,00 euro, al fine d’impedire la dispersione di risorse pubbliche mediante la monetizzazione o l’utilizzo in compensazione dei crediti a danno dell’Erario. L’attività illecita oggetto di accertamento che, come detto, realizza un comportamento delittuoso già in precedenza monitorato, è di tale gravità, per l’elevatezza delle somme negoziate, da poter concretamente determinare un sensibile nocumento alle risorse pubbliche, depauperate e distolte dalla loro corretta destinazione prevista in seno al più ampio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Redazione CdG 1947

(ANSA il 22 giugno 2022) - Quasi 6 miliardi sottratti a chi ne aveva diritto, sei miliardi stanziati per la spesa pubblica e finiti nelle mani sbagliate. A tanto ammonta l'entità delle frodi, degli sprechi e degli episodi di corruzione scoperti dalla Gdf tra il 1 gennaio del 2021 e il 31 maggio di quest'anno. 

Truffe e sprechi che hanno riguardato fondi statali e dell'Unione europea, spesa sanitaria e assistenziale, fondi bancari assistiti da garanzia, appalti e anche il reddito di cittadinanza. Complessivamente, sono state denunciate 45.700 persone e inviate 7.600 segnalazioni alla Corte dei Conti per un danno alle casse dello Stato di 3,5 miliardi. 

Dei sei miliardi quantificati dalla Guardia di Finanza, oltre 290 sono i milioni di euro di contributi a fondo perduto e i finanziamenti bancari assistiti da garanzia che sono stati percepiti illecitamente e che hanno portato alla denuncia di 2.400 persone, al termine di 12.700 verifiche. 

Le frodi al sistema sanitario ammontano invece a 549 milioni, e sono ricomprese nei 3,5 miliardi di danni all'Erario, mentre quelle in materia di spesa previdenziale a assistenziale a 365 milioni e quelle ai fondi strutturali Ue a 129 milioni. Nel settore degli appalti sono state invece riscontrate irregolarità per 1,4 miliardi mentre sul reddito di cittadinanza sono stati scoperti illeciti per 288 milioni. 

Reddito di cittadinanza, truffa da 290 milioni. Lodovica Bulian il 24 Giugno 2022 su Il Giornale.

Denunciate 29mila persone che non avevano diritto al sussidio. L'ira del centrodestra.

I numeri delle truffe sono quelli emersi dai controlli, ma quelli reali potrebbero essere ancora più alti. Quelli della Guardia di finanza dicono che dall'inizio 2021 per aver indebitamente percepito o tentato di percepire il reddito di cittadinanza sono state denunciate 29mila persone, per somme incassate o ancora da incassare pari a 290 milioni di euro.

Numeri che riaprono un dibattito politico da sempre infuocato sulla misura bandiera del M5s e sostenuta anche dal Pd. Il centrodestra ha messo nel mirino il sussidio e ieri ha attaccato sulle falle del sistema che hanno portato migliaia di persone a incassare indebitamente il sostegno. Ed è arrivato anche l'affondo del ministro della Pa Renato Brunetta: «Se mettiamo insieme il salario minimo, che uccide la contrattazione, con il reddito di cittadinanza, noi abbiamo distrutto il mercato del lavoro». Il ministro del Lavoro Andrea Orlando in Aula ha annunciato che «stiamo valutando degli ulteriori interventi correttivi che ci consentiranno di proseguire nel percorso di razionalizzazione del reddito, attraverso un potenziamento dell'incrocio tra domanda e offerta e attraverso meccanismi che incentivino la cumulabilità, entro una certa soglia, tra reddito di cittadinanza e reddito da lavoro». Si riferisce cioè al fenomeno di coloro che per non perdere il reddito rifiutano impieghi da basse retribuzioni, con ricadute di manodopera soprattutto nel comparto turismo: «Un problema reale - ammette Orlando -. Occorre però verificare se effettivamente sia il beneficio del reddito ad avere un effetto disincentivante sull'accettazione delle offerte di lavoro. Potrebbe dipendere anche da una competizione perversa tra reddito di cittadinanza e bassi salari».

Uno dei nodi irrisolti del sussidio, oltre a un'alta percentuale di inoccupabili, è il mancato funzionamento delle politiche attive e dei centri per l'impiego sul reinserimento lavorativo. «Abbiamo introdotto alcune modifiche sostanziali sul sistema dei controlli e sui meccanismi per sostenere il beneficiario nella ricerca del lavoro - spiega il ministro - non siamo ancora in grado di misurare gli effetti concreti di queste modifiche, ma possiamo registrare un significativo trend in discesa del numero dei nuclei richiedenti (da 1.639.505 nel 2019 a 1.163.137 nel 2021 e 752.581 fino a maggio 2022). Nei primi cinque mesi dell'anno, le revoche hanno riguardato 29mila nuclei e le decadenze sono state 178mila. Questi ultimi dati certamente riconducibili all'efficacia del nuovo sistema di verifica ex ante dei requisiti dei richiedenti». Resta il problema della occupabilità: «Dei 3 milioni e 180 mila beneficiari risultano avviabili, effettivamente attivabili al lavoro 767mila persone, di cui 544mila senza alcuna esperienza negli ultimi 3 anni».

Il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida, attacca: «Incredibile leggere ogni giorno truffe di ogni tipo, mentre l'Inps per recuperare 10mila euro indebitamente percepiti debba spenderne 5mila. Questo accade mentre mancano centinaia di migliaia di lavoratori stagionali nel settore del turismo e dell'agricoltura. Per questo Fdi ha presentato una mozione per far lavorare in questi comparti i beneficiari del reddito e lasciare la misura di sostegno a chi effettivamente non può lavorare». Una proposta che Orlando ha respinto perché le attività previste nell'ambito del reddito come quelle di pubblica utilità nei Comuni, ha spiegato «non sono assimilabili» ad attività di lavoro subordinato.

Reddito di cittadinanza, truffa da 190 mila euro: 36 denunciati in uno stabile occupato a Tor Cervara. Maria Rosa Pavia su Il Corriere della Sera il 16 Ottobre 2022

Gli indagati, tutti stranieri e residenti all’anagrafe in un palazzo abbandonato di Tor Cervara, a Roma, non avevano il requisito della residenza in Italia da oltre dieci anni

Truffa da più di 190 mila euro allo Stato per il reddito di cittadinanza percepito indebitamente da 36 persone. E adesso è scattata la denuncia per i «furbetti», tutti stranieri e residenti all’anagrafe nello stesso stabile di Tor Cervara, in stato di abbandono. A querelarli, sono stati i carabinieri del nucleo operativo della compagnia Roma centro, con la collaborazione dei militari del Nucleo ispettorato del lavoro.

Dalle indagini avviate con il controllo di una persona domiciliata nello stabile, i militari hanno accertato che nel periodo compreso tra il 2020 e il 2022, la totalità delle persone denunciate non era in possesso del requisito della residenza in Italia da almeno dieci anni. La stessa motivazione che ha fatto scattare la denuncia per undici persone nella provincia di Latina e ventidue nella provincia di Viterbo.

Secondo gli ultimi dati, in totale, in Italia, il reddito di cittadinanza ha subito frodi per 288 milioni che hanno comportato la denuncia di 29mila persone su oltre un milione di percettori.

La truffa di 36 stranieri in uno stabile abbandonato a Roma : sottratti 190mila euro grazie al Reddito di cittadinanza, senza averne diritto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Ottobre 2022

Indagine dei Carabinieri: i soldi percepiti tra il 2020 e il 2022

Scoperta un’altra truffa ai danni dello Stato grazie al Reddito di cittadinanza tanto caro al Movimento 5 Stelle. Trentasei persone, tecnicamente residenti in uno stabile abbandonato a Tor Cervara di Roma, sono state denunciate dai Carabinieri per indebita percezione del reddito.

I denunciati, tutti stranieri e di varie nazionalità, hanno percepito l’emolumento tra il 2020 e il 2022 senza averne diritto, perché non erano effettivamente residenti in Italia da almeno dieci anni: termine imposto dalla normativa quale requisito per l’accesso alla previdenza sociale. 

Secondo quanto accertato dai Carabinieri del nucleo operativo della Compagnia Roma Centro e quelli del NIL, il Nucleo Ispettorato del Lavoro, l’importo complessivo erogato indebitamente ammonta in totale a 190.148 euro. Lo stabile di riferimento è un ex centro di accoglienza in disuso in via Armellini. Redazione CdG 1947 

Napoli, prosegue l’indagine dei Carabinieri sul reddito di cittadinanza. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Ottobre 2022 

Il portafogli si ingrossa ancora, quello nelle tasche dei 662 furbetti del reddito di cittadinanza scovati dai Carabinieri del Comando Provinciale di Napoli nel periodo che va da aprile a ottobre di quest’anno. Tutti hanno ricevuto denaro dallo Stato senza averne titolo. Per 287 di loro si ipotizza anche la truffa. Nessun commento o plauso politico del M5S di Giuseppe Conte

Primi giorni di ottobre, si chiude il cerchio sul terzo capitolo dell’inchiesta sul reddito di cittadinanza. I carabinieri napoletani, con la preziosa collaborazione del nucleo ispettorato del lavoro e dell’Inps,  hanno continuato ad approfondire i controlli sul beneficio intascato indebitamente da chi la soglia della povertà non l’ha mai varcata. Da chi vive in una sorta di limbo sommerso dove il lavoro nero, la delinquenza e l’arte di arrangiarsi (soprattutto a scapito degli altri) sono le uniche leggi riconosciute.

Controlli a tutela di quelle persone che del denaro garantito dal reddito di cittadinanza ne farebbero una fonte (lecita) di sostentamento.  Un beneficio che garantirebbe un pizzico di serenità ai veri bisognosi, quelli che con quel ritegno d’altri tempi neanche lo richiederebbero. Si riafferma, dunque, un ciclo simbolicamente durato un anno e 6 mesi, durante il quale i militari hanno scoperchiato una voragine nel bilancio statale che ha assorbito, moneta su moneta, 14 milioni 648 mila e 248 euro e 6 centesimi.

Una cifra spaventosa che in lettere fornisce una dimensione ancora più chiara di un fenomeno ancora ampiamente diffuso su tutto il territorio nazionale. Nessun commento o plauso politico del M5S di Giuseppe Conte sull’operazione di legalità svolta dall’ Arma dei Carabinieri. Ormai i grillini hanno portato a casa i voti… 

Quasi 15 milioni di euro sottratti indebitamente da migliaia di persone a cui non manca di certo la pagnotta e che, nonostante tutto, hanno richiesto aiuto al governo. 14.648.248,6 euro che tradotti su base giornaliera (con riferimento ad un periodo di un anno e 6 mesi circa, da giugno 2021 al 6 ottobre 2022: 553 giorni) significano 26.488,69 euro “regalati” ogni 24 ore a chi non ne aveva diritto, 1.103,69 euro l’ora.

Con la terza tornata di controlli, la somma rilevata è di 2.962.551,06 euro. Il campione in vitro è come sempre Napoli con la sua intera provincia, isole comprese. E ancora una volta si è proceduto analizzando il territorio in tre macro-aree: Napoli (con Pozzuoli, Monteruscello, Quarto, Monte di Procida, Bacoli, Ischia, Procida, ndr), comuni della provincia a Nord (area giuglianese compreso litorale, Castello di Cisterna e area a nord del Vesuvio, area maranese, Casoria e comuni limitrofi e area nolana) e sud (vesuviano lungo la costa, area di Torre Annunziata, Torre del Greco, Volla, Ercolano, Cercola, penisola sorrentina, Castellammare di Stabia e Capri).

Ma andiamo nello specifico, individuando quelle aree dove si è registrata una maggiore concentrazione di domande irregolari. Partiamo da Napoli, dove i Carabinieri hanno rilevato il picco di irregolarità tra le municipalità 3, 4 e 6. Per intenderci siamo nei quartieri Stella, San Carlo Arena, San Lorenzo, Vicaria, Poggioreale, Zona Industriale, Barra, San Giovanni a Teduccio e Ponticelli. 

I conti parlano di 731.973,68 euro intascati senza titolo: il 24.71% del dato provinciale riassunto in 9 quartieri. E oltre la metà (66,7%) dei numeri napoletani che parla di complessivi 1.097.391,52 euro sottratti alle casse statali. Non solo cifre, anche storie. Uno dei percettori risulta essere il 57enne del centro di Napoli, recentemente arrestato sull’isola d’Ischia per truffa ai danni di un’anziana. Il solito trucchetto del finto nipote costato all’uomo le manette. Da accertamenti dei militari intervenuti è emerso che nel novero dei percettori fosse registrato anche il suo nome.

Sussidio statale nelle tasche anche di 3 parcheggiatori abusivi denunciati tra le strade del quartiere Vomero. Non è chiaro quale delle entrate servisse per arrotondare il bilancio familiare, quella del Rdc o quella delle “offerte a piacere” degli automobilisti disperatamente alla ricerca di un parcheggio. Anche un 34enne, raggiunto da un provvedimento dell’Autorità giudiziaria per una rapina commessa in un market in Via Cilea, ne è risultato beneficiario.

A beneficiare indebitamente dei soldi dello stato anche due persone arrestate lo scorso 22 settembre  durante operazione dei Carabinieri di Scampia. I due sono gravemente indiziati di aver costretto un 27enne e la madre anziana a lasciare l’abitazione popolare dove vivevano legittimamente. 

Lasciamo il capoluogo per spostarci nell’area a nord di Napoli.

1.461.878,27 euro il conto sulla scrivania dei militari. Una cifra che spacchettata fa retrocedere l’area maranese (Marano, Villaricca, Melito, Mugnano e Calvizzano) di 2 posizioni: il conto finale è di 253.166,9 euro concentrati nei portafogli dei percettori illeciti individuati in questi 5 comuni. A guadagnare il posto più alto del podio Acerra con 707.787,49 euro di benefici illeciti, medaglia d’argento per Pomigliano con un buco di 316.336,30 euro. Seguono a ruota i dati di Giugliano in Campania (96.828,19 euro) e Arzano, con 55mila euro tondi.

Quest’ultima somma è stata convogliata nelle tasche di soli 11 soggetti, recentemente coinvolti in un indagine che ha inferto un duro colpo al clan della 167 di Arzano. Tra questi anche il padre di un esponente di spicco della consorteria criminale che in occasione della compilazione dell’autocertificazione ha omesso di indicare nel nucleo familiare uno dei componenti sottoposto a misura cautelare.

Una delle persone arrestate lo scorso 23 settembre nell’ambito di un operazione dei Carabinieri di Giugliano avrebbe ricevuto indebitamente circa 23mila euro dallo Stato. L’uomo è gravemente indiziato di estorsione e turbata libertà degli incanti, per aver interferito nell’aggiudicazione all’asta di un immobile sito a Casaluce.

Nel comune di Calvizzano, invece, i militari hanno denunciato 20 extracomunitari perché avrebbero richiesto il reddito di cittadinanza nonostante non avessero maturato i 10 anni di permanenza nel territorio italiano. Il danno causato al bilancio ammonta a circa 70mila euro.

Il terzo tassello arriva dall’area a sud di Napoli. A conti fatti la somma che è finita in mani sbagliate è di 403.281,27 euro. A dirigere questa “black list” i furbetti di Torre del Greco che hanno incassato 81.533 euro e quelli di San Giuseppe Vesuviano, con 71.502 euro.

