Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
I PARTITI
QUARTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
I PARTITI
INDICE PRIMA PARTE
SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Scissione: vaffanculo a loro stessi.
La Democrazia a modo mio.
Ipocriti.
Son Comunisti…
Beppe Grillo.
Giuseppe Conte.
Luigi Di Maio.
Alessandro Di Battista.
Dino Giarrusso.
Gianluigi Paragone.
Rocco Casalino.
Virginia Raggi.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Moralità.
Il Capitano.
Il Senatur.
Giancarlo Giorgetti.
Lorenzo Fontana.
Luca Zaia.
Roberto Calderoli.
Roberto Maroni.
La Bestia e le Bestie.
INDICE TERZA PARTE
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.
La morte del Comunismo.
Comunisti: La Scissione dell’atomo.
Ipocriti.
Razzisti e bugiardi.
Achille Occhetto.
Beppe Sala.
Carlo Calenda.
Elly Schlein.
Enrico Berlinguer.
Enrico Letta.
Giuseppe Pippo Civati.
Goffredo Bettini.
Luigi De Magistris.
Mario Capanna.
Massimo D’Alema.
Matteo Renzi.
Matteo Richetti.
Monica Cirinnà.
Nicola Fratoianni.
Gianni Vattimo.
Fausto Bertinotti.
Laura Boldrini.
Walter Veltroni.
Vincenzo De Luca.
Le Sardine.
I Radicali.
I Marxisti d’oltreoceano.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le vittime innocenti degli scontri con la polizia.
Le Primule rosse.
Il Delitto Biagi.
Le Brigate Rosse.
PAC. Proletari Armati per il Comunismo.
Lotta Continua.
La Falange armata.
Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, NAR (Nuclei armati rivoluzionari).
Gli Anarchici.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)
I PARTITI
QUARTA PARTE
IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Le vittime innocenti degli scontri con la polizia.
Giuseppe Tavecchio, la vittima dimenticata degli scontri del 1972: una targa per ricordarlo. Federico Berni su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2022.
Il 60enne pensionato fu colpito da un lacrimogeno sparato dalla polizia durante i tumulti scoppiati tra formazioni della sinistra radicale con le forze dell’ordine. Una foto lo ritrae pochi istanti prima.
11 marzo 1972: Giuseppe Tavecchio, 60 anni, un attimo prima di essere colpito a morte in via Verdi. Accanto a lui una ballerina della Scala, che si è riconosciuta
L’unica vittima degli anni di piombo rimasta senza un tributo pubblico alla memoria. Un uomo «normale», travolto prima da una morte assurda, e poi da un oblio immeritato. Almeno fino a oggi, la giornata in cui il Comune ha deciso di scoprire la targa intitolata a Giuseppe Tavecchio, il pensionato milanese 60enne colpito da un lacrimogeno sparato dalla polizia, durante una giornata di feroci scontri di piazza, l’11 marzo 1972, e morto tre giorni dopo in ospedale.
Da allora, su di lui è calato il buio. Ma c’è ancora chi sa recuperare storie dimenticate, come lo scrittore Andrea Kerbaker, che a Tavecchio ha dedicato un libro nel 2016 («La rimozione»). Una ricostruzione storica servita a risvegliare un sussulto di memoria collettiva, arrivato fino alla cerimonia della targa, giovedì in via Verdi 2, alla presenza dell’assessore alla cultura Tommaso Sacchi e di Elvezio Tavecchio, ultraottantenne, uno dei due figli del cittadino caduto 50 anni fa a margine di tumulti scoppiati tra formazioni della sinistra radicale, Lotta Continua e Potere operaio, con le forze dell’ordine.
Giorni di fuoco e barricate. Ma Tavecchio era uno della «maggioranza silenziosa». Non impugnava né molotov, né manganelli. La sua è la storia di chi si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato. Stava attraversando la strada, quel sabato pomeriggio, con un pacchetto di carne in mano. Il cuore di Milano non era lo stesso di oggi, immolato allo shopping lusso. In via Monte di Pietà, a due passi da via Manzoni, c’erano le botteghe. E Tavecchio, ex custode al macello comunale, che evidentemente sapeva dove trovare la carne buona, è appena stato lì a fare provviste.
All’altezza del numero 2 di via Verdi, praticamente in piazza della Scala, attraversa la strada. Esiste uno scatto che lo immortala poco prima di morire. Di fianco a lui c’è una donna, una ballerina della Scala che si riconoscerà in quell’immagine, che ha contattato lo stesso Kerbaker. Sono le 17.10, un momento di relativa calma dopo disordini violentissimi. Il candelotto lacrimogeno sparato verso un gruppo di cittadini inermi lo centra al collo. In quella stessa giornata, alcuni manifestanti si dirigono in via Solferino e prendono d’assalto anche alcuni locali della sede del Corriere, allora diretto da Giovanni Spadolini.
Di Tavecchio si scrive genericamente come di «un ferito», ma la gravità di quei fatti porta la situazione del pensionato a essere trascurata. «I figli vennero convocati in Questura, parlarono con l’ispettore Luigi Calabresi, che sarebbe stato ammazzato due mesi dopo. Dopo un po’ di domande, venne detto loro di andare al Policlinico, nessuno li accompagnò», racconta Kerbacher.
Tavecchio muore senza aver mai ripreso conoscenza. Su di lui cala il buio per quasi mezzo secolo. Oggi la città decide di dargli un tributo. «La trovo una bella cosa — continua l’autore — non possono esserci morti di serie B. Penso che una città debba avere memoria anche delle sue pagine scure. All’epoca avevo 11 anni, ed erano anni davvero difficili. Il nome di Giuseppe Tavecchio, però, mi era sempre rimasto impresso sin dall’infanzia. Ho cercato di ricostruire i motivi di questa rimozione della memoria. Non certo lo Stato aveva interesse a ricordarlo, visto che ne ha causato la morte, e per i media, una vittima così faceva poca notizia». Su questa storia oggi viene pubblicato il primo podcast di «Milano e memoria», con la voce dello stesso Kerbaker.
Aiutò i brigatisti durante la fuga, oggi ha 73 anni. Omicidio Ammaturo, 40 anni senza mandanti: “C’è un latitante in fuga da 20 anni”. Chi è Renato Cinquegranella. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 15 Luglio 2022
Quarant’anni senza conoscere i mandanti dell’omicidio di Antonio Ammaturo, il capo della Squadra Mobile di Napoli assassinato dalle Brigate Rosse in piazza Nicola Amore il 15 luglio 1982 insieme all’agente scelto Pasquale Paolo (che lo stava accompagnando in Questura). A tenere accesa la speranza di una possibile riapertura delle indagini è il neo procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo che, nel corso della XIII edizione del premio dedicato al super poliziotto, ha ricordato che “le persone che sanno cosa accade sono ancora vive, a cominciare dal camorrista latitante dal 2002”.
Il riferimento è a Renato Cinquegranella, 73enne latitante ormai da quasi 20 anni. E’ infatti ricercato dal 6 ottobre 2002 per associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione ed altro. Secondo la ricostruzione degli investigatori nel giorno dell’omicidio Ammaturo, aiutò nella fuga (insieme ad altri camorristi) i brigatisti che rimasero feriti nello scontro a fuoco con i ‘Falchi’. Cinquegranella li avrebbe accolti nella sua villa di Castel Volturno (Caserta) per consentire loro di curarsi e riprendere la fuga. L’episodio confermò l’esistenza di un ‘patto scellerato’ tra le Brigate Rosse e i capi-zona della camorra del centro di Napoli.
Secondo Melillo, che fino a poche settimane fa dirigeva la procura di Napoli, le indagini sull’omicidio di Ammaturo “saranno riaperte non appena saranno determinate nuove condizioni, cosa che ritengo possibile”. Cinquegranella è latitante dal 2002 “perché evaso per la seconda volta. Era già evaso nel 1989, condannato per un omicidio ferocissimo e riarrestato. Dopo 10 anni, ha potuto richiedere il beneficio e, in occasione del quarto permesso concesso dalla magistratura di sorveglianza, è evaso. Da allora è latitante”.
Melillo appare fiducioso perché la ricerca dei latitanti “è in corso e anche lui sarà chiamato, spero presto, a misurarsi con la responsabilità di aver accolto e di aver dato rifugio e protezione a uomini delle Brigate Rosse in fuga”. Cinquegranella oggi ha 73 anni ed è tra i cinque latitanti di massima pericolosità ricercati in Italia e nel mondo (con lui ci sono Matteo Messina Denaro, Giovanni Motisi, Attilio Cubeddu e Pasquale Bonavota).
Ad oggi però non ci sono sostanziali sviluppi nelle ricerche di Cinquegranella, nato a Napoli il 15 maggio 1949, e condannato a scontare l’ergastolo per l’omicidio di Giacomo Frattini, detto ‘bambulella’, nello scontro nella Nuova camorra organizzata. “Alla vittima, dopo essere torturata, furono tagliate mani e strappato il cuore” ha ricordato in passato Melillo.
L’OMICIDIO AMMATURO – Ammaturo era appena uscito dalla propria abitazione per recarsi in Questura con l’auto di servizio guidata dall’agente scelto Pasquale Paola quando due uomini, scesi da una vettura, gli spararono contro. Gli autori del fatto risultarono appartenere alle “Brigate Rosse”. Riuscirono a fuggire, ma furono arrestati alcuni mesi dopo insieme ad altri complici, implicati anche nel sequestro Cirillo (27 aprile 1981) e nell’omicidio dell’assessore Delcogliano (27 aprile 1982). Durante la fuga alcuni brigatisti rimasero feriti nello scontro a fuoco con i ‘falchi’ e furono aiutati nella fuga dai camorristi tra cui Renato Cinquegranella che avrebbe accolto nella sua villa di Castel Volturno (Caserta) i brigatisti feriti per consentire loro di curarsi e riprendere la fuga.
CUORE STRAPPATO E MANI TAGLIATE – Cinquegranella sarebbe coinvolto anche in un altro omicidio efferato, quello di Giacomo Frattini, il giovane affiliato alla Nco di Raffaele Cutolo torturato, ucciso e fatto a pezzi ventotto anni fa per vendicare l’omicidio in carcere di un fedelissimo del vecchio boss di Secondigliano, Aniello La Monica. Giacomo Frattini, detto ‘Bambulella’ fu trovato avvolto in un lenzuolo, decapitato, con il volto sfigurato e le mani e il cuore chiusi in un sacchetto di plastica. Per quel delitto finirono sotto processo anche Paolo Di Lauro, il boss Salvatore Lo Russo, suo fratello Mario Lo Russo, Luigi Vollaro esponente dell’omonimo gruppo di Portici, Renato Cinquegranella, già latitante, e i pentiti Luigi Giuliano e Pasquale Gatto.
Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.
La Francia nega l'estradizione per dieci ex terroristi di sinistra: Parigi salva gli estremisti. Il Tempo il 29 giugno 2022
La Corte d’Appello di Parigi ha respinto le richieste di estradizione per i dieci ex terroristi di estrema sinistra italiani rifugiati nel Paese. La Chambre de l’Instruction della Corte ha fatto riferimento agli articoli 8 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: i dieci ex Br e Lotta Continua erano stati arrestati nell’ambito dell’operazione Ombre rosse dell’aprile 2021. Si tratta di Giorgio Pietrostefani (68 anni), non presente in aula per motivi di salute, Enzo Calvitti (67), Narciso Manenti (65), Giovanni Alimonti (66), Roberta Cappelli (66), Marina Petrella (67), Sergio Tornaghi (63), Maurizio Di Marzio (60), Raffaele Venturi (70), Luigi Bergamin (72).
Gli otto uomini e due donne ex militanti dell’area dell’estrema sinistra per i quali Roma ha chiesto l’estradizione sono otto uomini e due donne, di età compresa fra i 61 e i 78 anni e sono accusati di reati legati al terrorismo negli «Anni di piombo». Si rifugiarono in Francia a partire dagli anni ’70: è il caso del più anziano e più conosciuto dei dieci, quel Giorgio Pietrostefani che fu condannato in Italia come mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Per ragioni di salute non è mai comparso davanti ai giudici francesi da quando la procedura è ricominciata, nella primavera dell’anno scorso. In alcuni casi, la corte d’appello di Parigi, già interpellata in passato, aveva espresso un parere favorevole all’estradizione, negli anni ’90 e 2000. Ma poiché tale parere non si è mai concretizzato in un’effettiva esecuzione dell’estradizione, è considerato superato. Come ha spiegato nei giorni scorsi un legale della difesa, lo Stato francese ha 4 mesi di tempo per eseguire la decisione e lo Stato che l’ha richiesta ha due mesi di tempo per ricorrere se non viene eseguita. Se questo non viene fatto, la questione è archiviata e solo se succedono fatti nuovi si può richiedere l’estradizione. Tre dei dieci ex militanti si trovano in questa situazione: Maurizio di Marzio, il più giovane, che in Francia si è rifatto una famiglia e fa il ristoratore, Roberta Capelli, che lavora nel sociale, e Marina Petrella, assistente sociale. Per tutti e tre era stato espresso parere favorevole all’estradizione dai giudici della corte di appello, ma poi era mancata la volontà politica di eseguirla: in particolare, nel caso di Petrella, l’allora presidente Nicolas Sarkozy aveva rinunciato dopo una campagna a favore dell’ex terrorista, le cui condizioni di salute non erano buone.
Nel frattempo la procura generale di Milano è pronta, «nei prossimi giorni», a valutare l’esistenza nell’ordinamento francese di un’impugnazione del tipo di quella prevista - tramite ricorso per Cassazione - nel caso di estradizioni per l’estero. In particolare lo studio riguarda i casi dell’ex Br Sergio Tornaghi e l’ex militante di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani. Una possibilità che verrà valutata «previa comunicazione al ministero della Giustizia e dopo aver ricevuto comunicazione ufficiale e completa delle motivazioni».
La Francia dice no all’estradizione di dieci italiani. C’è anche Pietrostefani. Il Domani il 29 giugno 2022
La Corte d'appello di Parigi ha negato l’estradizione richiesta dall’Italia per i dieci arrestati nell’ambito dell’operazione “Ombre rosse” nell’aprile 2021.
Tra loro c’è anche l’ex militante di Lotta Continua condannato per l'omicidio Calabresi.
Ora spetterà al procuratore generale francese decidere se presentare ricorso per Cassazione.
La Chambre de l’Instruction della Corte d'appello di Parigi ha negato l’estradizione richiesta dall’Italia per i dieci ex terroristi rossi arrestati nell’ambito dell’operazione “Ombre rosse” nell’aprile 2021.
Nel gruppo c’era anche tra cui l’ex militante di Lotta continua Giorgio Pietrostefani, condannato in Italia come uno dei mandanti dell’omicidio del commissario Calabresi. Per ragioni di salute Pietrostefani non è mai comparso davanti ai giudici francesi. Ora spetterà al procuratore generale francese decidere se presentare ricorso per Cassazione.
«DECISIONE GRAVE»
Da tutti i partiti sono arrivate reazioni di delusione nei confronti della decisione francese: «È una decisione grave» fanno sapere dal Nazareno, mentre il leader della Lega Matteo Salvini ha scritto che «proteggere i terroristi che hanno ucciso in Italia è una vergogna».
Francia nega l’estradizione di 10 ex terroristi in Italia: tra loro anche Pietrostefani. Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi, su Il Corriere della Sera il 29 Giugno 2022.
La Corte francese si è appellata agli articoli sulla Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Restano liberi anche gli ex Br Alimonti, Cappelli, Petrella, Tornaghi, Di Marzio e Calvitti.
Nel vecchio palazzo di Giustizia di Parigi, tra misure di sicurezza eccezionali per il processo del 13 novembre 2015 (gli attentati islamisti del Bataclan, dei ristoranti e dello Stade de France), poco prima delle 14 arriva un’altra decisione importante: la corte di Appello pronuncia un « avviso sfavorevole » alla domanda di estradizione in Italia di 10 ex militanti della lotta armata riparati in Francia da decenni. Gli italiani si abbracciano in aula, gioiscono per una decisione inattesa che sorprende anche gli avvocati: si pensava a un ennesimo rinvio, oppure a una scelta che riguardasse tre o quattro di loro. Invece ecco il no all’estradizione per tutti e dieci, che va oltre le previsioni degli ex estremisti di sinistra e anche dei loro legali.
In aula si sente un grido, «Assassini!». È il deputato leghista Daniele Belotti, che è venuto da Bergamo con il vicesindaco di Telgate, Cristian Bertoli, e due carabinieri dell’associazione intitolata a Giuseppe Gurrieri, ucciso nel 1979 da Narciso Manenti, uno degli ex terroristi di cui viene negata l’estradizione. «Siamo venuti da Bergamo a Parigi per vedere in faccia questi assassini - ha detto poco dopo la sentenza l’onorevole Belotti, davanti al palazzo di Giustizia - e vederli esultare è stata una pugnalata alla schiena. Non tanto a noi che eravamo qui, ma alle famiglie delle vittime e a tutti gli italiani. Gridare assassini era il minimo che si potesse fare».
La camera di istruzione della corte di Appello francese si è basata sul rispetto della vita privata e familiare e il rispetto del giudizio in contumacia previsti degli articoli 8 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Gli ex militanti, otto uomini e due donne, erano colpiti da una procedura di estradizione dall’aprile 2021, nell’ambito dell’operazione «Ombre rosse», quando il presidente Emmanuel Macron aveva deciso di accogliere la richiesta italiana riconoscendo la sbagliata applicazione della «dottrina Mitterrand» che avrebbe dovuto offrire protezione solo agli ex estremisti che non si fossero macchiati di fatti di sangue. La scelta di Macron andava nel senso di relazioni diplomatiche ormai eccellenti tra Italia e Francia, ma ha sottovalutato l’indipendenza dei giudici. Non hanno aiutato forse, ai fini dell’accoglimento delle richieste italiane, neanche i difficili rapporti tra il ministro della Giustizia, l’avvocato Eric Dupond-Moretti, e i magistrati francesi.
Se la volontà politica di Macron e del suo governo – favorevole all’estradizione – non è mai cambiata, si è scontrata con le esigenze giuridiche e con l’interpretazione delle regole da parte dei magistrati. Nasce così una decisione che per l’Italia è sorprendente, e che vanifica anni di sforzi investigativi e diplomatici. La decisione di oggi non chiude il caso definitivamente: c’è ancora la possibilità che il procuratore generale francese presenti – entro cinque giorni - ricorso in Cassazione. «Il ministro della Giustizia farà di tutto per convincere il procuratore a presentare il ricorso – dice Jean-Louis Chansalet, legale di Enzo Calvitti -, il procuratore non è obbligato a farlo ma è possibile che ascolti il ministro. Poi deciderà la Cassazione. Quel che è certo è che c’era la volontà politica comune di Italia e Francia di arrivare all’estradizione, ma la giustizia ha mostrato di essere indipendente e non ha seguito gli ordini del governo francese. Il mio assistito era stato già giudicato in Francia 32 anni fa. Da un punto di vista giuridico la richiesta di estradizione non poteva tenere, il governo francese avrebbe dovuto saperlo».
L’avvocato che rappresenta lo Stato italiano, William Julié, aspetta la decisione sul possibile ricorso del procuratore generale, e «di conoscere nel dettaglio le motivazioni della camera di istruzione», che dovrebbero essere rese pubbliche lunedì. «Rispetto le decisioni della magistratura francese, che agisce in piena indipendenza – ha commentato la ministra italiana della Giustizia, Marta Cartabia —. Aspetto di conoscere le motivazioni di una sentenza che nega indistintamente tutte le estradizioni. Si tratta di una sentenza a lungo attesa dalle vittime e dall’intero Paese, che riguarda una pagina drammatica e tuttora dolorosa della nostra storia. Resta tutta l’importanza della decisione di un anno fa con cui il Ministro Eric Dupond-Moretti ha rimosso un pluridecennale blocco politico: un gesto, il suo, che è segno della piena comprensione dei drammi vissuti nel nostro Paese durante gli anni di piombo e soprattutto della fiducia del Governo francese nei confronti dei magistrati e delle istituzioni italiane». La sensazione è che i due governi, quello francese e quello italiano, abbiano sopravvalutato la loro comune volontà politica e sottovalutato gli aspetti tecnico-giuridici della questione e l’indipendenza della magistratura francese, oltretutto da tempo in non facili rapporti con il ministro della Giustizia francese, Eric Dupond Moretti. A meno di un ricorso e di un improbabile ribaltamento della situazione in Cassazione, i dieci ex militanti della lotta armata - Giorgio Pietrostefani, Enzo Calvitti, Narciso Manenti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi, Maurizio Di Marzio, Raffaele Ventura e Luigi Bergamin – potranno restare tranquilli in Francia.
«Altro che solidarietà europea, proteggere terroristi che hanno ucciso in Italia è una vergogna, uno schifo» afferma invece il leader della Lega, Matteo Salvini, dopo il no di Parigi. Di segno opposto invece la reazione di Mario Calabresi, figlio di Luigi, il commissario per la cui uccisione è stato condannato Giorgio Pietrostefani: «Da tempo sono convinto, insieme a mia madre e ai miei fratelli, che mettere oggi in carcere Pietrostefani, condannato per l’omicidio di mio padre, non abbia più molto senso, perché è passato mezzo secolo e perché si tratta di una persona anziana e molto malata». Calabresi ha comunque sottolineato che «il sistema francese per decenni ha garantito impunità a persone che si sono macchiate di gravi fatti di sangue, indipendentemente dalle loro biografie, iter giudiziari, condizioni di salute».
Estradizione negata dalla Francia agli ex terroristi, Mario Calabresi: «Impunità amara. Ora abbiano il coraggio di contribuire alla verità». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 29 Giugno 2022.
Per il giornalista «non si può pensare che il tempo possa cancellare la responsabilità o la colpa di aver tolto la vita ad un altro uomo». Pietro Granato: «Accolti in Francia come eroi, ma sono assassini». Adriano Sabbadin: «Ennesima follia, responsabili di crimini»
Mario Calabresi, che oggi ha 52 anni, riuscì a incontrare Giorgio Pietrostefani, tra gli assassini di suo padre Luigi, nel 2002 a Parigi. Un racconto che sta in La mattina dopo, storia della famiglia Calabresi scritta dall’ex direttore di Repubblica nel 2019. I due parlarono per mezzora, Pietrostefani, ex dirigente di Lotta Continua, comparve con «la barba bianca, talmente magro da sembrare la metà di quello di un tempo». In quelle pagine non c’è scritto ciò che i due si dissero. Ci sono però le parole che Gemma Calabresi ripetè per tre volte al figlio prima che vedesse Pietrostefani: «Digli che io ho perdonato, sono in pace e così voglio vivere il resto della mia vita».
Ieri, dopo che la Corte di appello di Parigi ha pronunciato un «avviso sfavorevole» alla domanda di estradizione in Italia di 10 ex terroristi riparati in Francia da decenni, la riflessione di Mario Calabresi non è stata dissimile da quella che fece allora Gemma. «Da tempo sono convinto, con mia madre e i miei fratelli, che mettere oggi in carcere Pietrostefani, condannato per l’omicidio di mio padre, non abbia più molto senso. È passato mezzo secolo, è una persona anziana e malata». Ma la decisione di rigettare la richiesta di estradizione per tutti e 10 gli ex terroristi, «senza distinzione tra biografie, iter giudiziari e condizioni di salute, ha un sapore che la mia famiglia e quelle degli altri parenti delle vittime conoscono bene. Il sapore amaro di un sistema, quello francese, che per decenni ha garantito l’impunità a un gruppo di persone che si sono macchiate di reati di sangue».
Poi Calabresi osserva: «Nella vita si può cambiare, queste persone lo avranno certamente fatto, e così si può diventare degli ex terroristi. Ma non si può pensare che il tempo possa cancellare la responsabilità o la colpa di aver tolto la vita ad un altro uomo — aggiunge il figlio del commissario ucciso il 17 maggio 1972 a Milano —. Oggi forse gli ex terroristi festeggeranno per averla scampata per sempre, ma insieme al sollievo, auguro loro di sentire un’emozione diversa: il bisogno di fare i conti con le loro responsabilità e, un istante dopo, il coraggio di fare un passo e contribuire alla verità su quei delitti».
E gli altri parenti delle vittime? «Mi sento preso in giro, è un dolore che si rinnova» dice, amareggiato e arrabbiato, Piero Granato, fratello di Michele, il poliziotto ucciso il 9 novembre 1979, a Roma, da un commando delle Brigate Rosse tra cui Roberta Cappelli, oggi 66 anni, insegnante di sostegno Oltralpe. Granato scuote la testa: «La Francia li ha sempre accolti come eroi e invece sono assassini, non si sono mai pentiti. Mio fratello aveva 24 anni quando è stato ucciso, non manchiamo mai a una sua commemorazione a Roma: lui nella giustizia ci credeva e ha pagato con la vita. Io oggi non ci credo più».
Alberto Torregiani, 58 anni, sulla sedia a rotelle per essere rimasto ferito nell’agguato dei Pac (tra i mandanti Cesare Battisti) al padre, il gioielliere Pier Luigi ucciso il 16 febbraio 1979 a Milano, si chiede «cosa c’entrino i diritti dell’uomo di cui parla la Corte, con le sentenze passate in giudicato dei nostri Tribunali...».
E Adriano Sabbadin, figlio del macellaio Lino, ucciso sempre il 16 febbraio 1979 a Santa Maria di Sala (Venezia) e sempre dai Pac (c’era Luigi Bergamin, riparato in Francia) parla di «ennesima follia. Si sono macchiati di crimini efferati, la Francia dovrebbe vergognarsi. Purtroppo è una decisione politica».
Nuova vita in Francia: dal fondatore di Lotta Continua Pietrostefani all’ex Br Petrella chi sono i 10 che non tornano. La Stampa il 29 giugno 2022.
Dal fondatore di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani, ritenuto il mandante dell'omicidio Calabresi, a Sergio Tornaghi, della colonna Walter Alasia, e Narciso Manenti, condannato all'ergastolo per l'omicidio a Bergamo dell'appuntato dei carabinieri Giuseppe Gurrieri. Erano i leader degli Anni di Piombo, quelli del terrorismo e delle esecuzioni per strada, i più difficili per Milano e per l'Italia, i dieci ex terroristi per i quali è stata oggi negata l'estradizione in Italia dalla Francia. Responsabili di attentati e omicidi, che non si possono dimenticare, Oltralpe si sono rifatti una vita normale, tra lavoro e famiglia. Giorgio Pietrostefani, abruzzese di 78 anni da giovane promettente tennista e incarichi da dirigente in prestigiose aziende, è forse il nome più noto, perché legato a una delle pagine più buie della storia italiana, quella dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi. Condannato in via definitiva in Italia come mandante di quel delitto, in Francia ha avuto residenza regolare e ha sempre lavorato, conducendo quella che il suo amico ed ex leader di Lotta Continua Adriano Sofri ha definito "la vita discreta di un vecchio uomo e nonno". Di recente sembra avere avuto alcuni problemi di salute, che l'hanno portato anche ad un trapianto di fegato. A Parigi ha incontrato Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi, ma di quel faccia a faccia non è mai stato rivelato il contenuto. In Francia ha trovato casa, moglie e un lavoro da giardiniere Narciso Manenti, 64 anni, ritenuto colpevole dell'omicidio a Bergamo, nel marzo 1979, dell'appuntato dei carabinieri Giuseppe Gurrieri, 50 anni, ucciso davanti al figlio 14enne in uno studio medico doveva aveva fatto irruzione con l'intento di sequestrare un medico che prestava servizio presso gli Istituti penitenziari di Bergamo. Marina Petrella, la 67enne ex Br responsabile in base alle condanne dell'omicidio del generale Galvaligi, lavora oggi per un'associazione che si occupa di problematiche legate agli anziani. Dopo aver sposato il brigatista Luigi Novelli, ebbe in carcere in Italia una prima figlia e, dopo essere scappata in Francia, ne ha avuto un'altra nata da una seconda unione. La sua prima figlia si è battuta per l'amnistia della madre, fin da a quando nel 2008 l'allora presidente francese Nicolas Sarkozy fermò l'estradizione di Petrella in Italia per "ragioni umanitarie": in quel periodo era ricoverata in gravi condizioni fisiche. Pendono le stesse accuse su Roberta Cappelli, 65 anni, impegnata Oltralpe come insegnante di sostegno per i bambini disabili. Giovanni Alimonti, 66enne accusato del tentato omicidio di un vicedirigente della Digos, ha lavorato come cameriere in un ristorante di Parigi, ma ha fatto anche il traduttore. Fa il ristoratore Maurizio Di Marzo, ex brigatista rosso oggi sessantenne, il cui nome è legato all'attentato al dirigente dell'ufficio provinciale del collocamento di Roma Enzo Retrosi, nel 1981. E, soprattutto, al tentato sequestro del vicecapo della Digos della capitale Nicola Simone il giorno dell'Epifania del 1982. Nuova vita, che non cancella quanto fatto in gioventù, anche per Enzo Calvitti, molisano di 67 anni; Sergio Tornaghi, condannato all'ergastolo per banda armata e anche lui protetto dalla cosiddetta dottrina Mitterand; Raffaele Ventura, 70 anni, ultima residenza Montreuil, nella regione dell'×le-de-France, condannato per concorso morale nell'omicidio a Milano del vicebrigadiere Antonio Custra; e Luigi Bergamin, 73 anni, il terrorista veneto ex ideologo dei Pac che ideò l'omicidio del maresciallo Santoro e partecipò all'esecuzione di Sabbadin.
La Corte francese si è appellata agli articoli 6 e 8 sulla Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Terroristi rossi, no all’estradizione ai 10 italiani dalla Francia: “In rispetto della vita personale, privata e della salute degli imputati”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Giugno 2022.
No all’estradizione dalla Francia all’Italia dei dieci ex terroristi rossi arrestati nell’operazione “Ombre Rosse” nell’aprile del 2021: operazione epocale, della quale si parlò per giorni e che segnò un nuovo capitolo nella storia mai chiusa degli Anni di Piombo italiani. La decisione è scaturita dalla Chambre de l’Instruction della Corte d’Appello di Parigi. Le domande di estradizione riguardavano gli ex Brigate Rosse Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi, Maurizio Di Marzio, Enzo Calvitti; l’ex militante di Autonomia Operaia Raffaele Ventura; l’ex militante dei Proletari Armati Luigi Bergamin; l’ex membro dei Nuclei armati contropotere territoriale, Narciso Manenti; l’ex Lotta Continua Giorgio Pietrostefani, condannato in Italia come uno dei mandanti dell’omicidio del commissario Calabresi.
Il parere sfavorevole della Chambre de l’Instruction della Corte d’Appello si è richiamato agli articoli 6 e 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo. Il primo stabilisce il diritto di ogni imputato “ad un equo processo”, il secondo quello “al rispetto della vita privata dell’imputato. Appellandosi a questi principi, secondo Irene Ternel, una dei legali dei terroristi, “sono stati applicati i principi superiori del diritto”, con riferimento al rispetto della vita personale, privata e della salute degli imputati e alle controverse norme del processo in contumacia.
“Francia e Italia avevano una volontà comune, hanno fatto un accordo politico sull’estradizione di queste persone, ma la giustizia oggi ha dimostrato di essere indipendente dalla linea politica del governo”, il commento dell’avvocato Jean-Louis Chalanset, difensore di Enzo Calvitti, uno degli ex capi della colonna romana delle Brigate Rosse. La Procura francese ora ha cinque giorni di tempo per fare ricorso in Corte di Cassazione.
La richiesta di estradizione era stata rinnovata nel 2021. “Il presidente ha voluto risolvere questo problema, visto che l’Italia lo chiedeva da anni. La Francia, essa stessa colpita dal terrorismo, comprende l’assoluto bisogno di giustizia delle vittime”, le dichiarazioni dell’Eliseo all’epoca che trasmettevano il cambio di politica di Parigi e di Emmanuel Macron, riflesso anche degli anni complicati che la Francia sta attraversando sotto il punto di vista della minaccia terroristica.
Dopo gli arresti, i dieci ex terroristi rossi – tutti presenti in aula, tranne Pietrostefani: 78 anni, da tempo fiaccato dalla malattia. Per le conseguenze di un trapianto, spesso è ricoverato in ospedale. È stato tra i fondatori di Lotta Continua, condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario Calabresi – erano stati rimessi in libertà in attesa delle procedure di estradizione. Alla lettura della sentenza in aula abbracci e pianti dei protagonisti con mariti, mogli, figli e parenti.
Anche una protesta: alla lettura nel tribunale di Parigi della sentenza un gruppo di italiani guidato dal deputato della Lega Daniele Belotti, ha gridato “assassini!’. Del gruppo facevano parte anche il sindaco di Telgate, in provincia di Bergamo, Narciso Manenti, e il presidente e vicepresidente dell’associazione carabinieri di Bergamo intitolata a Giuseppe Gurrieri, l’appuntato ucciso nel 1979 da Manenti davanti al figlio di 11 anni. Prima della lettura della sentenza, davanti al Palazzo di Giustizia, il gruppo aveva srotolato uno striscione di protesta. “Altro che solidarietà europea”, il commento del segretario della Lega Matteo Salvini. “Proteggere terroristi che hanno ucciso in Italia è una vergogna”. Il commento della ministra della Giustizia Marta Cartabia: “Aspettiamo le motivazioni, è una pagina dolorosa della nostra storia”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Il caso dell'estradizione degli ex br. La Francia resta sempre la patria della dottrina Mitterand. David Romoli su Il Riformista il 30 Giugno 2022
Per chi non abbia conosciuto o abbia dimenticato i metodi con cui fu condotta, sul piano del diritto, la lotta contro il terrorismo in Italia, tra la fine degli anni ‘70 e gli ‘80, può sembrare una bizzarria incomprensibile la cosiddetta “dottrina Mitterrand”, quella che ha garantito a molti imputati e condannati per reati di terrorismo di non essere estradati e il cui spirito è stato confermato dalla sentenza di ieri. Non trattandosi di una legge ma di una ispirazione mai formalizzata è impossibile fissare una data precisa per l’introduzione di quella “dottrina”. Di solito e quasi per convenzione si fa risalire la sua enunciazione a un discorso dell’allora presidente francese del primo febbraio 1985 a Rennes. Il presidente disse allora” Mi rifiuto di considerare a priori come terroristi attivi e pericolosi uomini che ono arrivati in particolare dall’Italia che sono….fuori dai giochi”. Mitterrand assicurò però che la Francia avrebbe negato ogni protezione al terrorismo “attivo, reale, sanguinario”.
La parola chiave era in tutta evidenza quel ripetuto “attivo”. La condizione posta dalla Francia per concedere l’asilo era la rinuncia alla lotta armata. Il concetto fu chiarito alcuni mesi, il 21 aprile, di fronte al congresso della Lega dei diritti umani. Mitterrand parlò chiaramente dei “rifugiati italiani che hanno preso parte ad azioni terroristiche prima del 1981” e che “hanno rotto i legami con la macchina infernale a cui hanno partecipato, hanno iniziato una seconda fase della loro vita, si sono integrati nella società francese”. Questi, concludeva il presidente socialista, “ho detto al governo italiano che erano al sicuro da qualsiasi sanzione di estradizione”. Questa periodizzazione è in realtà arbitraria. Mitterrand si era mosso in questa direzione da subito, appena eletto nel 1981. Il suo primo ministro Pierre Mauroy tracciò subito una linea di demarcazione molto precisa tra “gli irriducibili” e “i normalizzabili”. L’anno successivo il ministro della Giustizia Robert Badinter varò una riforma del diritto d’asilo che andava già decisamente nella direzione poi enunciata dal presidente. La Francia era considerata dagli ex terroristi italiani un rifugio da ben prima che Mitterrand ufficializzasse quell’indirizzo, del resto sulla base di un lavoro a cui si erano dedicati alcuni giuristi, tra cui il consigliere dell’Eliseo Louis Joinet e l’avvocato Jean-Pierre Mignard più numerosi avvocati, ufficiali di polizia e magistrati, su mandato del presidente.
Come si spiega dunque questa disposizione apparentemente incomprensibile dei vertici dello Stato francese? Con i metodi adoperati dall’Italia che scelsero di considerare lo Stato di diritto un optional al quale si poteva momentaneamente rinunciare pur di vincere la battaglia contro le formazioni armate. Il reato associativo fu allargato a dismisura, l’abuso della carcerazione preventiva diventò la norma, la contumacia non costituì ostacolo di sorta nei processi. Ricordava alcuni anni fa l’avvocato Mignard: procedure”. I fascicoli giudiziari che il gruppo di lavoro esaminava rivelavano lacune nelle procedure, impossibilità fattuali, contraddizioni evidenti e persino affermazioni ideologiche da parte dei giudici italiani. Tutto ciò era talmente insolito, mal fatto, frettolosamente arrangiato, che i dossier giunti dall’Italia non potevano far fede”. Mignard nega che Mitterrand abbia mai escluso dalla protezione francese i colpevoli di reati di sangue: “Non vi fu alcuna selezione in base ai crimini e ai reati commessi”. In materia Mitterrand, dovendosi tenere in equilibrio tra la sua dottrina e la necessità di mantenere buoni rapporti con l’Italia mantenne in realtà alcuni margini di ambiguità, resi peraltro possibili proprio dal fatto che la sua dottrina era un’indicazione e un’ispirazione mai tradotta in norme cogenti.
Circa 300 italiani hanno trovato rifugio in Francia grazie alla decisione di Mitterrand ed è opportuno segnalare che in nessun caso il patto con la Francia è stato tradito. Nessuno ha mai usato la Francia come retrovia per proseguire nell’attività terrorista. Nei decenni successivi, però, su quella norma mai formalizzata è stato ingaggiato in Francia un braccio di ferro permanente che ha tenuto in sospeso decine di persone ormai lontanissime dalle scelte che avevano fatto decenni prima. Il primo scacco alla dottrina Mitterrand arrivò nel 2002, quando, sotto la presidenza di Jacques Chirac, fu estradato l’ex br Paolo Persichetti. Due anni dopo, nel 2004, fu decisa l’estradizione di Cesare Battisti, che riparò in Brasile. Nel 2007, presidente Nicolas Sarkozy, fu accolta la richiesta di estradizione per la ex br Marina Petrella, che però non diventò esecutiva perché al caso della ex terrorista, in quel momento gravemente depressa, si interessò la moglie italiana del presidente, Carla Bruni. Gli arresti del 21 aprile 2021 sembrava dovessero chiudere per sempre la vicenda. La sentenza di ieri, implicitamente, ha confermato invece che non c’è emergenza tale da rendere lecita la devastazione dello Sato di diritto. Perché in fondo la differenza tra l’Italia degli anni di piombo e la Francia di Mitterrand era proprio questa. David Romoli
La Corte di appello rigetta la richiesta italiana. Perché la Francia ha rifiutato l’estradizione per Pietrostefani e gli altri ex Br. Frank Cimini su Il Riformista il 30 Giugno 2022
Il diritto di ogni imputato ad un equo processo e al rispetto della sua vita privata. Questi diritti non sono stati rispettati nelle vicende dei dieci ex appartenenti a gruppi della lotta armata in Italia a cavallo tra gli anni settanta e ottanta secondo la corte d’Appello di Parigi che ha rigettato la richiesta di estradizione nel nostro paese.
A rischiare l’estradizione respinta in modo secco dai giudici francesi erano Giorgio Pietrostefani condannato come mandante dell’uccisione del commissario Luigi Calabresi, gli ex Br Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi, Maurizio Di Marzio, Enzo Calvitti, l’ex esponente di Autonomia Operaia Raffale Ventura, l’ex mi, istante dei Proletari Armati per il comunismo Luigi Bergamo,l’ex dei Nuclei armati per il contropotere territoriale Narciso Manenti.
Tutti erano stati fermati ad aprile dell’anno scorso e rimessi in libertà in attesa della decisione della magistratura arrivata ieri pomeriggio e contro la quale l’Italia potrà fare ricorso amministrativo al Consiglio di Stato francese anche se l’unica impugnazione vera potrà presentarla solo la procura generale di Parigi. Per il momento vanno registrate le proteste sguaiate dei politici di casa nostra che accusano i magistrati d’Oltralpe di “proteggere gli assassini”. In prima fila ci sono Antonio Tajani di Forza Italia secondo il quale “questo non è garantismo” e Matteo Salvini che sentenzia: “È una vergogna”. Maurizio Gasparri usa la definizione di “fiancheggiamento criminale”. A iniziare il percorso approdato all’insuccesso davanti alla corte d’Appello parigina era stata la ministra Marta Cartabia ispirata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella il quale il giorno del rientro di Cesare Battisti ripreso dagli smartphone di due ministri da lui nominati aveva tuonato: “E adesso gli altri”.
Per Irene Terrel storica legale degli italiani rifugiati in Francia “sono stati applicati i principi superiori del diritto” con riferimento al rispetto della vita personale, privata e della salute degli imputati e alle molto controverse norme del processo in contumacia. Irene Terrel più volte nel corso delle udienze aveva ribadito quello che è da anni il suo pensiero relativo a un fenomeno politico che doveva e poteva essere risolto solo politicamente con un provvedimento di amnistia. Grida di gioia, abbracci e lacrime in aula alla lettura della sentenza che potrebbe aver messo la parola fine all’operazione Ombre Rosse. I dieci ex militanti dell’estrema sinistra italiana di tanti anni fa vivono da tempo in Francia, si sono rifatti una vita trovando lavoro costruendo una famiglia, diventando padri e addirittura nonni.
Giorgio Pietrostefani ex dirigente di Lotta Continua ha rischiato di tornare in manette in Italia, oltretutto in condizioni di salute precarie da tempo, per un fatto l’omicidio Calabresi che risale al 17 maggio del 1972. Sarebbe auspicabile, ma con i tempi che corrono non pare proprio scontato, che la decisione dei giudici francesi contribuisca ad avviare finalmente una riflessione seria sui cosiddetti anni di piombo. Purtroppo la debolezza della politica trova conferma pure in questa vicenda antica che però sembra essere utilizzata per governare oggi con il potere che mostra i muscoli e manifesta sentimenti di vendetta strumentalizzando il dolore dei parenti delle vittime. Va ricordato che il comportamento degli apparati statali non fu proprio da stato di diritto anche se ci sono voluti 50 anni per vedere in tv in un documentario di Sky che gli arrestati venivano torturati. L’Italia non ha ancora una legge adeguata per sanzionare la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale. Frank Cimini
Il caso degli ex militanti della lotta armata. Schiaffo di Parigi alla giustizia italiana: niente estradizione, gli ex Br non hanno avuto un giusto processo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Giugno 2022
La Magistratura francese ha negato l’estradizione, che era stata chiesta dal governo italiano, di un gruppo di ex militanti della lotta armata e anche di uno degli ex leader di Lotta Continua, Giorgio Pietrostefani. La motivazione è molto chiara. Perché nei confronti degli imputati non sono stati rispettati gli articoli 1 e 6 della convenzione europea. L’articolo 6 è quello che garantisce i diritti alla vita privata. Non è il più importante, anche se – come chiunque capisce – è l’affermazione di un principio generale di grande civiltà. Ma l’articolo 1 e la dichiarazione che l’Italia lo ha violato è il fatto veramente clamoroso. L’articolo 1 è quello che sancisce il diritto al giusto processo.
La Corte francese chiamata a giudicare, esaminati i fatti e le carte, ha stabilito che il giusto processo in Italia non era stato celebrato. Per nessuno degli ex ragazzi per i quali è stata chiesta l’estradizione. Che pure appartenevano a gruppi politici diversi ed erano accusati di diversi reati. Solo processi sommari. Capite cosa vuol dire? Che le massime autorità giudiziarie francesi ritengono che, in quegli anni, i processi, in Italia, non furono giusti processi. le condanne erano praticamente scontate e si basavano quasi esclusivamente sui pentiti e sulle loro dichiarazioni e chiamate di correo. Senza prove, senza riscontri, senza contraddittorio.
In realtà fu esattamente così. E la decisione della Corte francese che riguarda Pietrostefani forse è la più clamorosa, perché si riferisce al processo più recente, quello contro Sofri, lo stesso Pietrostefani e Bompressi, condannati senza prove a circa vent’anni di prigione per l’uccisione del commissario Calabresi. Sofri ha scontato la pena e si è sempre dichiarato innocente. I francesi confermano quello che in Italia è stato sostenuto da una pattuglia non piccolissima di intellettuali e politici di destra e di sinistra. Processo ingiusto. Il problema resterà sulla carta? Come si può risolvere una questione così grande per l’onore della magistratura italiana. Forse solo con l’amnistia.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il segreto: un giudice autonomo, indipendente e imparziale. Estradizione di Pietrostefani ed ex Br, dalla Francia una lezione di diritto all’Italia. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1 Luglio 2022
Il Giudice ha parlato. Chi ha rifiutato l’estradizione di nove condannati italiani per fatti di terrorismo e di Giorgio Pietrostefani, accusato di aver organizzato l’omicidio del commissario Calabresi, cioè la Chambre de l’Instruction della Corte d’appello di Parigi, è un Giudice. Cioè un organo autonomo, indipendente e imparziale. Le cui sentenze andrebbero rispettate anche quando non condivise, come ci spiegano ogni giorno, non sempre a proposito, magistrati, giornalisti, e partiti politici. Invece, a quanto pare, l’unico a ricordarsene è il Presidente Macron da cui dipendono, secondo l’Ordinamento francese, i Pubblici Ministeri, ma non, ovviamente, i giudici. La sua dichiarazione, quasi “estorta” dai cronisti nel corso della conferenza stampa al vertice Nato, è quanto di più diplomatico potesse essere, visto il contesto e anche la sentenza, un po’ a sorpresa, della Corte d’Appello di Parigi.
“Non è mia norma – ha detto il Presidente – giudicare le decisioni della giustizia, ma posso dire che appoggio politicamente l’Italia nella sua domanda di estradizione”. Non poteva parlare diversamente, dopo aver stipulato un accordo con il premier italiano Draghi tramite un patto di ferro tra la guardasigilli Cartabia e il ministro Dupond-Moretti che impegnava i due Stati in una comune battaglia politica perché si superasse quella “dottrina Mitterand” che, fin dai tempi del leader socialista, aveva garantito la Francia come Paese dell’ospitalità e dell’asilo per chi è accusato di reati politici, anche gravi, purché prenda le distanze dal terrorismo e conduca una vita “regolare” nella terra che lo ospita. Regola cui i dieci italiani giudicati due giorni fa si sono sempre attenuti. Così come gli altri duecento che l’Italia avrebbe voluto fossero estradati, prima che i due Paesi arrivassero alla mediazione su un gruppo molto più ristretto ma significativo, soprattutto per la gravità dei reati.
Macron con il suo “valuteremo”, non si è sbilanciato più di tanto sulle intenzioni del governo rispetto alla possibilità di un ricorso in cassazione tramite il Procuratore generale. È una decisione politica, che rischia però, qualora fosse adottata, di andare a sbattere di nuovo contro un’altra decisione dei giudici, quelli della cassazione, che potrebbero essere più rigorosi ancora di quelli dell’appello. Perché occorre essere chiari. In Italia, in un improvviso rigurgito di nazionalismo patriottico, tutti i partiti di destra e sinistra o centro, insieme a tutta la stampa e l’opinione pubblica, si sono scagliati contro la “dottrina Mitterand” che impedirebbe all’Italia di giudicare e punire i propri assassini. Ma qui stiamo parlando della sentenza di un tribunale, non di un accordo tra Stati. E bisogna avere il coraggio, e anche il pudore, nell’attesa di motivazioni più articolate, di leggere attentamente quei due articoli, il 6 e l’8, della Convenzione dei diritti dell’uomo, sottoscritta anche dall’Italia, su cui si è fondato da parte dei giudici il rifiuto di estradare Pietrostefani e gli altri nove. Non stiamo parlando di bagatelle.
L’articolo 6 dice che “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale..”. Seguono poi una serie di precisazioni sui diritti dell’imputato, che ne presumono la presenza e la possibilità concreta di difendersi con una forza che sia il più possibile simile a quella dello Stato che lo accusa. È il principio dell’habeas corpus, che contrasta in modo tangibile con la condizione di contumacia, cioè di assenza, in cui è stata giudicata in passato in Italia la maggior parte dei condannati su cui ha deciso la corte d’appello di Parigi. Ma potrebbe non essere questo l’unico motivo che ha determinato i giudici a rifiutare le estradizioni: non dimentichiamo il clima di emergenza in cui si sono celebrati i processi sui fatti degli anni ’70 e ’80, con l’uso smodato dei reati associativi, dei concorsi morali e della parola dei “pentiti”.
Se a tutto ciò si aggiunge la citazione, nella sentenza, dell’articolo 8 della Convenzione europea, che invoca il “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”, si capisce quanto sia stretta la via per l’Italia per ottenere le estradizioni. Del resto, che giustizia sarebbe mettere in galera un gruppetto di anziani, dopo trenta-quaranta anni dai fatti, se pur tragici? Persone che da tempo non hanno nessuna somiglianza con gli sciagurati ragazzi che furono? Sarebbe soddisfazione, per lo Stato italiano e i parenti delle vittime, o sarebbe solo una misera e povera piccola vendetta?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Ex Br, lo schiaffo di Parigi Respinta l'estradizione. Luca Fazzo il 30 Giugno 2022 su Il Giornale.
I giudici francesi insultano le vittime e negano all'Italia il trasferimento di dieci terroristi rossi
«Ogni rivoluzionario ha due patrie, il paese dove è nato e la Francia», diceva il vecchio capo di Potere Operaio, Oreste Scalzone. E il mito della Francia, madre e rifugio, amica e complice, si conferma ieri per l'ennesima volta, con la decisione che suona come una beffa per le promesse elargite appena un anno fa a Mario Draghi dal suo omologo transalpino Emmanuele Macron. I terroristi latitanti che con fragore di telecamere erano stati arrestati nell'aprile 2021, «Operazione Ombre Rosse», non verranno estradati in Italia. Non pagheranno i loro crimini, e nemmeno verranno chiamati - primo tra tutti Giorgio Pietrostefani, l'organizzatore del delitto Calabresi - a raccontare finalmente la verità. Sotto tutte le latitudini politiche, la «dottrina Mitterand», il diritto d'asilo ai terroristi, continua a dettare legge in Francia.
A sancire lo schiaffo all'Italia è la Corte d'appello di Parigi, che da mesi tergiversava sulla richiesta di estradizione: e che ieri d'improvviso, lasciando spiazzati gli stessi difensori che si aspettavano un altro rinvio, emette la sentenza. La sorpresa è tale che nell'aula parigina latitanti e avvocati ci mettono un po' a capire che è davvero finita: e partono gli applausi, gli abbracci, le lacrime di gioia. A venire salvati, e a questo punto per sempre, sono insieme a Pietrostefani nomi grandi e piccoli delle bande armate comuniste che insanguinarono gli anni Settanta e Ottanta, da Marina Petrella - direzione della colonna romana delle Brigate rosse, assassina a sangue freddo del poliziotto Michele Granato, a Luigi Bergamin, complice di ammazzamenti di Cesare Battisti, il leader dei Proletari armati per il Comunismo - tutti coperti dall'indulgenza plenaria della giustizia francese, in un mischione che fa dire a Mario Calabresi, figlio del commissario ucciso da Lotta Continua: «La decisione di rigettare in blocco la richiesta di estradizione senza fare distinzione tra le diverse biografie, gli iter giudiziari, le condizioni di salute, ha un sapore che la mia famiglia e quelle degli altri parenti delle vittime conoscono molto bene. Il sapore amaro di un sistema, quello francese, che per decenni ha garantito l'impunità ad un gruppo di persone che si sono macchiate di reati di sangue».
Il nostro ministro della Giustizia, Marta Cartabia, che un anno fa aveva officiato la svolta (apparente) dei rapporti con la Francia, ieri invita a aspettare le motivazioni della decisione della Corte parigina. Quanto trapela da Parigi è già sufficiente per farsi una idea della sponda utilizzata dai giudici per confermare l'asilo ai latitanti: a giustificare il diniego sono due articoli della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, il primo riguarda la tutela della vita familiare, il secondo il diritto a un giusto processo. Ma senza le motivazioni è arduo capire come questi principi siano stati applicati a imputati processati secondo tutti i crismi, e in alcuni casi - come Pietrostefani - assistendo personalmente alle udienze.
A botta calda, appena la notizia-choc arriva da Parigi, in Italia si cerca di capire se esistano ancora dei margini per non considerare chiusa la faccenda. Francesca Nanni, procuratore generale di Milano, che ha sul suo tavolo i verbali di ricerca di due dei terroristi graziati ieri, fa sapere che «posso valutare nei prossimi giorni l'esistenza nell'ordinamento francese di un'impugnazione», ma la cautela dei toni racconta bene come la sensazione prevalente sia che la partita sia persa. È un colpo duro per i parenti delle vittime, che l'anno scorso avevano visti aprirsi speranze di giustizia. E masticano amaro i magistrati che avevano lavorato febbrilmente, dopo l'accordo tra Draghi e Macron, per ricostruire a tempo di record i profili giudiziari dei latitanti, condensando le loro storie processuali nei dossier da sottomettere alla magistratura francese. Proprio la segretezza del lavoro di quelle ore, prima dell'annuncio in grande stile della retata del 28 aprile, aveva fatto sperare che fosse la volta buona. Invece no, tutti salvi. L'avvocato di Pietrostefani festeggia: «La Francia ha deciso 25 anni fa che l'avrebbe accolto e le persone non sono pacchi postali che possono essere rispediti indietro».
Stefano Zurlo per “il Giornale” il 30 luglio 2022.
L'apparato e il sistema giudiziario hanno vinto sulla politica. La Francia si è issata sui propri pregiudizi e ha sconfitto il tentativo di cambiamento del presidente Macron. Finisce in modo imprevisto la storia dei dieci ex terroristi, invecchiati nell'esilio di là delle Alpi e protetti per decenni dai magistrati, dai funzionari, dalla burocrazia, dagli intellettuali.
Nell'aprile del 2021 era arrivata la svolta: il riconoscimento da parte dell'Eliseo che la dottrina Mitterand era stata applicata oltre ogni decenza. Tutelando non esuli politici perseguitati in patria, ma gli autori di alcuni dei più efferati delitti degli anni di piombo.
Sembrava che si dovesse voltare pagina. Ma oggi scopriamo che il vento del rinnovamento si è fermato anche a Parigi. E, sia detto senza retorica, è difficile immaginare un'Europa unita quando le sentenze italiane, non le sparate di qualche politico, vengono cestinate come carta straccia.
Per mesi si è assistito a un duello nemmeno tanto sotterraneo: da una parte il triangolo istituzionale formato dal presidente Macron, dal ministro della giustizia Eric Dupond-Moretti, che ha pure la nazionalità italiana ed è in pessimi rapporti con le toghe, e dall'ambasciatore a Roma Christian Masset che parla perfettamente la nostra lingua; dall'altra parte il sistema, come l'hanno ribattezzato Mario Calabresi e la sua famiglia, che ha neutralizzato con motivazioni tecniche e giuridiche le mosse dell'esecutivo.
Masset si è speso con abnegazione per far capire a Roma che la musica non era più quella di prima e Parigi aveva fatto finalmente fatto autocritica: l'Italia degli anni Settanta non era il Paese delle torture e delle leggi speciali, dei processi all'ingrosso, una specie di Sudamerica di qua delle Alpi.
La magistratura francese ha reagito tirando fuori tutto l'arsenale delle possibili motivazioni: la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, le libertà individuali, il rispetto del giudizio in contumacia, il precedente storico di decisioni favorevoli agli ex brigatisti, prese trent' anni fa sempre sotto l'ombrello ambiguo della dottrina Mitterand. Tutto e di più per mettere in crisi quel che a prima vista era ineccepibile.
Come si fa a prendere le parti di assassini spietati che hanno ammazzato con ferocia e hanno attaccato la nostra democrazia seminando lutti e distruzioni?
A Parigi si sono ostinati e arrampicati sugli specchi, fino a sfiorare l'assurdo: abbiamo assistito per anni a intemerate contro i verdetti che avevano inchiodato alle sue tragiche responsabilità Cesare Battisti, il capo dei per nulla gloriosi Proletari Armati per il Comunismo. Battisti, come tanti altri, è stato presentato come la vittima di inenarrabili complotti orditi non si sa bene da chi nel nostro sventurato Paese.
È stato vezzeggiato e corteggiato, ammirato persino con una punta di inguardabile romanticismo. Poi è scappato in Brasile, dove l'ignobile farsa è andata avanti finché, alla fine del 2018, è stato abbandonato al suo destino e rispedito a Roma. Qui l'eroico combattente ha confessato i crimini che tutti già conoscevano.
La claque è stata zittita, ma solo per un attimo e la mischia si è riaccesa sul pacchetto di quegli ultimi superstiti del partito armato. Simboli ormai invecchiati e lontani da quella stagione avvelenata, ma ancora importanti, perché la verità e il dolore non temono il tempo.
«Quel che è certo - riassume Jean Louis Chansalet, legale di Enzo Calvitti - è che c'era la volontà politica comune di Italia e Francia di arrivare all'estradizione, ma la giustizia ha mostrato di essere indipendente e non ha seguito gli ordini del governo francese».
Appunto, un braccio di ferro. Risolto naturalmente con le armi del diritto: «Il mio assistito - conclude Chansalet - era già stato giudicato in Francia 32 anni fa. Da un punto di vista giuridico la richiesta di estradizione non poteva tenere, il governo francese avrebbe dovuto saperlo».
Chissà, il calendario della giustizia non è quello del Palazzo. Ma, combinazione, la decisione è arrivata subito dopo le elezioni legislative e il tonfo di Macron che ha perso la maggioranza assoluta. I titoli della débâcle e poi lo schiaffo al Presidente.
Macron dice che appoggia l’estradizione dei dieci italiani arrestati in Francia. Il Domani il 30 giugno 2022
La richiesta del governo italiano riguardava dieci ex militanti di estrema sinistra condannati per terrorismo ed era stata respinta dalla Corte d’appello di Parigi. Ora il presidente francese dice che sta valutando la possibilità di un ricorso
Il presidente francese Emmanuel Macron dice che continua a sostenere la richiesta del governo italiano di estradare in Francia i dieci ex militanti di estrema sinistra condannati per terrorismo e arrestati lo scorso aprile. «Devono essere giudicati sul suolo italiano», ha detto Macron.
La richiesta di estradizione era stata bocciata questa settimana dalla Corte d’appello di Parigi. Macron, che si trovava a Madrid per il vertice Nato, ha detto in conferenza stampa che il suo governo deve ancora esaminare le motivazioni della decisione, ma che se ci saranno i margini è pronto per portare la questione in Cassazione. «Non posso dire di più se non reiterare la nostra volontà politica, che è stata di collaborare con il governo italiano su questa materia», ha detto Macron.
GLI ARRESTATI
Le dieci persone per cui è stata richiesta l’estradizione erano state arrestate in Francia alla fine dello scorso aprile, durante un’operazione congiunta della polizia francese e italiana chiamata “Ombre rosse”.
Oltre a Giorgio Pietrostefani, uno dei fondatori del gruppo Lotta Continua, si tratta di sei ex membri delle Brigate rosse, un militante dei Nuclei armati di contropotere, uno del gruppo Proletari armati per il comunismo e infine uno delle Formazioni comuniste combattenti.
Tutti e dieci sono già stati condannati per fatti di sangue da tribunali italiani, ma hanno trovato rifugio in Francia tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Fino ad oggi erano stati protetti dalla cosiddetta “dottrina Mitterrand”, dal nome del presidente francese François Mitterrand, una pratica informale per cui la Francia ha quasi sempre negato l’estradizione di persone coinvolte nell’estremismo politico, in particolare se condannati per fatti non di sangue.
Nel corso della conferenza stampa di Madrid, Macron ha confermato che la sua intenzione è di continuare a operare in accordo con questi precedenti: «La Francia ha respinto soltanto le richieste di estradare persone che non erano implicate in reati di sangue. In questo caso, queste persone sono coinvolte in reati di sangue e meritano di essere giudicate sul suolo italiano. Questa è una questione di rispetto dovuto alle famiglie delle vittime e alla nazione italiana».
LE REAZIONI IN ITALIA
La decisione della Corte d’appello di Parigi di respingere la richiesta di estradizione aveva causato critiche trasversali da tutti i principali partiti, dalle associazioni delle vittime e dai sindacati di polizia. Una scelta che «suscita inquietudine e profondo turbamento», l’ha definita il senatore del Pd Dario Parrini. «Mi auguro che l'aula si ricordi di questo atteggiamento francese quando martedì prossimo arriverà in aula la ratifica del Trattato del Quirinale tra Italia e Francia», ha detto il senatore di Fratelli d'Italia Giovanbattista Fazzolari.
Per la Confederazione sindacale autonoma di polizia (Consap), quella francese è una decisione «vergognosa ed irrispettosa della giustizia italiana». Ciro Iozzino, fratello di Raffaele, uno dei cinque agenti della scorta di Aldo Moro uccisi nell'agguato di via Fani, ha detto che «non è giusto che la Francia neghi l'estradizione dei dieci ex terroristi rossi: hanno commesso reati pesanti sul territorio italiano, pertanto la pena devono scontarla nel nostro Paese».
Di opinione opposta l'avvocato Davide Steccanella, che difende Cesare Battisti, ex membro dei Proletari armati per il comunismo, a lungo rifugiato in Francia ed estradato dalla Colombia all’Italia nel 2019. «Ora chiudiamo quella fase storica: o con l'amnistia per chi, come Battisti, è ancora detenuto in Italia, oppure cercando forme alternative al carcere di espiazione della pena», ha commentato Steccanella.
Br, Macron sconfessa i giudici francesi "Processo in Italia". Fabrizio De Feo l'1 Luglio 2022 su Il Giornale.
L'Eliseo: "Valuteremo l'eventuale ricorso". Fdi: "Che ne è del Trattato del Quirinale?"
«Il processo agli ex terroristi italiani si faccia in Italia». È un segnale politico importante quello che arriva da Parigi, una conferma della nuova impostazione politica di Emmanuel Macron, deciso a recidere le interpretazioni eccessivamente estensive della cosiddetta «dottrina Mitterand». Il presidente francese, all'indomani della decisione della Corte d'Appello che ha negato l'estradizione, fa sapere che la Francia valuta il ricorso. Macron esprime la «volontà politica di collaborare con il governo italiano» per l'estradizione degli ex militanti dell'area dell'estrema sinistra accusati di reati legati al terrorismo negli Anni di piombo e rifugiatisi in Francia.
«Per quanto riguarda le decisioni del sistema giudiziario francese, per definizione, non mi pronuncio su di essa. In ogni caso, ho detto che politicamente sostenevo l'approccio, e che appoggiavo la richiesta del governo italiano per quanto riguarda questi brigatisti, in accordo peraltro con la dottrina che la Francia ha sempre avuto», spiega Macron, rispondendo a un giornalista durante la conferenza stampa al termine del vertice Nato di Madrid. «Perché la Francia - ha ricordato - aveva respinto solo le richieste di estradizione di persone non coinvolte in crimini di sangue. In questo caso specifico - fa notare il presidente francese - queste persone sono state coinvolte in crimini di sangue e meritano di essere processate sul suolo italiano. Questo è il rispetto che dobbiamo alle famiglie delle vittime e alla nazione italiana». Ora, continua Macron, «è stata presa una decisione legale. Questa decisione non è nota oggi, ma il suo risultato è comunque noto. Io non l'ho visto scritto. Ma spetta a noi, nelle prossime ore, verificare se è possibile un ricorso alla Corte Suprema, o in ogni caso, se ci sono ancora canali giurisdizionali che ci permettano di andare oltre». «Quindi non posso dirvi altro, se non ribadire la volontà politica di collaborare con il governo italiano su questo tema e di farlo in coerenza con la linea che è sempre stata della Francia. Tutto dipende ora, in questo caso, da altre questioni legali e giurisdizionali».
Il livello di attenzione politica sulle mancate estradizioni, all'indomani della sentenza della corte francese, resta alto e le polemiche non mancano, riverberandosi anche sulla ratifica del Trattato del Quirinale, firmato nel novembre scorso da Emmanuel Macron e Mario Draghi, un documento che dovrebbe rilanciare un nuovo asse di cooperazione franco-italiano. «La Francia nega l'estradizione in Italia di 10 terroristi delle Brigate Rosse in quanto nella nostra Nazione non sarebbe garantito il giusto processo. Mi auguro che l'Aula si ricordi di questo atteggiamento francese quando martedì arriverà la ratifica del Trattato del Quirinale tra Italia e Francia» dichiara in Aula il senatore di Fdi, Giovanbattista Fazzolari. Protesta anche il collega Andrea Delmastro. Il trattato all'articolo 4 prevede la cooperazione giudiziaria e di polizia, la consegna delle persone e la lotta coordinata al terrorismo.
Si fa sentire anche la voce delle forze di polizia italiane, attraverso il Consap. «A volte la tempistica esalta l'illogicità. Nel paese d'Oltralpe cambiano i tempi ma non la dottrina Mitterand - dichiara il segretario Cesario Bortone - per il sindacato di polizia quella della corte d'appello di Parigi è una sentenza irrispettosa della giustizia italiana. Tra i terroristi figurano tra gli altri anche pluriomicidi. Un caso a parte poi la questione di Giorgio Pietrostefani da quello che il suo sodale Adriano Sofri ha definito vecchio uomo e nonno, ancora aspettiamo la verità sul vile agguato costato la vita al commissario Calabresi».
Da corriere.it il 4 luglio 2022.
La procura generale di Parigi ricorre in Cassazione contro il rifiuto all’estradizione dei 10 ex terroristi rossi italiani. Lo annuncia la stessa procura. Nei giorni scorsi la Chambre d’instruction aveva rigettato la richiesta di arresto e riconsegna all’Italia di dieci reduci degli anni di piombo condannati a pene definitive che vivono in Francia in stato di libertà.
La decisione della magistratura parigina era nell’aria: anche il presidente francese Emmanuel Macron aveva dichiarato appoggio politico alla richiesta dell’Italia di riavere i terroristi attraverso il ricorso in Cassazione. Ora si riapre la partita giudiziaria: sarà necessaria un’altra udienza per decidere la sorte dei dieci condannati. Macron aveva un anno fa accantonato la «dottrina Mitterrand» grazie alla quale era stato garantito asilo ai terroristi fuggiti in Francia. La Chambre d’instruction aveva rigettato l’estradizione in Italia contestando gli articoli 6 e 8 della Carta dei dritti dell’uomo e in particolare sollevando dubbi sul fatto chele condanne in Italia, pronunciate in contumacia, non avrebbero garantito il diritto di difesa degli imputati.
Anais Ginori per “la Repubblica” il 5 luglio 2022.
Il procedimento per l'estradizione di dieci italiani condannati per terrorismo negli Anni di Piombo e rifugiati in Francia non è ancora finito. Il procuratore generale Remy Heitz ha impugnato davanti alla Cassazione il parere sfavorevole annunciato dalla Corte di Appello di Parigi la settimana scorsa.
Heitz era l'unico che poteva fare appello, l'Italia non aveva infatti possibilità di intervenire nel procedimento aperto nella primavera dell'anno scorso, dopo che l'Eliseo aveva dato il via libera all'esame delle richieste arrivate da Roma.
La Chambre de l'Instruction della Corte d'Appello, organo competente per le estradizioni, aveva motivato il suo rifiuto con il riferimento agli articoli 8 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo sul rispetto della vita privata e familiare e sul diritto ad un processo equo. Un caso a parte è quello dell'ex dirigente di Lotta Continua, Giorgio Pietrostefani, su cui ha pesato invece lo stato di salute. Pietrostefani, 78 anni, trapiantato di fegato, è soggetto a continui ricoveri e cure che i suoi legali avevano ricordato durante le udienze. L'ex militante Lc, condannato per l'omicidio di Luigi Calabresi, aveva partecipato solo alla prima udienza, nell'aprile 2021, apparendo debole e affaticato, ribadendo la sua innocenza davanti alla Corte. Secondo i magistrati Pietrostefani potrebbe soffrire «conseguenze di eccezionale gravità» nel caso di un'estradizione in Italia.
Le altre domande pendenti dall'Italia riguardano gli ex Br Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi, Maurizio Di Marzio, Enzo Calvitti, l'ex militante di Autonomia Operaia Raffaele Ventura, l'ex militante dei Proletari armati Luigi Bergamin e l'ex membro dei "Nuclei armati contropotere territoriale", Narciso Manenti. Per la maggior parte di loro i magistrati hanno contestato le condanne in contumacia che violerebbero le garanzie alla difesa, anche se si sono volontariamente sottratti alla giustizia italiana. Nell'ordinamento francese, i condannati in contumacia hanno sempre diritto a un secondo processo, mentre in Italia questa possibilità è sottoposta a una serie di condizioni.
Era stato Emmanuel Macron a suggerire la possibilità di un ricorso contro la decisione della Corte d'Appello, ricordando di aver «sostenuto la richiesta del governo italiano per l'estradizione». Macron, sensibilizzato sul dossier anche nei suoi colloqui con il presidente Sergio Mattarella, aveva deciso nel 2021 la svolta sulla Dottrina Mitterrand che avvelena da quarant' anni i rapporti bilaterali.
L'operazione "Ombre rosse", con l'apertura del procedimento per dieci rifugiati italiani, era stata preceduta da un lungo lavoro di preparazione delle cancellerie e dal dialogo avviato tra Guardasigilli Eric Dupond-Moretti e Marta Cartabia. «È un ricorso meramente politico, uno scandalo. Il capo dello Stato calpesta la separazione dei poteri » attacca Irène Terrel , la storica avvocata dei fuoriusciti della lotta armata. «Comunque questo ricorso non ha alcuna possibilità di andare in porto in quanto è una materia in cui è sovrana la Corte di Appello».
Dello stesso tenore le parole dell'avvocato di Pietrostefani: «Era prevedibile, c'è stata una grande spinta politica » commenta Alessandro Gamberini, aggiungendo che la Procura generale parigina «ha un rapporto diretto col potere politico, a differenza delle nostre Procure generali».
Ora il procuratore Heitz ha un mese di tempo per depositare il ricorso che, di norma, si basa su questioni strettamente di "violazioni di legge" nel dispositivo di una sentenza. La Chambre d'Instruction è arrivata al rigetto in blocco delle dieci domande dopo un lungo e approfondito esame della documentazione arrivata dall'Italia, con diverse udienze in cui era presente anche un avvocato a rappresentare lo Stato italiano.
L'ultima carta francese. Parigi non si arrende, ricorso in Cassazione contro gli ex Br: una scelta politica di Macron per accontentare Cartabia e Mattarella. Frank Cimini su Il Riformista il 5 Luglio 2022
La procura generale di Parigi non demorde. Ha formalizzato l’impugnazione della decisione con cui il 29 giugno scorso la corte d’Appello sezione istruttoria aveva rigettato la richiesta di estradizione in Italia per dieci ex appartenenti a gruppi della lotta armata responsabili di fatti reato che risalgono a 40 anche 50 anni fa.
Dunque formalmente tutto ritorna in discussione in attesa della decisione della Cassazione per Giorgio Pietrostefani, il dirigente di Lotta Continua condannato come mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi, da tempo in precarie condizioni di salute, per gli ex brigatisti Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi, Maurizio di Marzio, Enzo Calvitti, per l’ex militante di Autonomia Operaia Raffaele Ventura, per l’ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo Luigi Bergamin e per Narciso Manenti dei Nuclei Armati per il contropotere territoriale.