Tra le persone che hanno beneficiato di denaro senza imperlarsi la fronte di sudore una donna del ’64, di Cercola, recentemente raggiunta da un ordine di carcerazione. La donna è stata tradotta al carcere di Santa Maria Capua Vetere e sconterà 3 anni, 7 mesi e 16 giorni di reclusione per usura, rapina ed estorsione, reati aggravati dal metodo mafioso. Estorsione il reato ipotizzato anche per 2 persone destinatarie di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dalla Dda partenopea, eseguita dai Carabinieri del nucleo investigativo di torre annunziata,  per corruzione elettorale in concorso.

I controlli dell’ Arma dei Carabinieri continueranno anche nei prossimi mesi.

Bilancio da Giugno 2021 al 6 Ottobre 2022:

Totale euro 14.648.248,6 euro;

Totale percettori illeciti 4.307;

Totale persone denunciate 1.556.

Prima inchiesta

5.127.765,71 euro giugno/novembre 2021 – 2441 le persone alle quali è stato revocato il beneficio su tutto il territorio della provincia partenopea, 716 denunciati per truffa ai danni dello Stato

Seconda inchiesta

6.557.931,86 di euro novembre 2021/ aprile 2022 – 1204 percettori illeciti

651 posizioni irregolari, 553 persone denunciate per truffa ai danni dello Stato.

Terza inchiesta

2.962.551,06 euro Aprile/Ottobre 2022 – 662 percettori illeciti – 375 irregolarità, 287 dpl

Questi i dati più recenti delle indagini dei Carabinieri svolte fra agosto ed ottobre 2022 nei quali sono state scovate persone con beneficio percepito indebitamente :

sabato 1 ottobre 2022

Giugliano in Campania, località Varcaturo: lavoro sommerso, controlli dei Carabinieri. In un pub 3 lavoratori “in nero”, 1 col reddito di cittadinanza I carabinieri della stazione di Varcaturo, insieme a quelli del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Napoli hanno svolto controlli in alcune attività commerciali della zona. Attenzione concentrata principalmente su pub e pizzerie. Due le pizzerie nelle quali non sono state rilevate irregolarità. In un pub in via Ripuaria, invece, i militari hanno rilevato e identificato 3 impiegati in nero. Uno di loro percettore indebito del reddito di cittadinanza. Il titolare è stato denunciato e multato per quasi 23mila euro. L’attività è stata sospesa.

sabato 24 settembre 2022

Giugliano e Qualiano: Controlli dei carabinieri in tutela dei lavoratori e dei consumatori. Operazione a largo raggio per i Carabinieri della compagnia di Giugliano che nella grande città a nord di Napoli e a Qualiano hanno effettuato un servizio volto al controllo delle attività commerciali, delle aziende e dei cantieri presenti sul territorio. Obiettivi la tutela del lavoratore e del consumatore. 

A Giugliano in Campania i Carabinieri della locale stazione insieme a quelli del Nil di Napoli hanno sospeso le attività in un cantiere edile di via Assisi. I militari hanno controllato i 5 lavoratori presenti e di questi 4 erano in nero. 2 dei 4 percepivano anche il reddito di cittadinanza. Per l’imprenditore una denuncia a piede libero e sanzioni civili e penali per un importo complessivo di 37.500 euro.

venerdì 23 settembre 2022

Controlli dei carabinieri a Grumo Nevano per la sicurezza sui luoghi di lavoro. Un servizio a largo raggio effettuato a Grumo Nevano dai carabinieri della compagnia di Caivano insieme ai militari del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Napoli. Diverse le aziende controllate e durante le operazioni i militari hanno trovato in un’azienda che si occupa di abbigliamento all’ingrosso 5 lavoratori in nero sui 5 presenti. Dei 5 erano in 3 a percepire anche il reddito di cittadinanza. L’azienda è stata sequestrata e l’imprenditore sanzionato per più di 40mila euro.

Controllata anche un’azienda di Casandrino impegnata nel settore dell’intrattenimento. Contestati illeciti penali e amministrativi in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro. Trovato anche un lavoratore in nero. L’attività è stata sospesa e sanzione salata per il proprietario dell’azienda, ben 94mila euro.

sabato 17 settembre 2022

C’è di tutto nei controlli dei Carabinieri al Vomero a Napoli. Dal reddito di cittadinanza alla droga, dai coltelli ai parcheggiatori abusivi. Ha 53 anni la donna denunciata per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche dai Carabinieri della compagnia Vomero per truffa. Ha richiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza nonostante in famiglia il marito fosse impiegato in una società di delivery. Oltre 16mila euro il conto dei danni allo Stato.

venerdì 16 settembre 2022

I Carabinieri hanno arrestano un latitante per omicidio durante la “Prima Faida di Scampia”.  Arrestato un 67enne affiliato al clan Amato/Pagano, che aveva anche il reddito di cittadinanza. I carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Napoli hanno arrestato Antonio Pezzella, 67enne di Casavatore ritenuto affiliato al clan Amato/Pagano e latitante dallo scorso gennaio. Pezzella si sottrasse ad un ordine di custodia cautelare in carcere emesso dalla corte di assise d’appello di Napoli ed è ritenuto gravemente indiziato dell’omicidio e dell’occultamento del cadavere di Gaetano De Pascale. La vittima, cugino di Paolo diLauro, fu uccisa nel novembre del 2004 durante quella che viene convenzionalmente definita la “Prima faida di Scampia”. Il 67enne è stato individuato in un’abitazione di Casavatore al termine di un’articolata e complessa attività di indagine e di un costante monitoraggio del web e dei flussi bancari. E’ risultato anche percettore del reddito di cittadinanza. E’ stato tradotto al carcere di Secondigliano.

giovedì 1 settembre 2022

Portici e San Sebastiano: Carabinieri arrestano tre persone. Due blitz anti-droga per i Carabinieri della compagnia di Torre del Greco e 3 persone arrestate. Una coppia con il reddito e un pusher colto alla sprovvista Il primo episodio avviene a Portici e a finire in manette è Pasquale Lucarella, 47enne del posto già noto alle forze dell’ordine. I militari della locale stazione lo hanno notato e bloccato mentre cedeva una dose di cocaina a un “cliente” all’incrocio tra via Palizzi e Piazzale Brunelleschi. Arrestato, è in attesa di giudizio. Gli altri due arresti sono avvenuti a San Sebastiano al Vesuvio. I carabinieri hanno fatto visita all’abitazione della 34enne Anna Salomone e di Salvatore Ricciardi, 40enne. I due conviventi  sono del posto e già noti alle forze dell’ordine. Durante la perquisizione i Carabinieri hanno rinvenuto e sequestrato una pianta di marijuana alta circa 3 metri. Un “albero dell’illecito” irrigato grazie ad un allaccio abusivo della rete elettrica. I due, infatti, non solo risponderanno di coltivazione di sostanze stupefacenti ma anche di furto di energia elettrica. La pianta era in coltivazione e alimentata con un sistema automatico collegato al contatore che segnava solo il 30% dei consumi reali. La coppia è in attesa di giudizio ed è stata segnalata anche all’Inps per i provvedimenti del caso: i Carabinieri hanno infatti accertato che i due percepivano il reddito di cittadinanza.

sabato 20 agosto 2022

Accertato lavoro sommerso a Giugliano in Campania:. In un locale 11 impiegati in nero su 19, 4 dei quali con reddito di cittadinanza. Controlli dei Carabinieri in 3 attività di ristorazione Tutela del lavoro e sicurezza al centro dei controlli dei carabinieri in alcuni locali di Giugliano in Campania. Lavoro in nero anche per una pizzeria in zona Lago Patria. Dei 19 lavoratori impiegati ben 11 erano “sommersi”. 4 di questi, hanno scoperto i militari, ricevono mensilmente anche il reddito di cittadinanza. E’ stata richiesta la revoca del beneficio. Denunciati i titolari delle 3 società digestione, sospese le attività di ristorazione.

sabato 20 agosto 2022

A Torre del Greco un 47enne arrestato dai Carabinieri. Quando i militari della sezione operativa di Torre del Greco lo hanno sorpreso con la droga non ha perso tempo a far valere le sue ragioni. Nel marzo scorso, gli stessi militari gli avevano fatto revocare il beneficio del reddito di cittadinanza perché pregiudicato e, ora che quel denaro non era più garantito, doveva pur trovare una nuova fonte di sostentamento. E così la scelta del 47enne di torre del greco è caduta sugli stupefacenti. Durante una perquisizione nella sua abitazione i carabinieri hanno rinvenuto 58 grammi di hashish, un bilancino di precisione e materiale per il confezionamento delle dosi. L’uomo è stato arrestato per detenzione di droga a fini di spaccio. L’arresto è stato convalidato e gli è stata applicata la misura dell’obbligo di presentazione alla pg.

martedì 16 agosto 2022

NAPOLI, BAGNOLI E AGNANO: lavoro nero e percettori illeciti di reddito di cittadinanza. Controlli dei Carabinieri in una pizzeria e in un ristorante Carabinieri della stazione di Bagnoli e quelli del nucleo ispettorato del lavoro di Napoli hanno svolto controlli in due note attività di ristorazione. La prima è nel quartiere Agnano ed è un ristorante. Dei 9 impiegati controllati 2 erano “in nero” e sono risultati anche percettori del reddito di cittadinanza. In una nota pizzeria di Bagnoli, invece, i Carabinieri hanno rilevato 4 lavoratori irregolari e 1 percettore di reddito di cittadinanza sui 16 impiegati. Contestate violazioni penali per importi che vanno oltre i 22mila euro e amministrative per complessivi 28760 euro. Redazione CdG 1947

Le indagini dei carabinieri. Reddito di cittadinanza, scovate a Napoli 662 persone senza diritto: 15 milioni nelle tasche sbagliate. Vito Califano su Il Riformista il 15 Ottobre 2022 

I carabinieri di Napoli hanno individuato e denunciato 662 percettori indebiti del reddito di cittadinanza a Napoli, nel periodo da aprile a ottobre del 2022. L’inchiesta dell’Arma sul sussidio ha accertato che in anno e mezzo hanno sottratto quasi 15 milioni di euro dalle casse dello Stato, una media di 1.100 euro all’ora. Soltanto nell’ultima retata i percettori avevano preso somme pari a quasi 3 milioni. Per 287 persone di ipotizza anche la truffa. I carabinieri hanno trovato le maggiori irregolarità tra le municipalità 3, 4 e 6. Ovvero nei quartieri Stella, San Carlo Arena, San Lorenzo, Vicaria, Poggioreale, Zona Industriale, Barra, San Giovanni a Teduccio e Ponticelli.

I carabinieri, nella nota del Comando Provinciale di Napoli, facendo sapere dell’operazione annunciano che i controlli continueranno anche nei prossimi mesi. Si legge così nell’ordinanza:

Primi giorni di ottobre, si chiude il cerchio sul terzo capitolo dell’inchiesta sul reddito di cittadinanza. I carabinieri napoletani, con la preziosa collaborazione del nucleo ispettorato del lavoro e dell’Inps, hanno continuato ad approfondire i controlli sul beneficio intascato indebitamente da chi la soglia della povertà non l’ha mai varcata. Da chi vive in una sorta di limbo sommerso dove il lavoro nero, la delinquenza e l’arte di arrangiarsi (soprattutto a scapito degli altri) sono le uniche leggi riconosciute.

Controlli a tutela di quelle persone che del denaro garantito dal reddito di cittadinanza ne farebbero una fonte (lecita) di sostentamento. Un beneficio che garantirebbe un pizzico di serenità ai veri bisognosi, quelli che con quel ritegno d’altri tempi neanche lo richiederebbero. Si riafferma, dunque, un ciclo simbolicamente durato un anno e 6 mesi, durante il quale i militari hanno scoperchiato una voragine nel bilancio statale che ha assorbito, moneta su moneta, quattordici milioni seicentoquarantotto mila e duecentoquarantotto euro e sei centesimi. Una cifra spaventosa che in lettere fornisce una dimensione ancora più chiara di un fenomeno ancora diffuso.

Quasi 15 milioni di euro sottratti indebitamente da migliaia di persone a cui non manca di certo la pagnotta e che, nonostante tutto, hanno richiesto aiuto al governo. 14.648.248,6 euro che tradotti su base giornaliera (con riferimento ad un periodo di un anno e 6 mesi circa, da giugno 2021 al 6 ottobre 2022: 553 giorni) significano 26.488,69 euro “regalati” ogni 24 ore a chi non ne aveva diritto, 1.103,69 euro l’ora.

Con la terza tornata di controlli, la somma rilevata è di 2.962.551,06 euro. Il campione in vitro è come sempre Napoli con la sua intera provincia, isole comprese. E ancora una volta si è proceduto analizzando il territorio in tre macro-aree: Napoli (con Pozzuoli, Monteruscello, Quarto, Monte di Procida, Bacoli, Ischia, Procida, ndr), comuni della provincia a Nord (area giuglianese compreso litorale, Castello di Cisterna e area a nord del Vesuvio, area maranese, Casoria e comuni limitrofi e area nolana) e sud (vesuviano lungo la costa, area di Torre Annunziata, Torre del Greco, Volla, Ercolano, Cercola, penisola sorrentina, Castellammare di Stabia e Capri).

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Zafarana (GdF): «Così abbiamo smascherato oltre 29mila falsi poveri con il reddito di cittadinanza». Enrico Marro su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.  

Con la pandemia e poi la guerra in Ucraina sono stati messi in campo bonus e sostegni vari a imprese e famiglie. Quante truffe e abusi avete scoperto?

«Le indagini più recenti — risponde il Comandante generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Zafarana — confermano l’interesse della criminalità per gli aiuti destinati a famiglie e imprese. Emblematico l’esempio dei bonus fiscali: la possibilità illimitata di circolazione dei crediti prevista dalla normativa emergenziale è stata strumentalizzata per scopi illeciti, inducendo il legislatore a intervenire per contrastare il fenomeno. Tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, di concerto con l’Agenzia delle entrate, abbiamo scoperto frodi per oltre 5,6 miliardi di euro e sequestrato crediti inesistenti per 2,5 miliardi. Le somme illecitamente ottenute sono state riciclate in società, immobili, preziosi e criptovalute, anche all’estero. Per recuperarle, abbiamo recentemente istituito una task force a livello centrale, dando il massimo impulso all’approfondimento delle segnalazioni per operazioni sospette, all’attività di intelligence e alla cooperazione internazionale».

Esiste lo stesso rischio per i 235 miliardi del Pnrr?

«Nell’ultimo anno e mezzo i nostri reparti hanno posto sotto sequestro beni per oltre 677 milioni. Fondamentale è stata la stretta sinergia con l’autorità Giudiziaria nazionale e con la Procura europea. L’attenzione è massima ma la realizzazione del Pnrr non può confidare solo nella repressione, con la prevenzione si riuscirà a evitare l’utilizzo improprio dei fondi».

In che modo?

«Il governo ha disegnato il sistema di governance prevedendo la possibilità che le Amministrazioni stipulino protocolli d’intesa con la Guardia di Finanza per prevenire e reprimere frodi e irregolarità. Abbiamo già realizzato, a livello centrale e periferico, specifici memorandum e siglato un’intesa, di assoluto rilievo, con la Ragioneria Generale dello Stato, cui hanno aderito le Amministrazioni centrali titolari degli interventi di spesa. Tra le finalità dei partenariati vi è quella di consentirci di disporre di notizie utili a elaborare analisi per selezionare le posizioni a maggior rischio di frode e orientare, conseguentemente, le attività ispettive. Il Corpo parteciperà anche alla “rete dei referenti antifrode”, coordinata dal Servizio centrale per il Pnrr, istituito presso la Ragioneria Generale, con la funzione di monitoraggio e gestione del rischio del Piano con attenzione particolare alle procedure di appalto».