Va ricordato che la procura di Parigi esercitando il ruolo dell’accusa nel corso dei quindici mesi di udienze non aveva concluso con la richiesta di dare avviso favorevole all’estradizione come era quasi sempre accaduto in situazioni del genere. La procura della capitale francese aveva sollecitato un supplemento di informazioni all’Italia e chiesto se il nostro paese fosse in grado di celebrare nuovamente i processi degli estradandi perché in passato erano stati condannati in loro assenza.
L’Italia sul punto non ha mai dato una risposta certa perché a causa della differenza di ordinamenti tra Il nostro paese e la Francia non si poteva procedere in tal senso. Oltralpe non sono possibili deroghe alla contumacia per cui la corte d’Appello decideva che in Italia nella lotta al terrorismo era stato violato il principio del doppio processo. Inoltre la richiesta di estradizione presentata a tanti anni dai fatti violava pure la vita privata di persone residenti da tempo in Francia.
A questo punto però la procura generale che in Francia dipende dal ministero della Giustizia ha scelto di giocare l’ultima carta anche se ricorsi del genere davanti alla Cassazione nella lunga storia dei processi estradizionali non hanno mai ribaltato la situazione.
La decisione di impugnare ha un sapore molto politico nel senso di cercare di tener fede all’impegno che il presidente Macron e il ministro della giustizia Dupont Moretti avevano preso con l’Italia nel momento in cui il guardasigilli Marta Cartabia aveva inoltrato le richieste mettendo tra l’altro in pratica una precisa volontà del presidente Mattarella che il giorno del ritorno di Cesare Battisti aveva annunciato: “E adesso gli altri”.
Frank Cimini
Il ricorso della Procura. Estradizione ex Br, i legali contro Macron: “Viola la separazione dei poteri”. Frank Cimini su Il Riformista il 12 Luglio 2022
Gli avvocati dei rifugiati politici italiani in Francia a rischio di estradizione in una conferenza stampa accusano il presidente Macron di aver svuotato lo stato di diritto e violato il principio fondamentale della separazione dei poteri. “C’è la volontà di rimettere in discussione la dottrina Mitterand” ha detto l’avvocato Antoine Comte. I legali criticano la presa di posizione di Macron che sta dietro la decisione del procuratore generale di Parigi di ricorrere in Cassazione contro la decisione della corte di Appello che il 29 giugno scorso aveva dato avviso sfavorevole all’estradizione in Italia di dieci ex appartenenti a gruppi della lotta armata, lamentando la violazione di due articoli della convenzione europea relativi all’equo processo e alla violazione della vita privata.
Secondo Jean Paul Chagnollaud, professore di scienze politiche, il presidente Macron non può fare tutto quello che vuole avendo il dovere di rispettare le garanzie. Irene Terrel, che da sempre difende gli ex militanti della sinistra italiana, ha ricordato che si tratta di fatti risalenti a quaranta anni fa. La compagna di uno dei candidati all’estradizione ha letto un messaggio denunciando un “incomprensibile accanimento” e dichiarando che è loro intenzione “combattere fino alla fine”. Ad aprile dell’anno scorso con l’operazione “Ombre Rosse” su richiesta delle autorità italiane venivano fermati i dieci ex militanti di gruppi di lotta armata per poi essere rimessi in libertà in attesa delle decisioni della magistratura. Macron affermava subito di voler soddisfare la richiesta della ministra della Giustizia Marta Cartabia, da tempo in contatto col collega francese Dupont Moretti. Di recente intervistato dai giornalisti al vertice di Madrid il presidente francese ribadiva la propria posizione e veniva accusato dai legali dei rifugiati di interferire nella vicenda giudiziaria.
In Francia l’ufficio della procura generale dipende dal ministero della Giustizia e questo spiega il ricorso in Cassazione per ribaltare la decisione della corte di Appello che in Italia aveva suscitato la protesta sia della politica che della magistratura per una volta unite nel lamentarsi. Ispiratore dell’iniziativa del ministro Cartabia del resto era stato il presidente Mattarella già il giorno del rientro di Cesare Battisti. “E adesso gli altri” erano state le sue parole. La Cassazione francese dovrebbe impiegare almeno sei mesi per decidere sul ricorso che secondo gli avvocati dei rifugiati è inammissibile, perché istanze del genere possono riguardare solo questioni di legittimità e non certo il merito delle vicende giudiziarie. Frank Cimini
«Ho difeso Vallanzasca e Battisti: per loro non vale “la legge è uguale per tutti”». Parla l'avvocato Davide, autore del libro “La giustizia degli uomini. Racconti di tribunale”. «Chi organizza processi tv non è mai stato in tribunale». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 12 luglio 2022.
«L’avvocato è un mestiere che, secondo alcuni, neppure dovrebbe esistere. Quante volte mi è stato infatti chiesto, con dissimulata malizia: “Come fai a difendere un assassino?”, o uno stupratore, un mafioso, un pedofilo o anche un bancarottiere, un poliziotto corrotto, un truffatore, aggiungo io. Il codice penale, come la vita, è ricco di figure “devianti”». È questa una delle prime riflessioni contenute nel libro “La giustizia degli uomini. Racconti di tribunale” (Mimesis edizioni, pp. 238, Euro 18) di Davide Steccanella, avvocato del Foro di Milano con quasi quarant’anni di esperienza professionale.
Tra i suoi assistiti Cesare Battisti e Renato Vallanzasca. «Il primo – scrive l’autore – è semplicemente l’emblema del terrorista mentre il secondo è semplicemente l’emblema del criminale, con buona pace del loro diritto a essere trattati e giudicati in modo giusto».
Avvocato Steccanella, nel suo libro c’è tanto di autobiografico. Un tributo a una professione che lei ama e che sta profondamente cambiando?
Io ho raccontato semplicemente quello che è capitato a me ed è tutto vero. Più che un tributo alla professione, il mio libro nasce dalla volontà di far sapere a chi non lo bazzica come funziona in Italia il sistema giustizia, perché ero stufo di assistere a continui processi in tv o sui media fatti da chi non ha mai messo piede in un’aula di tribunale. Ho pensato, se volete continuare a commentare i processi in corso seguendo la moda di quello che io chiamo nel capitolo iniziale il fenomeno del “panpenalismo”, ossia “l’irresistibile propensione a introdurre, indipendentemente da qualunque fenomenologia criminale e da qualunque osservazione degli effetti che le pene producono concretamente, nuove figure di reato al fine di soddisfare un sempre più diffuso giustizialismo di tipo popolare”, allora vi racconto cosa succede davvero tra quelle quattro mura.
Lei scrive in maniera provocatoria ma non troppo: “Chi preferisce pensare che in tribunale venga sempre accertata la verità assoluta, farà meglio ad abbandonare subito la lettura”. È il disincanto di chi indossa la toga da tanti anni?
Non è tanto un disincanto, spero di essere riuscito a trasmettere anche una certa fiducia nell’importanza della giustizia e che mai come in questo periodo percepisco come affievolita nella communis opinio, perché non è vero che, come diceva Bartali: “Gli è tutto sbagliato e tutto da rifare”. Però, è anche giusto sottolineare che, come titola il libro, la giustizia è amministrata dagli uomini, che sono per definizione fallibili, per cui non si deve pensare che il processo sia come un computer, dove, se inserisci determinati dati, il risultato è matematico. Una sentenza si basa sempre sulla “verità processuale”, ovvero su quanto le parti in contesa hanno allegato al giudice, e non sempre corrisponde a quanto è davvero accaduto nella realtà. Le sentenze vanno rispettate, ma è sbagliato ritenerle vangelo assoluto, tanto è vero che il nostro ordinamento consente alla parte soccombente di impugnarle in due successivi gradi di giudizio, uno di merito e uno di legittimità.
Diventare avvocato non è facile e, forse, rispetto al passato questa professione attira di meno. È altrettanto difficile conservare la toga sulle spalle?
Oggi il mestiere dell’avvocato, come molti altri peraltro, è molto cambiato rispetto a quando ho iniziato io. Ai miei tempi era fondamentale un bravo maestro che, come gli artigiani di una volta, ti insegnava l’arte nella bottega, e io da questo punto di vista sono stato molto fortunato a trovare sin da subito l’avvocato Lodovico Isolabella, che era non solo un grande avvocato ma anche un grande uomo. Soprattutto in città come Milano, il mercato impone a chi si affaccia alla professione di entrare in grandi studi all’americana aperti ventiquattr’ore su ventiquattro, che forniscono un servizio completo ai propri clienti creando dipartimenti di esperti in ogni settore del diritto. Non dico che questo lo abbia reso più difficile, ma certo lo ha reso meno affascinante.
Il mito del singolo avvocato che sceglie di impegnarsi per garantire “giustizia” non esiste più neppure nel diritto penale, salvo poche eccezioni che proprio per questo meritano il massimo rispetto. Di recente ho letto un libro scritto dall’avvocato Gabriele Fuga, il quale, raccontando la propria esperienza di detenuto negli anni dell’emergenza terrorismo, a causa delle calunnie di un ex cliente “pentito”, disse ai propri giudici che un avvocato deve mantenere il segreto sulle confidenze fattegli dal suo assistito anche se queste potrebbero scagionarlo. Nel mio libro, oltre a Isolabella, cito alcuni grandi avvocati milanesi che ho avuto il privilegio di incontrare nel corso dei miei trentacinque anni di professione e che oggi non ci sono più, come Corso Bovio, Carlo Gilli, Angelo Giarda e Francesco Arata. Costoro hanno nobilitato la nostra professione, che non è fatta solo da “azzeccagarbugli” in cerca di soldi o facile notorietà.
La giustizia degli uomini, essendo tale, può spesso fallire?
Come racconto nel libro, in alcuni dei processi che ho affrontato è successo. Questo però non deve diventare un alibi per impegnarsi meno da parte dell’avvocato. Accettare di difendere qualcuno che ripone in te una tale fiducia da consegnarti in mano il destino della propria vita, affrontare un processo, soprattutto per chi non ci è abituato, è già una pena terribile ed è una responsabilità enorme. Da un tuo errore può dipendere la vita di un essere umano, quasi come per il medico, per cui ho fatto mio il motto che mi ha insegnato mio padre, a sua volta avvocato: “Fai quel che devi, accada quel che può”, però fai quel che devi, appunto, e se puoi fai persino di più. Per capirci, un avvocato deve fare cento per ottenere venti. Quasi sempre quel venti arriva. Tranne nei casi degli imputati “indifendibili” che racconto in uno dei capitoli finali del libro, e nei cui confronti, ho scoperto sulla mia pelle, non vale il motto: “La legge è uguale per tutti”.
"Schiaffo all'Italia e alla giustizia". No del Parlamento Ue al dibattito sulle ex Br. Alessandra Benignetti su Il Giornale il 4 luglio 2022.
Il Parlamento europeo non discuterà della decisione dei giudici della Corte d'Appello di Parigi di negare l’estradizione dei dieci ex terroristi rossi arrestati in Francia nell'aprile del 2021. A chiedere di aggiungere all’ordine del giorno della seduta di domani dell’assemblea plenaria dell’Europarlamento, in corso fino a giovedì a Strasburgo, anche un dibattito sulla cooperazione giudiziaria in Europa è stata la deputata leghista Anna Cinzia Bonfrisco. Le ex br alla sbarra in Francia sono "cittadini europei che hanno usato la violenza per uccidere vite innocenti e servitori dello stato e che hanno messo in pericolo la democrazia e lo stato di diritto", ha detto l’europarlamentare.
"Sono anti-europei alla radice – ha aggiunto - e minano l’amicizia tra Italia e Francia". Per questo Parigi, secondo la rappresentante della Lega, "dovrebbe mettere la parola fine a questa vicenda di frizione con l’Italia, caratterizzata dal sapore amaro dell’ingiustizia e dell’impunità". Bonfrisco ha poi fatto riferimento alle parole di Emmanuel Macron che all’indomani del pronunciamento delle toghe aveva manifestato la volontà di "cooperare con il governo italiano" e di valutare la possibilità di ricorrere alla Corte Suprema. "Queste persone sono state coinvolte in crimini di sangue e meritano di essere processate sul suolo italiano", aveva detto il capo dell’Eliseo rispondendo ad un giornalista al termine del vertice Nato di Madrid.
Parole, quelle del presidente francese, a cui sono seguiti i fatti, visto che lunedì il procuratore generale ha impugnato davanti alla Cassazione la decisione dello scorso 29 giugno. "Gli italiani hanno apprezzato le sue parole di rispetto", ha ricordato la deputata leghista nell’emiciclo di Strasburgo, chiedendo di affrontare la questione in aula. La proposta, però, è stata bocciata per alzata di mano. Critica la delegazione del partito di Matteo Salvini. "Dopo il danno di Parigi con la mancata estradizione dei dieci terroristi latitanti in Francia, la beffa di Strasburgo che nega un dibattito sul tema. - si legge in un comunicato -La maggioranza del Parlamento Europeo guidata dalla sinistra ha respinto la proposta. Siamo indignati ed esterrefatti: un altro schiaffo all’Italia e alla giustizia". "La lotta al terrorismo è e deve essere una priorità dell’Unione europea", continuano gli eurodeputati leghisti.
"Verità e giustizia – ha poi aggiunto Bonfrisco - prevalgano sulla disumanità del terrorismo. Ne va del nostro Stato di diritto e del rispetto del principio di legalità. Non confondiamo il garantismo con l’impunità". Intanto, in Francia la legale delle ex br, Irène Terrel, attacca l’Eliseo e stigmatizza l’iniziativa del procuratore generale parlando di "ricorso politico" frutto di una "pressione inammissibile". Macron "si è espresso in modo inaccettabile”. "Non ho mai visto un presidente francese osare rimettere in discussione una decisione di una Corte di Appello che ha fatto un lavoro scrupoloso per più di un anno", ha detto all’Adnkronos. Secondo la legale, infine, l’iniziativa legale "non ha nessuna possibilità di andare in porto in quanto è irricevibile dal punto di vista giuridico, se vengono applicate le regole del diritto".
Tra le domande di estradizione c’è anche quella dell’ex militante e fondatore di Lotta Continua, Giorgio Pietrostefani, 78 anni, condannato in Italia per essere stato uno dei mandanti dell'omicidio Calabresi.
"È molto grave che le toghe d'Oltralpe se ne freghino delle regole europee". Fabrizio De Feo l'1 Luglio 2022 su Il Giornale.
L'ex Guardasigilli: "La dottrina Mitterand è sempre mal interpretata".
Senatore Roberto Castelli, lei da Guardasigilli ha vissuto in prima linea gli stop and go della Francia rispetto all'estradizione dei terroristi rossi. Lei dovette fare fronte a resistenze politiche, oggi sembra essere la magistratura ad alzare il muro.
«La premessa è che ci mancano ancora alcune informazioni importanti. Ci illuminerà la motivazione. Ci sono però elementi inquietanti. A leggere quanto trapela da fonti di stampa pare che la Corte d'Appello si appelli agli articoli 6 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Se è così è preoccupante, perché se l'articolo 8 si appella a diritti generici dell'uomo, come il diritto alla libertà, alla famiglia, alla privazione della libertà senza fondamento, l'articolo 6 invece è più grave perché fa riferimento al fatto che a ogni uomo deve essere assicurato un equo processo».
Un giusto processo che quindi l'Italia non sarebbe in grado di assicurare.
«Esattamente e qui torniamo al pregiudizio di 30 anni fa di una certa cultura francese che riteneva che in Italia vigesse un sistema giudiziario molto rozzo che non teneva conto dei diritti delle persone e della presunzione di innocenza. Sembra che questo pregiudizio che un tempo permeava la gauche caviar - banalmente una certa puzza sotto il naso nei confronti dell'Italia - si sia trasferito alla magistratura. Ma, ribadisco, bisogna leggere la motivazione e chiarire un altro punto procedurale».
Quale?
«Sento parlare di richiesta di estradizione, ma è importante chiarire se ci si muove invece all'interno del mandato di arresto europeo. Io avevo forti dubbi sul mandato. Se c'è stato uno massacrato per le sue posizioni è stato il sottoscritto. Mi ero opposto tantissimo, avevo paura che diventasse uno strumento teso a colpire politicamente gli avversari. Misi molti puntini sulle i ed ebbi confronti molto duri. Venni accusato di antieuropeismo. Oggi cosa succede? Se la Francia al dunque se ne fa beffe e se davvero siamo all'interno del mandato di arresto europeo, ebbene abbiamo degli europeisti a parole, degli europeisti di facciata che delle regole europee se ne fregano».
Da Guardasigilli lei dovette fare i conti con la dottrina Mitterand. Quale fu il suo approccio?
«Feci una cosa molto semplice, quando mi trovai di fronte ai problemi relativi alle estradizioni degli ex terroristi mi andai a leggere il discorso di Mitterand. Mi resi conto che l'interpretazione che ne veniva data era una messa in scena o una forzatura. Mitterand, infatti, specificava che non bisognava proteggere chi si era macchiato di fatti di sangue, ma soltanto chi veniva perseguito per le sue idee politiche. Alla prova dei fatti riuscii a raggiungere un accordo con il governo francese e con il mio omologo su ex terroristi che si erano macchiati di gravi fatti di sangue, ma non si riuscì mai a dare seguito alle varie intese, la montagna finì sempre per partorire il topolino. In tutti noi è sempre rimasta la sensazione di una giustizia sospesa. Che senso ha dire: hanno cambiato vita, c'è stata una rieducazione? Manca completamente la consapevolezza della necessità di un atto di giustizia verso i parenti. Ed è un brutto segnale anche vedere che come Paesi e partner europei che hanno spinto tanto per ottenere il mandato di arresto europeo, poi alla prova dei fatti non lo applicano».
C'è qualcosa che potrebbe fare Macron o che potrebbe fare il ministro Cartabia?
«Macron dal suo punto di vista può rivendicare la sua svolta e dire: cosa volete da me, è una decisione dell'autorità giudiziaria. Il ministro Cartabia è stato prudente nelle sue dichiarazioni, ma obiettivamente non poteva dire altro, almeno alla luce delle informazioni che abbiamo finora».
"Basta con l'impunità per i terroristi rossi". Pier Francesco Borgia il 30 Giugno 2022 su Il Giornale.
"I giudici dicono che si sono rifatti una vita? Alle loro vittime non è stato concesso".
«Altro che diritti dell'uomo da salvaguardare! Questa sentenza non ha alcuna giustificazione!» Il coordinatore nazionale di Forza Italia Antonio Tajani non nasconde l'amarezza per la sentenza che ieri a Parigi ha ridato la libertà ai dieci terroristi italiani per il quale il nostro Paese aveva richiesto da tempo l'estradizione.
Onorevole Tajani non si aspettava un simile verdetto?
«Assolutamente no. D'altronde anche le prime motivazioni emerse sono poco convincenti. Che senso ha dire che si sono rifatti una vita? Le loro vittime, invece, una vita non se la sono potuta rifare».
Sembra che in Francia abbia ancora un peso la dottrina Mitterand.
«Qui non ci sono reati di opinione. Quelle persone si sono macchiate di reati odiosi. E l'omicidio, d'altronde, è un reato che non va mai in prescrizione. In Francia a fare gli esuli ci andavano i fratelli Rosselli perseguitati dal regime fascista. Questi non li perseguita nessuno. Questi devono soltanto rispondere dei loro reati sanzionati da un tribunale di un Paese, l'Italia, democratico e dove vige lo stato di diritto. Altro che esuli!».
Anche da noi in Italia, penso al Partito di rifondazione comunista, c'è chi plaude alla sentenza e parla di garantismo.
«Il terrorismo rosso ha da sempre goduto di coperture internazionale. Ma quello che hanno fatto all'interno dei nostri confini è gravissimo. Non dobbiamo, non possiamo e non vogliamo dimenticare».
E pensare che nel trattato Francia-Italia firmato a novembre scorso si parla di «reciproco rispetto delle prerogative giudiziarie in campo penale».
«Questa è sicuramente la cosa più strana. Non stiamo parlando dell'Unione sovietica. Stiamo parlando di un Paese che è culla del diritto. Un membro dell'Unione europea, peraltro. Davvero incredibile quello che è successo a Parigi. Sembra che non vogliano tenere in nessun conto non soltanto i sentimenti dei parenti delle vittime ma anche il lavoro dei giudici italiani».
Lei cita l'Unione europea. Ci sono a livello comunitario margini di manovra?
«Nessuno. È la Francia che deve decidere. Noi però non smetteremo di protestare e di portare di fronte all'opinione pubblica internazionale il grido di dolore delle vittime di questi personaggi. Qui non parliamo di reati d'opinione. Non è alla sbarra un'ideologia. Qui ci sono persone che sono morte nell'adempimento del loro dovere. Parlo di tanti servitori dello Stato come carabinieri, poliziotti, magistrati, politici come Aldo Moro. Altro che reati di opinione!»
C'è chi parla di mancata giustizia.
«Da noi la giustizia c'è. Con tanto di condanne. E non si vede per quale motivo i terroristi rossi debbano godere di questa impunità. E non penso solo a questa sentenza di Parigi. Sono tanti i casi in cui viene sempre fuori che queste persone, condannate per atti di estrema violenza, vengano coperte e difese»:
Si riferisce per caso a Cesare Battisti?
«Non solo a lui. Penso anche aA lui, ma non soltanto a lui. Penso anche ad Alessio Casimirri e ad Alvaro Lojacono, che facevano parte del commando di via Fani. Da tempo, anche come Unione europea, chiediamo l'estradizione al Nicaragua di Lojacono. Finora senza successo. Ma non ci fermiamo».
Brigatisti in Francia, qualcuno ci spieghi perché l’Italia ha fallito. Corrado Ocone il 30 Giugno 2022 su Culturaidentita.it. su Il Giornale.
La storia si ripete. Nella sua gravità lascia con la bocca amara e delude, mortifica i familiari delle vittime, ma finisce anche per alimentare sospetti. In questa storia dei brigatisti e lottacontinuisti italiani riparati all’estero e di cui la Francia continua a negarci l’estradizione, dopo decenni e decenni, troppi elementi non tornano. Qualcuno bara al gioco. Anche in Italia. Ci si indigna, si protesta, si solidarizza coi familiari delle vittime innocenti, ma poi non si fa nulla che raggiunga l’obiettivo di riportare a casa coloro che sono stati giudicati colpevoli da regolare processo e in uno Stato democratico e certamente non “vendicativo” con i propri oppositori quale è il nostro.
L’unico ritornato a casa è stato Cesare Battisti, probabilmente, è dato pensare, per una fortunata convergenza di interessi che ha messo nell’angolo quella sinistra profonda e nascosta che è riuscita a condizionare diversi governi e anche i nostri per tanti anni (in Italia c’era il Conte 1 quando fu espulso dalla Bolivia ed estradato). Certo, so che per parlare bisognerebbe aspettare la pubblicazione delle motivazioni della sentenza con cui l’estradizione è stata negata a tutti e dieci i terroristi per cui era stata richiesta. E so anche che formalmente la decisione dei giudici è avvenuta in indipendenza da quella del potere politico, che questa volta, dichiarata finita la cosiddetta “dottrina Mitterand”, aveva dato un anno fa il lasciapassare a che la Camera penale parigina riprendesse in mano il caso. Ma contano i fatti, e soprattutto qui il Diritto c’entra fino a un certo punto, ormai. La questione è di Stato e va oltre la sacrosanta indipendenza dei giudici che nessuno più di noi vuole tutelare.
Perché i terroristi non vengono consegnati all’Italia? E che c’entra la Convenzione europea dei diritti umani che qualcuno ha chiamato in causa? E, cara ministra Cartabia, come si può rispettare la sentenza di una magistratura quando in gioco, ripeto, c’è non il Diritto, ma la ragion di Stato, cioè la necessità inderogabile che uno Stato democratico risolva i suoi problemi in sospeso con chi voleva abbatterlo? Perché non si concede all’Italia quello che viene concesso nelle stesse ore persino ad un Erdogan nonostante che in quel caso sia un dittatore a imporre condizioni e terroristi siano definiti i curdi che da lui vogliono liberarsi? È l’Italia che non ha potere contrattuale o c’è qualcosa d’altro? E si può firmare un trattato di collaborazione con uno Stato vicino, come abbiamo fatto con la solita enfasi con quello del Quirinale, sfoggiando con la Francia una stretta collaborazione in sede internazionale, e permettere poi di essere trattati così in un caso che chiama in causa davvero la nostra sovranità nazionale?
Credo che solo Draghi possa dare una risposta a queste domande: rendersi conto delle contraddizioni e mettere con chiarezza le carte in tavola coi francesi. Qui non si tratta delle pure importanti competizioni commerciali e rivalità fra due Paesi, che pure ci hanno visto molto scettici sulla presunta “amicizia” francese nei nostri confronti. C’è qualcosa di più sostanziale in gioco. E probabilmente, come dicevo, tanti bari con le carte truccate. Non possiamo uscircene glissando, o con le solite inefficaci frasi di circostanza. Che poi i terroristi siano ormai vecchi e alcuni di loro si dicano pentiti, è questione del tutto diversa e irrilevante in questo caso. Corrado Ocone, 30 giugno 2022
Giampiero Mughini per Dagospia il 30 luglio 2022.
Caro Dago, non è semplice per uno della mia generazione ragionare sulla vicenda dei dieci ex terroristi italiani che un magistrato francese ha ritenuto tuttora meritevoli di protezione contro le conseguenze legali dei delitti da loro compiuti in Italia durante gli "anni di piombo".
Non è da poco l'argomento che a trent'anni di distanza, e dopo decenni di un comportamento del tutto contrario a quello degli agguati e delle messe a morte, il rilievo penale e morale dei dieci è cambiato sostanzialmente.
Per citare il caso di gran lunga più noto, quello del settantanovenne Giorgio Pietrostefani che architettò la messa a morte del commissario Luigi Calabresi, non sono così sicuro che sarebbe gran cosa dal punto di vista della giustizia che lui invecchiato e gravemente malato scendesse da un aereo a consegnarsi alla giustizia italiana cui pure si era sottratto a differenza dei suoi due coimputati Adriano Sofri e Ovidio Bompressi, i quali entrambi hanno trascorso in carcere un bel mucchietto di anni.
Del resto è la stessa valutazione che fanno Mario Calabresi, il figlio del commissario ucciso, e sua madre, la splendida Gemma Calabresi. La quale usa il termine "perdono" nei confronti dell'assassino, ed è un termine schiacciante. Gli altri nove sono dei comprimari, com'erano la buona parte degli assassini "rossi".
La cosiddetta dottrina Mitterrand era invece concepita come volta ad accettare dei "combattenti" che la giustizia italiana stava perseguitando oltre misura, gente che aveva "creduto" e che magari non aveva "ucciso" affatto. Del resto Parigi era divenuta la città quanto più accogliente di un assassino della terza fila del terrorismo rosso, Cesare Battisti, che i nostri cugini francesi reputavano un eroe romantico oltre che un discreto scrittore. Poveracci, non sanno di nulla di che cosa è stato il terrorismo in Italia. Nulla di nulla. E beninteso quando uso il termine terrorismo so distinguere benissimo Battisti da uno come Oreste Scalzone, il quale non ha mai fatto del male a una mosca in vita sua.
Alcuni anni fa Vincenzo Sparagna e io lo incontrammo a Roma e andammo in giro con lui a farci fotografare e a sollecitare dunque un provvedimento di clemenza nei suoi confronti (che poi è venuto). Ebbene in quella occasione la Digos venne di mattina presto a bussare a casa mia dove pensavano di trovare Oreste. Volevano persino entrare nella camera da letto dove continuava a dormire Michela, la quale si mise a urlare che non la scocciassero. Mi convocarono poi a mettere a verbale com'era andata la venuta di Oreste a Roma e pagai un milione all'avvocato che mi assistette per la mezz'oretta dell'interrogatorio.
C'è stato il terrorismo rosso, ci sono stati quelli che hanno scherzato con il fuoco (ossia che li spalleggiavano dal punto di vista ideale), ci sono stati i "pentiti" del terrorismo, quelli che una volta catturati hanno fatto i nomi dei loro complici e hanno dato gli indirizzi delle sedi in cui trovare le loro armi. Il pentito più famoso del terrorismo rosso è stato probabilmente Michele Viscardi. Quando lo catturarono consegnò in buona sostanza l'intero esercito di Prima linea, una congrega di assassini non meno feroci di quelli delle Brigate rosse. Quando andai a intervistarlo a Milano, lui viveva nell'ombra. Mi parve che il suo "pentimento" fosse sincero. So che molti non la pensano così.
Tra quelli che strizzarono l'occhio al terrorismo rosso il più rilevante credo sia stato Franco Piperno, il leader del Potere operaio romano. I magistrati che a un certo punto lo accusarono di non ricordo più quanti delitti non sapevano di che cosa stessero parlando. Lui si era dato latitante e finché una sua amica (che non conoscevo) mi telefonò per poi venire a casa mia e chiedere che lo ospitassi.
Dissi di sì, e purché Franco mi desse la sua parola d'onore che lui non aveva niente a che vedere con le Brigate rosse. Franco rimase a casa mia per un mese e mezzo per poi andarsene in Francia. Dove lo catturarono per poi trovarlo innocente di tutte le accuse. Io sono fiero di avere ospitato un innocente, e mi dispiace che nel libro che Franco ha scritto alcuni anni fa il mio nome non compaia nemmanco una volta, non che io non conosca i miei polli. Potrei continuare a lungo.
I volti le celle i volantini che attengono al brigatismo rosso se ne stanno sulle pareti della mia camera da pranzo, quella dove ospito non più di sei persone a volte. A dirla in breve qual è stato il bilancio politico e morale di quegli assassini? Che erano degli assassini, punto e basta, e non c'è altro da aggiungere. Che dire di quelli che l'hanno fatta franca e vivono adesso in Francia? E' dannatamente complesso, forse ogni caso andrebbe pesato e soppesato a parte. Caso diverso quello degli intellettuali che giuravano e spergiuravano che quelli di Lotta continua non avessero niente a che vedere con le due pallottole sparate a bruciapelo alla testa e alla schiena del commissario Calabresi. Per loro non la smetto di nutrire il disprezzo intellettuale più profondo.
Giovanni Bianconi e la stagione del terrorismo: viaggio nelle ferite d’Italia. GIANNI SANTUCCI su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.
Forse oggi, aprile 2022, con i missili e i bombardamenti, i carri armati e le fosse comuni che tornano a incombere ai confini dell’Europa, qualcuno avrebbe una qualche reticenza, una perplessità, o solo una maggiore attenzione nell’usare la parola guerra. Ma nelle traslazioni del lessico, tra mutazione del contesto storico e cambiamenti delle motivazioni politiche ed esistenziali degli individui, si rintraccia a volte un senso profondo, e inquietante. Avviene ora, se si rilegge il verbale sottoscritto da Cesare Battisti appena tre anni fa, marzo 2019, nel carcere di Oristano, subito dopo l’estradizione dalla Bolivia: «Chiedo scusa pur non potendo rinnegare che in quell’epoca per me e per tutti gli altri che aderirono alla lotta armata si trattava di “una guerra giusta”». E da qui la parola slitta, passando dall’universo ideologico dei carnefici a quello dell’innocenza delle vittime. Tra loro c’è Alberto Torregiani, in sedia a rotelle dal 16 febbraio 1979, ferito da una pallottola sparata da suo padre, il gioielliere Pierluigi, che quel giorno cercò di difendersi dall’agguato in cui proprio i Pac di Battisti lo trucidarono in mezzo alla strada, a Milano. Il libro che Alberto ha scritto qualche anno fa si intitola Ero in guerra ma non lo sapevo. E così si completa il corto circuito che apre un abisso di senso tra la guerra di oggi, la «guerra giusta» di chi sparava e la guerra di chi cadeva o moriva senza sapere.
Esce oggi in libreria il saggio di Giovanni Bianconi «Terrorismo italiano» (Treccani Libri, pagine 120, euro 10) esce giovedì 14 aprile Conta 350 morti e oltre mille feriti la storia delle stragi e della lotta armata tra il 1969 e i primi anni Duemila, da piazza Fontana all’omicidio di Marco Biagi. «Una storia conclusa ma sulla quale, per gli effetti e le tragedie che ha provocato, l’Italia fatica a scrivere la parola “fine”», riflette Giovanni Bianconi nelle ultime righe del libro Terrorismo italiano (Treccani Libri, in uscita oggi). E l’aspetto chiave sta nel numero di pagine, appena 120, poche ore di lettura, per un racconto che dal 2021, con la richiesta di estradizione alla Francia per dieci terroristi ancora latitanti (operazione «Ombre rosse»), riprende da piazza Fontana, e poi risale negli anni e nelle stagioni per ricongiungersi all’oggi.
Nato a Roma nel 1960, Giovanni Bianconi è inviato del «Corriere della Sera». Si occupa di cronaca e di vicende giudiziarie Cronaca e storia, una «guida» nel senso più alto del termine, in cui la sintesi narrativa non produce semplificazione, ma densità, e ogni fatto o grumo di fatti sta dentro una chiave di lettura e interpretazione. Come gli intrecci tra l’eversione nera e gli apparati istituzionali, che sono poi emersi a livello giudiziario in tutti gli attentati neofascisti tra 1969 e 1974, ma «la sensazione che uomini in divisa o esponenti degli apparati avessero contribuito a organizzare la “strage di Stato”... fu pressoché immediata negli ambienti dell’estrema sinistra. E le susseguenti (quanto meno parziali) conferme contribuirono a rafforzare l’idea che solo attraverso la creazione di forze combattenti clandestine si potesse rispondere a quel tipo di provocazioni». Allo stesso modo l’omicidio del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972), «segna una tappa importante nella storia del terrorismo perché dimostrò la disponibilità all’omicidio politico negli ambienti della sinistra rivoluzionaria, sulla quale i gruppi clandestini già all’epoca esistenti e operanti, come le Brigate Rosse, poterono contare per il reclutamento».
Sono frammenti di risposta, solidi, fondati, a chi oggi si chiede: «Come è stato possibile?».
Quindici capitoli (più un prologo e un epilogo) che sono come quadri. I fatti, gli strumenti per la lettura dei fatti. Anche i più stratificati: il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, dopo il quale lo Stato troverà la linea della repressione che porterà alla sconfitta del «partito armato», ma che nel breve periodo innesca una sorta di rilancio della violenza. «Il mare agitato dei movimenti del 1977, in cui gli scontri di piazza sono diventati armati su entrambi i fronti, dei manifestanti e delle forze dell’ordine, ha consegnato nuove reclute delle organizzazioni terroristiche», alimentando «un’impennata di azioni di sangue». Eccole, le chiavi interpretative che offrono a chi leggerà questo libro (che dovrebbe entrare tra i libri di testo delle ultime classi delle scuole superiori) i punti di riferimento per la comprensione, mentre il racconto mostra il film accelerato di un Paese che nel passare degli anni sbanda, dall’omicidio dell’operaio Guido Rossa a quello del vertice della magistratura, il vice presidente del Csm Vittorio Bachelet (12 febbraio 1980).
Nella maggioranza di queste sequenze storiche, Bianconi (inviato del « Corriere della Sera» e tra i massimi esperti in Italia di terrorismo rosso e nero) indica il filo che risale al presente, a quei militanti ancora latitanti in Francia, persone in «fuga non solo dalla pena, ma anche dalle proprie colpe», e soprattutto gravate «da un passato più grande delle loro esistenze, che ha pesato e continua a pesare sulla storia d’Italia».
L’ingresso in questo racconto avviene attraverso a, nel quale le chiavi di lettura sono invece più nette e spietate, e ruotano ancora intorno ad alcune parole (il titolo appunto è: Lessico degli anni Settanta). Ad esempio, gli «obiettivi»: «Rispetto alla dottrina classica che giustificava o addirittura esaltava il regicida... il terrorismo di quel periodo sceglie perlopiù obiettivi maneggevoli, intercambiabili, spesso inermi e di non particolare rilievo o perfettamente sconosciuti». E dunque le parole di chi uccideva sono state uno strumento, una sorta di altra faccia delle pallottole, per costruire un senso aberrante delle azioni: di quegli obiettivi occorreva «esaltare con le contorte rivendicazioni dei volantini il rango e il valore simbolico». Ancora il lessico, a saperlo leggere e ascoltare, rivela contorsioni e contraddizioni: «La parola più vituperata, da destra come da sinistra, è “borghese”». Per indicare infine il termine che a decenni di distanza provoca ancora sgomento, Albinati sceglie una giornata, il 28 maggio 1980, quando a Milano la Brigata XXVIII Marzo uccide il giornalista del «Corriere» Walter Tobagi e a Roma i Nar assassinano il poliziotto Franco Evangelista. Un omicidio «rosso» e uno «nero», accomunati da una «totale gratuità: attenzione, non qui nel senso di inutilità (tutte le azioni dei gruppi armati senza eccezione furono inutili), ma proprio gratuità, cioè, arbitrarietà assoluta, quasi capriccio, accompagnato da un maniacale puntiglio dimostrativo».
Francesco De Remigis per "il Giornale" il 13 gennaio 2022.
Ancora un nulla di fatto per le estradizioni delle ex «Primule rosse» arrestate in Francia lo scorso anno. Ennesimo rinvio dell'udienza, ieri, dopo quello del settembre scorso. E sostanzialmente con la stessa motivazione: mancano (ma il condizionale è d'obbligo, visto che da Roma sostengono di aver prodotto il quadro necessario per procedere al via libera giudiziario) informazioni chiave, secondo la Chambre de l'Instruction della Corte d'appello di Parigi. «Incartamento incompleto rispetto alle richieste», è la versione della difesa, accolta dalla corte transalpina.
Ma quel «supplemento» che doveva giungere da Roma è stato prodotto o no, in questi tre mesi? E se sì, come mai la Parigi togata insiste nel negare il via libera? Dalla segreteria della Guardasigilli Marta Cartabia, alla vigilia dell'udienza, aveva avuto rassicurazioni anche il deputato leghista Daniele Belotti.
Che visto l'esito di ieri - 8 «ex» terroristi riconvocati fra il 23 marzo e il 20 aprile e nessun via libera all'estradizione - annuncia un'interrogazione parlamentare rivolta ai ministri di Esteri e Giustizia per capire le ragioni di «una vera umiliazione che l'Italia non può accettare».
Dopo i blitz dell'aprile 2021, c'era l'accordo politico tra Roma e Parigi. Ai massimi livelli: tra i presidenti della Repubblica (Mattarella e Macron) e i ministri della Giustizia (Cartabia e Dupond-Moretti).
Sembrava fatta; dato che negli anni, a ritardare, e in alcuni casi negare l'estradizione, era stata una decisione «politica», come quella di Sarkozy sulla Petrella. Il puzzle che sembrava essersi completato con gli arresti si è invece via via decomposto.
Date delle udienze spacchettate, traduzioni sospette, cavilli. Ieri l'ultima beffa. Magistratura ancora di traverso. Si è persino tollerata l'assenza in aula di Sergio Tornaghi: un ritardo del treno, hanno spiegato i legali ottenendo un rinvio al 6 aprile.
Presenti, Enzo Calvitti rinviato al 23 marzo; Narciso Manenti, killer del carabiniere Giuseppe Gurrieri, al 30 marzo; Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli e Marina Petrella al 6 aprile, Raffaele Ventura al 13 e Luigi Bergamin al 20 aprile (ma lui da febbraio potrebbe non essere più estradabile, quando la Cassazione dirà la sua sulla prescrizione interrotta). Le «Ombre rosse» si erano tutte rifugiate a Parigi e dintorni.
Una vita ricostruita come nulla fosse, una professione, amici influenti, ex e nuovi compagni. Ma soprattutto un pool di avvocati di prim'ordine. La principessa del foro Iréne Terrel, che difende sei dei 10 «ex» terroristi, torna a insistere sulla negazione dello Stato di diritto che l'estradizione rappresenterebbe, dato «l'asilo» concesso negli Anni '70 e '80 a chi avesse rinunciato alla lotta armata.
L'Eliseo ha però già precisato che la decisione di «trasmettere alla procura 10 nomi sulla base di domande italiane che riguardavano in origine 200 persone si colloca perfettamente nella logica della Dottrina Mitterrand»: protezione a ex br sì, «eccetto ai responsabili di reati di sangue». La palla ce l'hanno i giudici. Per Giorgio Pietrostefani resta l'appuntamento fissato una settimana fa per il 23 marzo, causa precarie condizioni di salute dell'ex leader di Lotta Continua. Per Maurizio Di Marzio (sfuggito all'arresto e poi «preso» a luglio), si attende il complemento del dossier chiesto a novembre.
Cassazione, Bergamin non ha rinnegato il suo passato. ANSA il 14 Luglio 2022.
Luigi Bergamin "ha dimostrato di non aver rielaborato né rinnegato il suo passato", di "non aver intrapreso alcuna iniziativa positivamente valutabile" verso "i parenti delle vittime" e per lui sussiste la "pericolosità sociale" ed è "immutato il rischio di rinnovazione" di "condotte devianti e contro l'Istituzione statuale". Lo scrive la Cassazione nel motivare la sentenza con cui ha confermato la "delinquenza abituale", dichiarata su istanza del pm di Milano Adriana Blasco, per l'ex "ideologo" dei Pac, condannato per concorso morale in 2 omicidi e uno dei 10 ex terroristi per cui i giudici francesi hanno negato l'estradizione. (ANSA).
Da lastampa.it il 14 gennaio 2022.
Ancora una volta sono state rinviate le udienze dei 9 ex brigatisti italiani rifugiati in Francia per i quali l'Italia ha chiesto l'estradizione dopo l'operazione «Ombre rosse» dello scorso 27 aprile. Nell'aula della Chambre de l'Instruction, la presidente del tribunale ha dato appuntamento a tutti i convocati a date comprese fra il 23 marzo e il 20 aprile. La motivazione, come nelle udienze degli ultimi mesi, è che le informazioni giunte dall'Italia sui procedimenti a carico degli ex Br sono tuttora incomplete rispetto alle richieste della Francia.
Francesco De Remigis per "il Giornale" il 14 gennaio 2022.
Erano i compiti per le vacanze: lettura e studio delle carte inviate da Via Arenula al ministero della Giustizia francese lo scorso 6 dicembre (e cioè entro i termini per procedere). Ma le toghe transalpine (per così dire) non li hanno fatti; lasciati sul comò, sulla pila di fascicoli non letti come si faceva da ragazzini con l'antipatico sussidiario. Trattasi, nello specifico, di quelle «note analitiche» che rispondono punto per punto ai chiarimenti tecnici chiesti proprio dai francesi della Chambre de l'Instruction della Corte d'appello di Parigi dopo il rinvio dell'udienza del settembre scorso sull'estradizione degli ex brigatisti.
Allora i magistrati d'Oltralpe non riconoscevano (o fingevano di non capire) alcune procedure italiane. E pronti, via, da Roma erano arrivate le carte dell'attesa svolta. Due giorni fa, l'ennesimo rinvio. Niente estradizione. Stavolta Parigi ha chiesto altri due mesi e più: per studiare «caso per caso» la corposa documentazione su 8 ex «Primule rosse» arrestate tra aprile e luglio 2021 e poi rilasciate con obbligo di firma, allontanando il loro rientro nel Belpaese.
E lasciando ancora a bocca asciutta la giustizia italiana. Gli atti del magistrato di collegamento che Il Giornale ha potuto visionare parlano chiaro: la presidente della Corte d'appello Pascale Belin ha «preso atto della corretta produzione di tutte le richieste di integrazione da parte delle autorità italiane e del copioso materiale trasmesso». Nessun ritardo, né mancanza dunque. Ma si è trovata nell'«impossibilità di esaminare tutta la documentazione» degli «ex» terroristi. Ecco il retroscena di una decisione altrimenti inspiegabile, dato il via libera politico dell'Eliseo: che però non può avere corso se i giudici non sentenziano.
Il nuovo rinvio a marzo e aprile non è quindi dovuto a presunti «buchi», chiariscono da Roma: l'Italia ha prodotto una mole di traduzioni facilmente comprensibili anche al più pigro dei togati. Sarebbe legato tra le altre cose alle vacanze di Natale: che non avrebbero permesso ai francesi di approfondire adeguatamente (e per tempo) tutti i dossier degli ex Br, spingendo così la Corte a disporre un nuovo calendario di udienze con le varie posizioni: da quella di Marina Petrella, che già Sarkozy salvò dall'estradizione, agli altri 7. Toghe lumaca chiedono più informazioni e non trovano il tempo di leggerle? Meglio «la trattazione nel merito» di singoli dossier, e far slittare così la decisione con udienze individuali; alcune peraltro a cavallo delle presidenziali dove Macron (e il suo «Sì» all'estradizione) potrebbe non essere più in campo.
Brigatisti a piede libero? Un terrificante sospetto sullo sfregio francese all'Italia: c'è una talpa in Procura? Renato Farina su Libero Quotidiano il 14 gennaio 2022.
Abbiamo raccontato ieri la vicenda di lassismo giudiziario a danno dell'Italia, e forse della coscienza morale della galassia, sotto il titolo: «I giudici dormono, brigatisti liberi». Quali fossero i giudici dormienti, o chi abbia sgocciolato del sonnifero nel loro caffè, resta da appurare. L'unico fatto certo è che i terroristi rossi rifugiatisi in Francia se la sono sfangata. Niente estradizione, per ora (o per sempre?). Tutti a casina loro, a fare i nonnetti felici e impuniti ancora almeno fino a primavera, quando forse ci sarà la decisione sul loro trasferimento nelle patrie galere. Patrie sì: perché i dieci latitanti sono italiani e hanno ammazzato italiani in Italia. Accadrà l'auspicata estradizione? La decisione doveva essere presa dalla Chambre d'Instruction della Corte d'Appello di Parigi a fine giugno dello scorso anno, niente da fare, le carte giunte dall'Italia non bastavano; ed eccoci allora al 29 settembre, medesima solfa, mancano documenti e sentenze; indi perla stessa asserita ragione si era arrivati al 12 gennaio, ma figuriamoci se era la volta buona.
La nuova tabella di marcia tribunalizia ha dato appuntamento ai gloriosi pistoleri, uno alla volta, in date comprese fra il 23 marzo e il 20 aprile. O - come dimostrano i precedenti - la decisione sarà ancora rinviata, qualche cavillo si troverà opplà, perché la Francia è la Francia, e con gli italiani si fa così? Tattica antica. Gli umori mutano. Conviene giocare sul fattore tempo, il consumarsi dei giorni coincide con lo stingersi dell'emozione e persino lo spegnersi dell'orgoglio che fiammeggiarono in (quasi) tutti i petti italici il 27 aprile dell'anno scorso. Si chiamava operazione "Ombre Rosse" e, con il sì di Macron, grazie all'impegno di Marta Cartabia, furono arrestati a Parigi e dintorni dieci condannati per terrorismo. Pochi sì, su circa 400 ribaldi armati lì rifugiatisi, ma era un modo per marcare il territorio transalpino con l'onor patrio delle nostre buone ragioni.
RESISTENZE GALLICHE - Che è accaduto? Nelle teste italiane vaccinate o meno ormai ronza la noia per quei tizi che la stanno facendo franca, mentre nell'opinione pubblica francese monta dolcemente la soddisfazione perché, con la dovuta calma e i modi compìti in uso chez Maxim, la si sta mettendo in quel posto a les-italiens. Diciamocelo: se si guarda il colore del cielo francese per trarne auspici, e si legge la loro stampa per capire l'umore transalpino, siamo pronti a scommettere che la pacchia di questi criminali a riposo - speriamo attraversato almeno da qualche rimorso - vedrà ancora giornate di ti tra loro per l'occasione), si corregge l'Ansa di mercoledì, ore 14,49, rimasta senza repliche, dove si riferiva che «la motivazione, come nelle udienze degli ultimi mesi, è che le informazioni giunte dall'Italia sui procedimenti a carico degli ex Br sono tuttora incomplete rispetto alle richieste della Francia». Il Ministero della Giustizia riferisce che non è questa la ragione addotta dalla giudice Pascale Belin. Non mancavano carte ma ce n'erano persino troppe, impossibile approfondirle in un giorno. La dichiarazione ha un tono assai diplomatico verso la Corte e il governo transalpini.
Ma a leggere usando la lente di ingrandimento si scorge un dardo al curaro che affonda nella giugulare di qualche alto dell'omologo ministro parigino. Riferiscono all'Ansa fonti di via Arenula: «Tutta la documentazione è stata inviata al Ministero della giustizia francese il 6 dicembre, entro i termini». Perfetto. Tutto questo è stato riconosciuto dalla Corte, come riferisce tra virgolette il magistrato italiano di collegamento, dottoressa Roberta Collidà, presente all'udienza parigina: «La presidente Pascale Belin, preso atto della corretta produzione di tutte richieste di integrazione da parte delle autorità italiane e del copioso materiale trasmesso, rilevata l'impossibilità della Corte stessa di esami nare tutta la documentazione trasmessa in data odierna (mercoledì, ndr), ha di sposto un dettagliato calendario». Eccetera.
IL RITARDO - L'orrore sta nei particolari. Peraltro elefantiaci. Si noti. L'Italia ha trasmesso il mate riale come richiesto dal giudice il 6 dicembre. Ma qualche alto collaboratore del Guardasigilli Eric Du pond -Moretti l'ha messo in un cassetto con la naftalina, o in una chiavetta Usb che magari pensava fosse un gioco perla play -station. Ed ecco che riappare trentacinque giorni dopo, non un'ora prima. Manovra di ostruzionismo fantastica. Se il governo e la stampa italiana non ribaltano il tavolo di Macron, non finirà mai. (Per la cronaca il medesimo giorno del rinvio per i brigatisti, la stessa Chambre d'Instruction ha deciso l'estradizione in Spagna di un presunto terrorista basco, vecchio capo dell'Eta, "sospettato" di un attentato a Bilbao nel 2002. Si chiama Mikel Garikoitz Aspiazu Rubina, detto "Txeroki". Personalmente gli esprimo solidarietà. Perché lui si, e i brigatisti no?
Da “La Stampa” il 10 maggio 2022.
Un fuori programma inaspettato ha acceso la Giornata del ricordo delle vittime del terrorismo con Marina Orlandi, la vedova di Marco Biagi, che alla Camera, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha lanciato la sua accusa alle istituzioni definendo «imperdonabile» la decisione di togliere la scorta al marito.
Un momento di tensione rotto da un applauso dell'aula. Solo la ricostruzione della verità, se non quella giudiziaria almeno quella storica, degli anni di piombo potrà chiudere quella stagione.
È il messaggio dei presidenti delle Camere, Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico, alla presenza anche di numerosi familiari dei caduti: Luigina Dongiovanni, nipote di Franco, carabiniere deceduto nella strage di Peteano, Maria Cristina Ammaturo, figlia del vicequestore Antonio, e Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi, di cui riportiamo l'intervento integrale, e che ha fatto un appello a chi sa perché parli.
Sono passati cinquant' anni dal 17 maggio 1972, il giorno in cui mio padre, il commissario Luigi Calabresi, venne assassinato sotto casa a Milano.
Un tempo lunghissimo ci divide da quella mattina. Era l'alba degli Anni di Piombo, tre anni prima c'era stata la strage di Piazza Fontana, ma per la prima volta con quell'omicidio era stato scelto un bersaglio, era stata costruita una campagna per distruggerlo e screditarlo e alla fine lo si era eliminato. Sarebbe successo centinaia di volte negli anni successivi. Magistrati, poliziotti, carabinieri, sindacalisti, professori, operai, medici, guardie penitenziarie, giornalisti, studenti e uomini politici sarebbero stati messi nel mirino, trasformati in simboli e disumanizzati e poi colpiti a morte, gambizzati, resi invalidi.
Siamo qui per ricordare. Questo è il senso per cui è nata questa giornata, momento prezioso per tenere viva la memoria di persone che persero la vita in un tempo feroce.
La domanda che mi faccio è a cosa siano serviti questi cinquant' anni, se siano passati invano, se siano solamente serviti a scolorire i ricordi, a dimenticare, a rimuovere. Se il gesto violento abbia vinto per sempre o se invece il tempo, alla fine, abbia restituito qualcosa e reso giustizia.
Per molto tempo la solitudine, il silenzio e un diffuso disinteresse, forse figlio dell'imbarazzo, forse del fastidio, hanno circondato le vittime del terrorismo e i loro familiari. Difficile, quasi impossibile riuscire a far sentire la propria voce, essere ascoltati. Tutti coloro che sono qui e che hanno perso una persona amata negli Anni di Piombo sanno di cosa parlo, di quei lunghi anni in cui ci sentivamo dimenticati e quasi di peso.
Anni in cui il dibattito pubblico non contemplava di potersi dedicare alle vittime e alla loro memoria, in cui le librerie erano piene soltanto di volumi scritti da ex terroristi o ideologi della rivoluzione, in cui negli anniversari, soprattutto in questo che cade nella data del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, in televisione e sui giornali a spiegarci cosa era successo erano gli assassini.
Sapete tutti quanto l'amarezza sia stata una compagna di vita e di cammino.
Poi però è accaduto qualcosa e sono cominciati ad arrivare segni di attenzione, gesti che hanno fatto breccia nel disinteresse e che sono arrivati sempre dallo stesso luogo: il Quirinale. Sono stati i presidenti della Repubblica, è importante ricordarlo, a svegliare la coscienza del Paese, ad aiutare l'opinione pubblica a ricordare.
Ha cominciato Carlo Azeglio Ciampi, con un'opera di attenzione verso gli uomini dello Stato uccisi perché difendevano le Istituzioni e la democrazia. Un cammino intrapreso con decisione e grande attenzione da Giorgio Napolitano, capace di gesti forti e di spingere l'approvazione - avvenuta quasi all'unanimità - di questo Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi.
Un cammino che ha trovato nel presidente Mattarella una persona capace di comprendere fino in fondo le sensibilità di chi ha perso una persona amata, un presidente che non possiamo non sentire, anche per storia personale, come uno di noi.
L'esempio che è arrivato dall'alto ha cambiato la direzione del dibattito pubblico, non si sono quasi più visti ex terroristi pontificare in televisione, le voci delle vittime hanno trovato uno spazio nuovo, e l'esempio ha contaminato la società. Molti comuni hanno dato vita ad iniziative, ad intitolazioni di giardini, vie e piazze e tantissime scuole hanno fatto e continuano a fare progetti di ricordo dei caduti.
Questi semi hanno fatto fiorire una larga consapevolezza che la violenza politica non porti mai risultati fecondi e hanno solidificato la coscienza di chi stesse dalla parte della ragione. Di quanto quegli omicidi fossero ingiustificabili.
In questi giorni e in queste ore il nostro pensiero non può non andare all'Ucraina, a chi è vittima di violenza e ciò che abbiamo imparato dovrebbe indicarci con chiarezza una lezione fondamentale: non esistono giustificazioni per gli aggressori. E allora questi cinquant' anni non sono passati invano, il nostro Paese, almeno da quel punto di vista, è migliore e ha imparato qualcosa.
Così oggi possiamo ricordare Luigi Calabresi per quello che era, pulito da calunnie e campagne diffamatorie. Era un giovane funzionario di polizia, venne ucciso a soli 34 anni, (io oggi ne ho ben 18 più di lui) che amava profondamente il suo lavoro. Lo interpretava come una missione, pensava che il dialogo fosse l'arma migliore, tanto che girava senza pistola.
L'arma la teneva a casa, smontata, nel cassetto dei maglioni a collo alto.
Pensava che si dovessero usare tutta la pazienza e il tempo possibili per convincere i ragazzi a lasciare la strada della violenza, pensava che ci fossero i cattivi maestri nelle università e fuori dalle fabbriche, ma era anche convinto che all'interno dello Stato per cui lavorava ci fosse chi soffiava sui conflitti e tramava per favorire svolte autoritarie.
Restò fino alla fine fedele ai suoi principi e ai suoi valori e scelse, consapevolmente, di non scappare anche quando il clima era diventato pesantissimo e l'aria, intorno a lui, irrespirabile. Sono passati cinquant' anni ed è venuto il momento di consegnare quel tempo alla Storia e alla memoria privata ma, se tanto è stato fatto - nel nostro caso come in molti altri abbiamo avuto il conforto della Giustizia dello Stato - alcune tessere del mosaico ancora mancano.
Molti degli uomini e delle donne che hanno ucciso, che hanno aiutato ad organizzare, che hanno sostenuto, fiancheggiato e che sanno, sono ancora tra noi. Da mezzo secolo però si sono rifugiati nel silenzio, in un silenzio che è omertà. Continuo a pensare che il coraggio della verità sarebbe per loro un'occasione irripetibile e finale di riscatto. Il gesto che permetterebbe di chiudere definitivamente una stagione e a noi di ricordare non solo il poliziotto, ma l'uomo che tornava a casa nel cuore della notte e si metteva a fare le crostate per la colazione della mattina dopo.
I brigatisti del delitto Biagi al 41 bis. Il silenzio dei killer sconfitti dalla storia. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2022.
Prima ancora del volantino di rivendicazione — 15.396 parole di verbo brigatista inviate per posta elettronica — furono la pistola e i proiettili utilizzati dagli assassini a firmare l’omicidio del professor Marco Biagi, «giustiziato» (così scrissero) la sera del 19 marzo 2002 sotto i portici di Bologna: stessa arma e stesso tipo di munizioni impiegate il 20 maggio 1999 per uccidere a Roma il professor Massimo D’Antona; due docenti universitari, due giuslavoristi, entrambi collaboratori dei ministri del Lavoro di due differenti governi. Due riformisti che cercavano soluzioni per comporre il conflitto sociale, obiettivi intercambiabili per gli epigoni della lotta armata che invece quel conflitto pensavano di acuire.
Quel documento con la stella rossa
Poi arrivò il documento con il marchio della stella a cinque punte chiusa nel cerchio: «Con questa azione combattente le Brigate Rosse attaccano la progettualità politica della frazione dominante della borghesia imperialista nostrana...». Espressioni mutuate dal secolo precedente per motivare una condanna a morte eseguita mentre la vittima rientrava a casa in bicicletta, pedinato dall’università di Modena fino all’appuntamento con il killer. Un uomo, rimasto senza protezione perché l’attacco jihadista alle Torri gemelle di sei mesi prima aveva cambiato l’elenco degli obiettivi da proteggere, e su input del ministro dell’Interno qualcuno aveva deciso che il professore scortato dopo il delitto D’Antona non fosse più un bersaglio dei terroristi.
Un simbolo senza adeguata protezione
Un regalo per la sparuta pattuglia di tardo-brigatisti, inadeguata ad affrontare un qualunque dispositivo di sicurezza ma sufficiente per sparare a un uomo solo, che stava tornando dalla moglie Marina e dai due figli, Francesco e Lorenzo, che all’epoca avevano 19 e 13 anni e oggi sono due uomini realizzati. Anche grazie alla forza della mamma: «Dovevo farne due cittadini che avessero fiducia nello Stato e nelle istituzioni. Volevo essere una persona positiva, come era Marco, e non farli vivere in una famiglia spezzata in cui la madre era piena di dolore e di rancore».
Le altre due vite spezzate
Dice di non provarne nemmeno per gli assassini di suo marito, Marina Biagi: «Non li ho mai odiati, e anche per questo non ho mai sentito il bisogno di fare percorsi di avvicinamento che non mi avrebbero dato nulla». Li hanno arrestati un anno dopo gli spari di Bologna, il 3 marzo 2003, al prezzo di altre due vite: quella del sovrintendente di polizia Emanuele Petri, che aveva chiesto i documenti a due passeggeri in un normale controllo ferroviario senza sapere che erano due ricercati, e quella di Mario Galesi, rimasto ucciso nel conflitto a fuoco. Era stato lui a sparare a Biagi, l’ultimo delitto pianificato dalle Brigate Rosse a trent’anni dalla loro prima azione armata. E ancora prima a D’Antona. Dopo undici anni di silenzio seguiti all’esecuzione di Roberto Ruffilli, 16 aprile 1988, un altro professore che progettava le riforme istituzionali. I «tecnici» prestati al governo erano diventati l’anello debole da colpire, e da lì aveva ricominciato chi s’era messo in testa di rilanciare la lotta armata.
I tre ergastolani al 41 bis
All’arresto di Nadia Lioce, sorpresa sul treno insieme a Galesi, seguì nell’ottobre 2003, quello degli altri brigatisti rimasti in servizio, una dozzina di militanti ora tutti liberi dopo aver scontato le rispettive pene (compresa la «pentita» Cinzia Banelli, che vive sotto una nuova identità col figlio nato in carcere e neo-maggiorenne) ad eccezione di tre ergastolani: Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma. La quarta, Diana Blefari Melazzi, s’è suicidata in cella nel 2009. I tre brigatisti superstiti hanno compiuto o stanno per compiere 19 anni di detenzione, e nonostante da tempo l’organizzazione non dia più segni di vita, sono tutti e tre ancora al «41 bis», il «carcere duro» introdotto per i terroristi degli anni Settanta, reinventato per i mafiosi all’indomani delle stragi del ’92 e applicato anche agli ultimi militanti delle Br. Da anni chiusi nelle rispettive prigioni tacciono e non lanciano più proclami di guerra, ma sono considerati in servizio permanente effettivo da Procure, forze di polizia e ministra della Giustizia che ha rinnovato i decreti nel settembre scorso.
I pericoli ancora sussistenti e la protesta di Mezzasalma
«L’associazione terroristica è tuttora operante e risulta tuttora dedita ad attività di proselitismo nonché alla programmazione di gravissimi delitti», si legge nel provvedimento, e «l’attuale contesto sociopolitico, caratterizzato da forti tensioni, induce a ritenere concreto il pericolo di una ripresa di possibili azioni violente di natura eversiva». Tra i segnali di rischio ci sono anche i saluti a Nadia Lioce inviati con un documento pubblico da un sedicente Movimento Femminista Proletario Rivoluzionario. Contro l’ultima proroga del «41 bis» Lioce non ha voluto presentare reclamo, mentre Mezzasalma s’è rivolto al Tribunale di sorveglianza per sapere quali siano gli elementi concreti a sostegno di «un teorema tanto suggestivo quanto astratto e sganciato dalla realtà». L’udienza per discuterne non è stata ancora fissata.
La rivincita postuma di Biagi. Carlo Lottieri il 20 Marzo 2022 su Il Giornale.
Vent'anni fa, Marco Biagi veniva ucciso dalle Brigate rosse.
Vent'anni fa, Marco Biagi veniva ucciso dalle Brigate rosse. Ma perché un professore di diritto del lavoro di idee socialiste era finito nel mirino di quanti volevano realizzare una rivoluzione comunista? Per quale motivo chi s'era consacrato allo studio delle relazioni tra imprese e lavoratori veniva considerato talmente importante da far sì che il suo assassinio fosse ritenuto strategico nel cammino verso la dittatura del proletariato?
Tutto affonda nell'ossessione, caratteristica del marxismo, nei riguardi dei contratti di lavoro. Durante il secondo governo Berlusconi venne infatti approvata una legge, largamente ispirata da Biagi, che andava a modificare talune regole. È quindi la vecchia teoria dello sfruttamento, così come fu esposta nel Capitale, ad avere indotto ad agire in quel modo quanti hanno trucidato lo studioso bolognese.
Secondo la teoria marxista, in effetti, chi vende il proprio lavoro è sfruttato da chi lo compra: e questo discende da quella che Marx chiama la «mercificazione» che ha luogo grazie all'accordo tra i due, ma anche e soprattutto dal fatto che il capitalista non restituirebbe per intero quanto il lavoratore ha messo a disposizione con la propria fatica. È insomma la teoria del valore-lavoro, di una fragilità imbarazzante, che spiega quel crimine.
Eppure la realtà finisce sempre in qualche modo per imporsi. Sotto vari punti di vista, grazie ai processi di globalizzazione e anche in virtù di ciò che è successo negli ultimi due anni, oggi non è più immaginabile quel modello di fabbrica immobile e fordista, una sorta di esercito basato su un impiego che durava una vita intera, che era difeso dai comunisti rivoluzionari. E così il lavoro si è fatto sempre più flessibile, negoziabile, «a distanza», mutevole e di conseguenza anche «precario»: esattamente come sono le scelte dei consumatori, che seguono un'offerta in continua trasformazione grazie alle innovazioni in atto.
Si può essere contenti del fatto che in ogni momento si possa perdere la propria posizione lavorativa? No di certo: il «posto fisso» alla Checco Zalone è il sogno di tutti. Ma una simile pretesa, per quanto umana, comporterebbe che il nostro prossimo debba ricevere i nostri servizi anche quando non li apprezza. Sarebbe un po' come se il barista sotto casa pretendesse da noi una fedeltà assoluta. Non è così e non può esserlo.
Pur di sinistra, Biagi guardò la società e comprese che non si fanno gli interessi dei lavoratori difendendo un sistema ingessato, che perde produttività e non permette miglioramenti. Capì che l'Italia doveva lasciarsi alle spalle sia le ideologie più illiberali, sia quell'illusione che esistano privilegi acquisiti.
Per forza di cose e benché ci sia ancora tanto da fare, l'Italia di oggi ha un mercato del lavoro più dinamico che non vent'anni fa. Questo non è avvenuto a seguito di una qualche revisione culturale, né perché si è tornati a credere nell'autonomia negoziale. Alla fine è stata la realtà a imporre le sue regole.
Pensiero innovatore. Le idee di Marco Biagi sul mondo del lavoro sono più attuali che mai. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 19 Marzo 2022.
Il giuslavorista assassinato vent’anni fa aveva intuito l’evoluzione del mercato, e la necessità di tutelare precariato, flessibilità e salari bassi. Ieri a Bologna si è svolta un’iniziativa organizzata da Base Italia per ricordarlo. Tra gli ospiti: Romano Prodi, Giuliano Cazzola, Bruno Tabacci, Marco Bentivogli, Matteo Lepore e Alessandra Servidori
«Marco Biagi sottolineava sempre la necessità di modernizzare il lavoro, la sua cultura e i suoi significati. A questo aggiungeva una virtù fondamentale: non negava la realtà, non si girava dall’altra parte. Purtroppo l’onestà intellettuale in questo Paese è spesso sconveniente, ma dobbiamo riconoscere quanto le sue idee siano ancora fondamentali». Le parole sono di Marco Bentivogli, coordinatore e fondatore di Base Italia, ex segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici.
Bentivogli è intervenuto durante l’iniziativa “Il Riformismo per la dignità del lavoro”, un incontro organizzato proprio da Base Italia in occasione del ventesimo anniversario dell’uccisione di Marco Biagi.
A Palazzo d’Accursio, storica sede dell’amministrazione del Comune di Bologna, al tavolo con Bentivogli c’è il sindaco di Bologna Matteo Lepore, il giuslavorista Giuliano Cazzola, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Bruno Tabacci e l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. A moderare l’incontro è la professoressa Alessandra Servidori.
Bentivogli da anni semina nel tracciato di Marco Biagi, ne segue le orme e le idee: «Biagi era un innovatore, un riformista, un indipendente, un uomo del dialogo. Una persona che ha speso la propria vita per il lavoro», dice il coordinatore di Base Italia. «Con la pandemia abbiamo visto quanto è importante per un Paese rafforzare le tutele dei contratti non standard, di partite Iva e precari. Sono tutte battaglie che ha voluto condurre Marco Biagi, mentre in Italia per anni ci siamo concentrati solo su chi era già protetto da tutele di ogni tipo».
È evidente che oggi i nodi del lavoro siano ancora più stretti in Italia, in un Paese con 4 milioni di Neet, con una scarsa attrattività per i giovani – infatti parliamo di fuga di cervelli – e si lavora con orari lunghissimi e salari mediamente bassi. «Il lavoro deve servire per il benessere della persona, non il contrario, Marco Biagi lo aveva intuito e non è stato capito. Qualcosa non ha funzionato e dobbiamo riconoscerlo prima di peggiorare la situazione», aggiunge Bentivogli.
Aprendo l’incontro, la professoressa Alessandra Servidore ha ricordato come Biagi stesse «da una parte sola, dalla parte del lavoro, ed era capace di guardare in prospettiva: già lavorava con uno sguardo alla sostenibilità, alla comunità lavorativa, al futuro».
Prima di passare la parola tavolo, è intervenuto il cardinale Matteo Zuppi, in un videomessaggio: «Il miglior ricordo che possiamo avere di Marco Biagi è che non dovremmo mai accettare una contrapposizione di pensiero che non sia accompagnata anche dal dialogo, dal confronto, dall’incontro tra le parti, perché si inizia nella scelta stessa del linguaggio a costruire delle relazioni. Biagi aveva l’ambizione di creare diritti possibili e sostenibili, quindi diritti che non vengano svuotati dalla pratica, ma che siano tali nella pratica».
A fare gli onori di casa è il sindaco di Bologna Matteo Lepore: «Bologna è una città che non dimentica le persone, quelle che ci sono e quelle che c’erano. Non dimentica quello che hanno fatto, perché è una città che ha sofferto moltissimo per attentati, stragi e altri fatti di cronaca. E Bologna può e deve essere la città che contrasta il pensiero corto di questo Paese».
Presente all’incontro anche il sindacalista Giuliano Cazzola, amico e collega di Biagi: «In questi giorni mi hanno chiesto se dopo vent’anni il pensiero di Marco Biagi sia ancora attuale: la risposta è sì, anche se nel frattempo il lavoro è cambiato moltissimo. Perché se è vero che c’è una certa precarietà nel lavoro, è lì che dobbiamo portare regole e diritti. E oggi voglio ricordare che Biagi credeva nella flessibilità del lavoro, credeva nelle politiche attive: noi oggi invece abbiamo un sistema che rafforza la cassa integrazione cercando di tenere il lavoratore attaccato all’azienda anche se questa sta per morire. Marco pubblicò sul Sole 24 Ore un articolo che è stato titolato con “licenziare per assumere”, che sembra un pugno nell’occhio, ma quello che è successo con la crisi degli ultimi anni ci ricorda che i posti di lavoro si possono perdere anche con un blocco dei licenziamenti se poi nessuno può e vuole assumere».
Il pensiero di Biagi, infatti, già vent’anni fa, anticipava il dibattito sulla flessibilità e sulla precarietà a cui stiamo assistendo oggi. In un mondo in cui la maggior parte delle opportunità sono globali e difficili da affrontare, riprendere le idee di Marco Biagi può essere una bussola. Lo ha ricordato anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Bruno Tabacci: «Biagi è stato un anticipatore su molti temi, dalla riforma del Titolo V della Costituzione che aveva portato dei contrasti enormi tra Stato e Regioni, alla concorrenza e alle questioni sui conflitti d’interesse. Lo accompagnava però sempre quell’ostilità artificiosa che proveniva da alcuni ambienti sindacali, solo perché voleva regolamentare la flessibilità del mercato del lavoro. Ma lui non l’aveva inventata la flessibilità, l’aveva intuita. Aveva letto la globalizzazione del lavoro e l’evoluzione che sarebbe arrivata».
A chiudere l’incontro l’intervento dell’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, che con Marco Biagi condivideva lo spirito europeista e innovatore: «Certamente la storia sta dando ragione a Marco Biagi. Lui aveva capito che eravamo di fronte a un cambiamento radicale del mondo del lavoro e che chiuderlo in una scatola sola è il massimo errore, quello commesso da chi lo criticava: standardizzare il mondo del lavoro poteva andar bene un secolo fa, oggi giorno dopo giorno ha sempre meno senso».
Vent’anni dopo. Il riformismo di Marco Biagi per la dignità del lavoro. Marco Bentivogli e Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.
Nell’anniversario dell’uccisione del giuslavorista che ha contribuito alla modernizzazione del diritto si svolgerà oggi, a Palazzo d’Accursio, storica sede dell’amministrazione del Comune di Bologna, una manifestazione su iniziativa di Base Lavoro. Parteciperanno il Cardinale Matteo Zuppi, Romano Prodi, il sindaco Matteo Lepore, il sottosegretario dalla Presidenza del Consiglio, Bruno Tabacci. Il dibattito sarà condotto da Alessandra Servidori.