Avete scoperto numerose frodi anche sul Reddito di cittadinanza. Quali sono i dati aggiornati?

«Dall’inizio del 2021, i controlli sul reddito di cittadinanza hanno portato alla denuncia di oltre 29.000 soggetti, per illeciti che, tra somme indebitamente percepite e illecitamente richieste ma non ancora erogate, assommano a circa 290 milioni di euro. La nostra attenzione, in sinergia con l’Inps, è indirizzata soprattutto ai sistemi di frode più strutturati, come quelli che hanno coinvolto anche soggetti collegati ai Caf».

La lotta all’evasione ha conosciuto una tregua durante la pandemia. Si è tornati alla normalità?

«Coerentemente con gli obiettivi di riduzione del tax gap previsti dal Pnrr, abbiamo intensificato la presenza ispettiva, valorizzando le nuove tecnologie per dar corso a interventi “chirurgici”. Continuiamo a riservare un particolare focus alle frodi fiscali, ai fenomeni di evasione internazionale — come le residenze fittizie e le stabili organizzazioni occulte — e alle condotte che alimentano il sommerso anche attraverso il commercio elettronico e i nuovi modelli di business dell’economia digitale».

Qual è il valore dei beni sequestrati in Italia agli oligarchi russi in Italia?

«Dalle prime fasi della crisi russo-ucraina, abbiamo fornito un importante contribuito al Comitato di Sicurezza Finanziaria, competente all’attuazione delle sanzioni imposte dall’Unione Europea. Il Nucleo Speciale di Polizia Valutaria ha eseguito, con il contributo dei reparti territoriali, accertamenti patrimoniali finalizzati a individuare risorse economiche, direttamente o indirettamente, riconducibili ai soggetti sottoposti alle misure restrittive unionali. Questo impegno è testimoniato dai 15 provvedimenti di congelamento, sino ad oggi adottati, su beni, per un valore di circa 1,8 miliardi di euro».

La guerra in Ucraina ha portato in primo piano il fronte dei cyberattacchi, anche all’Italia. La Guardia di Finanza è impegnata a contrastarli e che cosa è emerso finora?

«Il conflitto ha accentuato, inoltre, l’esigenza di resilienza nella transizione digitale e di tutela dai rischi di attacchi informatici. Il Corpo è in campo con un Nucleo specializzato che monitora costantemente il web per anticipare l’evoluzione della minaccia e contribuire a rafforzare il dispositivo di sicurezza cibernetica nazionale».

Lei ha ricevuto il ministro delle Finanze della Repubblica Federale di Germania, Christian Lindner. Quanto investe il Corpo sulla propria proiezione internazionale e con quali obiettivi?

«Nel corso degli anni, la Guardia di Finanza ha progressivamente esteso il proprio network su 75 Paesi e sei organizzazioni internazionali, con esperti e ufficiali di collegamento dislocati presso le principali missioni diplomatiche italiane all’estero, con compiti inerenti al comparto economico-finanziario. Sono stati, inoltre, stipulati protocolli d’intesa con Ocse, Fmi e Unoct (l’ufficio antiterrorismo delle Nazioni Unite), volti anche a promuovere attività formative internazionali, per favorire una comune cultura investigativa. Dal 2015 la nostra Scuola Pef ha ospitato 173 Paesi esteri, erogando corsi, dallo scorso anno, a circa 10.000 discenti stranieri».

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 22 giugno 2022.

Per intendersi: sono tre volte i finanziamenti straordinari pensati per la sanità, nell'epoca del post covid. Poco meno di quanto si immagina di spendere per il reddito di cittadinanza nel 2022, sei volte di più dei nuovi finanziamenti alle imprese, più di quanto è stato destinato per gli ammortizzatori sociali. 

Come una piccola finanziaria, insomma, che potrebbe cambiare il destino di migliaia di famiglie italiane. È invece la cifra di una truffa. Anzi, sono 5,64 miliardi di euro di truffe che, secondo l'ultima ricognizione della Guardia di Finanza e dell'Agenzia delle entrate, sono state accertate sul sistema dei bonus edilizi.

Quello che avrebbe dovuto - e in parte lo ha fatto - rilanciare l'economia. E che invece si è trasformato in un pericoloso cratere per i conti pubblici. Denunciato dal governo Draghi nei mesi scorsi. E confermato dalle indagini delle procure italiane. 

«Andrà sempre peggio: più scaveremo e più verranno fuori disastri» si era sfogato con Repubblica un investigatore a inizio 2022 quando sul tavolo della Finanza e del Ministero dell'Economia arrivarono gli esiti delle verifiche sull'utilizzo dei bonus edilizi. Parliamo di quello facciate, in primis. E di ecobonus, bonus locazioni, sisma e superbonus.

Dopo il controllo a campione su quelle società che avevano nel portafoglio crediti fiscali superiori al mezzo milione di euro, si erano scoperte truffe per 4,2 miliardi. Un monte di denaro pubblico. 

Ma purtroppo il vaticinio dell'investigatore era corretto: nel giro di quattro mesi i finanzieri hanno visto le frodi lievitare del 25 per cento circa. Ad oggi sono 2,5 miliardi i crediti inesistenti già sequestrati, 2,7 miliardi quelli su cui pende richiesta di sequestro, 452 milioni quelli sospesi sulla piattaforma dell'Agenzia.

I sistemi per sottrarre soldi allo Stato con i bonus sono quelli individuati dagli uomini del Comandante generale della Finanza, Giuseppe Zafarana, che ha creato una task force in collaborazione con le Entrate per tentare di recuperare le somme. 

Sfruttano una serie di vulnus che la normativa, almeno al principio, aveva: senza troppi controlli, i cittadini o le imprese dichiarano di avviare un intervento edilizio previsto dalla legge, e così incamerano un credito fiscale con lo Stato che copre una percentuale delle opere da realizzare.

Questo credito può essere "incassato" in due modi: scontandolo dalla dichiarazione dei redditi, oppure cedendolo a banche e intermediari in cambio di una somma minore all'importo ma immediata. Cash. 

In un primo momento era possibile vendere all'infinito i crediti. E questo rendeva difficoltoso risalire a quello originario di partenza per accertare un'eventuale truffa (per esempio: sono state progettate ristrutturazioni milionarie su quelle che in realtà erano stalle di pochi metri quadrati).

Ora il passaggio senza limiti è stato vietato, il credito lo si può cedere una volta sola, però ormai i buoi, e non solo i buoi, sono scappati. Per dire: coloro che sono considerati gli "inventori" delle truffe sui bonus - un imprenditore e un commercialista pugliesi oggetto della maxi inchiesta della procura di Rimini che ha rilevato truffe per mezzo miliardo di euro - sono stati arrestati dopo cinque mesi di latitanza.

Uno era a Santo Domingo, l'altro in Colombia. Come sempre accade in queste situazioni, le vittime dei sistemi di truffa allo Stato sono i cittadini onesti. Le banche hanno cominciato a non scontare più - o a farlo con molta difficoltà - i crediti in portafoglio, proprio per evitare di finire nel mezzo di guai giudiziari. Risultato: chi aveva cominciato i lavori è senza liquidità.

Con il rischio concreto, in questa seconda metà del 2022, che migliaia di aziende, molte delle quali nate proprio con la spinta dei bonus, possano fallire, lasciando cantieri a metà e buchi finanziari. Inoltre, è notizia di questi giorni, già a fine maggio l'ammontare delle richieste per i lavori del 110 per cento (il bonus che permette di fare efficientamenti energetici praticamente gratis) erano più dei fondi stanziati dal Governo. In sostanza: non ci sono più soldi per rimborsare imprese e banche. Perché molti, troppi, sono finiti nelle tasche di chi non ne aveva diritto. 

Italiani scaltri e fantasiosi, ma quelli del reddito di cittadinanza non sono solo «furbetti». Il fenomeno generale dei furbetti è assai grave e merita riflessioni, al di là di ogni moralismo o perbenismo. Gino Dato su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Ottobre 2022

Ancora una volta i carabinieri sono tornati a riva con le reti cariche di una ricca fauna che imperversa nei mari italiani: i furbetti. E ancora una volta la specie si era appropriata di una preda succulenta, il reddito di cittadinanza, percepito illecitamente. Sono 662 furbetti per una truffa di 15 milioni nel Napoletano, minimizza qualcuno. Sollevando le spalle, ci si chiede quale possa essere la rilevanza sociale dei reati commessi da chi non ha diritto all’assegno rispetto a una conquista che avrebbe restituito alla dignità qualche milione di persone. Infatti, a percepire il reddito, secondo i dati Inps del luglio 2022,  sono oltre un milione di famiglie italiane, con 2,49 milioni di individui, la maggior parte dei quali cittadini italiani (2,17 milioni), con importi medi di 551 euro.

Eppure il fenomeno generale dei furbetti è assai grave e merita riflessioni, al di là di ogni moralismo o perbenismo.

In primo luogo, non è nuovo nella storia d’Italia, anzi, quasi «consustanziale» al carattere nostrano, fotografa esemplari di un popolo fantasioso e bugiardo, pronto a costruirsi sotterfugi e requisiti falsi per godere di privilegi, sussidi e appannaggi. In una scala dal piccolo favore alla grande prebenda, soprattutto quando non gli spettano, è pronto a fare carte false, a simulare e dissimulare, quasi una sfida alle difficoltà della vita. Fantasia o piccolo cabotaggio delinquenziale? In secondo luogo, la definizione di «furbetti» ha risucchiato e fatto proprio un vezzeggiativo che edulcora lo stigma sociale della categoria: li chiamano «furbetti» e invece sono solo dei disonesti. Edulcorare l’appellativo, più che colorarlo di disprezzo, lo svuota, quasi a sminuire il danno per la comunità.

Certo, non sono paragonabili ai grandi evasori o ai tangentisti, ma sicuramente non sono ladri di polli. L’eufemismo smonta ogni sentore di intransigenza nei confronti del vizio. Il quale appare ancora più grave se approfondiamo il fenomeno relativo al reddito di cittadinanza. La retata, relativa a un periodo che va da aprile a ottobre, ha riguardato circa 90 mila beneficiari in 5 regioni, per i quali sono state accertata 5 mila irregolarità. La principale è dichiarare redditi inferiori ai 9360 euro della soglia fissata dalla legge istitutiva. Come fa chi attesta di non superarla ma svolge attività in nero, chi omette di seconde case e conti correnti eccedenti un determinato tetto, di moto e imbarcazioni. I percettori possono anche essere occulti protagonisti di avviatissime attività economiche, proprietari di case di pregio, nuclei familiari il cui reddito complessivo è largamente superiore a quello denunciato.

Si gioca sui requisiti economici. Ma in molti sono riusciti a barare sul casellario giudiziario, giacché dal reddito andrebbero esclusi coloro che nel decennio precedente hanno subìto condanne definitive  per essersi macchiati di reati come associazione di tipo mafioso, voto di scambio, strage e terrorismo, truffa aggravata e sequestro di persona, o è sottoposto a misure cautelari personali. Come si spiega che tra i beneficiati ci fossero anche pregiudicati e mafiosi, boss e persone ai domiciliari?

A proposito di nuclei familiari: «Il numero dei componenti - ricordano gli investigatori dell’Arma - ha un’incidenza determinante, per cui  ci siamo trovati di fronte a famiglie “allargate” in modo decisamente sospetto  fino a comprendere componenti da tempo via da casa, residenti ad altri indirizzi, coniugi o figli letteralmente inventati. In certi casi la fantasia non ha limiti».

L’Inps svolge un controllo di tipo amministrativo, con verifiche automatiche basate sulle banche dati, mentre alle forze dell’ordine spetta il controllo successivo, di polizia, teso ad accertare la sussistenza di veri e propri falsi e relativi reati: «Ai nostri occhi - continuano gli investigatori -  “indicatori di rischio” possono essere, ad esempio avere dei precedenti penali, un numero eccessivo di pratiche trattate dallo stesso Caf, risiedere in un immobile del centro storico di una grande città piuttosto che in periferia o in una casa popolare».  Come noto, il reddito di cittadinanza è riservato a  cittadini italiani o dell’Unione europea ma possono accedervi anche i cittadini di Paesi terzi  in possesso del permesso di soggiorno Ue per lunghi periodi, gli apolidi in possesso di analogo permesso e i residenti in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo.

«Tengo famiglia», un motto per giustificare gli illeciti. E ai nostri figli sempre più a rischio insegniamo i veri valori. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Ottobre 2022

Il vecchio e saggio Longanesi propose di scrivere sulla bandiera italiana un motto che riassumeva una constatazione dei fatti nostri verificata dagli storici, appurata dai cronisti, dagli stranieri in visita, vituperata dai moralisti: «Tengo famiglia». Due parole impeccabilmente esaurienti di una vicenda umana, quella italiana, che portava alla contemplazione del mistero tutto nostro, al tempo stesso scioccamente gaudioso e doloroso del Rosario della vita quotidiana, in cui si narra della unicità del fenomeno famiglia nel Paese dove, a dire di Goethe, fioriscono i limoni, ma, coi limoni, tanti altri frutti più aspri.

Per Longanesi quel «tengo famiglia» era la istituzionalizzazione della più praticata scusante, e anche della più patetica, usata dagli Italiani per smussare le colpe, attutire le responsabilità, indulgere alle infrazioni dello stato di diritto, giustificare i comportamenti violenti, assolvere dai reati, infine. La famiglia, insomma, è convocata a svolgere una funzione perniciosa, quella di manomettere le leggi in nome del tribale interesse della continuazione non della vita, ma della stirpe, assicurata da quella feroce forma di rispetto per un valore unico e indiscusso. Tutto il resto non conta, conta la famiglia e il suo ringhioso arroccarsi nelle mura dell’egoismo del sangue comune.

Notoriamente, questa, è una stupidaggine, ma è il residuo storico di una occhiuta cura assolutistica per il privato interesse confinato nell’alveo della cerchia genetica. Una rocca assediata dagli altri, da tutti gli altri. Non conta il popolo, non conta lo Stato con le sue leggi, non contano il prossimo, conta la famiglia. Un sociologo americano, Edward Banfield, già negli Anni Cinquanta parlò, a proposito del caso Italia, del fenomeno italiota che designò con un termine allarmante: «Familismo amorale». Quello studio si ispirava all’analisi delle forme di convivenza sociale di uno dei Paesi, al tempo stesso, più moderni e più antichi del mondo il quale presentava, e ancora presenta aspetti, inediti altrove, di maleducazione e brutalità di costumi, di ritardi socio-culturali e di criminalità organizzata (parlo di tutte le mafie) irrintracciabili altrove.

Longanesi non aveva letto quello studio, ma aveva intuito che quel motto servile «Tengo famiglia» riassumeva un carattere italiano che è tutto un programma. Gli è che sono chiare le ragioni dell’arroccamento domestico e consistono tutte nella lunga e amara vicissitudine storica del Paese per secoli dominato, iugulato, sfruttato da stranieri e dominatori sanguisughe. La predazione non ha trovato quasi mai la resistenza di un popolo che non poteva che languire, privo com’era, di una classe dirigente nazionale cosciente e onesta. Basta. Il resto è storia moderna. Però ancora la famiglia si presenta in scena spesso come argomento sociale. Questo è giusto nel metodo dello studio sociologico. Ma il volgar gergo comune, spesso convoca il tema nell’uso del costume e della società. Il lettore perdonerà la lunga introduzione, ma mi è servita anche a far sbollire lo sdegno per un luogo comune, quello dello stupirsi che certi fenomeni criminali, una certa violenza, lo stupro delle leggi e della tolleranza reciproca possano essere interpretati e attivati da giovani «di buona famiglia». Mi piacerebbe veder sparire questo orribile frase, questa sciocca sorpresa mischiata ai tentativi di razionalizzare l’orrore a smistarne la paura nella incredulità.