Una delle manifestazioni per la ricorrenza del XX Anniversario dell’uccisione di Marco Biagi si svolgerà stasera, alle 17,30, a Palazzo d’Accursio la storica sede dell’amministrazione del Comune di Bologna, per iniziativa di Base Lavoro. Vi parteciperanno, oltre a chi scrive, S.E. il Cardinale Matteo Zuppi, Romano Prodi, il sindaco Matteo Lepore, il sottosegretario dalla Presidenza del Consiglio, Bruno Tabacci. Il dibattito sarà condotto da Alessandra Servidori.
Vent’anni, in un tempo in cui i processi mutano in fretta, sono tanti. In tema di diritto del lavoro molte cose sono cambiate da quando Marco coordinò la stesura del Libro bianco sul mercato del lavoro e definì l’impostazione della legge che porta il suo nome.
L’insegnamento che proviene dalla vita e dal lavoro di Biagi è ancora attuale per le sue intuizioni e il suo contributo alla modernizzazione del diritto del lavoro.
Ma il suo più importante lasciato è la scuola da lui fondata e portata avanti da Michele Tiraboschi: Adapt è un centro studi di eccellenza che raccoglie e prepara molti giovani talenti interessati ad approfondire le problematiche delle relazioni industriali. Marco era un convinto sostenitore di una dimensione europea, non solo di carattere istituzionale, ma anche culturale e giuridica.
L’altra importante eredità di Biagi è la Fondazione che porta il suo nome a Modena, di cui è animatrice instancabile la moglie Marina, che da vent’anni porta avanti la memoria del marito (di cui fu compagna di scuola) attraverso un impegno culturale e civile. Anche nel ruolo di studioso, Marco aveva colto, tra i primi, l’importanza della “dimensione sociale europea” nella prospettiva dell’evoluzione del diritto del lavoro italiano.
Già nel lontano 1989, Biagi era stato relatore in un Seminario internazione, svoltosi a settembre di quell’anno a Francoforte e dedicato al diritto delle relazioni industriali in vista dell’Europa del 1992 (Trattato di Maastricht).
In quell’occasione, Marco si era cimentato nel tentativo «di identificare le materie che, in futuro, più di altre potrebbero essere oggetto di armonizzazione in sede comunitaria e di ricercare il possibile ruolo italiano».
Il professore bolognese avvertiva immediatamente che «lo sforzo di essere europeo è per un giurista, figlio solitamente di un’educazione ben poco orientata verso l’internazionalizzazione, un compito più arduo rispetto agli altri scienziati sociali». Ma sentiva, comunque, il dovere – come ebbe occasione di dimostrare negli anni successivi – di non sottrarsi «ad un impegno culturale davvero avvincente».
Marco Biagi era pienamente consapevole di due seri handicap del nostro Paese: un ritardo strutturale – ora in parte superato – nel recepire le Direttive europee (per altro appesantendone, nei provvedimenti di recepimento, i vincoli e i limiti a carico delle imprese); uno scarso interesse per le problematiche della partecipazione dei lavoratori con le quali, invece, l’Europa si era cimentata da tempo.
Secondo Biagi, essendo quello italiano un sistema altamente informale (a partire dalle regole della rappresentanza e della rappresentatività) «perderebbe davvero il suo tempo chi volesse giudicare il diritto italiano del lavoro (specie quello collettivo) tenendo conto solo dei testi legislativi».
La ricchezza della contrattazione collettiva era tale – proseguiva il professore – da costituire un insieme di regole davvero ampio e comunque sufficiente per garantire un alto livello di tutela dei lavoratori italiani. «Tuttavia, sono proprio le parti sociali – aggiungeva Marco – a rendersi conto che se l’informalità può rappresentare flessibilità nella regolamentazione dei rapporti collettivi di lavoro, possono sopraggiungere situazioni in cui essa si traduce in instabilità e quindi in un elemento di debolezza del sistema».
In sostanza, se l’informalità delle relazioni industriali italiane non aveva accusato per molti anni segni di logoramento (nonostante l’assetto estraneo al disegno costituzionale a cui era approdato il modello di relazioni industriali) fino a quando era iniziata la crisi dell’unità d’azione delle tre più importanti organizzazioni sindacali, già alla fine degli anni ’80 Biagi denunciava, nel Seminario di Francoforte, l’esigenza di innovazioni nei principi regolatori dei rapporti collettivi in diverse aree: dall’elezione delle rappresentanze dei lavoratori sul luogo di lavoro, dalle procedure di raffreddamento dei conflitti ad una vera regolamentazione dell’esercizio del diritto di sciopero nei servizi essenziali.
Ma l’interesse di Biagi tornava subito all’idea forza della flessibilità nella regolamentazione dei rapporti contrattuali e alla riduzione del «nucleo protettivo del lavoro, specie nelle sue aree più obsolete ed esposte alle sollecitazioni dei mercati».
E ancora a proposito del dialogo sociale che, secondo Biagi, «dovrebbe essere inteso come una fase procedurale in cui le parti raggiungono intese che facilitano una prospettiva che respinge una prassi unicamente di tipo regolatorio-legislativo e che opta decisamente per un’intelligente utilizzazione congiunta di interventi pubblici promozionali… e di intese sociali a livello nazionale».
È possibile riconoscere, dunque, le radici di un pensiero moderno del professore bolognese che venne sviluppato, anni dopo, nel Libro bianco, le cui proposte hanno costituito – in via di fatto nonostante le odiose critiche con cui venne accolto – una guide line per la riforma delle relazioni industriali.
Ma anche sul piano del diritto del lavoro in senso stretto quella “visione” europea (che fu il suo benchmark) consentì a Marco, in qualità di consulente dei ministri del Lavoro, di rielaborare proposte e iniziative che, in quei tempi, erano state attuate nella stragrande maggioranza dei Paesi sviluppati, perché rispondevano – non già al capriccio di un governo ostile o ai disegni perversi delle forze della reazione in agguato – ma a tentativi complessi di dare risposte a precise ed ineludibili esigenze dell’economia, della produzione e dell’organizzazione del lavoro. E di tutelare, con norme adeguate, i settori emergenti e marginali del mercato del lavoro.
Perché secondo Marco il compito del giuslavorista non era quello di trasferire, a forza, la realtà all’interno di una ideologia precostituita, bensì quella di portare la regola del diritto e dei diritti, laddove non era ancora arrivata.
La capacità di guardare oltre i confini (non solo quelli fisici tra gli Stati, ma anche quelli che delimitano – e soffocano – le diverse culture, anche giuridiche) è stato il filo rosso dell’attività di Marco Biagi. In sostanza, la dignità del lavoro è garantita da quella cultura del riformismo che guidò l’attività di Marco Biagi.
Vent'anni fa l'uccisione del giuslavorista. Lasciammo uccidere Marco Biagi, riformista di sinistra messo al bando dalla sinistra stessa. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 20 Marzo 2022.
«Marco Biagi muore a Bologna la sera del 19 marzo 2002 all’età di 51 anni, vittima di un attentato terroristico delle Brigate rosse». Con queste essenziali parole termina il libro che l’allievo prediletto, Michele Tiraboschi, dedicò al suo maestro nel primo anniversario della morte. Sono trascorsi vent’anni. Oggi Marco avrebbe l’età della pensione; sarebbe nonno di due belle bambine, le figlie di Francesco. Facendo tesoro delle esperienze, delle iniziative, degli studi e delle pubblicazioni a cui si sarebbe dedicato in tutti questi anni, continuerebbe a “fare scuola” alle diverse generazioni di allievi in quel Centro studi di relazioni industriali – ADAPT – che aveva fondato nella Facoltà di Economia di Modena e Reggio Emilia, dove era professore ordinario di diritto del lavoro.
Quella di Marco Biagi era una vita organizzata, scandita da orari prestabiliti, da spostamenti consueti, da iniziative programmate e svolte nel minor tempo possibile. Solo così era in grado di governare la mole di opere in cui era impegnato. L’insegnamento prima di tutto; poi i rapporti con gli allievi e gli studenti, tutti in qualche modo associati alle molte attività che il professore svolgeva. Biagi sapeva motivare i propri collaboratori, coinvolgendoli nelle ricerche che gli erano state affidate, nella vita delle associazioni che aveva promosso, nel lavoro redazionale nelle riviste giuridiche che dirigeva o nelle numerose relazioni internazionali intraprese sulla via del benchmarking. Da alcuni anni, oltre che a Bruxelles dove era rappresentante del governo italiano del Comitato per le politiche del lavoro, Marco doveva recarsi spesso a Roma e misurarsi con i tempi morti dei ministeri, con le trappole della politica. Ma era riuscito ad affermare il suo metodo di lavoro; poco alla volta furono gli uffici ministeriali ad adattarsi alle sue regole, a preparare le riunioni, una dopo l’altra, affinché neppure un minuto andasse perduto.
Poi, c’erano gli articoli. Per collaborare a un quotidiano – come Il Sole-24 Ore – occorreva prontezza e disponibilità, bisognava saper rispondere in poche ore alla richiesta del direttore prima della chiusura del giornale. Biagi scriveva ovunque, anche sul treno che lo portava da Roma a Bologna, pronto a dettare, via cellulare, ai dimafoni (allora non era diffuso internet) il pezzo, magari durante la sosta nella stazione di Firenze. Non era facile per lui dedicarsi alla famiglia, alla moglie Marina e a quei due meravigliosi ragazzi che crescevano a vista d’occhio e che presto avrebbero preso la propria strada. Così, Marco difendeva gli spazi dedicati ai suoi cari con tutta la disciplina di cui era capace. Talvolta con un’accanita ritualità: la corsa domenicale in bicicletta bardato come Pantani; la messa in parrocchia; la partita allo Stadio, a tifare Bologna. Ma la domenica era fatta di altre consuetudini: i tortellini in brodo in tavola, ad esempio, acquistati, come ogni sabato, dal salumiere di via Oberdan, lo stesso che il giorno dei funerali chiuse il negozio per lutto. Poi, c’era la lettura del Corriere della Sera perché i ragazzi imparassero a farsi delle opinioni. Terminata la scuola e fino all’inizio del nuovo anno, la famiglia Biagi – dopo le vacanze a Marina di Ravenna – si trasferiva nel buen rétiro di Pianoro. Là, dopo Ferragosto, veniva la serata della “braciolata” con gli amici (persone di diversi ambienti, a testimonianza dei tanti incontri di Marco e Marina).
Ecco: la sua era una “vita da mediano”, ricca di promesse, di affetti e di dolci abitudini. Fino a quei sette colpi di pistola, all’ora di cena del 19 marzo di vent’anni or sono, esplosi da un commando di brigatisti scalzacani che – come si seppe nel processo – avrebbero rinunciato all’operazione se un poliziotto armato fosse stato in compagnia di Biagi. Di quella sera maledetta conservo un ricordo nitido. Mi trovavo nella mia abitazione romana e ascoltavo, seduto davanti al computer, la radiocronaca di una partita di calcio. Nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo un giornale radio volante diede la notizia dell’assassinio di Marco del quale ero amico da quasi trent’anni. Quel 19 marzo, non ricordo bene, era un martedì o forse un mercoledì: il venerdì precedente Il Sole-24 Ore aveva pubblicato un appello per la riforma del mercato del lavoro (nel bel mezzo della “guerra civile” sull’articolo 18) dove il professor Biagi figurava come terzo firmatario dopo Renato Brunetta e il sottoscritto. In quello stesso giorno, una delle riviste più diffuse aveva pubblicato gli stralci di un rapporto dei Servizi (ovviamente era noto a chi di dovere e che si ostinava a negargli la tutela) nel quale l’identikit di Marco spiccava a tutto tondo tra i possibili obiettivi del nuovo terrorismo.
Nel ricordare questa dolorosa sequenza di date e di fatti intendo stigmatizzare ancora una volta le responsabilità di chi non volle prestare ascolto ad allarmi, risultati purtroppo profetici. C’è un aspetto più significativo da cogliere negli ultimi mesi di vita di Marco: il valore di un insegnamento sempre attuale; la prova di un’esemplare forza morale. Sapeva di essere in pericolo, ma non volle mancare al suo dovere. Le lettere, pubblicate postume, furono scritte da una persona che avvertiva tutto il dramma della sua situazione ed era deluso per l’altrui sordità burocratica. Come se non bastasse, Biagi sentiva crescere intorno a sé un’ottusa ostilità nel proprio ambiente di lavoro e di vita; era divenuto bersaglio di un odioso ostracismo di natura pseudo-etica, soltanto perché osava collaborare con il legittimo Governo del suo Paese (per il quale non aveva votato). Dopo la vittoria della Casa delle libertà, nel 2001, tuttavia, Marco non salì sul carro del vincitore, né gli furono chiesti atti di fede politica. Il ministro del Welfare, Roberto Maroni, gli offrì un rapporto di collaborazione franco ed onesto, in piena libertà. E Marco trovò la possibilità di ritessere la trama di quella riforma del mercato del lavoro che aveva portato avanti a fianco del suo amico e collega Tiziano Treu. Soprattutto si sentì circondato da quel rispetto umano (particolare fu il suo rapporto con Maurizio Sacconi), da quella considerazione personale che la sua parte politica gli aveva revocato da tempo, soltanto perché voleva proporre dei cambiamenti a regole oggettivamente vetuste.
Nei confronti del suo lavoro le manifestazioni di un normale dissenso di merito, per altro legittimo ed utile, erano contornate da un clima contestuale di sgradevoli riprovazioni etiche che sfociavano in una sostanziale accusa di tradimento. Nonostante tutto ciò, Biagi non volle tirarsi indietro. Ignorò i pressanti inviti dei suoi cari; continuò a scrivere i suoi editoriali, a fornire le sue preziose consulenze, a fare la spola – da solo – tra Bruxelles, Modena, Bologna e Roma e a recarsi ovunque fosse chiamato a difendere le sue idee, a svelare le menzogne del pregiudizio ideologico altrui. Marco era un cattolico praticante; conosceva il significato del martirio come testimonianza. Per lui la vita non avrebbe avuto senso se non fosse stata illuminata da principi per i quali valesse la pena di non mollare mai. La tragedia umana degli ultimi mesi di vita è stata consegnata alle lettere; molti di noi – ancorché intimi amici – ne divenimmo consapevoli soltanto dopo quel 19 marzo 2002; perché nulla di quell’angoscia quotidiana lo distolse mai dal suo lavoro o sollevò in lui la tentazione di farsi da parte, di rinunciare. Quel “nemico del popolo” caduto davanti all’uscio di casa era un riformista, un uomo di sinistra vittima dell’ostracismo di una sinistra (il bisticcio di parole è voluto), incapace di mettere in discussione se stessa all’interno delle trasformazioni del lavoro. Si dice che i soli a morire veramente siano coloro non lasciano nulla dietro di sé. Se ciò è vero, Marco Biagi è ancora tra noi. Giuliano Cazzola
(ANSA il 27 ottobre 2022) Svolta nelle indagini sul conflitto a fuoco in cui morirono la brigatista Margherita 'Mara' Cagol e l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso. Quarantasette anni dopo il conflitto a fuoco avvenuto nell'Alessandrino in occasione della liberazione dell'imprenditore Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima, sono stati interrogati a Milano alcuni ex appartenenti alle Br.
Gli accertamenti dei carabinieri del Ris di Parma potrebbero dare un nome a chi, ormai quasi cinquant'anni fa, partecipò a quello che è passato alla storia come il primo sequestro di persona a scopo di autofinanziamento operato dalle Brigate Rosse.
L'attività investigativa fa seguito agli accertamenti scientifici cui sono stati sottoposti, con le più moderne tecniche, i reperti sequestrati all'epoca della sparatoria. Nel corso degli anni si sono fatte varie ipotesi sulla identità del brigatista che riuscì a fuggire. A far riaprire le indagini è stato l'esposto presentato, con il tramite di un avvocato, da Bruno d'Alfonso, anche lui carabiniere, figlio dell'appuntato morto nella sparatoria del 5 giugno 1975. "E' una questione di giustizia e di verità storica.
Anche per onorare la figura di mio padre, un eroe che diede la vita per le istituzioni", ha detto d'Alfonso dopo aver presentato l'esposto. Le indagini sono affidate ai carabinieri del ROS e coordinate dai magistrati del pool sul terrorismo della Procura di Torino e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.
Br, si riapre la caccia al terrorista che riuscì a dileguarsi dopo lo scontro a fuoco in cui morìrono Mara Cagol e un carabiniere. Accertamenti dei Ris di Parma sui reperti sequestrati all'epoca della sparatoria che portò alla liberazione dell'imprenditore sequestrato Vittorio Vallarino Gancia. interrogati a Milano alcuni ex appartenenti alle Br. La Repubblica il 27 Ottobre 2022.
Svolta nelle indagini sul conflitto a fuoco in cui morirono la brigatista Margherita 'Mara' Cagol e l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso. Quarantasette anni dopo il conflitto a fuoco avvenuto nell'Alessandrino in occasione della liberazione dell'imprenditore Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima, sono stati interrogati a Milano alcuni ex appartenenti alle Br. Gli accertamenti dei carabinieri del Ris di Parma potrebbero dare un nome a chi, ormai quasi cinquant'anni fa, partecipò a quello che è passato alla storia come il primo sequestro di persona a scopo di autofinanziamento operato dalle Brigate Rosse.
L'attività investigativa fa seguito agli accertamenti scientifici cui sono stati sottoposti, con le più moderne tecniche, i reperti sequestrati all'epoca della sparatoria. Nel corso degli anni si sono fatte varie ipotesi sulla identità del brigatista che riuscì a fuggire. A far riaprire le indagini è stato l'esposto presentato, con il tramite di un avvocato, da Bruno d'Alfonso, anche lui carabiniere, figlio dell'appuntato morto nella sparatoria del 5 giugno 1975. "E' una questione di giustizia e di verità storica. Anche per onorare la figura di mio padre, un eroe che diede la vita per le istituzioni", ha detto d'Alfonso dopo aver presentato l'esposto.
Le indagini sono affidate ai carabinieri del ROS e coordinate dai magistrati del pool sul terrorismo della Procura di Torino e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.
La morte di Mara Cagol e del carabiniere nel ‘75: un cold case delle Br riaperto da un’impronta. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 27 Ottobre 2022.
Si cerca il terrorista che scappò: c’è un’ipotesi sulla sua identità. Analisi sulla macchina da scrivere utilizzata dal fuggitivo per una relazione sui fatti
L’irruzione dei carabinieri, il 5 giugno 1975, nel covo delle Br a Spiotta di Arzello (Alessandria): nella sparatoria morirono Mara Cagol e il carabiniere Giovanni D’Alfonso
È uno dei capitoli incompleti della storia delle Brigate rosse; uno dei primi, scritto 47 anni fa: la sparatoria alla cascina Spiotta, in provincia di Alessandria, in cui furono uccisi l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e Margherita «Mara» Cagol, che con il marito Renato Curcio aveva fondato le Br. Il tenente Umberto Rocca perse un braccio e un occhio, il maresciallo Rosario Cattafi rimase ferito, l’appuntato Pietro Barberis ne uscì illeso mentre un secondo brigatista riuscì a scappare. La sua identità è sempre rimasta sconosciuta, ma adesso una nuova indagine coordinata dalla Procura di Torino e dalla Procura nazionale antiterrorismo, con l’appoggio dei carabinieri del Ros, ipotizzano un nome: quello di un ex dirigente delle Br arrestato qualche anno dopo, condannato per altri omicidi e ferimenti firmati con la stella a cinque punte chiusa nel cerchio e oggi libero dopo aver scontato le pene accumulate.
L’impronta
È una «pista» emersa da nuovi elementi, non ancora sufficienti ad attribuirgli con certezza la partecipazione a quel conflitto a fuoco. C’è però una traccia: un’impronta digitale rilevata all’epoca nella cascina-covo che — riesaminata con le nuove tecniche a disposizione — è risultata compatibile con quella dell’ex br archiviata al momento della sua cattura. Per essere sicuri che appartenga a lui si tenterà l’esame del Dna, che con le nuove tecniche a disposizione del Ris di Parma si potrebbe estrarre dal vecchio reperto. Tuttavia pure l’eventuale attribuzione dell’impronta nel covo sarebbe un indizio ma non una prova del coinvolgimento nella sparatoria.
Sentito Patrizio Peci
Nel frattempo gli inquirenti procedono con gli strumenti più tradizionali, e sono tornati a interrogare alcuni ex brigatisti; tra questi il proto-pentito Patrizio Peci, che però non sarebbe stato in grado di fornire elementi utili per via della «compartimentazione» all’epoca vigente dentro l’organizzazione; una regola secondo la quale i compagni venivano informati su operazioni e fatti a cui non avevano partecipato solo se serviva ai compiti assegnati loro.
Gli interrogatori e l’inchiesta
Si sta dunque provando a riempire le parti mancanti di una pagina di storia del terrorismo italiano con gli strumenti dell’indagine penale, una via che inevitabilmente suscita reticenze tra ex militanti (soprattutto se non pentiti né dissociati) che invece sanno ciò che accadde quel giorno e finora hanno sempre taciuto. Riaprire fascicoli giudiziari che possono portare a nuove incriminazioni (in questo caso per omicidio) per fatti così indietro nel tempo, non è considerata una strada percorribile dai protagonisti della lotta armata di allora. Il corso della giustizia però ha altre regole, e l’inchiesta è stata riaperta sulla base di un esposto presentato un anno fa dal figlio del carabiniere ucciso, Bruno D’Alfonso, anche lui un passato nell’Arma, assistito dall’avvocato Sergio Favretto. In una ventina di pagine più allegati, D’Alfonso e il suo legale hanno ricostruito tutto quanto accertato nel 1975 dai carabinieri di Acqui Terme e Torino intervenuti dopo la sparatoria, confluito nel processo a carico di un brigatista arrestato il giorno prima, Massimo Maraschi, accusato di sequestro di persona.
Il rapimento di Vallarino Gancia
Alla cascina Spiotta, infatti, Cagol e il suo complice tenevano in ostaggio il «re delle bollicine» Vallarino Gancia, rapito il 4 giugno per ottenere un riscatto che rimpinguasse le casse dell’organizzazione. Lo stesso giorno Maraschi fu arrestato in seguito a un incidente stradale, e si dichiarò prigioniero politico. Nelle perlustrazioni dell’indomani, una pattuglia dei carabinieri giunse alla Spiotta, e notate le macchine parcheggiate bussò alla porta. I brigatisti risposero a colpi di pistola, mitraglietta e bombe a mano, uccidendo e ferendo i carabinieri e innescando la sparatoria in cui perse la vita la donna.
La «relazione interna»
Il brigatista che sfuggì al fuoco dei carabinieri riuscì a scappare tra campi e boscaglia, e riagganciati i compagni scrisse una sorta di «relazione interna» trovata nel covo milanese di via Maderno in cui a gennaio ‘76 fu arrestato Renato Curcio. Lì c’è una versione dei fatti che accredita la versione di una «esecuzione» di Mara Cagol, sempre smentita dai carabinieri superstiti. Uno dei quali, Rocca, ha anche detto di aver successivamente riconosciuto e identificato il fuggitivo, indicandone anche la provenienza da un marcato accento emiliano; ma senza la conferma dell’altro collega che l’aveva visto in faccia, l’appuntato Barberis morto nel 2003, la sua testimonianza non portò a nulla. Tra i reperti ora all’esame del Ris ci sono pure la macchina da scrivere trovata in via Maderno, con cui verosimilmente fu scritta la relazione del fuggitivo, e l’originale del documento, alla ricerca di altre tracce. Ma si tratta di accertamenti ancor più complicati rispetto a quelli sull’impronta digitale. «A noi interessa una piena ricostruzione dei fatti — spiega l’avvocato Favretto — che all’epoca non fu possibile perché le indagini furono inspiegabilmente chiuse in tutta fretta».
Si riapre il caso sull'uccisione di Mara Cagol. Caccia a un altro brigatista. Il Tempo il 27 ottobre 2022
La Procura di Torino ha riaperto le indagini sulla morte di Mara Cagol e dell’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, rimasti uccisi in un conflitto a fuoco in provincia di Alessandria durante la liberazione dell’imprenditore Vittorino Gancia, nel 1975. L’inchiesta, affidata all’aggiunto Emilio Gatti, ha portato a individuare alcuni reperti, che sono stati analizzati dai carabinieri del Ris di Parma, tra cui un’impronta digitale e tracce di Dna. Nelle scorse settimane, a quanto si apprende, sono anche stati sentiti alcuni testimoni, tra cui alcuni ex appartenenti alle Brigate Rosse.
Le indagini sulla morte di Mara Cagol, moglie di Renato Curcio e cofondatrice delle Br, e dell’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, sono state riaperte un anno fa, dopo che Bruno D’Alfonso, figlio del militare ucciso, ha presentato un esposto alla Procura di Torino, chiedendo di riesaminare l’episodio alla luce delle conoscenze maturate negli anni sul mondo delle Brigate Rosse e alla luce delle nuove tecniche forensi.
In particolare, i carabinieri del Ris di Parma guidato dal colonnello Giampietro Lago, hanno esaminato i reperti raccolti all’epoca dei fatti utilizzando le attuali tecniche di indagine, analizzando Dna, reperti balistici e altro materiale ritrovato nel casolare di Melazzo, in provincia di Alessandria, dove il 5 giugno 1975 era stato individuato e liberato l’imprenditore Vittorino Gancia, sequestrato dalle Br il giorno prima. L’obiettivo è accertare chi fosse il brigatista che era insieme a Mara Cagol e che quel giorno è riuscito a sfuggire all’arresto.
L’ipotesi di Bruno D’Alfonso, è che, a sapere qualcosa di quello che è accaduto siano «i vertici delle Br dell’epoca, come Mario Moretti, Lauro Azzolini, Roberto Bonisoli o la stessa Nadia Mantovani», che abitava con Renato Curcio nel covo di via Maderno a Milano, dove il 18 gennaio 1976 è stato trovato un dattiloscritto redatto dal brigatista che era di guardia durante la liberazione di Gancia ed è riuscito a sfuggire alla cattura. «Rileggendo le sentenze e gli atti, vedendo quello che è stato fatto e che non è stato fatto nel corso delle indagini - ha detto Bruno D’Alfonso - ho notato diverse anomalie. Di fatto, dopo che è stato trovato il dattiloscritto a 7 mesi dalla sparatoria in cui è morto mio padre, l’indagine non è stata più approfondita. Ci si è solo preoccupati di accusare Massimo Maraschi, arrestato il giorno prima del conflitto. A lui sono state addossate tutte le responsabilità ed è stato condannato per omicidio». Delle indagini si occupano i carabinieri del Ros.
"L'altro Br con la Cagol era Azzolini". Riaperta l'indagine sulla morte della terrorista. Parla l'ufficiale che intervenne dopo il blitz. Luca Fazzo il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.
«Arrivai alla Cascina Spiotta poche decine di minuti dopo il conflitto a fuoco. Mara Cagol era stesa al suolo, nell'erba, già morta. La situazione era terribile, c'erano i due colleghi feriti in modo gravissimo. Dell'altro brigatista che era con lei non c'era più traccia, era riuscito a dileguarsi nella boscaglia. Iniziammo da subito a cercare di dargli un nome, da alcune tracce all'inizio ci convincemmo che fosse Alfredo Bonavita, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. Adesso invece a quanto pare si è scoperto che era un altro del nucleo storico, Lauro Azzolini». Uno dei due che nel 1977 avrebbero gambizzato Indro Montanelli. Azzolini spiega al il Giornale: «Dico solo che di quella operazione si assunse per intero la responsabilità, l'organizzazione Brigate Rosse».
Luciano Seno, alto ufficiale dei carabinieri e poi del Sismi, nel 1975 era l'uomo di punta della squadra appena costituita dal generale Dalla Chiesa per dare la caccia ai terroristi rossi. Anche lui nei mesi scorsi è stato interrogato dai magistrati torinesi che hanno riaperto l'inchiesta sullo scontro a fuoco in cui persero la vita la brigatista Mara Cagol e il maresciallo Giovanni. D'Alfonso, arrivando a dare un nome al compagno della Cagol dileguatosi nei boschi.
Come fu individuata la Cascina Spiotta?
«Dalla Chiesa aveva avuto l'intuizione di allertare tutti i reparti territoriali dell'Arma perché dessero la massima attenzione ad appartamenti presi in affitto, casali, ville. Non si parlava di cascine ma i colleghi di Acqui avevano messo nell'elenco anche la Spiotta. Il 4 giugno era stato rapito l'industriale Vallarino Gancia, due giorni dopo era stato fermato nella zona Maraschi, un ragazzo che si era subito dichiarato prigioniero, capimmo che il sequestro era opera delle Br, fummo allertati noi del nucleo speciale e venne avviato il protocollo preparato per questi casi. Ma il sopralluogo alla Spiotta era di routine, arrivarono lì dopo avere visitato alcuni casolari attigui, non erano preparati allo scontro a fuoco fin quando la Cagol non tirò la bomba che staccò di netto l'avambraccio al tenente Rocca. Il maresciallo D'Alfonso iniziò a sparare con tutto quello che aveva a disposizione, sparò fino all'ultimo proiettile che aveva, forse riuscì a ferire la Cagol. Ma venne ucciso dai due brigatisti che cercavano di fuggire, ma si trovarono la strada chiusa da una nostra auto. La donna venne uccisa dall'appuntato Barberis: e non ho mai saputo se durante la sparatoria o da un colpo finale. Quando scoprimmo che era la latitante Cagol la cosa mi fece un certo effetto. Perché poco tempo prima ero andato a Fiera di Primiero, in Trentino, a incontrare i suoi familiari, e la sorella Milana mi aveva detto: Viviamo nella paura che suoni il telefono e ci dicano che Margherita è morta. Toccò a me farle quella telefonata e accompagnarla il 6 giugno all'obitorio a fare il riconoscimento».
L'altro brigatista invece riuscì a fuggire.
«Purtroppo sì, ma è chiaro che non si può dare nessuna colpa ai colleghi che erano sul posto e che si erano trovati nel pieno di una tragedia. Le loro reazioni, e anche i loro ricordi personali, le dichiarazioni che hanno fatto in seguito, possono essere stati sicuramente condizionati dallo stato d'animo in cui si erano trovati all'improvviso. Erano andati lì per fare un accertamento e si erano trovati attaccati con mitra e bombe a mano».
L'inchiesta successiva come venne condotta?
«Su questo ho qualche dubbio in più, diciamo che si poteva probabilmente essere più precisi. Adesso si è arrivati a identificare Azzolini. Come fisionomia e statura direi che corrisponde. Ma a quarantasette anni di distanza dai fatti avere delle certezze rischia di essere molto difficile».
Da un’impronta sulla tastiera la prova regina dell’inchiesta. L’esposto del figlio del militare ucciso. Cruciali le tracce trovate su una macchina da scrivere. Luca Fazzo il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Una vecchia macchina da scrivere riapre la finestra, a quasi mezzo secolo di distanza, su un episodio cruciale nella storia del terrorismo rosso in Italia: il sanguinoso scontro a fuoco che nel giugno del 1975, vicino Aqui Terme, costò la vita al maresciallo dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e a Margherita «Mara» Cagol, fondatrice delle Brigate Rosse e moglie del loro leader Renato Curcio. Il bliz dei carabinieri portò alla liberazione dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia, rapito il giorno prima dai brigatisti in una delle loro prime imprese di autofinanziamento e tenuto prigioniero nella cascina Spiotta, teatro della battaglia tra terroristi e carabinieri. Il compagno che insieme alla Cagol custodiva l’ostaggio e che partecipò insieme a lei alla sparatoria con i militari non è mai stato identificato, benché il numero dei membri di spicco delle Brigate Rosse fosse allora piuttosto ristretto. Recentemente la Procura di Torino e i Ros dei carabinieri, con la collaborazione dei reparti scientifici dell’Arma, hanno riaperto l’inchiesta in base anche all’esposto del figlio di Giovanni D’Alfonso, il maresciallo che venne ucciso dai terroristi nel tentativo di aprirsi la strada verso la fuga. Dalle tracce lasciate all’epoca all’interno della cascina non è emerso nulla di utilizzabile. Ma uno spunto decisivo potrebbe essere venuto dalla macchina da scrivere trovata qualche anno dopo nel covo milanese di via Maderno, dove vennero arrestati Curcio e la sua compagna Nadia Mantovani. Nel covo venne sequestrata anche una ampia relazione dattiloscritta sui fatti della Cascina Spiotta, il cui autore - per i dettagli inediti che vi erano contenuti - era verosimilmente lo stesso brigatista che aveva partecipato allo scontro. Si trattava di una ventina di fogli, una specie di rapporto di servizio destinato probabilmente proprio a Curcio, e utile forse alla indagine interna decisa dalle Br per individuare gli errori che avevano portato al disastroso esito della «operazione Gancia». Da lì sono partite le nuove indagini, che hanno portato gli inquirenti torinesi a interrogare sia ex appartenenti alle forze dell’ordine sia alcuni esponenti del vecchio gruppo dirigente delle Brigate Rosse. Una attività resa possibile da fatto che il reato di concorso in omicidio non si prescrive mai, e doverosa dalla prospettiva di dare una risposta ai molti interrogativi ancora aperti sui fatti della Spiotta. «È importante - dice Bruno D’Alfonso, figlio del maresciallo ucciso - che dopo tanti anni ci sia ancora qualcuno disposto a scoprire qualcosa e a risolvere il caso. Non so quanto, ma oggi sicuramente la verità è meno lontana». A rendere tutto più difficile, nell’inchiesta-bis, c’è sicuramente il tempo trascorso, che fa sì che alcuni protagonisti non siano più in vita, che i ricordi degli altri siano fatalmente annebbiati, che la ricerca di riscontri materiali e documentali sia impervia. Ma la ricostruzione potrebbe essere preziosa non solo per individuare il nome mancante (per il quale la prescrizione del reato sarebbe quasi certa, viste le attenuanti inevitabili, specie se dovesse trattarsi di un esponente - come quello citato qua sopra - che ha da tempo preso le distanze dall’esperienza della lotta armata) ma anche per completare il quadro storico del brigatismo delle origini. Per i quadri delle Brigate Rosse lo scontro della Spiotta divenne una sorta di spartiacque, un mito fondativo: la prova che non si poteva più tornare indietro.
Idealisti & sconfitti. Chi erano i ventenni degli Anni 70 che entrarono nelle BR. Paolo Di Stefano su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2022.
Alessandro Bertante in Mordi e fuggi ricostruisce la fase aurorale delle Brigate Rosse. Cosa volevano quei giovani che gravitavano fra l’università e le fabbriche occupate, in una Milano irriconoscibile? Dialogo con i coetanei di oggi. A distanza, ma con alcuni punti in comune: dal «vogliamo tutto» al «vogliamo almeno qualcosa»
Che cosa ne saprà un ventenne di oggi dei ventenni degli anni 70? Niente, o quasi. Forse anche ispirato da questa domanda, Alessandro Bertante ha voluto scrivere Mordi e fuggi. Perché in realtà il «romanzo delle BR», come recita il sottotitolo, è anche altro: è il romanzo di un sogno o meglio di un’illusione. L’illusione di cambiare il mondo e di cambiarlo con le armi. Meglio ancora: il romanzo dell’ubriacatura di una generazione. Non tutta una generazione, ma pur sempre una sua minoranza significativa. Questa minoranza è la protagonista del libro di Bertante. Leggendo Mordi e fuggi , un ventenne di oggi è messo nelle condizioni migliori per capire i suoi coetanei di mezzo secolo fa, perché a raccontare quella storia si immagina che sia uno di loro: Alberto Boscolo, figlio di un impiegato milanese dell’Alfa Romeo, dunque un «piccolo borghese» che diventa un militante comunista e poi un combattente armato delle Brigate Rosse. Che cosa ne saprà oggi delle Brigate Rosse un ventenne? Poco o niente. Ma leggendo il romanzo di Bertante imparerà un sacco di cose, trovandosi egli stesso dentro quella vicenda per tanti versi drammatica e per altri affascinante.
Da Fenoglio a Culicchia
Non che manchino i libri sull’argomento: a parte la fiumana di memoriali che hanno inondato l’editoria, ci sono i romanzi con i loro sguardi trasversali e imprevedibili. Uno dei più straordinari è uscito l’anno scorso ed è Il tempo di vivere con te , in cui Giuseppe Culicchia rievoca la vita del suo adorato cugino, il brigatista Walter Alasia, ucciso dalla polizia nel dicembre 1976 nel cortile di casa. Un altro è quello di Loris Campetti, L’arsenale di Svolte di Fiungo , che racconta dal punto di vista di chi l’ha vissuta (Campetti è del 1948 e all’epoca aveva 24 anni) una assurda storia di militanza e di fuga intrapresa per evitare l’ingiusta accusa di associazione sovversiva nel clima terribile seguito alla strage di Piazza Fontana e alla morte di Pinelli, al mancato golpe di Junio Valerio Borghese, alle lotte operaie e al manifestarsi del terrorismo. Sono affreschi di un’epoca lontana, che riesce a rivivere con rinnovato vigore più attraverso la letteratura che nei libri di storia, com’è accaduto, per esempio, alla lotta partigiana grazie ai romanzi di Fenoglio, di Calvino o di Vittorini.
Il libro di Bertante (classe 1969) è un esempio di questa capacità di rendere dall’interno una vicenda altrimenti (e giustamente) demandata ai manuali delle scuole o alle indagini degli storici.
Emozioni, dubbi e confusione
Mordi e fuggi cerca di restituire le emozioni, i dubbi, le esaltazioni, le ingenuità di un protagonista (immaginario ma verosimile) di quegli anni, e lo fa senza tradire il rigore documentario della cornice, tanto più interessante in quanto ricostruisce la fase aurorale delle Brigate Rosse sin da quando si chiamavano, al singolare, Brigata Rossa subito dopo il convegno fondativo di Costaferrata. Renato è il fondatore Renato Curcio, Mara è la sua fidanzata e futura moglie Margherita Cagol, anche lei dirigente delle BR. C’è Alberto Franceschini, detto il Mega, proveniente dal gruppo di Reggio Emilia. C’è il collaboratore di giustizia Marco Pisetta, a cui si deve la prima retata della polizia. C’è poi la presenza imponente di Giangiacomo Feltrinelli, il compagno Osvaldo, con i suoi Gruppi di Azione Partigiana. E c’è il traliccio di Segrate in cui morì l’editore.
Le diagnosi psicologiche sui nostri adolescenti e postadolescenti le ritroviamo, simili, nel combattente Alberto
C’è l’ambiente formicolante dell’università in una Milano effervescente e cupa, estranea a ogni cliché, compreso quello neorealista, una città di melting pot che in parte coincide con quella raccontata magnificamente da Alberto Rollo in Un’educazione milanese , una Milano che certo un ventenne di oggi, magari frequentatore di happy hour e di apericena, stenterebbe a riconoscere. Ci sono le fabbriche occupate, la Sit-Siemens e la Pirelli, c’è la Comune in cui lo «studentame» ribelle convive con gli operai di estrema sinistra, ci sono le bettole in cui si discute, si fa baldoria e si beve vino di pessima qualità.
La stessa «vulnerabilità»
Insomma, ci sono tutte le tracce per capire. E magari si trovano anche gli elementi per un confronto tra i cosiddetti Baby Boomers e la cosiddetta Generazione Z: un confronto solo in apparenza abissale, se si pensa che le diagnosi psicologiche fatte sugli adolescenti e postadolescenti di oggi - compresi gli stati d’animo depressivi e le infinite solitudini - le ritroviamo, simili, in un combattente come Alberto che nel corso della sua maturazione militante non cessa di lamentare il «torpore malinconico», la fragilità, l’incostanza e la vulnerabilità. Tutto ciò che lo spinge a cercare altrove la propria esaltazione: e il romanzo di Bertante ci mostra che se lui sembra realizzarsi nella lotta armata, molti suoi compagni parimenti idealisti, a cominciare dalle ragazze che incontra e di cui si innamora, trovano la loro esaltazione in una battaglia altrettanto convinta ma non violenta.
Bivio tra pistole e volantini
È anche in questa varietà umana il pregio di Mordi e fuggi : non tutti gli arrabbiati contro lo Stato erano Alberto, non tutti erano Renato, non tutti erano il Mega, non tutti impugnavano pistole e fucili, non tutti erano tipi da «mordi e fuggi». Si parte con una scena di volantinaggio ai cancelli della Sit-Siemens nell’inverno 1969 e si passa quasi immediatamente allo strazio di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, che è il vero discrimine tra il prima e il dopo anche per Alberto, il protagonista, che da allora sempre più viene sedotto dalla svolta militare e dalla violenza come forma di giustizia sociale e persino di moralità. E noi gli stiamo dietro e lo capiamo anche senza condividerne i furori distruttivi. È questo il bello della letteratura. Ci riporta alle ragioni emotive di quella “rivoluzione” fasulla, attraverso le voci di dentro e senza didascalie eccessive.
Fare i conti con la solitudine
Sicché possiamo vivere la progressiva infatuazione del ventenne Alberto per la rivolta (mediata dalla lettura appassionata di Albert Camus), la polemica e poi la rottura nei confronti della famiglia, il disamore per lo studio, l’attrazione fatale per le battaglie operaie... Alberto pensa e noi seguiamo i suoi pensieri, a volte vorremmo consigliarlo ma lui non si lascia consigliare: deluso dall’aria «troppo rigida e pretesca» di quelli del Movimento Studentesco, spinto dall’«energia di un ideale dalla forza apparentemente inesauribile», diventa un militante comunista, inebriato già solo dalla parola «comunista». È però ancora un «cane sciolto», innamorato di Anita, ben presto in rotta con Alberto quando capisce che il ragazzo sta imboccando una strada senza ritorno.
Oggi i ragazzi protestano per l’ambiente e contro il razzismo, fanno volontariato, diffidano però dell’impegno politico
Tante sono le fratture che deve vivere un brigatista per diventare brigatista: non solo abbandonare i genitori e gli amici, non solo rinunciare agli amori, ma votarsi alla solitudine ascetica della lotta armata. Perché se qualcuno pensa che la lotta armata sia solo una questione collettiva, si sbaglia: è sorprendente l’itinerario di Alberto laddove lo troviamo isolato nel suo appartamentino, in attesa di avere istruzioni sulla prossima «azione», rapina, rapimento o attentato che sia: solo nell’azione esemplare troverà l’orgoglio di sé e del proprio essere al mondo, il resto è disperazione, visto che sempre più entra nella clandestinità e nel totale isolamento. Allora in Alberto si affaccia il pentimento di aver abbandonato la commistione della Comune con i neonati (tanti) che urlavano, il mangiare e il dormire insieme, il proletariato della fabbrica, i combattenti e le combattenti, i sindacalisti, gli studenti incazzati, quelli del Collettivo Politico Metropolitano, quelli di Potere Operaio e quelli di Lotta Continua, quelli di Avanguardia operaia... Ciò che emerge attraverso Alberto è che, quando sembra troppo tardi, anche un militante delle BR può essere assalito (e salvato) dai dubbi, oltre che dalla paura e magari da quella che poco prima gli sembrava viltà.
Generazione «vogliamo tutto»
Con questo libro Bertante ha voluto affrontare una domanda: chi era il ventenne idealista rivoluzionario degli anni 70? E quanta distanza c’è tra quel ventenne e un ventenne di oggi? I ragazzi inquieti e ribelli sono inquieti e ribelli a modo loro, risponderebbe forse Tolstoj parafrasando l’incipit di Anna Karenina . Se è vero che quella era la generazione del «vogliamo tutto», il ventenne di oggi conosce le stesse malinconie e gli stessi dubbi di Alberto: più realisticamente vorrebbe almeno qualcosa. Ma se per fortuna non imbraccia il fucile, non va nemmeno a votare. Magari protesta contro la catastrofe ambientale, contro il razzismo, contro la violenza di genere, fa volontariato, ma diffida di ogni forma di impegno politico e la sera torna a casa forse più triste di prima.
Eleonora Capelli per “la Repubblica” il 5 maggio 2022.
Si sono esibiti con il passamontagna in testa, davanti a una bandiera delle Brigate Rosse, mettendo in musica trap versi come «Zitto zitto, pagami il riscatto, zitto zitto, sei su una Renault 4», con la stella a cinque punte a incorniciare il nome della band, "P38".
Così i "trapper brigatisti" si sono presentati il 1° maggio sul palco dello storico circolo Arci "Tunnel" di Reggio Emilia, davanti a una sessantina di persone, in una tappa del loro Br Tour.
Nella terra d'origine di fondatori delle Br, come Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari e Tonino Loris Paroli, il concerto adesso viene definito «un vero insulto alla memoria delle vittime» dal sindaco Luca Vecchi. Uno schiaffo a chi ancora fa i conti con il lutto, come Lorenzo, figlio di Marco Biagi, ucciso nel 2002 a Bologna da un commando delle Nuove Brigate Rosse. «Le cose schifose sono due: la prima è che il titolare del locale li ha difesi dopo l'esibizione - ha scritto Lorenzo sui social - e la seconda è che non è la prima volta che questo "gruppo" viene invitato nei locali».
Il tour dei trapper aveva già toccato Roma, Bergamo, Padova e Bologna, ma la ribalta concessa da un circolo Arci ha provocato una vera bufera. «È successa una cosa gravissima, noi ci dissociamo totalmente - dice il presidente regionale Arci, Massimo Maisto, dopo che il presidente del circolo aveva minimizzato parlando di provocazione artistica - Questo non è un gioco, siamo un'associazione nonviolenta e pacifista e non dimentichiamo cosa sono stati gli anni di piombo in termini di morte e dolore».
I componenti del gruppo, che si firmano Astore, Papà Dimitri, Jimmy Pentothal e Yung Stalin, non hanno trovato di meglio che rispondere con un comunicato delirante: «Aldo Moro è stato un morto, come lo sono i morti di overdose, come lo sono i morti sul lavoro nelle fabbriche, come lo sono i morti di una pandemia gestita disastrosamente».
Un terribile salto all'indietro, a pagine di storia che si speravano chiuse. Sui concerti del gruppo adesso sono in corso accertamenti della Digos, su disposizione dell'autorità giudiziaria. Mentre i versi terribili, che rievocano quella stagione di violenza cieca, suonano anche su You Tube.
Rap Br dei P38 Gang, indagato presidente circolo Arci. Maria Fida Moro: "Denuncio quella band". La Repubblica il 6 Maggio 2022.
La figlia dell'onorevole assassinato dai terroristi adirà alle vie legali contro il gruppo che inneggia alle Brigate Rosse. Denunciati anche a Pescara dal figlio di un'altra vittima, Giovanni D'Alfonso. Il presidente del circolo Arci 'Il Tunnel' di Reggio Emilia che il primo maggio ha ospitato il concerto della band 'P38 - La Gang' è indagato per istigazione a delinquere. Secondo quanto si apprende ne risponderebbe in concorso con i componenti del gruppo musicale, che nei testi si ispira alle Brigate Rosse, che però sarebbero ancora da identificare, dal momento che si esibiscono a volto coperto. Lo stesso Vicini commenta sui social un avviso ricevuto nell'ambito dell'indagine seguita dalla Digos di Reggio Emilia.
Martedì è previsto un presidio di solidarietà dei Carc davanti alla Questura per l'interrogatorio di Vicini.
"Intendo agire per vie legali. Qui non si tratta di libertà di pensiero, ma è istigazione al terrorismo. Mio padre, Aldo Moro, era il contrario di tutto ciò che c'è in quei testi, altrimenti sarebbe stato comprato come altri. Invece è stato ucciso. E ancora oggi in Italia e in Europa paghiamo l'assenza della sua politica lungimirante".
Così, alla Gazzetta di Reggio, Maria Fida Moro, figlia primogenita dello statista democristiano ucciso dalle Br, annuncia l'intenzione di affidarsi al suo legale per valutare gli estremi di una denuncia nei confronti della band P38 - La Gang.
"Solo chi è passato per un dolore del genere può davvero capire cosa si prova e può capire che anche una canzone può avere esiti volgari e pericolosi - aggiunge Maria Fida Moro - Mio padre era una persona ad esempio che non era assolutamente attaccata al denaro, che non ha mai accettato regali e usava l'indennità parlamentare per far studiare i bambini poveri del sud. Di tutto questo ci si dimentica, spesso si dimenticano anche le persone aiutate, ora diventate adulte. Se fosse stato attaccato al denaro non sarebbe mai morto ammazzato. Invece era attaccato a solidi principi giuridici del fare il bene e non il male, sapendo che, ahimè, proprio facendo il bene sarebbe stato ammazzato. Purtroppo lo ha sempre saputo".
I quattro componenti del gruppo sono stati inoltre denunciati per apologia di reato dalla Digos di Pescara in riferimento alla loro esibizione al circolo Arci Scumm nel capoluogo adriatico la sera dello scorso 25 aprile. A riferirlo è l'edizione abruzzese de Il Messaggero.
Sulla vicenda sono arrivati due esposti in procura, uno dei quali a firma di Bruno D'Alfonso, uno dei tre figli di Giovanni il carabiniere pennese di 44 anni ucciso dalle Brigate Rosse l 5 giugno 1975 nello scontro a fuoco alla cascina Spiotta per la liberazione dell'industriale Vittorio Vallarino Gancia. Denuncia per ora contro ignoti visto che i componenti del gruppo sono anonimi: adottano nomi di fantasia e indossano passamontagna bianchi. Per identificarli anche dopo la seconda esibizione a Reggio Emilia lo scorso primo maggio è al lavoro la direzione centrale Anticrimine della Polizia.
Michele Serra per “la Repubblica” il 6 maggio 2022.
Per giocare con la morte bisogna conoscerne il peso. La sola cosa interessante da sapere, a proposito del trio "P38-La Gang" che si è esibito a Reggio Emilia cantando le gesta delle Brigate Rosse, è se il loro gioco sia spensierato (nel quale caso si tratta di tre stupidi, e il caso è chiuso) oppure cosciente.
In questo secondo caso l'arte, vera o presunta, non può essere un alibi, e i tre pitrentottini per primi non possono non saperlo o non capirlo. Se scrivo un inno allo stupro, in qualunque contesto, le stuprate e gli stuprati me ne chiederanno conto. Se scrivo un inno al sequestro e all'assassinio, i sequestrati e gli assassinati me ne chiederanno conto. Non ci sono sconti possibili, di fronte alla sopraffazione, e se è vero che il mondo spesso appare come una somma di sole sopraffazioni, non è un buon motivo per iscriversi all'albo dei sopraffattori: questo, non altro, fu il crimine orrendo del terrorismo rosso.
Anche nel caso che il trio voglia richiamarsi all'ambiguità dell'arte, alla sua non corrispondenza ai canoni triti del buon senso, sappia, il trio, che per ambire all'ambiguità (o al sarcasmo, o alla seconda lettura) bisogna essere artisti per davvero. L'arte non è, in sé e per sé, un lasciapassare. Ci sono fior di coglioni che, avendo studiato da "provocatore", credono che le loro coglionate siano provocazioni. Ma bisogna anche avere studiato da artista, averne il talento e lo spirito di sacrificio, per potersi permettere di parlare di rapimenti, omicidi, sangue. Lo scandalo dell'arte ha bisogno, per pretendere attenzione, di enorme lavoro, fatica, studio. Altrimenti è solo uno scandalo - uno dei tanti - della mediocrità.
"Ti metto in una Renault 4", inchiesta sulla band pro Brigate rosse P38. E i 'compagni' gli pagano le spese legali. Il Tempo il 17 maggio 2022.
"Ti metto dentro una Renault 4 (il modello di auto in cui è stato trovato il corpo senza vita del segretario della Dc, Aldo Moro, il 9 maggio 1978 , ndr), Brigate rosse scritto sul contratto" cantano i P38 la Gang, nome che è tutto un programma, nelle loro canzoni che si possono ascoltare anche su Spotify. Il gruppo per i riferimenti al terrorismo è stato fatto oggetto di numerose denunce e i componenti sono stati identificati dalle forze dell'ordine, nonostante si esibiscano col passamontagna e si facciano chiamare con pseudonimi come Young Stalin, Astore, Papà Dimitri e Jimmy Pentothal.
A Torino c'è un fascicolo aperto con l’ipotesi di reato di istigazione a delinquere ed è indagato anche il presidente del circolo Arci di Reggio Emilia in cui il gruppo si è esibito nel concerto del primo maggio. Ma non è un caso isolato. Sono state acquisite dalla procura piemontese le denunce sulla band ’P38 la Gang’ per il concerto che lo scorso 25 aprile è stato tenuto dal gruppo in Abruzzo, nel circolo Arci Scumm di Pescara. Durante la performance pescarese, i ragazzi hanno inneggiato alle Brigate rosse con passamontagna bianchi a coprire il volto e nomi di fantasia per non farsi riconoscere. Sono stati denunciati, per apologia di reato, dalla Digos del capoluogo abruzzese, dopo l’esposto alla procura pescarese di Bruno D’Alfonso, figlio del carabiniere di Penne (Pescara), Giovanni d’Alfonso, vittima di terrorismo, ucciso dalle Br nel ’75, nella sparatoria per la liberazione di Vittorio Vallarino Gancia. La denuncia di Pescara è stata la prima segnalazione nei confronti della band alla procura e se il reato di apologia di reato resterà al tribunale di Torino, dov’è stato aperto il fascicolo, per gli altri reati si procederà nel tribunale del capoluogo adriatico.
Intanto in area antagonista si mobilitano per la band: in una raccolta fondi promossa sul sito Produzioni dal basso sono stati raccolti oltre 7mila euro per le spese legali.
P38, Bruno D’Alfonso: «Io, il primo a denunciare la band che canta le Br: minacciato». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2022.
Bruno D’Alfonso, carabiniere in pensione, è figlio di Giovanni, l’appuntato ucciso dalle Br nel 1975. Ha presentato una denuncia in Questura a Pescara: «Istigano al terrorismo».
La canzone più famosa parla del rapimento Moro e s’intitola «Renault», il testo fa riferimento alla vettura in cui venne trovato il corpo del leader della DC: «Presidente non mi sembra stanco, la metto dentro una Renault 4». Poi ce ne sono altre, tutte raccontano le Brigate rosse e in stile rapper ne magnificano le gesta. A portarle sul palco di alcuni circoli privati d’Italia i «P38 Gang»: si esibiscono incappucciati, usano pseudonimi per rimanere anonimi e hanno la stella a cinque punte come simbolo. Le rime che cantano, però, sono stilettate al cuore per chi negli anni di piombo ha pianto e tuttora piange i propri cari uccisi o gambizzati.
La denuncia
Tra loro c’è Bruno D’Alfonso: è il figlio di Giovanni, il carabiniere di 44 anni ucciso dalle Br il 5 giugno 1975 in un conflitto a fuoco alla cascina Spiotta, nell’Alessandrino, durante la liberazione dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia. Quel giorno morì anche Mara Cagol, la moglie di Renato Curcio. Bruno, anche lui carabiniere (in pensione), ora ha 57 anni e lo scorso 29 aprile ha depositato una denuncia in questura a Pescara, contro la band. Il giorno dopo ha fatto lo stesso a Reggio Emilia, nella speranza di bloccare il concerto del gruppo in programma il primo maggio: «Non ci sono riuscito. Fino a qualche settimana fa non sapevo neanche chi fossero. Poi mio figlio mi ha detto che si erano esibiti il 25 aprile in un locale di Pescara. Abbiamo scritto al titolare del circolo, ma lui ha sminuito dicendo che era solo una provocazione politica. Per me è istigazione al terrorismo».
Il marchandising
L’ex carabiniere ha ascoltato alcuni brani dei P38 e li ha seguiti sui social, scoprendo che la musica era affiancata da un merchandising di t-shirt con il volto di Curcio oppure con la P38 e la stella a cinque punte. «Non solo è offensivo, è pericoloso. Per chi si culla in certi ideali, passare dalle parole ai fatti non è difficile. Quei ragazzi inneggiano agli anni di piombo». Bruno D’Alfonso, che da anni si batte per ristabilire la verità sulla morte del padre, ha poi ricevuto una minaccia che lui collega alle querele contro la band: «Mi è stato inviato un messaggio anonimo su Instagram con la foto in bianco e nero di mio padre, sul volto una X rossa e la scritta “Sarai il prossimo”».
La colletta
Nel frattempo, dopo i suoi esposti, i rapper sono stati identificati e denunciati per i loro concerti: «Hanno tanti fan e nei giorni scorsi è stata lanciata una colletta per pagare le spese legali, sono già stati raccolti 3mila euro», insiste l’ex carabiniere. Gli atti sono stati trasmessi alla Procura di Torino. Nel capoluogo piemontese, infatti, già da dicembre i pm Enzo Bucarelli e Paolo Scafi indagano sul gruppo: l’ipotesi di reato è istigazione a delinquere.
Paolo Griseri per “la Stampa” l'1 aprile 2022.
Quando i carabinieri del generale Dalla Chiesa perquisirono l'abitazione di Renato Curcio, il fondatore delle Br, trovarono nelle agende l'indicazione degli appuntamenti delle ultime settimane. In diverse date l'indicazione era «Bestia feroce». Un nome in codice, quello di Silvano Girotto, frate Leone, francescano, guerrigliero nel Cile del dittatore Pinochet, un passato nella Legione straniera. Tornato in Italia dal Sudamerica, Girotto aveva accettato di infiltrarsi nelle Brigate Rosse. Fu lui a consentire l'arresto dei fondatori del gruppo armato, Curcio e Franceschini, a Pinerolo, l'8 settembre del 1974. È morto ieri a Torino all'età di 83 anni.
«Pensavamo che sarebbe sparito e per questo lo interrogammo prima del processo con una testimonianza a futura memoria», ricorda oggi Giancarlo Caselli che con l'allora procuratore di Torino, Bruno Caccia, aveva seguito il tentativo di infiltrazione di Girotto. Anni duri e difficili. L'interrogatorio a futura memoria rende bene il clima di quei giorni. Smentendo tutti i timori "frate mitra" non fuggì. E non venne nemmeno eliminato per vendetta dai brigatisti. Si presentò invece al processo ai capi storici delle Br che si celebrò a Torino nell'aula di corso Vittorio Emanuele nelle settimane del rapimento Moro.
Processo celebrato in una città blindata, quando fu quasi impossibile comporre la corte d'assise perché la paura teneva lontani i giudici popolari. E quando il presidente degli avvocati torinesi, Fulvio Croce, venne assassinato dai brigatisti per il solo fatto di aver accettato la loro difesa d'ufficio.
I terroristi nelle gabbie ammutolirono quando videro entrare Girotto in aula. Il frate prese posto di fronte alla corte e raccontò i motivi della scelta di infiltrarsi nelle Br. Di come da ragazzo si fosse arruolato nella Legione straniera, di come ne fosse fuggito dopo tre mesi, inorridito dalle torture dei francesi ai prigionieri algerini, della sua conversione religiosa in carcere a Torino, catturato dopo una rapina a un tabaccaio.
Girotto scelse il nome di frate Leone, uno dei più stretti collaboratori di san Francesco negli ultimi anni della sua vita. Dopo la partecipazione alle manifestazioni operaie a Borgomanero (dove diventò "il prete rosso") il frate partì in missione per la Bolivia e qui aderì alla lotta armata contro il dittatore Suarez. Si trovava in Cile nei giorni del golpe appoggiato dalla Cia per rovesciare Salvador Allende. Combatté contro i militari di Pinochet, venne ferito, si rifugiò nell'ambasciata italiana e venne rimpatriato. Era la fine del 1973. Per quale motivo un combattente con questo curriculum decise di condannare la lotta armata e, anzi, di accettare la proposta del generale Dalla Chiesa tentando di infiltrarsi nelle Brigate Rosse?
In una intervista rilasciata pochi mesi dopo l'arresto di Curcio e Franceschini, "frate mitra" spiegò la nuova conversione: «Nel contesto italiano la lotta armata è un'avventura tragica e senza sbocchi Non sono concettualmente contrario alla lotta armata ma lo sono quando essa non è necessaria. Se tornassi in America Latina - diceva nel 1975 - riprenderei il mitra perché so che là non esiste alternativa».
Pur in assenza dei social, anche all'epoca si sprecarono le dietrologie sulla figura di Silvano Girotto. Alimentate da un particolare che viene ricostruito da Giancarlo Caselli e Mario Lancisi in un libro del 2015 intitolato Nient' altro che la verità.
Per arrivare alle Br Girotto aveva contattato un medico di Borgomanero, Enrico Levati. Pochi giorni prima dell'incontro fissato dal frate con Curcio e Franceschini a Pinerolo (doveva essere l'atto dell'ingresso definitivo del religioso nelle Br) un anonimo telefonò a Levati avvisandolo: «Curcio sarà arrestato domenica a Pinerolo».
Chi sapeva dell'operazione degli uomini di Dalla Chiesa? E perché nonostante la telefonata non si riuscì ad avvisare Curcio e Franceschini? L'unico messo in allerta fu Mario Moretti, capo della colonna romana e organizzatore, quattro anni dopo, del sequestro e dell'assassinio di Aldo Moro.
Ma il vero segreto, quello che sarebbe rimasto per molto tempo il cruccio di Silvano Girotto, è perché l'Italia, a partire dalla sinistra, lo abbia considerato, in fondo, un traditore e non un benefattore, come effettivamente fu. L'arresto di Curcio e Franceschini ebbe un peso determinante nella lotta alla lotta armata. Senza quell'arresto non ci sarebbe stato il processo ai capi storici delle Br che nei giorni del sequestro Moro sarebbe diventato il contraltare ai proclami brigatisti, la dimostrazione che, nonostante le difficoltà, lo Stato c'era, continuava a funzionare, non era stato colpito al cuore come volevano far credere i terroristi. Girotto si è spento mercoledì sera a Torino, circondato dalla moglie boliviana (conosciuta durante la resistenza agli squadroni di Suarez) e dai nipoti. Giancarlo Caselli lo ricorda così: «Un uomo dalle mille esperienze e dalle mille sfaccettature, certamente un uomo decisivo nel contrasto alla lotta armata».
La figlia di Silvano Girotto: «Quel giorno in cui mio padre mi disse: sono Frate Mitra, ma non un traditore». Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 2 aprile 2022.
«Ho sempre saputo che mio padre aveva avuto una vita speciale, ma la verità sul suo passato l’ho conosciuta solo a 19 anni». Daniela, figlia maggiore di Silvano Girotto, era appena nata quando «Frate Mitra», infiltrato per conto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, riuscì a far arrestare i fondatori delle Br, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Un evento che cambiò la storia d’Italia e la vita dell’ex missionario francescano, morto giovedì a 82 anni.
Il maresciallo
Figlio di un maresciallo dei carabinieri, Girotto aveva avuto un’adolescenza turbolenta, conoscendo prima il riformatorio e poi il carcere. In mezzo, ancora minorenne, si era arruolato per tre mesi nella legione straniera francese, ma tornò in Italia inorridito. In cella avvenne la sua conversione e Girotto abbracciò l’ordine francescano. Dopo qualche esperienza pastorale, andò in una missione in Bolivia e si ritrovò nel mezzo di un golpe militare. Decise di unirsi ai ribelli, guadagnandosi il soprannome di «Frate Mitra» e l’espulsione dall’ordine francescano. In Bolivia conobbe Carmen, la donna che poi avrebbe sposato nel 1973, in Cile, dove fu ferito e poi rimpatriato in Italia. Qui iniziò il terzo capitolo della sua vita, segnata dal suo contributo alla cattura dei capi storici delle Brigate Rosse.
«Traditore»
«La narrazione di quel periodo è stata sempre sbagliata e lo ha fatto soffrire molto. Per anni è stato bollato come “traditore” e perfino “prezzolato” — racconta Daniela Girotto —. Tutte fantasie. Quando pensava che una cosa fosse giusta la faceva. Punto. Senza retropensieri». Fu così che l’ex frate di sinistra, che aveva abbracciato la guerriglia in Sud America, iniziò a collaborare con i carabinieri, convinto che la lotta armata fosse ancora evitabile e non necessaria. Ebbe diversi incontri con Curcio, alcuni «a torso nudo» perché i brigatisti volevano essere sicuri che non avesse addosso un registratore. L’8 settembre ‘74, a Pinerolo, nel giorno del reclutamento ufficiale di Girotto, Curcio e Franceschini vennero arrestati.
La testimonianza
«Mio padre sosteneva che sarebbe potuto andare avanti e “consegnarli tutti”, ma le cose andarono diversamente. Decise comunque di testimoniare al processo e non ha mai avuto la scorta. Ha tolto semplicemente il nome dal citofono e dall’elenco telefonico. Quando gli chiedevo perché, mi rispondeva “perché sì”». Nell’estate del 1993, però, ci fu la rivelazione: «Avevo finito il liceo e stavo per partire per un anno sabbatico prima dell’università — ricorda la figlia di Frate Mitra —. Eravamo in cortile, mi fece sedere e mi disse “adesso ti racconto”. Così ho saputo che mio padre era stato frate e tante altre cose. Fui meravigliata, ma da subito orgogliosa di un padre che aveva fatto la cosa giusta. Leggendo libri e giornali dell’epoca ho invece capito il dolore di mio padre, quella sofferenza che lo ha divorato da dentro».
Pendolare
La vita «normale» di Girotto era quella di un pendolare, elettricista, che ogni mattina prendeva il treno. Fino al 1982 nessuno gli ha offerto un lavoro a Torino e nel 2002 la lunga lettera scritta alle figlie Daniela e Federica si trasformò nell’autobiografia «Mi chiamavano Frate Mitra», suo testamento spirituale. «Quel libro è stato catartico per lui, ha ricominciato a vivere e finalmente la gente ha iniziato a guardarlo con occhi diversi. Forse ci voleva un po’ di distanza storica». Ieri è stato il momento dell’ultimo saluto a Girotto, con un funerale laico al tempio crematorio: «La sua religiosità era forte, ma molto personale. Vissuta in modi diversi a seconda dei differenti momenti della sua vita. Non era più legato alla Chiesa come istituzione». Dopo la pubblicazione del libro ha vissuto per 13 anni in una missione in Etiopia con la moglie Carmen e poi ha fatto la spola fra la Bolivia e Torino, prima di trasferirsi stabilmente nel quartiere Campidoglio dopo l’inizio della pandemia: «Per 49 anni sempre insieme a mia madre, che per farci andare all’università si era rimessa a studiare e aveva preso il diploma da infermiera — dice Daniela —. È stato un marito, un padre e un nonno molto presente. Un esempio e uno stimolo per me, anche quando discutevamo. Cosa mi mancherà di più di lui? Tutto, era mio padre».
Morto a 83 anni. La vita misteriosa di ‘frate Mitra’: dalle rapine ad infiltrato nelle BR per far catturare Curcio. David Romoli su Il Riformista il 3 Aprile 2022.
Silvano Girotto, già padre Leone, per la stampa “frate Mitra”, se ne è andato a 83 anni portandosi nella tomba il segreto dell’operazione che l’8 settembre 1974 avrebbe dovuto decapitare le Brigate Rosse, con l’arresto dei due principali leader Renato Curcio e Alberto Franceschini, e che ruotava tutta intorno al misterioso “frate guerrigliero”. Compiacenti oggi come allora i media non si pongono domande. Accreditano una biografia dell’ex francescano nella quale si fondono evidentemente elementi reali e il lavoro di fantasia che portò i capi delle Br, in contrasto netto con tutte le loro regole, a fidarsi dello sconosciuto che li consegnò al generale Dalla Chiesa.
Figlio di un maresciallo dei carabinieri, nato nell’aprile 1939 a Caselle Torinese, Girotto si mette nei guai con la giustizia ancora minorenne, lo prendono mentre passa illegalmente il confine con la Francia, si arruola nella Legione Straniera dalla quale diserta dopo appena tre mesi, a suo dire perché inorridito dalla repressione feroce contro i militanti dell’Fnl algerino. Torna in patria e finisce in galera dopo la rapina in una tabaccheria finita male. In carcere scopre la religione, indossa il saio, diventa francescano. Nel 1969 è ordinato sacerdote: padre Leone fa un po’ il prete operaio, il vescovo di Novara gli proibisce di predicare, lui chiede di essere spedito in America latina.
Questo, almeno, è il racconto di Girotto. Il problema nella sua avventurosa biografia è che ad accreditarla c’è sempre e solo la sua parola. La presenza in Bolivia nel 1971 è certa. Più discutibile la versione in stile “Rambo col saio” delle sue imprese durante il golpe del 21 agosto del colonnello Banzer: “Mi trovai nel pieno di un massacro, quando da un nido di mitragliatrici cominciarono a sparare sopra una folla di bambini e mamme. Imbracciai le armi. Lanciai una granata e feci saltare il nido di mitragliatrici”. Pochi giorni dopo Girotto esce da una casa nella quale si nasconde un militante ricercato dal nuovo regime. Giusto un attimo dopo la polizia irrompe e lo arresta. È sempre la parola del frate, che a quel punto aveva smesso il saio e si era anche sposato con una boliviana, a garantire la militanza in Cile contro il regime di Pinochet. Qualcuno ancora oggi lo mette addirittura tra il fondatori del Mir, il gruppo armato della sinistra cilena. Più sobrio e serio, nella sua inchiesta televisiva sul terrorismo italiano La notte della Repubblica, Sergio Zavoli lo liquidò in pochissime parole: “Dall’America Latina ritornò con la fama, in gran parte millantata, di frate guerrigliero”.
In realtà c’è probabilmente qualcosa in più delle vuote vanterie di un miles gloriosus con la bandiera rossa. La biografia eroica di Girotto sembra studiata sin nei particolari per spingere le Br ad accettare le sua proposta di collaborazione senza andare per il sottile. A rendere noto quella storia rivoluzionaria che riassumeva tutta la mitologia dell’epoca fu del resto un periodico di estrema destra, Il Borghese. Forte dell’articolo che lo descriveva come una specie di pericolo pubblico, l’ex frate si presentò a un comandante partigiano, Giovan Battista Lazagna, chiedendo di metterlo in contatto con le Br. Nella memorialistica dei decenni successivi i leader delle Br hanno giurato tutti di non essersi mai fidati del rodomonte, di aver fiutato subito la trappola e di aver pertanto deciso di accoglierlo sì, ma con rigida compartimentazione, senza metterlo al corrente di nessun dato sensibile. Di fatto però, pur non sapendone niente, Curcio e Moretti lo incontrarono e fu poi preso un nuovo appuntamento a Pinerolo, l’8 settembre, con il solo Curcio.
C’è qui un secondo mistero: perché Dalla Chiesa decise di far scattare la trappola proprio quel giorno, prendendo nella rete il solo Curcio, invece di infiltrare il frate e di aspettare fino a poter catturare l’intero vertice brigatista? Probabilmente il generale sapeva che la copertura del suo uomo stava per franare. Due giorni prima dell’appuntamento una telefonata anonima avvertì Enrico Levati, medico vicino alle Br, che a Pinerolo Curcio sarebbe stato arrestato. Le Br pensarono che l’avvertimento partisse da Israele, che già aveva offerto loro aiuto perché la destabilizzazione in Italia avrebbe aumentato il loro peso contrattuale con gli Usa come punto di riferimento nel Mediterraneo. Di fatto, chi abbia fatto quella telefonata è a tutt’oggi ignoto ma Dalla Chiesa deve aver subodorato che la storiella del frate rivoluzionario era arrivata agli sgoccioli.
La telefonata andò comunque a vuoto. Il medico era fuori città, il messaggio fu lasciato alla moglie che lo avvertì solo il giorno dopo. Le Br, a quel punto, disponevano di forze troppo esigue per rintracciare in tempo Curcio e rifiutarono l’aiuto di Autonomia, che avrebbe potuto sguinzagliare un numero ben superiore di macchine. Dalla Chiesa godette poi di un vero colpo di fortuna: Curcio avrebbe dovuto presentarsi da solo all’incontro, mentre Franceschini avrebbe dovuto viaggiare verso Roma. Decise invece, violando le regole dell’organizzazione, di andare verso Torino con Curcio e finì nella rete anche lui. Dopo il colpaccio, Girotto se ne uscì con una sgangherata lettera alle Br, sul modello di quelle usate dall’Fbi nell’operazione Cointelpro con la quale avevano sgominato le Black Panthers.
Li accusava di essere “piccoli borghesi frustrati e megalomani” che spalancavano le porte a una sanguinosa repressione contro “le vere Avanguardie dei lavoratori”. La passione militante lo abbandonò però subito dopo quel proclama. Scomparve dalla scena, salvo raccontare di nuovo la storia della sua vita, vera o falsa che fosse, in un paio di libri, ripeterla nel 2000 di fronte a una delle tante inutili commissioni parlamentari d’inchiesta sul terrorismo e incontrare infine nel 2002, tramite i buoni uffici di suor Teresilla Barillà, i due uomini che aveva fatto arrestare 28 anni prima. Curcio fu gelido. Franceschini cordiale, quasi amichevole. Della storia italiana degli anni ‘70 Girotto non è stato un protagonista e neppure un comprimario: piuttosto un’anonima pedina.
David Romoli
Per l'omicidio di Tobagi pagano solo i giornalisti. Felice Manti l'1 Luglio 2022 su Il Giornale.
Walter Tobagi poteva essere salvato. Lo dice Renzo Magosso, che con il cronista del Corriere della Sera ha diviso il pane e le lotte sindacali.
Walter Tobagi poteva essere salvato. Lo dice Renzo Magosso, che con il cronista del Corriere della Sera ha diviso il pane e le lotte sindacali. Tobagi aveva calpestato le piste e le inchieste già fatali al giudice Emilio Alessandrini, aveva capito prima dello scandalo P2 che banche e massoneria stavano infiltrandosi nel Corriere, diceva che i partiti assoldavano giornalisti compiacenti, tanto da far imbufalire alcuni colleghi «rossi» persino l'ultima sera della sua vita. Tobagi ha fondato Stampa democratica, era un rompiscatole, voleva portare agli estremi «quella ricerca ideologica che mi pare preliminare per qualsiasi mutamento, miglioramento nei comportamenti collettivi». È per questo che il commando di estremisti di sinistra Brigata XXVIII marzo l'ha ammazzato in via Solari il 28 maggio del 1980. A sparare è stato (anche) Marco Barbone, figlio di Donato, manager del Corriere che abitava a pochi passi da via Solferino. L'ha fatta quasi franca perché si è pentito, ma tant'è. L'Arma sapeva che era nel mirino, ma nessuno glielo disse mai. «O Tobagi avrebbe accettato l'invito del direttore Franco Di Bella di andare a Pechino con la moglie Stella e i figli», ha sempre detto Magosso. Che aveva fonti buone, un maggiore conosciuto grazie a un cane curato (gratis) dallo zio veterinario e morto in strane circostanze. A confermargli la notizia nel 2004 sul settimanale Oggi diretto allora da Umberto Brindani fu l'ex carabiniere Dario Covolo, a cui l'aveva rivelata l'infiltrato Rocco Ricciardi. Per aver difeso questa verità Magosso è stato condannato, poi scagionato e risarcito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Ma il generale Alessandro Ruffino, superiore di Covolo e marito del giudice milanese Carmen Manfredda (che conosceva bene Alessandrini), ha riportato Magosso alla sbarra a Brescia. Quando la verità dà fastidio e i colpevoli sono a spasso, i cattivi perfetti sono i giornalisti. Se ne riparla il 3 novembre.
La polvere sotto il tappeto. Emilio Alessandrini fu giustiziato per un tragico abbaglio. Otello Lupacchini su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.
1979 annus horribilis. A quella del primo sindacalista e militante del Partito Comunista Italiano, Guido Rossa, a Genova, seguiva l’uccisione, qualche giorno dopo, del primo magistrato a Milano, Emilio Alessandrini, che dal suo arrivo in città, alla fine del 1968, e sino alla sua tragica scomparsa, con funzioni di sostituto procuratore, s’era sempre occupato di terrorismo e, in particolare, di eversione di destra. Il giornalista Walter Tobagi, che sarebbe stato ucciso il 28 maggio dell’anno seguente dal gruppo terrorista di estrema sinistra Brigata XXVIII marzo, scrisse sul Corriere della Sera: «Sarà per quella faccia mite, da primo della classe che ci lascia copiare i compiti, sarà per il rigore che dimostra nelle inchieste, Alessandrini è il prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare; era un personaggio simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti, ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli».
Quelli di Emilio Alessandrini a Milano furono gli «anni di piombo» e, periodicamente, delle stragi. Piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus, Peteano, le uccisioni di magistrati, poliziotti, carabinieri, e l’ultimo delitto eclatante, l’assassinio di Aldo Moro, gli episodi maggiori, o i più visibili, fino a quel momento, di una guerra allo Stato, nella quale il nemico della democrazia indossava di volta in volta maschere diverse. E muoveva burattini dai colori apparentemente opposti, «rossi» e «neri»: figure di poco o nessuno spessore, sovente inconsapevoli dei fili che li guidavano, disposti a uccidere, e a essere uccisi, o, i più astuti e prudenti, a tacere su quello che sapevano o intuivano, per salvare la faccia, e soprattutto la pelle.
Furono gli anni in cui i protagonisti della dura stagione di lotta anticomunista apertasi sul finire degli anni Sessanta, erano passati dal «partito del golpe» alla P2, strutturatasi come il club dell’oltranzismo atlantico, in cui si ritrovavano i vertici dei Servizi segreti italiani, alti ufficiali dell’Esercito, dell’Aeronautica, della Marina e dei Carabinieri, ministri, parlamentari e politici di vari partiti, dalla Democrazia Cristiana al Partito Socialista Italiano, dal Partito Socialdemocratico al Partito Liberale, fino al Movimento Sociale Italiano; alti magistrati, tra cui il procuratore generale della Repubblica di Roma, Carmelo Spagnuolo; e poi giornalisti, finanzieri, tra cui Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, imprenditori, tra cui il futuro presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
L’impegno profuso e le doti investigative evidenziate nelle delicate indagini relative ad alcuni attentati dinamitardi compiuti a Milano dalle Squadre d’Azione Mussolini, erano valsi, il 14 febbraio 1972, a Emilio Alessandrini, insieme al collega Luigi Fiasconaro, un elogio per «la prontezza, la sagacia, l’energia e lo zelo» con cui aveva affrontato l’affaire. La stessa formazione terroristica, peraltro, a qualche giorno di distanza, si sarebbe resa protagonista di un nuovo attentato, questa volta diretto proprio contro di lui: un ordigno venne fatto esplodere nel cortile dello stabile dove risiedeva, provocando, fortunatamente, solamente danni alle cose. «Alle 16.30 del 12 dicembre 1969 un ordigno esplodeva nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, uccidendo 16 persone e ferendone 88. Un secondo ordigno, inesploso, veniva rinvenuto nella sede della Banca Commerciale di Piazza della Scala tra le 16.25 e le 16.30. Si trattava di una cassetta portavalori… chiusa a chiave e contenuta in una borsa in skai di colore nero. Gli inquirenti ne decidevano la immediata distruzione e così, la sera stessa la cassetta veniva fatta brillare nel cortile interno della Banca Commerciale senza verificarne il contenuto. Quasi contemporaneamente nell’arco di un’ora, altri tre ordigni esplodevano in Roma, dove rimanevano ferite 18 persone in totale».
Questo l’incipit della requisitoria del 6 febbraio 1974 con la quale il pubblico ministero Emilio Alessandrini chiedeva al giudice istruttore il rinvio a giudizio di Franco Freda, Giovanni Ventura e altri per associazione sovversiva e strage in relazione alle bombe di Milano e Roma del 12 dicembre 1969. Emilio Alessandrini, peraltro, era stato uno dei primi a condurre indagini sull’Autonomia Operaia milanese. Come altri suoi colleghi meneghini, cercava non solo di affrontare il problema eversivo dal punto di vista giudiziario, ma di comprendere il fenomeno dal punto di vista sociale. In una relazione svolta a un incontro di studio, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, nell’estate del 1978, aveva avuto modo di affrontare il problema delle connessioni fra criminalità comune e criminalità politica, dall’angolo visuale della istituzione carceraria.
Gli argomenti utilizzati appaiono di estrema attualità e rilevanza rispetto agli odierni fenomeni di radicalizzazione che, nel contesto carcerario, trovano terreno fertile: sostenne che nella sua esperienza aveva potuto notare «persone che entrano in carcere per qualche episodio di intolleranza politica, escono, e poi, dopo qualche tempo, le ritrovi denunciate, arrestate per reati sicuramente comuni»; che i motivi che spesso caratterizzano il fenomeno inverso, criminali comuni che una volta in carcere abbracciano l’eversione, fossero da individuare nella «esigenza di dare uno scopo alla propria esistenza futura ed una spiegazione alla propria vita passata»; che lo strumento repressivo fosse necessario, ma non sufficiente nella soluzione dei problemi eversivi, credendo a tal fine fondamentale un’istituzionalizzazione del dissenso.
Tra gli anni Settanta e i ruggenti anni Ottanta, erano cominciate anche le prime disavventure del Banco Ambrosiano: Roberto Calvi, indisturbato, creava società fantasma in Svizzera e in altri paradisi fiscali e utilizzava le stesse per intercedere con lo Ior, la banca vaticana; gli ispettori della Banca d’Italia, però, avevano cominciato a insospettirsi, fino a denunciare diverse irregolarità, inviate al magistrato Emilio Alessandrini, prontamente deceduto, tuttavia, in epoca utile, perché non se ne potesse occupare.
«Oggi, 29 gennaio 1979 alle ore 8,30 il gruppo di fuoco Romano Tognini «Valerio» dell’organizzazione comunista Prima Linea, ha giustiziato il sostituto procuratore della Repubblica Emilio Alessandrini. Era una delle figure centrali che il comando capitalistico usa per rifondarsi come macchina militare o giudiziaria efficiente e come controllore dei comportamenti sociali e proletari sui quali intervenire quando la lotta operaia e proletaria si determina come antagonista ed eversiva». Rileggere questa rivendicazione dopo aver rievocato l’impegno professionale di Alessandrini dà la misura dell’abisso in cui erano sprofondate quelle formazioni terroristiche.
Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione
VOLANTINO CHE RIVENDICA IL RAPIMENTO DI ALDO MORO VENDUTO ALL’ASTA PER 32.760 EURO. Da lastampa.it il 27 gennaio 2022.
È stata venduta all'asta per 32.760 euro una copia a ciclostile del volantino originale con il quale le Brigate Rosse annunciarono il rapimento dello statista democristiano Aldo Moro e l'uccisione della sua scorta in via Fani il 16 marzo 1978.
Il lotto numero 43 del catalogo «Autografi & Memorabilia» è stato aggiudicato oggi pomeriggio durante la vendita organizzata dalla casa d'aste Bertolami Fine Arts di Roma, che nelle scorse settimane era stata preceduta da numerose polemiche.
Stimato da Bertolami 1.500 euro, il volantino è partito in asta oggi da una base di 13.000 euro, cifra massima raggiunta dalle pre-offerte su Internet. Dopo una serie di continui rilanci, il prezzo del martello si è fermato a 32.760 euro (diritti d'asta compresi) e il volantino del gruppo terroristico è stato aggiudicato ad un collezionista privato collegato al telefono, che ha chiesto di restare anonimo.
Il volantino (misura cm 33x22), con 80 righe di testo scritte su entrambe le pagine, fu distribuito all'indomani del rapimento dello statista democristiano: si tratta di una delle numerose copie che furono distribuite dai militanti del gruppo terroristico in quel marzo di 44 anni fa.
Il volantino con intestazione Brigate Rosse e la stella a cinque punte all'interno di un cerchio, inizia recitando: «Giovedì 16 marzo un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana...». E si chiude con la data 16/3/78 e la firma «Per il Comunismo Brigate Rosse».
In seguito alle polemiche politiche sollevate dall'annuncio della vendita, si è mossa la Direzione generale archivi del ministero della Cultura, guidato da Dario Franceschini, che ha disposto una verifica sul ciclostile del Comunicato n.1 delle Brigate Rosse al fine di verificarne la peculiarità e l'interesse.
Nel fascicolo «Moro uno» della Corte di Assise di Roma, studiato e digitalizzato dalla stessa Direzione generale archivi nell'ambito del Progetto Moro, risultano già presenti infatti 41 esemplari ciclostilati originali del Comunicato n. 1. Gli ispettori ministeriali hanno verificato che si tratta di una delle tante copie ciclostilate. Anche la Digos della questura di Roma ha svolto indagini per conto della Procura.
Non è la prima volta che documenti degli anni di Piombo vanno all'asta. Il 29 marzo 2012 la casa d'aste Bolaffi di Torino nella sua sede di Milano mise in vendita 17 volantini e comunicati ciclostilati delle Brigate Rosse, risalenti al periodo 1974-1978, fra i quali anche il comunicato numero 6 del 15 aprile 1978, tristemente noto perché annunciava la condanna a morte di Aldo Moro: «L'interrogatorio al prigioniero Aldo Moro è terminato... – si legge nel testo dei terroristi –. Stendere una cappa di terrore controrivoluzionario sull'intera società è l'unico sistema con cui questo Stato, questo regime Dc sorretto dall'infame complicità dei partiti cosiddetti di sinistra vorrebbe soffocare ed allontanare lo spettro di un giudizio storico che il proletariato ha già decretato... Per quel che ci riguarda il processo ad Aldo Moro finisce qui... Aldo Moro è colpevole e viene condannato a morte».
Il lotto di 17 volantini, che erano tra quelli distribuiti dai fiancheggiatori delle Br davanti alle fabbriche, partito da una base di 1.500 euro raggiunse i 17mila euro: fu acquistato dalla Fondazione Biblioteca di via Senato a Milano, ideata e presieduta dall'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri.
DAGOREPORT il 5 gennaio 2022. Come prevedibile, dopo il lancio Ansa e il melenso servizio sul Tg2 delle 20,30 di ieri sera i rilanci per aggiudicarsi in pre-asta il volantino n.1 del 16 marzo 1978 con il quale le BR annunciavano di aver sequestrato Aldo Moro per processarlo si sono susseguiti. Circa una ventina in una notta per un’asta fissata per il 18 gennaio dalla Casa d’incanti romana Bertolami. Nonostante il servizio del Tg2 avesse omesso il nome della Casa d’aste - riteniamo per più o meno convinto desiderio di non alimentare i rilanci - chi partecipa alle aste ci ha messo meno di un minuto a scovare sui data base internazionali dove il pezzo era messo all’incanto e a fare la propria offerta.
E, nonostante il servizio stigmatizzasse in maniera un po’ demagogica il possibile acquisto (con frasi, parafrasiamo, del tipo: ci immaginiamo come si faccia ad appendere nel salotto un simile testo…), i feticisti dei documenti – che valgono in quanto tali – si sono tuffati a pesce. E quel che fa specie osservare è che il lotto successivo, una lettera di Garibaldi, sia ancora a zero offerte. Le Br schizzano e Garibaldi resta ancorato a Quarto. Sic transit gloria mundi…
Ma c’è un’osservazione più interessante non affrontata: come fa a esser finito all’asta quel volantino n.1, che non è una copia da carta-carbone? Moro fu sequestrato il 16 marzo 1978, che è anche la data che riporta il volantino. Che, però, non viene subito ritrovato. Il 18 marzo, sul “Corriere della Sera”, Vittorio Feltri scrive che non ci sono ancora volantini.
Il volantino viene, però, trovato proprio quel giorno: infatti il “Corsera” del 19 lo annuncia in prima pagina e pubblica l’intero testo a pagina 2. Il volantino finisce all’attenzione della polizia, che lo affida a un esperto per capire con quale macchina da scrivere è stato stilato. Il giorno dopo, infatti, il 20 marzo, un lungo articolo discetta che per la prima volta gli inquirenti hanno notato che le BR hanno usato una sofisticata macchina da scrivere IBM da 15mila lire con testina rotante ecc.
A questo punto il documento deve essere per forza entrato nel fascicolo di indagine e trovarsi oggi nell’Archivio del Tribunale di Roma in attesa di essere versato, un tempo dopo 70 anni, nell’Archivio Centrale dello Stato o, comunque, in un Archivio di Stato a disposizione di eventuali studiosi. Quindi c’è stata una manina che, da qualche parte, l’ha sfilato. Da dove viene il volantino battuto da Bertolami? Non dovrebbe essere lì…
"Vergognoso mettere all'asta il volantino Br del caso Moro". Chiara Giannini il 6 Gennaio 2022 su Il Giornale. Politici e vittime del terrorismo sdegnati dalla vendita. "A che titolo un atto giudiziario è diventato privato?" Da dove proviene quel comunicato delle Brigate Rosse risalente a 44 anni fa messo all'asta online dalla Bertolami Fine Art, ma soprattutto come è possibile che possa essere venduto un reperto che costituisce corpo del reato? Dopo l'uscita della notizia la Direzione generale archivi del ministero della Cultura guidato da Dario Franceschini ha disposto una verifica sul ciclostile del «Comunicato n.1» delle Brigate Rosse, con cui l'organizzazione terroristica rivendicava il rapimento di Aldo Moro e l'uccisione della scorta.
«Nel fascicolo della Corte di Assise di Roma - specificano dal ministero - , studiato e digitalizzato dalla stessa DG Archivi, risultano già presenti infatti 41 esemplari ciclostilati originali del comunicato che sono l'esito di consegne da parte dei destinatari alla questura oppure di sequestri. Alcuni risultano incompleti». L'avvocato Valter Biscotti, che da anni segue legalmente le famiglie della scorta di Moro, ritiene «insolito e incredibile quanto accaduto». «I casi sono due - spiega - : o quel comunicato proviene da una delle redazioni a cui fu fatto recapitare, oppure durante la digitalizzazione qualche furbetto si è impossessato di una delle copie. Di qualunque ipotesi si tratti, è ignobile fare mercimonio di atto che riguarda fatti di terrorismo in cui hanno perso la vita delle persone».
Le reazioni politiche non hanno tardato ad arrivare. Cinzia Pellegrino (FdI), coordinatore nazionale del dipartimento tutela vittime, auspica che «la magistratura possa presto dare risposte sulla vicenda», mentre il senatore del Pd Dario Parrini, presidente della commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama, si chiede: «Com'è potuto accadere? Sono state violate delle leggi? Di sicuro si è violato un principio di decenza e di umanità». Il senatore Maurizio Gasparri (FI), annuncia che sul «fatto di assoluta gravità» saranno chiesti «chiarimenti in Parlamento. La nostra storia e le tragedie che l'hanno caratterizzata meritano un approccio diverso». Ciro Iozzino, fratello di Raffaele, uno degli agenti morti in via Fani, chiarisce: «Sarebbe stato più giusto conservare il volantino come fosse una reliquia; venderlo all'asta è un po' una presa in giro». Il dem Enrico Borghi annuncia che col collega Filippo Sensi farà «un atto sindacale ispettivo parlamentare». Giuseppe Fioroni, già presidente della Commissione Moro, tiene invece a dire: «Mi colpisce come tutto questo sia potuto accadere e mi auguro che le autorità preposte facciano i loro doverosi accertamenti». Per la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni mettere all'asta quel volantino «è una vergogna. La testimonianza del sequestro dell'allora presidente del Consiglio, Aldo Moro, e il drammatico massacro degli uomini della sua scorta non può e non deve essere venduto al miglior offerente».
Giovanni Berardi, presidente dell'Associazione europea vittime del terrorismo e figlio del maresciallo Rosario Berardi, ucciso dalle Br il 10 marzo 1978 a Torino, parla di «ennesimo affronto ed ennesima offesa alla memoria delle vittime del terrorismo», mentre il giornalista Mario Calbresi, figlio di una delle vittime degli anni di piombo, specifica che quelle «pagine che grondano sangue devono piuttosto stare in una Casa della memoria».
La casa d'aste ieri si è affrettata a commentare: «I collezionisti di documenti storici non sono speculatori, né volgari voyeur. È facile prevedere che chi comprerà quel foglio lo conserverà come una reliquia».
Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza del barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo.
Chiara Baldi per la Stampa il 6 gennaio 2022. Potrebbe essere il quarantaduesimo comunicato numero uno delle Brigate Rosse per la rivendicazione del sequestro di Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana rapito il 16 marzo del 1978. Ma se quello messo all'asta dalla Bertolami Fine Art sarà effettivamente il quarantaduesimo l - stabilirà solo la verifica disposta dal ministero della Cultura: le altre 41 copie ciclostilate sono già nelle mani dello Stato, essendo agli atti del processo «Moro Uno» nel fascicolo della Corte di Assise di Roma, ma - come spiega il dicastero - «alcuni documenti risultano incompleti e non tutti sono nello stesso stato di conservazione».
A fugare i dubbi per ora ci pensa l'ex Br e uno dei massimi esperti del caso Moro, Paolo Persichetti, secondo cui quello finito in vendita «non è uno dei nove comunicati originali stampati con la famosa Ibm a testina rotante in light italic fatti ritrovare a Roma il 18 marzo 1978, bensì un testo ciclostilato di cui esistono centinaia di copie».
Certo è che l'asta che sarà battuta il 18 gennaio ha già raggiunto cifre da capogiro: partita da una base di 600 euro, con una quotazione tra i 1300 e i 1700 euro, al momento viaggia sui 7 mila con oltre 30 offerenti. Per Ilaria Moroni, direttrice dell'Archivio Flamigni, centro di documentazione specializzato nello studio del terrorismo, si tratta di «morbosità che si manifesta soprattutto quando c'è di mezzo il caso di Moro e di opportunismo da parte di chi possiede il documento e pensa di farci dei soldi. Sarebbe molto più corretto se questi preziosi documenti venissero donati agli archivi dello Stato, così da poter portare avanti una memoria storica di cui, peraltro, nel nostro Paese c'è una grande cultura».
Concorda Roberto Della Rocca, presidente dell'Associazione Italiana Nazionale Vittime del Terrorismo, che si dice «stupito della decisione di mettere all'asta un documento di questo tipo», anche se ricorda che in passato è già accaduto. «Avrei preferito che - spiega - trattandosi di documentazione storica finisse nelle mani di un ente statale». Chi difende, invece, i collezionisti è Giuseppe Bertolami, amministratore unico della Bertolami Fine Art: «Non sono speculatori né volgari voyeur. Sono, anzi, appassionati di storia, persone che la studiano e la rispettano e che, talvolta, grazie alle loro piccole scoperte, contribuiscono anche a ricostruirla. È facile prevedere che chi comprerà quel foglio lo conserverà come una reliquia, una testimonianza dolorosa e preziosa della memoria della nostra comunità».
Sulla vicenda, intanto, in Parlamento arriverà una interrogazione presentata dal senatore dem Dario Parrini, che è anche presidente della commissione Affari Costituzionali a Palazzo Madama.
«È assurdo che finisca all'asta come un qualunque oggetto d'epoca il volantino originale con cui le Brigate Rosse rivendicarono con un linguaggio barbaro e delirante il rapimento di Aldo Moro e l'assassinio in via Fani di cinque agenti della sua scorta. Com' è potuto accadere? Sono state violate delle leggi? Di sicuro si è violato un principio di decenza e di umanità».
PAOLO COLONNELLO per la Stampa il 6 gennaio 2022. La rivendicazione del sequestro Moro derubricato a «memorabilia» e messo all'asta per un prezzo che ormai viaggia sui 7 mila euro, non può lasciare indifferente chi, come Mario Calabresi, degli anni di piombo è vittima e testimone: «Forse qualcuno ha perso la memoria di quell'orrore».
Non è invece destino che persino certi fatti di sangue divengano a un certo punto souvenir della Storia?
«Ma quella è l'attribuzione di un massacro, non è un "memorabilia" come il biglietto di un concerto o un disegno di Fellini. Non può essere un oggetto di collezionismo che può avere elementi di passione. Questo foglio messo all'asta è la rivendicazione dell'assassinio degli agenti della scorta di Moro e del suo sequestro. L'idea che ci sia qualcuno che ha conservato quel documento e che pensa di trarne profitto, io la trovo francamente abbastanza riprovevole».
Eppure non è la prima volta che succede
«Infatti c'è un precedente: già la casa d'aste Bolaffi aveva messo in vendita diversi documenti del brigatismo nel 2012: si trattava di volantini che si aggiudicò... Indovina chi? Marcello Dell'Utri. Erano 17 documenti delle Br, tra cui il comunicato numero 6, quello che annunciava la condanna a morte di Aldo Moro. Ne scaturì proprio una polemica su "La Stampa" e io sostenni che era inopportuno».
Come adesso?
«Sì, non ho cambiato idea. Credo che questi documenti deliranti non dovrebbero essere oggetti di lucro. L'ho già detto: sono documenti che grondano sangue e il foglio messo all'asta adesso è la rivendicazione di un pluriomicidio».
Eppure si collezionano anche armi, abiti, manoscritti di mostri della Storia
«La passione del collezionista in questo caso diventa morbosità: perché dovrei avere il culto di un documento che rivendica un massacro? Ci sono luoghi deputati per questo genere di cose: gli archivi storici».
Uno dei personaggi più gettonati in Italia in questo senso è Mussolini. Dovrebbe valere lo stesso?
«Faccio questo esempio: l'ultimo documento di Mussolini è un foglio scritto di suo pugno dove racconta che venne trattato bene dai partigiani che lo arrestarono. Quel documento non si trova a casa di qualche fanatico ma, giustamente, negli archivi dell'Istituto Parri di Milano».
C'è poi la questione economica del valore di certi documenti...
«Che un documento come la rivendicazione di un omicidio abbia un valore economico, che dunque qualcuno faccia dei soldi vendendolo, mi fa abbastanza schifo. Tanto che sono tentato di comprarlo io e consegnarlo a chi certamente ne saprebbe fare buon uso, come Mario Milani, il presidente della Casa della Memoria di Brescia, testimone della strage di piazza della Loggia. L'idea che invece finisca nella casa privata di qualcuno, che poi magari lo rivenderà, rendendolo semplicemente un oggetto commerciale, mi sembra inquietante così come il fatto che qualcuno possa farne ad esempio un oggetto di culto. Sarebbe interessante, per esempio, sapere cosa poi ne ha fatto Dell'Utri dei volantini che acquistò...».
Di sicuro da noi certe ferite non si riescono mai a chiudere: dal fascismo al terrorismo, alla corruzione, la polemica è infinita... «È vero, questo perché da noi la storia è spesso utilizzata come un manganello da picchiare in testa agli avversari. Detto questo, sono convinto che siano davvero pochi quelli che al mondo riescono a fare i conti col passato, negli Usa ancora si rinfacciano la guerra di secessione. Gli unici forse sono i tedeschi: l'hanno fatta talmente grossa e devastante che per andare avanti hanno dovuto ripartire da zero».
C'è comunque da considerare che tutt' ora il sequestro Moro non ha chiarito tutti i suoi aspetti, c'è ancora un'inchiesta aperta.
«A maggior ragione non possiamo ritenere completamente storicizzato quel periodo, è una pagina che ha ancora delle ferite aperte, zone grigie, omissioni. La casa d'aste avrebbe fatto una gran bella figura a ritirare quel documento e consegnarlo a un archivio storico. Oppure a dichiarare che i documenti che grondano sangue non si mettono all'asta».
Volantino Br su Moro all'asta, ecco tutto quello che c'è da sapere. Sul caso Moro è ancora aperta una ferita di una nazione. Si continui la ricerca storica seria che ha bisogno dei documenti originali per essere ben compresa. L’isteria e le urla servono solo alla propaganda di parte. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 07 gennaio 2022.
Sta creando polemiche sterili, prese di posizione da Inquisizione, denunce penali, accertamenti ministeriali il fatto che la casa d’aste Bertolami Fine arts di Roma abbia messo in vendita una copia del volantino originale con il quale le Brigate Rosse rivendicarono l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta.
Le polemiche, tra l’altro, hanno fatto da detonatore alla promozione dell’asta, infatti l’Adn Kronos, informa che già 34 richieste di acquisto sono giunte, facendo arrivare il rialzo dell’offerta a 8.000 euro, e molte altre ne arriveranno. Il fronte della polemica da destra a sinistra ritiene politicamente scorretto che ci sia un’asta su un materiale storico che ha un suo interesse.
I collezionisti di questi reperti, di ogni provenienza storica, contribuiscono spesso a ricostruire gli avvenimenti, e non si comprende la ragione dello scandalo. In pochi hanno infatti riportato la dichiarazione dell’amministratore della casa d’asta, Giuseppe Bertolami, che a riguardo della vicenda ha detto: «I collezionisti di documenti storici non sono speculatori, né volgari voyeur. Sono al contrario degli appassionati di storia, persone che la storia la studiano e la rispettano e che, talvolta, grazie alle loro piccole scoperte, contribuiscono anche a ricostruirla. È facile prevedere che chi comprerà quel foglio lo conserverà come una reliquia, una testimonianza dolorosa quanto preziosa della memoria della nostra comunità».
Sono molti, infatti, che ricercano e custodiscono documenti originali della Guerra di Spagna, della lotta armata italiana, del fascismo nei personali archivi o in collezioni tematiche e generaliste. Né è la prima volta che si vendono volantini delle Br. Nel 2012, per esempio, da Bolaffi, Marcello Dell’Utri, noto bibliofilo e non certo sospettabile di simpatie eversive di sinistra, acquistò 17 volantini e documenti delle Brigate Rosse risalenti al periodo 1974-1978 che ritengo siano ancora custoditi alla Fondazione Biblioteca di Milano. Molti altri sono conservati in centri di documentazione e in archivi privati di cultori di materia e studiosi degli anni Settanta.
Il coro d’indignazione forse vorrebbe distruggere il materiale storico alla base della ricerca e dello studio? E se la politica cerca spazio non si comprende invece l’intervento di autorevoli giornalisti come Mario Calabresi che su Twitter ha dettato la linea: “Queste pagine grondano sangue, non possono essere comprate o vendute, diventare oggetto di collezione. L’unico luogo dove possono stare è nelle Case della Memoria a ricordarci la barbaria che fu il terrorismo”. Che il terrorismo italiano sia stato bocciato dalla Storia è una consapevolezza anche della maggior parte anche di chi ne fece parte, stabilire come e dove deve essere archiviata è un altro discorso. Forse Calabresi vuole impedire a suoi colleghi o storici di acquisire un documento?
Facciamo chiarezza sul volantino messo all’asta
Per tornare alla questione del volantino messo all’asta facciamo chiarezza sul documento. Il volantino che è stato messo all’asta, non è quello originale dei nove dattiloscritti battuti a macchina dalla celebre Ibm che usarono i brigatisti.
Fa parte di quelli diffusi dall’organizzazione per la sua propaganda clandestina, come faceva la Resistenza ai tempi del nazifascismo, e di cui da conto nel suo blog Paolo Persichetti, ex aderente alle Br e che da tempo si occupa di ricerca storica sull’argomento. Persichetti basa la sua documentazione su un rapporto della Questura di Roma, che il 29 aprile 1978 riporta numeri e zone di rinvenimento di quelli sequestrati. Molti andarono a singoli cittadini. Il volantino battuto all’asta fa parte di quella diffusione. Una parte fu sequestrata dalla Digos.
Sul caso Moro è ancora aperta una ferita di una nazione. Si continui la ricerca storica seria che ha bisogno dei documenti originali per essere ben compresa. L’isteria e le urla servono solo alla propaganda di parte.
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” l'8 gennaio 2022. Vi sorprendete e indignate perché un volantino delle Brigate Rosse circola online, viene messo all'asta e riceve offerte di acquisto fino a 7.000 euro? Da destra a sinistra blaterate che è uno scandalo, che la memoria non può trasformarsi in merce, che così si banalizza la storia e si offendono le vittime? E così chiedete di restituire quell'oggetto ai musei, al patrimonio culturale della Nazione, di rimetterlo alla sacrosanta custodia dello Stato?
Siete sicuri che funzioni così, che documenti e reperti, cimeli e testimonianze debbano diventare per forza oggetti di esposizione e studio in pubbliche gallerie e biblioteche e non possano essere proprietà di singoli cittadini? Che ne sarebbe allora delle miriadi di archivi e fondi privati, su cui si regge grossa parte della ricerca storiografica? Che ne sarebbe di quel mercato di pezzi di antiquariato illustre che alimenta da secoli la curiosità dei collezionisti?
Il fatto che ciò avvenga è la migliore conferma che la storia siamo noi, come direbbe De Gregori, che il passato non è esclusiva di pochi ma appartiene a tutti, anche a chi ne conserva, tramanda o commercia dei frammenti: no, la storia non si può irrigidire solo in un museo o in un archivio di Stato, non è immobile e fissa, ma spesso sfugge ai documenti ufficiali e al controllo istituzionale, e perciò è viva e vera.
Chissà quante pagine del passato (si pensi alle foibe) sarebbero rimaste strappate, se non ci si fosse affidati alla memorialistica personale, alla documentazione privata... E il fatto che quegli oggetti oggi circolino online è solo un segno dei tempi, la dimostrazione che anche grazie alla tecnologia l'interesse per il passato non si limita ad ambienti accademici ma si fa pop.
E infatti si tratta di un fenomeno più diffuso di quanto si immagini. Basta dare una sbirciata su eBay, uno dei siti più noti di e-commerce, per accorgersene: qua l'attrazione per i cimeli del passato è bipartisan, spazia dai neri ai rossi.
Di Mussolini e del fascismo, assieme a tanta paccottiglia e feticci kitsch, è possibile trovare testimonianze preziose, come quel manifesto originale del plebiscito del 1934 con tanto di «Sì» in bella vista, acquistabile a 1.500 euro; o la copia autentica de La Gazzetta del Popolo del 10 maggio 1936, il giorno successivo alla proclamazione dell'Impero (1.099 euro); così come di valore sono un testo autografo del Duce su un documento della Rsi, venduto a 899 euro, e una lettera autografa di Mussolini a Matilde Serao, disponibile a 1.970 euro.
Per ciò che riguarda Hitler, se non riuscite a trovare una copia originale del "Mein Kampf", come quella strapagata in un'asta a Monaco nel 2019, potete dirottare su un manifesto anni '30 che riporta una dichiarazione di odio contro la Francia tratta dallo stesso libro e venduta a 1.500 euro.
Se invece avete nostalgie comuniste e cercate tracce autentiche di Stalin, potete procurarvi il suo autografo alla cifra non esattamente modica di 3.000 euro; c'è pure la prima edizione americana del "Libretto Rosso" di Mao, acquistabile a 7.524 dollari, o la sua statua enorme di bronzo, viene 12mila euro; in caso siate fan di Che Guevara, eccovi la sua foto originale scattata da Korda e venduta a 1.900 euro, purtroppo non pagabili in comode rate.
Per Marx avete doppia scelta: comprare la firma autografa, sganciando 6.000 euro, o accontentarvi della prima edizione americana del "Manifesto del Partito Comunista", vostro a soli 668 euro. Se invece avete vocazioni letterarie, affidatevi a cimeli eccellenti come il testo "Guerra sola igiene del mondo" di Marinetti, edizione del 1915 con dedica, venduta a 890 euro, ola raccolta di "Opere" di Giacomo Leopardi, pubblicata nel 1845 da Le Monnier e acquistabile a 1.800 euro.
Fidatevi, non farete un torto alla storia e alla memoria patria se oserete acquistarli. Dimostrerete piuttosto di avere sensibilità per la cultura e di non spendere tutti i vostri soldi in macchine, champagne e mignotte.
Nascita e morte della lotta armata nel romanzo delle Brigate Rosse. Alessandro Gnocchi il 16 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Bertante racconta il nucleo storico dei terroristi attraverso gli occhi di un ragazzo che capisce: nessuno vuole la rivoluzione.
Mordi e fuggi (Baldini + Castoldi, pagg. 206, euro 17; in uscita il 20 gennaio) di Alessandro Bertante è un affilato romanzo sulla nascita delle Brigate Rosse. L'autore conosce l'argomento. Bertante si è laureato con una tesi su Re Nudo, la rivista della sinistra extraparlamentare che pubblicò per prima i volantini delle Br. Relatore: lo storico Giorgio Galli. Le sue conoscenze sono al servizio di una storia tanto significativa quanto a presa rapida. Mordi e fuggi vale anche come descrizione dello stile di Bertante, se azzannate le prime pagine, vorrete velocemente sapere come andranno a finire le vicende di Alberto, il protagonista; e l'autore, con bravura, vi accontenterà.
Ecco, chi è Alberto? Lo chiediamo proprio a Bertante: «È uno dei due fondatori delle Brigate Rosse mai identificati. Sappiamo che agirono sul campo, ad esempio nelle rapine che i terroristi utilizzavano come forma di finanziamento. Renato Curcio e gli altri membri storici, quando furono arrestati, si rifiutarono di fare i loro nomi».
Alberto è in rotta con la famiglia borghese ma anche col movimento studentesco al quale appartiene. Le lotte degli anni Sessanta non hanno condotto a nulla. Nonostante gli slogan e le prediche sfiancanti, gli studenti sono borghesi compiaciuti. Non faranno nulla se non parlare. Alberto, invece, vuole sentirsi in grado di cambiare qualcosa. Il comunismo promette un futuro radioso a patto di fare la rivoluzione. Il problema è la mancanza di un solido legame con i lavoratori, in particolare gli operai delle grandi città. Le Brigate Rosse sono il gruppo che con maggiore forza cerca il consenso nelle fabbriche soprattutto di Milano. Mordi e fuggi è un romanzo milanese quasi al cento per cento, e non è questione di strade nebbiose e altri cliché. Bertante ci fa vedere i cancelli della Sit-Siemens, lo spaccio dell'Alemagna, la zona africana tra Corso Buenos Aires e i viali che conducono alla Stazione, il quartiere di Porta Romana quando in via Orti, al posto di premi Nobel e conduttori televisivi, c'erano le osterie della leggera, come veniva chiamata la piccola criminalità.
Alberto passa da un gruppo all'altro. Decisivo è l'ingresso nel Collettivo Politico Metropolitano, dal quale nasce Sinistra Proletaria e con quest'ultima siamo ormai a un passo dalle Brigate Rosse. La svolta è la bomba di Piazza Fontana, esplosa il 12 dicembre 1969 a Milano, nella Banca nazionale dell'agricoltura. Di fronte ai diciassette morti, e ai novanta feriti, Alberto, e altri come lui, rompono gli indugi. Chiediamo conferma a Bertante: «La frustrazione politica dopo Piazza Fontana, specie a Milano, è un incredibile catalizzatore». Cresce la paranoia del golpe e della reazione. Bertante precisa: «Bisogna tenere conto che la teoria della strage di Stato non è una lettura a posteriori. Era l'interpretazione coeva all'attentato. Le prime indagini che misero nel mirino gli anarchici rafforzarono la convinzione che fosse iniziata la repressione».
Le Brigate Rosse nascono nell'agosto del 1970 a Costaferrata, un piccolo paese sui colli di Reggio Emilia. Organizzatore del convegno è Alberto Franceschini detto il Mega, figlio e nipote di partigiani, capace di procurarsi con facilità le armi nascoste alla fine della Seconda guerra mondiale. Sono presenti Renato Curcio e sua moglie Margherita Cogol detta Mara. Curcio e Mara sono credenti. Non avvertono contrasto tra gli ideali comunisti e il cristianesimo. Si parla di entrare in clandestinità e si formano, anzi sono già formate, le prime cellule oltre alla milanese: Genova, Borgomanero, e poi i romani, i lodigiani e i torinesi. La strategia prevede azioni dimostrative nelle fabbriche non solo per fare propaganda ma anche per reclutare. Chiediamo ancora a Bertante come andarono le cose: «Erano veramente quasi tutti operai, a parte Curcio e Mara, oppure avevano alle spalle una situazione disagiata. Moretti veniva dalla fabbrica anche se era un colletto bianco alla Siemens. La dimensione operaia delle Brigate Rosse, a lungo negata dal Pci era una realtà».
Alberto rompe con gli amici che non vogliono impugnare le armi, lo fa in modo violento, in modo «fascista» come dice Ivan, una delle sue vittime. Nel neo-terrorista la lotta politica conta tanto quanto il lato torbido e avventuroso della vita. C'è qualcosa in Alberto che rimanda, più che ai partigiani, all'esteta armato di ogni epoca, stringere in pugno un'arma dà una fantastica sensazione di potere ed ebbrezza. La sconfitta, per quanto la battaglia sia priva di speranza e addirittura stolida, «rimane scolpita nella memoria del mondo». Puro romanticismo applicato alla violenza.
Dopo alcuni gesti dimostrativi alla Pirelli e in altre fabbriche, le Brigate Rosse iniziano a colpire i dirigenti. Si comincia con Giuseppe Leoni, dirigente della Sit-Siemens, al quale viene bruciata la macchina. Nei bagni della fabbrica compare il primo volantino firmato ancora «Brigata rossa» al singolare (dal successivo si passa al plurale). La fama delle Brigate Rosse, nel mondo della sinistra extra-parlamentare, è in forte crescita. Il compagno Osvaldo, vale a dire Giangiacomo Feltrinelli, entra nella loro orbita. Poi ci sono altre organizzazioni come Lotta Continua e Potere Operaio che oscillano tra la collaborazione e le accuse alle Br di essere più o meno consapevoli strumenti della reazione. Dalle dimostrazioni si passa ai rapimenti, dai rapimenti alle rapine, dalle rapine a... In realtà la storia di Alberto finisce prima che la lotta armata passi alla gambizzazione o all'omicidio. Alberto sfugge alla prima retata che di fatto decapita il movimento, specie a Milano.
E come finisce, chiediamo a Bertante: «Capisce che non ci sono i presupposti di una rivoluzione. Non c'è un noi contro loro. La lotta armata è una scelta di minoranza». Non si pente: «No. Alberto non avrebbe, credo, appoggiato la svolta militaristica delle Brigate Rosse ma neppure era contrario all'uso della violenza. Tra l'altro, per un certo periodo, quello raccontato in Mordi e fuggi, le Brigate Rosse non furono il gruppo più violento. Non furono i brigatisti a uccidere il commissario Calabresi, per citare un evento tragico e fortemente simbolico». Come Pier Paolo Pasolini, da sinistra, fece tabula rasa del Movimento studentesco, accusandolo di aver favorito l'omologazione, così Leonardo Sciascia, ripartendo proprio da Pasolini, farà notare l'inconcludenza della strategia brigatista: rapito Moro, Democrazia cristiana e Partito comunista avranno una ragione in più per avvicinarsi. Sciascia si chiederà0 se l'esperienza brigatista non appartenga alla «sfera dell'estetismo in cui il morire per la rivoluzione è diventato un morire con la rivoluzione». Alessandro Gnocchi
Morto Corrado Alunni, il brigatista rosso inseguito per sempre dal suo passato. Massimo Pisa su La Repubblica il 29 Gennaio 2022.
Aveva 74 anni, viveva a Varese da tempo. Si era dissociato, ma il suo nome riemergeva ciclicamente nelle inchieste sul terrorismo.
Il passato che non passa, se la tua traiettoria ha attraversato eventi e sigle scolpite nel granito della storia, è una condanna supplementare che sopravvive a qualsiasi sentenza. A Corrado Alunni, morto a Varese a 74 anni, l'etichetta di brigatista rosso rimase addosso ben oltre la sua dissociazione arrivata a metà degli anni Settanta, di fatto la prima scissione del nucleo storico all'interno della più sanguinaria organizzazione terroristica degli anni di piombo.
Cesare Giuzzi per corriere.it il 28 gennaio 2022.
Ha attraversato le stagioni più dure degli Anni di piombo poi nel 1987 si era dissociato dalla banda armata. È morto a Varese a 74 anni l’ex brigatista e militante delle Formazioni comuniste combattenti, Corrado Alunni.
È stato insieme a Renato Vallanzasca uno dei protagonisti del clamoroso tentativo di evasione dal carcere di San Vittore. Nato a Roma il 12 novembre 1947, Alunni si era trasferito a Milano dopo gli studi nel 1967.
Assunto come operaio alla Sit-Siemens inizia il suo percorso verso la lotta armata. È nella fabbrica milanese che conosce i futuri brigatisti Mario Moretti, Giorgio Semeria e Paola Besuschio. Sette anni dopo, quando è già componente delle Brigate rosse e braccio destro di Renato Curcio, lascia il lavoro ed entra in clandestinità.
Poi l’esperienza delle Brigate rosse comuniste e nel ‘77 la creazione delle Fcc e Prima linea. Viene catturato a Milano nel 1978 quando la Digos e la Mobile della questura fanno irruzione nel covo di via Negroli a Milano. Dentro ci sono armi, esplosivi e soprattutto carte e documenti riservati sull’attività terroristica rossa.
La fuga da San Vittore
Si arriva al 28 aprile 1980 quando Alunni, insieme a Vallanzasca e al suo fedele braccio destro Antonio «Pinella» Colia e ad altri detenuti tentano una clamorosa evasione da San Vittore.
Durante l’ora d’aria il commando prende in ostaggio un brigadiere e riesce a farsi strada fino all’uscita del carcere. I detenuti hanno armi e le usano contro due guardie che gli sbarrano la strada.
Poi la sparatoria si sposta nelle strade intorno al carcere dove Alunni rimane ferito da due colpi di mitra e viene arrestato insieme al Bel René, anche lui ferito. Negli anni 80 le condanne si sommano e Alunni arriva a un cumulo superiore ai 50 anni di galera.
La dissociazione
Nel 1987 si dissocia dalla lotta politica armata. E nel 1989 gli viene concessa per la prima volta la semilibertà: viene assunto con l’incarico di catalogare materiale didattico dalla Enaip, il centro di formazione professionale delle Acli, di Bergamo.
Il suo percorso di dissociazione arriva al culmine nel 1997 quando con altri 62 ex terroristi rossi firma uno storico appello per chiudere la «Storia infinita» degli Anni di piombo per aprire la strada a «una democrazia matura, una classe politica e una Repubblica che vogliano davvero rinnovarsi».
È la fine definitiva di un pezzo di storia del Paese che affonda le sue radici nel Dopoguerra, nella strage di Piazza Fontana, nel sequestro Moro e nella lunga scia di sangue del terrorismo.
Morto a 75 anni l'ex Brigatista Corrado Alunni. Il Quotidiano del Sud il 28 Gennaio 2022.
È morto a Varese, a 75 anni, Corrado Alunni, componente delle Brigate Rosse della prima ora, dalle quali si distaccò per dare vita prima alle Rosso Brigate comuniste e poi alle Formazioni comuniste combattenti.
Particolare figura di borgataro romano “de Centocelle”. Trapiantato a Milano, tecnico specializzato alla Sit-Siemens … con altri tecnici di formazione cattolica ma influenzati dal 68, tra cui Mario Moretti, formano un “gruppo di studio” … cominciano prendendo le difese di un dirigente esautorato e finiscono per costituire il primo significativo nucleo di fabbrica delle Brigate Rosse … ma Corrado rimane un “movimentista” e le Br, soprattutto dopo la scelta dell'”attacco al cuore dello stato” cominciata col sequestro Sossi, gli vanno strette … ne esce, insieme ad altri, nel 1974 … e, pur da ricercato, ritorna a Milano ad una attività anche di massa, partecipando pure a cortei ed iniziative pubbliche col gruppo di “Rosso”, facente capo a quell’area dell’autonomia diretta da Toni Negri.
In quell’ambito organizza il livello di “lavoro illegale” dell’organizzazione con il nome di Brigate Comuniste e poi, col disfacimento di “Rosso” seguito al fattaccio di Via De Amicis il 13 Maggio 1977, in cui muore un poliziotto, fonda le Formazioni Comuniste Combattenti … che, dopo un fallimentare tentativo di “comando unificato” insieme a Prima Linea, terminano la loro attività con l’arresto dello stesso Alunni nell’autunno del 1978 . famoso e clamoroso il suo tentativo di evasione nel 1980 dal carcere di San Vittore a Milano insieme a Renato Vallanzasca e ad altri detenuti, politici e comuni
Durante la fuga Alunni viene ferito allo stomaco con due colpi di mitra e Vallanzasca, che è a suo modo un “generoso” ma che soprattutto sente un po’ il fascino di quel romano scanzonato, così diverso dal clichè dei “brigatisti seriosi”, essendo l’unico armato degli evasi torna indietro per proteggerlo dal probabile “colpo di grazia” e viene così gravemente ferito e ri-arrestato pure lui …nel 1987, in un documento comune ad altri ex appartenenti alla lotta armata di varie organizzazioni, intitolato “La storia infinita” Alunni sceglie la strada della “dissociazione” … non avendo particolari reati di sangue, nel 1989 gli venne concessa la semilibertà e la possibilità di lavorare all’esterno del carcere.
L'ultima lotta di Alunni l'ex Br dalla "tuta blu" evaso con Vallanzasca. Nino Materi il 29 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Nel suo curriculum criminale tanti attentati ma nessun omicidio. Era libero dal 1989.
Prima di «dissociarsi», ci ha riflettuto 20 anni. Tanto è trascorso da quel lontano 1967 quando Corrado Alunni comincio a bazzicare i primi terroristi già «affermati» (in primis Mario Moretti) a quel «liberatorio» 1987 quando l'ex operaio della Siet-Siemens decise di abiurare ciò che restava della «lotta politica armata», firmando - dieci anni dopo, nel 1997 - un patetico appello per «chiudere la Storia infinita degli Anni di piombo e aprire la strada a una democrazia matura, una classe politica e una Repubblica che vogliano davvero rinnovarsi»; insomma, una parabola deprimente che lo ha portato a trasmigrare dalla tragica cattedra di cattivo maestro a quella comica di maestrino con la vocazione da «statista». Ieri per l'ex brigatista quella parabola si è conclusa definitivamente: Corrado Alunni è morto infatti nella sua Varese all'età di 75 anni. Il destino ha voluto che tutto finisse dov'era cominciato. Nello stesso territorio in cui Alunni cercò di «mettersi in proprio» tagliando il cordone ombelicale che lo legava ai fratelli maggiori delle Brigate Rosse e fondando una Brigata Comunista tutta sua e che però, nei riguardi delle BR, continuerà sempre a nutrire una sorta di complesso di inferiorità misto a un senso di rispetto reverenziale. Mentre in fatti le BR mettevano a segno attentati di «serie A», i militanti fedeli ad Alunni frequentavano i «campionati inferiori», accontentandosi di espropri proletari e distruzioni di «simboli capitalistici». Ma senza mai arrivare a gambizzazioni o omicidi. I comunisti di Alunni erano invece specializzati in «irruzioni contro il lavoro nero in cantieri e officine; ronde armate contro lo spaccio di droga; attentati contro carceri, stazioni delle forze dell'ordine e sedi partitiche; dossieraggio su dirigenti d'azienda». In nessun blitz ci furono vittime, benché non poche ombre permangano su un suo possibile ruolo nel rapimento Moro.
Le condanne inflitte ad Alunni nei vari processi ammontano a circa 50 anni, solo parzialmente scontati: un po' per buona condotta (dal 1989 la prima seimilibertà), un po' perché Alunni non disdegnava le evasioni, come quella di cui fu protagonista con Renato Vallanzasca nel 1980 dal carcere di San Vittore. Due anni prima, nel 1978, Alunni era stato arrestato nel covo di via Negroli, lasciandosi alle spalle un curriculum di sigle tristemente note come quella delle Formazioni comuniste combattenti.
Oggi c'è chi vorrebbe addirittura riabilitare la sua figura: «Non va ricordato solo per aver aderito alle Br - sostiene Davide Steccanella, avvocato e storico -. Era una persona moralmente retta. Un operaio nato a Roma e arrivato a Milano per fare l'operaio alla Sit-Siemens e che come tanti altri fece la scelta di cambiare le cose, pagandola con anni di carcere». Nino Materi
Alberto Simoni per "la Stampa" il 28 gennaio 2022.
È la mattina del 28 gennaio 1982 quando le teste di cuoio arrivano in via Pindemonte 2 a Padova con un piccolo furgone verde. Hanno pistole e fucili d'assalto M-12. Alle 11,25 sono davanti alla porta di un appartamento di una anonima palazzina. La sfondano con un colpo secco. In una tenda montata in una stanza c'è da 42 giorni un generale americano ostaggio di un commando di cinque persone delle Brigate Rosse guidato dal poi pentito Antonio Savasta: quell'uomo è James Lee Dozier, classe 1931, generale di brigata della Nato.
Il 17 dicembre un commando era entrato nella sua casa di Verona spacciandosi per idraulici: dopo aver immobilizzato la moglie legandola a un calorifero, avevano preso Dozier e, caricatolo nel bagagliaio di una macchina, lo avevano condotto a Padova. Il generale resterà per sei settimane nello stesso covo, legato a un lettino di ferro sotto una tenda da campeggio con le cuffie e musica ad altissimo volume.
Sempre così fino al blitz del team del comandante dei Nocs Edoardo Perna durato 50 secondi. Dozier oggi ha 90 anni, la sua memoria è viva, i ricordi di quei 42 giorni densi di dettagli. Risponde al telefono dalla sua casa in Florida, seduto - racconta - davanti al "kidnapping corner", l'angolo in cui ha raccolto foto e ricordi di quell'esperienza e libri sui Nocs. Descrive lo scatto con i presidenti Reagan e Pertini e quello con Perna. Simboli di una fulminea parentesi di vita che Dozier ha custodito e che ora - insieme alle altre pieghe dell'esistenza - è diventata un libro, "Finding my Pole Star".
Generale Dozier, ha rifiutato contratti importanti per un libro subito dopo la sua liberazione, perché farlo adesso?
«Voglio lasciare una testimonianza ai giovani. Dopo il congedo nel 1985, ho intrapreso una carriera nel business dell'agricoltura: mi alzavo all'alba e lavoravo molto. Ma adesso che sono pensionato, ho deciso di scriverlo. Mi ha aiutato mia sorella che ha tenuto le foto e i ricordi dell'infanzia ad Arcadia e poi ho attinto alla mia memoria».
Sono passati 40 anni dal rapimento. Ha mai avuto incubi?
«Mai, fortunatamente. Sono stato capace di parlarne di continuo seguendo i suggerimenti degli psicologi. Tirare fuori le cose è il modo migliore per superare i traumi».
C'è qualcosa che le resta conficcato in testa? Un suono, un odore, una voce che la riporta all'appartamento di Padova?
«Si, i tentativi di Di Lenardo (uno dei carcerieri, ndr) di farmi il lavaggio del cervello». Come faceva?
«Ogni giorno veniva nella tenda, mi parlava delle Br, mi dava cose da leggere che io gettavo via. "Scordatelo", gli dicevo. Tornava ancora. Con un dizionario italiano e traducevamo parola per parola. Gli dissi che non avrei mai detto nulla sui segreti della Nato».
Non si arresero però
«Tentarono di spiegarmi chi erano, in cosa credevano e cosa volevamo le Brigate Rosse. Alla fine Di Lenardo mi disse: "Se non riusciamo a portarti dalla nostra magari riusciamo a farti diventare neutrale».
Del blitz cosa le resta in mente?
«La rapidità, la pistola di una guardia puntata su di me. Era molto strano, non avevo mai visto armi lì. Improvvisamente la guardia venne disarmata. Poi la figura di un uomo che si spinge nella tenda. Temevo fosse una resa dei conti fra bande delle Br che si contendevano la preda, io. Invece quell'uomo si tolse il cappuccio, disse che era un poliziotto. Erano a venuti a prendermi e dovevamo andare via subito perché temevano che l'appartamento potesse saltare in aria. In un attimo ero seduto sul sedile posteriore di una macchina della polizia in mezzo al traffico di Padova. E andavamo veloci, schivando le altre macchine. Ci manca solo un incidente, pensai».
La fine dell'incubo le diede la forza di dire di no al presidente Usa. Dove trovò il coraggio? «No no. Ho imparato a mie spese che al presidente degli Stati Uniti non dici mai di no anche se ti sembra di averlo detto (ride)».
Come andò allora il no-diventato-Sissignore?
«Un'ora dopo il rilascio, Reagan chiamò. Ero alla base di Ederle, Vicenza. Mi chiese come stavo e mi disse: "Crede di poter venire a Washington la prossima settimana per il National Prayer Breakfast? "Signore - risposi- sono stato via per sei settimane, devo recuperare il lavoro arretrato". Riattaccò».
Però ci andò e ci sono le foto dell'allora vicepresidente Bush che l'accoglie all'aeroporto di Washington
«Dieci minuti dopo, telefonò il capo dello staff dello Stato maggiore: "Torna a Washington. Subito". Insomma, il mio no al presidente non è stato proprio efficace».
Si ricorda la prima cosa che disse a sua moglie?
«"Ciao cara, bello vederti". Ma sto tirando a indovinare, non ricordo» (grassa risata).
Dopo l'incontro con Reagan tornò in Italia, ma vi restò poco. Perché?
«I miei superiori ritenevano fosse meglio chiudere l'esperienza per ragioni di sicurezza. Allora si approfittò di una cena di Stato per il rimpatrio senza clamori: Pertini andava a Washington, anch' io fui invitato alla Casa Bianca. Non sono più rientrato in Italia».
Da militare intende
«Certo, da militare, perché sono venuto spesso e ogni volta incontro i miei salvatori. Ora purtroppo a causa del Covid ho saltato gli ultimi anni, l'ultimo volo in Italia risale al 2018. Spero di poter tornare presto e ringraziare ancora il comandante Perna e tutti coloro che mi hanno salvato».
Ha mai più visto o sentito i suoi rapitori?
«Solo al processo di Verona del 1982. Erano nelle celle degli imputati. Ho fatto la mia deposizione. Poi mi hanno suggerito di andarmene. E così feci. So che qualcuno è diventato dottore, qualcun altro si è pentito e si è rifatto una vita».
La leadership è uno dei temi dei tanti interventi pubblici che tiene. Cosa dice ai giovani?
«Che oggi ci sono troppi follower e pochi leader».
L'adrenalina, le armi, i pugni alle Br: "Come liberammo Dozier". Gianluca Zanella il 17 Dicembre 2021 su Il Giornale.
Nel racconto di due operatori Nocs, i 50 secondi in cui sono state sconfitte le Brigate Rosse.
Verona, 17 dicembre 1981 - Padova, 28 gennaio 1982. Sono passati quarant’anni dal sequestro e dalla liberazione del generale americano James Lee Dozier a opera delle Brigate rosse guidate da Antonio Savasta.
In particolare, la liberazione del generale americano (un pezzo davvero grosso: al tempo era sottocapo di Stato maggiore addetto alla logistica del comando delle forze terrestri della Nato nell’Europa Meridionale), è stato l’evento che ha portato per la prima volta alla ribalta il Nocs (Nucleo operativo centrale di sicurezza), nato nel 1978 ma fino a quel momento impiegato in situazioni con meno eco mediatica. Un evento, come in molti sostengono, che ha segnato l'inizio della fine delle Brigate rosse; uno di quegli eventi che resteranno nella storia. È per questo che, nel quarantesimo anniversario, abbiamo deciso di ripercorrerlo attraverso la voce di alcuni dei protagonisti che a vario titolo vi hanno partecipato.
"Fuori in 50 secondi": la liberazione che segnò la fine delle Br
La nostra storia comincia il 27 gennaio 1982, alle 22.
È a quell’ora che il capitano Edoardo Perna, giovane vice comandante dei Nocs, riceve la telefonata. Dall’altro capo del telefono, l’allora capo dell’Ucigos, il prefetto Gaspare De Franscisci: “Perna, prepari gli uomini, i più bravi che ha, e li porti immediatamente a Verona”. Queste le parole che ci ripete Edoardo Perna quando lo incontriamo a Roma, all’interno di un bar che affaccia su una delle vie più trafficate della capitale, mentre fuori impazza un temporale di fine autunno.
Oggi Perna è in pensione. Capo scorta di Francesco Cossiga durante il rapimento Moro (“Ho visto i suoi capelli diventare bianchi nell’arco dei 55 giorni”), capo scorta di Virginio Rognoni, guardia del corpo di Berlinguer durante il suo viaggio in Nicaragua, nonostante gli anni trascorsi, Edoardo Perna ricorda ancora molto bene i dettagli di quella operazione: “Erano anni difficili – ci dice – solo quindici giorni prima, a Roma, con un blitz coordinato avevamo smantellato tre covi brigatisti e arrestato Giovanni Senzani”. Gli chiediamo di raccontarci il perché di quella chiamata da parte del prefetto De Francisci: “Avevano trovato il covo in cui era tenuto prigioniero Dozier. Avevano preso il fiancheggiatore che aveva portato il generale da Verona a Padova e lo stavano facendo parlare”.
Perna si riferisce a Ruggero Volinia, fiancheggiatore delle Br. Fu lui a guidare il furgone dove, dentro una cassa di legno, era stato rinchiuso Dozier subito dopo il rapimento. Le versioni su come sia stato individuato il covo brigatista – come già accennato - sono discordanti, per adesso limitiamoci a raccontare i fatti per come sono stati trasmessi dalla verità giudiziaria e, in effetti, per come ci sono stati confermati da testimoni come Perna: “Erano stati Umberto Improta e i suoi uomini a trovarlo. Per convincerlo a parlare, Improta gli aveva detto che gli avrebbe rivelato il luogo dove abitava la sua famiglia, per dimostrargli fiducia... non ne sono sicuro, ma forse gli ha anche promesso qualcosa, in cambio dell’indicazione corretta del covo”.
Umberto Improta, pezzo da novanta della polizia durante gli anni di piombo e non solo, grande investigatore e – a detta di chi l’ha conosciuto – fine psicologo all’occorrenza.
A ogni modo, che cosa ci sta raccontando Perna? Come si è arrivati a Ruggero Volinia? Ecco, arriviamo alla versione ampiamente condivisa tanto dai protagonisti diretti di questa vicenda, quanto dalle cronache dell’epoca: tutto comincia con l’arresto di Paolo Galati, fratello del pentito brigatista Michele Galati.
Paolo fa il nome di Elisabetta Arcangeli, indicata come militante della sinistra extraparlamentare. In casa della Arcangeli, gli uomini di Improta trovano Ruggero Volinia, che si scopre essere appunto il fiancheggiatore che ha guidato il furgone con Dozier prigioniero. Passano due giorni. Da fonti aperte la tesi ricorrente è che tanto Volinia quanto la Arcangeli siano stati sottoposti a tortura da parte del famigerato dottor De Tormentis, alias di Nicola Ciocia, poliziotto membro insieme ad altri tre del cosiddetto gruppo dell’“Ave Maria”. Sul punto però nessuno degli intervistati conferma o smentisce “Noi eravamo operativi – ci dice Perna – non dovevamo ottenere informazioni, agivamo e basta”. Tornando a Volinia, a due giorni dalla cattura crolla e accetta di portare Improta e i suoi al covo dove viene tenuto prigioniero il generale statunitense. Alt. Facciamo un passo indietro e torniamo all’arresto di Paolo Galati, perché anche in questo caso la verità sembra avere molte facce.
Una fonte interna ai servizi, che all’epoca prese parte alle fasi di individuazione del covo brigatista, ci racconta una storia simile, altrettanto credibile. Lasciamo a voi l’interpretazione: “L’individuazione del covo di Dozier fu... come posso dire... una botta di culo”. Queste le sue esatte parole. Vediamo perché: “Fu merito della Polfer di Verona... fermarono alla stazione un tossico e lo portarono in caserma. Una volta qui il ragazzo, per essere lasciato in pace, disse che avrebbe potuto dare informazioni importanti sulle Brigate rosse. All’inizio non fu creduto, anzi si beccò anche qualche scappellotto, perché su certe cose era meglio non scherzare all’epoca. Poi però qualcuno degli agenti s’incuriosì e in effetti, dopo una banale verifica dei documenti, il tossico risultò essere Paolo Galati, fratello del brigatista pentito. Insomma il caso ci ha messo lo zampino”.
Quale che sia la versione corretta, ottenuta da Volinia l’indicazione esatta del covo brigatista – Padova, via Pindemonte 2, appartamento al primo piano – Improta avverte il prefetto De Francisci, che a sua volta telefona a Perna: “Siamo arrivati a Padova alle cinque del mattino. Dovevamo fare un sopralluogo e siamo saliti in una macchina io, Improta, un collega esplosivista, il capo di gabinetto della questura di Padova e Ruggero Volinia, che ci ha portati fin sotto il covo. Una volta lì, Improta mi ha guardato e mi ha detto 'ora tocca a te'... la prima cosa che andava verificata era se ci fosse una porta blindata. In quel caso avremmo dovuto usare l’esplosivo. L’unico modo per fare questa verifica era andare fino al primo piano e bussare al covo... aspettammo le nove di mattina. Sullo stesso piano c’era un dentista. Io e una collega, fingendoci moglie e marito, salimmo le scale e demmo un’occhiata. La porta del covo non era blindata. Due ore dopo facevamo irruzione nel covo. Un’azione durata 50 secondi”.
A raccontarci qualche dettaglio in più – e con un altro punto di vista – è un altro operatore tra i sei entrati nel covo: Carmelo Di Janni. L’abbiamo incontrato a Roma, seduti al tavolo di uno dei locali più famosi della capitale. Stazza enorme, fisico ancora prestante, Di Janni – nome in codice “Bimbo” - faceva parte di un commando di uomini scelti, la "crème de la crème", un manipolo di incursori che all’epoca poteva contare solamente sulle proprie qualità fisiche e psicologiche: “Ero un ragazzino, avevo ventitré anni - ci dice rievocando quei momenti - L’adrenalina prima di un’irruzione è qualcosa di inspiegabile... noi avevamo due obiettivi: neutralizzare le persone e bonificare l’ambiente da armi e, soprattutto esplosivi. Mi ricordo ancora quando quindici giorni prima sono entrato nel covo di Giovanni Senzani a Tor Sapienza, Roma. C’era di tutto là dentro: lanciamissili, mitra, bombe. Una santabarbara. Proprio come nel covo di Padova”.
Steso su un letto infatti i Nocs troveranno l’arsenale della banda. Ma torniamo al momento dell’irruzione: “In quel caso, il mio timore era che dietro la porta fosse piazzato un esplosivo. Ma l’unico modo per scoprirlo era sfondarla. E così abbiamo fatto... Io sono stato il secondo a entrare... la pistola non la tirai nemmeno fuori, non serviva, eravamo tutti esperti di arti marziali, boxeur, campioni di pesi massimi. Ricordo di essermi trovato di fronte uno dei brigatisti, era armato... con un solo pugno gli ho scaricato addosso tutta la tensione del momento. Anni dopo, durante uno dei processi, ci siamo stretti la mano”.
Carmelo Di Janni è il secondo uomo a entrare nella stanza in cui il brigatista Giovanni Ciucci sta per giustiziare – o almeno così sembra – il generale Dozier: “Dopo la botta in testa con il calcio della pistola che gli ha dato il mio collega, l’ho preso (Ciucci, ndr) e l’ho lanciato fuori dalla stanza. A quel punto Dozier ci guardava terrorizzato... credeva fossimo un altro gruppo brigatista venuto a rapirlo. Io ho capito e mi sono tolto il sottocasco... 'Siamo della polizia italiana' gli ho detto. Dozier allora si è alzato e mi ha abbracciato”.
Un lieto fine per nulla scontato. Un'azione da manuale condotta senza sparare un solo colpo. Cosa non da poco, in quegli anni: "Dopo tutto - ci confida la nostra fonte interna - non solo la morte dell'ostaggio era data al 90%, ma l'eco degli spari in via Fracchia, a Genova, quando il 28 marzo 1980 gli uomini di Carlo Alberto Dalla Chiesa uccisero i brigatisti nel blitz, era ancora molto forte". Gianluca Zanella
· PAC. Proletari Armati per il Comunismo.
(ANSA il 13 ottobre 2022) E' fissata per domani al tribunale di Castrovillari la prima udienza del processo che vede imputato l'ex terrorista Cesare Battisti con le accuse di resistenza a pubblico ufficiale e oltraggio alla polizia penitenziaria. Battisti, che sta scontando una pena all'ergastolo ed è attualmente detenuto in regime di carcere ordinario a Parma , nel 2020 si sarebbe opposto ad un controllo della penitenziaria su una lettera.
Le verifiche erano state disposte dal tribunale di Sorveglianza mentre era detenuto nel carcere di Rossano Calabro. Nel procedimento, davanti ai giudice monocratico, è difeso dall'avvocato Maurizio Nucci. Nel capo di imputazione si afferma che Battisti si sarebbe rivolto agli agenti affermano: "lei non sa chi sono io. Vedrà di cosa sono capace".
"Vi racconto di mio padre ucciso dai terroristi del Pac. E Battisti..." Rosa Scognamiglio il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Dopo quarantatré anni l'omicidio del gioielliere Pierluigi Torregiani, ucciso da un commando dei Proletari Armati per il Comunismo è diventato un film. Il figlio Alberto: "Abbiamo raccontato quei 25 giorni di inferno".
Il 16 febbraio del 1979 un commando dei Proletari Armati per il Comunismo uccise il gioielliere e orologiaio Pierluigi Torregiani. L'omicidio si consumò nel negozio dell'artigiano, in via Mercantini, a pochi passi da piazza Bausan, a Milano. I tre responsabili del delitto – gli ex terroristi Giuseppe Memeo, Sebastiano Masala e Gabriele Grimaldi - vollero vendicare l'uccisione di un rapinatore al quale Torregiani aveva sparato durante un agguato al ristorante "Transatlantico"di via Malpighi, in zona Porta Venezia, il 22 gennaio 1979.
I giornali dell'epoca, in particolare i filocomunisti, etichettarano il gioielliere come "pistolero", fomentando l'odio delle frange eversive della sinistra degli Anni di Piombo. A farne le spese, il giorno della sparatoria mortale, fu anche Alberto Torregiani, il figlio dell'orafo. Nel tentativo di difendersi dai banditi, l'artigiano esplose un colpo di pistola che però finì per raggiungere il ragazzino procurandogli danni irreversibili alla spina dorsale.
Quarantatré anni dopo, l'omicidio del gioielliere è diventato un film, diretto dal regista Fabio Resinaro, andato in onda su Rai Uno mercoledì sera. La sceneggiatura trae ispirazione dal libro autobiografico "Ero in guerra ma non lo sapevo" di Alberto Torregiani: "Io ho ottenuto giustizia ma ci sono ancora molte vittime che non l'hanno ricevuta. Ho combattuto e combatto per loro", racconta alla nostra redazione.
"Ero in guerra ma non lo sapevo" è il titolo del suo libro. Cosa vuol dire?
"Nella Milano degli Anni di Piombo abbiamo vissuto un vero e proprio contesto di guerra. Una guerra dichiarata al Paese e alle istituzioni. Per le famiglie che non erano direttamente coinvolte nelle vicende politiche del tempo era difficile avere piena comprensione del contesto storico e del clima di tensione di quegli anni. Io e la mia famiglia lo abbiamo capito soltanto quando ci siamo finiti dentro: troppo tardi. Quel 'ma' sta proprio indicare che se ne avessimo avuta consapevolezza, forse, avremmo agito diversamente. Ma col senno di poi è facile ragionare".
Dal libro al film. C'è corrispondenza tra la narrazione cinematografica dei fatti e il vissuto familiare?