Qualche tempo fa un ragazzo è stato quasi ucciso in una contesa da discoteca, in un idiota alterco teppistico senza alcuna attenuante per i colpevoli. Successe in una città del Lazio e gli assassini hanno meritato l’ergastolo. Nel dibattito processuale furono definiti di «buona famiglia».

E, infatti, i media si ostinano, con complice stupore, a insistere che erano tutti «di buona famiglia» i protagonisti di liti criminali. Come molti altri delinquenti del sabato sera. Che cosa vuol dire? Che ci sono delle famiglie «buone» in cui si insegnerebbe a non ammazzare un coetaneo, a non provocarlo tempestandolo di ghiaccioli, a non insidiargli la fidanzata? E, allora, perché viziano i figli in modo irresponsabile, danno loro il permesso di «far notte» nelle discoteche stipate di musica orrenda e di orrendi «consumi», li forniscono di auto superveloci per raggiungere qualche «movida» lontana anche decine di chilometri? Io credo che, se mai, le «buone famiglie» per meritare questo titolo, dovrebbero scegliere di faticare per insegnare che qualsiasi mezzo è buono per restare buone famiglie, e, cioè, avere vantaggi sociali, orizzonti esistenziali sereni e riservati e altezzosità turistica. Qualsiasi mezzo, pur di non diventare cattive famiglie. Cioè povere, senza lussi e privilegi. E soldi per la «movida». E allora? In dialetto il lavoro vero, duro, indispensabile si chiama «fatica». Non sempre i figli di buone famiglie ne conoscono il significato. È un pezzo che io ho paura dei ragazzi di buona famiglia. Da loro mi guardi Iddio che da quelli di cattiva famiglia mi guardo io.

Fake and the City. È arrivato il momento di rivendicare le borsette false che non possiamo permetterci. Guia Soncini su L'Inkiesta il 17 Maggio 2022.

Anziché temere di essere smascherate, le influencer dovrebbero fotografarsi con le Birkin false, confessare fin da subito il fattaccio e ammettere con orgoglio il tarocco. Le ricche americane, del resto, lo fanno già.

Il primo falso fu alle medie. Me lo regalò la zia F., che restò la mia zia preferita nonostante l’umiliazione cui mi sottopose. Pensava di fare una cosa innocente, lei. Pensava che regalarmi un’imitazione del secchiello di Louis Vuitton che tanto bramavo fosse una cosa accettabile. Vorrai mica regalare un vero secchiello di Vuitton a una bambina, ha dodici anni, mica puoi regalarle una borsa da milioni, mica è la figlia dell’imperatore della Cina (oggi si direbbe: la figlia d’una Kardashian).

A posteriori la capisco, oggi che le più eroiche tra le madri mi sembrano quelle che negano il cellulare ai figli, i quali già a sette anni (ma forse parecchio prima) vivono la mancanza di iPhone come un abuso per il quale chiamare il Telefono Azzurro.

Quello che non sapeva la zia F. era quanto fossero stronze le bambine delle scuole private, oltretutto scuole private di preti che ti facevano stare col grembiule nero, nascondendo la felpa Best Company, e la cintura Naj Oleari, e insomma l’unica cosa su cui potessimo fare a chi ce l’aveva più lungo erano gli accessori.

Ho una sola foto di classe, è di quegli anni lì, e ogni tanto la vado a riprendere per guardare Davide, il bambino che trattammo come un appestato (oggi si direbbe: che bullizzammo) perché sospettato di avere le Timberland false. E non erano neppure false, poveretto: solo un brutto modello bicolore del quale noialtri non eravamo ancora al corrente.

Quando toccò a me, passarono circa dodici secondi tra il mio pavoneggiarmi del secchiello di Vuitton («Certo che è originale, mia zia lavora nella moda»: ne ero davvero convinta; e, anche non lo fossi stata, nessuno m’aveva insegnato che se menti è peggio) e il controllo da parte delle compagne di classe: mancano le incisioni sugli anelli da cui passa il laccio di pelle, è un tarocco da spiaggia, pezzente. Non ho desiderato di morire così tanto neanche quando, anni dopo, quello che mi piaceva mi scavalcò, mentre lo aspettavo sulle scale di casa, per rientrare con un’altra. Ma ho continuato a negare sempre. Mia zia lavora nella moda, che ne sapete voi.

Il mio primo falso adulto fu quando tutte le trentenni sceme – io in prima fila sempre, quando c’è della scemenza da onorare – desideravano gli accessori che comparivano in “Sex and the City”. Noi provinciali ci agitavamo tantissimo. Vent’anni prima, nelle ultime pagine dei giornali di moda, c’erano sempre gli indirizzi dei negozi in cui trovare le cose fotografate addosso alle modelle. Poi chiamavi, e non le avevano mai (e comunque erano sempre negozi di Milano).

Adesso, ci sarebbero subito account social appositi: so tutte le marche di tutte le camicette che ha indossato Portia de Rossi in “Scandal”, verificavo chi le vendesse e di non potermele permettere (in termini di euro ma soprattutto di spazio per le tette) già mentre andava in onda la puntata.

Ma l’inizio di questo secolo era una terra di mezzo. Dove la trovo quella borsa di Balenciaga, non posso vivere senza. Qualcuna ti diceva che ce n’era una su eBay, col tono con cui gli amici di Cristiana F. le segnalavano lo spacciatore per il quartino, e tu correvi a comprarla. L’internet non aveva le app ma aveva molte istruzioni su come verificare che non t’avessero venduto un tarocco. La prima, arancione, la comprai così. Ero sicura fosse autentica, tutti i dettagli corrispondevano. Poi scoprii che a Roma, in un negozio d’abbigliamento del centro, quella borsa lì si comprava per vie normali. La comprai, azzurra. La portai a casa. Quella arancione non le somigliava neanche.

(Restano i due migliori acquisti delle mie vite modaiole: le uniche borse di moda che non pesassero un quintale anche da vuote, e in cui ci fosse posto per qualcosa più delle chiavi di casa. Se eravate vive in quegli anni, sapete l’inferno che fu quando andarono di moda certe Chloé con attaccato un lucchetto che da solo pesava come un dimagrimento di tre taglie. Ovviamente ne possiedo tre, di quelle Chloé. Ladri che state per scassinare casa mia: andate dritti all’armadio delle borse – mica vorrete rubare gli Adelphi – ma attenti: quei lucchetti fanno uscire l’ernia).

L’altro giorno il New York ha pubblicato un articolo sul fatto che ormai tutte le ricche comprano le Birkin false: per la stessa cifra, compri dieci falsi molto ben fatti invece che una sola borsa autentica. Hermès è una delle pochissime marche che non regalano accessori a quelle salumiere dell’Instagram chiamate influencer. Naturalmente vogliamo sempre chi non ci vuole (tipo quello che mi scavalcò rientrando con una che mai l’avrebbe atteso sotto casa), e quindi le influencer pur di fotografarsi con la Birkin – che dice di te: sono ricca, sono di buon gusto, sono una Kardashian, e con uno spasmodico trucco di radianza non ti fa notare la contraddizione tra queste tre affermazioni – se la comprano.

Dice la leggenda che alcune ricorrano ai negozi dell’usato, giacché per la Birkin nuova e vera devi metterti in lista d’attesa – un’altra ragione, secondo il New York, del mercato dei falsi tra le signore di buona famiglia: cosa sono ricca a fare, se devo aspettare?

Dice la leggenda che i falsi ben fatti, quelli comprati volontariamente dalle ricche americane, vengano comprati inconsapevolmente in negozi vintage da influencer che non hanno fatto le scuole medie dai preti e non hanno quindi imparato a controllare se le guarnizioni siano stampigliate.

Leggevo e pensavo al falso con cui sono entrata nell’età adulta, dodici anni fa. Ero a New York con un’amica, e mi avevano detto che a Chinatown c’era un bugigattolo in cui le vendevano tali e quali. Ne avevo una vera, blu, che avevo anni prima fatto un mutuo per comprare (ovviamente mentendo alla banca). Una vera, nocciola, regalatami da una signora ricca annoiata dall’affollamento del suo armadio delle borse. Ne volevo una arancione (sì, sono fissata con l’arancione), non m’importava che fosse vera ma che lo sembrasse.

La Birkin falsa era costosa. Meno d’un quinto di quella vera, più onesta della Balenciaga (non si spacciava per vera, non costava uguale vera o falsa), ma erano comunque moltissimi soldi. La Birkin falsa costava quanto una Balenciaga vera comprata in una vera boutique di Balenciaga da una commessa veramente cerimoniosa; solo che un domani non avresti potuto rivenderla come bene-rifugio, giacché l’avevi comprata in contanti in un sottoscala cinese. L’amica approvava. La comprai senza esitare. Imparata la lezione involontaria della mia famiglia mitomane – no: negare l’evidenza non funziona – non l’ho mai spacciata per vera.

Questa? Macché, l’ho presa dai cinesi. Pagata una fortuna. Se i negozi vintage dicessero la verità, sono abbastanza certa che le aspiranti Kardashian dichiarerebbero anche loro i falsi senza problemi. Siamo l’epoca che è riuscita a creare un mercato per l’acne, per i peli sotto le ascelle, per qualunque orrido difetto ostentato come rivendicazione sestessista: mica ci meraviglierà che adesso ci vantiamo di avere l’imitazione della borsa che (non?) potremmo permetterci.

“L’Italia va avanti perché ci sono i fessi…” Alessandro Gnocchi l'8 Maggio 2022 su Culturaidentita.it.

Sul nuovo numero di CulturaIdentità uscito in edicola dedicato ai “Profeti inascoltati del Novecento” troverete l’imperdibile ritratto di Giuseppe Prezzolini a firma di Alessandro Gnocchi con il disegno di Dionisio di Francescantonio: chi è il vero conservatore? Il vero conservatore è un innovatore, come disse Prezzolini nel Manifesto di Conservatori, una sfida alla cultura di destra e a cui il centrodestra di oggi dovrebbe guardare. Il padre del

conservatorismo italiano disse che l’Italia va avanti perché ci sono i fessi che lavorano, pagano e crepano e chi fa la figura di mandare

avanti il Paese sono i furbi, che non fanno nulla, spendono e se la godono. Per questo il conservatore è l’unico che può cambiare la mentalità del Paese: è ora di mostrare quello spirito d’avventura che anima il vero conservatorismo, come ha fatto Prezzolini.

Noi, campioni di autoassoluzione. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2022. 

Trent’anni dopo, come è cambiato il giudizio sulla stagione di Mani Pulite.

Nel 1992 eravamo giovani e ottimisti. «Adesso l’Italia cambierà», dicevamo e scrivevamo, sballottati dall’uragano giudiziario in corso. Il bilancio, trent’anni dopo?

In questi giorni abbiamo letto e ascoltato molte opinioni, non tutte oneste, molte smemorate, alcune disinformate. Su una cosa sembrano tutti d’accordo, per motivi diversi: la stagione di Mani Pulite — la risposta giudiziaria a Tangentopoli — non ha mantenuto le promesse. Per due anni gli inquirenti si sono mossi con la nazione alle spalle. Poi è successo qualcosa.

La definizione di questo qualcosa spacca il Paese da allora. C’è chi dà la colpa al protagonismo della magistratura e ad alcune forzature, come l’uso della carcerazione preventiva per ottenere confessioni. E chi accusa una classe dirigente complice e spaventata, ansiosa di rimuovere tutto. C’è qualcosa di vero in entrambe le spiegazioni. Ma tutto questo sarebbe stato ininfluente, se la nazione avesse ritenuto di poter cambiare. A un certo punto, invece, ha smesso di crederci.

Dovessi spiegare in una frase a mio figlio Antonio — classe 1992, coetaneo di Mani Pulite — cos’è successo, sceglierei questa risposta di Gherardo Colombo in una recente intervista: «Boiardi di Stato? Ministri? Quelle erano persone con le quali non ci si poteva identificare. Ma quando le prove portano all’ispettore del lavoro che per pochi soldi chiude un occhio sulle misure di sicurezza, all’infermiere che per duecentomila lire segnala un decesso all’agenzia di pompe funebri, al vigile urbano che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, allora la reazione è: ma cosa vogliono questi, venire a vedere quello che faccio io?».

Ecco il punto: finché si trattava di condannare gli altri, tutti d’accordo; quando abbiamo capito che la faccenda riguardava anche noi, ci siamo allarmati. Cambiare, infatti, fa paura. Ed è faticoso. Certo, diverse abitudini sono cambiate, alcune pratiche oscene si sono ridotte. Ma siamo tornati ad assolverci: una cosa che ci riesce benissimo.

Ricordo lo sguardo e le parole di Indro Montanelli, in quella primavera del ’92: «Illudetevi pure, alla vostra età è giusto. Ma sarà un’illusione: quindi, preparatevi». Dargli ragione, trent’anni dopo, mi secca un po’.

Tangentopoli 30 anni dopo: la rivoluzione legale è finita, la corruzione continua. Il 17 febbraio 1992 l’arresto di Mario Chiesa scoperchia il sistema delle mazzette e dei fondi neri ai partiti. Da Colombo a Davigo, dal pm veneziano del Mose a Francesco Greco, da Giuliano Pisapia all’ex presidente dell’Anac, magistrati, avvocati e studiosi spiegano perché è esplosa l’inchiesta, come fu fermata e le nuove tecniche di malaffare tra politici e imprese nell’Italia di oggi. Paolo Biondani su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

Una tangente di 3500 euro che fa crollare il sistema dei partiti. A dispetto di tante dietrologie, il vero mistero di Mani Pulite è la modestia dell’innesco: 7 milioni di sporche vecchie lire. Banconote fotocopiate da Antonio Di Pietro, trent’anni fa pubblico ministero a Milano, e consegnate da un piccolo imprenditore monzese, Luca Magni, a un politico che lo taglieggia.

Per gli italiani mafia e corruzione sono una malattia inevitabile. Ilvo Diamanti su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

Il 17 febbraio 1992 partiva l’inchiesta Tangentopoli che ha cambiato la storia repubblicana. Oggi su criminalità organizzata e malaffare i cittadini hanno più consapevolezza ma tendono a considerarli una patologia consolidata. Come rivela la ricerca Demos-Libera.

Le vicende legate alla corruzione, alle mafie e alle organizzazioni criminali, in Italia, hanno una storia lunga. I cittadini ne sono consapevoli. E si rendono conto che i programmi e i piani avviati, dal governo, per affrontare le emergenze economiche e sanitarie, attirano l’attenzione e “l’interesse” (…gli interessi) di soggetti con “altri e diversi interessi”. Che vanno oltre ogni limite di “legalità”.

"Statali fannulloni". Rampini accusa e la Gentili ride, rabbia dei dipendenti pubblici contro la conduttrice: "Vergogna in tv". Stasera Italia, ira per le parole di Federico Rampini: "Gli statali fannulloni, con lo smart working non hanno fatto nulla". Libero Quotidiano il 06 agosto 2020

Rabbia per la puntata di mercoledì 5 agosto di Stasera Italia. Il dirigente pubblico Alfredo Ferrante se la prende con Veronica Gentili e Carlo Cottarelli. Il motivo? Aver riso alle parole di Federico Rampini. Il giornalista, in collegamento con Rete Quattro, ha sparato a zero sui dipendenti pubblici: "Bisogna fare pulizia dei sabotatori della rinascita italiana - ha esordito -. Andiamo a guardare cos'è  stato il crollo della produttività dei lavoratori pubblici che si sono fatti a casa il lockdown con il cosiddetto smart working".

E ancora senza pietà: "Il significato di 'smart working' è 'lavoro intelligente', questi già non facevano un lavoro intelligente prima, figuriamoci ora". Per Rampini molti di loro si sono fatti "le vacanze a casa, il lockdown è diventato un alibi per i lazzaroni". Il giornalista smaschera la vergogna dello Stato, visto che gli statali hanno lo stipendio assicurato senza fare nulla, mentre i lavoratori normali no. Le reazioni non si sono fatte attendere. Ferrante ha rilanciato l'intervento commentando: "Le parole vergognose di Federico Rampini sui lavoratori in smartworking sono indegne: populismo a un tanto al chilo. Questo sarebbe giornalismo? Il tutto mentre la conduttrice Veronica Gentili e l'immarcescibile Carlo Cottarelli se la ridono allegri. Trasecolo".

Che Stato pazzesco. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.

Quando leggi di centinaia di truffatori indagati per avere lucrato quattro miliardi con gli incentivi edilizi. Quando nelle intercettazioni li senti parlare allegramente di panzerotti, che sarebbero i soldi, trasferiti nei paradisi fiscali. Quando li ascolti esultare al telefono per le scappatoie offerte da leggi mal scritte e burocrazie farraginose: «Lo Stato è pazzesco, gli piace farsi fregare (eufemismo)». Ecco, in momenti del genere ti tornano alla mente le parole dei magistrati di Mani Pulite, di cui in questi giorni si celebra il trentennale. Rovesciando un diffuso luogo comune, quei giudici hanno sempre sostenuto che l’inchiesta non si fermò perché era salita troppo in alto, ma perché era scesa troppo in basso. Il consenso popolare, elevatissimo finché si era trattato di fare le bucce ai politici, si esaurì quando le indagini cominciarono a scoperchiare la corruzione spicciola, quella dei panzerotti. Inutile precisare che, come non tutti i politici sono ladri, così non tutti gli imprenditori sono prenditori. Ma è sicuro che la famigerata Casta contro cui alcuni partiti oggi in via di disfacimento hanno costruito le loro fortune era solo una parte del problema. Accanto a quella dei potenti c’era e c’è un fiorire di sottocaste altrettanto fameliche e corporative, che approfittano della mancanza di biasimo sociale per sottrarre alla comunità (cioè, lo ricordo, a noi) miliardi di soldi pubblici (cioè, lo ricordo, anticipati da noi). Rivoglio indietro i miei panzerotti.

Il malus facciate. Non solo vi arrubbate il bonus, ma provate a trovare chi mi fa i lavori a casa. Guia Soncini su l'Inkiesta il 14 Febbraio 2022

Mentre voi ristrutturavate piscine a spese dello Stato (cioè mie), io non riuscivo a trovare nessuno che mi attaccasse le luci, essendo tutti quelli con mestieri veri (muratori, idraulici, elettricisti) impegnati con voi 

Ma pensa un po’. Nel Paese in cui ci si divide tra chi in famiglia ha almeno un falso invalido e chi mente senza vergogna, nel Paese in cui gli unici a non parcheggiare in doppia fila sono quelli che non hanno la patente, nel Paese in cui i genitori fanno i compiti ai figli perché fare bella figura è più importante che insegnar loro a cavarsela da soli, in questa terra di santi poeti e navigatori delle più oneste acque, si sono arrubbati quattro miliardi di bonus edilizio. Invero imprevedibile.

(Sono quattro miliardi o di più? Importa davvero saperlo? Da una certa cifra in poi, non è come il deposito di Paperone, una cifra di cui non sapremmo scrivere gli zeri figuriamoci immaginarla?)

Non vorrei farmi togliere il saluto dai garantisti e cacciare a calci da Linkiesta, ma a me le intercettazioni piacciono molto. Persino quando sono riportate senz’alcun senso del tono e inchiodano gli intercettati a concetti mai espressi (sto parlando di me ma anche di Carlo d’Inghilterra), mi sembra che le intercettazioni ci forniscano ormai l’unica commedia all’italiana possibile: quella con dialoghi illuminanti. «Lo Stato italiano è pazzesco», riportava ieri Fiorenza Sarzanini sul Corriere: i criminali increduli che sia così facile arrubbare allo Stato sono un copione che sarebbe piaciuto tantissimo a Monicelli.

Mi piace molto anche il passaggio (non intercettato ma scritto da Sarzanini) «in provincia di Foggia c’è un paese dove tutti i residenti sono riusciti a incassare il credito»: non ho niente contro la provincia di Foggia, ho tanti parenti falsi invalidi in provincia di Foggia, e mi torna sempre in mente quella frase di Rotondi sulla Dc che ha fatto grande l’Italia con l’evasione fiscale a nord e le false pensioni a sud. È forse questa la modernità, l’epoca in cui non solo hai la falsa pensione ma sei pure evasore fiscale? È forse questo il progresso? È forse così che saniamo finalmente la questione meridionale?

Ma sto divagando. Perché, vi sorprenderà, a me importa solo di me. E quindi sì, è un disastro che questa norma sia stata all’origine di tante truffe, ma era comunque un disastro che esistesse, se anche l’avessero applicata regolarmente.

Perché è colpa dello stracazzo di bonus facciate se io sto con le lampadine appese. Se sul display del mio telefono c’è un messaggio del 23 agosto di quello che doveva venire a mettermi le lampade e giurava che il giorno dopo sarebbe arrivato, e poi dopo quattro mesi di silenzio il 24 dicembre ha mandato un messaggio a tutta la rubrica: «Auguri a tutti!!!!». Sai come te lo puntesclamativo, il bonus facciate.

Mentre voi ristrutturavate piscine a spese dello Stato (cioè mie), io non riuscivo a trovare nessuno che facesse dei lavori minimi, essendo tutti quelli con mestieri veri (muratori, idraulici, elettricisti: i lavori che dovreste sognare per i vostri figli, altro che mandarli al classico, da cui usciranno analfabeti come quelli dell’istituto tecnico e perdipiù disoccupati) impegnati coi vostri stracazzo di bonus facciate. Sono stata senza lavandino in cucina da maggio a ottobre: erano tutti troppo impegnati col bonus facciate per venire a installarmelo. Sono stata, a novembre, due settimane senz’acqua calda: erano tutti troppo impegnati col bonus facciate per venire ad aggiustarmi il boiler. E sono da otto mesi coi vestiti negli scatoloni: la mia cabina armadio è l’ultimo dei pensieri di gente che vi ristruttura le piscine a spese mie.

Per non parlare del silenzio. Ve lo ricordate, il silenzio? Era quella meraviglia che potevamo goderci nelle nostre case prima che quella munifica madre che è lo Stato italiano, sempre pronto a darvi la mancetta, decidesse di pagarvi le ristrutturazioni. Prima che trapani e martelli pneumatici e altre fonti di esaurimento nervoso devastassero l’acustica degli appartamenti che hanno la sfortuna di stare sotto, o sopra, o di fianco a qualcuno cui non pare vero di scroccare una ristrutturazione.

Neanche per strada la mia serenità è al sicuro: i palazzi sono tutti impacchettati, pieni di impalcature a scrocco, bisogna camminare in mezzo alla strada se non si vuole rischiare di prendersi in testa una cazzuola in caduta libera. In “Monterossi” c’è una scena in cui l’investigatore dilettante Fabrizio Bentivoglio cammina, a Milano, al centro di via Vittor Pisani, che oltre a essere una strada trafficata ha anche ai lati i suoi bravi portici, e insomma nessuno che non voglia buttarsi sotto una macchina per mettere fine alla sua infelice vita camminerebbe in mezzo alla strada. O almeno questo è quel che avrei pensato vedendola fino all’anno scorso; ma adesso lo capisco, Bentivoglio: tra un bonus facciate e l’altro, il posto più sicuro per un pedone è in mezzo alla strada.

Naturalmente la mia è solo invidia. Invidia dei proprietari immobiliari, che guai a tassarli sennò poi si dispiacciono e anzi paghiamogli anche la ristrutturazione, porelli. Invidia per i lavori sicuri nell’edilizia, che mica possiamo cancellare i bonus e rischiare che gli diminuisca il giro d’affari. Invidia per un Paese a forma di prebenda, in cui tutti si stravolgono se qualcuno, sia Draghi o una cretina qualunque, dice non state ad agitarvi per me, me la cavo, a me ci penso io, a trovarmi un lavoro e pure a ristrutturarmi casa.

Marco Bardesono per “Libero Quotidiano” il 15 febbraio 2022.

È senso comune dire che se l'edilizia tira, allora «l'economia vola». E probabilmente è così, almeno così lo è stato in passato: si pensi al piano Ina Case di fanfaniana memoria, tra la ricostruzione e il boom economico. Ma se l'edilizia è «drogata», come ha sottolineato nei giorni scorsi il ministro per lo Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, si crea una bolla che fa precipitare il sistema economico. 

E la bolla sembra essere quella del Superbonus 110%. Nelle ultime settimane, infatti, la Guardia di Finanza ha scoperto complessi raggiri in quasi tutte le regioni italiane che hanno depauperato lo Stato di oltre 4 miliardi di euro.

Oltre al "clan dei commercialisti romagnoli" che avrebbero rubato la bellezza di quasi 500 milioni e di cui Libero ha scritto ieri, degna di nota è la truffa che ha visto coinvolto un consorzio edile composto da imprese (almeno sulla carta) che avrebbero operato in Abruzzo, Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Piemonte e Veneto. 

La peculiarità di questo raggiro «sarebbe la capacità - spiegano le Fiamme Gialle - di ottenere i bonus sulla base di una documentazione formalmente ineccepibile, ma completamente falsa».

Perché i palazzi su cui operare gli interventi edilizi, o sarebbero inesistenti (vere e proprie case fantasma) o le richieste sarebbero state presentate all'insaputa di proprietari e affittuari.

Ciò sarebbe stato possibile grazie ad una serie numerosa di prestanome: dal nullatenente, al pensionato che vive solo e che sarebbe stato circuito, al senza fissa dimora che per una manciata di spiccioli ha messo a disposizione la sua identità. 

L'inchiesta delle Fiamme Gialle è ancora in fase iniziale ma già sarebbe stata quantificata la cifra sottratta indebitamente in 109 milioni di euro.

La Guardia di Finanza sta cercando di recuperare il maltolto e l'autorità giudiziaria ha già disposto sequestri in 16 istituti finanziari. Si è arrivati a questo dopo che i Finanzieri si sono presentati negli uffici e nelle abitazioni di funzionari e dirigenti del consorzio Sgai per effettuare le perquisizioni e acquisire «una montagna di documenti». 

Dal canto suo, ed è doveroso segnalarlo, il consorzio ha diffuso una nota che spiega che «la notizia di reato alla base del provvedimento è rappresentata da nove su 5.709 clienti attivi. Con questi nove clienti, Sgai aveva già risolto il rapporto e rinunciato al proprio compenso.

Fino a oggi, il Consorzio ha ricevuto appalti per un valore complessivo di 1,5 miliardi di euro ed eseguito interventi per oltre 226 milioni di euro: dunque, le denunce alla base del provvedimento rappresentano soltanto una minima parte rispetto alle migliaia di progetti in essere.

A ogni modo il Consorzio intende dimostrare la legittimità del proprio operato anche nei pochissimi casi oggetto di denunce-querele, rispetto ai quali non ha conseguito alcun profitto. Il Consorzio dimostrerà in tutte le sedi la legittimità del proprio operato e dei professionisti che con esso collaborano».

A dare impulso alle indagini è stata un'analisi di rischio sviluppata dall'Agenzia delle Entrate, precisamente dal Settore Contrasto Illeciti sulla spettanza del bonus in materia edilizia previsto dal Decreto «Rilancio».

I 110 milioni di euro sarebbero stati accumulati in soli 13 mesi, «a partire dal dicembre 2020 - spiegano dal comando della Finanza -, grazie ai crediti d'imposta che sarebbero poi stati ceduti a terzi. Soldi che avrebbero prodotto il guadagno illeciti, per l'associazione a delinquere», senza che venisse sistemato un infisso o installata una caldaia. 

Oltre 40 milioni erano finiti a un fondo speculativo, "Alternative Capital Partners", e da questi girati lo stesso giorno a Banco Desio. E poi assicurazioni come "Groupama", e istituti come "Banca Ifis", "Illimity", oltre alla Cassa depositi e prestiti e alle Poste, istituti finanziari estranei alla vicenda. 

Marco Bardesono per Libero Quotidiano il 14 febbraio 2022.  

Sembra che il detto «fatta la legge, trovato l'inganno», per il bonus 110%, sia stato rovesciato in: «Trovato l'inganno, facciamo la legge». Perché i raggiri per ottenere i contributi, sono tali e tanti e così ben orchestrati, da far nascere sospetti e incredulità.

La Guardia di Finanza ha individuato una serie di truffe che non ha precedenti. I primi controlli sono stati effettuati attraverso un'indagine coordinata dalla procura di Rimini che ha portato all'arresto di 12 persone e che via via si è moltiplicata in altre 11 regioni. Al centro dell'inchiesta soldi, molti soldi, almeno 500 milioni di aiuti finiti in modo illecito nelle mani di professionisti, imprenditori e commercialisti che non ne avevano diritto.

Complessivamente sono 78 le persone indagate e 35 le misure cautelari. Oltre 100 le società coinvolte, alcune create ad hoc per ottenere bonus locazioni, bonus per ristrutturazioni con miglioramenti sismici ed energetici, i cosiddetti bonus facciate e tutti quei benefici compresi nel decreto Rilancio del 2020. Otto sono le persone finite in carcere e altre 4 ai domiciliari, mentre nei confronti di 20 imprenditori è stata disposta l'interdizione all'esercizio di impresa e per 3 commercialisti l'interdizione all'esercizio della professione.

PERQUISIZIONI A TAPPETO L'esecuzione delle misure è scattata in Emilia Romagna e, successivamente, in Piemonte, Abruzzo, Basilicata, Campania, Lazio, Lombardia, Marche, Puglia, Sicilia, Toscana e Trentino. I finanzieri hanno eseguito anche un'ottantina di perquisizioni e sequestrato i falsi crediti d'imposta, beni e società, per il reato di indebita percezione di erogazione ai danni dello Stato. Tra gli indagati, 9 avevano presentato domanda di reddito di cittadinanza e lo avevano anche ottenuto, mentre altri tre avevano precedenti per associazione di stampo mafioso e legami con le 'ndrine calabresi. 

Tra le persone finite in manette, il commercialista romagnolo con interessi in mezza Italia, Stefano Francioni, mentre il ruolo di coordinatore del sodalizio, era ricoperto da Nicola Bonfrate. Nel corso dell'operazione, le Fiamme Gialle hanno sequestrato alcuni trolley zeppi di banconote.

Ed è proprio di soldi che gli indagati, quasi sempre, parlano al telefono, ignorando d'essere intercettati. «Non hai idea - dice uno di loro - di quanti ca*o di soldi hanno fatto... Non sanno più dove andare ad aprire i conti correnti in giro per il mondo per mettere il denaro, ma noi ci stiamo dietro... Ci stiamo dietro, però dobbiamo stare attenti...». 