"Il film è incentrato sul periodo che va dal giorno della rapina al ristorante a quello dell'omicidio di mio padre. Abbiamo voluto raccontare gli avvicendamenti familiari, l'inferno in cui siamo finiti e che abbiamo vissuto in quei 25 giorni: la verità nuda e cruda. È una sorta di viaggio introspettivo che punta l'attenzione sull'aspetto emotivo di quello che poi, invece, è diventato un fatto storico".
Nel film Pierluigi Torregiani è un genitore molto austero e severo. Che uomo è stato in realtà suo padre?
"Ovviamente quella è una caricatura cinematografica. Mio padre era un uomo sereno e sorridente. Per certo lavorava sodo ed era dotato di grande determinazione, era molto caparbio. Ma era capace di profondi cambiamenti. Basti pensare che aveva deciso di adottare tre ragazzini – me e le mie due sorelle più grandi – ormai non più in fasce. Era un genitore sicuramente severo ma, del resto, l'austerità di quegli anni imponeva un'educazione rigida. Va contestualizzato il quadro storico e sociale del tempo per poter capire la personalità di mio padre".
Dopo la rapina al ristorante a suo padre fu assegnata la scorta. Com'è stato vivere sotto protezione?
"La scorta era stata affidata a mio padre perché la procura aveva ravvisato una condizione di pericolo per la sua incolumità. Di conseguenza anche noi figli siamo stati costretti a rivedere le nostre abitudini. Per certi versi è stata una esperienza limitante per la quotidianità. Nel senso che, ad esempio, è capitato che ci tenessero d'occhio quando andavamo a scuola o al parco con il cane".
Poi arrivò quel drammatico giorno di febbraio. Cosa ricorda?
"Ricordo tutto. Non sono di certo esperienze che si dimenticano. Poi, per fortuna, la vita va avanti. In un modo o nell'altro, impari ad appropriarti del dolore e a conviverci pacificamente. Certo, qualche volta mi è capitato di pensare 'se non fossi stato lì...'.Però è facile ragionare col senno di poi. È andata così, purtroppo".
Hai mai più rivisto o incontrato gli assassini di suo padre?
"Sì, qualcuno ma non in modo particolare".
Il "brighella del Giambelin", tutta la verità su Renato Vallanzasca
Le hanno chiesto scusa?
"Sì. Di recente anche Cesare Battisti lo ha fatto. Diciamo che 'ha lasciato intendere', ecco".
E le ha accettate?
"Non è questo il punto. Capisco che per i familiari di qualche vittima le scuse siano importanti ma per me non lo sono. O almeno, non trovo che siano così fondamentali. Poi è una questione molto pesonale, dipende dal carattere e dall'atteggiamento individuale rispetto agli 'imprevisti' della vita. Io sono andato avanti e ho imparato a star bene con me stesso.".
Però ha dovuto lottare per ottenere giustizia.
"Sì. E devo dire che ci sono riuscito. Però tengo a precisare che non l'ho fatto per vendetta ma perché volevo ribaltare un'ingiustizia. Io ho avuto la 'fortuna' di essere supportato dai media e dagli organi di stampa a differenza di tanti altri. Ho lottato e lotto per coloro che non hanno ancora ottenuto giustizia. Bisogna provarci, sempre".
Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.
Pierluigi Torregiani, la storia vera raccontata dal film «Ero in guerra ma non lo sapevo». Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 16 Febbraio 2022
La pellicola di Fabio Resinaro con Francesco Montanari e Laura Chiatti arriverà mercoledì 16 febbraio in prima serata su Rai1.
Il film di Fabio Resinaro
Siamo a Milano, durante gli Anni di Piombo: il 16 febbraio 1979 il gioielliere Pierluigi Torregiani, 42 anni, veniva ucciso per mano dei Proletari Armati per il Comunismo. La sua storia sarà raccontata nel film di Fabio Resinaro «Ero in guerra ma non lo sapevo», tratto dal libro scritto nel 2006 da Alberto Torregiani (figlio di Pierluigi) con Stefano Rabozzi, in onda in prima tv mercoledì 16 febbraio alle 21.25 su Rai1. Nel cast, insieme a Francesco Montanari che interpreta il protagonista, ci sono anche Laura Chiatti, Juju Di Domenico e Alessandro Di Tocco. «Sarebbe stato facile fare di mio padre l’innocente con cui tutti solidarizzano da subito - ha spiegato al Corriere Alberto -. Invece nel film abbiamo voluto raccontare una verità più ricca e complessa. Mio padre era un po’ impulsivo, a volte forse arrogante, uno a cui non piaceva farsi mettere i piedi in testa. Niente di più. Tutto questo è diventato la sua condanna».
Premiato con l'Ambrogino d'oro
Nato a Melzo il 21 novembre 1936 Torregiani era titolare di un piccolo negozio in via Mercantini, periferia nord di Milano (quartiere Bovisa). Insieme alla moglie Elena aveva adottato tre figli (Anna, Marisa e Alberto) ed era molto attivo nella vita pubblica: aveva ricevuto l'Ambrogino d'oro dal sindaco Carlo Tognoli per l'impegno nel sociale e la filantropia.
La rapina finita nel sangue
La sera del 22 gennaio 1979 di ritorno da Castellanza (dove aveva partecipato ad una televendita di gioielli presso una televisione privata) Torregiani si fermò a cenare con la figlia e alcuni amici in una pizzeria, Il Transatlantico, in via Marcello Malpighi (vicino a Porta Venezia). Intorno a mezzanotte entrarono nel ristorante due malviventi per compiere una rapina: il gioielliere e uno dei suoi accompagnatori, entrambi armati, reagirono. Nacque una colluttazione con una conseguente sparatoria che provocò la morte di due persone: un cliente, il 38enne Vittorio Consoli, e uno dei rapinatori, il 34enne Orazio Daidone.
Le minacce
«Durante quella rapina si è difeso solo perché aveva accanto sua figlia - raccontava al Corriere Alberto Torregiani -. Nei giorni seguenti stava soltanto nascondendo a tutti noi la sua paura. Si teneva tutto dentro: anche la consapevolezza che prima o poi qualcosa gli avrebbero fatto». Nei giorni successivi alla rapina Torregiani iniziò a ricevere minacce - alcuni giornali lo avevano descritto come un «giustiziere» - e gli venne assegnata una scorta.
L’omicidio
Intorno alle 15.00 del 16 febbraio 1979, mentre stava aprendo il negozio insieme ai figli, il gioielliere fu ucciso in un agguato (l’auto della scorta che lo accompagnava proprio quel giorno si era allontanata per accorrere sul luogo di una rapina). A sparare furono alcuni membri della formazione terroristica dei Proletari Armati per il Comunismo, per vendicare la morte del rapinatore rimasto ucciso nel ristorante. Successivamente saranno condannati come esecutori materiali Giuseppe Memeo e Gabriele Grimaldi. Per concorso morale, in quanto partecipante alla riunione in cui si decise l'omicidio, sarà condannato tra gli altri anche Cesare Battisti (per anni sarà latitante fino al suo arresto nel 2007 in Brasile e alla sua successiva estradizione in Italia nel 2019).
Lotta Continua, la cronaca, l’eroina: compagni allo specchio in due documentari. Al Torino Film Festival l’epopea del gruppo di Adriano Sofri. E la tragica parabola di Carlo Rivolta, giornalista di Repubblica che indagava sulla droga. Fabio Ferzetti su L’Espresso il 29 novembre 2022.
Novembre 1976. Un gruppo di femministe si impossessa del secondo Congresso nazionale di Lotta Continua e scrive a sorpresa la parola fine per il gruppo più vasto, influente, contraddittorio e in definitiva fecondo della sinistra extraparlamentare. Inattese, incontenibili, le donne non solo contestano a dirigenti e militanti scarsa sensibilità alla questione femminile, ma sciorinano senza riguardi abitudini e miserie intime dei compagni. Infischiandone serenamente anche dell'allora intoccabile "centralità operaia".
Noto ormai solo a specialisti e testimoni, quel gesto davvero rivoluzionario non è inciso come dovrebbe nella memoria collettiva, anche perché il secondo Congresso di LC si svolse praticamente a porte chiuse. Eppure ebbe un effetto dirompente e a suo modo provvidenziale, sostiene l'allora super-militante Paolo Liguori nell'incalzante e sfaccettato documentario di Tony Saccucci sul gruppo diretto da Adriano Sofri ("Lotta Continua", il 2 dicembre al 40mo Torino Film Festival prima di andare su Raiplay come docu-serie dal 4 dicembre e su Raitre in prima serata il 12 gennaio, produzione Publispei e Luce Cinecittà in collaborazione con Rai Documentari).
«Sofri capì perfettamente il conflitto tra uomini e donne che lacerava il gruppo - argomenta Liguori - ma colse anche al volo l'occasione. Bisognava trovare una soluzione onorevole per chiudere un'esperienza sempre più in crisi e "Il femminismo scioglie Lotta Continua" era un bel titolo. "Lotta Continua si spacca sul sostegno alla lotta armata" era senz'altro peggiore».
Purtroppo, spiega il regista, di quel congresso restano ben poche immagini. Chi c'era però ricorda bene il clima. «Le donne salirono sul palco insultando i maschi e accusandoli di non saper fare l'amore», dice Giampiero Mughini nel film di Saccucci. Il malumore del resto covava da tempo. Nel dicembre 1975 il servizio d'ordine di LC, guidato dal futuro scrittore Erri De Luca, aveva disperso in modo non proprio garbato il gruppo di sole donne che marciava dietro le insegne di Lotta Continua in coda a un'imponente manifestazione femminista, come ricorda nel docu Vicky Franzinetti (nel '73 anche protagonista del docu-fiction di Ettore Scola "Trevico-Torino, viaggio nel Fiat-Nam", boicottato da censura, distribuzioni, ministero e da Agnelli in persona). Quasi una provocazione, per un gruppo che appena un anno prima, con incredibile miopia, aveva bollato il referendum sul divorzio come «un diversivo destinato a distrarre gli operai dalla dimensione salariale della lotta». E la conferma che il gruppo di "duri" guidato da De Luca tendeva a costituirsi in corpo speciale al di sopra delle regole, anche se nel docu lo scrittore napoletano minimizza.
La questione della violenza naturalmente si affaccia di continuo nel film di Saccucci, storico prima che regista, che essendo nato nel '72 con quegli anni e quelle lotte non ha legami diretti. Non solo per l'assassinio del commissario Calabresi, per le molte vittime del decennio, o perché da una costola di LC nacque Prima Linea, ma per l'ambiguità che il gruppo mantenne al riguardo, come riconoscono tutti gli intervistati («Ci furono degenerazioni militariste, sarebbe ipocrita negarlo», sintetizza Gad Lerner). Anche se la prospettiva resta giustamente individuale più che giudiziaria, sentimentale ancor prima che politica («Eravamo dominati da arroganza e speranza - ricorda Franzinetti - tutto sembrava possibile»). Come già nel libro di Aldo Cazzullo da cui è partito Saccucci, "I ragazzi che volevano fare la rivoluzione".
Peccato semmai che le travolgenti immagini d'archivio («un'onda che sale dall'inconscio» dice il regista), oltre a illustrare l'epoca non vengano decostruite e interrogate come accadeva nel film di Mark Cousins "Marcia su Roma", scritto sempre da Saccucci. Ma forse è presto per
un'operazione simile, la storia contemporanea si scrive con altri mezzi. E la parabola di Lotta Continua, con tutti i suoi vicoli ciechi, resta una delle più aperte e interessanti di quegli anni. Come prova anche un altro documentario che si vedrà a Torino prima di uscire in sala a gennaio,
"La generazione perduta" di Marco Turco (prodotto da Mir Cinematografica e Luce Cinecittà in collaborazione con Rai Cinema e AAMOD), dedicato a una figura così emblematica che in un paese meno spaventato dalla memoria avrebbe ispirato un film vero e proprio.
Parliamo di Carlo Rivolta, valente giornalista romano, a Repubblica fin dalla fondazione, che nel 1982 muore a soli 32 anni cadendo da una finestra in crisi di astinenza. Un destino paradossale per chi con le sue inchieste aveva fatto luce come nessun altro sul mercato nascente dell'eroina, fino a precipitarvi in prima persona. Al culmine di un percorso che riassume con atroce limpidezza tutti i nodi e gli appuntamenti fatali dell'epoca. Il lavoro come missione, l'assenza di confini tra vita personale e professionale, il mito della libertà assoluta, la ricerca di un Padre (che per qualche anno Rivolta trova in Scalfari), l'illusione di poter restare integri e indipendenti in un mondo sempre più lacerato e violento. Fino a restare stritolato, durante il rapimento Moro, in una morsa micidiale.
Inviso al Pci per aver criticato il servizio d'ordine dei sindacati durante il famoso comizio di Luciano Lama all'Università di Roma nel 1977, minacciato da Autonomia Operaia per aver denunciato le loro violenze, poi dalle Brigate Rosse quando con pochissimi altri (Mario Scialoja, Enrico Deaglio) dà notizia della rottura fra Morucci e Faranda e il nucleo storico delle Br, ma soprattutto esautorato da Scalfari per la sua posizione filo-trattative durante il caso Moro, Rivolta scende poco a poco tutti i gradini della tossicomania.
Dai primi "tiri" fatti per capire meglio (Scalfari gli diede anche i soldi per acquistare dosi di eroina in diversi quartieri di Roma e analizzarne la composizione), all'illusione di governare la droga, fino a perdere il controllo e andarsene da Repubblica per approdare al quotidiano Lotta Continua. Dove, come dice nel documentario l'allora direttore Enrico Deaglio, «non avevamo soldi da offrire ma una comunità». Comunità in cui magari Rivolta non era l'unico a "bucarsi". Ma esisteva anche chi era capace di pubblicare una vera e propria "guida" agli spacciatori di Milano, con foto e indirizzi, pagando con la vita quello sgarro, come Fausto e Iaio, al secolo Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, i due giovanissimi attivisti del Leoncavallo autori di quel "Dossier eroina" che nel film compare fugacemente nelle mani di Deaglio. Uccisi (a due giorni dal rapimento Moro) da ignoti rimasti tali. «Non è stata colpa dell'eroina. Ero già morto», scrive Rivolta in una pagina sconvolgente dei diari, letti nel film per la prima volta. Ma si sbagliava. Forse è ancora vivo.
Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 4 dicembre 2022.
Su il pugno chiuso, compagni. I cortei, gli scontri con la polizia, i megafoni, gli slogan, le bandiere rosse, le assemblee, gli arresti. «In quegli anni - dice lo scrittore Erri De Luca - ho fatto la cosa giusta insieme alla maggioranza della mia generazione, esponendomi e pagandone le conseguenze, in piena lealtà nei confronti delle ragioni che ci misero insieme, partecipando a quel movimento rivoluzionario che riguardava il mondo di allora».
Lotta Continua, al Torino Film Festival e il 12 gennaio su Rai3, prodotto da Verdiana Bixio, è il «romantico» documentario di Tony Saccucci, liberamente ispirato al libro I ragazzi che volevano fare la rivoluzione di Aldo Cazzullo. È la rilettura (con filmati e interviste) di un periodo cruciale della Storia italiana.
Ecco gli ex militanti di Lotta Continua (Lc), il movimento politico che coniugò operai e studenti, fabbriche e università, cavalcò tra mille incomprensioni il femminismo, diventò un giornale. La sociologa Donatella Barazzetti: «Per me fu l'incontro con la felicità, e tengo a dire che non ero politicizzata». Cominciò (tutto) nel 1969, finì (tutto) nel '76, con lo scioglimento al congresso a Rimini. «Tornando da lì, mi dissi, e ora che faccio?», racconta Gad Lerner. Saccucci (classe 1970, prof di Filosofia al Mamiani di Roma), ricorda l'anima «etergenea» di Lc: «C'erano l'operaio, l'intellettuale, il figlio della borghesia, e litigavano tra loro ritenendo che la ricerca della felicità fosse solo nella collettività. Vorrei che i ragazzi di oggi recuperassero quello spirito di cambiamento».
Improvvisamente, una ventata di libertà e di appartenenza, sono concetti che trasformano il mondo. Bisogna andare a Torino. Nel vecchio centro, non in periferia, gli immigrati del Sud abitavano in case senza riscaldamento e senza servizi igienici. «Siamo venuti dall'estero per stare meglio e stiamo peggio». Alla Fiat ritmi impressionanti, un operaio doveva verniciare 60 vetture l'ora, una al minuto. «Lavoravamo come scimpanzè». Il cambiamento avvenne lì. Con gli scioperi e i sabotaggi nelle officine, disse l'avvocato Agnelli, «si sono perse 20 milioni di ore di lavoro, più di 270 milioni di vetture non prodotte».
Lotta Continua diceva che la solidarietà è più importante del denaro. Il leader è Adriano Sofri. «Una tale prosopopea non l'avevo mai vista in vita mia, lo dico come scrupolo della verità, non in senso negativo», dice Giampiero Mughini (lui non era di Lc) che nel filmato si pronuncia sull'«atteggiamento spocchioso» di Gad Lerner, il quale replica, «ero l'ultima ruota del carro, un pivello, voglio tranquillizzare Mughini». Su una cosa i due sono d'accordo: «Sofri era arrogante».
C'è la ricostruzione dell'attore Gian Maria Volonté che con altri «lavoratori dello spettacolo» (così dice) ricostruisce l'interrogatorio dell'anarchico Pinelli al commissariato durato «tre giorni, senza che venisse notificato a un magistrato, senza convocare un avvocato; un sequestro di persona da parte dello Stato, non un arresto», dice Erri De Luca. Pinelli muore, e verrà ucciso colui che i compagni accecati ritennero responsabile dell'accaduto, il commissario Calabresi.
Era la generazione che ribaltò tabù, riti e miti, «tutto era possibile». Fino a un certo punto: Lotta Continua si presentò alle elezioni del '76 con un cartello elettorale, si aspettavano il 10 percento, sfiorò il 2 percento. Marco Boato: «Una delusione enorme». Si dice che essere chiamati compagni avesse qualcosa di francescano, Mughini obietta che Lotta Continua con San Francesco non aveva nulla a che fare.
C'è la mensa gratuita per i figli dei proletari (plauso al controllo popolare sui generi di prima necessità), e c'è tanta violenza come metodo di lotta. «Eppure sembravano soltanto parole, anche quelle più minacciose», dice Marino Sinibaldi voce della radio.
La deriva delle Brigate Rosse era nei pressi. L'ultimo scossone lo diede il femminismo al congresso di Rimini: «Gli operai, per le donne, avevano tratti sessisti». Mughini: «Le donne insultarono i militanti maschi dicendo che non sapevano fare l'amore, è una delle cose più spettacolari dell'ultimo atto». Paolo Liguori: «Fu il femminismo a sciogliere Lotta Continua. Beh, è un bel titolo». «La questione di genere - dice Saccucci - mise in moto uno psicodramma». Erri De Luca: «Non mi sono più iscritto a nulla, nemmeno a una bocciofila».
Mario Basso per sassate.it il 4 dicembre 2022.
Ci sono molti modi di dimostrare la propria sfacciata faziosità. Ma al Corsera, forse per non irritare un direttore e buona parte dei componenti la plancia di comando che hanno militato a lungo nell’organo del PCI, l’Unità, la gara in questo campo è spietata. A ruota libera se si devono attaccare i “fascisti” (meglio oggi quelli di FdI), rispettosissimi nei termini e nei ricordi se invece si parla dei “compagni”. Soprattutto di quelli che sbagliano ora o -ancora meglio- si sono resi responsabili nel passato di veri e propri crimini. Per esempio, quelli di Lotta Continua.
Presentando il documentario sul movimento, che Rai 3 (e come ti sbagli?) manderà in onda il 12 gennaio, il giornale riesce a battere ogni record di partigianeria e autocensura. Ecco qualcuna delle “chicche” più significative. Cominciamo con lo stesso autore, Tony Saccucci, professore di filosofia al liceo “Mamiani” (anche qui: e come ti sbagli?). Secondo lui, i militanti “litigavano tra loro ritenendo che la ricerca della felicità fosse solo nella collettività”. Poveri cari, capite la profondità della questione? Altro che le bufale sulle rapine per autofinanziarsi, le violenze contro avversari politici (anche di sinistra) e tutori dell’ordine, dentro Lc l’obiettivo politico più importante era la “ricerca della felicità”. Tutto il resto, un miserabile complotto del FORA (forze oscure della reazione in agguato).
E veniamo al leader, Adriano Sofri. Lì pensi: non potranno nascondere i fatti. Macché. Viene fuori, semplicemente, che era “arrogante”. Così, dopo aver introdotto il capitolo piazza Fontana, ecco il resto: “Pinelli muore e verrà ucciso colui che i compagni accecati ritennero responsabile dell’accaduto, il commissario Calabresi”. Punto e fine della storia.
Ma chi erano questi “compagni accecati? Detta così, si potrebbe pensare agli anarchici, no? Quindi manco mezza parola sul fatto che Sofri sarà pure un arrogante, ma è soprattutto un assassino condannato con sentenza passata in giudicato a 22 anni di carcere come mandante dell’omicidio Calabresi. E come lui, anche il capo dell’apparato paramilitare di Lotta Continua Pietrostefani e gli l’assassini materiali Bompressi e Marino.
La parte finale del pezzo del Corsera, poi, è uno spasso assoluto. Perché ci viene spiegato che lo scioglimento di Lc non avvenne per una crisi con quell’ala militarista che finì per confluire nelle Brigate Rosse, nossignori. “Fu il femminismo a sciogliere Lotta Continua”. E noi, come i magistrati, la polizia e i carabinieri, che non avevamo capito niente…Meno male che adesso, in attesa spasmodica di vedere questo illuminante documentario su Rai 3 (magari arricchito da un bel dibattito in studio tra gli ex militanti più famosi), c’ha pensato il Corriere della Sera ad avviare la santificazione del movimento di Sofri e compagni.
MAIL DI UN LETTORE A DAGOSPIA il 5 dicembre 2022.
Riceviamo e pubblichiamo:
Egregio direttore, in attesa di vedere su RaiPlay la docu-serie in quattro puntate "Lotta Continua" di tale Tony Saccucci, che ha chiuso il Torino film festival, vorrei ricordare alla Sua redazione e ai lettori di Dagospia che cosa è stata Lotta Continua.
Una organizzazione movimentista con finalità eversive attraverso l'utilizzo della violenza di gruppo durante le manifestazioni e con un braccio armato per le azioni mirate (vedi omicidio Calabresi). I vertici dell'organizzazione hanno, inoltre, la responsabilità morale della nascita dell'organizzazione terroristica denominata Prima Linea (19 omicidi). Chi afferma il contrario è in malafede o non vuole conoscere la verità.
Al riguardo ricordo che a Torino, un corteo di Lotta Continua, dopo un tentativo, fallito, di incendiare con le molotov la sede del Movimento Sociale in corso Francia si diresse in centro dove, una quindicina di manifestanti, armati e con i passamontagna sul volto assalirono il bar Angelo Azzurro in via Po, lanciando una molotov all'interno del locale.
Nell'incendio arse vivo lo studente/lavoratore Roberto Crescenzio di 22 anni (guardate le fotografie) e rimasero intossicate dai fumi le persone che abitavano negli alloggi soprastanti il bar. Rischiarono di morire una bambina di tre anni con la nonna e la babysitter.
L'organizzatore del corteo era l'attuale presidente del Torino Film Festival, Stefano Della Casa, condannato in via definitiva a tre anni e tre mesi per concorso nell'omicidio di Roberto Crescenzio unitamente ad altri, dei quali potrei raccontare gli interessanti percorsi di vita, ma dovrei dilungarmi troppo.
Mi auguro che nel docufilm ci siano anche queste vicende e che non si riduca il tutto ad una santificazione del diritto dei giovani a voler fare la rivoluzione perché sarebbe veramente disastroso.
Penso abbiate capito che sono stato soggetto attivo nella storia dell'eversione in quegli anni e che non scrivo per sentito dire. Troppe volte ho letto e ascoltato versioni di parte prive di autocritica. L'unica persona che rispetto e con la quale potrei confrontarmi è il Dott. Mughini, perché è una voce critica in mezzo a tanti nostalgici mascherati da pseudo intellettuali. Non ho problemi a firmarmi. Enrico Rossi Torino
Maurizio Caverzan per “la Verità” il 7 Dicembre 2022.
Nostalgia della rivolta. Epica e sentimenti rivoluzionari. Orgoglio dell'appartenenza. Elogio della solidarietà ribellistica. Ci sono tutti questi elementi in Lotta continua - I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, la docu-serie già visibile su Raiplay - e il 13 gennaio su Rai 3 - tratta da un libro dell'instancabile Aldo Cazzullo. «In quegli anni ho fatto la cosa giusta insieme alla maggioranza della mia generazione», scandisce Erri De Luca nell'incipit della storia. Ma dal suo volto rugoso non traspaiono accenni autocritici.
Al contrario, lo scrittore napoletano rivendica «piena lealtà nei confronti delle ragioni che ci misero insieme e che ci hanno fatto partecipare di quel movimento rivoluzionario». Posta all'inizio dei quattro episodi, la riflessione dell'ex dirigente del servizio d'ordine di Lotta continua fornisce la chiave di lettura del documentario diretto da Tony Saccucci.
Gli otto anni del movimento di cui fu leader Adriano Sofri sono raccontati da ex militanti, con la sola eccezione di Giampiero Mughini che, prima di allontanarsi da quel mondo, prestò la firma di giornalista professionista per rendere possibile la pubblicazione del quotidiano. È lui l'unico testimone critico della stagione che va dalle manifestazioni alla Fiat di Mirafiori del 1968 allo scioglimento del movimento al congresso di Rimini del 1976.
Il regista afferma di aver voluto fare un film «per i nostri figli». Tuttavia, se si prefiggeva non solo di celebrare, ma anche di tramandare la conoscenza di quegli accadimenti a chi non li ha vissuti, ricorrendo quasi esclusivamente a voci di dentro, esistenzialmente coinvolte e inevitabilmente indulgenti, bisogna dire che ha mancato il bersaglio.
«Per me fu l'incontro con la felicità. C'era l'idea che il mondo non sarebbe stato più lo stesso», dice la sociologa Donatella Barazzetti. «Volevamo mettere al centro del mondo l'uomo. Non il profitto, le macchine, il commercio», testimonia Vincenzo De Girolamo, ristoratore. Nella maggior parte dei ricordi non c'è, né può esserci, la giusta distanza emotiva per dare ai fatti una prospettiva storica.
Così, nonostante l'impegno di Mughini, manca chi dica che le parole di De Luca, il più consultato insieme a Marco Boato, sono inesatte e presuntuose. È lontano dal vero che i giovani che militarono in Lotta continua e nei gruppi extraparlamentari fossero «la maggioranza» di quella generazione. Anche durante i formidabili anni c'erano ragazzi che non ambivano a «fare la rivoluzione».
Che semplicemente studiavano e facevano sport. Che frequentavano gli oratori e i movimenti cattolici. O militavano in formazioni diversamente orientate. La presunzione per cui chi partecipò alle formazioni di estrema sinistra stava facendo «la cosa giusta» è invece un vizio tuttora in auge se, solo il primo agosto scorso, in occasione dell'ottantesimo compleanno di Sofri, Gad Lerner ne ha pubblicamente rimarcato la vita vissuta «dalla parte giusta».
Nei ricordi, del leader di Lc qualcuno rimarca «la prosopopea» e la sfrontatezza con la quale, nell'affollata aula magna della Normale di Pisa, chiese a Palmiro Togliatti «perché non avete fatto la rivoluzione?».
Testimonianza dopo testimonianza si coagula la storia della parte buona del movimento. «Loro erano i più vivi e vitali, altro che le litanie del Libretto rosso di Mao», ammette Mughini. Davanti ai cancelli di Mirafiori le proteste degli operai si saldano con quelle degli studenti. Ma poco alla volta l'utopia cede il passo alla necessità di «alzare il livello dello scontro».
Nel dicembre del 1969, dopo la strage di Piazza Fontana e la morte di Luigi Pinelli, la situazione precipita. Nasce il servizio d'ordine, una struttura parallela illegale. Si fa strada l'idea di ricorrere alla violenza. Nonostante De Luca parli di «anni di rame» prima dell'avvento degli anni di piombo, il 17 maggio 1972, a seguito di una lunga campagna denigratoria, viene ucciso il commissario Luigi Calabresi, assassinio che inaugura la stagione del terrorismo.
«Noi rifiutiamo l'idea che Lotta continua sia equiparabile a un'organizzazione terroristica», si difende Lerner. «Da Lotta continua nacque Prima linea. La violenza politica era il pane quotidiano di quegli anni e di quella gente», ribatte Mughini. Non sarà però il contrasto tra utopisti e fautori della lotta armata a portare alla fine di Lc.
«È stato il femminismo a sciogliere Lotta continua. È il titolo voluto da Sofri», riconosce Paolo Liguori. «Sempre meglio dell'altro: Lotta continua si divide tra chi vuole la lotta armata e chi no». Dopo, gli ex militanti sono diventati una lobby? «L'ideologo è finito in galera, il leader carismatico, Mauro Rostagno, è stato ucciso dalla mafia, il capo dell'ala ecologista, Alex Langer, si è impiccato a un albicocco in Toscana», replica Boato.
Prima di ammettere che, tra qualche decina di migliaia di militanti, alcuni di loro hanno conquistato ruoli di primo piano nel giornalismo, nella politica, nella cultura. I ragazzi che volevano fare la rivoluzione è stato proiettato al Torino film festival suscitando, come ha rivelato Dagospia, non poche polemiche.
Steve Della Casa, direttore artistico della manifestazione, fu l'organizzatore del corteo di Lc che portò al rogo del bar Angelo azzurro nel quale morì Roberto Crescenzio, uno studente-lavoratore di 22 anni. Per quei fatti Della Casa fu condannato a due anni con la condizionale.
Ma se Torino, oltre a essere la città dove nacque e si sviluppò Lotta continua, è anche sede del Film festival, maggior cura si poteva chiedere alla Rai prima di proporre, dopo Esterno notte di Marco Bellocchio, un'altra opera contenente una visione parziale degli anni di piombo.
Claudio Giacchino per “La Stampa” – 27 marzo 1984
Al grido: «E' un covo di fascisti, bruciamolo» il gruppo di extraparlamentari assaltò il bar «Angelo Azzurro», un piccolo, elegante locale di via Po, nel cuore della città. «Fuori, fuori tutti» urlarono i dimostranti col volto coperto da calzemaglie e In mano spranghe e molotov. Fuggi fuggi dei pochi clienti e del proprietario: solo un lavoratore-studente di 22 anni, Roberto Crescenzio, non usci. Sorseggiava tranquillo un aperitivo, l'irruzione lo ghermì di panico e l'indusse a cercare riparo nella toeletta.
Povero Roberto: andò incontro ad una morte orribile. Le molotov incendiarono l’«Angelo Azzurro», dalle macerie il lavoratore-studente fu estratto ancora vivo ma ridotto a torcia umana. Era il 1° ottobre 1977. Spirò dopo un'agonia di tre giorni.
Dopo quasi sei anni e mezzo la vicenda giudiziaria di questa tragedia che segnò anche la fine dei gruppi extraparlamentari si è conclusa Ieri nell'aula della prima Corte d'appello con la condanna di cinque del sei giovani accusati di quel dissennato assalto: 3 anni e mezzo sono stati inflitti ad Angelo Luparia, ex leader del circolo giovanile proletario «O' Cangaceiro», a Alberto Bonvicini e Angelo De Stefano, ex militante di Lotta continua; 3 anni e 3 mesi a Stefano della Casa, anch'egli ex di Lotta continua, 3 anni e 10 mesi a Francesco D'Ursi («soldato» di Prima linea già condannato all'ergastolo ed a decine di anni di galera per numerosi crimini).
Assolto invece Peter Freeman per insufficienza di prove. Questa assoluzione e la condanna di De Stefano costituiscono le sorprese della sentenza. In primo grado Freeman, che era accusato dal superpentito di Prima linea Roberto Sandalo («Peter stesso mi confessò di aver lanciato nel bar due sedie»), era stato condannato a 4 anni e 5 mesi.
De Stefano, al contrarlo, accusato dall'altro pentito di PI Daniele Sacco-Lanzoni («Lo sentii dire che bisognava distruggere il bar»), era stato assolto per Insufficienza di prove, A Luparia, Bonvicini Della Casa e D'Ursi i giudici hanno ridotto mediamente la pena di un anno. Nessuno dei responsabili del rogo dell’«Angelo Azzurro» è ancora in carcere. E nessuno dovrà tornarci, avendo la Corte condonato le residue pene da scontare. Per tutti il verdetto parla di omicidio colposo.
La tragedia di Roberto Crescenzio — la terribile fotografia del giovane appena soccorso fu pubblicata dai giornali di tutto il mondo — segnò un momento di ripensamento delle lotte degli extraparlamentari e la fine dei gruppuscoli. Scomparvero i circoli giovanili del proletariato «O' Cangaceiro», «Barabba» e «Montonero», molti suoi militanti diventeranno nomi tristemente famosi del terrorismo.
Lotta continua scrisse: «La morte di Crescenzio ci pesa come un macigno». Il corteo dal quale si dipartì la frangia che bruciò il bar di via Po fu l'ultimò organizzato dagli estremisti a Torino: dopo di esso non ci furono più manifestazioni di piazza, solo il delirio di sangue di Brigate rosse e Prima linea.
Claudio Laugeri per “La Stampa” – 31 marzo 2006
Riabilitazione. Dopo 29 anni. Chiesta da Stefano Della Casa, per tutti Steve, 52 anni, che fu condannato (due anni con la condizionale) per concorso morale nella morte dello studente Roberto Crescenzo, 22 anni, il 1 ottobre 1977, nel rogo del bar «Angelo Azzurro» in via Po appiccato dalle bottiglie molotov lanciate da un gruppo di giovani usciti dal corteo di una manifestazione dell'ultrasinistra.
All'altezza di via Sant'Ottavio, i manifestanti avevano deciso di svoltare verso Palazzo Nuovo, anche allora sede delle facoltà umanistiche. Poco prima, un gruppetto aveva deciso: avvicinarsi, colpire e fuggire. Bersaglio, l'«Angelo Azzurro». Così andò. La violenza contro gli oggetti finì per stroncare una vita. Catena di eventi prevedibile, ma non voluta in partenza secondo i giudici che condannarono il gruppo di «attentatori»: Peter Freeman, Angelo Luparia, Francesco D'Ursi, Silvio Viale e Steve Della Casa.
«Ero lontano dal punto dove avvenne la tragedia, mi ritengo però politicamente responsabile per quella morte, come tutti coloro che scesero in piazza in quel periodo» dice Steve a distanza di quasi 30 anni. All'epoca ne aveva 24. Ha chiesto soltanto nel 2005 la riabilitazione, nonostante le legge preveda questa possibilità 5 anni dopo l'esecuzione della pena (10 per i recidivi).
«Ho ritardato per ignavia - aggiunge -. Lo so, sono passati tanti anni, quella vicenda è ormai lontana nel tempo. E vorrei marcare proprio questa lontananza da un periodo terribile della mia vita». Steve fece un anno di carcerazione preventiva a «Le Nuove». Era il 1980. Cella 601. Con lui c'erano Luparia, Viale (soltanto per 6 mesi) e un altro «detenuto comune, lui non c'entrava con la politica» ricorda l'ex ragazzo di Lotta Continua, oggi noto critico cinematografico.
«Quel giorno cambiò molte cose - aggiunge -. Rappresentò la tragica presa d'atto che bisognava cambiare punto di vista sul modo di stare insieme. Aprì un dibattito. Un'intera generazione di torinesi si rese conto che la violenza non serviva a cambiare il Mondo in meglio, semmai in peggio».
Per qualcuno non fu così. Un compagno di quel 1 ottobre prese una decisione di segno opposto: Francesco D'Ursi passò alla lotta armata con Prima Linea. Con ogni probabilità (e senza volere), fu proprio lui a far scoprire la dinamica di quel rogo all'«Angelo Azzurro».
«Ci arrestarono nel 1980 sulla scorta delle dichiarazioni del pentito Roberto Sandalo, di Prima Linea - ricorda Steve -. Lui riferì dichiarazioni di altri».
D'Urso era presente al «lancio» e diventò compagno di lotta di Sandalo. Per il critico cinematografico, la pietra giudiziaria su quella vicenda potrebbe arrivare presto con la riabilitazione. Resta la tragedia umana. «Parlai con la madre di Roberto in una pausa del processo. Poi, le scrissi una lettera, ben sapendo che non potevo restituirle la vita del figlio. Ma sentivo di doverlo fare» aggiunge Steve. L'ultima parola spetta ai parenti di Roberto.
Mughini: «Lotta continua non ha lasciato nulla. Nel sentire comune quella stagione non c’è». Paolo Morelli su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2022.
Lo scrittore è fra le voci del documentario «Lotta Continua» (nel programma del Tff): «Un piccolo gruppo credette di poter diventare attore di una storia. Ma oggi un ragazzo di 25 anni non ha idea di quell'azione politica»
«In quel giornale non sono mai entrato, non lo leggevo neppure tanto, ma ho fatto il direttore responsabile, ho preso 3 condanne e ho subito 28 processi, pagando le spese da me». Giampiero Mughini, giornalista e scrittore, è fra le voci del documentario «Lotta Continua» di Tony Saccucci, che l’ha scritto con Andrea De Martino e Eleonora Orlandi ispirandosi al libro «I ragazzi che volevano fare la rivoluzione» di Aldo Cazzullo (Mondadori, 1998).
La pellicola è fuori concorso al 40esimo Torino Film Festival, attesa il 2 dicembre (ore 20.30 al Cinema Romano) e racconta la storia del movimento facendo parlare alcuni protagonisti. Ci sono Erri De Luca, Vicky Franzinetti, Marco Boato, Donatella Barazzetti, poi Gad Lerner, Paolo Liguori, Vincenzo Di Calogero, Cesare Moreno, Andrea Papaleo, Marino Sinibaldi e — forse il più critico — Giampiero Mughini, che firmò il loro giornale dopo la richiesta dell’allora leader Adriano Sofri (perché un giornale esca, serve un direttore iscritto all’Albo dei professionisti).
«Ho accettato e lo rifarei adesso, perché i giornali devono uscire e la voce di Lotta Continua era la più autentica», dice Mughini, molto distante da quell’area. Negli anni ha pubblicato libri molto critici come «Gli anni della peggio gioventù. L’omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione» (Mondadori, 2009).
Il film è prodotto da Verdiana Bixio per Publispei con Luce Cinecittà, Rai Documentari e Rai Play, dove andrà come serie dal 4 dicembre, poi come film su Rai Tre il 12 gennaio, ed è definito «equilibrato» da Steve Della Casa, direttore del Tff che prese parte a Lotta Continua.
Mughini, lei nel film attacca i «militanti». Qual è la differenza fra loro e i leader?
«Adriano Sofri era il capo dei militanti, fra i talenti della mia generazione insieme a Marco Boato, oppure Enrico Deaglio, bravissimo direttore del giornale, Mauro Rostagno e il torinese Guido Viale. Il “militante” è il personaggio medio che nei cortei gridava cose che oggi non ricorda nemmeno più, come “uccidere un fascista non è reato”. Aveva una responsabilità anche chi lasciava gridare queste cose, tante parole erano usate con leggerezza e io ho sempre pensato che le parole fossero importanti».
Secondo lei il movimento ha sbagliato?
«Sì, credendo che un gruppetto potesse diventare l’attore protagonista di una storia complessa come quella di una democrazia industriale moderna. In Italia, a quell’epoca, c’era il più grande partito comunista europeo e c’era un partito socialista che ai tempi di Bettino Craxi era molto vivo. Il movimento pensava che questa fosse robetta».
Che cosa ha lasciato Lotta Continua?
«Nulla. Le nostre vite sono state segnate, ma nel sentire diffuso non c’è più niente. Oggi un ragazzo di 25 anni non ha idea di cosa sia. I libri di Adriano Sofri, ad esempio, sono importanti, ma sono i suoi libri, non di Lotta Continua».
Però era un periodo di fermento a tutti i livelli.
«C’era un’ondata generazionale che ha investito tutta Europa con effervescenze non da poco. Ho dedicato la mia vita alla storia della mia generazione e molti dei terroristi li conoscevo già prima, come Valerio Morucci, a lungo mio amico dopo che si era dissociato dal terrorismo. Lo ammiro di più rispetto a quelli di Lotta Continua che prendevano le distanze dall’omicidio Calabresi».
Erri De Luca, nel film, dice che qualunque militante dell’epoca avrebbe potuto farlo. Cosa ne pensa?
«È stata una caratteristica di un momento della storia italiana, non solo di Lotta Continua, che tuttavia ha all’attivo o al passivo l’omicidio che fa da atto di nascita del terrorismo rosso: quando una mattina una persona attende il commissario Calabresi, va alle sue spalle e gli spara. Molti militanti di Lotta Continua andarono via per fondare Prima Linea, gruppo terrorista che ne ha fatte tante quanto le Brigate Rosse».
Silvia Bombino per “Vanity Fair” l'8 marzo 2022.
Esterno, giorno. Gemma ha un cappotto rosso quando va all’obitorio. Un tailleur azzurro al funerale. Ha tre figli da crescere, sola. Presenzia ai processi. Piange alla fine. Riceve una medaglia. Stringe la mano alla vedova Pinelli.
Interno, notte. Un divano, un letto, il tavolo della cucina, il telefono e lo specchio del bagno ascoltano, in silenzio, le urla, le risate, le confessioni, i soprannomi, le parole mai dette di Gemma, dei suoi quattro figli - Mario, Paolo, Luigi e Uber -, del suo secondo marito Tonino e i bau di Milo, il golden retriever che oggi ha sei anni ed è il padrone di casa.
Qual è la differenza tra la scena e il retroscena, tra quello che si vede e quello che succede nelle stanze delle proprie case? Gemma Calabresi Milite, 75 anni, a 50 dall'omicidio del marito, il commissario Luigi Calabresi, traccia una linea netta con La crepa e la luce, il libro che ha scritto per raccontare la sua storia.
Che non sta tanto nelle cronache politiche e giudiziarie, ma è la propria educazione sentimentale e resilienza, e contiene delle domande che appartengono a tutti: si può perdonare chi ci ha fatto del male? Meglio fidarsi o essere prudenti? Si deve ricordare tutto o è meglio dimenticare? Quando entro in casa, Milo scodinzola, vuole giocare. A furia di carezze si accoccola accanto a noi, in salotto. Fa la guardia.
Partiamo dal divano. Quello in cui lei sprofonda il 17 maggio 1972, quando il suo parroco le dice: Luigi è morto.
«Su quel divano ho incontrato Dio. È stata una conversione. Ero una ragazza degli anni '60 che suonava la batteria e metteva la minigonna, ero cattolica per consuetudine di famiglia, non era una mia scelta.
In quel divano sono caduta con un dolore lancinante, anche fisico, alle ossa. I soprammobili sembravano guardarmi, le cose comprate insieme, tutto girava e non aveva più senso. Non so quante ore sono rimasta lì. Poi all'improvviso ho avuto una sensazione di ovattamento, di grande pace, e ho iniziato a sentirmi forte. Riesco a pensare: ce la farò. E dico al parroco: diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell'assassino. Non poteva essere farina del mio sacco».
Nonostante quella «conversione», lei confessa di aver immaginato di infiltrarsi negli ambienti dell'estrema sinistra dell'epoca e vendicarsi.
«La fede non toglie il dolore, ma lo riempie di significati. Ci sono stati anni bui, di tristezza, abbandono, pianto, e sì, sognavo di ammazzarli. Però mi ricordavo di quel divano».
Sua madre le suggerisce il necrologio, dal Vangelo: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
«A tanta violenza bisognava rispondere con parole d'amore».
Anni dopo si accorge del vero senso di quella frase.
«Nessun sacerdote me lo aveva mai spiegato, è stata un'Epifania: sulla croce non è Cristo che perdona. Chiede al Padre di farlo. È un uomo, non riesce. Scoprire che non dovevo perdonare io chi aveva ucciso Luigi mi ha liberato».
I suoi figli hanno perdonato?
«No. Hanno voltato pagina, cercano di vivere in pace. Io dico sempre: vedrete che quando avrete la mia età ce la farete».
È stata un'equilibrista, tra il desiderio di vivere ancora e quello di non offendere il passato, col dubbio che perdonare o risposarsi potesse essere un'offesa per chi non c'era più.
«Avevo 25 anni quando sono rimasta vedova, incinta del mio terzo figlio. Era normale che avrei poi avuto il desiderio di riavere una vita. Una volta Luigi me lo aveva chiesto: se restassi sola, ti risposeresti? Avevo risposto no e lui era felice. Ho pensato molto a quella promessa ma non mi sono mai sentita in colpa, poi.
Perché lo immaginavo nella gioia eterna. Infatti spesso mi arrabbiavo, quando avevo difficoltà coi ragazzi, adolescenti: certo, la fatica la faccio io, non tu, che sì sei stato ucciso, però ora sei in pace, aiutami! Sono convinta che sia stato Gigi a farmi incontrare un nuovo amore, Tonino, il mio secondo marito».
Lo chiamava Gigi: racconta che lui faceva una crostata buonissima e la decorava con «Ge» e «G i». L'ha mai rifatta?
«La crostata no, mai più. Era sua. Ho cucinato molto, però. Come gli involtini che piacevano al papà».
Ha cresciuto i figli nel segno della fiducia e dell'accoglienza.
«Rabbia e odio ti imprigionano. E poi Gigi era uno molto spiritoso, alla Alberto Sordi, prima dell'ultimo periodo. Lo stesso divertimento che oggi ritrovo nei miei figli».
Come quando la prendono in giro perché non toglie la medaglia d'oro al valor civile alla memoria di suo marito che le consegna il presidente Ciampi...
«Non perché mi servisse per sapere chi fosse Luigi Calabresi, ma era importante il fatto che lo Stato, dopo 32 anni, finalmente riconoscesse che un suo servitore era una persona di valore... L'ho tenuta tutto il giorno, i miei figli ridevano e mi dicevano che sembravo un ufficiale dell’Armata Rossa».
Non si sono arrabbiati quando ha buttato via lettere e articoli di giornale che riguardavano Luigi?
«Ho tenuto le più belle, quelle le lascerò a loro».
C'è qualcosa che i suoi figli scopriranno col libro?
«Della lettera più cattiva che ho ricevuto. Una coppia di amici di Luigi mi avevano scritto parole di cordoglio, ma sul retro del foglio si leggeva: chi la fa l'aspetti. L'ho distrutta subito. E anche per il timore, pensi che stupida, che se l'avessero letta i miei magari il dubbio sarebbe venuto anche a loro».
E molto umano.
«Vero? Ho convissuto spesso con il dubbio degli altri, su Luigi... Ma, al famoso tavolo della cucina, avevo deciso: lo riabiliteremo con il nostro comportamento e il nostro amore».
Tutte le volte che, in questi anni, qualcuno cerca, di nuovo, di «infangare» Luigi, lei come si sente?
«Se qualcuno tira fuori il dubbio, sto male. Il perdono non mi toglie il dolore o il desiderio di giustizia».
Dei 757 firmatari della lettera aperta dell'Espresso nel 1971, quanti sono venuti da lei a scusarsi?
«Quattro o cinque, in cinquant'anni ».
Rimasta sola, si è resa conto dell'odio riservato a suo marito dopo la morte di Pinelli, da cui lui l'aveva preservata. Poi ha ricevuto altre minacce?
«Solo una, poco dopo la confessione di Marino. Il telefono ha detto: "Farai la fine di Pinelli"».
Tra le «regole» che Luigi le aveva imposto, c'era quella di girarsi per controllare di non essere seguiti. Sono automatismi che le sono rimasti?
«Sì, la strada la guardo sempre. Soprattutto se c'è qualcuno fermo, senza senso».
Dopo le condanne, in aula, ha pianto. Perché?
«Non erano lacrime di gioia, né di vendetta. Pensavo ai figli di quelle persone, ero triste per loro. Prego quasi ogni giorno perché abbiano la pace nel cuore... Un tempo li chiamavo assassini».
Oggi come?
«I responsabili della morte di Luigi. Sono stata un'insegnante di religione per 31 anni, e grazie a un mio alunno che mi chiedeva perché dei morti si ricordano solo le cose belle ho capito che dei vivi non si possono ricordare solo le brutte.
Non ho diritto di appiattirli per sempre all'atto peggiore che hanno fatto. Saranno anche buoni padri, buoni mariti, buoni amici. Loro avevano disumanizzato Luigi, per annientarlo, io ho ridato ai carnefici la loro umanità, e così sono riuscita a perdonarli».
I suoi, di figli, hanno avuto un doppio trauma: prima essere rimasti orfani, poi capire perché lo erano. Che cosa ha provato quando ha scoperto che suo figlio Mario, a 14 anni, andava in biblioteca a leggere Lotta Continua?
«Pensando alla ricerca solitaria di Mario, e a quello che neanche io avevo avuto cuore di dirgli - gli insulti, le vignette infamanti, le minacce - sono stata male. Ma capisco che ricostruire la storia era necessario».
Racconta anche che, all'inizio, quando andava al cimitero, i suoi figli giocavano con i giocattoli lasciati sulle tombe dei bambini. Ha mai invidiato la normalità degli altri?
«Sì, ed era una tristezza che mi prendeva soprattutto quando, d'estate, nella casa in montagna con i miei, al venerdì arrivavano i papà dal lavoro. E allora vedevo tutti i bambini correre sullo stradone incontro ai loro padri... Lì facevo tanta fatica. I miei fratelli per fortuna erano attenti, e salutavano prima i miei figli. Erano affettuosi e pieni di progetti per il weekend».
La depressione, che l'ha colta in alcuni momenti della sua vita, l'ha curata anche ricorrendo alla psicoterapia?
«Ci sono andata in tre occasioni. Prima di sposarmi con Tonino, perché ero ancora molto triste. Ma la terapista disse subito che non avevo un profilo patologico, avevo subito un dolore grandissimo ed era normale che non andasse via.
La seconda volta ci sono andata perché prima di avere il mio quarto figlio, Uber, avevo avuto due aborti spontanei al terzo mese. Dovevo elaborare un blocco inconscio: quando era morto Gigi ero incinta di tre mesi ed era come se, tra un marito e un figlio, il mio corpo scegliesse di tenersi il primo.
L'ultima volta ci sono andata dopo l'incidente che ho avuto anni fa, cadendo e sbattendo la testa. Dopo la riabilitazione non volevo più uscire di casa, avevo paura di tutto».
Nonostante la fede, la terapia, la sua grande e bella famiglia, c'è qualcosa che è ancora «rotto» in lei?
«La ferita rimane, ho la cicatrice. Che ogni tanto fa più male, altre volte mi risparmia».
Quanto le pesa essere, praticamente da sempre, e nonostante il secondo matrimonio, «la vedova Calabresi»?
«È stata pesante perché è una storia infinita. Però più forte del peso è stata la solidarietà che ho ricevuto. Perché l'amore degli altri è stato immenso, l'amore che non sapevo, quello della maggioranza silenziosa, dei tanti che ci hanno scritto, inviato un regalo, raccontato di avere pregato per noi.
Mi fermano per strada ancora oggi. Lo sappia: gli altri sono la cosa più importante che abbiamo sulla terra. Non i familiari e gli amici intendo, proprio gli sconosciuti. Per cui non ce l'ho fatta io, ce l'abbiamo fatta noi. Il libro l'ho scritto anche per questo: volevo ringraziarli tutti».
Luigi Calabresi mezzo secolo dopo, il dovere della memoria. ANTONIO CARIOTI su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2022.
Martedì 17 un incontro al Teatro Gerolamo con la vedova e i figli del commissario assassinato nel 1972. Intervengono anche la ministra Marta Cartabia e Paolo Mieli.
Via Cherubini a Milano, dove Luigi Calabresi venne ucciso il 17 maggio 1972
Lo uccisero a Milano sotto casa sua, a colpi di pistola, il 17 maggio 1972, cinquant’anni fa. L’assassinio del commissario di polizia Luigi Calabresi fece seguito a una violenta campagna di stampa contro la vittima, accusata di essere responsabile per la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, pochi giorni dopo la strage di piazza Fontana.
Negli attacchi a Calabresi si distinse soprattutto il giornale «Lotta continua», organo dell’omonimo gruppo della sinistra extraparlamentare. E proprio a Lotta continua appartenevano coloro che, dopo un lungo e controverso iter giudiziario cominciato nel 1988, sono stati condannati per il delitto in seguito alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Leonardo Marino: Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri.
A questa vicenda è dedicato l’incontro intitolato «Luigi Calabresi e il senso di questi cinquant’anni», che si tiene a Milano martedì 17 maggio alle ore 18.30 presso il Teatro Gerolamo (piazza Cesare Beccaria, 8), con ingresso a inviti. Racconteranno la loro drammatica esperienza di vita la vedova del commissario, Gemma Capra, che ha appena pubblicato il libro autobiografico La crepa e la luce (Mondadori), e i figli Mario (giornalista e scrittore, già direttore della «Stampa» e della «Repubblica»), Paolo e Luigi.
Sono previsti anche interventi della ministra della Giustizia Marta Cartabia e di Paolo Mieli, storico ed editorialista del «Corriere». La presenza di quest’ultimo è particolarmente significativa perché nel 1971 fu tra i firmatari, molto numerosi e illustri, di un appello comparso sul settimanale «L’Espresso» contenente espressioni molto dure nei riguardi del commissario Calabresi. Un gesto del quale a più riprese Mieli ha detto che si vergogna di averlo compiuto.
La serata, che sarà animata dalle letture di Luca Zingaretti e dalle musiche di Manù Bandettini, rievocherà un momento tragico della nostra storia, i primi terribili passi degli anni di piombo, ma nello spirito pacato, improntato al perdono, che è stato sempre proprio della famiglia Calabresi, nonostante la situazione difficile in cui si trovò la signora Gemma a 25 anni, sola con due figli piccoli e un terzo in arrivo. A questo proposito vale la pena di ricordare i suoi due incontri con Licia Pinelli, vedova di Giuseppe, in un clima sereno di reciproco rispetto.
Gemma Calabresi: «Volevo uccidere gli assassini di Luigi, Dio ha fermato la mia vendetta. E ho perdonato». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2022.
Gemma Calabresi Milite, la vedova del commissario Luigi Calabresi, si racconta in un libro a 50 anni dall’omicidio: sono stata arrabbiata con lui perché mi lasciò sola. Per i suoi killer ho sempre pregato
Signora Gemma, quando vide per la prima volta suo marito Luigi Calabresi?
«Era il Capodanno del 1968, non avevo ancora ventidue anni. I miei erano a Courmayeur, io ero da sola a Milano e non avevo niente da fare. La mia amica Maura insistette perché la accompagnassi a una festa. Lo vidi subito, all’ingresso, e dissi alla mia amica Maura: “Guarda quello, mica male…”».
Com’era?
«Elegante: doppiopetto scuro, con un righino leggero bianco. Ci ha sempre tenuto molto. Alto, prestante: un bell’uomo. Per tutta la sera ballò solo con me. Poi andai in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Lui mi tolse il bicchiere, lo posò, e mi diede un bacio».
E lei?
«Io avevo avuto qualche piccolo flirt, ma non mi era mai successo nulla del genere. Amore a prima vista. Mi chiese il numero di telefono. Risposi veloce: “4042334, e non te lo ripeto”. Il giorno dopo Gigi mi chiamò. L’aveva tenuto a mente».
Sulla copertina del suo libro «La crepa e la luce» c’è la foto del vostro matrimonio.
«Ci sposammo il 31 maggio 1969, la prima data in cui il nostro parroco, don Sandro, aveva la chiesa libera. Al ritorno dal viaggio di nozze in Spagna aspettavo già Mario. Abbiamo fatto tutto in fretta, e ora so perché».
Perché?
«Perché avevamo poco tempo. E tutto nella vita ha un tempo, e un senso. Siamo parte di un disegno. Volevamo molti figli, ed era giusto così, perché ognuno di loro ha un compito, ognuno ha da fare cose importanti per se stesso, per Dio, per gli altri. I miei figli sono il dono più bello».
Mario si chiama come il nonno materno, suo padre.
«Misi la condizione di non chiamare il secondo Paride, come il papà di Gigi. Infatti il secondo si chiama Paolo, come il suo migliore amico. Ma quando annunciai ai miei che aspettavo il terzo figlio, mio padre reagì male. Chiese: era proprio il caso?, e si mise a piangere. Mi sembrò fragile. Invece aveva capito tutto».
Piazza Fontana. La morte di Pinelli. Suo marito gli aveva mai parlato di lui?
«Sì. Si conoscevano bene, si regalavano libri a Natale. Commentavano i fatti, discutevano. Gigi si fermava sempre a parlare con i ragazzi fermati dopo i cortei, anche se il suo capo, Allegra, lo rimproverava. Voleva capire perché gettavano le molotov, perché si armavano. Dopo la sua morte ho ricevuto molte lettere di genitori e anche di giovani che volevano ringraziarlo per questo. Di recente al Miart di Milano ho incontrato uno scultore, un mio coetaneo, che mi ha detto: “Suo marito mi ha salvato, altrimenti avrei preso il mitra”. Era un ragazzo arrivato a Milano dal Sud, figlio di poliziotti, tentato dalla lotta armata…».
Cosa le disse suo marito della morte di Pinelli?
«Quello che gli raccontarono i suoi colleghi: che era caduto. Lui non era nella stanza. Dalla morte di Pinelli era distrutto. Quella notte non chiudemmo occhio. Quella, e tante altre notti».
Cominciò la campagna contro di lui.
«Trovavo le scritte sui muri vicino a casa, nella discesa verso la metro: “Calabresi assassino”, “Calabresi sarai giustiziato”, “Calabresi farai la fine di Pinelli”. Gigi una volta mi chiese: se dovessi restare sola, ti risposeresti? Risposi di no, e fu contento. Era un gelosone… Cercava di proteggermi».
Come?
«Faceva sparire le lettere minatorie, i giornali in cui si parlava di lui. Mi diede delle regole: mai dare il nome Calabresi, neanche dal parrucchiere. Le poche volte che andavamo al ristorante, sempre un tavolo appartato. Le poche volte che andavamo al cinema, entrare a film iniziato e uscire qualche minuto prima. Fare attenzione se qualcuno mi seguiva, o mi aspettava per strada. Lui però non ha fatto attenzione, non si è accorto di Bompressi e Marino che lo aspettavano…».
Non aveva paura?
«Sì, ne aveva. Una sera in casa sentimmo un botto di là, lui chiese al suo amico Paolo: mi accompagni a vedere? Temeva stessero sparando dalle finestre. Invece si era rotta la lavatrice».
Però non portava la pistola.
«La teneva smontata, in un cassetto, tra i maglioni. Diceva che tanto l’avrebbero colpito alle spalle. Un giorno ebbi un presentimento. Davanti alla farmacia di corso Vercelli mi dissi: sarai vedova. Scoppiai a piangere. Poi mi scossi: sei scema? Quando Gigi tornò a casa, tardi come sempre, pensai: lo vedi? È arrivato, tutto bene. Era un venerdì. Lo uccisero il mercoledì dopo».
Lei teneva un diario.
«Un po’ per polemica verso mio marito: “Gigi rientra tardi”, “Gigi passa a salutare poi torna in questura…”. Mai avrei immaginato che sarebbe servito al processo, per confermare il racconto di Marino. Avrebbero dovuto ucciderlo il giorno prima, ma rinunciarono perché non avevano visto la macchina sotto casa. In effetti la sera del 15 maggio io annoto nel diario: “Gigi torna presto!!!”. Aveva trovato posto in cortile, la 500 blu non era parcheggiata per strada come al solito. Guadagnò un giorno di vita».
Come ricorda il 17 maggio 1972?
«Era uscito, poi era tornato indietro per cambiarsi la cravatta. Ci ha sempre tenuto molto. Quella mattina aveva pantaloni grigi, giacca scura con i bottoni di madreperla, e una cravatta di seta rosa. La cambiò con una bianca e mi chiese: come sto? Stai bene Gigi ma stavi bene anche prima, gli risposi».
E lui?
«Sì, ma questo è il segno della mia purezza. È l’ultima frase che mi ha detto. La frase che mi ha lasciato».
Chi la avvisò della sua morte?
«Era il primo giorno di lavoro per la nuova signora delle pulizie. Arrivò in ritardo, trafelata: “Mi scusi, hanno sparato a un commissario…”. Mio marito è un commissario, risposi. Lei fu prontissima: “Cos’ha capito, hanno sparato a un commissario in piazzale Baracca, hanno fermato il tram e sono dovuta venire a piedi…”. Quella donna aveva compreso, era stata velocissima a inventarsi una frottola, cui io fui felice di credere. Non l’ho mai rivista. Ho ripensato molte volte a lei. Ha attraversato la mia vita nel giorno più drammatico, si è presa cura dei bambini, e non l’ho neppure pagata…».
Da chi seppe?
«Telefonai in questura; non rispondevano. Insistetti; attaccarono il telefono. Chiamai dal telefono della vicina, risposero: non è ancora arrivato. Poi suonò alla porta un sarto nostro amico, il signor Federico. Per anni mio figlio Mario ha avuto paura del signor Federico, anche se lui gli portava bellissimi regali…».
Cosa le disse il signor Federico?
«Niente. Mi guardava pallido, impietrito. Io lanciai un urlo: “Noooooo!”. Poi feci un gesto come per indicare i soprammobili, i libri, le cose comprate nel viaggio di nozze, come a dire: tutto questo non avrà più senso. Il signor Federico tentò di abbracciarmi, ma io non volevo essere abbracciata, così cominciai a girare, e Mario aggrappato alla mia gonna girava con me, e con suo fratello che era ancora nella mia pancia. L’ho chiamato Luigi, come il padre».
Non morì subito.
«Il signor Federico disse che lo stavano operando, il vicequestore che era ferito alla spalla, un collega diede un’altra versione. Arrivò don Sandro, il prete che ci aveva sposati, e mi accompagnò dai miei. Fu don Sandro a dirmi: è morto. Lo disse senza emettere suoni, solo con i muscoli della bocca. Me lo ricordo sempre quel volto che dice: è morto».
E lei?
«Mi accasciai sul divano. Mi sentivo distrutta, svuotata, abbandonata. Un dolore lacerante, anche fisico. Non so quanto tempo sono stata lì, con le mani nelle mani di don Sandro. So che a un certo momento Dio è arrivato».
Dio?
«Dio era lì con me, su quel divano. Ne sono assolutamente certa. Ho sentito una pace profonda. Tutto, le persone che parlavano piangevano gridavano, tutto era ovattato, distante».
Lei aveva già fede?
«Avevo avuto un’educazione religiosa come quasi tutti gli italiani, andavo in chiesa la domenica con Gigi, ma non ero particolarmente religiosa. Il dono della fede arrivò allora. Proposi a don Sandro: “Diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino”. Ma non era roba mia. Io ero una ragazza di venticinque anni cui avevano appena ammazzato il marito. Era Dio che mi indicava la strada, che rendeva testimonianza attraverso di me. Lì ho capito che ce l’avremmo fatta, io e i bambini. Certo, sapevo che la vita non sarebbe più stata la stessa. Ma sentivo che non ero sola. Dio era già stato allertato, forse dai miei vicini di casa…”».
In che modo?
«Il nostro appartamento dava sull’interno; per questo non ho sentito gli spari, né ho visto il corpo. Ma i miei vicini hanno sentito, hanno visto. E per primi hanno pregato per lui. Così Dio è venuto da me».
E lei andò all’obitorio.
«Accarezzai il viso di Gigi, e ritrassi la mano: era già freddo. Gli accarezzai i capelli, ma erano rigidi, forse impregnati di sangue; ma io volevo ricordarmi i suoi capelli morbidi, lunghi, almeno per un poliziotto… E poi sì, l’avevano colpito alle spalle».
Cosa accadde fuori dall’obitorio?
«C’erano dei ragazzi che inveivano contro mio marito, che gridavano insulti e slogan. Mio fratello Dino ebbe un gesto gentile: mi tappò forte le orecchie, così non sentii nulla, solo il battito accelerato del cuore. Ora, io vorrei dire a quei ragazzi, cinquant’anni dopo, che hanno fatto una cosa terribile. Puoi anche essere contento in cuor tuo che abbiano ucciso il commissario Calabresi; ma non puoi urlarlo in faccia alla vedova, che poi era una ragazza poco più grande di loro. La morte esige silenzio».
Dei funerali cosa ricorda?
«La bandiera sulla bara. Volevano toglierla prima di seppellirlo, dicevano che andava restituita. Qualcuno dalla folla gridò: “Deve riposare con il tricolore!”. Così glielo lasciarono. È un pensiero che mi conforta».
Lei ebbe segni di ostilità, ma anche di solidarietà.
«Ogni giorno arrivava un pacco con un regalo per i bambini. Un bavaglino per Mario, una tutina per Paolo, una copertina per Luigi che doveva ancora nascere. Ma siccome all’obitorio indossavo un cappottino rosso, la prima cosa che avevo trovato per coprirmi in un maggio ancora freddo, dalla Sicilia mi scrissero: “Svergognata!”. Una coppia di amici di Gigi mi mandò una lettera di due pagine. Nella prima c’erano frasi di circostanza, che finivano con un “d’altronde”. Nella seconda pagina era scritto: “Chi la fa l’aspetti”. Mi sono sempre chiesta perché. Perché volessero ferirmi come se fossi la moglie di un assassino».
Nel necrologio lei scrisse le parole di Gesù in croce: «Perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
«Il cardinale di Milano Colombo disse che quelle parole erano un fiore che sarebbe fiorito nel tempo. E così è stato. Ma ci ho messo tutta la vita a perdonare. All’inizio volevo, al contrario, vendicarmi».
Vendicarsi come?
«L’unico momento di pace nella giornata erano i dieci minuti tra quando prendevo il Tavor e quando mi addormentavo, nel lettone accanto a mia madre, che papà mi aveva ceduto: ero tornata a vivere dai miei. In quei dieci minuti immaginavo di mettermi una parrucca rossa e infiltrarmi nei circoli dell’estrema sinistra, fino a quando non avrei trovato qualcuno che si vantava di aver ammazzato Calabresi. A quel punto avrei tirato fuori dalla borsetta la pistola. E gli avrei sparato. Se ripenso a quella ragazza e alla sua rabbia provo tenerezza. La cosa più importante della mia vita è stata questo cammino della pacificazione e del perdono, durato cinquant’anni».
Andava a trovarlo al cimitero?
«Tutte le settimane. Io gli parlavo, mentre Mario, Paolo e Luigi giocavano con gli altri bambini».
Quali altri bambini?
«Il loculo di Gigi era accanto alle tombe dei bambini, dove c’erano le macchinine e gli altri giocattoli lasciati dai genitori. Nel libro scrivo che i miei figli avevano il permesso di giocarci, a patto di rimettere tutto a posto. Quando Mario ha letto le bozze, mi ha fatto notare che invece avevano il permesso di portare a casa le macchinine, purché le sostituissero con altre. Idealmente si scambiavano i giocattoli con quei bambini che non c’erano più».
Signora Gemma, è una cosa straziante.
«Soffrivamo tutti, però Gigi era con noi. L’ho sempre fatto sentire vivo. Pettinavo i bambini come lui, con la riga: adesso ci pettiniamo come papà, dicevo. Preparavo gli involtini che gli piacevano tanto, dicevo: papà li avrebbe mangiati tutti, e loro facevano a gara a finirli. Qualche volta ho fatto sentire la voce del padre, registrata sul magnetofono Geloso; poi ho smesso, perché li intristiva. A Mario avevo detto: papà è andato a prepararci una casa dove vivere tutti insieme. Lui ogni sera mi chiedeva: ma quando è pronta questa casa? Era un bambino un po’ triste. Ma dal papà, come i fratelli, ha preso una certa spavalderia. Raccontavo loro i suoi scherzi…».
Quali scherzi?
«Anche feroci. In questura c’era un collega dongiovanni, che cambiava una fidanzata dopo l’altra. Gigi fece stampare false partecipazioni in cui annunciava il suo matrimonio: i colleghi si congratulavano, gli facevano i regali, e quello non si capacitava…».
Lei non aveva ancora trent’anni. Non aveva amici?
«Amici e niente più. Qualche volta uscivo, ma al ritorno i miei mi dicevano che uno dei bambini si era svegliato, e mi sentivo in colpa».
Poi, nella scuola dove insegnava religione, incontrò il suo secondo marito, Tonino Milite.
«Quando scoprì che avevo tre figli, disse: sarà dura dividere la michetta in cinque… Non ci eravamo ancora sfiorati. Poi abbiamo avuto un altro figlio, Uber. Dal latino: ubertoso, fertile, felice».
Tonino Milite era un pittore comunista.
«I miei, democristiani, non ne erano contenti. Poi capirono. Paolo e Luigi cominciarono a chiamarlo papi. Mario invece per anni l’ha chiamato per nome».
Cosa votava il commissario Calabresi?
«All’inizio Dc, poi socialdemocratico. E io pure, perché lo seguivo».
Nel 1988 finirono in carcere per il suo assassinio gli ex militanti di Lotta continua Marino e Bompressi, e gli ex dirigenti Sofri e Pietrostefani. «Dicevo che avrei dato dieci anni di vita in cambio della verità. Me ne hanno portati via undici. I processi furono il mio calvario».
I giornali erano quasi tutti innocentisti.
«È vero. Però nessuno ha mai scritto una riga contro di noi. Ai figli avevo detto: riabiliteremo papà con il nostro comportamento e con il nostro amore. Saremo come lui ci voleva. Dovranno riconoscere: una persona che ha avuto una moglie e dei figli così non può aver ammazzato qualcuno, non può aver gettato un altro uomo dalla finestra».
Ha mai pensato che gli accusati potessero essere innocenti?
«Ho anche detto: noi rispetteremo le sentenze, e non le commenteremo. Quando ci fu la prima condanna, piansi al pensiero della figlia di Bompressi, una bella ragazza dai capelli rossi, che avevo visto più volte. Ho perdonato tutti, anche se all’inizio in aula mi imponevo di fare la faccia dura, cattiva. E per tutti ho sempre pregato, a volte chiamandoli per nome, a volte pensando genericamente ai tanti che avevano inveito, che avevano firmato».
Il manifesto contro il «commissario torturatore» fu firmato dai più importanti intellettuali italiani.
«Alcuni, da Paolo Mieli a Eugenio Scalfari, hanno chiesto scusa. Altri, come Fulco Pratesi, mi hanno assicurato che non sapevano niente: erano iscritti a gruppi che aderivano e davano i nomi dei soci. Altri ancora, quando li ho incontrati, non mi hanno vista, o hanno fatto finta di non vedermi. Ma ora sono in pace con tutti».
Però i condannati non le hanno chiesto perdono.
«Questo per me non ha alcuna importanza. Il perdono non si chiede, si dà. È il frutto del cammino iniziato su quel divano, da quel necrologio. Non è stato un percorso facile. A volte bastava una frase, un articolo, per farmi tornare indietro. E comunque Marino il perdono l’ha chiesto».
Chiese anche di incontrarla, ma lei all’inizio rispose di no.
«C’era un processo in corso. Lo scorso anno però ci siamo visti. Lui cercò di minimizzare: “Io ho solo guidato la macchina, e per guidarla c’era la fila…”. Gli risposi che sapeva dove andava quella macchina, e che per me tutti erano responsabili allo stesso modo. Forse sono stata troppo severa. Certo, apprezzavo la sua confessione, il suo pentimento. E siccome l’avevano fatto sentire un traditore, alla fine gli ho detto: chi dice la verità non tradisce mai».