Chi non è particolarmente attento alle parole, invece, è Nicola Bonfrate, che in una conversazione con il commercialista Matteo Banin (anche lui raggiunto da una misura cautelare), dice: «Lo Stato italiano è pazzesco, è una cosa... Praticamente vogliono essere inc*lati».

Entusiasta del "sistema" e certo di non essere scoperto, è Francioni che con un interlocutore commenta: «Io sto andando forte come un leone. Ho dato una serie di smacchi incredibili a tutti, perché coi soldi alla mano ho fatto delle operazioni importanti. Ho comprato un'altra casa, ho comprato e venduto dei crediti fiscali e quindi coi soldi, dopo mi sono messo a posto... Mi sono rialzato completamente. Ho circa 400mila euro sui conti correnti di cui non so che farmene».

LUDOPATIA DA REATO Ciò che colpisce, è l'eccitazione dei componenti della consorteria per quanto stavano facendo e che il Gip definisce: «Una ludopatia da reato». Ma ciò che ha lasciato interdetti gli investigatori è che di tutte le ristrutturazioni (bonus 110%, facciate, ecobonus, sismabonus), il gruppo criminale diffuso su tutto il territorio nazionale non abbia avviato un solo lavoro. 

Si tratta di progetti corredati di asseverazioni, permessi e documenti su interventi mai effettuati e su immobili a volte inesistenti. Poi c'è un altro tipo di truffa («più veniale, perché almeno i cantieri si aprono per davvero») che riguarda la richiesta del 110%, ad esempio per l'intervento trainante del "cappotto" dell'edificio, mascherato, invece, con la semplice ritinteggiatura della facciata. Qualcuno ha avuto anche l'ardire di chiedere (e a volte di ottenere) entrambi i bonus per un totale del 200% (110% più il 90% del bonus facciate, oggi sceso al 60%). 

Da open.online il 23 febbraio 2022.

La Guardia di Finanza di Monza ha denunciato ventidue imprenditori della provincia per aver percepito illecitamente contributi a fondo perduto per l’emergenza. Secondo la ricostruzione delle fiamme gialle i denunciati avrebbero ricevuto illecitamente oltre 460 mila euro, utilizzati principalmente per acquistare beni di lusso o “godersi la vita”.

I finanziamenti erano erogati dall’Agenzia delle Entrate ed erano destinate dal Decreto Rilancio alle imprese colpite da cali di fatturato dovuti al Coronavirus. Secondo le fiamme gialle uno di loro ha ottenuto il denaro e lo ha usato per finire di pagare il finanziamento per l’acquisto di un Rolex.

In sei, secondo quanto è emerso, hanno percepito contributi a fondo perduto, richiesti telematicamente all’Agenzia delle Entrate, per un totale di 237 mila euro, tra cui l’amministratore unico di una società di impiantistica elettrica di Giussano, che avrebbe incassato 147 mila euro, il titolare di una cooperativa che ha firmato un’istanza di contributo a fondo perduto per circa 50 mila euro e due rappresentanti legali di due società sportive brianzole, beneficiarie di oltre 28 mila euro. 

In sette, infine, hanno ottenuto finanziamenti bancari assistiti da garanzia per complessivi 210 mila euro, senza averne diritto.

I pirati del mattone: “Lo Stato si fa fregare e noi siamo qui”. Giuliano Foschini,  Fabio Tonacci su La Repubblica l'11 febbraio 2022. Dalle carte dei magistrati emerge il meccanismo criminale sulle ristrutturazioni. Finora solo indagini a campione.

L’inizio del Coronavirus ha portato bene, economicamente… Non so più dove andare ad aprire i conti correnti in giro per il mondo». La conversazione intercettata al telefono di un imprenditore emiliano arrestato, Nicola Bonfrate, racconta meglio di qualsiasi analisi economica, di qualsiasi indagine penale, di qualsiasi relazione al Parlamento, cosa si sta muovendo nel complicato e inquinato mercato italiano dei bonus fiscali legati all’edilizia.

DA NORD A SUD. Boss e pusher, chi ha frodato più di 4 miliardi del Superbonus. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 13 febbraio 2022.  

Il caso più eclatante è quello di G. C. M., 37 anni, ospite di una comunità per tossicodipendenti. Non ha un lavoro, non ha alcun bene intestato, non ha mai presentato la dichiarazione dei redditi. Eppure nel 2021 «ha aperto una partita Iva come procacciatore d’affari e ha tentato di cedere a un intermediario finanziario oltre 400 mila euro di crediti fittizi, poi venduti a una società di costruzioni». I soldi sono stati incassati e trasferiti su un conto corrente sloveno. «Cessione del credito», è questa la formula magica che ha consentito alle organizzazioni criminali e ai loro boss, ma anche a delinquenti comuni, colletti bianchi, commercialisti e avvocati, di far sparire finora dalle casse dello Stato quattro miliardi e 400 milioni di euro. E potrebbe non essere finita perché al 31 dicembre — come confermato dal direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini — «le cessioni comunicate attraverso la piattaforma telematica sono state pari a 4,8 milioni per un controvalore di 38,4 miliardi».

Il depliant di Poste con le istruzioni

Il sistema ha sfruttato la norma del decreto rilancio che nel 2020 non ha posto alcun limite alla possibilità di cedere i bonus edilizi. E così è bastato falsificare le pratiche, oppure sfruttare «prestanome» — come è appunto il pusher individuato dall’Agenzia delle Entrate — per ottenere le somme rivolgendosi a Poste italiane e a svariati istituti di credito. La procedura era sin troppo semplice, come conferma il depliant di Poste Italiane citato due giorni fa dal presidente del Consiglio Mario Draghi che nelle istruzioni sottolinea: «La procedura è semplice e immediata, non è necessario fornire alcuna documentazione a supporto della richiesta. Effettuata la richiesta di cessione del credito a Poste Italiane, affinché questa vada a buon fine è necessario comunicarlo ad Agenzia delle Entrate. In caso di esito positivo, il prezzo della cessione verrà accreditato direttamente sul tuo Conto Corrente BancoPosta». Detto fatto, nessun controllo preventivo è stato effettuato e migliaia di persone hanno ottenuto l’accredito.

«Ho le credenziali, possiamo divertirci»

Il 31 gennaio scorso la guardia di Finanza arresta i componenti di un’organizzazione che partendo da Rimini si è mossa in tutta Italia e grazie alla falsificazione dei vari bonus edilizi ha frodato quasi 300 milioni di euro. Creavano false società, fingevano di effettuare lavori e invece si limitavano a passare all’incasso sulla piattaforma dell’Agenzia delle Entrate accedendo ai cassetti fiscali. Hanno acquistato lingotti d’oro e criptovalute, hanno spostato soldi a Cipro, Malta e Madeira. Le conversazioni intercettate per ordine dei magistrati hanno svelato il sistema utilizzato. I «cash dog» hanno consentito di trovare contanti e gioielli occultati in botole e intercapedini.

«Lo Stato Italiano è pazzesco», esultano gli indagati mentre si accordano sui bonus da prendere. E poi l’imprenditore chiarisce ai complici: «Ne ho già 16 sui due cassetti. Nostri, non dipendono da nessuno, sono i miei, non devo chiedere il favore a nessuno di venderli, di accreditare, di fare. Li ho generati, poi ti spiego come ho fatto... come abbiamo fatto con il commercialista, sono stato quattro mesi dietro e ce l’ho fatta». E ancora: «Bisogna stare attenti, bisogna avere persone fidate, persone anziane...». Prestanome che in pochi mesi hanno consentito alla banda di comprare ristoranti, appartamenti, quote di altre società.

L’annuncio su Facebook del finto consorzio

Un consorzio di 21 imprese che ha un solo dipendente: parte da qui l’inchiesta della procura di Napoli su una truffa da 100 milioni di euro. Il resto lo fanno le denunce dei cittadini che raccontano di aver risposto a un annuncio pubblicato su Facebook di una ditta che offriva prezzi vantaggiosi e procedure semplificate per ristrutturare palazzi e villini. 

Il dossier della Guardia di Finanza entra nei dettagli rivelando il contenuto delle denunce — tutte uguali — presentate da decine di cittadini: «Tramite annuncio su Facebook i denuncianti contattavano il consorzio Sgarbi per effettuare lavori nelle proprie abitazioni essendo titolari di porzione di villetta bifamiliare, usufruendo dell’eco bonus 110%. Dopo diversi solleciti da parte dei contribuenti, il titolare del consorzio chiedeva loro di inviare firmato il documento di impegno per la presentazione telematica. Soltanto dopo essere stati convocati presso questo comando scoprivano che, nonostante nessun lavoro fosse mai stato svolto né alcuna fattura presentata, l’Agenzia delle entrate aveva già accettato la cessione del loro credito». Oltre al danno per i truffati c’è stata la beffa: i clienti del consorzio hanno dovuto «sanare» la propria posizione per non apparire come soggetti che avevano hanno già fruito dei bonus.

La bracciante con 80 milioni di euro

In provincia di Foggia c’è un paese dove tutti i residenti sono riusciti a incassare il credito. Stessa fortuna è toccata a svariati gruppi familiari residenti a Roma. È stata un’inchiesta avviata dai magistrati della capitale e condotta con i colleghi pugliesi a far scoprire il meccanismo messo in piedi grazie alla creazione di decine di finte aziende. Il dossier della Finanza svela il sistema: «Sono state individuate due società, gestite dalle medesime persone, che attraverso un meccanismo circolare di fatture false e comunicazioni di cessioni crediti hanno generato operazioni per centinaia di milioni di euro. Sostanzialmente le due società si sono fatturate a vicenda circa 500 milioni di euro ciascuna, in pochi mesi, per anticipi lavori mai effettivamente realizzati. Queste operazioni hanno generato indebiti crediti di imposta, poi monetizzati presso intermediari finanziari e soggetti grandi contribuenti».

I canali erano due: «Cessione dei crediti a persone fisiche compiacenti, perlopiù nullatenenti e tutte residenti nel medesimo paese o facenti parte del medesimo gruppo familiare, che hanno poi incassato il controvalore del credito da un intermediario finanziario. Utilizzo di una società di consulenza con operatività limitata, senza dipendenti e amministrata da un’imprenditrice agricola che, improvvisamente, acquista e rivende a un grosso intermediario finanziario 80 milioni di euro di crediti».

Superbonus, Draghi e Franco: «truffa tra le più grandi della Repubblica». Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera l'11 febbraio 2022

Una truffa «tra le più grandi che la Repubblica abbia mai visto». Una norma che «prevede pochissimi controlli». Sono durissime le critiche che il premier Mario Draghi e il ministro dell’economia Daniele Franco hanno espresso in conferenza stampa nei confronti del superbonus, un provvedimento che presto sarà modificato attraverso un emendamento da presentare alle Camere perché sia reso più efficiente e perché non si ripetano abusi. E un attacco che proviene da fonti così autorevoli non poteva certo passare sottotono: il M5S, secondo alcune indiscrezioni, vuole chiedere a Franco di riferire in Parlamento: «Attribuire i 2,3 miliardi di frodi al Superbonus è semplicemente una falsità».

Oggetto di critiche

Da tempo il superbonus - una misura per la quale sono stanziati fino alla fine del 2022 ben 18 miliardi - era entrato nel mirino delle critiche, vuoi per la sua (poca) equità, vuoi per il ripetersi di truffe scoperte dalla Guardia di Finanza e dalla Agenzia delle Entrate. Oggi Draghi ha reso esplicito che i dubbi tormentano anche Palazzo Chigi. «Non è che l’edilizia senza il superbonus non funziona - attacca il presidente del consiglio in conferenza stampa -. L’edilizia si è giovata del superbonus» ma va avanti lo stesso, «altrimenti tutti i Paesi starebbero a zero». «Alcuni di quelli che più tuonano sul superbonus sono quelli che hanno scritto questa legge senza» prevedere «sufficienti controlli». Se in Italia ci sono casi di frodi è perché , osserva Draghi « si è voluto costruire un sistema che prevede pochi controlli».

Superbonus, a gennaio superati i 18 miliardi di investimenti ammessi alla detrazione

Operazioni sospette per 4 miliardi

Daniele Franco rincara poi la dose: « Sui bonus edilizi si possono pensare ulteriori affinamenti, stiamo pensando di tracciare meglio» le operazioni, «tutto si può fare ma resta fondamentale evitare ulteriori truffe che sono tra le più grandi che questa Repubblica abbia visto». Premier e ministro confermano poi che le inchieste della magistratura hanno già portato al sequestro di 2,3 miliardi di euro per operazioni indebite ma le operazioni sospette ammontano a 4 miliardi. «Dire che i problemi che adesso si manifestano dipendano dai controlli, non credo, dipendono dalla massiccia azione della magistratura penale che interviene su un contesto che prima era poco regolato» conclude Franco. 

La cessione dei crediti

Il punto debole del meccanismo, pare ormai accertato, è la cosiddetta cessione dei crediti: chi fa domanda per il superbonus cede poi il beneficio ad altri soggetti, dando vita a una sorta di «moneta fiscale» come l’ha definita il ministro dell’economia e finendo per finanziare lavori per ingenti somme al di fuori del perimetro previsto dalla legge.

Superbonus, Draghi pizzica Conte. La truffa più grande che si ricordi escogitata da chi gridava onestà. Franco Bechis su Il Tempo il 12 febbraio 2022

Il giudizio di Mario Draghi è stato tombale: “Per inciso, alcuni di quelli che più tuonano oggi su super bonus, sulla necessità che queste frodi non contano, che bisogna andare avanti lo stesso, che l'industria non può aspettare…. alcuni di loro sono quelli che hanno scritto questa legge, dove è stato possibile fare quello che si è fatto senza controlli. Su un dépliant delle Poste del 2020 è scritto che non è necessario fornire alcuna documentazione a supporto della richiesta, è sufficiente verificare preliminarmente di essere titolare del credito da cedere. Va bene. Allora se ci troviamo in questa situazione qui è per il fatto che si è voluto costruire un sistema che prevedeva pochissimi controlli. Questo è il punto”.

E siccome tante volte non abbiamo nascosto perplessità sulle parole del premier oggi è doveroso dire che sul super bonus edilizio Draghi ha ragioni da vendere. E ha proprio centrato il punto della questione che abbiamo sollevato qualche giorno fa: la legge tanto difesa dal M5s e varata fra fiumi di retorica dal governo allora guidato da Giuseppe Conte è scritta con i piedi, non prevedeva alcun controllo di legalità e si è rivelata un'autostrada facilissima da percorrere (il biglietto era offerto dal governo) per chiunque avesse cattive intenzioni come per gruppi criminali che si sono apparecchiati il ricco tavolo fregando le casse dello Stato.

Dire che funzionava l'idea in sé ed era in grado di rimettere in moto il Pil è semplicemente una banalità. Rimborsare con soldi pubblici il 10% in più di quello che hai speso ricorda un po' l'idea di rimborso elettorale che dagli anni '90 avevano in testa i partiti politici poi entrati per questo nel mirino del M5s, è non è manco dissimile da altre pratiche in vigore nella Prima Repubblica, come le mance pre-elettorali del celebre candidato sindaco a Napoli, Achille Lauro (regalava una scarpa prima delle elezioni, promettendo l'altra a voto ottenuto). La gente accorre a prendere? Certo che sì: ma se sali su un elicottero lanciando sacchi rigonfi di euro funziona uguale: si correrà ad arraffarli.

Quindi non c'era genialità nell'idea sul super bonus edilizio e dei suoi crediti di imposta cedibili all'infinito: se regali soldi, qualcuno tende la mano e li prende. Tutti contenti della propria generosità, sicuri di potere poi riscuotere nelle urne il consenso come quando fu promesso senza se e senza ma il reddito di cittadinanza, Conte e i suoi non hanno pensato alla tentazione più ovvia che stavano mettendo in moto: “Questi regalano 10 su 100, e se noi ci prendessimo proprio tutta la posta, mettendoci in tasca tutti i 110?”.

Non l'hanno solo pensata, l'hanno fatto a macchia di olio. Siamo già a quota 4 miliardi di euro scoperti dalla guardia di Finanza quando purtroppo in gran parte erano già evaporati. Ma non si ricorda in così breve tempo una truffa di queste proporzioni su una legge dello Stato. E attenzione, perché se ne hanno scoperti 4 miliardi sarà solo piccola parte della realtà, perché c'è voluto anche un pizzico di fortuna per acciuffarli e scoprire che avevano combinato. Quindi la peggiore ruberia che si ricordi nella storia repubblicana è stata messa in moto dalle menti sapienti di quelli che urlavano “onestà, onestà” dando del “ladro” a tutti gli altri. C'è tutto nel dépliant 2020 delle Poste citato da Draghi nella conferenza stampa di ieri: nessun documento a dimostrare nulla, e vai con il bonus e la finanza sui crediti di imposta. Una specie di invito a pranzo per i malfattori di ogni sorta, che appunto non si sono fatti pregare.

Era voluto un sistema che incentivava la disonestà? No, purtroppo. Non metto in dubbio la buona fede di Conte, del suo sottosegretario Riccardo Fraccaro e di chiunque avesse messo mano a quelle norme sul super bonus come alla pioggia di concessioni di bonus di quel periodo. Non l'hanno fatto apposta per favorire gli sgraffignatori che abbiamo visto all'opera. Ma è perfino peggio così, perché fa brillare il vero problema emerso in questa legislatura con i 5 stelle: l'incapacità (per giunta presuntuosa) provoca danni grandissimi, perfino più grandi della voracità mostrata da altre generazioni di uomini politici. Non parliamo poi della finanza creativa messa in moto dalla cessione all'infinito di crediti spesso illegittimi: era proprio quella combattuta fra grida e manifestazioni di piazza dai grillini, ma ora porta indelebile la loro firma.

Ora cercherà di metterci una pezza  insieme a Draghi il ministro dell'Economia Daniele Franco, per salvare uno strumento che può essere utile a un settore importante come l'edilizia pensando alla crescita del Paese. Le soluzioni tecniche ci sono per assicurare legalità e salvare l'appetibilità del super bonus, anche se purtroppo i guai combinati non si possono più riparare. Ma ricordare come lezione di storia e di vita sicuramente sì.

Superbonus: irregolari 91 cantieri su 100. Marco Bonarrigo e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 07 febbraio 2022.

In Italia, per ogni aspirante imprenditore, dar vita ad una nuova attività è un percorso lungo e complicato. Di questi tempi chi vuol fare impresa rapidamente conviene buttarsi sull’edilizia: basta registrare il numero di partita Iva e il codice di attività corretto (Ateco 41) alla Camera di Commercio e contemporaneamente inviarlo all’Agenzia delle Entrate, e un’ora dopo puoi tirar su muri, demolirli o montare i gettonatissimi «cappotti termici» sulle facciate di case o condomini. Nel secondo semestre 2021 sono nate 64 nuove imprese edili al giorno, per un totale di 11.600 a fine dicembre. 

Dentro questi numeri da ricostruzione post bellica ci sono anche le «riconversioni», ovvero le aziende che hanno cambiato natura passando da attività di macelleria, autotrasporto, agricola, ad edili. Un boom con uno scopo preciso: attingere ai 30 miliardi di euro di bonus che lo Stato distribuisce fino a giugno 2023 a chi migliora l’efficienza energetica degli edifici residenziali. 

La legge non chiede competenze

Gli imprenditori del settore costruzioni riuniti nell’Ance, hanno in media sei dipendenti, quelli delle aziende neonate zero. Il presidente dell’associazione di categoria Gabriele Buia è convinto che non faranno mai assunzioni perché non intendono investire, ma solo approfittare di un momento d’oro. L’Ance forma operai, geometri, addetti al cantiere, e Buia si chiede «come possono i nuovi arrivati gestire un cantiere in sicurezza se fino a ieri macellavano carni o trasportavano merci?». La legge italiana queste domande non se le pone, non sono richieste competenze specifiche e nel momento in cui ti dichiari azienda edile, hai tutti i titoli per chiedere i bonus energetici senza limiti di importo. E magari senza mai iniziare i lavori. L’Agenzia delle Entrate rincorre i truffatori che intascano i bonus e lasciano i cantieri aperti. Il 1° febbraio a Rimini sono state arrestate 35 persone: avevano ricevuto illecitamente 440 milioni tra bonus e superbonus con una catena di subappalti. Le truffe hanno già superato il miliardo di euro. Il governo prova a difendersi: il nuovo Decreto Sostegno Ter del governo Draghi impedisce di cedere il credito fiscale dei bonus a terzi per limitare i subappalti rischiosi. Ma molti costruttori Ance sono già sul piede di guerra: da un lato vogliono eliminare gli avventizi, dall’altro chiedono però allo Stato di abbassare i controlli.

Il 90% dei cantieri fuori regola

Il fronte più preoccupante è quello della sicurezza. L’Ispettorato del Lavoro dallo scorso giugno ha raddoppiato il numero delle ispezioni. È un bollettino di guerra: nell’ultimo semestre 2021, su 100 cantieri visitati, 91 erano non erano in regola con le norme contrattuali, assicurative, di sicurezza. Nel primo semestre erano 60, e questo dimostra che la corsa al bonus sta accelerando le irregolarità. Delle 13 mila infrazioni registrate nel corso del 2021, il 50% riguardano l’inadeguatezza delle misure di protezione in caso di caduta dall’alto: mancanza del doppio parapetto, montaggio non a norma di tubi o ponteggi, materiali usurati, mancanza di parasassi o cartelli di pericolo. E quando si cade da un’impalcatura ci si fa sempre molto male. 

L’Ispettorato certifica che i lavoratori irregolari sono cresciuti del 12% tra il 2020 il 2021. Mentre il «nero» è stabile (2518 gli operai totalmente abusivi nel 2021 su 7674 irregolari), è esploso il «lavoro grigio». Al posto di lavoratori dipendenti regolarmente formati e assicurati, gli ispettori hanno trovato autonomi assunti irregolarmente a cottimo, intermittenti, apprendisti, tirocinanti, operai a progetto, in associazione, in partecipazione. E siccome cresce la richiesta di manodopera, si ricorre a «lavoratori appaltati» da aziende dell’est Europa (+173%), e qui il problema è che se sono assicurati, lo sono presso l’azienda madre in Romania, Albania o Slovenia. 

Tutte formule che portano allo stesso risultato: meno spese per le imprese, meno sicurezza in cantiere. I numeri sono impietosi: le denunce di infortunio nei cantieri edili sono aumentate nell’ultimo anno del 17%, dopo dieci anni di diminuzione continua. Con una tendenza in crescita: nell’ultimo quadrimestre l’aumento degli incidenti sfiora il 30%, ad esempio a dicembre 2021, se ne sono verificati 1.521, contro i 1.160 dello stesso mese nel 2020. Le morti nell’edilizia sono passate da 114 a 127 con un incremento dell’11%. E questi sono solo i casi registrati dall’Inail, quindi gli assicurati, perché poi ci sono i morti che nessuna conta, quelli del lavoro nero. 

Il crollo dei ponteggi

Il fenomeno tragico è la crescita dei crolli di ponteggi e impalcature. Crollano per qualche folata di vento ponteggi che dovrebbero resistere anche a burrasche: è successo a giugno, a Campobasso, per sei piani di impalcatura. Il 15 settembre a Genova muore per caduta un operaio di 54 anni: sotto inchiesta la fretta nel montare il ponteggio. Il 14 novembre nel Salento cede un’impalcatura di sei metri, forse assemblata male: scompare un 57enne. A dicembre, nel crollo di un ponteggio a La Spezia, i carabinieri scoprono che i montatori erano irregolari e non formati. Sempre a dicembre, il caso di Torino non ha precedenti: il crollo di una grossa gru montata male provoca la morte di tre operai. La procura di Torino ha aperto un’inchiesta, ma sarà difficile ricostruire chi ha sbagliato in una catena che comprende tre ditte (responsabile del cantiere, proprietaria della gru, proprietaria del carro di montaggio), i tre montatori deceduti (ingaggiati per l’occasione, uno aveva solo vent’anni) e il gruista bosniaco, autonomo, rimasto ferito. A minare la sicurezza spesso è proprio la lunga catena di subappalti; inoltre nei piccoli cantieri non sempre c’è un capo cantiere o il responsabile della sicurezza, e quando ci sono corrono da un cantiere all’altro. 

Impalcature non omologate

Il boom delle ristrutturazioni ha reso introvabili i ponteggi ed ha gonfiato i prezzi. I costi di montaggio e noleggio sono passati da 13/15 euro fino a 40 euro al metro quadro per il primo mese di affitto. E un ponteggio pagato caro deve rendere, vuol dire che nei tempi morti dei lavori si smonta e rimonta in fretta per aprire altri cantieri, senza troppa attenzione alla sicurezza. Operazioni che devono essere eseguite da personale specializzato, che molte aziende non hanno. I ponteggi invece scarseggiano per tre ragioni: 1) in Italia sono legali solo quelli omologati direttamente dal Ministero del Lavoro, 2) i grandi produttori sono pochi e non tengono dietro alla richiesta, 3) le nuove imprese che entrano sul mercato edile senza i costi fissi di personale, utilizzano il capitale per fare incetta di materiale. E siccome tutti hanno fretta, si ricorre anche all’importazione illegale da Turchia ed Europa dell’Est, senza bollettino di conformità del Ministero, e spesso di modesta qualità. Se poi a montare un ponteggio usurato ci metti personale senza alcuna formazione, puoi solo sperare nel santo protettore.

Le soluzioni

L’Ispettorato del Lavoro oggi ha solo 239 ispettori tecnici da mandare sui cantieri di tutta Italia a controllare lo stato dei ponteggi; ne arriveranno altri 1000, ma l’anno prossimo! Per l’Ance andrebbe adottato lo stesso meccanismo di certificazione dell’affidabilità delle aziende edili che operano nel settore pubblico: il certificato Soa. Anche se operi su edifici privati, poiché esegui lavori con denaro pubblico, dovresti avere un bilancio adeguato all’importo richiesto allo Stato, referenze bancarie, idonee attrezzature tecniche e personale tecnico specializzato. Se fino a ieri vendevi bovini o facevi trasporto merci, non puoi metterti a rivestire edifici di otto piani fino a quando non dimostri di essere affidabile.

A conti fatti i bonus hanno rimesso in moto tutta l’economia e produrranno nel tempo un risparmio energetico, ma l’altra faccia della medaglia ha un prezzo immorale

L’arrivo di tanti soldi da spendere in poco tempo ha prodotto truffe, lavori non sempre fatti bene, e sacrificato la sicurezza, proprio nel settore che già da anni aveva il triste primato di incidenti sul lavoro.

SuperBonus 110%: già rimborsati 16 miliardi. I prezzi li decide un privato e lo Stato non controlla. Marco Bonarrigo e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 17 gennaio 2022. 

Se vedete scritto su un listino prezzi «Tipografia del Genio Civile» cosa pensate? Che il Genio Civile, un organo dello Stato, abbia stabilito quei prezzi! La questione riguarda il SuperBonus al 110%: soltanto nello scorso mese di dicembre lo Stato ha autorizzato 110 milioni di euro al giorno di credito fiscale agli italiani per migliorare l’efficienza energetica delle loro abitazioni. Dal 1° luglio 2020 sono stati spesi quasi 16,2 miliardi, e sono previsti investimenti per almeno altri 14 fino al giugno del 2023, quando l’operazione dovrebbe scadere. In media ogni condominio che ha eseguito i lavori ha investito 540 mila euro, ogni casa individuale oltre 110 mila. Un incentivo imperdibile per rinnovare il vetusto parco immobiliare nazionale e renderlo più ecologico. E una boccata di ossigeno per produttori, imprese e progettisti. 

La manina che cambia il decreto

Con gli incentivi le frodi sono sempre in agguato: «Alcuni cittadini ci hanno segnalato di aver firmato le carte senza che fosse avviato alcun lavoro, altri di lavori eseguiti da società che non sono nell’edilizia ma nel settore della macellazione» ha dichiarato Ernesto Maria Ruffini, direttore dell’Agenzia delle Entrate, quantificando le truffe in almeno un miliardo di euro. Per ridurle, l’Agenzia ha intensificato i controlli, mentre lo Stato ha reso più complessa la procedura di richiesta del bonus. Per incassare, l’impresa che fa i lavori deve dimostrare all’Enea di aver utilizzato materiali che garantiscono il risparmio energetico, e all’Agenzia delle Entrate di aver applicato prezzi congrui. 

E come si determina il prezzo congruo? La legge 77 del luglio 2020 che ha istituito gli incentivi è molto chiara: chi progetta deve rispettare i prezzi massimi dei listini delle Regioni (non sempre aggiornati) e quelli ben più diffusi e spesso efficienti delle Camere di Commercio presenti sul territorio. Un mese dopo, nel decreto attuativo del 6 agosto, le Camere di Commercio spariscono, e come riferimento ufficiale sui prezzi compaiono «le guide dell’edilizia edite dalla casa editrice Dei – Tipografia del Genio Civile». A luglio 2021 un’associazione di categoria chiede numi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, e il segretario generale risponde così: «I parametri di riferimento sono quelli definiti dal Genio Civile». Un ente pubblico quindi. 

Un privato che si chiama Genio Civile

Il Genio Civile non esiste più dal 1972, anno in cui questa struttura del Regno — creata da Vittorio Emanuele I a inizio Ottocento per monitorare i lavori pubblici — si è dissolta. La Dei, che con il Genio non ha mai avuto nulla a che fare, è una società privata con undici dipendenti e sede a Roma. Settant’anni fa il suo fondatore, il signor Bartoli, ebbe l’idea — lui sì geniale — di mettere nome e marchio del Genio Civile nella ragione sociale per vendere meglio i suoi prezzari e manuali per l’edilizia. Ad equivocare infatti sono in parecchi, dai funzionari del Ministero, a quelli dell’Agenzia delle Entrate e dell’ Enea. Nel marzo 2021, in piena operazione bonus, la Dei è stata acquisita dalla Quine, del gruppo Lswr, colosso dell’editoria tecnica guidato da Giorgio Albonetti. Lswr gestisce molti prezzari dei farmaci, pubblica riviste giuridiche, quelle delle fiere di settore, la rivista del consiglio nazionale degli ingegneri, l’organo che assevera i costi del superbonus, la rivista dell’associazione dei termotecnici (AICAR) che progettano gli impianti e asseverano i costi ai fini del bonus. I listini Dei sono dettagliatissimi. Siccome lungo lo stivale i prezzi variano, e occorre definire e monitorare 80 mila voci, uno immagina che ci lavoreranno un centinaio di esperti. Sbagliato: sono solo in 6, e qualche consulente. 

Il listino di riferimento

I listini nella loro versione elettronica permettono la compilazione automatica dei preventivi. Ovviamente la comodità ha un prezzo: fino a 3.200 euro per un abbonamento annuale.

Sul tavolo di ogni ingegnere, architetto o geometra, quello della Dei (che dichiara 10 mila clienti e fatturato raddoppiato nell’ultimo anno) è un monopolio su cui lo Stato non esercita alcun controllo.