Suo figlio Mario ha incontrato Pietrostefani.
«Pietrostefani era il più duro, il più impenetrabile. Ma alla fine Dio è andato anche da lui».
Se ne attende l’estradizione.
«Saperlo in carcere non mi darebbe alcuna gioia. Me ne darebbe invece sentire parole di verità. All’inizio vedevo in loro soltanto degli assassini, ma ho capito presto che erano stati anche altro. Buoni padri, ad esempio. Persone che avevano fatto volontariato. Che avevano fatto anche del bene».
Con Sofri ha mai parlato?
«No».
Sogna ancora suo marito Luigi?
«A lungo non l’ho sognato. Poi ho cominciato a fare due sogni, sempre gli stessi. Nel primo corriamo insieme per mano, ma lui resta indietro, e muore. Nel secondo andiamo al ristorante, c’è un’esplosione, io esco ma lui resta, e c’è una seconda esplosione. Prima quei sogni mi angosciavano. Poi mi ha fatto piacere rivedere il suo volto. Noi siamo invecchiati, lui invece è sempre giovane».
A Luigi non sarà dispiaciuto che lei si sia risposata?
«No! Lui è lassù, è felice, ha una visione ben più ampia della nostra. Sono io che in passato sono stata arrabbiata con lui, che mi aveva lasciata sola…».
È certa di rivederlo?
«Tutti rivedremo le persone care. Ne sono sicura da quando Dio venne a trovarmi, seduta su quel divano».
Qualcuno vorrebbe farlo santo.
«Ma no! Era un poliziotto che amava il suo lavoro, e ne conosceva i rischi. Era una brava persona, ma una persona normale. Come ha detto nostro figlio Luigi: ci manca solo che lo facciano santo, e me lo portino via del tutto».
Nel 2009 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Quirinale riceve Licia Pinelli, vedova di Giuseppe e Gemma, vedova di Luigi. Entrambe sono state insignite dell’onorificenza di commendatrici al Merito della Repubblica Italiana.
Lei ha incontrato la vedova Pinelli, grazie a Napolitano.
«Per decenni hanno tentato di contrapporci, di presentarci come nemiche. Invece eravamo solo due donne che si erano ritrovate vedove, lei con due figlie. Quando sono arrivata al Quirinale era già là, seduta. Ci siamo date la mano. Poi si è alzata e ci siamo abbracciate. Io ho detto: finalmente. Licia ha risposto: peccato non averlo fatto prima».
Lei chiude il libro dicendo che senza quella tragedia oggi sarebbe una persona peggiore. Perché?
«Perché ho avuto tanto dolore ma anche tanti incontri, tanto affetto, tanto amore, tanta solidarietà, tanta gente che ha pregato per me. Ho scoperto che la cosa più importante della vita sono gli altri. Ho fatto un percorso inverso a quello dei terroristi. Loro disumanizzavano le vittime, illudendosi di uccidere dei simboli. Io li ho umanizzati, arrivando a capire che c’erano vittime anche tra loro».
Calabresi, il silenzio che pesa. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 16 Maggio 2022.
La sentenza definitiva di condanna non è mai stata accettata non solo da tre degli imputati, non solo dalla comunità di Lotta continua, ma da larga parte della sinistra italiana
Dopo la strage di piazza Fontana, l’assassinio del commissario Luigi Calabresi fu il primo delitto politico della storia repubblicana (a Torino era stato assassinato il 16 aprile 1952 il dirigente della Fiat Erio Codecà, ma la matrice politica dell’omicidio non fu mai provata).
Ne gli anni successivi al 1972 sarebbero caduti decine di poliziotti, carabinieri, magistrati, dirigenti d’azienda, giornalisti, professori universitari, guardie carcerarie, financo operai che rifiutarono l’omertà. Ma Luigi Calabresi fu la prima vittima di un attacco mirato, contro un obiettivo preciso. Certo, dobbiamo ribadire che c’era già stata la strage fascista nella Banca dell’Agricoltura, e altre ne sarebbero venute. Resta un fatto: l’assassinio di cui oggi ricorre il cinquantesimo anniversario fu la scintilla che riaccese la guerra civile italiana, o almeno quella mimesi, quella riproduzione in piccola scala che furono gli anni che chiamiamo di piombo.
Anche per questo fare piena luce sull’assassinio di Luigi Calabresi è di particolare importanza, per la storia della nostra comunità nazionale.
C’è stata una confessione, quella di Leonardo Marino, l’autista che guidava l’automobile dell’omicida. C’è stata una chiamata in correo. Ci sono stati dieci anni di processi, arrivati — dopo un tormentato percorso — a una sentenza definitiva di condanna per Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani, Adriano Sofri. Esiste quindi una verità giudiziaria. Non possiamo parlare di mistero italiano irrisolto.
Tuttavia sarebbe ipocrita tacere che quella sentenza definitiva di condanna non è mai stata accettata non solo da tre degli imputati, non solo dalla comunità di Lotta continua, ma da larga parte della sinistra italiana. Certo, molti degli ottocento intellettuali che a suo tempo firmarono il manifesto contro il «commissario torturatore» hanno chiesto scusa alla famiglia. Uno di loro, il grande regista Marco Bellocchio, l’ha fatto di persona dieci giorni fa, presentando a Castenedolo il libro della signora Gemma Calabresi Milite, «La crepa e la luce». Ma contro la condanna di Marino, Bompressi, Pietrostefani e Sofri si combatté una battaglia civile: si tornò a raccogliere firme; molti giornali sposarono la linea innocentista; Dario Fo portò in tutta Italia uno spettacolo intitolato «Marino libero! Marino è innocente!». Poi, più nulla. Silenzio. Conversazioni private, come quella tra il primogenito di Luigi Calabresi, Mario, e Giorgio Pietrostefani, di cui la signora Gemma ha detto in un’intervista al Corriere: «Dio è passato anche da lui».
Il 9 maggio scorso Mario Calabresi ha parlato alla Camera. E ha pronunciato queste parole: «Alcune tessere del mosaico ancora mancano. Molti di coloro che hanno ucciso o hanno fiancheggiato sono ancora tra noi; da mezzo secolo si sono rifugiati nel silenzio e nell’omertà. Il coraggio della verità sarebbe per loro un’occasione irripetibile e finale di riscatto. Il gesto che permetterebbe di chiudere una stagione».
Mario Calabresi forse non si riferiva solo all’assassinio di suo padre. Ma nel momento in cui parla degli uomini che «da mezzo secolo», quindi dal 17 maggio 1972, «si sono rifugiati nel silenzio e nell’omertà», si riferisce certo anche all’assassinio di suo padre.
Nessuno, tra i militanti dell’estrema sinistra in cui certamente maturò il delitto, e in particolare tra i militanti di Lotta continua cui la magistratura l’ha attribuito — anche in seguito alla confessione di uno di loro —, ha ritenuto di dover rispondere con una parola, una sola, all’appello di Mario Calabresi.
Qualcuno potrebbe replicare: abbiamo sempre detto che i nostri compagni sono innocenti; cos’altro potremmo aggiungere?
In realtà, Lotta continua non è il monolito che viene considerata. Per fare un solo nome, Erri De Luca non si è mai riconosciuto nella linea dei «trasecolati». «Chiunque di noi potrebbe avere assassinato Calabresi. Chiunque, tranne Marino» ha sempre sostenuto De Luca; offrendo una sorta di scambio, tra la libertà dei compagni e la verità. È possibile che tra gli ex militanti di Lotta continua la linea dei «trasecolati» non sia così condivisa. Sull’uso della violenza dissero in passato parole di verità, ad esempio, Paolo Sorbi e Massimo Negarville. È uscito ora un interessante libro (non sul caso Calabresi ma sulla stagione dei servizi d’ordine) di un altro dirigente torinese di Lc, Fabrizio Salmoni. In generale, però, dopo la stagione della militanza, sembra adesso prevalere un infastidito silenzio. Come a dire: facciamo finta di nulla, l’anniversario passerà.
Forse è comprensibile; certo è deludente. Forse non è omertà; certo è mancanza di coraggio.
Luigi Calabresi, il ricordo del figlio Mario: «Tra la folla sulle tue spalle, papà». Mario Calabresi su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.
Il giornalista ricorda il padre Luigi commissario ucciso 50 anni fa: «Avevo solo 2 anni e c’era una banda musicale. Sento ancora la sensazione di stare attaccato ai suoi capelli mentre mi stringe le gambe. Fui attirato da un trombone, me lo fece toccare. Ero felice».
Si può fare pace con la memoria grazie a una foto trovata in mezzo a sette milioni di negativi? Sì, se quella foto conferma il primo ricordo di una vita, se ti dice che quella sensazione che ti porti dietro da mezzo secolo era realtà. È una storia lunghissima che comincia cinquant’anni fa, il 17 maggio 1972. Alle 9.15 del mattino il commissario Luigi Calabresi, mio padre, veniva ucciso sotto casa in via Cherubini 6 a Milano con tre colpi di pistola alle spalle. Era l’alba degli Anni di Piombo, tre anni prima c’era stata la strage di Piazza Fontana, ma per la prima volta con quell’omicidio era stato scelto un bersaglio, era stata costruita una campagna per distruggerlo e alla fine lo si era eliminato. Sarebbe successo centinaia di volte negli anni successivi. Quella stagione si sarebbe conclusa tre decenni dopo con l’omicidio del professor Marco Biagi, colpito per le sue idee riformiste sul mercato del lavoro. L’omicidio di mio padre è lontano nel tempo quanto lo era il giorno della sua morte dalla marcia su Roma. Il mondo è completamente cambiato, non esistono più i partiti storici, è caduto il Muro di Berlino, è tornata la guerra in Europa, abbiamo conosciuto un altro terrorismo, di matrice islamica, sono nati internet e i social network, hanno inventato le auto elettriche e quelle a guida autonoma e l’Italia ha vinto due mondiali di calcio. Eppure il «caso Calabresi» non riesce a diventare finalmente un pezzo di storia e di memoria privata, continua a rimanere prigioniero della cronaca.
È accaduto perché gli assassini, appartenenti al gruppo Lotta Continua, vennero individuati 17 anni dopo, perché i processi ebbero un numero record di gradi di giudizio e si protrassero per quindici anni, perché poi seguì un decennio di dibattiti sulla clemenza e la grazia. Sembra incredibile ma domani, dopo cinquant’anni e un giorno, si terrà a Parigi l’udienza per l’estradizione dell’organizzatore dell’omicidio, Giorgio Pietrostefani, che oggi ha 78 anni e da venti è latitante in Francia. Verrebbe da dire che siamo tutti, la nostra famiglia e la società italiana, prigionieri della cronaca. Come uscirne? Alzando lo sguardo, dando sepoltura e ricordo ai morti e pacificandosi con i vivi. Mia madre ha insegnato a me e ai miei fratelli a non odiare, a non coltivare il rancore ma a guardare la vita con fiducia e serenità. Per questo, pur giudicando importante e preziosa, anche se tardiva, la decisione francese di non garantire ospitalità a chi si macchiò di reati di sangue negli Anni Settanta, noi oggi crediamo che il carcere di un uomo vecchio e malato non abbia più alcun senso. Più importante sarebbe avere da lui e dai suoi compagni di lotte parole di verità.
La fotografia
Ma torniamo a quella fotografia. Di mio padre conservo un solo ricordo: ero sulle sue spalle, eravamo in una piazza, in mezzo alla folla e c’era una banda musicale. Io ero un po’ spaventato dalla calca e dal rumore ma ero incredibilmente attratto dalla grande apertura dorata di un trombone. Lui mi chiese se volessi toccarlo, poi si mise a camminare e scavalcò qualcosa. Sento ancora la sensazione fortissima di stare attaccavo ai suoi capelli mentre lui mi stringe le gambe. Ci avvicinammo alla banda, lui parlò con qualcuno, chiese qualcosa, si piegò sul trombone e me lo fece toccare, solo per un attimo. Ero felice, non avevo più paura della folla, mi sembrava tutto solare e caldo. Quella sensazione di pienezza la sento ancora oggi, netta e pulita. Allora avevo solo due anni e mezzo e di quell’unica immagine non ne ho parlato con nessuno per molto tempo. Temevo potesse svanire, perché è l’eredità che mi ha lasciato: mi ha regalato la tranquillità in mezzo al disordine, una specie di pace che mi prende quando tutto intorno accelera. La raccontai a mia madre solo negli anni del liceo e lei confermò tutto, andò a prendere l’agenda-diario che teneva allora e c’era scritto: «14 maggio: Gigi porta Mario a vedere la sfilata degli alpini. Rientra con paste, gelato e rose». Tra le pagine c’è ancora oggi una rosa di quel mazzo.
L’archivio
Due anni e mezzo fa, a ottobre del 2019, entrai per la prima volta in un luogo meraviglioso, una miniera di memorie che era contenuta nel caveau blindato di una banca alla periferia di Milano: l’archivio Publifoto, un’immensa collezione di immagini che raccontano l’Italia dagli Anni Trenta alla fine del secolo scorso. L’archivio, che rischiava di andare disperso, venne acquistato da Intesa Sanpaolo e oggi è parte delle Gallerie d’Italia di Torino che hanno inaugurato proprio ieri. Venni accolto dalle archiviste, mi fecero fare un giro e mi mostrarono delle vetrine che contenevano i quaderni con l’elenco dei servizi fotografici scattati ogni giorno. Ne aprirono una e il caso volle che fosse quella del 1972. Io istintivamente afferrai un volume che aveva scritto «maggio» sul dorso, spiegai che volevo vedere che servizi erano stati fatti il giorno della morte di mio padre e poi ai funerali. Sfogliammo a partire dal 17 maggio, ma dopo un’istante sentii un’urgenza di tornare indietro, avevo fretta di andare alla domenica prima, il 14 maggio. Ci arrivammo e io trattenni il fiato, c’era scritto: «Sfilata degli alpini» e a seguire una serie di numeri di negativi e provini. Chiesi se potessi vederli e pochi minuti dopo li avevo tra le mani. Sono partito da una busta piena di provini, mi avevano chiesto di indossare dei guanti bianchi di tessuto per non rovinare quei piccoli pezzi di memoria, e con grande delicatezza avevo tirato fuori un primo mazzo di scatti. Non ho avuto nemmeno bisogno di cercare, quasi subito mi sono trovato tra le mani la fotografia che avevo nella testa fin da bambino: il trombone. Non ci potevo credere, avevo sotto gli occhi proprio una meravigliosa campana dorata, quella parte dello strumento che mi era rimasta impressa e che avevo toccato. Sullo sfondo le guglie del Duomo di Milano. Il mio ricordo aveva un’immagine fisica, era uscita dal tempo ed era davanti ai miei occhi, lo avevo tra le dita. Allora ho cominciato a sperare di trovare qualcos’altro, non sapevo nemmeno cosa, ma avevo sempre più fretta, così sono passato alla prima scatola: i negativi con le immagini della folla. Li ho sparsi sul tavolo, ho preso il lentino che mi avevano fornito e ho cominciato a passarli in rassegna, stavo cercando qualcosa che era sepolto nella memoria da decenni.
Quando ho visto lo scorcio di Largo Cairoli che guarda verso Via Dante ho sentito in modo forte e chiaro che ero al posto giusto. Dopo un attimo ho capito cosa stessi cercando: un bambino sulle spalle del padre. Il primo che ho trovato aveva un cappottino bianco e un cappellino, ma non mi diceva nulla. Il secondo era sulle spalle di un papà con un’impermeabile beige, ma lui era biondo. Poi ne ho trovato uno con una testa e delle orecchie simili alle mie, aveva una maglia chiara e del padre si intuivano solo le spalle e una giacca grigia. Ho smesso di cercare. Sono rimasto in silenzio. Mi sono improvvisamente calmato. Tutto era andato a posto. Ho chiesto se fosse possibile stampare la foto in un formato grande e quando me l’hanno consegnata, qualche settimana dopo, sono andato a trovare mia madre, le ho indicato il bambino e le ho chiesto: «Ho mai avuto una maglia così e papà aveva una giacca del genere?». «Sì, direi di sì», fu la risposta. «Pensi che possa essere io?». «Ti somiglia, ma come possiamo saperlo con certezza?». Siamo stati un po’ a guardare e a fare supposizioni e poi mi ha chiesto: «È importante sapere se eri proprio quello?». No, è più importante sapere che è accaduto e quella foto ha rimesso le cose a posto e le ha consegnate alla memoria.
Achille Serra: «Il mio amico Luigi Calabresi è stato ucciso ogni giorno, per due anni e mezzo». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.
Luigi Calabresi (1937-1972)
Il prefetto fu il primo ad arrivare la mattina del 17 maggio 1972 in via Cherubini: «Era ancora vivo, mi attaccai alla radio. Sua moglie aprì la porta e disse: ho capito tutto. Il questore? Mi guardò piangendo»
Nelle due vicende che segnano la storia di Milano, e indelebilmente quella dell’Italia del Dopoguerra, Achille Serra entra in prima persona, da giovane poliziotto. La sua è la prima volante ad arrivare il 12 dicembre 1969 alla Banca nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana. Lui, passato alla squadra Mobile, è il primo ad arrivare la mattina del 17 maggio 1972 in via Cherubini. Di Luigi Calabresi era amico, entrambi romani, divisi da solo quattro anni d’età (qui il ricordo del figlio Mario Calabresi).
Prefetto Serra, che ricordo ha del commissario Calabresi?
«Uomo mite, religioso, uno straordinario padre di famiglia, un bellissimo uomo. L’ho conosciuto nel ‘69. Al mio arrivo a Milano, avevo 28 anni e fui affidato a lui che era all’Ufficio politico ma aveva già grande esperienza. Nacque un feeling straordinario. Mi insegnò moltissimo, soprattutto una cosa».
Quale?
«Il dialogo, il punto di riferimento della mia vita professionale».
Lei era il “poliziotto senza pistola”, che è diventato anche il titolo del suo libro. Anche Calabresi non portava mai l’arma d’ordinanza.
«Ho questo ricordo indelebile: un giorno mi dice di salire in auto, usciamo dalla Questura e andiamo in piazza della Repubblica. C’era una manifestazione del movimento studentesco, avevano cattive intenzioni nei confronti del consolato americano».
Luigi Calabresi, il ricordo del figlio Mario: «Tra la folla sulle tue spalle, papà»
Erano gli anni delle rivolte di piazza, dei movimenti operai e studenteschi, di Lotta continua...
«Non erano anni facili per la polizia, a quei tempi si discuteva di disarmare gli agenti. Arriviamo in piazza, Calabresi scende e si avvicina agli schieramenti. Io pensavo che stesse per ordinare la carica, mi nascosi dietro la macchina. Invece vidi una scena fantastica: andò prima a parlare con il movimento studentesco, poi con gli agenti».
Immaginava che Calabresi potesse essere ucciso?
«Ne avevo la certezza matematica. Non ero il solo. Sui muri, nei documenti firmati da certi intellettuali famosissimi, nei cortei c’erano striscioni “Calabresi assassino”. Luigi è stato ucciso ogni giorno, per due anni e mezzo».
Una campagna incessante che trasformò il commissario in un simbolo oltre che in un obiettivo. Perché nessuno fece nulla?
«Sono molto inquieto quando penso al governo di allora che non prese provvedimenti che gli avrebbero salvato la vita. Poteva essere trasferito d’ufficio».
Morì senza scorta.
«Eravamo nel cortile di via Fatebenefratelli, gli chiesi: “Gigi, ma perché non te ne vai? Tua moglie è incinta, ci sono i figli”. Lui mi rispose: “Ma perché me ne devo andare, cos’ho fatto? Tu che faresti?”. Ecco, lo avrei fatto anch’io».
Calabresi venne ucciso da un commando di Lotta continua per vendicare la morte in Questura di Giuseppe Pinelli al termine dell’interrogatorio per la strage di piazza Fontana. Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani nel 2000 sono stati condannati in via definitiva.
«Come tutti sanno Calabresi era in un’altra stanza quando morì il povero Pinelli. E questo è assodato. In realtà era in grande confidenza con Pinelli, si scambiavano libri».
Oggi saranno 50 anni dall’omicidio. Cosa ricorda di quella mattina?
«Arrivò la chiamata, avevano sparato a un uomo in strada in via Cherubini. Il capo della mobile mi mandò subito lì. I vicini di casa mi dissero che si trattava di Luigi, il corpo era già stato portato via dall’ambulanza. Era ancora vivo. Mi attaccai alla radio: hanno ammazzato Calabresi, fate venire il questore, tutti i dirigenti. Lui non era ancora morto in quel momento».
Anche in piazza Fontana fu il primo ad arrivare.
«Si pensava allo scoppio di un tubo del gas. In questi casi si manda il più giovane, ero a Milano da pochissimo. Vidi una scena che ho ancora negli occhi e che non dimenticherò mai. Mi attaccai alla radio: mandate cento ambulanze. Mi presero per matto, inesperto. Purtroppo non mi sbagliavo».
In via Cherubini fu lei insieme al questore Ferruccio Allitto a parlare alla moglie del commissario.
«Allitto era un uomo di grande durezza, sapeva che conoscevo bene Calabresi: “accompagnami su dalla moglie”. Lei aprì e disse: “ho capito tutto”. Una grandissima donna, ricordo la sua dignità».
Cosa le disse il questore?
«Mi guardò piangendo: “hanno ucciso il mio migliore uomo”».
Il giorno dei funerali lei fu tra i poliziotti che portarono la bara di Calabresi. Martedì mattina sarà alle celebrazioni in suo ricordo.
«Lottammo contro il capo della polizia Angelo Vicari per accompagnare la bara dalla questura alla chiesa di San Marco. Non volevano si facesse un corteo. Quella fu una vergogna nazionale. Un uomo così grande non poteva essere nascosto. Sono particolarmente onorato di averlo fatto».
Calabresi, la lezione 50 anni dopo: «Sete di verità, non di giustizia». Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.
La moglie Gemma e i figli chiedono luce sulle circostanze dell’attentato mortale. La ministra Cartabia: loro mi hanno indicato la via, quella della riconciliazione.
L’inizio sono foto, in bianco e nero, o a colori ingrigiti, foto del matrimonio, di sorrisi, foto di una moglie e di un marito, una madre e un padre, e di bambini, e poi di bambini diventati ragazzi. La donna nelle immagini ha il sorriso splendido di una ragazza felice. E poi alla fine eccola di nuovo, quella donna, sale sul palco, dice: «Ho 75 anni, all’epoca ne avevo 25». Ha quello stesso sorriso, largo, aperto. «Ho scelto di fare la pace con la vita e con gli altri». E nessuno saprà mai (forse Dio), quale sia il filo che nell’espressione del suo volto, in un tempo così lungo, dia una forma così simile all’espressione della felicità e della pace. In mezzo c’è il percorso che la signora Gemma Calabresi, con i figli Mario, Paolo e Luigi, ha fatto dal 17 maggio 1972, giorno dell’omicidio del marito e padre Luigi, commissario di polizia.
«La verità conta di più del carcere»
A cinquant’anni di distanza la commemorazione al teatro Gerolamo di Milano, dopo quella del mattino in questura, ha un senso più profondo. Lo spiega Mario Calabresi: «Passato questo tempo, vorremmo che la vicenda fosse consegnata da una parte alla storia, dall’altra alla memoria privata». Non sarà così, almeno non subito. Perché oggi si terrà a Parigi l’udienza per l’estradizione di Giorgio Pietrostefani, l’organizzatore dell’omicidio. Spiega ancora Mario Calabresi: «Oggi a noi che un uomo di 78 anni malato vada in carcere non restituisce più niente, sarebbe più importante qualche parola di verità». E da qui inizia il racconto e la riflessione del ministro della Giustizia, Marta Cartabia, che sottolinea di parlare «al cospetto» della famiglia Calabresi. Ricorda il momento, da poco aveva assunto il suo incarico, in cui la Francia aprì all’ipotesi dell’estradizione: «Le reazioni furono divergenti. Ma Gemma e Mario mi hanno mostrato la strada. Non la sete di giustizia, ma sete di chiarezza e di reale possibilità di riconciliazione, che non può esistere senza la verità». Un sentiero da seguire: «La giustizia riparativa passa dall’incontro. Passa dalla risposta al bisogno di verità. Ma guarda oltre, alla possibilità di spingersi con uno sguardo più avanti». Quel che insegna la famiglia Calabresi.
L’incontro con Leonardo Marino
L’altro figlio Paolo racconta l’incontro con Leonardo Marino, l’uomo che guidava l’auto degli assassini e poi ha permesso di attribuire le responsabilità per l’omicidio: «È stato un incontro di due ore. Cosa sono due ore in 50 anni? Niente. Ma ci ha dato un impulso, l’importante è non stare fermi, senza dimenticare da dove si è partiti». Anche il capo della polizia, Lamberto Giannini, ha detto ieri parole analoghe a quelle della famiglia. Anche se i figli e la moglie del commissario Calabresi sottolineano che questi 50 anni sono serviti anche «per la riabilitazione della memoria» del padre e marito, dopo anni di campagne di diffamazione. Lo ha ricordato lo storico ed editorialista del Corriere, Paolo Mieli, spiegando che lo slogan sulla bomba in piazza Fontana come «strage di Stato ha rappresentato una visione infernale», con le devastanti derive degli anni seguenti. Nessuno li vuole rimuovere, questi 50 anni, «ma vorremmo che il prossimo anniversario — conclude Mario Calabresi — fosse solo nei fiori che porteremo a papà al cimitero».
Nel perdono della vedova Calabresi una lezione (inascoltata) al Paese. Angelo Picariello su Avvenire il 17 maggio 2022.
Il 17 maggio 1972 veniva assassinato a Milano il commissario Luigi Calabresi, vicecapo dell’ufficio Politico della questura. Freddato alle 9.15 sotto casa, in via Cherubini, davanti alla sua Cinquecento. Una Messa sarà celebrata, oggi alle 10, nella chiesa di San Marco, presieduta dall’arcivescovo Mario Delpini. Alle 11, poi, la commemorazione in questura, col capo della Polizia Lamberto Giannini, dove prenderà la parola anche Gemma Capra, vedova del commissario.
«Diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino», furono queste le sue prime - enormi - parole, che riuscì a sibilare quando a 25 anni, madre di due figli con un terzo in grembo, don Sandro Dellera, parroco di San Pietro in Sala, la chiesa in cui si era sposata, trovò per primo il coraggio di riferirle che quel trambusto sotto casa era proprio per la ragione che temeva, da tempo.
Un omicidio annunciato, perché una martellante campagna di stampa, con tanto di raccolta firme di quasi 800 noti intellettuali e dirigenti politico-sindacali in calce a un documento pubblicato dall’Espresso, aveva indicato il commissario come «il responsabile» della morte del ferroviere Luigi Pinelli.
Le indagini sulla strage di piazza Fontana, sulla spinta anche dei Servizi deviati del tempo, avevano imboccato una pista sbagliata, quella anarchica, per coprire la matrice neo-fascista poi storicamente - ma mai a livello giudiziario - accertata. Il ferroviere, in base a una sentenza molto discussa, era caduto dalla finestra della stanza di Calabresi, al quarto piano per un «malore attivo».
Ma il commissario, è stato accertato, non era in stanza in quel momento, chiamato nottetempo dal questore.
Tre giorni prima, il 12 dicembre 1969, l’ordigno esploso alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, aveva ucciso 16 persone, ferendone 88. A far montare la polemica contribuì anche il fatto che il questore Marcello Guida avesse un passato da direttore della celebre colonia di confino politico di Ventotene, durante il Regime.
Ma per due anni e mezzo Calabresi divenne l’unico capro espiatorio, additato da tutti e protetto da nessuno. Quella strage viene definita la "perdita dell’innocenza".
In realtà a Milano, in pieno "autunno caldo", la violenza era già esplosa il 19 novembre, meno di un mese prima del tragico venerdì pomeriggio della bomba, portando alla morte orrenda di un agente della Celere, Antonio Annarumma, finito con il cranio fracassato nella sua camionetta da un tubo Innocenti, senza che si fosse trovato un solo testimone disposto a collaborare.
Ma quella mattina di 50 anni fa la signora Gemma indicò la strada che avrebbe, forse, potuto evitare al nostro Paese un bagno di sangue, quello dei successivi "anni di piombo": la strada del perdono e della riconciliazione, che poi ribadì con un celebre necrologio: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
La riconciliazione è avvenuta, per lei, con Leonardo Marino, il pentito che confessò, 16 anni dopo (prima a un religioso e poi ai magistrati) di esser stato lui l’autista del commando omicida. Sentenze contestate, ma confermate in ogni ordine e grado (revisioni processuali e Corte di Giustizia europea inclusi) hanno indicato nell’ex leader di Lotta Continua Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, capo del "Servizio d’ordine" di Lc, i mandanti, e in Ovidio Bompressi l’esecutore materiale.
Sofri non ha mai accettato questo verdetto anche se di recente ha ammesso di sentirsi in qualche modo "corresponsabile" per le parole di violenza usate dal suo giornale. Più avanti si è spinta Licia Rognini, vedova Pinelli, stringendo la mano alla vedova del commissario: «Avremmo dovuto farlo prima», si sono dette, al Quirinale.
Luigi Calabresi jr.: “Io mio padre non l’ho neanche conosciuto. E non riesco a perdonare”. Piero Colaprico su La Repubblica il 16 Maggio 2022. Luigi, sua madre era incinta e lei è nato sei mesi dopo l'omicidio di suo padre, il commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio 1972, vittima dei terroristi. Mi scuso per la domanda: come ha ricostruito dentro di lei la figura paterna?
"Dai racconti di mamma, dei nonni, degli zii. Mamma aveva sette tra fratelli e sorelle, ci coccolavano, io allora ero piccolo e prima di affrontare le notizie e leggere le cronache sono ovviamente passati anni.
Piero Colaprico per “la Repubblica” il 17 maggio 2022.
Luigi, sua madre era incinta e lei è nato sei mesi dopo l'omicidio di suo padre, il commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio 1972, vittima dei terroristi.
Mi scuso per la domanda: come ha ricostruito dentro di lei la figura paterna?
«Dai racconti di mamma, dei nonni, degli zii. Mamma aveva sette tra fratelli e sorelle, ci coccolavano, io allora ero piccolo e prima di affrontare le notizie e leggere le cronache sono ovviamente passati anni. Ma che fosse un uomo buono lo so. Lo so grazie alla mia famiglia, agli amici, ai tanti che avevano a che fare con lui, quindi la prima idea me la sono fatta grazie ai ricordi degli altri. Il resto è venuto piano piano, anche con le visite al cimitero».
Cioè?
«Sono l'unico dei tre figli che va sulla sua tomba regolarmente da sempre, più o meno una volta ogni due mesi. Posso chiacchierarci. E posso piangere, nessuno fa caso se piangi al cimitero».
O se alzi la voce
«Beh, sì, ho avuto anche momenti di rabbia. Capita. Magari c'è stata un'udienza faticosa, o un articolo antipatico, che risvegliava sentimenti negativi. Ma là lo ritrovo ogni volta e mi è capitato anche di ridere».
A volte, quando si va al cimitero, si "parla" con persone che non ci sono più, ma con le quali abbiamo parlato. Lei con suo padre non ha mai parlato da vivo.
«Mia madre da sempre è religiosa, "Il Signore ti vede, anche i parenti che sono in quello che chiamiamo Paradiso ti vedono".
Quindi io andavo al cimitero e dicevo: "Papà, sono qui, e sono capace di affrontarti. E adesso ti dico che cosa ho combinato". Non sono religioso come mamma, certamente lo sono più di Mario e Paolo, e così a mio padre raccontavo anche perché avessi fatto o non fatto una certa cosa. A volte ai genitori non puoi o non vuoi dire perché, sai che magari rischi il rimprovero, se non un ceffone.
Con lui ho sempre potuto parlar chiaro, andandogli a raccontare il bello e il brutto di me. E nei decenni non ho cambiato idea sul fatto che fosse un uomo integerrimo».
C'è anche una storia che riguarda il nome di sua figlia.
«Chiara. Vabbè, gliela dico. Mamma non l'aveva mai confidato a nessuno, ma dopo due maschi erano convinti: "Sarà una femmina". E avevano pensato solo a un nome femminile, ed era Chiara. Papà è morto, e sono arrivato io, il terzo maschio. Mamma mi ha dato i nomi in fotocopia, Luigi Antonio Giuseppe, come papà.
Anni dopo, quando è nata mia figlia, non sapevamo ancora che nome darle, e ho detto "Ha una faccia da Chiara, chiamiamola così". Esco dalla sala parto, dico ai parenti che è una femminuccia e che l'avremmo chiamata Chiara. Mia madre sbianca.
"Che hai?". "È il nome che avrebbe voluto tuo padre". E così mi piace pensare che mi abbia messo le mani sulla testa e abbia voluto essere nonno, partecipare alla nostra festa».
Sua madre, e lo si capisce dall'ultimo libro, "La crepa e la luce", ha fatto un lunghissimo percorso, che alla fine si è concluso con il perdono per gli assassini. Posso chiederle che cosa pensa sia del perdono, sia di chi ha ucciso?
«Il percorso di mamma non l'ho fatto. Forse quando arriverò alla sua età. Forse, nel nome della serenità che lei ha raggiunto. Non faccio fatica a capirla, ma io porto questo cognome, ne ho vissute varie e non ho perdonato, anche se ho fatto anch' io la mia strada, e ho incontrato Leonardo Marino».
Che cosa ha chiesto all'uomo che ha fatto scoprire mandanti ed esecutori?
«Guardi, sono andato con mio fratello Paolo per ascoltare dalla sua bocca la storia. E a Paolo l'avevo detto prima, io chiedo tutto quello che voglio. E così quello che volevo sapere l'ho saputo e ho ridato umanità a uno che vedevo come un assassino. Ho compreso da dove veniva, che vita difficile aveva avuto. Certo, fai sempre fatica a giustificare.
Ma meno a comprendere. Però Marino ha chiesto perdono, gli altri no. E non so nemmeno se sarei capace ad andarli a incontrare, non mi piacciono nei loro comportamenti».
Sono passati 50 anni e, se posso dirlo, lei sembra in pace con il mondo.
«Noi figli orfani non siamo purtroppo mosche bianche. Ho parlato con alcuni, se la vivono con la rabbia, la voglia di vendetta, com' ero anch' io da giovane. E devo proprio ringraziare mamma, che ci ha insegnato a sorridere.
Ad apprezzare la vita, sempre. La ringrazio perché ha trovato un altro compagno, quando avevo quattro anni, quindi un padre meraviglioso l'ho avuto, Tonino Milite, ed è sepolto a 100 metri da papà Gigi. Uno artista e uno poliziotto. Faccio un mix tra i due, e mi dispiace quando vedo i figli di vedove che non si sono riprese. I momenti bui ci saranno sempre e so bene che vivere cercando di tenere lontano la tristezza non è facile, ma è possibile».
Sua madre allora ha fatto un buon lavoro?
«Ha trasformato il lutto in una maniera per farci crescere con più valori, con più rispetto. Sì, senza lei sarebbe stato più complicato».
Questa è la prima intervista che lei rilascia a un quotidiano. Perché sinora ha taciuto?
«Ho solo risposto alle domande di un libro di Bruno Vespa, per il resto mamma ci rappresenta e Mario è un personaggio pubblico. È il nostro portavoce. A volte si discute a casa, su che cosa dire, ma la calamita resta lui. Sono d'accordo con i miei, io e Paolo restiamo in pubblico un passo indietro. Anche perché sono il più fumantino, per me talvolta è meglio tacere».
Calabresi, 50 anni fa. Il commissario che la sinistra odiava. Il mandante del killer è latitante in Francia. Stefano Zurlo il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il linciaggio per il caso Pinelli, l'esecuzione del gruppo di fuoco di Lotta Continua. Mezzo secolo di processi, però giustizia non è ancora fatta. Pietrostefani non ha pagato ma domani si decide per l'estradizione in Italia.
La memoria fa brutti scherzi. «Che cosa ci eravamo detti in quegli ultimi momenti io e Gigi?» La risposta di Gemma Calabresi, affidata al recente libro «La crepa e la luce», è disarmante: «È terribile, ma non me lo ricordo».
Le nove e un quarto del mattino del 17 maggio 1972. Cinquant'anni fa. Milano. Il commissario Luigi Calabresi esce di casa, in via Cherubini, zona Pagano, quartiere borghese e famiglie benestanti. È in ritardo, ma dopo due minuti torna indietro. Si cambia al volo la cravatta, da rosa a bianca, poi si rivolge alla moglie: «Come vado così?», quindi pronuncia l'ultima frase, quasi una profezia della fine: «Questo è il simbolo della mia purezza».
La risaluta e va incontro alla morte. La pistola di Ovidio Bompressi non gli lascia scampo: due colpi e il poliziotto cade sull'asfalto. La corsa disperata all'ospedale non serve. Luigi Calabresi muore a 34 anni, lasciando la giovane vedova, due figli e un terzo in arrivo. Sembra incredibile ed è inammissibile, ma è la cronaca: domani, 18 maggio 2022, la Francia potrebbe decidere sull'estradizione di Giorgio Pietrostefani, il mandante del delitto, in libertà vigilata da un anno circa dopo una lunga stagione di latitanza blindata. Insomma, dopo mezzo secolo e ancora un giorno potrebbe arrivare, ma il condizionale è d'obbligo, la parola fine per una storia che è andata avanti troppo a lungo e continua a vivere sui giornali, mentre ormai il suo posto è nei libri di storia.
Il delitto Calabresi, come hanno accertato i giudici milanesi, fu organizzato all'interno di Lotta Continua, anche se è evidente che mancano tuttora pezzi di verità. Le sentenze indicano due livelli: l'ideazione e l'esecuzione. La prima nasce ai piani più alti del movimento extraparlamentare: l'ordine di uccidere Calabresi arriva infatti dai leader, Adriano Sofri e appunto Giorgio Pietrostefani. Poi c'è la manovalanza che porta a termine il piano: Bompressi e Leonardo Marino, l'anello debole della catena cresciuto nel mito di Sofri, l'autista che, recuperato il complice, scappa imboccando via Rasori.
Quella mattina l'Italia scivola irrimediabilmente verso gli anni di Piombo: le Brigate rosse ci sono già, ma non hanno ancora azzardato imprese del genere; quello è il primo omicidio politico di una nuova spaventosa stagione che le Br, ma non solo loro, battezzeranno, forse per errore, con il sangue di due missini ammazzati a Padova nel 1974. Quel giorno si capisce che nel magma dell'ultrasinistra italiana il seme dell'odio ha dato i primi frutti. D'altra parte il delitto Calabresi è, per certi aspetti almeno, un omicidio corale, incastrato dentro una stagione avvelenata della storia del Paese: il 12 dicembre 1969 una bomba ammazza 17 persone in Piazza Fontana. Gli investigatori puntano sulla pista anarchica: Giuseppe Pinelli viene convocato in questura e ad interrogarlo è proprio Calabresi. La notte del 15 dicembre, con un fermo protratto illegalmente, Pinelli è ancora lì. Poi il ferroviere cade dalla finestra. Secondo la versione ufficiale, in quel momento Calabresi non c'è perché è uscito dalla stanza e sta portando i verbali al capo dell'ufficio politico Antonino Allegra. Tutti concordano e sposano la versione del suicidio, tutti meno uno, l'anarchico Lello Valitutti che da allora ripete un'altra versione.
Calabresi è innocente e verrà scagionato dalla magistratura, ma diventa il bersaglio di una violentissima campagna di insulti, minacce, attacchi furibondi, ricostruzioni fantasiose, appelli di intellettuali famosi saturi di rancore e disprezzo. Calabresi è solo, perché lo Stato non lo difende e anzi lo abbandona al suo destino: il 17 maggio 1972 il destino si compie. E comincia una saga giudiziaria senza precedenti nella vita del Paese. Prima 16 anni di buio, silenzio, omertà, anche se molti, troppi, sanno. Poi Marino, il cui cuore sanguina, si pente e va dai carabinieri: è la svolta, supportata da riscontri inattaccabili. Il 28 luglio 1988 i protagonisti di quell'eccidio finiscono in manette. Marino accusa, loro si proclamano innocenti. Sofri si dice pentito per quella campagna orrenda orchestrata dal suo giornale con toni parossistici, ma afferma anche che lui non commissionò quell'infamia. Di nuovo storici, accademici, giornalisti mettono in dubbio il lavoro della magistratura ambrosiana, di solito osannata ma questa volta criticata con toni aspri. L'altalena sconcertante delle sentenze, in un affastellarsi di condanne e assoluzioni, si chiude solo a Venezia, con tanto di legge ad hoc, in sede di revisione. Dopo venti passaggi. I quattro sono colpevoli. La pena è di 22 anni, 11 solo per Marino.
Il caso è chiuso ma anche no. Fra un verdetto e l'altro, Pietrostefani è scappato a Parigi, dove i terroristi italiani hanno sempre avuto una equivoca e ingiustificabile copertura politica. L'anno scorso il vento cambia: lo arrestano, poi va in libertà vigilata. Domani, forse, l'ultimo atto.
Gli altri tre hanno scontato la pena e sono liberi. L'enigmatico e tormentato Bompressi, autore di poesie che per qualcuno aprono squarci lirici su quella giornata di orrore, ha ricevuto anzi una grazia parziale per le sue precarie condizioni di salute.
Cinquant'anni dopo, il delitto Calabresi è un tornante che non si può saltare nel ricostruire l'Italia del dopoguerra. L'intossicazione dell'ideologia e il germe della lotta armata, sullo sfondo di quella doppia tragedia: Piazza Fontana e la caduta mortale di Pinelli. E poi la vergogna di una verità negata e strappata per decenni, in parte anche oggi. A redimere quel disastro resta il necrologio scelto per i funerali. Le ultime parole di Cristo: Padre, persona loro perché non sanno quello che fanno. «L'arcivescovo di Milano Giovanni Colombo - scrive oggi Gemma Calabresi - disse che il mio necrologio era un fiore deposto sul sangue di Gigi e che non sarebbe mai appassito'. Oggi posso dire che aveva ragione perché, anno dopo anno, quelle parole sono fiorite dentro di me».
"L'intellighenzia radical chic lo uccise giorno per giorno". Luca Fazzo il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.
L'ex prefetto, collega e amico di Calabresi: "La prima responsabilità fu del governo. Venne lasciato solo".
«Era bellissimo». La prima cosa che Achille Serra, già questore di Milano e poi deputato, dice quando gli si chiede del suo amico Luigi Calabresi non riporta ai giorni terribili della persecuzione e dell'omicidio, ma alla prima impressione, al primo incontro negli uffici al quarto piano della questura di via Fatebenefratelli. Primavera del '69, Serra appena arrivato da Roma, Calabresi anche lui romano, di poco più anziano: alto, moro, la simpatia contagiosa. Tra i due giovani romani trapiantati al nord sembrava l'inizio di una amicizia di quelle destinate a durare per decenni. E che invece si spezza nel sangue, tre colpi successivi - la strage in banca, la morte del ferroviere Pinelli, l'assassinio di Calabresi - che il mezzo secolo di distanza non ha finito di attutire.
Che tipo era Luigi Calabresi?
«Un poliziotto senza pistola. Non è un modo di dire, girava davvero disarmato, e questo riassumeva il suo modo di rapportarsi con chi gli stava davanti. La prima dimostrazione la ebbi poco dopo essere arrivato, inviato come da prassi a farmi per qualche tempo le ossa all'ufficio politico. Manifestazione sotto il consolato statunitense, erano arrivati con le peggiori intenzioni, eravamo nel pieno della guerra in Vietnam, la tensione era alta. Con qualcun altro al posto di Calabresi a dirigere la piazza chissà come sarebbe finita. Invece anche quella volta lui dimostrò che con il dialogo si potevano evitare molti guai. Questo insegnamento di Calabresi ho sempre cercato di metterlo in pratica».
Poi arrivarono la strage alla Banca dell'Agricoltura e tre giorni dopo la morte di Pinelli, che precipita dalla finestra dell'ufficio politico della Questura. E paradossalmente Calabresi, questo uomo del dialogo, venne dipinto come un assassino senza scrupoli. Fino a venire ucciso.
«Lo uccisero due anni e mezzo dopo, ma la verità è che il mio amico Calabresi venne assassinato giorno per giorno, in modo implacabile. Tutti i giorni con le scritte sui muri, nelle lettere, nei documenti degli intellettuali, nelle manifestazioni, lo slogan era sempre lo stesso: Calabresi assassino. Per due anni Luigi venne ucciso ogni giorno. Io credo che la gente non si immagini cosa voglia dire per un essere umano venire sottoposto a un trattamento del genere, a un martellamento quotidiano, incessante, ingiusto. Tanto che io un giorno gli dissi: ma scusa, Luigi, tu hai moglie e figli, perché non te ne vai, perché non chiedi di essere trasferito da Milano? E lui mi rispose: Ma tu te ne andresti? Perché me ne devo andare? Sono innocente, assolutamente innocente, non ho fatto niente di male. E io ebbi soltanto la forza di dirgli: hai perfettamente ragione».
Come è possibile che lo Stato abbia assistito senza reagire, senza proteggerlo in alcun modo, al linciaggio quotidiano di un suo servitore? Per i sicari di Lotta Continua ammazzarlo fu un gioco da ragazzi. Era solo, senza scorta.
«La prima responsabilità secondo me fu del governo, e fu una responsabilità grave. La verità è che Calabresi venne lasciato solo. Avrebbero dovuto trasferirlo immediatamente, appena cominciò la campagna di stampa contro di lui. Lo avrebbero dovuto trasferire per forza, anche contro la sua volontà. Si sapeva che avrebbe fatto una brutta fine, lo sapeva chiunque e purtroppo lo sapeva anche lui. Se il ministero degli Interni lo avesse trasferito dall'altra parte del paese probabilmente gli avrebbe salvato la vita. Invece venne lasciato qui, a sopportare ogni giorno, da solo, il peso di una campagna di odio. Lo chiamavano Commissario Finestra, circolavano fotomontaggi con Calabresi con le mani sporche di sangue. Una infamia senza fine».
Contro di lui non c'era solo la rabbia degli estremisti. Nei salotti intellettuali della Milano progressista circolavano battute orrende.
«È l'aspetto che oggi appare più assurdo. Ci furono documenti con settecento, ottocento firme di intellettuali importanti, c'erano personalità di primissimo piano che dissero delle cose incredibili. Alcuni di questi signori negli ultimi tempi se le sono rimangiate e hanno chiesto scusa. Ma conta poco. Conta che ci fu una condanna generale verso una persona e un padre di famiglia eccezionale e con una moglie splendida. Quando fu ucciso, il questore Allitto volle che io lo accompagnassi su dalla moglie. Allitto era un uomo durissimo, ma ricordo che sulle scale piangeva come un bambino. Quando arrivammo su da Gemma, lei senza lasciarsi andare a crisi isteriche disse solo: Me lo immaginavo. Una grande donna che era la moglie di un grande uomo».
L'uccisione di Calabresi ha rischiato a lungo di restare senza colpevoli. Cosa pensò quando si seppe che era stata Lotta Continua?
«Non mi stupì per niente. Mi ricordavo il titolo del loro giornale dopo l'uccisione, Giustizia è fatta. Bastava quello per capire con quanta cattiveria era stata pensata e preparata la morte di Calabresi».
Falsi, menzogne, minacce. Così il clan "Fake Continua" uccise l'innocente Calabresi. Luigi Mascheroni il 21 Novembre 2021 su Il Giornale.
Aurelio Grimaldi analizza la campagna diffamatoria orchestrata dai compagni che portò all'omicidio del commissario prima, e al plauso e alla giustificazione dei colpevoli poi. Un clamoroso caso di disinformazione, troppo spesso taciuto.
Nemesi politica e paradosso ideologico, la macchina del fango tanto invocata contro la destra, è invece figlia dottrinaria e prediletta della sinistra. Ce lo ricorda un libro che, appoggiandosi a una documentazione imponente, ricostruisce, con lucidità e puntiglio, il caso più esemplare di delegittimazione dell'avversario dell'Italia moderna. Ossia come l'azione coordinata di un preciso gruppo di pressione, una lobby o un clan, attraverso una campagna stampa di precisione scientifica è riuscita a ledere la credibilità di una persona screditandone l'immagine pubblica, fino a trasformarla in un obiettivo da colpire. E infatti: il commissario Luigi Calabresi fu ucciso, colpito da due proiettili, il 17 maggio 1972, nel parcheggio davanti a casa, a Milano, dopo due anni e mezzo di una feroce e spregevole campagna di stampa condotta dalla sinistra il cui esito, inevitabile in quel delirio ideologico, fu appunto la morte del commissario «torturatore e assassino», considerato responsabile senza processo né prove - della morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, caduto dalla finestra di un ufficio della Questura di Milano dove si trovava in stato di fermo in seguito alla strage di piazza Fontana, nel dicembre 1969.
Il libro, Fango. L'omicidio Calabresi e la sinistra italiana (Castelvecchi) lo ha scritto Aurelio Grimaldi, autore e regista con una particolare sensibilità verso le trame nascoste della storia d'Italia (nel 2020 ha scritto e diretto Il delitto Mattarella sulle fosche vicende dell'omicidio del presidente della Regione Sicilia). Grimaldi all'epoca dei fatti aveva 12 anni ma ne ha trascorsi molti di più a studiare le carte dell'infinito iter giudiziario che ha portato alla condanna definitiva di Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani quali mandanti, e Leonardo Marino e Ovidio Bompressi come esecutori materiali, dell'omicidio del commissario Calabresi. E le carte sono parecchie, visto che fra processi e richieste di revisione, dal 1990 al pronunciamento della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo che nel 2003 respinse il ricorso degli imputati, si contano ben 17 sentenze (tutte, eccetto una, contrarie ai condannati). Nessuno in Italia ha mai avuto così tanti magistrati oltre cento - impegnati sul proprio caso.
Sul caso Calabresi e sulle responsabilità di Lotta continua nella sua morte, e del suo leader Adriano Sofri in primis, si è detto e scritto tanto. Ma l'originalità del saggio di Grimaldi è, oltre la ricostruzione della cronaca, dei processi e del clima dell'epoca, il suo arrabbiato j'accuse, da sinistra, contro l'ideologia marxista rivoluzionaria e delirante che ha inneggiato e praticato la violenza per anni, senza pentimenti, e contro una micidiale macchina del fango fanaticamente alimentata da una setE il triste campionario di menzogne, minacce, ricostruzioni romanzate, fake news e invocazioni di morte sfornato per anni dalla stampa di sinistra, è agghiacciante. L'Unità, l'Avanti!, il settimanale del Partito comunista Vie nuove (si legga l'ignobile racconto, del tutto falso, sulla tragica notte del 15 dicembre 1969 dentro la Questura di Milano), il manifesto e soprattutto L'Espresso e Lotta continua: eccola la macchina del fango che formò l'opinione pubblica, che costruì il mostro Calabresi il «commissario Finestra», il «dottor Cavalcioni» che ne fece un assassino-torturatore cui farla pagare, che appiccicò sulla sua schiena il bersaglio su cui i militanti di Lotta continua, ispirati dai loro peggiori maestri, spararono i due colpi mortali; militanti che ancora, dopo l'infame assassinio, per anni continuarono a plaudire la vendetta compiuta, a proteggere i colpevoli, a difendere la «giustizia proletaria» contro quella dei tribunali dello Stato.
Grimaldi di fatto compie due operazioni, una più meritoria dell'altra. Da una parte spazza via i molti luoghi comuni, pregiudizi e false informazioni che ancora aleggiano sulla morte di Pinelli e l'uccisione del «superpoliziotto» Calabresi; dall'altro analizza fin nei dettagli più infimi la vergognosa campagna di disinformazione operata dall'intellighenzia e dalla stampa di sinistra a difesa di Sofri&compagni. Nel primo caso l'autore ci ricorda che Calabresi non era nella stanza da cui cadde Pinelli (a distanza di decenni dichiara di non crederci più lo stesso Sofri); che l'anarchico Valpreda non mise la bomba a piazza Fontana, ma su quella giornata mentì su tutto ed era coinvolto in altri attentati dinamitardi, insomma era tutto tranne il santo e martire celebrato dalla sinistra antagonista, Dario Fo in testa; che Pinelli non fu gettato dalla finestra della Questura, ma o cadde per un malore dopo essersi sporto dal bassissimo parapetto, assonnato e spaventato (molto probabile) o si gettò suicidandosi (meno probabile), e comunque non fu mai picchiato né tanto meno torturato come dimostrarono tutte le perizie; che Calabresi con le cosiddette «violenze di Stato» non c'entrava niente, come tutte le indagini hanno comprovato.
Nel secondo caso invece Grimaldi elenca tutte le fake news che inquinarono la vicenda: il falso passato di Calabresi inventato dal nulla (non fu mai negli Usa ad addestrarsi con la Cia, non ebbe alcun rapporto col generale golpista De Lorenzo, non frequentò mai i servizi segreti...); la totale ignoranza in materia dell'intero clan del «Calabresi assassino», i cui adepti non lessero mai un documento e non credettero a fatti e prove, ma solo nel dogma che il commissario doveva essere un assassino; il totale pregiudizio con cui la crema dell'intellighenzia nazionale (quasi 800 nomi eccellenti) firmò l'immondo manifesto pubblicato sull'Espresso nel giugno del '71 il punto di non ritorno della macchina del fango contro il «torturatore» Luigi Calabresi, di fatto il lasciapassare perfetto per il suo assassinio.
Per il resto, ecco alcuni particolari del caso Calabresi, non essenziali ma significativi, che Aurelio Grimaldi ci ricorda impietosamente. Uno: alcuni passaggi malati di articoli usciti su Lotta continua (scritti anche in prima persona da Adriano Sofri): «Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole ormai», «Siamo stati troppo facili con Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, e continuare a perseguitare i compagni», «Calabresi è un assassino. Il proletariato ha già emesso la sua condanna. L'imputato è da tempo designato: torturatore e assassino», «Il proletariato emetterà il suo verdetto e lo renderà esecutivo». Due: uno dei pochissimi cronisti a prendere posizione a favore di Calabresi fu Enzo Tortora i casi della disgraziata giustizia italiana... -, allora corrispondente del Resto del Carlino. Tre: la peggiore di tutti, dal punto di vista etico e giornalistico, fu Camilla Cederna, ancora oggi santificata come grande penna (di costume forse, d'inchiesta per nulla, anzi), primo motore di quell'orrenda macchina del linciaggio che portò alla morte di Calabresi (si raccomanda la lettura del capitolo «Una maestra di giornalismo. Il metodo Cederna», sulle sue fallimentari inchieste, sia sul caso Calabresi sia sulla ancora più vergognosa vicenda che portò alle dimissioni di Giovanni Leone). Quattro: l'esilarante analisi filologica del libro Storia di Lotta Continua di Luigi Bobbio, dirigente del movimento marxista e figlio del celebre Norberto, che dà il senso del «caos ideologico e mentale di ragazzi che si autoimponevano un lavaggio del cervello anche lessicale che obnubilava ogni autonomia logico-concettuale». Cinque: l'annotazione che dei 757 firmatari della squadrista lettera contro Calabresi uscita sull'Espresso, solo due hanno fatto pubblicamente mea culpa: Norberto Bobbio e Paolo Mieli (e tutti gli altri?). Sei: il fatto che oltre agli articoli criminali Lotta continua pubblicava anche divertenti (?) vignette del commissario che insegna al figlioletto Mario a tagliare le teste dei rivoluzionari e a lanciare dalla finestra pupazzi di anarchici per preservare, da adulto, la tradizione torturatrice di famiglia. E ci fermiamo qui.
Omicidio Calabresi, Castelli: «La sinistra mi mise in croce per la grazia a Sofri, lui non la chiese mai». Il Dubbio il 15 maggio 2022.
L’ex ministro della Giustizia del secondo governo Berlusconi non accolse mai la richiesta, malgrado Ciampi avesse più volte manifestato la volontà di concederla
«Sono abbastanza vecchio da ricordare l’omicidio Calabresi, ero all’università, fu subito chiaro che si trattata di un omicidio vile, tipico dei campioni delle Br e dell’area terroristica di sinistra, usi a colpire alle spalle, killer che freddavano persone inermi». L’ex ministro della Giustizia del secondo governo Berlusconi, Roberto Castelli, tra i fondatori della Lega, ricorda così il clima in cui maturò, il 17 maggio del 1972, l’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi. Trenta anni dopo si ritrovò da ministro della Giustizia del governo Berlusconi a fare i conti con quella vicenda, negando più volte la grazia al leader di Lotta Continua Adriano Sofri, condannato nel frattempo come mandante dell’omicidio.
«Io – ricorda in un colloquio con l’Adnkronos Castelli – dopo la confessione di Marino, ritenuta credibile, attendibile e realistica, ritenni che la pena, quella condanna per i leader di Lc, fosse del tutto meritata, avesse tutte le ragioni del caso». Ma poi sulla sua scrivania arrivarono le richieste di grazia: «Per me non c’erano i termini per quel provvedimento – sottolinea l’ex guardasigilli – l’amnistia si concede per chiudere una stagione politica, un’era, come fece Togliatti nel ’46, qui parlavamo di grazia, che invece va prevista nei confronti di qualcuno che si ritiene abbia scontato una giusta pena e che si sia ravveduto, non mi pareva il profilo di Sofri».
Nel 2003 Castelli dice no, stessa cosa fa nel 2005. Nel frattempo il presidente della Repubblica Ciampi avvia la pratica per la grazia a Bompressi, firmata dal suo successore Napolitano nel maggio del 2006. «Una cosa incostituzionale, per me, anche se ci fu una sentenza della Consulta a favore, che grida ancora vendetta», sottolinea l’ex guardasigilli. Inoltre ribadisce oggi Castelli, tornando a Sofri «lui non ha mai fatto richiesta di essere graziato, troppa protervia, mentre la sinistra che mi mise in croce, ma a cui dissi sempre no, si mosse stranamente solo quando ministro ero io, con un governo di centrodestra, a guida Berlusconi». «Guarda caso – conclude – dopo quella stagione finirono le polemiche e nessuno tornò alla carica, tutti si dimenticarono di Sofri, non gliene fregò più nulla a nessuno».
I ripetuti inviti a dare corso alla richiesta di grazia, avanzati in maniera trasversale da esponenti della politica e della cultura, sono sempre stati respinti dal Ministro Castelli, malgrado Ciampi avesse nello stesso periodo più volte manifestato la volontà di concederla, tanto da giungere a un conflitto con il guardasigilli risolto poi dalla Corte Costituzionale che, con sentenza n. 200 del 18 maggio 2006, ha stabilito che non spetta al Ministro della Giustizia di impedire la prosecuzione del procedimento di grazia, ma esso è un libero provvedimento motu proprio del Capo dello Stato. Alla fine la grazia non fu concessa perché la sentenza fu emessa tre giorni dopo che Ciampi aveva concluso il suo mandato di Presidente della Repubblica.
Dagospia il 2 agosto 2022. Dal profilo Facebook di Gad Lerner
I miei auguri per gli 80 anni di Adriano Sofri sono finiti sulla prima pagina di “Libero”, “Il Giornale” e “La Verità”. Hanno trovato insopportabile che glieli abbia fatti in pubblico e che definissi la sua come una vita vissuta dalla parte giusta. Ai sentimenti di ostilità coltivati con spirito di rivincita -come se Sofri fosse stato un vincitore- non sono in grado di opporre altro che la mia pazienza. Ma una spiegazione di quel pensiero voglio aggiungerla.
Non solo nutro la profonda convinzione che Adriano Sofri non sia un assassino. E che sia stato esemplare il suo comportamento nei diversi gradi del processo Calabresi e nello scontare gli anni di detenzione a cui è stato condannato. Guardo all’insieme delle sue scelte, prima dalla parte degli oppressi e degli sfruttati in Italia; poi con l’impegno prolungato in Bosnia, in Kurdistan e in Ucraina. E ne traggo il bilancio di una vita vissuta dalla parte giusta. Il che naturalmente non vuol dire una vita priva di errori, ma di certo non meritevole del marchio d’infamia con cui lo vedo trattare ancora oggi solo perché rifiuta di starsene zitto.
Luigi Mascheroni per il Giornale il 2 agosto 2022.
Gad Lerner ieri ha twittato l'intwittabile: sotto una foto di Adriano Sofri ha scritto «Buoni 80 anni caro Adriano. Vissuti dalla parte giusta», che ovviamente è solo un modo per farsi insultare e, una volta ottenuto lo scopo, rilanciare un tweet vittimista in cui denuncia i fascisti che lo attaccano, come fece quando si presentò al raduno leghista a Pontida nel 2019...
Ma ciò che interessa, qui, è altro. È che nel tweet c'è tutta la prosopopea da superiorità antropologica di un demi-monde intellettuale che, non facendo mai i conti con le proprie colpe, riverbera sul presente della campagna elettorale le ombre peggiori del proprio passato.
Dalle firme contro il Commissario Calabresi ai brindisi per la gambizzazione di Montanelli, è facile arrivare a oggi e, sempre dalla parte giusta, considerare le destre in arrivo al governo quali avanguardie del Male, dunque - per necessità geometrica e etica - inevitabilmente dalla parte sbagliata. Corrado Formigli che prende un abbaglio social con un tweet sul nero ammazzato cercando di sciacallare la Meloni e Salvini ha comunque a disposizione un autorevole giornale della parte giusta per prendersi l'ultima parola.
È la parte giusta è quella che rimette a posto il linguaggio, perché non sia mai machista, sessista, fascista. La parte giusta è quella che premia il romanzo giusto, nel momento giusto, perché dice le cose giuste. È quella che promuove il giornalista giusto nella trasmissione giusta. È la parte giusta che a Sanremo mette in scena tutto il suo repertorio arcobaleno. È quella che, sola!, distribuiscono le patenti di legittimità politica e intellettuale. Dire «dalla parte giusta» - in senso traslato, metaforico, simbolico e di sostanza - è come dire «vi tengo nel mirino», voi che state dalla parte sbagliata. E la foto di Adriano Sofri, allora, dice tutto. Dice chi sta dalla parte giusta del mirino.
Adriano Sofri compie 80 e finisce nel tritacarne della campagna elettorale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Agosto 2022
“Buoni 80 anni caro Adriano. Vissuti dalla parte giusta”. Come uccidere un uomo, fingendosi, o credendosi suo amico. Adriano Sofri impegnato a scrivere sul Foglio di una guerra vera, in Ucraina, e a raccontare “La strage di Olenivka” con i prigionieri uccisi come topi in trappola. Non ha tempo per pensare al proprio compleanno del primo agosto, probabilmente, anche se il calendario gli dice che sono 80 proprio quel giorno. E intanto una piccola squallida guerricciola viene scatenata su di lui e contro di lui, sui social, con seguito su alcuni quotidiani del giorno successivo. L’iniziativa è del provocatore di provincia Gad Lerner, che di Sofri fu compagno in Lotta Continua e che gli fa gli auguri a modo suo. Nulla di amoroso né di sincero, come ci si aspetterebbe da un amico. E neanche un vero ricordo di sogni e bisogni vissuti insieme. Solo una punturina spocchiosa gettata in mezzo a una campagna elettorale che già puzza di antichi sfoghi tra fascismo e antifascismo.
Se voleva far male a Sofri, se voleva metter sale su antiche ferite, Lerner ci è riuscito benissimo. Anche se, essendo lui notoriamente un anaffettivo, forse non se ne è neppure reso conto. Che cosa ha voluto dire con quel tweet “Buoni 80 anni caro Adriano, vissuti dalla parte giusta”? Viene in mente un famoso titolo del manifesto, il quotidiano in cui Lerner transitò furbescamente e provvisoriamente mentre attendeva che cessassero le turbolenze nelle stanze dell’Espresso in cui la gran parte della redazione era contraria alla sua assunzione. Il titolo era “Vent’anni dalla parte del torto”. Era il 1991, il giornale di Rossanda e Pintor con quel titolo intendeva valorizzare la propria storia di giornale corsaro che ancora esisteva, dopo vent’anni dalla nascita, pur essendo considerato, dalla sinistra “ufficiale”, dalla parte del torto. Era un messaggio soprattutto agli uomini del Pds, gli eredi di quel Pci che aveva saputo affrontare il dissenso interno solo con le radiazioni del gruppo dirigente del manifesto. Una lezione difficile da capire, per uno come Gad Lerner. Che ha infatti trasformato quel concetto di “torto” nello stare dalla parte giusta. Quella dei buoni? O forse degli onesti, nella salsa grillina del Fatto quotidiano, il giornale cui Lerner collabora?
O siamo invece tornati alla superiorità morale della specie comunista e di sinistra? Tutti argomenti, questi, che hanno occupato ieri numerose colonne di quotidiani di orientamento centro-destra. C’era da aspettarselo, del resto, questo tipo di reazione. Siamo nel bel mezzo di una campagna elettorale cominciata male con la consueta richiesta di analisi del sangue da parte della sinistra più spocchiosa nei confronti di Giorgia Meloni. Che cosa di meglio che vedersi servito su un piatto d’argento un argomento come questo? Siamo nel caso tipico dell’esibizionismo del personaggio che nel 2019 andò nel pratone di Pontida dove era in corso la consueta manifestazione della Lega, nella speranza che qualcuno lo picchiasse e portò a casa la delusione dell’esser stato accolto nell’indifferenza generale. Anche ieri le principali attenzioni non sono state per lui. Luigi Mascheroni sul Giornale lo accusa blandamente di aver twittato l’intwittabile apposta per farsi insultare e poi denunciare i fascisti che lo hanno attaccato. Francesco Storace su Libero gli dà del “cicisbeo social”, che non è male, e conclude con un lapidario “inopportuno, pessimo, cinico”. Che per uno come Gad non sono per niente insulti. Siamo sicuri che non se la è presa, anche perché ai suoi occhi uno come Storace più che un giornalista, è semplicemente uno che sta dalla parte sbagliata. Quindi, meglio se è contro.
Ma il problema vero, in questa vicenda, quello che caratterizza la stupidità di certe iniziative dettate da superficialità ed esibizionismo di sé, è il grave danno che quella frase ha arrecato a Adriano Sofri e a qualunque battaglia, mai come in questo momento importante per il futuro del Paese, sulla giustizia. Tutto quello che Sofri ha costruito in questi anni, dopo la sentenza di condanna della Cassazione arrivata dopo infiniti processi indiziari e senza prove, la sua cultura, le sue passioni, la sua eccezionale capacità di scrittura sono evaporati come se l’orologio si fosse fermato quella mattina del 17 maggio 1972 in cui fu ucciso il commissario Calabresi. Così ci si domanda se stare dalla parte giusta della storia vuol dire sparare o comunque giustificare il terrorismo. Si apre il vaso di Pandora del famoso “album di famiglia” della sinistra, quella stessa che non vuol fare i conti con quella parte della propria storia. E questo è vero, ma andrebbe recitato in altro modo. In altro contesto.
Ma la miopia politica genera altrettanta miopia. E il manicheismo altro manicheismo. Così, ecco il titolo di Libero “La sinistra è sempre dalla parte sbagliata”, che fa proprio il paio con l’infelice frase di Gad Lerner. E, pur senza riflettere, il che sarebbe dovuto, su come si sono celebrati in Italia certi importanti processi, lo stesso direttore Sandro Sallusti, lancia una provocazione un po’ da brivido, nel giorno che è anche anniversario tragico della strage di Bologna. Se io, ha lanciato nel suo editoriale, avessi scritto la stessa cosa a Giusva Fioravanti, “mi sarei preso del terrorista e avrei trascinato nella gogna tutti i leader del centrodestra”. Così il discorso continua con la denuncia di due pesi e due misure. Tutti e due sbagliati, tutti e due perdenti. A nessuno viene in mente la vergogna di certe sentenze e di tutti gli imbrogli e le mancanze delle indagini e dei processi, fino agli ultimi, sulla strage di Bologna. Così come nessuno mette in discussione quelli sull’uccisione di Mario Calabresi. Non c’è tempo né modo. Diventa tutto un rinfacciarsi sui “compagni che sbagliano”, e assassini che diventano quasi eroi, perché stanno dalla parte giusta. Ma in questo modo, quella che sta uscendo dalla porta, mentre è entrata la stupidità, è proprio la giustizia. Bel lavoro, compagno Gad.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
"Dalla parte giusta? Mio padre...". Rita Dalla Chiesa bacchetta Gad. Marco Leardi il 2 Agosto 2022 su Il giornale.
La figlia del generale Dalla Chiesa replica indignata al messaggio con cui Lerner celebrava gli 80 anni di Adriano Sofri. "È proprio sicuro che lui era dalla parte giusta?"
La retorica di Gad Lerner smontata con un tweet. Stavolta, certo, non era difficile mettere il giornalista alle strette: quel suo messaggio di auguri dedicato via social ad Adriano Sofri aveva già suscitato abbastanza polemiche. A stigmatizzare le parole riservate all'ex leader di Lotta Continua ci ha poi pensato Rita Dalla Chiesa, figlia del grande e compianto generale Carlo Alberto. L'ex conduttrice Mediaset, ricordando l'operato del padre (che fu anche capo del nucleo speciale antiterrorismo), ha infatti rimproverato a Lerner di aver celebrato gli 80 anni di Sofri vissuti - a suo dire - "dalla parte giusta".
Affermazioni che già avevano provocato reazioni indignate, dal momento che il festeggiato in questione fu condannato a 22 anni di carcere (assieme a Giorgio Pietrostefani) come mandante dell'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, avvenuto nel 1972. "Dalla parte giusta? Ne è così sicuro? E glielo dice una figlia che ha visto combattere il proprio padre e i suoi uomini tutta la vita contro quella che lei definisce 'parte giusta'...", ha osservato Rita Dalla Chiesa su Twitter, rispondendo proprio al messaggio che Lerner aveva scritto in onore di Sofri.
Le parole dell'ex conduttrice Mediaset hanno ottenuto il plauso di diversi utenti, comprensibilmente infastiditi dal messaggio che il giornalista aveva pubblicato. "Stimatissima Rita Dalla Chiesa, la sua pacatezza le fa onore, davanti ad un post di uno squallore del genere", ha scritto un commentatore, Claudio. Per il momento, invece, non si sono registrate precisazione o repliche da parte di Lerner. Nelle ore precedenti, a criticare il giornalista dal fronte politico era stato anche l'esponente di Fratelli d'Italia Giovanni Donzelli. "Chi ha ucciso il Commissario Calabresi non è stato dalla parte giusta! E poi questi sinistri vorrebbero dare patenti di democrazia a noi…", aveva lamentato il deputato meloniano.
Per contro, in un paradossale sovvertimento delle norme del civile dibattito, nei giorni scorsi la stessa Rita Dalla Chiesa era stata presa di mira da sinistra con l'accusa di essersi schierata dalla parte ritenuta "sbagliata", ovvero a favore di Giorgia Meloni. L'ex conduttrice, sui social, aveva difeso la leader di Fratelli d'Italia dalle "cattiverie gratuite" e aveva attirato su di sé l'ira degli odiatori rossi da tastiera.
La caccia. Luca Fazzo il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.
Cinquanta anni fa l'omicidio di Luigi Calabresi, arrivato dopo un quotidiano e pubblico linciaggio. Vittime con lui di una campagna d'odio furono i due magistrati che condussero l'inchiesta sul suicidio di Pinelli. Come dimostra una lettera che "Il Giornale" pubblica per la prima volta.