L’editore Albonetti fa il suo mestiere, e lo fa bene: «Vengano pure a controllare, troveranno che i prezzi sono i più bassi possibili. Noi non cediamo alle pressioni delle imprese che vorrebbero aumenti continui lamentandosi per i rialzi delle materie prime. Siamo totalmente indipendenti e quindi affidabili». Qualche potenziale conflitto di interessi in realtà c’è: i prezzari Dei ospitano pubblicità a pagamento dei costruttori, e editano la rivista dell’Ordine degli Ingegneri, che nei suoi editoriali ne difende a spada tratta «l’insostituibilità come riferimento per i lavori».

Come si determina un prezzo

Secondo Luca Bertoni, presidente del Collegio degli ingegneri di Lodi, i listini Dei non espongono prezzi spropositati per le singole voci, ma è la loro struttura che permette di alzare i prezzi quando si redige un preventivo. Un esempio: «In zona climatica “E” un serramento può costare 650/750 euro al metro. Io ho visto capitolati basati sul listino Dei che calcolavano anche 2.500 euro al metro. Come ci si arriva? Applicando alla lettera delle singole voci super dettagliate, inserendo separatamente le ore di posa in opera e così via». Il listino Dei è autorizzato dallo Stato, e lo Stato non può contestare il prezzo finale che va a rimborsare. La legge in origine ipotizzava una procedura diversa per calmierare i costi: stabilire un prezzo massimo (ad esempio 1.000 euro al metro per i serramenti) e lasciare l’eventuale spesa in eccesso a carico del contribuente. Vuoi isolare casa con 120 metri quadri di cappotto termico? Ti rimborso al massimo tot euro al metro quadro, in base alle misure certificate dal progettista. Nessuno in questo modo avrebbe bisogno di gonfiare i prezzi. I massimali però non sono stati messi in pratica.

I professionisti ringraziano

I costi sono diversi da regione a regione, da provincia a provincia. Se in Lombardia i prezzari delle Camere di Commercio sono (oltre che gratuiti) anche impeccabili, nel Centro-Sud la storia cambia. Francesco Triolo, ex presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Messina, spiega: «Mi piacerebbe far riferimento al prezzario della Regione Sicilia, ma contiene pochissime voci, mentre quello Dei comprende ogni possibile variante e nel momento in cui lo adotti sai che lo Stato non avrà nulla da obbiettare. In un mercato sano, ai prezzari si applica sempre lo sconto: ma se l’Agenzia delle Entrate rimborsa prezzi più alti della media nessuno ha interesse a chiederlo». I professionisti — che col superbonus incassano parcelle di progettazione più alte — ringraziano: «I meccanismi di rimborso dei soldi che anticipiamo sono lenti, guadagnare di più è un modo per rifarci».

Regalati due miliardi

Nessuno è interessato a potenziare gli uffici tecnici pubblici locali che pure avrebbero competenza e risorse per far da garanti. Qualche professionista calcola almeno nel 10% la spesa in eccesso da parte dello Stato dovuta a un meccanismo di calcolo non calmierato. Sui 16 miliardi già spesi, se ne sarebbero già risparmiati due. Due mesi fa il ministro della Transizione ecologica ha riportato i conti al governo: «Stiamo pagando il doppio dei valori europei perché non c’è contrattazione sui prezzi». Per ridurre i costi, la nuova legge finanziaria ha modificato la normativa: per essere congrue le spese dovranno adeguarsi «ai valori massimi stabiliti con decreto del ministro della Transizione ecologica da emanarsi entro il 9 febbraio 2022».

Il Mite ha dunque tre settimane di tempo per stabilire un tetto di spesa per ogni singola voce di intervento, dai cappotti termici alla manodopera, alle spese di progettazione.

L’impresa è dura: i produttori di materie prime, le imprese costruttrici, e la maggior parte dei progettisti sono già sul piede di guerra. Il defunto Genio Civile non può controllarli, lo Stato pare non essersi accorto del decesso e i prezzi del Tariffario Dei che portano ancora il suo nome fanno davvero comodo a tutti.

Decreto Rilancio 2020, la legge ha agevolato truffe per 6 miliardi di euro di cui 1,8 già spariti. Marco Bonarrigo e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022

Dieci miliardi di euro di fatture gonfiate, sei di crediti fiscali illegittimi di cui 1,8 già incassati e dileguati. I bonus Covid previsti dal Decreto Rilancio 2020, e in particolare quello sugli affitti non residenziali, bonus facciate e bonus sisma, hanno generato truffe vertiginose. Chi le ha ordite non ha nemmeno avuto bisogno di complicarsi troppo la vita con autorizzazioni e acquisti di materiali come per il Bonus 110%: qui un buon numero di abili truffatori, una rete intermediari e un plotone di prestanome hanno sfruttato una legge nata per essere aggirata con estrema facilità. 

Truffatori e complici uniti

Solo così si può spiegare, ad esempio, come due micro società immobiliari hanno potuto fatturarsi a vicenda canoni di affitto e lavori di adeguamento sisma (non realizzati) per 2 miliardi prima che la magistratura le fermasse. A Rimini un’organizzazione ramificata in tutta Italia, è partita da contratti d’affitto esistenti, ma nessuno ha controllato gli importi, gonfiati di 1000 volte. Hanno maturato crediti per 400 milioni, 100 recuperati, 300 incassati e svaniti. Ad Umbertide (Pg) un’oscura concessionaria d’auto ha accumulato crediti d’imposta inesistenti per 103 milioni, di cui 23 comprati da Poste da soggetti che non avevano mai fatto la denuncia dei redditi, rapinatori o con precedenti per associazione a delinquere. Poste e Cassa Depositi e Prestiti hanno liquidato nel corso del 2021 centinaia di milioni senza fiatare, sostenendo di aver agito in buona fede e ora ne chiedono il rimborso allo Stato. 

Art 121: la falla nel comma 1 lettera b e nel comma 4

Per capire il meccanismo bisogna partire dal Decreto Rilancio promosso a maggio 2020 dal governo Conte, che concede «un credito d’imposta del 60% dei canoni di locazione degli immobili commerciali o industriali, e fra l’80 e il 90% sui lavori di rifacimento facciate e adeguamento sisma» per aiutare le aziende in crisi, a fronte di spese sostenute per lavori realizzati. Il credito, detraibile dalle tasse, è per la prima volta girabile ad un numero infinito di soggetti, o incassabile subito vendendolo con sconto a istituti di credito. In particolare, l’articolo 28 sugli affitti è stato emendato 40 volte da maggioranza e opposizione per allargare i benefici a ogni tipologia possibile di affitto, dalle cabine balneari ai distributori automatici di bevande. Il guardasigilli ha vistato la legge (spesa stimata a carico dello stato di 1,5 miliardi, la sola truffa è costata sette volte tanto) e anche l’opposizione che non l’ha votata (il Governo aveva posto la questione di fiducia) ha applaudito. 

La norma folle

Se decidi di fare questo però devi mettere dei presidi importanti, perché basta che due privati si mettano d’accordo su un credito inesistente e il danno è fatto. Durante l’iter la Ragioneria dello Stato avverte: troppe cessioni di credito d’imposta possono innescare un’economia parallela e fittizia. L’Agenzia delle Entrate il 12 maggio solleva la stessa obiezione, ma la direttiva politica è quella di far girare l’economia e i controlli si fanno dopo. La bozza circola fra i capigabinetto, il ministro Gualtieri dà l’assenso alla norma, passa alla Ragioneria che la avalla, quindi al preconsiglio dei ministri, e poi il Presidente del Consiglio per l’ok finale. Il Decreto Rilancio viene approvato il 9 luglio 2020. A settembre 2020 sul sito di Poste si legge: «Per poter accedere al servizio di cessione del credito di imposta di Poste Italiane gli interessati non dovranno presentare alcuna documentazione per istruire la pratica (..) chi ha maturato il credito riceverà la liquidità sul proprio conto». 

La truffa madre

Criminali e faccendieri in Abruzzo, Basilicata, Campania, Lazio, Lombardia, Marche, Puglia, Sicilia, Toscana, Trentino e Veneto si mettono in moto. Il meccanismo si riassume in modo emblematico con il caso che riguarda due piccole srl di proprietà dei fratelli pugliesi Maurizio e Maria Marisa de Martino: Immobiliare Vallè srl, nata a metà 2019 ad Aosta per occuparsi di «locazione immobiliare di beni propri o in leasing (affitto)» e dal fatturato quasi inesistente, e la foggiana MaMa srl, attiva nel settore costruzioni, ma con fatturato che fino ad ottobre 2020 non supera i 20.000 euro al mese. 

Già nel mese di novembre Vallè fattura a Mama 12,5 milioni di euro per affitti di immobili non residenziali. A gennaio 2021 Vallè riceve da Mama fatture per 21,177 milioni per lavori da eseguire. Fatture elettroniche (quindi «leggibili» in tempo reale da parte dell’Agenzia delle Entrate) di importo incongruente con la capacità finanziaria dei soggetti ed emesse solo tra società gemelle. Contemporaneamente viene comunicata sulla piattaforma dell’Agenzia la cessione del credito a terzi. Siccome nessuno fiata, lo scambio tra Puglia e Valle d’Aosta diventa vorticoso. A febbraio fatture per 95 mln, ad aprile 142 milioni di cui 97 in un solo giorno. Tra maggio e agosto vengono depositate ulteriori fatture per oltre 200 milioni. A giugno, l’Ufficio Antifrode, che si sua iniziativa aveva cominciato ad osservare i transiti nella banca dati, vede che qualcosa non quadra ed inizia ad indagare. Intanto le società foggiane avanzano tranquille: a ottobre fatture per oltre 200 milioni, a novembre per 191,8. La giostra si ferma quando l’Agenzia delle Entrate consegna un dossier alla Procura di Roma che, il 22 dicembre 2021, con un provvedimento d’urgenza, congela crediti fiscali per oltre 1,25 miliardi di euro. Almeno 250 milioni, però, erano già stati liquidati da intermediari come le Poste e Cassa Depositi e Prestiti. 

Chi incassa è un nullatenente

Perché per oltre un anno nessuno è intervenuto in tempo reale sull’emissione di fatture con importi spropositati, o emesse da soggetti incapienti? Perché nessun controllo era previsto dalla legge sull’inserimento dei crediti nei cassetti fiscali. Nessun controllo era previsto tra la congruenza delle somme pagate e la qualità degli immobili (che spesso non esistevano o erano stanzette sfitte) e nessuna necessità di inserire copia dei contratti d’affitto. Nessun controllo sui lavori eseguiti per i richiedenti di bonus sisma o rifacimento facciate. La cessione del credito avveniva tramite comunicazione sulla piattaforma online dell’Agenzia delle Entrate del codice fiscale del beneficiario finale (e la legge non metteva limite al numero di cessioni) quello dell’incaricato dell’incasso. Chi eseguiva l’operazione doveva limitarsi a conservare i documenti «in vista di eventuali controlli». Ad incassare il cash era spesso un disoccupato, un ambulante o un incapiente che dal punto di vista legale non rischia nulla perché la legge si rivale solo su chi ha generato la truffa.

(...) nessun controllo era previsto dalla legge (…) Chi eseguiva l’operazione doveva limitarsi a conservare i documenti «in vista di eventuali controlli»

Chi paga: Poste e Cdp

Una volta che l’incapiente di turno, in cambio di una «mancia» da parte di chi ha ideato il meccanismo, vende il titolo a Poste o Cassa Depositi e Prestiti, è fatta. I soldi sono subito partiti per la Cina o altre destinazioni. I cessionari ora si trovano in mano carta straccia (valuta falsa, la definisce il magistrato Stefano Pesci) che dovrebbero inserire in bilancio come perdite, cosa che però non hanno nessuna intenzione di fare. In un decreto di dissequestro dello scorso 13 maggio (il caso è quello della O.B. Car, una piccola concessionaria di auto), i procuratori Raffaele Cantone e Laura Reale scrivono che molti dei soggetti dai quali Poste ha acquistato il credito fiscale presentavano «profili di rischio economico penale, fiscale». Cittadini che non hanno mai presentato un 730, ultraottantenni, pregiudicati per reati violenti e per truffe anche nei confronti di Poste. «Sarebbero bastate semplici verifiche su Google per accorgersene» scrivono i magistrati, inoltre non è dato comprendere perché Poste rifiuta a giugno 2021 la cessione di un credito per 150.000 euro al prestanome Nicola M., e tre mesi dopo cambia idea: M. si presenta allo sportello con 500 mila euro di crediti e li cambia a vista. La domanda che Poste avrebbe dovuto fare a M era questa: «come hai fatto a maturare mezzo milione di crediti?». Ma qual è l’interesse di un istituto di credito nell’acquistare crediti così rischiosi? Lo sconto. Per esempio Poste per ogni blocchetto da mezzo milione di euro, ne pagava al cliente 415.015, per scalare poi dalle proprie tasse la somma intera.

Ma qual è l’interesse di un istituto di credito nell’acquistare crediti così rischiosi? Lo sconto

I danni li paga lo Stato

Ora il problema è che Poste e Cassa Depositi e Prestiti (ma anche colossi dell’energia e del gas) vogliono che lo Stato rimborsi questi crediti che non possono più portare a compensazione delle tasse, sostenendo di averli acquistati nel rispetto della legge. A dire il vero ad aprile 2020 e a febbraio 2021 l’Unità di Informazione finanziaria di Banca d’Italia, nella comunicazione «prevenzione di fenomeni di criminalità finanziaria connessi all’emergenza Covid», aveva richiamato gli istituti di credito agli obblighi antiriciclaggio e a prevenire i rischi connessi con l’eventuale natura fittizia dei crediti d’imposta. Indicazione evidentemente non seguita. Infatti altri gruppi bancari, che hanno fatto un minimo di due diligence sui soggetti che volevano cedere i crediti e sui contratti sottostanti, di fregature non ne hanno prese. Sta di fatto che Poste e Cdp per aver ragione hanno ingaggiato una principessa del Foro, l’avvocata Paola Severino, ex ministro della Giustizia e membro del Comitato Scientifico proprio di Cdp. Negli ultimi mesi alcuni crediti sono stati sbloccati, altri no, e il contenzioso passa nelle mani dei tribunali. Se gli intermediari vinceranno, le somme trafugate le pagherà lo Stato. Se perderanno, anche: Poste è controllata al 60% dal Ministero delle Finanze, Cdp all’83 per cento.

Ora il problema è che Poste e Cassa Depositi e Prestiti (ma anche colossi dell’energia e del gas) vogliono che lo Stato rimborsi questi crediti che non possono più portare a compensazione delle tasse

Draghi mette la parola fine

L’11 novembre 2021 la norma che di fatto autorizzava le frodi carosello è stata integrata d’imperio dal governo Draghi, imponendo all’Agenzia delle Entrate 30 giorni di tempo per il controllo sulla cessione crediti. E la cessione del credito non può avere più di 4 passaggi. Mentre per gli istituti di credito c’è il divieto di acquistare da soggetti a rischio. Infatti nel corso del 2022 gli imprenditori onesti hanno continuato a lavorare, ma ben 2 miliardi di tentate truffe sono state bloccate sul nascere. La domanda è: il parametro informatico che incrocia i dati, fa scattare un allerta automatica che arriva al funzionario dell’Agenzia delle Entrate e gli dice «apri quel cassetto fiscale», poteva essere adottato da luglio 2020? La risposta è «sì». Avrebbe rallentato l’economia? No. Si sarebbe però evitato di foraggiare ladri e criminali.