«Mostruosità civile». «Infamia morale». È un giorno di cinquantuno anni fa quando due giovani avvocati milanesi decidono che la misura è colma. Luglio 1971, la strage di piazza Fontana è una tragedia ancora fresca. Nella città convulsa della contestazione si consuma un altro dramma: il linciaggio pubblico, quotidiano, del commissario Luigi Calabresi, che l'ultrasinistra e i salotti progressisti indicano come l'assassino dell'anarchico Giuseppe Pinelli, morto in questura tre giorni dopo la strage. Assieme al linciaggio del poliziotto, che culminerà nel maggio 1972 con la sua uccisione, se ne consuma un altro: parallelo, brutale, corollario inevitabile delle accuse a Calabresi. Quello di Giovanni Caizzi e Antonio Amati, i due magistrati che hanno indagato sulla fine di Pinelli, e che hanno concluso che l'anarchico si è ucciso, buttandosi dalla finestra della stanza al quarto piano della Questura dove lo stavano interrogando. È una conclusione che la sinistra non può accettare. Su Caizzi e Amati piove di tutto. Insulti, minacce. Lodovico Isolabella e Massimo De Carolis sono avvocati, ma anche esponenti di spicco della Democrazia Cristiana milanese. E decidono di mettere nero su bianco la loro indignazione per la «infamia morale» in corso ai danni dei due giudici.
La lettera non sortisce alcun effetto, liquidata in poche righe nelle cronache locali. Nelle settimane scorse, quando il cinquantesimo anniversario dell'assassinio di Calabresi costringe a rivisitare quei giorni, Isolabella recupera in un cassetto la vecchia lettera. È un documento che racconta molto sul clima che accompagnò e rese possibile la persecuzione di Calabresi, il conformismo trasversale che dietro allo slogan «La strage è di Stato» portò a criminalizzare innocenti servitori dello Stato. Come i giudici Caizzi e Amati e la loro, si legge nella lettera, «severa, coraggiosa, non propagandata ma anzi reietta fatica di persone libere e oneste».
La colpa dei due: avere - Caizzi come pubblico ministero e Amati come giudice istruttore - concluso che Pinelli si era buttato. «Invano il rappresentante del pm aveva avuto modo di sfatare volta a volta e con puntuale precisione quelle false notizie diffuse nel pubblico per inquinare la verità (e destinate tuttavia, a poco a poco, a radicarsi e diventare assiomatiche)». Poco conta che il documento chiave, la perizia autoptica, sia stata sottoscritta anche dal medico legale indicato dalla famiglia di Pinelli, Franco Mangili, e concluda che «le lesioni si accordano con la modalità lesiva da precipitazione descritta in atti». Irrilevante la considerazione che spinge i due magistrati a escludere che Pinelli sia stato pestato e poi buttato, visto che «la stanza in questione si trova esposta alla possibile osservazione da parte di chi abita gli ultimi piani dello stabile che fronteggia la questura», e che «non era velata da tende o da persiane. Tutto questo non conta per il «gruppo di uomini di cultura» che, sull'Espresso del 13 giugno 1971 prende di mira Caizzi e Amati, parlando di «indegna copertura», invocando «una ricusazione di coscienza rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni» e chiedendo «l'allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini».
Il documento che chiede la cacciata di Caizzi e Amati raccoglie rapidamente adesioni illustri: Lelio Basso, Ferruccio Parri, alti dirigenti della Resistenza. Adesioni «captate», scrivono i due avvocati milanesi, a un documento che è «perno di una macchinazione aggressiva contro un ganglio vitale dello Stato e contro gli uomini che - non piegandosi al vento che tira ma seguendo l'imperativo della verità alla luce della loro coscienza - tentano ancora di mantenerne integre le funzioni». «È un perno la cui lega consiste in bassezza morale e inesattezza storica».
L'intervento di Isolabella e De Carolis cade nel vuoto. Gli attacchi contro i due giudici continuano. Anche dall'interno del palazzo di giustizia. Il sindacato degli avvocati e procuratori scrive che «l'archiviazione del procedimento ha dato adito a ogni sorta di perplessità e sospetti» tali addirittura da coinvolgere «la credibilità delle istituzioni democratiche». Magistratura Democratica, la corrente delle toghe di sinistra allora agli albori, parla di «violazioni di legge verificatesi nella fase istruttoria sulla morte di Pinelli» e attacca «una prassi giudiziaria caratterizzata da collusioni, complicità, prevalere della ragion di Stato sulle ragioni di giustizia».
Le toghe rosse di Md non sono le sole a sposare, in quei mesi, la tesi del «delitto di Stato». L'indagine sulla morte di Pinelli chiusa da Caizzi e Amati (pochi anni dopo una inchiesta bis, condotta dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio, confermerà anch'essa l'innocenza di Calabresi) viene di fatto soppiantata da un processo parallelo. È quello nato dalla denuncia che Calabresi, ormai logorato da accuse e insulti, ha avuto la cattiva idea di spiccare contro Lotta Continua, il foglio dell'ultrasinistra che ogni giorno gli dà dell'assassino. Il processo a Pio Baldelli, direttore del quotidiano, si trasforma in una inchiesta bis sulla morte di Pinelli: del quale viene anche ordinata l'esumazione. Quando il 15 ottobre 1970 il povero Calabresi deve andare in aula a deporre nel processo contro i suoi calunniatori si trova quasi trasformato in imputato, in un'aula stracolma di anarchici che lo insultano e lo sbeffeggiano nell'indifferenza del giudice Carlo Biotti. Invano il difensore del commissario, Michele Lener, chiede al giudice di intervenire. Ma Biotti risponde: «Indubbiamente è un oltraggio. Ma come si fa a arrestare sessanta, settanta persone?». Così l'udienza va avanti, mentre nei corridoi estremisti e polizia si picchiano, e dentro Calabresi cerca di dare la sua versione: «Sarà stata mezzanotte e mezza quando si sentirono rumori indistinti provenienti dalla mia stanza, poi un grido, un tonfo. E poi alcuni sottufficiali che correvano per il corridoio gridando si è buttato"». Nell'aula è il finimondo, «assassino, non è vero» «buffone». Ma Biotti lascia proseguire l'udienza con l'aula trasformata in piazza e la vittima in accusato.
Poco dopo salta fuori che il giudice la sua idea se l'è già fatta. Lener, l'avvocato di Calabresi, denuncia che Biotti - di cui è buon amico - un giorno lo ha chiamato, e gli ha detto piatto piatto che secondo lui Pinelli è stato ammazzato in questura con un colpo di karatè al bulbo spinale. Lener ricusa il giudice, Biotti finisce sotto inchiesta, Magistratura democratica insorge a sua difesa. Ma Biotti deve lasciare il processo che passa a un altro magistrato, Antonino Cusumano.
Il 23 ottobre 1976 il giudice Cusumano condanna Pio Baldelli a un anno e tre mesi di carcere per diffamazione aggravata nei confronti di Calabresi. Ma per Luigi Calabresi è una vittoria postuma. Quattro anni prima il militante di Lotta Continua Ovidio Bompressi gli ha sparato alla nuca mentre usciva di casa per andare a lavorare. In questura, come tutti i giorni, senza scorta, sapendo perfettamente quel che lo aspettava.
"Volevamo difendere dei galantuomini che erano rimasti soli". Luca Fazzo il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.
Con Lodovico Isolabella è uno degli autori della lettera-testimonianza: "La borghesia moderata era sparita".
«Il clima era quello. Quando Calabresi venne ucciso, io che ero capogruppo democristiano in consiglio comunale, proposi che gli venisse attribuita la medaglia d'oro. Fu una discussione di dieci ore ma non ci fu niente da fare. Il sindaco, che era il socialista Aldo Aniasi, non ne volle sapere. Il Pci idem. Calabresi non poteva essere rispettato neanche da morto. Figuriamoci da vivo».
Sono passati cinquant'anni, e Massimo De Carolis la lettera che insieme al suo collega di partito Lodovico Isolabella scrisse in difesa dei magistrati che si occupavano del caso Pinelli, e che il Giornale pubblica oggi, se la ricorda bene. «Non ero particolarmente amico né di Caizzi né di Amati. Ma quella lettera si rese necessaria perché insieme al linciaggio pubblico contro Calabresi, additato come assassino di Pinelli, era partita una campagna violenta anche contro i magistrati colpevoli di avere concluso che Pinelli si era effettivamente suicidato. Caizzi e Amati, che erano due galantuomini, si erano ritrovati soli. E questo era una costante di quegli anni: la terrificante debolezza della borghesia moderata, una classe che aveva costruito la città e che sembrava fosse sparita. L'unica voce che si sentiva a Milano era quella della sinistra estremista e degli intellettuali che le andavano dietro. I milanesi moderati erano brave persone, ma la Camilla Cederna se li mangiava in un boccone. Il suo libro sulla morte di Pinelli, Una finestra sulla strage ebbe un peso decisivo nella criminalizzazione di Calabresi. Io avevo la scorta, e il mio agente era amico di quello che scortava la Cederna. E gli raccontò che il giorno in cui Calabresi venne ammazzato la Cederna pianse tutte le sue lacrime. Sapeva di averne una parte di colpa».
Lei conosceva Calabresi?
«Ero amico sia suo che del suo capo, Antonino Allegra, perché mi avevano salvato dal sequestro organizzato dalle nascenti Brigate Rosse, trovando in tempo il covo dove avrei dovuto essere tenuto prigioniero. Ho assistito in diretta al massacro mediatico quotidiano, martellante, cui vennero sottoposti. Le conclusioni dell'indagine di Caizzi e Amati, che li scagionava, era come se non ci fossero state, anzi erano la prova della complicità dello Stato. Sparare su Calabresi era come sparare sulla Croce Rossa, perché quelli che avrebbero dovuto difenderlo erano isolati e inermi di fronte a questa ondata».
Era una Milano plumbea.
«Ogni sabato i cortei spaccavano tutto e cercavano di assaltare la sede del Corriere. Il direttore Spadolini nel fine settimana si trasferiva a Roma per paura degli attacchi alla redazione. Andò a finire che lo licenziarono e lo sostituirono con Piero Ottone, che era un fuoriclasse e che ai contestatori sapeva fare l'occhiolino».
Secondo lei cosa successe in questura la notte in cui morì Pinelli?
«Io non c'ero, ma due cose le so per conoscenza quasi diretta. La prima è che la testimonianza di Cornelio Rolandi, il tassista comunista che aveva incastrato Valpreda per la bomba di piazza Fontana, era nata in modo genuino. Fu un mio collega di partito, il professor Paolucci, che per caso aveva preso il suo taxi, a raccogliere lo sfogo di Rolandi. Pensi che quello lì l'ho portato io alla banca, era agitato, mi ha fatto fare un giro dell'ostrega. Fu Paolucci a dire a Rolandi che non poteva tenersi quel peso addosso, che era suo dovere andare in questura e raccontare tutto».
E l'altra cosa qual è?
«Il vicequestore Allegra era un siciliano di poche parole. Il ministero degli Interni decise di toglierlo dall'Ufficio Politico di Milano e lo spedirono a dirigere un posto di polizia alla frontiera con la Svizzera. Era chiaramente una punizione. Lui venne da me e disse: io sono un povero poliziotto e lei è l'unico in questa città che mi ha difeso. Allora voglio dirle che una capacità so di averla: so riconoscere quando un alibi è falso. E l'alibi di Pinelli era falso».
Dagospia il 18 maggio 2022. Dalla bacheca facebook di Adriano Sofri
Nell’anniversario dell’omicidio di Luigi Calabresi, 50 anni oggi, ho raccolto e messo da parte (letto no, mai troppo zelo) le cose diverse pubblicate sui giornali o altrove. Con l’elementare funzione di google: Sofri-Calabresi, cerca. E’ così che ieri mi sono venuti fuori i link con il “Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri. Centro Nazionale di Selezione e Reclutamento”, il centro che presiede ai concorsi per il reclutamento nell’Arma e ai corsi interni per sottufficiali e ufficiali. La mia presenza là dentro, ripetuta nel corso degli anni, fa parte dei “Test per la preparazione alla prova preliminare”, suggeriti ai concorrenti: sono migliaia di quiz di vario argomento, con l’avvertimento che “Le risposte esatte sono quelle contraddistinte dalla lettera A”. Ecco il test che mi riguarda:
Adriano Sofri è stato condannato all'ergastolo:
A) per l'omicidio Calabresi
B) per l'omicidio del Generale Dalla Chiesa
C) per l'attentato a Giovanni Paolo II
D) per la strage di Bologna
(Che cosa sarà stato degli aspiranti carabinieri i quali per qualche singolare circostanza sapessero che non sono stato condannato all’ergastolo?)
Iuri Maria Prado per “Libero quotidiano” il 18 maggio 2022.
Nell'anniversario dell'assassinio di Luigi Calabresi, Adriano Sofri decide di intervenire in argomento e ieri, sul Foglio, si duole d'aver trovato scritto, perlustrando la rete internet, che lui sarebbe stato condannato all'ergastolo.
Si tratta senz' altro di un'inesattezza (perché Sofri non è stato condannato all'ergastolo ma a un paio di decenni di prigione), e ovviamente la vittima di una simile imprecisione ha tutto il diritto di dolersene. Tanto più se, come in questo caso, il condannato alla (diversa) pena ha sempre protestato la propria innocenza. Ma, come si dice, c'è un ma. D'accordo la puntualizzazione sull'entità della condanna. D'accordo il pieno di diritto di proclamarsi innocenti pur contro una sentenza che dice il contrario (solo gli imbecilli dicono che "le sentenze non si commentano", come se fossero il giudizio di dio). D'accordo parlare di te anziché di quello che, secondo la sentenza, hai fatto ammazzare. Ma santa pace, proprio in quel giorno?
Ammettiamo pure che tu sia innocente, ma proprio nel giorno in cui sono cinquant' anni da quando quel disgraziato è stato lasciato per terra, freddato da quel piombo assassino, tu prendi carta e penna e proprio ieri, proprio quando si ricorda quella vita spaccata, proprio quando, forse, sarebbe il caso di guardare altrove, tu te ne vieni fuori con "Io, io, io..."? Mah.
Stefano Zurlo per “il Giornale” il 18 maggio 2022.
È incredibile, ma il giorno delle celebrazioni è anche vigilia di udienza. A Milano si commemora Luigi Calabresi a 50 anni dalla sua morte, a Parigi Giorgio Pietrostefani si prepara alla resa dei conti. Oggi ci sarà udienza e l'ex dirigente di Lotta Continua sulla carta potrebbe essere estradato in Italia.
È la coda di uno dei procedimenti giudiziari più accidentati e controversi della storia patria e a questo, come se non bastasse, si aggiunge la protezione sciaguratamente accordata ai fuoriusciti italiani dalle autorità francesi. La cosiddetta dottrina Mitterand che ha garantito per decenni una latitanza tranquilla e impenetrabile a decine di ex terroristi, autori di atroci delitti fra gli anni '70 e '80.
Pietrostefani ha approfittato di questo scudo e, fra un verdetto e l'altro, è scappato a Parigi dove nessuno l'ha disturbato per lungo tempo. Poi l'anno scorso il vento è cambiato: il 28 aprile 2021 è stato arrestato e quindi posto in libertà vigilata in attesa di una decisione che ora, dopo tredici mesi di attesa, potrebbe finalmente arrivare.
Comunque vada, siamo fuori tempo massimo. «Giorgio Pietrostefani - ha scritto ieri sul Corriere della sera Mario Calabresi, giornalista, ex direttore di Repubblica e figlio di Luigi - oggi ha 78 anni e da venti è latitante in Francia. Verrebbe da dire che siamo tutti, la nostra famiglia e la società italiana, prigionieri della cronaca».
Possibile che questo terribile omicidio, l'ouverture degli anni di piombo, galleggi ancora sui giornali e non trovi finalmente posto nei libri di storia? «Mia madre - prosegue Calabresi - ha insegnato a me e ai miei fratelli a non odiare, a non coltivare il rancore ma a guardare la vita con fiducia e serenità. Per questo, pur giudicando importante e preziosa anche se tardiva, la decisione francese di non garantire ospitalità a chi si macchió di reati di sangue negli anni '70, noi crediamo che il carcere di un uomo vecchio e malato oggi non abbia più alcun senso. Più importante sarebbe avere da lui e dai suoi compagni di lotte parole di verità».
Pietrostefani ha subito un trapianto di fegato e nel caso dovesse essere spostato in Italia è facile immaginare quel che potrebbe accadere: una successione di certificati medici, visite di specialisti, trasferimenti in clinica per scontare i 14 anni che ancora gli mancano su un totale di 22.
Le indiscrezioni che rimbalzano dalla capitale francese vanno tutte in questa direzione: l'ex dirigente delle Officine Reggiane è ricoverato in ospedale, sarebbe intrasportabile, insomma all'orizzonte si profila un nulla di fatto, forse un rinvio per rivalutare più avanti le sue condizioni di salute.
Si, ormai è tardi per i tempi della giustizia. Sarebbe invece l'ora di far sentire la voce della verità: nessuno, a parte il pentito Leonardo Marino, l'autista del commando assassino, ha mai raccontato dall'interno la vera storia di questo crimine.
Due fatti sono certi. L'idea di ammazzare Calabresi maturó nel perimetro di Lotta Continua, fra Adriano Sofri e Pietrostefani, con Ovidio Bompressi killer: il commissario era considerato dall'ultrasinistra il killer dell'anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura di Milano, in un cupo intrecciarsi di tragedie, nel corso dei drammatici interrogatori seguiti alla strage di Piazza Fontana.
Forse fu un malore, forse fu un incidente, forse fu spinto. Ma dalle testimonianze sappiamo che in quel momento, la sera del 15 dicembre 1969, Calabresi non era nella stanza con Pinelli. E invece da quel giorno il poliziotto comincia a morire, vittima di una violentissima campagna di linciaggio. Sappiamo anche che molti, oltre ai quattro condannati, sapevano e sanno cosa accadde quella mattina ormai lontana in via Cherubini, nel cuore di Milano.
Nessuno ha mai parlato, nessuno ha mai aperto uno spiraglio di luce su quel passato doloroso, tutti hanno sempre difeso con le unghie l'innocenza degli imputati e hanno provato a ridimensionare e svalutare il racconto coraggioso di Marino. Sarebbe ora, prima di voltare pagina, di consegnare quella pagina di sangue all'Italia.
Omicidio Calabresi, Pietrostefani assente all'udienza per l'estradizione. Daniele Dell'Orco il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.
L'ex membro di Lotta Continua, fuggito da oltre vent'anni in Francia, non si è presentato in Tribunale. L'avvocato: "È malato, non riesce a stare in aula. La richiesta dell'Italia? Una caricatura".
Giorgio Pietrostefani non si è presentato oggi all'udienza per l'estradizione e la decisione è stata rinviata di nuovo al prossimo 29 giugno. Così ha stabilito la Corte d'Appello di Parigi.
Il fondatore di Lotta Continua, che fu tra gli organizzatori dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto il 17 maggio del 1972, ha 78 anni ed è malato da tempo. Da qui il motivo della sua assenza (prevedibile) e della richiesta del suo avvocato, Ire'ne Terrel, di respingere la richiesta dell'accusa.
Più in generale, Terrel intende aggiungere alle precarie condizioni di salute del suo assistito, anche le tempistiche con cui si è arrivati al processo e alla documentazione presentata dallo Stato italiano, definita "una caricatura": "Basta così, sono passati 50 anni dall'omicidio. In più, tra il fatto e l'accusa sono passati 16 anni. Tra l'arrivo di Pietrostefani in Francia e la richiesta di estradizione, inoltre, sono trascorsi altri 20 anni. E Pietrostefani adesso è un uomo malato, che non riesce a stare in aula", ha spiegato Terrel ai giudici.
Ha inoltre ricordato che anche Mario Calabresi, figlio del commissario, ha ammesso che "ormai la condanna non ha quasi più senso". L'ex direttore di Repubblica, a margine della cerimonia organizzata in occasione del 50esimo anniversario dall'omicidio del padre, ha detto: "Ci siamo molto interrogati su questo [la richiesta di estradizione, NdR]. Oggi a noi che un uomo di 78 anni malato vada in carcere non restituisce più niente. È importante dal punto di vista simbolico ma per noi non ha quasi più senso. Io non ho fatto il lavoro che ha fatto mia madre che è un percorso di perdono, ho fatto un percorso di pacificazione e ho imparato a non coltivare la rabbia".
Al contrario, ieri il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, intervenendo durante la ricorrenza, aveva parlato di "udienza importante".
Pietrostefani, tra i mandanti del commando che freddò a colpi di pistola il commissario davanti casa sua, fu poi manager delle Officine Reggiane, e venne arrestato a Reggio Emilia nell’agosto 1988, 16 anni dopo l'omicidio. Venne condannato a 22 anni di carcere ma nel 2000 fuggì in Francia da latitante. Solo nel gennaio scorso, i francesi hanno deciso di estradarlo in Italia.
Omicio Calabresi il buio cala sul Paese. Il titolo: «La sfida criminale all’Italia». Annabella De Robertis il 18 Maggio 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.
È il 18 maggio 1972. È iniziata l’ora più buia dell’Italia repubblicana: quasi tre anni dopo l’attentato alla Banca nazionale dell’Agricoltura di Milano, consumatosi il 12 dicembre 1969, è ancora il capoluogo lombardo a macchiarsi di sangue. Il commissario Luigi Calabresi è stato ucciso con due colpi di pistola inferti alle spalle, davanti alla sua abitazione. «Una sfida criminale all’Italia democratica» titola La Gazzetta del Mezzogiorno, che pubblica in prima pagina, come gran parte dei quotidiani nazionali, anche le foto della salma della vittima e dell’auto, una Fiat 125 blu, su cui è fuggito l’assassino.
Nato a Roma nel 1937, Calabresi vince il concorso da vice-commissario di Polizia e nel 1968 diventa commissario aggiunto a Milano: qui segue diverse indagini, tra cui quelle collegate alla morte di Giangiacomo Feltrinelli, e alcune inchieste sulle Brigate rosse. Il giorno della strage di Piazza Fontana è tra i primi a entrare nella Banca dopo l’esplosione della bomba. Inizialmente privilegia la matrice anarchica dell’attentato, ma questo comporta l’inizio di un lungo calvario. Giovanni Valentini ricostruisce sulla Gazzetta gli ultimi mesi di vita del giovane poliziotto: «”Calabresi sarai suicidato”. L’inquietante minaccia perseguitava il Commissario da più di due anni. Non c’era manifestazione di piazza in cui i movimenti extraparlamentari di estrema sinistra rinunciassero a ripetere l’ossessiva intimidazione. Anche l’infamante soprannome di “commissario finestra” aveva la stessa origine: la vicenda Pinelli, l’anarchico che pochi giorni dopo la strage di piazza Fontana morì nel cortile della questura di Milano dopo essersi lanciato – secondo la versione ufficiale – dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi, durante un interrogatorio. La polizia sostenne la versione del suicidio. Per i “gruppuscoli”, invece, si trattò di un altro episodio della strage di Stato. Calabresi fu, per così dire, l’imputato principale di quell’accusa. Il settimanale di estrema sinistra Lotta continua avviò contro di lui una furibonda campagna diffamatoria».
A soli trentacinque anni, Luigi Calabresi lascia una giovanissima moglie, due figli maschi e un altro in arrivo: «“Non mollate, non mollate!” ripeteva tra i singhiozzi la vedova ai funzionari di polizia in ospedale. “Mi hanno ammazzato l’uomo migliore” ha detto in lacrime il questore di Milano». Ancora troppi, all’indomani del feroce omicidio, gli interrogativi a cui urge dare risposta: «Chi è stato? Chi può aver interesse a “far fuori” Calabresi? Una rappresaglia per la morte di Feltrinelli? Un complotto internazionale?».
Il mistero Falange Armata. Redazione L'Identità il 18 Novembre 2022 di Michele Mengoli
L’Italia dei misteri ha il suo “buco nero” nella Falange Armata, che difatti è pressoché sconosciuta. Si tratta di una rete eversiva di “menti raffinatissime” – agenti segreti, forze dell’ordine, malviventi e torbidi affaristi, supervisionati da benevoli sguardi nazionali e internazionali – protagonista della stagione terroristica che germina a metà degli anni Ottanta e inizia ufficialmente l’11 aprile 1990 a Milano con l’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, prosegue con altri omicidi, attentati e stragi, comprese quelle del 1992-93 (Capaci, D’Amelio, Georgofili, Palestro e gli attentati alle chiese di Roma), e finisce insieme alla Prima Repubblica, con una sorta di “Bollettino della Vittoria”, diffuso poche settimane prima delle elezioni politiche del ’94.
Di pubblico – e oggettivo – ci sono i comunicati falangisti che tra il ’90 e il ’94 rappresentano l’originale sceneggiatura di attentati, omicidi e stragi che insanguinano l’Italia, rivendicando 48 omicidi – con almeno altri 12 che le sono comunque riconducibili – assieme a decine di feriti e alla distruzione di beni di inestimabile valore artistico. Mentre è ben più difficile spiegare perché questo consorzio eversivo non sia stato contrastato dallo Stato.
Le cause sono due: la gigantesca alluvione di depistaggi e le indagini che, in buona o cattiva fede, si sono sempre e soltanto indirizzate sui singoli fatti. I depistaggi hanno offuscato la visione del concatenamento degli eventi e le indagini sui singoli fatti, in quanto tali, non hanno mai portato a nulla, se non all’arresto, nei casi più fortunati, di alcuni esecutori materiali, in una superata e inefficace distinzione fra criminalità, mafia ed eversione; e non sulla strategia complessiva, che puntava alla deriva autoritaria istituzionale.
Come se la lista della P2 non fosse mai stata scoperta, come se non fosse mai stato scoperto l’Anello, l’agenzia supersegreta al servizio dei servizi segreti, i falangisti sono impunemente entrati nella Seconda Repubblica non solo mantenendo i loro ruoli di funzionari nelle istituzioni e nei servizi ma, molto probabilmente, guadagnandone altri, ben più importanti, come minimo nell’indifferenza di chi doveva contrastarli.
Questa vicenda incredibile, sconosciuta e mistificata, che ha contribuito a edificare l’Italia di oggi, l’abbiamo raccontata – con Giovanni Spinosa – nel libro La Falange Armata. Storia del golpe sconosciuto che ha ridisegnato l’Italia, pubblicato da Piemme a marzo 2022. Il suo passaparola, adesso, ha generato una scintilla importante. Stefano Mormile, fratello della prima vittima della Falange Armata, l’eroe borghese Umberto, lo scorso 29 ottobre, al Teatro della Filarmonica di Corciano, durante un dibattito a tema organizzato dal Movimento delle Agende Rosse, ha ufficializzato la nascita dell’Associazione delle vittime della Falange Armata, con l’adesione eccellente di Salvatore Borsellino. Come in altri casi, tra i tanti misteri d’Italia, può essere un passo decisivo per la riscrittura di alcune pagine fondamentali di storia contemporanea, tuttora sconosciute.
Falange armata e depistaggi dietro la morte del maresciallo della Folgore. Gianluca Zanella il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Una storia dimenticata, un caso riaperto dopo 26 anni che apre squarci inquietanti. Tra Gladio, bombe, Falange armata e una lista di nomi redatta dall'ambasciatore Francesco Paolo Fulci.
Un corpo giace scomposto, incastrato tra gli scogli. Quaranta coltellate su tutto il corpo: tendini di braccia e gambe recisi, gola tagliata. E infine, come se non bastasse, quasi a voler cancellare ogni traccia di umanità da quel cadavere martoriato – o forse come gesto di spregio finale – un’enorme pietra a schiacciargli il cranio.
È il 13 giugno 1995, siamo a Livorno, sul litorale del Romito. È questa la scena che si trova davanti un bambino tedesco, il primo a rinvenire il cadavere di Marco Mandolini. Una fine brutale e misteriosa, come misterioso era il lavoro della vittima, che in famiglia parlava poco o niente e che solo qualche giorno prima di finire massacrato, aveva confidato alla sorella che temeva di essere ucciso.
Marco Mandolini era un militare. Non un militare qualsiasi. Nome in codice “Kondor” o “Ercole”, era sottufficiale della Folgore in forza al Sismi, il servizio segreto militare; parlava diverse lingue, tra cui l’arabo e il russo; era un addestratore esperto ma – soprattutto – era stato fino a poco tempo prima il capo scorta del generale Bruno Loi nella missione Ibis, in Somalia. Difficile che un uomo del genere – un “Rambo”, come veniva considerato dai suoi commilitoni – potesse farsi sorprendere da uno o più balordi appostati tra gli scogli, non lui che per mestiere doveva proteggere un generale in uno degli scenari di guerriglia urbana più caldi dell’epoca (ricordiamo la battaglia del Check-point “Pasta” che si svolse il 2 luglio 1993 a Mogadiscio). Mandolini conosceva il o i suoi assassini. Ne è convinto Francesco, il fratello.
A distanza di 26 anni dai fatti, nel settembre 2021 il caso è stato riaperto dal gip di Livorno a seguito della richiesta dei familiari di non archiviare. C’è una nuova pista. Una di quelle piste che, se da un lato potrebbero gettare luce su uno dei cold case meno noti della nostra cronaca più o meno recente, dall’altro rischiano (e sarebbe un bene correrlo, questo rischio) di aprire uno squarcio su uno dei periodi più oscuri della nostra storia repubblicana. Parliamo di bombe, parliamo di stragi, parliamo di un periodo a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e il 1993. Insomma, la nuova pista sembra portare dritta nel cuore di Gladio, o meglio, in quello di una sua devianza, di quel network criminale che prende il nome di Falange armata.
Una pista individuata sin dal 2018 dal criminologo Federico Carbone e oggi perseguita da lui e dall’avvocato Dino Latini, che affiancano la famiglia in questa difficile impresa. Viene spontaneo chiedersi cosa sia stato fatto nell’arco di questi decenni, quali siano state le piste battute nel passato.
Nell’immediatezza dei fatti – ci racconta Carbone – vennero battute due piste: quella finanziaria, che voleva Mandolini al centro di un grosso giro di soldi e di una truffa a danno di alcuni suoi commilitoni, e quella dell’omicidio passionale. Una storiaccia tra omosessuali. Quest’ultima pista, in particolare, è stata percorsa con convinzione anche per la testimonianza di un commilitone di Marco, un suo amico, che parlerà di fronte ai giudici addirittura di una relazione sentimentale tra loro due. Torneremo su questo commilitone, ma intanto possiamo dire una cosa: una nostra fonte riservata – che il mondo militare e, nello specifico, del Sismi lo conosce per esperienza diretta – ci dice che quando bisogna inquinare i pozzi, depistare, infangare una persona collegata all’ambiente militare, la migliore carta da giocare è proprio quella dell’omosessualità. È così oggi, figuriamoci nel 1995.
Sempre nell’immediatezza dei fatti, si disse che Marco era andato su quegli scogli per fare un bagno. Peccato che quel giorno il tempo – come ricostruito da Carbone e Latini – non fosse decisamente adatto e che Marco indossasse mocassini e calzini di spugna. Il fratello, Francesco, è convinto che non ci sia nulla di vero in queste ricostruzioni, crede anzi che Marco non sia stato ucciso lì, ma che lì sia stato trasportato in seguito. E allora dove potrebbe essere avvenuta l’aggressione fatale?
Marco Mandolini era di stanza in Germania, impegnato nell’addestramento delle truppe Nato. Si trovava a Livorno temporaneamente ed era appoggiato presso la caserma Vannucci. Secondo Francesco Mandolini è lì che si potrebbe essere consumato l’omicidio. Anche lui proveniente dal mondo militare, aggiunge un altro dettaglio: “Dal suo alloggio è scomparsa l’alta uniforme e la sciabola. È un fatto emblematico, un gesto di sfregio”. La convinzione dei familiari è sempre stata quella che il movente e gli assassini di Marco andassero cercati nel suo ambiente lavorativo, questo anche per l’atteggiamento dei suoi commilitoni e delle sfere di comando: “Si chiusero a riccio – ci dice Francesco – quando è risaputo che in reparti come quello della Folgore la fratellanza e il cameratismo sono una componente molto forte, soprattutto di fronte a una morte così orribile”.
Arriviamo dunque al 2021 e alla riapertura di indagini mai effettivamente chiuse, ma altrettanto – fino a oggi - mai veramente decollate. Chiediamo al criminologo Federico Carbone in cosa consista questa nuova pista: “Arrivo a Mandolini nel corso di un lavoro più ampio, che consisteva in uno studio della vicenda Li Causi”.
Vincenzo Li Causi, militare appartenente alla VII Divisione del Sismi, capocentro della base Skorpione di Trapani, famosa (e famigerata) postazione di Gladio, morto a Balad, Somalia, il 12 novembre 1993. Ufficialmente per un’imboscata. Una vicenda, quella della morte di Li Causi, che si lega a un altro duplice omicidio, quello della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin.
Come è riuscito a dimostrare Carbone, Marco Mandolini e Vincenzo Li Causi si conoscevano molto bene. Così come si conoscevano Mandolini e la Alpi.
Una conoscenza, quella con Li Causi, che sconfinava probabilmente nell’amicizia, se è vero che poco prima di morire Marco Mandolini confida sempre alla sorella che non era convinto della dinamica della sua uccisione: “Marco aveva cominciato ad avviare indagini riservate e parallele sulla morte del commilitone” ci confermano sia Carbone, sia Francesco Mandolini. È da questo dettaglio che è iniziato il lavoro di indagine che ha portato alla riapertura del caso. Ed è in questo contesto che s’inserisce una vicenda dai contorni torbidi, che coinvolge l’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, morto proprio pochi giorni fa a 91 anni, e la sua famosa “lista”.
A capo del Cesis (l’organo di coordinamento tra Sismi e Sisde) dal 1991 al 1993, andreottiano di ferro, l’ambasciatore Fulci – all’indomani della bomba esplosa in via Palestro (27 luglio 1993), consegnò all’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e alla Dia una lista di 15 nomi. La stessa lista consegnata alla sua famiglia, con la raccomandazione che se gli fosse accaduto qualcosa, il nome dell’assassino sarebbe stato probabilmente tra quei nominativi.
Questa lista contiene nome, cognome e grado di militari tutti collegati a Gladio, tutti appartenenti alla VII Divisione del Sismi che, subito dopo la sua divulgazione, viene sciolta. Gli uomini della lista sono l’elite delle nostre forze armate: uomini con una preparazione incomparabile, tutti grandi esperti di esplosivi. Uomini su cui fece approfondimenti un grande conoscitore delle trame dello Stato come Giuseppe De Lutiis. Il sospetto – mai veramente chiarito e oggetto di diversi approfondimenti in sede giudiziaria che non hanno portato a una risposta chiara – è che questa lista rappresentasse il cuore occulto, operativo, criminale di Gladio: la Falange armata.
Una lista in cui figurano – tra gli altri – Vincenzo Li Causi e quello stesso militare che, due anni dopo, dichiarerà di aver intrattenuto una relazione omosessuale con Marco Mandolini.
“Al di là della veridicità o meno di questa teoria che tira in ballo la Falange armata, ci siamo trovati di fronte a collegamenti che non potevano essere ignorati”, ci spiega Carbone. Da un lato le indagini parallele che Marco Mandolini stava eseguendo sulla vicenda Li Causi, dall’altro la presenza nella “lista Fulci” dello stesso Li Causi e della persona che indirizzerà le indagini sulla morte di Mandolini verso la pista omosessuale. Ma ad accreditare una vicinanza tra Mandolini e Li Causi ci sono anche le carte. Ci spiega sempre Carbone: “Alcuni documenti, quelli che per ora possiamo divulgare, provengono dalla produzione Palladino/Scalettari [i giornalisti Francesco Palladino e Luciano Scalettari], nell’ambito del procedimento Rostagno [Mauro Rostagno, ucciso nel 1988]”.
Questi documenti – di cui vi mostriamo un interessante estratto – dimostrano l’operatività in tandem di Mandolini e Li Causi. Nello specifico, nel documento che potete vedere, datato 9/11/1989, si parla dell’accreditamento dell’operatore “Ercole” (alias di Mandolini) presso la Oto Melara per un delicato trasferimento – verosimilmente di armi – da La Spezia al centro Skorpione di Trapani. Nello specifico, nel documento (sulla cui autenticità non si è ancora giunti a una conferma indiscutibile, ma che non è mai stato rigettato dai vertici dei servizi come falso) si richiede la presenza, alla consegna del materiale, del capo centro “Vicari”, alias di Vincenzo Li Causi.
Gli elementi fin qui descritti hanno permesso la riapertura delle indagini nel settembre 2021. Ci sono però ulteriori piste che gli investigatori stanno vagliando e su cui per adesso è necessario mantenere il più stretto riserbo. L’unica cosa che possiamo affermare con certezza, è che si tratta di elementi tali che potrebbero mettere addirittura in discussione il giorno del decesso.
Continueremo a seguire gli sviluppi di questa vicenda con attenzione, nella certezza che non si tratterà di un percorso semplice e con l’intima convinzione che da stanotte, dopo la scomparsa dell’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, qualcuno dormirà sogni più tranquilli.
Gianluca Zanella nasce a Roma. Editor e agente letterario, collabora dal 2015 con alcune tra le principali realtà editoriali italiane. Già collaboratore e inviato per AISE (Agenzia internazionale stampa estera), dal 2021 collabora con il Giornale.it occupandosi di inchieste. È fondatore del format
La falange armata in Calabria e in Italia, il network del terrore che pochi conoscono. Intervista al giudice Giovanni Spinosa autore di un libro bomba. PAOLO OROFINO Il Quotidiano del Sud l'1 Aprile 2022.
Giovanni Spinosa, magistrato, da giudice e pm, durante la sua carriera ha affrontato inchieste delicatissime come quella che portò all’arresto dei componenti della famigerata “banda della Uno bianca” e da presidente del maxiprocesso alla ‘ndrangheta del clan Muto di Cetraro, in provincia di Cosenza. Ha scritto diversi libri e l’ultimo suo lavoro è stato pubblicato pochi giorni fa. Finalmente abbiamo uno strumento per comprendere uno dei peggiori buchi neri della Repubblica. Quello della Falange Armata che ha operato anche in Calabria.
Giudice Spinosa, dal 29 marzo è in libreria il suo nuovo libro, scritto assieme al giornalista Michele Mengoli.
Cos’era la Falange Armata di cui il libro racconta la storia mettendo molti brividi a qualunque cittadino lo legga?
«Una rete eversivo-terroristica di “menti raffinatissime”, composta da 50-60 persone – agenti segreti, forze dell’ordine, malviventi, torbidi affaristi – che viene costituita alla fine del 1985 ed è destinata a tessere le trame più nere della Repubblica per quasi un decennio. Inizia a seminare terrore dall’’87. Prende il nome di Falange Armata nel 1990. Quindi, con omicidi, attentati e stragi, comprese quelle del 1992 e 1993, mina le basi della Prima Repubblica stringendo anche un’alleanza con le cosche mafiose. Sono uomini più fedeli alla loro idea di Stato che a quella sancita dalla Costituzione, che hanno voluto imporre al nostro Paese una deriva in chiave plebiscitaria e personalistica refrattaria ai meccanismi di una democrazia basata sulla centralità dei momenti di partecipazione popolare alla formazione del consenso».
La Calabria è coinvolta nei delitti della Falange Armata in tre occasioni. La prima è l’omicidio del giudice Scopelliti.
«Antonino Scopelliti era il Sostituto Procuratore Generale presso la Cassazione nel maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino. Il suo omicidio, avvenuto a Campo Calabro il 9 agosto 1991, potrebbe far pensare a un favore della ‘ndrangheta a Cosa Nostra. In realtà, nella annuale riunione di ‘ndrangheta del settembre ’91 alla Madonna dei Polsi, si parla di guerra allo Stato. La Falange Armata, che di questa guerra ha il copyright, nell’agosto del ’91 è nel pieno della seconda fase, quella dedicata alla ricerca di alleanze con gruppi italiani e stranieri. La narrazione falangista svela come l’omicidio Scopelliti sia stato l’atto di adesione della ‘ndrangheta al progetto eversivo. Infatti, nella rivendicazione del delitto, la Falange Armata ne assume la “paternità politica e morale”, ma non quella “militare”.».
C’è poi l’omicidio dell’ispettore Salvatore Aversa e della moglie Lucia Precenzano avvenuto in pieno centro a Lamezia il 4 gennaio 1992, in occasione del primo anniversario della strage del Pilastro a Bologna in cui vennero assassinati 3 carabinieri.
«In effetti, in ossequio alla propria cultura evocativa, la Falange Armata ricorda il delitto del Pilastro nelle prime due rivendicazioni intervenute subito dopo l’eccidio dei coniugi Aversa. Ma la rivendicazione veramente importante è quella del 9 gennaio. Per capirne il significato dobbiamo andare alla notte successiva, quella fra il 5 e il 6 gennaio. A Surbo, in provincia di Lecce, una bomba al tritolo, firmata Sacra Corona Unita, ferma, fortunatamente senza vittime, il treno degli emigranti che tornavano al lavoro in Svizzera e Germania dalle vacanze natalizie. Ebbene, il 9 gennaio, la Falange, con un unicum nei suoi moltissimi comunicati, accomuna l’eccidio dei coniugi Aversa e l’attentato di Surbo nella stessa rivendicazione. Cos’hanno in comune i due delitti? Nelle indagini sull’eccidio di Lamezia, dopo alterne vicende processuali, si individuano i due killer; sono malviventi di Taranto venuti ad uccidere in Calabria. Insomma, killer e bombe della Sacra Corona Unita che, incredibilmente e senza alcuna ragione apparente, la Falange Armata accomuna in una unica rivendicazione».
Poi ci sono i tre attentati alle pattuglie dei carabinieri in provincia di Reggio Calabria dal 1° dicembre 1993 al 1° febbraio 1994 in cui, il 18 gennaio 1994, vengono assassinati i carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo.
«Siamo nel momento conclusivo della 4° e ultima fase della Falange Armata. È una vicenda complessa squadernata dall’acume e dalla professionalità di investigatori, pubblici ministeri e giudici che hanno operato negli uffici giudiziari di Reggio Calabria. C’è un aspetto che, più di altri, merita di essere ricordato perché pone l’accento sulla unitarietà degli attentati della Falange Armata, dall’11 aprile 1990, quando a Milano viene assassinato Umberto Mormile, al 1° febbraio 1994, data dell’ultimo degli attentati ai carabinieri a Reggio Calabria. Si tratta della singolare assonanza con le vicende della Uno Bianca».
A proposito di unitarietà, Lei divide le vicende della Falange Armata in quattro fasi; è una sua interpretazione?
«No; è la stessa Falange Armata che, nel comunicato del 27 luglio 1992 con cui rivendica la strage di via D’Amelio, divide la propria attività in varie fasi: la prima, dall’omicidio Mormile all’eccidio dell’armeria a Bologna del 2 maggio 1991, la seconda fino al disarmo del commando falangista che aveva agito in Emilia Romagna avvenuto il 29 agosto 1991, che segna la effettiva fine del periodo terroristico della Uno bianca, la terza, quella della militarizzazione del territorio, che dura fino al 2 febbraio 1993. Quel giorno, un comunicato falangista annuncia la quarta e decisiva fase, che è quella dell’attacco al cuore dello Stato che si conclude con una sorta di “bollettino della vittoria” diramato prima delle elezioni politiche del 27 marzo 1994».
Qualcuno, in Calabria, si ricorda di lei quando, con alterne fortune, frequentava il circolo scacchistico di Campora San Giovanni. Da scacchista, come giudicherebbe la strategia della Falange Armata.
«Giocatori straordinari, menti raffinatissime in una partita drammatica in cui i pedoni, i cavalli e gli alfieri sono persone innocenti, forze dell’ordine ed eroi borghesi che muoiono davvero. Le torri sono monumenti che vengono effettivamente demoliti, la regina è una Repubblica tradita e il re è un giocatore che abbandona la partita senza nemmeno giocarla».
La falange armata. Storia del golpe sconosciuto che ha ridisegnato l’Italia di Giovanni Spinosa e Michele Mengoli-Piemme. 18 euro
· Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, NAR (Nuclei armati rivoluzionari).
Marco Giusti per Dagospia il 29 novembre 2022.
“Il fascismo è morto?” - “Assolutamente no. Il fascismo è eterno.” “Cambiato?” - “Prendetemi così o ammazzatemi, perché non ho nessuna voglia di cambiare”. Chi parla così è Mario Tuti, nome ben noto del terrorismo nero, fondatore del Fronte Nazionale Rivoluzionario, in prigione dal 1975, condannato a ben due ergastoli dopo tre omicidi e una serie di attentati ferroviari, ora in regime di semilibertà.
Durissimo, senza l’ombra di qualsiasi dubbio o esitazione nel raccontare se stesso, Mario Tuti è il protagonista assoluto di un potentissimo documentario passato al Torino Film Festival, “Corpo dei giorni” ideato e diretto da un collettivo di cinque trentenni, “Santabelava”, che sono Henry Albert, Saverio Cappiello, Gianvito Cofano, Niccolò Natalii e Nikola Lorenzin, che entrano piano in piano in scena nel documentario affrontando direttamente Tuti, che risponde sempre a tono, inflessibile e terribile, un macigno.
Li vede come dei fighetti milanesi che nulla sanno dei tempi della lotta armata. “Voi mi vorreste salvare, ma io non ho alcun bisogno di essere salvato, non ne ho alcuna necessità, non ne ho alcuna voglia”. Tuti oggi è un bel signore d’età che ha passato dietro le sbarre gran parte della sua vita, dal 1975, quando lo hanno catturato, al 2013, l’anno in cui è entrato in regime di semilibertà. E che non ha paura di nulla. Nel 1981, assieme a Pier Luigi Concutelli, uccide un altro fascista, Ermanno Buzzi, considerato un infame.
Di quest’omicidio sentiamo una descrizione fredda, beffarda e violentissima ripresa al processo. La stessa freddezza la sentiamo quando legge la sua pagina Wikipedia, che trova “piena di cavolate” (”mai stato a Ajaccio!”), o certe dichiarazioni che riguardano un suo qualche dolore. Ma mai un pentimento. Lo esclude, “Al massimo posso provare dolore per le mie vittime che sono state anche loro vittime delle circostanze, vittime di una guerra”.
Oggi è ravveduto? Per nulla. “Non ho mai avuto rimorso per quello he ho fatto”. Dubbi? Nessuno, “Io ho solo certezze”. Magari se si fosse dichiarato pentito lo avrebbero già fatto uscire. Ma non lo farà. “Più facile reggere le botte che il peso dell’umiliazione”. “Un amico mi ha detto, vedi Mario se non fossi finito in carcere saresti stato il solito empolese, ricco, stronzo e contento. Esattamente l’immagine di quello che poteva essere il mio destino”. Ma riconosce che magari sua figlia sarebbe stata più contenta, conclude.
Capiamo che è in lotta col mondo e con se stesso da sempre. Ai registi del collettivo, bravi ragazzi di sinistra, che si ostinano a cercare di stabilire un qualche rapporto umano con lui, risponde duramente “Non potete giudicarmi se non avete fatto quello che ho fatto io… Ma voi cosa cazzo avete fatto… ma chi cazzo siete… avete mai visto gli occhi di qualcuno che avete ammazzato… avete mai sentito la sentenza che ti condanna all’ergastolo… avete trent’anni… io a trent’anni le avevo già fatte tutte, compreso sentirmi chiudermi dietro i cancelli del carcere per sempre”. Assolutamente da vedere.
Il venerabile ricatto. Report Rai PUNTATA DEL 24/01/2022 di Paolo Mondani. Collaborazione di Roberto Persia.
Bologna, 2 agosto 1980: la più grande strage della storia repubblicana. Report ha intervistato testimoni storici, esponenti dell’eversione nera, collaboratori di giustizia, dirigenti dei servizi segreti dell’epoca, magistrati.
Il 24 gennaio iniziano le votazioni per il nuovo Presidente della Repubblica: il supremo garante della Costituzione. Quel giorno andrà in onda una puntata di Report sul nostro passato più oscuro per ricordare chi siamo stati. E quanta verità manca per realizzare un articolo della Costituzione, dove la verità è definita il diritto fondamentale di una società democratica. A Bologna si sta concludendo il processo sui mandanti della strage. Quarant’anni fa. 2 agosto 1980. 85 morti e 200 feriti. Il processo ancora in corso ricerca l'identità del criminale che ha realizzato la più grande strage della storia repubblicana. Già condannati con sentenza definitiva come esecutori i terroristi neri Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, e Gilberto Cavallini in primo grado. Oggi alla sbarra, imputato per concorso nella strage con l’accusa di aver procurato l’esplosivo, è l’estremista di destra e killer di ‘ndrangheta Paolo Bellini. Ma la Procura Generale ha individuato quattro nomi, quattro presunti mandanti e finanziatori della strage: al vertice sarebbe stato il capo della loggia P2 Licio Gelli, che attraverso il suo banchiere di fiducia Umberto Ortolani avrebbe veicolato finanziamenti agli esecutori materiali e a una rete incaricata del depistaggio delle indagini, che faceva capo all’ex direttore del «Borghese» Mario Tedeschi, e a Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Report ha intervistato testimoni storici, esponenti dell’eversione nera, collaboratori di giustizia, dirigenti dei servizi segreti dell’epoca, magistrati. Il punto di partenza è la morte di Piersanti Mattarella, l’esponente democristiano siciliano legatissimo ad Aldo Moro che verrà ucciso il 6 gennaio del 1980. Giovanni Falcone indagò sulla morte di Mattarella, e oggi Report è in grado di rivelare particolari importanti su quelle indagini e sull’esistenza di un verbale fino a oggi sconosciuto che riguarda Paolo Borsellino. Il generale Pasquale Notarnicola, capo dell’antiterrorismo del Sismi nel 1980, ha voluto rilasciare all’inviato Paolo Mondani una importante intervista pochi giorni prima di morire. Ha raccontato dall’interno i depistaggi effettuati da uomini del Sismi per allontanare la verità sui responsabili della strage di Bologna, descrivendo i mandanti e da chi ricevevano gli ordini da fuori Italia.
IL VENERABILE RICATTO Di Paolo Mondani Collaborazione Roberto Persia Ricerca Immagini Alessia Pelagaggi Immagini Dario D’India, Andrea Lilli e Alessandro Spinnato Montaggio e grafica Giorgio Vallati
PAOLO BELLINI C'è chi per un bacio ha preso 500 milioni. Se io avessi fatto o avessi parte e arte nella strage di Bologna come collaboratore avrei chiesto miliardi
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Mio padre? In una parola? Il diavolo
ROBERTO SCARPINATO - PROCURA GENERALE PALERMO Le indagini di Falcone su Mattarella segnano una svolta nella sua vita e lo perdono.
IRMA CHIAZZESE - MOGLIE DI PIERSANTI MATTARELLA Il killer di Piersanti Mattarella è Giusva Fioravanti.
FILIPPO BARRECA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sono omicidi politici voluti dalla Dc.
MOMMO GIULIANA - EX DIRIGENTE DC PALERMO La mafia a mio giudizio ha dato il consenso.
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Il Movimento Sociale Italiano, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Europa e Civiltà hanno marciato divisi e hanno colpito uniti. Non sono stati loro a decidere la strage di Bologna, questi l’hanno eseguita la strage.
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO D’Amato non era un personaggio da farsi usare, semmai usava.
PASQUALE NOTARNICOLA - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE DEL SISMI Gelli che viene tanto magnificato io lo ritengo un prestanome.
PAOLO BOLOGNESI - PRESIDENTE DELL’ASSOCIAZIONE DEI FAMILIARI DELLE VITTIME DELLA STRAGE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA Ringraziamo anche tutti quei giornalisti coraggiosi e impegnati, che come i redattori della trasmissione televisiva Report, oppongono le risultanze delle indagini giudiziarie e della ricerca storica al potente fronte di innocentisti.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un applauso che condividiamo con tutti coloro che hanno contribuito e contribuiranno alla verità. Era il 2 agosto del 2021, 41° anniversario della strage di Bologna. Quella che il Presidente Pertini ha definito “l’impresa più criminale della storia della repubblica”. Ora, alla verità si può arrivare anche 41 anni dopo e dopo cinque processi, due sono ancora in piedi. Questo grazie alla digitalizzazione di milioni di atti giudiziari, sono quelli che sono stati raccolti dai processi per terrorismo e quelli sulle stragi che si sono consumate in Italia dal 1974 ad oggi. Li hanno raccolti, riletti e confrontati i legali dell’associazione dei parenti delle vittime della strage e i magistrati della Procura Genrale di Bologna. E dalla rilettura è emerso, sono emersi quattro nuovi presunti mandanti, organizzatori delle stragi. La P2 con Licio Gelli avrebbe pagato, attraverso il banchiere Ortolani, il senatore dell’Msi Mario Tedeschi, direttore anche del “Borghese” e il capo dell’ufficio degli affari riservati del Viminale, Federico Umberto d’Amato, la più nota spia dal dopoguerra ad oggi. E tutto questo l’avrebbe fatto Gelli per organizzare e depistare sulla strage di Bologna. Ora, quei quattro sono morti e non saranno mai processati mentre gli esecutori materiale della strage sono stati condannati con sentenza definitiva e sono Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, entrambi dei NAR (Nuclei armati rivoluzionari). E anche ai NAR, apparteneva, appartiene Gilberto Cavallini che è il quarto esecutore della strage condannato però in I° grado. Ora però da un filmato girato da un turista svizzero emerge dal passato un volto che si aggira su un binario, proprio quello coinvolto dalla bomba, dieci minuti prima che esplodesse, quel volto apparterrebbe a Paolo Bellini che secondo gli inquirenti è il quinto esecutore della strage. Paolo Bellini è un ladro di opere d’arte, è stato killer per Avanguardia Nazionale, ha ucciso anche per conto della ‘ndrangheta. Il padre Aldo, convinto fascista, appartenente alla folgore lo aveva indirizzato a collaborare con i servizi di sicurezza. Lui si è sempre detto estraneo alla strage di Bologna, tuttavia era stato coinvolto inizialmente e poi prosciolto nel 1992. Ha goduto di coperture istituzionali e familiari incredibili e ora c’è il colpo di scena e il velo, l’alibi che l’ha coperto per oltre quaranta anni è caduto. E se ti sei perso qualcosa, cerchi qualcosa di importante, il luogo migliore per cercarlo è il labirinto. Il nostro Paolo Mondani.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La strage di Bologna sembra un film di fantascienza perché parla di un tempo pietrificato. I muri di un labirinto. Tutto accadde 41 anni fa. La memoria è smembrata in un intrico di vie. Smarrita dentro un enigma apparentemente insolubile. Eppure oggi la foschia si dirada e siamo vicini alla verità sui mandanti della strage. Giunti al centro del mistero, nel punto più oscuro e profondo del nostro passato inizia la via del ritorno. E un passo alla volta risaliamo il grande labirinto. Bologna Corte di Assise, sta andando a testimoniare Maurizia Bonini la moglie di Paolo Bellini sotto processo per strage. Le viene mostrato un filmato realizzato alla stazione di Bologna nei minuti a cavallo dell’esplosione.
UDIENZA CORTE D’ASSISE BOLOGNA 21/07/2021 UMBERTO PALMA - SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE BOLOGNA Fermi! Questo è un primo fotogramma. Senta signora Bonini vede quel signore con i baffi e con la catena a destra nell’immagine?
MAURIZIA BONINI - EX MOGLIE PAOLO BELLINI Sì. UMBERTO PALMA - SOSTITUTO PROCURATORE GENERALE BOLOGNA Si può esprimere su questa persona?
MAURIZIA BONINI - EX MOGLIE PAOLO BELLINI Mi sembra mio marito. È Paolo. È Paolo perché ha qua, la, qua questa fossetta qua, comunque si vede, avrà i capelli più indietro ma comunque è lui. Anche nella foto immagine che è stata passata nel telegiornale lo riconosco ancora meglio che nel movimento.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questa l'immagine del filmato confrontata con la foto di Bellini dell'epoca.
PAOLO MONDANI La sua mamma si viene a scoprire che aveva permesso a Paolo Bellini di avere un alibi, diciamo così, per Bologna quel mattino e l’ha tenuto fermo diciamo, ha tenuto botta per quest’alibi più di trentacinque anni. Voglio dire…..
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Io le posso garantire una cosa, che mia madre aveva un grande timore. Questo è poco ma sicuro
PAOLO MONDANI Un grande?
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI …timore e paura di lui e della sua persona. Gli chiese se aveva avuto a che fare qualcosa con Bologna, se lui c’entrava, e credo proprio che lui le abbia detto “assolutamente io con Bologna non c’entro niente”. E poi se lo rivede nella foto e lo riconosce e dice: "Cavolo questo è lui"."…..
PAOLO MONDANI Nel video addirittura.
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Nel video anche e dice cavolo questo è lui, evidentemente.
PAOLO MONDANI Le è cascato il mondo addosso.
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Beh probabilmente sì.
PAOLO MONDANI È proprio lei che all'Archivio di Stato di Bologna trova il filmato girato in Super8 dal turista svizzero Harold Polzer il 2 agosto '80 proprio alla stazione.
ANDREA SPERANZONI - AVVOCATO PARTE CIVILE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE La cosa che mi aveva colpito era nell'indice degli atti l'orario di quel Super8 girato al primo binario della stazione cioè quello investito dallo scoppio, ore 10 e 13. Quindi qualcuno aveva filmato dodici minuti prima della strage il binario. E lì ci siamo imbattuti in un volto, nel volto che poi è stato, comparativamente con la foto segnaletica di Paolo Bellini indicato come compatibile con quello del principale imputato della strage.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo la Procura Generale di Bologna Paolo Bellini è il quinto uomo della strage del 2 agosto 1980 dopo le condanne definitive di Francesca Mambro, Giusva Fioravanti, Luigi Ciavardini e il primo grado di Gilberto Cavallini. Tutti della formazione terroristica dei Nar. Bellini, militante di Avanguardia Nazionale, fu ladro d'arte e killer per una cosca della 'Ndrangheta. Per alcuni anni sfruttando protezioni istituzionali mantenne la finta identità di Roberto Da Silva. In carcere nell'81 conobbe il boss di Cosa Nostra Nino Gioè. E dopo la strage di Capaci del 1992, con la copertura dei carabinieri, imbastì con Cosa Nostra una strana trattativa.
UDIENZA CORTE D’ASSISE BOLOGNA 01/10/2021 PAOLO BELLINI - UDIENZA CORTE DI ASSISE BOLOGNA 1 OTTOBRE 2021 Pensi un po', c'è chi per un bacio ha preso 500 milioni. Il famoso bacio di Totò Riina, il famoso bacio di Andreotti. Se io avessi fatto o avessi parte e arte nella strage di Bologna come collaboratore avrei chiesto miliardi, non 500 milioni. Avrei chiesto di andare sulla luna e mi ci avrebbero portato sulla luna. Però non ho niente a che spartire con questa situazione.
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Se mio padre ha fatto una determinata carriera è chiaro che aveva delle spiccate doti naturali. Non gliene è mai fregato niente di nessuno perché è una persona incapace di amare.
PAOLO MONDANI Me lo dica in una parola, che figura era suo padre?
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Mio padre? In una parola? Così mi svela il libro, mi svela il titolo del libro: il diavolo. Se vuole che le dica che cosa era mio padre: era il diavolo. Io l’ho conosciuto, ma davvero!
PAOLO MONDANI Quando esce il suo libro?
GUIDO BELLINI - FIGLIO DI PAOLO BELLINI Non esce perché nessuno lo vuole fare.
SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO È il diavolo dice il figlio, mentre l’ex moglie dopo 40 anni toglie il velo sull’alibi. Ecco, lo aveva coperto fino ad oggi per paura, perché non c’è da scherzare con Paolo Bellini. Era stato infiltrato dall’allora colonnello del Ros, Mario Mori, all’interno di Cosa Nostra. Lui aveva riallacciato i rapporti con Antonino Gioè, uomo di cosa nostra lo aveva conosciuto in carcere. Quel Gioè che aveva rapporti diretti con Totò Riina e che aveva partecipato alla strage di Capaci nel 1992, solo che Bellini lo incontra nel ’91 ad Enna. Proprio nel luogo, nel periodo in cui Cosa Nostra sta pianificando la stagione stragista. Bellini con Gioè inizia anche una timida trattativa: un occhio di riguardo per quei boss vecchi e malati che sono in carcere in cambio si recuperavano le opere d’arte rubate. Solo che alla fine dell’infiltrazione Bellini non ha recuperato alcuna opera d’arte ne ha fermato le stragi, ne ha contribuito ad arrestare dei mafiosi. Quindi è diventata una sorta di figura misteriosa, forse la più misteriosa del periodo stragista. Ha fatto realmente l’infiltrato o ha inoculato magistralmente l’idea in Cosa Nostra che fare gli attentati al patrimonio artistico del paese avrebbe pagato? Perché da lì a poco ci sarebbe l’attentato a Georgofili, San Giovanni e a San Giorgio al Velabro. Mentre invece Gioè che aveva dialogato con lui si uccide misteriosamente in carcere. Secondo il pentito Di Carlo l’uccisione di Gioè invece sarebbe stata opera dei servizi segreti avrebbero impedico così che parlasse e raccontasse la sua verità. Ogni tanto emerge quel filo nero perché Bellini riemerge dal passato in un filmato girato da un turista svizzero che lo immortala mentre passeggia sui binari 10 minuti prima dell’esplosione della bomba. Quel volto apparterrebbe secondo gli inquirenti a Paolo Bellini. Ogni tanto rispunta questo filo nero che congiunge uomini dell’estrema destra, servizi segreti, P2 e anche uomini di Cosa Nostra. Era stato proprio Licio Gelli negli anni ’70 a volere l’infiltrazione degli uomini più rappresentativi di Cosa Nostra all’interno delle logge diramazioni della P2. Questo per controllare il territorio. Nel luglio del 1980 proprio due degli autori materiale della strage, Francesca Mambro e Valerio Fioravanti si recano in Sicilia presso un loro amico Francesco Mangiameli. Quel Mangiameli neofascista palermitano che poi dichiarerà, racconterà ad un altro neofascista Alberto Volo che l’autore della strage di Bologna era stato proprio Valerio Fioravanti. E gli racconterà anche altro, che Valerio Fioravanti era stato il killer di Piersanti Mattarella, il fratello di Sergio, ucciso sette mesi prima della strage di Bologna.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Facciamo un salto nel passato. Località Tre Fontane, provincia di Trapani, siamo a fine luglio del 1980, pochi giorni prima della bomba di Bologna. Francesca Mambro e Valerio Fioravanti esecutori della strage, sono qui in vacanza, a casa di Ciccio Mangiameli, noto estremista di destra siciliano. Lo uccideranno nel settembre successivo perché secondo i giudici bolognesi Mangiameli si era dissociato dal progetto della strage. E volevano ammazzargli anche moglie e figlia.
PAOLO MONDANI Perché pensavano che Mangiameli ed altri avessero i rapporti coi servizi segreti, la polizia…
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Ma che c'entra uccidere mia figlia, che c'entra?
PAOLO MONDANI Perché poteva sua figlia o lei aver partecipato a delle riunioni.
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Ma quali riunioni?
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Io, diciamo, lo contrastavo, dicevo ma tu perché fai questa politica? che cosa vuoi…
PAOLO MONDANI Ah, lei contrastava Fioravanti?
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Sì. Una volta gli ho detto: ma tu da bambino eri maltrattato? Perché visto che maltratti…"Io sono stato trattato benissimo". Ma, ci dissi, non mi sembra. PAOLO MONDANI Lei non ha mai dubitato che quel signore che si chiamava Fioravanti, che aveva ucciso persino suo marito si fosse occupato anche dell'omicidio di Piersanti Mattarella?
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI No.
PAOLO MONDANI E allora perché lo hanno ucciso suo marito?
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Fiore dice che ce l'aveva con loro, che voleva eliminarli tutti.
PAOLO MONDANI Che Fioravanti voleva eliminarli tutti?
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Sì. PAOLO MONDANI E perché secondo lei signora?
ROSARIA AMICO - MOGLIE DI CICCIO MANGIAMELI Ma Fiore dice che non approvavano quello che facevano, che fomentavano i ragazzini…
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La signora Rosaria Amico cita Roberto Fiore che scappò a Londra poco dopo la strage di Bologna e fu condannato per l'appartenenza ai NAR nel 1985. Sospettato di essere agente del servizio segreto britannico, Fiore tornò in Italia a fine anni '90 perché i suoi reati erano caduti in prescrizione. Fondatore di Forza Nuova, è stato arrestato in seguito all'assalto della sede della CGIL del 9 ottobre scorso durante la manifestazione dei No Green Pass. Ma torniamo a Piersanti Mattarella, presidente democristiano della Regione Sicilia ucciso il 6 gennaio 1980, omicidio del quale inizialmente verranno accusati Fioravanti e Cavallini. Del caso si occupò intensamente Giovanni Falcone che nel 1989 interrogò l'estremista di destra Alberto Volo.
ROBERTO TARTAGLIA - VICE CAPO DAP - EX PM INDAGINI OMICIDIO MATTARELLA Stefano Alberto Volo è il miglior amico di Francesco Mangiameli. Quello che Volo alla fine verbalizza con Giovanni Falcone in estrema sintesi è questo: che lui ha saputo da Mangiameli che l’omicidio di Piersanti Mattarella è stato realizzato da Fioravanti e da Cavallini. Che questa decisione nasce da una volontà politica e massonica, che lui ascrive direttamente in quei verbali alla volontà di Licio Gelli, di arginare definitivamente l’apertura a sinistra della democrazia cristiana e di interrompere con il nuovo tentativo di riprendere il vecchio discorso lasciato tragicamente in sospeso con il sequestro Moro. Dice anche Alberto Volo a Giovanni Falcone, e siamo nell’89, quando viene sentito da Giovanni Falcone che tutte queste cose lui le sa non solo perché è amico di Mangiameli, ma perché appartiene a una organizzazione paramilitare di servizi italiani e americani che lui definisce Universal Legion, non parla di Gladio…
PAOLO MONDANI Però ci assomiglia molto.
ROBERTO TARTAGLIA - VICE CAPO DAP - EX PM INDAGINI OMICIDIO MATTARELLA Però ci assomiglia molto e c’è un dato, lo stesso Volo la definisce in un verbale, era una specie di Rosa dei Venti, ma più articolata e complessa.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Gladio e l'omicidio Mattarella furono l'assillo di Giovanni Falcone prima di essere ucciso il 23 maggio del '92. Nell' '88 e nel '90 Falcone ribadirà alla Commissione Parlamentare Antimafia che credeva nella pista nera. E non solo. Scopriamo un verbale straordinario. Alberto Volo poco prima di morire, il 14 luglio 2016, viene interrogato da Roberto Tartaglia e Nino di Matteo. E rivela un fatto assolutamente inedito. Afferma di essere stato sentito da Paolo Borsellino dopo la morte di Falcone. A giugno del '92. I due parlarono della fase esecutiva della bomba di Capaci. "Scoprii che Borsellino non credeva alla teoria del bottoncino" dice Volo. E cioè alla tesi del telecomando della strage premuto dai mafiosi. Borsellino insomma era certo che la mafia non aveva fatto la strage da sola. E forse per questo era così importante far sparire la sua agenda rossa.
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Le indagini di Falcone su Mattarella segnano una svolta nella sua vita e lo perdono. Sino ad allora lui si era guadagnato l’inimicizia della mafia, dei riciclatori della mafia, ma con le indagini sull’omicidio Mattarella aggiunge anche un altro nemico, e cioè quel sistema criminale che era stato protagonista della strategia della tensione.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché Falcone rimane folgorato dall’inchiesta sulla morte di Piersanti Mattarella? Perché nell’89 aveva incontrato il neofascista Alberto Volo il quale gli aveva aperto un mondo. Volo rivela quello che aveva raccolto a sua volta da Mangiameli e cioè il fatto che il mandante dell’omicidio di Piersanti Mattarella era stato Licio Gelli e gli esecutori Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini. Poi Volo racconta anche a Falcone chi sono i killer di Mangiameli, i fratelli Fioravanti e Francesco Mambro perché temevano che rivelasse la verità sul loro ruolo nell’omicidio di Mattarella ma anche sulla strage di Bologna, perché dice Volo a Falcone è opera sua, è opera di Valerio Fioravanti. Falcone intuisce di essere davanti agli stessi mandanti ed esecutori della strage di Bologna. Comincia a incontrare Volo in modalità segreta fuori dalla Procura. A luglio dell’anno scorso la Commissione Antimafia ha desegretato un documento rimasto a lungo coperto risalente a una audizione di Falcone risalente al giugno del 1990 nella quale il magistrato ha risposto alle domande a raffica dei parlamentari che chiedevano spiegazioni sugli omicidi dei politici in particolare quello di Piersanti Mattarella. Falcone mostrò di credere già da allora nella pista dell’eversione di destra. Disse di credere alla versione di Irma Chiazzese, moglie di Piersanti Mattarella che aveva identificato in Valerio Fioravanti il killer del marito. Crede soprattutto alla versione di Cristiano Fioravanti fratello minore di Giusva, Valerio, e dice: guardate che l’omicida di Piersanti Mattarella è lui perché me lo ha confidato mio fratello stesso. Ora Falcone in quella sede non poteva certo dire che aveva incontrato qualche mese prima Alberto Volo. Poi c’è il verbale rimasto inedito del luglio del 2016 quando Volo incontra i magistrati Tartaglia e Di Matteo e dice le stesse cose che aveva detto a Falcone: il ruolo di Fioravanti nell’omicidio di Piersanti Mattarella, il ruolo di Licio Gelli e anche raccontò dell’omicidio di Mangiameli. Poi Volo disse anche altro a quei magistrati. Disse che apparteneva alla struttura Gladio, disse di esser pagato dai servizi segreti, disse di aver incontrato i boss di Cosa Nostra e anche Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore. Poi colpo di scena disse anche di aver incontrato il giudice Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci e prima della strage di via D’Amelio mentre stava indagando sulla morte dell’amico Giovanni. Borsellino, disse Volo ai magistrati, dimostrava di conoscere le mie dichiarazioni a Falcone e soprattutto capì in quel momento che Borsellino non credeva che a premere il telecomando della strage di Capaci fosse stata solo la mafia. Ecco noi ci chiediamo, ma Borsellino quell’incontro con Volo lo ha segnato, lo ha appuntato sulla agenda rossa? Quello che si evince da questi verbali inediti è intanto che Falcone e Borsellino avevano preso sul serio la pista dell’eversione di destra, quella dei servizi segreti, quella della P2 dietro quegli attentati e gli omicidi ai politici che venivano invece solitamente attribuiti solo a Cosa Nostra. Nel 1991 Falcone firma la requisitoria sugli omicidi politici nella quale c’è scritto, vengono identificati come gli autori dell’omicidio di Piersanti Mattarella, Fioravanti e Cavallini i due che avevano anche chiesto una mano a Cosa Nostra per liberare dal carcere dell’Ucciardone Pierluigi Concutelli il leader di Ordine Nuove che aveva ucciso il giudice romano Occorsio, il primo che aveva intuito che dietro le stragi c’era l’eversione di destra, i servizi segreti la P2. Lo aveva anche scritto al giudice Imposimato, pochi mesi dopo venne ucciso da Pierluigi Concutelli.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini nel 1999 verranno definitivamente assolti dall'accusa di aver ucciso Piersanti Mattarella nonostante la signora Irma Chiazzese, moglie di Piersanti, presente nel momento cruciale dell'omicidio avesse riconosciuto proprio Fioravanti.
CORTE DI ASSISE PALERMO (23 GIUGNO 1992) IRMA CHIAZZESE - MOGLIE DI PIERSANTI MATTARELLA Io ho presente molto spesso il volto dell'uomo che sparò a mio marito la mattina del 6 gennaio. Ho presente gli elementi che caratterizzavano quel volto: la carnagione chiara, i capelli castani e soprattutto gli occhi, quegli occhi che mi hanno subito colpita e che ricordo ancora. Posso dire con quasi certezza che il killer di Piersanti Mattarella è Giusva Fioravanti.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ma c'è di più. Cristiano Fioravanti, fratello minore di Giusva, anch'egli militante dei NAR, aveva iniziato a collaborare già nel 1981, immediatamente dopo il suo arresto.
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Cristiano Fioravanti vuole chiarire a sé stesso chi veramente era il fratello, e lui dice io so perché me lo ha confidato lui stesso, che Valerio Fioravanti ha ucciso un politico siciliano, che quindi identifica in Piersanti Mattarella, insieme a Gilberto Cavallini e racconta alcuni particolari di questo omicidio.
PAOLO MONDANI Perché neppure Cristiano viene creduto ad un certo punto?
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Come lui stesso dichiara su di lui si sviluppa una pressione fortissima da parte del padre, degli altri famigliari perché non accusi il fratello. E allora ad un certo punto ammette: io mi avvalgo della facoltà che il codice di procedura penale dà ai famigliari di non testimoniare e non rendere dichiarazioni nei confronti dei propri parenti.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel gennaio del 2021, la sentenza di primo grado che ha condannato Gilberto Cavallini come il quarto uomo della strage riscrive la storia dell'omicidio Mattarella. Ritiene credibili le dichiarazioni di Cristiano Fioravanti e dice che "non è stato solo un omicidio di mafia, ma anche un omicidio politico che comprendeva convergenze operative fra mafia e "antistato". Resta da capire: perché la mafia avrebbe dovuto incaricare due estremisti di destra di commettere l'omicidio dell'esponente democristiano?
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Guardi che i rapporti fra la mafia e la destra eversiva sono risalenti nel tempo. È stato accertato processualmente il coinvolgimento della mafia nel golpe Borghese. E parliamo di un progetto di golpe del 1974, e poi ancora nel progetto di golpe del 1979 quando Sindona viene in Sicilia e con l’appoggio di alcune componenti dell’amministrazione statunitense pensa di fare un golpe separatista in Sicilia, anticomunista, da poi estendere in Italia.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Fu proprio Cristiano Fioravanti a rivelare lo scambio fra i NAR e la mafia: dopo l'omicidio Mattarella Cosa Nostra avrebbe dovuto collaborare all'evasione del leader ordinovista Pierluigi Concutelli, all'epoca detenuto nel carcere dell'Ucciardone per aver ucciso il giudice romano Vittorio Occorsio che aveva scoperto i legami fra la P2 e la destra eversiva.
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Non soltanto, ma Pierluigi Concutelli risultò iscritto alla loggia Camea di Palermo dove era iscritto il cognato di Stefano Bontate, importante capomafia, e dove era iscritto anche un funzionario della regione siciliana, che secondo le dichiarazioni di Alberto Volo fu uno dei basisti dell’omicidio Mattarella.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO E chi meglio di Totò Riina poteva sapere dei rapporti tra massoneria piduista, mafia e terrorismo di destra.
INTERCETTAZIONE TRA ALBERTO LORUSSO E TOTO' RIINA 25 OTTOBRE 2013. CARCERE DI OPERA MILANO TOTO' RIINA E mai mi sarei immaginato che sarebbe diventato il capo della massoneria…quello con altri due, altri due… ALBERTO LORUSSO L'ho conosciuto quello, Pierluigi Concutelli. TOTO' RIINA Tre sono: quello ricco, il barone paesano mio… Concutelli, Stefano Bontate e questo ricco siciliano.
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Stefano Bontate, secondo le dichiarazioni di vari collaboratori faceva parte di una loggia segretissima che si chiamava Loggia dei 300 di Palermo, che era un’articolazione regionale della loggia P2 di Gelli. Non soltanto, ma Stefano Bontate, che era un mafioso colto estremamente ricco e potente stava costituendo una super loggia di respiro nazionale e internazionale, ma i Corleonesi, Riina e Provenzano, non furono d’accordo perché temevano che se Stefano Bontate fosse diventato il capo di questa super loggia il suo potere si sarebbe troppo accresciuto e li avrebbe emarginati. Ma dopo l’omicidio di Stefano Bontate, Provenzano riprende il progetto di Stefano Bontate, entra a far parte di una super loggia che si chiama Terzo Oriente, di cui entrano a far parte lui, alcuni capi mafia e Giuseppe Graviano.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Alla fine degli anni '70 si formano nuovi poteri criminali. Proprio mentre Piersanti Mattarella decide di continuare sulla strada aperta da Aldo Moro tanto che da Presidente della Regione Sicilia apre ai comunisti già nel 1978 iniziando una vasta opera di risanamento del bilancio regionale. Ma viene ucciso il 6 gennaio del 1980, un mese prima del congresso Dc che l'avrebbe nominato al vertice del partito.
MOMMO GIULIANA - EX DIRIGENTE DC PALERMO Piersanti quando viene ucciso ha 44 anni. La convinzione era che avrebbe dovuto fare il vicesegretario nazionale, nel senso che allora il vicesegretario di allora non sono i vicesegretari di oggi. Il vicesegretario era qualcuno che diventava, cominciava a crescere per poi diventare segretario nazionale.
ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Era un Congresso decisivo perché come hanno dichiarato vari testimoni, tra cui il fratello di Piersanti Mattarella, Sergio Mattarella, si confrontavano due diverse linee politiche una linea politica che faceva capo al segretario del partito Zaccagnini e anche a Piersanti Mattarella, ed era uno schieramento che i pronostici davano per vincente perché comprendeva non soltanto la sinistra Dc, ma anche la corrente andreottiana e altri spezzoni della Dc. E un altro schieramento, diciamo della destra Dc, che invece voleva assolutamente chiudere la possibilità di qualsiasi apertura al partito Comunista e quindi chiudere definitivamente la linea Moro.
PAOLO MONDANI Ma voi morotei, voi mattarelliani avevate pensato che ci fosse qualcosa oltre la mafia tra coloro che avevano organizzato un omicidio così importante? A un mese dal congresso dove Piersanti Mattarella sarebbe presumibilmente diventato il vicesegretario nazionale della Dc?
MOMMO GIULIANA - EX DIRIGENTE DC PALERMO A mio giudizio non poteva essere soltanto la mafia. La mafia a mio giudizio ha dato il consenso.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Piersanti Mattarella è stato il 6 gennaio del 1980, a circa un mese dal XIV congresso della DC. In quel momento è in carica il governo, primo governo Cossiga che è infarcito di uomini della P2. Il segretario della DC di allora Zaccagnini aveva in mente di portare al congresso, di riproporre l’idea di un governo di solidarietà nazionale. Di far partecipare anche il Partito Comunista in maniera attiva. Per questo aveva in mente di portare alla vicesegreteria del partito l’uomo più rappresentativo di Aldo Moro, di colui che incarnava il compromesso storico, l’uomo più giovane era Piersanti Mattarella. In questo zaccagnini aveva come alleati, almeno sulla carta, Andreotti ei dorotei Piccoli e Bisaglia. Era opinione diffusa che Zaccagnini avrebbe vinto a mani basse e invece accade l’incredibile. Zaccagnini esce sconfitto vince la linea di Donati e Donat Cattin. Ora nel giro di due anni la Dc aveva ripudiato la linea politica del suo presidente ucciso dalle BR. Anche perché parte della dirigenza democristiana era stata falcidiata a colpi di mitra. A febbraio del 1980 era stato anche ucciso il professore Vittorio Bachelet vicepresidente del CSM, al suo posto era stato insediato, si è insediato Ugo Zilletti, toscano, piduista. Il governo di Forlani, messo in piedi, andato in carica nel 1980 nell’ottobre dura poco meno di un anno, perché nel maggio del 1981 viene spazzato via dallo scandalo della P2. È convinzione che se non si capisce, se non si trova la verità sull’omicidio di Piersanti Mattarella non si arriva alle verità neppure sulla strage di Bologna. I magistrati della corte d’Assise di Bologna nella sentenza che ha portato alla condanna in primo grado di Gilberto Cavallini, un altro degli esecutori della strage hanno scritto ben 100 pagine sulla sentenza, sui vari gradi di giudizio dell’omicidio Mattarella. I magistrati bolognesi scrivono che le motivazioni che hanno portato al proscioglimento di Fioravanti e di Cavallini ormai non reggono più, vedremo se c’è qualcuno che avrà ancora desiderio di aprire questa pagina dolorosa. Mentre sull’altro filone del processo quello sui mandanti si sta facendo sempre più strada una convinzione che i fuoriusciti dai movimenti di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo a partire dalla metà degli anni ’70 dopo che sono stati sciolti i loro rispettivi movimenti si sono uniti con i NAR per effettuare rapine e attentati. E qui la domanda è la solita, quella storica, per ordine di chi? Forse la verità è scritta in un bigliettino che viene ritrovato 40 anni dopo nel portafoglio di Licio Gelli, un bigliettino che ci consente di fare qualche ulteriore passo all’interno del labirinto.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quarant'anni dopo la strage la procura generale di Bologna fa il passo decisivo. E quell'orologio fermo alle 10,25 del 2 agosto riprende a marciare. Licio Gelli, già condannato per aver depistato le indagini, insieme ad Umberto Ortolani, suo braccio destro, viene accusato di aver finanziato i terroristi neri che piazzarono la bomba e aver pagato Federico Umberto D'Amato, potentissimo capo dell'Ufficio Affari Riservati del ministero dell'Interno, indicato come l'organizzatore della strage insieme all'ex senatore del Msi Mario Tedeschi. Il 13 settembre 1982, Licio Gelli venne arrestato in Svizzera con in tasca un appunto di movimenti bancari. Ai giudici milanesi che lo interrogarono sul crack del Banco Ambrosiano fu trasmesso solo il prospetto con le cifre, senza il frontespizio dove era scritto “Bologna” e il numero di conto aperto da Gelli presso la UBS di Ginevra. Quella intestazione è sparita per 40 anni.
ANDREA SPERANZONI – AVVOCATO PARTE CIVILE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE Verrà trovato due anni fa all’archivio di stato di Milano dentro il portafoglio di Licio Gelli, ancora li inserito l’originale del documento Bologna.
PAOLO MONDANI Mi spieghi il giro dei soldi che da Gelli arriva ai mandanti della strage
ANDREA SPERANZONI - PARTE CIVILE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE In questo appunto “per MC” si fa riferimento a un milione di dollari consegnato brevi manu da Gelli a Marco Ceruti, che era un suo uomo di fiducia. Con questo milione di dollari che esce dal 20 al 30 luglio 1980 quindi nei dieci giorni che precedono l’attentato. Marco Ceruti ha un conto corrente in Svizzera che gestisce per conto di Licio Gelli e questo milione di dollari è indicato come il 20% di una cifra. La cifra complessiva quindi è di 5 milioni di dollari, che sono effettivamente la contabile del documento Bologna. Di queste somme quindi 850.000 dollari va verso Federico Umberto D’Amato e 20.000 dollari va verso il Tedeschi. La movimentazione di questi denari avveniva tramite un cambia valute romano che è stato dimostrato essere in contatto proprio con l’ambiente, cioè o meglio con Federico Umberto D’Amato e con gli uomini protagonisti di questa vicenda.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il cambia valute romano era Giorgio Di Nunzio, cointestatario assieme al nipote Giancarlo di un conto a Ginevra sul quale sarebbero confluiti i soldi del capo della P2 Licio Gelli. Denari che, secondo l’accusa, sarebbero serviti a finanziare gli esecutori della strage alla stazione di Bologna. Giorgio Di Nunzio era un faccendiere romano collegato a Federico Umberto D'Amato, Mario Tedeschi e Francesco Pazienza.
PAOLO MONDANI C'è questo conto alla Trade Development Bank di Ginevra
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO Si.
PAOLO MONDANI cointestatari lei
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO …e mio zio
PAOLO MONDANI eE suo zio Giorgio Di Nunzio. Su quel conto un mese dopo la strage di Bologna, intorno al 3 settembre, vengono depositati da Ceruti, Marco Ceruti, uomo di Gelli, 240 mila240mila dollari, che fanno parte di una partita di soldi che arrivano dall’Ambrosiano a Gelli, da Gelli a Ceruti e poi arrivano a voi.
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO Si.
PAOLO MONDANI I pubblici ministeri ritengono che quella sia una, come posso dire, una parte dei soldi serviti ai mandanti della strage per fare la strage. Mi interessava di sapere da lei questo rapporto fra….
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO L’ho spiegato.
PAOLO MONDANI fra Di Nunzio Giorgio con Ceruti
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO L’ho spiegato.
PAOLO MONDANI Se lei ha conosciuto Ceruti, che soldi erano quelli insomma
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO Ho conosciuto Ceruti in occasione di un interrogatorio fatto a Roma dai magistrati di Bologna.
PAOLO MONDANI Non l’aveva conosciuto prima
GIANCARLO DI NUNZIO - NIPOTE DI GIORGIO DI NUNZIO No, non lo avevo conosciuto prima. Lui ha spiegato ai magistrati di Bologna la ragione di questo versamento di soldi a mio zio e la cosa finisce lì
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo Giancarlo Di Nunzio i soldi arrivati da Gelli a Ceruti e poi a suo zio erano banalmente il pagamento di una consulenza. Anche la Odal Prima, una vecchia società romana vicina ad Avanguardia Nazionale, secondo l’accusa è sospettata di aver fatto parte del finanziamento della strage.
ANDREA SPERANZONI – AVVOCATO PARTE CIVILE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE La Odal Prima nasce pochi giorni dopo, esattamente 12 giorni dopo il primo pagamento verso Zafferano, Federico Umberto D’Amato, che è del 16 febbraio 1979, data che viene indicata dalla Procura Generale come inizio del finanziamento della strage. Vennero visti entrare e uscire da quella sede sia uomini di Avanguardia Nazionale, sia uomini dei Nar, in particolare Giorgio Vale, Francesca Mambro e Gilberto Cavallini. Che ci fanno parlare oggi, io ritengo, di una saldatura tra gruppi cioè fra Avanguardia Nazionale, Nar e anche uomini di Terza Posizione.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Osserviamo questa sequenza di avvenimenti. Il 27 novembre 1979 Massimo Carminati e Valerio Fioravanti dei NAR, Peppe Dimitri e Mimmo Magnetta di Avanguardia Nazionale, rapinano centinaia di milioni di lire alla Chase Manhattan Bank di Roma. Il 14 dicembre il giudice Mario Amato fa sequestrare a via Alessandria 129 a Roma un deposito di armi e di esplosivi gestito da Fioravanti e da Dimitri. In quello stesso edificio viene trovata la sede del giornale Confidentiel diretto dal Presidente di Avanguardia Nazionale Adriano Tilgher. Il giudice Mario Amato che fa fare quel sequestro viene ucciso il 23 giugno del 1980 dai Nar e il 2 agosto Mambro e Fioravanti, cioè i detentori insieme a Dimitri di quel deposito di armi, fanno la strage di Bologna.
PAOLO MONDANI Questa sequenza di avvenimenti è abbastanza impressionante e spinge a pensare che alcuni uomini di Avanguardia Nazionale, la sua organizzazione, l’organizzazione della quale lei è stato presidente e della quale va fiero sia stata coinvolta in quella strategia.
ADRIANO TILGHER - EX PRESIDENTE AVANGUARDIA NA ZIONALE Si rende conto di quanto è faziosa questa interpretazione? Uno: Avanguardia Nazionale non esiste più viene sciolta da me il 7 giugno del 1976 e tutti gli uomini che lei definisce di Avanguardia Nazionale fanno ognuno cose per conto suo. Ci può essere il legame umano, il legame personale come ancora c’è e per sempre ci sarà finché non moriremo, perché questo era. Ma non il legame politico.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Vincenzo Vinciguerra è stato prima in Ordine Nuovo e poi in Avanguardia Nazionale. Responsabile della strage di Peteano dove morirono tre carabinieri, da 42 anni è in carcere e rifiuta ogni beneficio di legge. Vinciguerra risponde a distanza a Tilgher: nonostante lo scioglimento decretato dalla legge Scelba negli anni '70, Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale insieme alla destra istituzionale hanno continuato a cavalcare la strategia della tensione.
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Il Movimento Sociale Italiano, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Europa e Civiltà hanno marciato divisi e hanno colpito uniti.
PAOLO MONDANI A parte Mambro, Fioravanti e Ciavardini la cui presenza è stata dimostrata, ma lei crede che a Bologna ci fossero altri presenti per realizzare operativamente una strage come quella?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Ma se c’era diciamo: chi poteva portare ordini a Fioravanti e compagni quello era proprio Massimiliano Fachini. Questi non sono stati loro a decidere la strage di Bologna, questi l’hanno eseguita la strage.
PAOLO MONDANI Fachini anche lui legato…
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Fachini era un uomo dei servizi. È sempre stato un uomo dei servizi.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Massimiliano Fachini è stato un esponente di Ordine Nuovo. Inizialmente accusato di aver fornito l'esplosivo per la strage di Bologna è stato poi prosciolto. Anche Paolo Signorelli, leader di Ordine Nuovo insieme a Pino Rauti fu accusato della strage di Bologna e successivamente assolto.
PAOLO MONDANI Valerio Fioravanti secondo lei ha avuto rapporti con i servizi segreti per quello che si è saputo?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Valerio Fioravanti può averli avuti in maniera indiretta. Quando si frequenta Paolo Signorelli i rapporti con i servizi segreti si possono avere, indirettamente. Quando si frequenta Massimiliano Fachini altrettanto.
PAOLO MONDANI Frequentavano sia Fachini che Signorelli Mambro e Fioravanti…
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Erano quelli che li guidavano.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Li guidavano, ma per conto di chi? Proveremo a ricostruire la stori attraverso un documento straordinario in base al quale si evincerebbe che Licio Gelli avrebbe pagato 5 milioni di dollari gli organizzatori e i depistatori della strage di Bologna, avrebbe pagato il capo dei servizi segreti di allora Federico Umberto d’Amato, avrebbe pagato il senatore Tedeschi e avrebbe anche pagato gli autori della strage i terroristi neri. Un po’ di soldi sarebbero anche transitati attraverso lo zio e il nipote Di Nunzio, uomini legati al faccendiere Pazienza, piduista anche lui, uomo legato alla Cia e consulente esterno del SiSMI. La storia di questo documento ha dell’incredibile, viene sequestrato in Svizzera a Licio Gelli il 13 settembre del 1982, viene trasmesso all’autorità giudiziaria che sta indagando sul crack del Banco Ambrosiano, la guardia di finanza scriverà in una relazione che non vi è da attribuire nessun significato particolare alla scritta e al nome della città Bologna. Però neppure lo chiederanno a Licio Gelli quando sarà interrogato nel 1988. Anzi emergono due anomalie, intanto al verbale non viene allegato il frontespizio con la scritta Bologna, l’altra è che non viene neppure trasmessa all’autorità giudiziaria bolognese che sta indagando sulle stragi. Su quel documento cade l’oblio per 40 anni fino a quando un legale dell’associazione dei parenti delle vittime lo ritrova nell’archivio di stato all’interno del portafoglio di Gelli. Perché tutto questo silenzio? Secondo i magistrati della procura bolognese sarebbe scattato un ricatto pesantissimo da parte di Gelli e questo ricatto, la prova di questo presunto ricatto, viene trovata all’interno di un documento nel tribunale di Roma. Si tratta del documento “artigli”, è il verbale di un funzionario del ministero dell’Interno sull’incontro che aveva avuto con il legale di Licio Gelli, Fabio Dean, dove sostanzialmente c’è scritto, l’avvocato dice “se continuate ad accusare Licio Gelli della strage di Bologna lui tirerà fuori tutti gli artigli che ha”. Il solerte funzionario porterà il documento a Vincenzo Parisi capo della polizia di allora, che risulterà anche lui iscritto alla massoneria e su quel documento cala il silenzio per 40 anni. Secondo i magistrati bolognesi è la prova invece del ricatto di Licio Gelli allo Stato. Dice sostanzialmente se continuate ad attribuirmi le stragi io farò vedere, mostrerò le prove di quanto lo Stato abbia le mani in pasta nella strategia della tensione. Ora per capire quale è questa strategia della tensione bisognerebbe mettere insieme alcuni fatti importanti che accadono in quei mesi a partire dal novembre del 1979 quando Carminati e Valerio Fioravanti dei NAR, insieme a Peppe Dimitri e Mimmo Magnetta di Avanguardia Nazionale rapinano centinaio di milioni di lire presso la Chase Manhattan Bank di Roma. Avanguardia Nazionale considerava in danno l’azione armata dei Nar, perché compiono delle rapine armate insieme? Altra data impostante 14 dicembre del 79 il giudice Mario Amato sequestra in una palazzina in via Alessandria un deposito di esplosivi e di armi che fa riferimento a Valerio Fioravanti dei Nar e Dimitri, Avanguardia Nazionale. Nella stessa palazzina poi c’è la sede di Confidentiel la rivista che fa capo al presidente di Avanguardia Nazionale Adriano Tilgher. Il giudice Mario Amato che invece aveva ordinato il sequestro del deposito di armi in via Alessandri verrà ucciso mesi dopo, il 23 giugno del 1980 da Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini dei Nar e il 2 agosto Valerio Fioravanti, cioè i detentori di quel deposito di armi fanno la strage di bologna, ma per ordine di chi? E chi è che li guidava? Secondo l’ex Vincenzo Vinciguerra in una intervista esclusiva al nostro Paolo Mondani dice che i vertici di Ordine Nuovo e Vanguardia Nazionale erano legati ai servizi segreti quelli che ispiravano la strategia della tensione. E sempre legato ai servizi segreti sarebbe l’uomo che appare nel filmato di un turista svizzero, che secondo la procura sarebbe Paolo Bellini un altro esecutore della strage di bologna immortalato dieci minuti prima che esplodesse la bomba sul binario 1 della stazione di Bologna. Paolo Bellini killer di Avanguardia Nazionale, killer per la ‘ndrangheta si muoveva con la sua agilità anche da latitante godendo di coperture incredibili, istituzionali sotto il nome di Roberto Da Silva
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Un giorno del 1977, Paolo Bellini arriva a Foligno dal cielo. Con il passaporto brasiliano, il nome falso di Roberto Da Silva e un brevetto di pilota preso negli Stati Uniti atterra su questo aeroporto, a qualche chilometro da Foligno. Al suo fianco, a bordo di veicoli leggeri, c'era spesso Ugo Sisti, il procuratore capo di Bologna, il primo a indagare sulla strage. Bellini-Da Silva rimarrà a Foligno sotto falso nome per 4 anni. Alloggiava in albergo, aveva un conto al Banco di Roma e disponeva di importanti risorse finanziarie. Poi si scopre che aveva parecchi protettori.
STEFANO MENICACCI AVVOCATO - EX DEPUTATO MSI Ho motivo di ritenere che il Da Silva si era rivolto al senatore Cremisini quando aveva degli interessi in Brasile; il senatore Cremisini, già parlamentare del Movimento Sociale Italiano si è rivolto a Franco…
PAOLO MONDANI Mariani.
STEFANO MENICACCI AVVOCATO - EX DEPUTATO MSI Mariani il quale era l’avvocato di Giorgio Almirante e Franco Mariani…
PAOLO MONDANI A lei STEFANO MENICACCI AVVOCATO - EX DEPUTATO MSI Si è rivolto a me. Questa è la trafila. PAOLO MONDANI Ma scusi avvocato, me lo spiega com’è possibile per un giovane che viene dal Brasile che si chiama Roberto Da Silva che tre parlamentari dell’MSI si muovano per in qualche modo aiutarlo?
STEFANO MENICACCI AVVOCATO - EX DEPUTATO MSI Ma in effetti si è giovato di molte compiacenze ed ebbe persino il permesso di porto di fucile, porto d’arma previo consenso elogiativo del commissario di pubblica sicurezza di Foligno.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Paolo Bellini dichiara di essere stato infiltrato in Avanguardia Nazionale dal senatore Mariani e da Giorgio Almirante. Lo stesso senatore lo voleva nei servizi segreti ma Bellini nega di averne fatto parte. Mentre Vinciguerra dice che tutta l'estrema destra era legata ai servizi.
PAOLO MONDANI Lei racconta che Stefano Menicacci l’avvocato e Pierluigi Concutelli, Pino Rauti, Carlo Maria Maggi che è mandante della strage di Brescia, Delfo Zorzi, capisce che sono legatissimi ai servizi segreti.
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Guardi, mentre da un lato facevano gli oppositori politici dall’altro lavoravano per i nostri servizi e anche per quelli esteri. Senza gli apparati dello stato queste strutture, queste organizzazioni non sarebbero sopravvissute.
PAOLO MONDANI Come la mafia.
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Esatto.
PAOLO MONDANI Lei entra in Avanguardia Nazionale perché le appariva meno immischiata con i servizi segreti rispetto alla sua precedente, al suo precedente gruppo di appartenenza che era Ordine Nuovo. Quando è che finisce la sua fiducia su Stefano delle Chiaie di cui era amico e che era il capo di Avanguardia Nazionale?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE L’amicizia con Stefano finisce quando io mi rendo conto che fa il doppio gioco con me.
PAOLO MONDANI Ad un certo punto Stefano Delle Chiaie capisce l’esistenza della P2, la vede ne viene a conoscenza?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Ma io purtroppo credo che la conoscesse bene l’esistenza della P2. E me l’hanno sempre taciuta.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La P2, la camera blindata del potere atlantico, osservava e manovrava. Walter Sordi ha militato e ucciso con i Nuclei Armati Rivoluzionari di Mambro, Fioravanti, Cavallini e Pasquale Belsito. Da pentito, Sordi ha raccontato dei rapporti fra Licio Gelli e Valerio Fioravanti.
CORTE DI ASSISE BOLOGNA - UDIENZA DEL 18 GIUGNO 2021 ALESSIA MERLUZZI - PARTE CIVILE ASSOCIAZIONE PARENTI VITTIME DELLA STRAGE Nell'interrogatorio del 15 ottobre del 1’82 a pagina 5 lei dichiarò: “erano invece noti almeno a un certo livello i rapporti tra Gelli e Fioravanti Valerio. Il Belsito mi disse in particolare che Valerio Fioravanti non era quel personaggio pulito che tutti credevamo. Il Fioravanti aveva contatti con Gelli con il quale si era visto in Francia”. Lei conferma questa dichiarazione?
WALTER SORDI - EX NAR E TERZA POSIZIONE - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sì sì confermo tutto.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quarant'anni fa, il generale Mario Grillandini del Sismi fu uno dei pochissimi a occuparsi di Licio Gelli.
PAOLO MONDANI Siamo nel 1981, a marzo i giudici di Milano sequestrano la lista della P2 a casa di Licio Gelli. Un paio di mesi dopo, a maggio, emerge la notizia che a Montevideo, la capitale dell’Uruguay, Licio Gelli teneva in una sua villa lussuosissima un secondo archivio importantissimo e il servizio decide di mandare lei a capire che cosa ci fosse in quell’archivio.
MARIO GRILLANDINI - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE SISMI Partii per Montevideo e mi collocai in un albergo del centro di Montevideo. Il giorno successivo mi sono incontrato con Castiglione nell’albergo.
PAOLO MONDANI Castiglione era il capo dei Servizi in Uruguay, dell’Uruguay.
MARIO GRILLANDINI - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE SISMI Così si è presentato. E lui mi informò che una buona parte se li era presi il servizio americano. La CIA. Quelli che interessavano la sicurezza interna dell’Uruguay se li era presi l’Uruguay, i rimanenti erano a disposizione del ministro degli Interni uruguagio, generale Trinidad.
PAOLO MONDANI In tutto i fascicoli che erano stati trovati nella villa di Gelli ha saputo quanti erano?
MARIO GRILLANDINI - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE SISMI In tutto credo sui 300. Qui sono arrivati un centinaio.
PAOLO MONDANI Secondo lei perché la CIA era così interessata ai fascicoli di Gelli?
MARIO GRILLANDINI - GENERALE ESERCITO - EX DIRIGENTE SISMI Quelli che interessavano il servizio americano probabilmente c’era qualcosa che coinvolgeva loro. Vede, io ho ricevuto in regalo una targa dal capo del servizio inglese. In questa targa in inglese, glielo traduco in italiano: questo è uno sporco mestiere che solo i gentiluomini possono fare.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A proposito dello sporco mestiere. Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 una bomba esplode sul treno Italicus, all'altezza di San Benedetto Val di Sambro in provincia di Bologna. 12 vittime. Ad oggi nessun colpevole. Dieci anni dopo, il 23 dicembre 1984, un'altra bomba su un treno all'altezza di San Benedetto Val di Sambro uccide 16 persone. Mandanti ed esecutori: P2, terroristi di destra e mafia corleonese. Solo i mafiosi verranno condannati. In dieci anni, compresa la strage alla stazione del 1980, sono 113 i morti solo nell'area di Bologna. Il processo sui mandanti della strage del 2 agosto ipotizza che alla fine degli anni ’70 si sia aggregata una formazione terroristica formata da uomini provenienti dai disciolti Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale insieme ai NAR per compiere la strage. E pone una antica domanda: chi dava loro ordini?
CORTE DI ASSISE BOLOGNA UDIENZA DEL 9 GIUGNO 2021 MASSIMO GIRAUDO - COLONNELLO DEI CARABINIERI C'è una testimonianza eccezionale e che dice tutto e chiude la partita. È la testimonianza del Capo di Stato Maggiore, defunto da tempo, della Terza Armata. Il Dottor Mastelloni o nel ’95 o nel ’96 interroga il Generale Emanuele Borsi di Parma, e... Borsi di Parma fa un’affermazione straordinaria, e cioè spiega: “Noi sapevamo che c’era una struttura di estrema destra supportata dalla NATO, e questa struttura probabilmente si chiamava Ordine Nuovo e Ordine Nuovo rispondeva alla base FTASE a Verona”.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il Comando FTASE delle forze terrestri alleate per il Sud Europa è stato un Comando della Nato con sede a Verona, attivo dal 1951 al 2004 con il compito di difendere il confine Est dell'Italia da un'ipotetica invasione sovietica. Giampaolo Stimamiglio è un ex esponente di Ordine Nuovo risultato determinante nella ricostruzione della strage di Piazza Fontana a Milano e di Piazza della Loggia a Brescia dove Ordine Nuovo ebbe un ruolo decisivo. Lui può dire chi erano i loro burattinai.
PAOLO MONDANI Ad un certo punto all’interno di Ordine Nuovo si forma una struttura a parte, lei può dire che questa doppia struttura interna a Ordine Nuovo si fosse occupata, diciamo così, della strategia della tensione?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Sicuramente.
PAOLO MONDANI Insomma quelli che han messo le bombe per essere chiari…
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Si, era una struttura, praticamente l’ho definita una scuola di terrorismo vera e propria.
PAOLO MONDANI Chi la finanziava?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Secondo me P2 e Umberto Federico d’Amato e operativamente Rauti con i vari Besutti, Massagrande, Maggi anche. La mente era Besutti sicuramente.
PAOLO MONDANI E Besutti prendeva ordini da qualcuno?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Da Rauti.
PAOLO MONDANI E Rauti da chi prendeva ordini?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Da Umberto Federico D’Amato.
PAOLO MONDANI E Umberto Federico D’Amato da chi prendeva ordini?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Da Guerin Serac che era il responsabile europeo della strategia, sotto copertura di tipo, chiamiamola atlantista
PAOLO MONDANI Guerin Serac il capo della cosiddetta
AGINTER PRESS, GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Esatto
PAOLO MONDANI agenzia di stampa dietro la quale in realtà…
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO …c’era la NATO.
PAOLO MONDANI Chi erano i più importanti esponenti di Ordine Nuovo?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Besutti e Massagrande.
PAOLO MONDANI C’era Marcello Soffiati no?
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO Il Soffiati è l’unica persona che conosco io, che ne ho conosciuti tanti, che poteva accedere a Camp Darby.
PAOLO MONDANI ...è la base americana di Livorno.
GIAMPAOLO STIMAMIGLIO - EX ORDINE NUOVO E li accedono soltanto pochissimi.
PAOLO MONDANI Lei ha detto che Marcello Soffiati era l’anima nera di Carlo Maria Maggi…
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Esatto.
PAOLO MONDANI …il mandante della strage di Brescia. “Attenzione - lei dice - che noi stiamo parlando di un gruppo quello del veneto che è stato sempre al servizio delle basi americane. Degli Stati Uniti e della Nato lì
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Carlo Maria Maggi era un Rauti dipendente. Carlo Maria Maggi non avrebbe mai fatto nulla senza gli ordini di Pino Rauti, o almeno con il consenso di Pino Rauti. Hanno stabilito rapporti che soltanto Rauti poteva favorire come referente della CIA in Italia, non Maggi. Con i servizi segreti americani, militari e civili, con i servizi segreti israeliani, con il Mossad avevano pure rapporti.
PAOLO MONDANI Lei ha scritto di Maggi e Soffiati che erano della Cia. Ma ha aggiunto Stefano Delle Chiaie.
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Stefano necessariamente non poteva non essere a contatto con le persone della Cia dirette da, diciamo così, da James Angleton qui in Italia. Angleton è il personaggio che ha portato l’estrema destra alla CIA.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Già nel dopoguerra James Jesus Angleton divenne capo del controspionaggio americano a Roma e fu amico di Junio Valerio Borghese, ispiratore e maestro di Stefano Delle Chiaie. Angleton era legato a Federico Umberto D'Amato, il gran gourmet dello spionaggio italiano dal dopoguerra fino agli anni '90. Piduista e fondatore del Club di Berna che raccoglieva i capi dei servizi segreti occidentali, per 13 anni D'Amato ebbe accanto Antonella Gallo, che ereditò tutto il suo patrimonio, e il fratello Claudio. Suoi segretari particolari.
PAOLO MONDANI Federico Umberto D’Amato aveva rapporti con importantissimi generali americani: il generale Donovan, con Allen Dulles della CIA e soprattutto aveva stretto una amicizia particolare con James Angleton, che era il plenipotenziario della CIA in Italia per tutto il dopoguerra. Ha mai parlato di questi nomi?
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO No. Lui aveva però, era rimasto in contatto con un esponente appunto della CIA e addirittura una volta lo ospitò nella casa di Parigi insieme alla sua famiglia.
PAOLO MONDANI Il signor Claude.
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Sì.
PAOLO MONDANI D’Amato fu insignito di una medaglia della CIA, la Bronze Star, una del Congresso degli Stati Uniti, la Medal of Freedom, e della Legion D’Onore francese. C
LAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Sì e lui ne andava, di quello ne andava fiero. E da come le aveva esposte aveva piacere che fossero notate quando aveva ospiti nel suo ufficio
PAOLO MONDANI D’Amato aveva ovviamente rapporti anche con il Mossad, ma aveva un amico del Mossad che lo frequentava a casa…
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Si, mister Zimmerman perché gli faceva…
PAOLO MONDANI La manutenzione.
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO La manutenzione degli Otomat, sono queste bambole a ricarica e veniva addirittura da Israele per fare solo questo.
TIMEWATCH BBC- 24 giugno 1992 - GLADIO THE FOOT SOLDIERS FEDERICO UMBERTO D’AMATO EX CAPO UFFICIO AFFARI RISERVATI MINISTERO DELL'INTERNO Direi che questo è l’automa della politica. Questo è il giocoliere, le jongleur.
PAOLO MONDANI Siamo all’inizio di agosto del 1996, improvvisamente muore Federico Umberto D’Amato e c’è il funerale. Chi viene al funerale?
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Allora, venne sicuramente il presidente Cossiga, il senatore Taviani.
PAOLO MONDANI L’amicizia con Mario Tedeschi il direttore de “Il Borghese”?
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Mario Tedeschi, sì, telefonava spesso.
PAOLO MONDANI Perché Mario Tedeschi che è stato direttore de “il Borghese” per trentasei anni preparava tutti i giorni una rassegna stampa che inviava a D’Amato il quale poi la inviava a Parisi, tutti i giorni?
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Questo giro di fax avveniva molto presto la mattina per avere la situazione istantanea di quello che veniva scritto nei vari giornali.
PAOLO MONDANI Lei sapeva dell’appartenenza di D’Amato alla P2?
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Sì
PAOLO MONDANI Gli ha mai chiesto di Licio Gelli? Chi fosse?
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO Una volta io feci una domanda riferita a lui, che ne pensava, e lui mi disse che era un cretino.
PAOLO MONDANI Lei dice che nel suo ambiente in quegli anni, l'Ufficio Affari riservati di Federico Umberto D'Amato veniva definito l'Ufficio bombe. Mi spiega perché?
VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Eh sì. l'Ufficio bombe perché ormai si sapeva che questo ufficio aveva diciamo il compito anche tramite elementi di estrema destra, va bene, non rifuggiva dal far compiere attentati, noi pensavamo dimostrativi, ma sempre bombe erano.
PAOLO MONDANI In una vecchia intervista D’Amato disse che: “Uno spione degno di questo nome deve tenere sempre un piede nella legalità e tre fuori, ma non deve mai farsi beccare” come invece era accaduto praticamente a tutti i vertici dei servizi segreti italiani.
CLAUDIO GALLO - SEGRETARIO FEDERICO UMBERTO D'AMATO E beh è la sua sintesi. D’Amato non era un personaggio da farsi usare, semmai usava. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il capo dei servizi segreti Federico Umberto D’amato non si faceva certo usare semmai usava. È una persona che coincide con quanto ci ha detto Stimamiglio e Vinciguerra. La catena di comando da cui dipendevano le azioni dei terroristi neri era la seguente. A capi c’era Pino Rauti, ex Movimento Sociale italiano, sopra ancora c’era appunto Federico Umberto d’Amato, sopra ancora Gaurin Serac, che era il responsabile dell’agenzia che sfornava fake news, Aginter Presse, era soprattutto il responsabile sotto copertura della strategia atlantista. Guarin Serac che era sparito del 1975, si sono perse le tracce non si sa che fine abbia fatto. A trascinare invece la destra eversiva verso la CIA ci ha pensato James Angleton responsabile dei servizi di sicurezza americani nel nostro paese nel dopoguerra. Forse era questo il contesto che minacciava di sventolare il ricatto di Licio Gelli che minacciava di sventolare ogni volta che finisce nei guai con qualche processo. Nel 1981 nell’aeroporto di fiumicino viene sequestrato un plico nel doppiofondo di una valigia che veniva trasportata da Maria Grazia Gelli, figlia del venerabile. Dentro c’era il piano di rinascita democratica della P2. C’era tutta la politica dal golpe anticomunista a quella filo atlantista e pii anche quella più fine dell’occupazione silenziosa dello stato. Nella lista della P2 erano finito politici magistrati, uomini delle forze dell’ordine, uomini dei servizi segreti. Dentro quel plico c’era anche la direttiva westmorland, un generale dell’esercito statunitense una direttiva nella quale si legittimava l’uso della forza per contrastare lo sviluppo l’avanzata del comunismo nei paesi del patto atlantico. Si legittimavano anche se necessario gli attentati e le stragi. Secondo i magistrati quelle carte furono fatte ritrovare apposta da Licio Gelli era il ricatto che sventolava sotto gli occhi dello Stato certo che l’alleato americano non sarebbe mai stato coinvolto nei fatti giudiziari. Forse per questo che solo a distanza di 40 anni dai fatti il nome di Angleton e Federico Umberto d’Amato, legati alla strategia della tensione sono potuti emergere così chiaramente. Come è potuto emergere anche il fatto che nella palazzina di via Gradoli dove c’era la base dei terroristi rossi che hanno concepito il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro fosse anche un appartamento dei terroristi neri e anche più in la quello dei servizi di sicurezza che li osservavano. Insomma una palazzina del terrore che aveva anche un suo amministratore Domenico Catracchia che è entrato come imputato nel processo sulla strage di Bologna.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Roma, Via Gradoli. Nel 1978, al numero civico 96 si trovava la base romana delle Brigate Rosse. Qui progettarono il rapimento di Aldo Moro. Tre anni dopo, nel 1981, in questa stessa palazzina, i terroristi di destra dei Nar stabilirono il loro covo. Qualche tempo dopo si scoprì che Domenico Catracchia si era occupato della locazione di questi immobili gestiti anche da una società di fiducia del Sisde. Il servizio segreto civile. Catracchia era poi diventato il fiduciario personale di Vincenzo Parisi, allora vice direttore del Sisde, che a via Gradoli aveva acquistato alcuni appartamenti. Via Gradoli ha una sola via di fuga, eppure Br e Nar decisero di nascondersi qui, sotto gli occhi dello Stato. Domenico Catracchia è sotto processo per aver detto il falso sull'appartamento affittato ai Nar.
CORTE DI ASSISE DI BOLOGNA 19 NOVEMBRE 2021 ALBERTO CANDI - AVVOCATO GENERALE TRIBUNALE BOLOGNA Veniamo all’altro aspetto che non abbiamo ancora trattato e che invece riguarda la sua conoscenza con il Prefetto Parisi e i rapporti che lei ebbe con Parisi. Ce li può descrivere?
DOMENICO CATRACCHIA - IMMOBILIARISTA Sì. Io per vendere e affittare mettevo delle inserzioni, e il Dottor Parisi si vede che l’ha letta, voleva fare degli investimenti, perché non l’ha fatti solo con me, se n’è comprati parecchi per Roma.
ALBERTO CANDI - AVVOCATO GENERALE TRIBUNALE BOLOGNA Le ricordo che lei disse: “Posso affermare che con il Dottor Parisi si stabilì un rapporto molto fiduciario, e che diventammo amici. Un paio di volte andammo a cena insieme”.
DOMENICO CATRACCHIA - IMMOBILIARISTA Sì, sì, le confermo, però non mi ricordo adesso il ristorante.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Erano gli anni in cui si parlava di servizi deviati ma che in realtà rispondevano a precise direttive interne e internazionali. Il generale Pasquale Notarnicola (morto poco dopo la nostra intervista) è stato al Sismi tra il '78 e l'83, comandante della prima divisione, quella che si occupava di controspionaggio e antiterrorismo. Testimone dei 4 depistaggi effettuati dai capi del servizio diretto da Giuseppe Santovito, dal generale Pietro Musumeci e da Francesco Pazienza, agente Sismi a contratto. Tutti affiliati alla P2 di Licio Gelli.
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 La mattina del 2 agosto alle ore 10 e 31, cioè sei minuti dopo che era avvenuta la strage io ricevetti una telefonata dal mio capocentro che mi informava che a Bologna era avvenuto un attentato, che c'erano crolli e probabilmente molti morti. Per me il primo segno di depistaggio è questo. Gli do la notizia e il direttore con … PAOLO MONDANI Santovito…
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Santovito con molta serenità mi rispose: "Ma che dici, lì è una caldaia a gas che è scoppiata".
PAOLO MONDANI Tanto che la sera del 2 agosto si parlava di una caldaia a gas...come dire…
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Lui me l'ha detto mezz'ora…
PAOLO MONDANI Non è difficile pensare che sia stata in qualche modo…
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Precostituita.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il secondo depistaggio…
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Il mio capocentro la prima cosa che fa mette sotto controllo gli estremisti bolognesi. Tra i quali gli estremisti di destra. E notano i miei uomini che uno di questi estremisti molto importanti è assente da Bologna. E gli danno un appuntamento in Sardegna.
PAOLO MONDANI Chi era questo…?
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Si chiamava Naldi. E fa questa dichiarazione: "No, noi estremisti fascisti bolognesi non ne sappiamo assolutamente nulla della strage, pensiamo che la strage sia stata fatta da fascisti romani". La mattina dopo il Naldi si presentò alla stazione di Bologna ma alla stazione di Bologna gli andarono incontro due avvocati che lo sconsigliarono di presentarsi spontaneamente dal Procuratore della Repubblica ma di aspettare una convocazione. E chi poteva averli chiamati? Solo il mio capo.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Terzo depistaggio. A questo punto il generale Santovito ordina al generale Notarnicola e altri due ufficiali di scrivere un libro sul terrorismo internazionale. I contenuti del libro non ancora pubblico finiscono però sul settimanale Panorama e Santovito mostra grande irritazione per questa fuga di notizie.
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Ma il segretario di Santovito che era un ufficiale di cavalleria, chissà per quale gesto benefico, mi disse: "Ma non ti preoccupare, non è vero che è arrabbiato perché il giornalista che ha scritto l'articolo è venuto qui a leggere il libro nella stanza a fianco di quella del direttore", e mi disse anche mi fece il nome del giornalista, dice: "E gli ha dato un compenso di tre milioni".
PAOLO MONDANI Però questa idea del terrorismo internazionale poco dopo la strage di Bologna e poco dopo il suo libro lei capisce che aveva…
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Aveva un altro scopo. Aveva lo scopo di depistaggio.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Infine, il quarto depistaggio. Il 13 gennaio 1981 sul treno Taranto Milano viene trovata una valigia piena di esplosivo simile a quello della bomba di Bologna con alcuni biglietti aerei riconducibili a persone straniere.
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Io la notizia l'ho avuta almeno due giorni prima, due pomeriggi prima. Dunque, ero come al solito nel mio ufficio e ricevo una telefonata dal capo dell'ufficio del direttore il quale mi dice vai all'aeroporto di Ciampino dove arriverà il direttore dall'America. E dall'aereo scesero, dal nostro aereo scesero il generale Santovito, Francesco Pazienza e Michael Ledeen…
PAOLO MONDANI Michael Ledeen della Cia.
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Però era un agente della Cia che non agiva insieme agli altri. Entrò il generale Santovito, venne subito verso di me mi dette una busta e mi disse: "Provvedi perché è urgente". Aprii la busta, quando guardo una informativa assurda, era una informativa che prevedeva un trasporto di esplosivi su treni italiani ma era così completa che non poteva averla scritta un informatore qualsiasi, soltanto lo stragista poteva dare tutti quei dettagli.
PAOLO MONDANI …avere quei particolari. Come lei sa il colonnello Belmonte, il generale Musumeci, Licio Gelli e Francesco Pazienza verranno condannati per il depistaggio….
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 E per calunnia…
PAOLO MONDANI Ma perché fu messa in atto l'operazione Terrore sui treni ai fini del depistaggio?
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Sempre per dare l'impressione al governo e all'opinione pubblica che la strage di Bologna fosse stata compiuta da stranieri.
PAOLO MONDANI Lei può dire che chi ha pianificato i depistaggi era anche tra coloro che ha pianificato la strage?
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Penso di sì, penso di sì, perché non c'è altra spiegazione.
PAOLO MONDANI Il generale Santovito?
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Beh certamente il generale Santovito ma io non so se sia stato il solo. Per me le menti raffinatissime stavano fuori dalla nazione.
PAOLO MONDANI Lei generale, in una commissione parlamentare di inchiesta afferma: "Nessuno mi aveva detto, durante la mia permanenza al servizio, dell'esistenza della Stay Behind, di Gladio".
PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Ho sempre l'impressione che la Gladio legittima servisse anche a nascondere una Gladio illegittima, che era la Gladio delle stragi. Gelli che viene tanto magnificato io lo ritengo un prestanome. Io penso che fin da allora Gelli avesse a che fare con gli Stati Uniti.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il Kintsugi è il nome di un’antica arte giapponese usata per riparare gli oggetti in ceramica. E consiste nel saldare insieme i frammenti usando l'oro. Alla fine, l'oggetto riparato è più prezioso. Questa tecnica rimanda a una scelta di vita: le nostre cicatrici interiori, soprattutto le più dolorose, possono diventare trame preziose. Iwao Sekiguchi era uno studente giapponese di vent’anni quando fu ucciso dalla bomba alla stazione. Il papà di Iwao, che venne da Tokyo per seguire le udienze del processo per la strage disse che i familiari delle vittime potevano superare il trauma della perdita: lo spirito combattivo della città di Bologna è l'oro che avrebbe riparato le ferite. Resta una domanda: l'attuale processo di Bologna sui mandanti della strage a 40 anni dai fatti ci restituisce giustizia?
LEONARDO GRASSI - EX PUBBLICO MINISTERO STRAGE ITALICUS E BOLOGNA Secondo me tutte le forze che avevano partecipato alla lotta contro il comunismo con modalità non ortodosse: la mafia, i fascisti, i piduisti e questo e quello, una volta caduto il Muro di Berlino dovevano essere fatte salve. Queste persone che avevano goduto di potere, impunità e denaro non potevano essere abbandonate così e messe ai giardinetti. Un mio amico ha fatto l'accostamento fra questo processo di Bologna e il processo di Norimberga, però il processo di Norimberga è venuto nell'immediatezza dei fatti, questo processo qui viene quaranta anni dopo, e il processo di Norimberga è quello che i vincitori fanno sui vinti cambiando addirittura le regole del diritto internazionale. Ma qui chi sono i vincitori e chi sono i vinti.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il generale Notarnicola sapeva di avere i giorni contati e ci ha telefonato e ha detto: “prima di morire sento la necessità di rilasciare una intervista a Report per raccontare i fatti”. Il generale Notarnicola è stato responsabile della prima divisione del SISMI, quella del controspionaggio e dell’antiterrorismo. Dagli anni che vanno dal 1978 all’ 83. È stato testimone dei tentativi di depistaggio dei suoi responsabili: il generale Santovito, Musumeci, Francesco Pazienza legato alla CIA e consulente esterno del SISMI, tutti e tre legati alla P2 di Licio Gelli. Notarnicola ha anche detto che secondo lui il mandante, chi ha fatto il depistaggio è anche il mandante di queste stragi, e Licio Gelli non è null’altro che il prestanome di menti raffinatissime che sono dall’altra parte dell’oceano. Diciamo che forse questa è una verità percepita da decenni solo, dai tempi dell’“Io so” di Pier Paolo Pasolini solo che sentirsela però dire da un responsabile del SISMI, dell’antiterrorismo fa un certo effetto. Ora la domanda è perché è stata realizzata la strage di Bologna? Qual è il movente? Secondo l’ex ordinovista Vinciguerra è stata fatta per distrarre l’opinione pubblica dalla strage di Ustica commessa un mese prima. Poi dal processo di Bologna sta emergendo anche la causale eversiva. Licio Gelli era braccato dalle indagini sul Banco Ambrosiano, quelle anche sull’omicidio del giudice Occorsio, che aveva indagato per primo sulla P2, poi anche sulle indagini dell’omicidio del giudice Amato avvenuto un mese prima della strage di Bologna. Poi c’era anche la necessità di riaccreditarsi verso i suoi referenti oltreoceano e anche di tutelare la sua posizione di capo della P2 e ogni tanto bisognava anche fronteggiare l’idea che spuntava qua e là del compromesso storico di un governo con i comunisti. Ecco perché la strage di Bologna sembra avere una sua continuità in quelle che saranno le stragi di mafia del 92-93 quando gli orfani della guerra fredda hanno reagito perché i poteri occulti, i poteri criminali, vedevano messo a rischio quello status quo dove avevano piantato le loro radici, i loro affari la loro impunità e hanno reagito nella maniera che abbiamo visto per evitare anche di essere spazzati via. A questo punto è legittima la domanda del magistrato Leonardo Grassi: “a che serve la verità dopo 40 anni? Chi sono i vincitori e chi sono i vinti? La ricetta è forse nella risposta che da Iwao Sekiguchi, il ragazzo giapponese che da Tokyo era venuto a Bologna per studiare, morto nella strage di Bologna. Il papà veniva alle prime udienze del processo è ha detto ai familiari che il dolore della morte si può superare solo applicando la metafora del Kintsughi, cioè di quell’arte giapponese di riparare gli oggetti di ceramica frantumati con l’oro, L’oro rimane dentro le crepe, dentro le ferite e le impreziosisce. In questo caso l’oro della strage di Bologna viene rappresentato da chi non ha mai smesso di cercare la verità.
(ANSA il 7 Dicembre 2022) - Un gruppo di anarchici greci ha rivendicato l'attentato incendiario contro due auto del Primo consigliere dell'Ambasciata italiana ad Atene Susanna Schlein. Il gruppo, dal nome "Carlo Giuliani revenge nuclei", ha detto di avere agito in solidarietà con il detenuto anarchico Alfredo Cospito in carcere in Italia. Il gruppo anarchico greco, che prende il nome dall'attivista italiano ucciso dalla polizia durante il G8 di Genova nel 2001, ha dichiarato a proposito di Cospito: "Compagno, per quanto cerchino di seppellirti, non ti dimenticheremo mai".
Nuclei Carlo Giuliani, anarchici e Cospito : la "cosa rossa" dietro l'agguato a Schlein. Gli anarchici greci del gruppo "Carlo Giuliani revenge nuclei" hanno rivendicato l'attentato incendiario alla diplomatica Schlein. Il gesto a sostegno del "compagno" Cospito, detenuto al 41bis in Italia. Marco Leardi l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Gli inquirenti ci avevano visto giusto. C'erano gli anarchici di sinistra dietro all'attentato lo scorso 2 dicembre aveva minacciato l'incolumità di Susanna Schlein, primo consigliere dell'Ambasciata d'Italia in Grecia. Il gesto criminoso e incendiario è stato infatti rivendicato dagli anarchici greci del gruppo "Carlo Giuliani revenge nuclei". La formazione, che prende il nome dall'attivista italiano ucciso durante gli scontri con la polizia al G8 di Genova nel 2001, ha fatto sapere di avere agito in solidarietà con il detenuto anarchico Alfredo Cospito, in carcere nel nostro Paese.
La rivendicazione rossa all'attentato
Così, è arrivata la firma "rossa" all'attacco sferrato nei giorni scorsi alla diplomatica italiana. Un ordigno artigianale aveva distrutto uno dei due veicoli nel parcheggio della residenza della prima consigliere dell'ambasciata, nonché sorella della deputata Elly Schlein. Un altro ordigno artigianale, posto vicino alla seconda auto diplomatica, non era esploso. Fortunatamente l'attentato non aveva provocato vittime o feriti, ma aveva fatto alzare il livello di allarme per quella che era sembrata con ogni evidenza una minaccia all'incolumità della rappresentante del nostro Paese.
Il "Nucleo per vendicare Carlo Giuliani", nel rivendicare il deprecabile gesto, ha spiegato che l'attacco è stato un'espressione di sostegno all'anarchico italiano Alfredo Cospito, in carcere in regime di 41 bis e in sciopero della fame dallo scorso ottobre. Detenuto da oltre 10 anni nel penitenziario di Bancali, a Sassari, nel 2014 era stato condannato a 10 anni e 8 mesi per la gambizzazione dell'Ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, nel 2012. E ora rischia anche l'ergastolo per l'accusa di aver piazzato due ordigni a basso potenziale nei pressi della Scuola allievi carabinieri di Fossano (Cuneo), nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006.
Lo slogan contro Susanna Schlein
"Compagno, non ti dimenticheremo mai, non importa quanto cercheranno di seppellirti", si legge nel messaggio di rivendicazione scritto dagli anarchici. E sulla vicenda, col passare delle ore, emergono nuovi inquietanti dettagli. A quanto si apprende, in occasione dell'udienza del processo ai due anarchici Alfredo Cospito e Anna Beniamino svoltasi al tribunale di Torino lunedì scorso (proprio in riferimento alla vicenda della Scuola allievi carabinieri), era risuonato anche il seguente slogan: "Schlein impara a parcheggiare". Il riferimento era proprio all'attentato ad Atene all'automobile della diplomatica italiana. Nell'aula della Corte di assise d'appello di erano presenti, tra il pubblico, una ventina di persone.
Il timore degli inquirenti sull'Italia
La Digos ha avviato degli accertamenti. Il timore degli inquirenti è infatti che alcuni "colleghi" degli anarchici greci possano colpire anche in Italia.
Irene Famà e Massimiliano Peggio per “La Stampa” il 3 dicembre 2022.
«Nei diversi angoli del pianeta siamo in grado di aggregare gruppi e individui». «Attacchi contro uomini e strutture del potere». «La violenza rivoluzionaria è un mezzo essenziale per la lotta contro il dominio». Il verbo anarchico si nutre di parole, volontà e aspira all'azione. In questi scritti, tratti da pubblicazioni tradizionali e proclami digitali, c'è l'essenza di un patto siglato anni fa tra le anime della contestazione mondiale, tra italiani, greci, sudamericani. Lotta al potere, alla politica, alla tecnologia. Bombe, attentati, buste incendiare, messaggi online per infiammare gli animi dormienti e rivendicare con orgoglio le azioni di rivolta.
L'intesa Il movimento anarchico non è un'entità unitaria, ci sono galassie e ognuna sceglie intenti e modus operandi. C'è l'anarcoinsurrezionalismo italiano e quello ellenico. Un legame che nasce nel 2011 e che si rinsalda in questi giorni sotto lo slogan di «Cospito libero».
Qui andrebbe cercato il presunto movente dell'attentato a Susanna Schlein, diplomatica italiana ad Atene. Dove nasce questo legame? Perché?
Bisogna riavvolgere il filo della storia e tornare al 2011. In quell'anno, a conclusione di un percorso di dibattito interno e di attentati in varie città italiane, prima tra tutte Torino, nasce la Fai, Federazione Anarchica Informale aderisce al Fri, Fronte Rivoluzionario Internazionale, rete attiva in diversi Paesi con cellule di matrice terroristica. La fusione, nel lessico anarchico, serve a «collettivizzare le diverse espressioni di opposizione al potere». Cos' è la Fai? A spiegarlo sono gli atti di indagine e le relazioni degli apparati di intelligence che hanno scandagliato il fenomeno per anni: «È un'associazione internazionale con finalità di eversione e terrorismo» che si riconosce in un progetto ideologico nel quale le diverse cellule mantengono un'autonomia d'azione.
Gli italiani vedono nei compagni greci un simbolo da seguire, in particolare il gruppo «Cospirazione delle cellule di fuoco», considerato «motore propulsore dell'esplosione di vitalità rivoluzionaria». Lo scrivono nero su bianco, in un patto. Il testo chiave è questo: «Non siamo così pochi». Tre i punti cardine dell'accordo: «Azione diretta distruttiva come elemento indispensabile e imprescindibile, dal lancio di molotov all'assassinio». Secondo: «Perenne rivolta contro l'esistente». Terzo: «Solidarietà rivoluzionaria internazionale».
Torino in lotta Crocevia di pensieri e azioni.
È la Torino del 1997 dove le idee del rivoluzionario-filosofo Alfredo Maria Bonanno, punto di riferimento nel panorama nazionale, prendono vita e alimentano menti. Il 20 giugno, in una casa, le forze dell'ordine, durante una perquisizione, trovano un documento. Il testo-base della Fai: «Prospettive operative comuni contro la repressione dei compagni». In quella Torino muove i suoi primi passi Alfredo Cospito, all'epoca trentenne, originario di Pescara. Scrive e infiamma il dibattito cittadino. Proietta scenari «lottarmatisti», predica violenza, parla di azione «diretta e distruttiva». Con lui c'è Anna Beniamino, all'epoca 27enne, considerata dagli apparati investigativi, Ros e Digos, altra teorica del gruppo.
La sigla Fai compare nel 2003. Da quell'anno vengono inviati pacchi bomba all'allora presidente della commissione europea Romano Prodi, agli ex sindaci di Torino e Bologna, Sergio Chiamparino e Sergio Cofferati. Il 5 marzo 2007 nel quartiere della Crocetta, tra ville storiche e appartamenti di lusso, esplodono tre ordigni temporizzati, nascosti nei cassonetti della spazzatura. Il 24 maggio 2005 scoppia un pacco bomba in un ufficio territoriale della polizia municipale nel quartiere di San Salvario. E ancora: il 2 giugno 2006 davanti all'ex scuola allievi carabinieri di Fossano esplodono altre bombe. La Fai rivendica le azioni. Il salto di qualità arriva il 7 maggio 2012, subito dopo il patto: nel centro di Genova viene gambizzato l'ex amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi. Gli sparano con una Tokarev calibro 7,62.
Per quell'attentato finiscono in carcere, ora con sentenza definitiva, Alfredo Cospito e Nicola Gai, figlio di un imprenditore torinese.
La Grecia Tra il 2010 e il 2011 compaiono numerosi appelli rivolti a costituire una rete più ampia, internazionale. Ed proprio la ramificazione greca a diffondere una serie di testi destinati a promuovere l'esportazione del progetto eversivo. In solidarietà, ad esempio, di Gerasimos Tsakalos e Panagiotis Argyrou, due attivisti ellenici arrestati nel 2009, e ad altri anarchici imprigionati in vari paesi. In quel periodo vengono inviati 14 plichi incendiari a personalità e istituzioni. Nel mirino soprattutto le ambasciate di Grecia, Cile, Svizzera in Italia.
Oggi la solidarietà è rivolta a Cospito, recluso in regime di carcere duro. Da oltre un mese ha iniziato lo sciopero della fame. La rete anarchica internazionale da giorni si sta mobilitando per lui. Iniziative in Italia, in Europa, e persino in Oregon. Oltre alla condanna per la gambizzazione, negli anni scorsi Cospito è stato ritenuto colpevole con altri anarchici di associazione con finalità terroristiche, attentati eversivi, strage, istigazione a delinquere. In questi giorni attende una pronuncia definitiva della Cassazione, su uno dei filoni di accuse.
Il legale di Alfredo Cospito, Flavio Rossi Albertini, invita ad evitare «affermazioni condotte da pregiudizio o ipotesi non verificate. La quasi totalità delle iniziative di solidarietà sono state legittime e legali». L'attenzione, però, resta alta. Blitz in tutta Italia. E nei giorni scorsi il neo procuratore antimafia Giovanni Melillo è stato in visita a Torino per confrontarsi con gli investigatori in vista dell'udienza, sull'onda delle manifestazioni di protesta. Lui stesso, a Sassari, è stato oggetto di un attacco, con volantini.
Francesco Olivo per "La Stampa" il 3 dicembre 2022.
Gli italiani di Atene hanno paura. A memoria, nessuno ricorda di averne provata da queste parti. Eppure la polizia greca ha avvisato tutti: gli anarchici possono colpire ancora. «Questa è una città tranquilla», sottolinea tutto il personale della rete italiana che vive nella capitale greca, ma oggi un po' meno. Molto meno.
La chat WhatsApp dei diplomatici italiani di Atene è iniziata a risuonare poco dopo le 4 del mattino in Grecia. Susanna Schlein, consigliera d'ambasciata, ha avvisato tutti con un messaggio: «Mi hanno bruciato la macchina e stava per esplodere anche la seconda. Sono viva per miracolo». Con lei c'è la polizia che la ascolta e i vigili del fuoco che la terrorizzano, «se la seconda molotov non si fosse inceppata, proprio qui sotto la finestra della sua stanza da letto...». La rete si attiva, l'ambasciatrice Patrizia Falcinelli avvisa la Farnesina, poco dopo la notizia viene riferita al ministro degli Esteri Antonio Tajani: «È successo un fatto grave ad Atene».
Quella che segue è la giornata più tesa degli ultimi anni vissuta dagli italiani, in questa città accogliente che nasconde sacche di rabbia. La rivendicazione non arriva, il funzionario del Viminale ad Atene manda i suoi dispacci a Roma. Ma la modalità non lascia dubbi agli inquirenti e, a chi vive qui, un dettaglio fa rabbrividire: la consigliera d'ambasciata è stata seguita e quindi dietro alle molotov non c'è solo qualche balordo. «È il modus operandi degli anarchici», dice un funzionario di sicurezza che ha in mano il dossier.
Quando per la prima volta si guardano negli occhi, dopo una giornata molto agitata, diplomatici, funzionari e impiegati dell'ambasciata hanno gli sguardi provati. Nessuno osa dirlo, ma quelle molotov, specie quella inesplosa, hanno cambiato le cose, perché, come spiega una funzionaria, qui tutti sanno che «poteva succedere a ognuno di noi: hanno colpito Susanna, ma siamo tutti nel mirino, ce lo hanno mostrato stanotte».
Schlein, è la ricostruzione ufficiale, è stata scelta perché vive in un quartiere residenziale e non in centro come i suoi colleghi. Nessuno ha dubbi: Schlein è stata colpita in quanto rappresentante delle nostre istituzioni. E quindi ora nessuno può dirsi al di fuori di questa brutta storia, a cominciare da Tajani la cui visita ad Atene, dopo i fatti dell'altra notte, ha assunto tutto un altro peso.
Al vicepremier hanno rafforzato la scorta, con automobili più sicure e percorsi meno scontati per raggiungere la sede del governo, del ministero degli Esteri e poi dell'hotel Four Seasons, dove ha incontrato i vertici del Ppe. Quando Tajani arriva in ambasciata si ferma a parlare con Schlein, «la mia famiglia è viva per miracolo, ministro», ripete lei, trattenendo l'emozione. La consigliera d'ambasciata, nonostante la giornata spaventosa, non ha voluto rinunciare ai suoi incarichi, «è una professionista esemplare - racconta Tajani, prima della cena con Ursula von der Leyen e Roberta Metsola -. In un momento difficile, queste persone hanno dimostrato grande serietà e determinazione».
Già al mattino la comunità italiana è stata messa in allerta.
Dalla sede diplomatica sono partite delle telefonate per rassicurare, ma anche per rendere consapevoli le istituzioni presenti qui. Nessuno si era accorto che ci fosse un'escalation del genere. Ma che qualcosa stesse per succedere era evidente. La settimana scorsa la sede della camera di commercio italo-greca era stata ricoperta di vernice rossa. Un atto rivendicato, l'unico fino adesso. Poi gli attivisti si sono avvicinati al bersaglio attaccando alcuni manifesti al muro dell'ambasciata. Mercoledì scorso gli anarchici erano arrivati sotto la nostra ambasciata. Hanno gridato slogan, lanciato volantini, con toni durissimi contro le istituzioni italiane per la detenzione di Alfredo Cospito, poi se ne sono andati.
Materiale sufficiente per far alzare il livello d'allerta, sia in Grecia che in Italia. Ma la protezione è stata rafforzata solo per la sede diplomatica e non per i diplomatici stessi. Da Roma sono in arrivo due carabinieri in più, ma quello che si chiedono i diplomatici i 12 «espatriati» (i dipendenti della Farnesina inviati nelle sedi estere) è: «Stasera torno a casa da solo?». Ad Atene nessun italiano se l'era mai chiesto».
Letizia Tortello per "La Stampa" il 3 dicembre 2022.
«Era notte fonda, le 4 circa (le 3 in Italia, ndr), stavamo dormendo. Abbiamo sentito dei rumori fuori da casa e siamo subito scesi al piano inferiore per controllare. Davanti a noi un inferno di bagliori, le luci arancioni di un grande incendio che era partito e non si fermava più, arrivavano dalla cantina adiacente il garage. Siamo subito scappati a portare via i bambini». Il marito di Susanna Schlein, prima consigliera d'ambasciata d'Italia ad Atene e sorella di Elly Schlein, deputata del centrosinistra e in lizza per la guida del Pd, è sotto choc. Racconta al telefono, con voce pacata e insieme profondamente turbata, il terribile attacco di ieri, mirato contro di loro. La diplomatica e la famiglia sono sopravvissuti per miracolo: il rogo appiccato sotto la loro abitazione è stato originato da due bottiglie incendiarie, piazzate vicino alle auto, che potevano far saltare l'intero edificio.
Schlein vive in una villetta nella periferia Est di Atene, quartiere Papagou. Una delle loro macchine è andata completamente in fiamme, resta solo la carcassa. Vicino al veicolo, gli inquirenti hanno trovato una bottiglia piena di liquido infiammabile, un accendino e un pacco di fiammiferi. La seconda automobile, invece, non è saltata in aria, «perché per fortuna la molotov non è scoppiata - spiega a La Stampa Konstantina Dimoglidou, capo comunicazione della polizia greca -. Era un ordigno rudimentale, una bomboletta piena di gas e poteva fare molti più danni, enormi».
Finora, non c'è stata una rivendicazione ufficiale dell'attentato. Ma gli inquirenti greci ritengono probabile la pista anarchica. La galassia dell'anarchismo greco, che ha il cuore storico nel quartiere ateniese di Exarchia, è collegato da una rete ideologica ed operativa molto stretta a quello italiano. Da giorni, aveva preso di mira la nostra ambasciata ad Atene, seminando scritte fuori dal palazzo. Mercoledì scorso, ha organizzato una manifestazione di solidarietà ad Alfredo Cospito, compagno recluso in isolamento nel carcere di Bancali (Sassari), in sciopero della fame da ottobre per protestare contro il regime del 41 bis, il "carcere duro". Poche ore prima dell'incendio sotto l'abitazione di Schlein, l'Assemblea aperta degli anarchici greci - così si firmano - ha diffuso un comunicato in cui inneggia alla rivoluzione anarchica, alla lotta contro la repressione carceraria e invocava «libertà per tutti i prigionieri come Alfredo».
Nei rapporti tra Grecia e Italia, quella di ieri era una giornata simbolica e carica di temi in discussione. Prima, la visita a Roma del ministro greco per la sicurezza dei cittadini, Panagiotis Theodorikakos, accolto al Viminale dal ministro dell'Interno Piantedosi. Dalle due parti, è stato confermato che le indagini si stavano concentrando sulle frange anarchiche, non nuove ad attentati di questo tipo.
Poi il ministro degli Esteri Antonio Tajani che è volato nella capitale greca, accolto dal premier Kyriakos Mtsotaks e dall'omologo Nikos Dendias, per parlare di migranti e sicurezza nei Balcani. «Per fortuna non ci sono state vittime - ha commentato Tajani, arrivato in ambasciata per incontrare Schlein e gli altri funzionari -. La nostra prima consigliera è salva per miracolo e ha assicurato la sua presenza. Siamo vicini a lei e alla famiglia. Le nostre donne e i nostri uomini hanno dimostrato grande serietà e determinazione».
Dopo ore di terrore, la diplomatica di origine italo-svizzera ha voluto tranquillizzare chi le era stato vicino: «La mia famiglia è ancora molto scossa per il terribile rischio che abbiamo corso. È stato del tutto inaspettato. Ora dobbiamo guardare avanti e non avere paura, affidandoci all'azione della magistratura italiana e greca per identificare i responsabili».
Il marito conferma che non avevano ricevuto «alcun segnale di pericolo. Per questo io personalmente sono turbato». Nessuna avvisaglia che potesse far pensare ad un attacco imminente. Descrive i dettagli. Le fiamme divampate nella villetta hanno richiesto l'intervento di una squadra di sei mezzi dei vigili del fuoco. «La macchina si trovava all'interno della nostra proprietà, non per strada. Gli aggressori hanno violato il domicilio, non hanno tirato degli ordigni in strada». Numerosi gli attestati di solidarietà dall'Italia, arrivati a Schlein.
A partire dalla sorella Elly: «Susanna mi ha detto di non avere paura», ha commentato la deputata. Mentre l'ambasciatrice Patrizia Falcinelli si dice «molto colpita per l'ignobile attentato, che solo casualmente non ha avuto conseguenze più gravi». La Farnesina, insieme alle autorità greche, rafforzerà le misure di sicurezza attorno alla sede diplomatica. In attesa che vengano individuati i responsabili dell'assalto, che ha scatenato il terrore tra gli italiani ad Atene e poteva fare strage.
In sciopero della fame da quasi 2 mesi. Alfredo Cospito e lo show dei media per lasciarlo al 41bis dopo l’attentato-Schlein: “Non sono il capo di tutte le cose anarchiche”. Frank Cimini su Il Riformista il 9 Dicembre 2022
Un gruppo di anarchici greci “Nucleo di vendetta Carlo Giuliani” con un comunicato sul sito Indimedia Athens ha rivendicato l’incendio dell’auto il 2 dicembre scorso di Susanna Schlein, viceambasciatrice italiana e sorella di Elly candidata alla segreteria del Pd.
Il gruppo anarchico afferma di aver agito in solidarietà con Alfredo Cospito ormai da 50 giorni in sciopero della fame nel carcere di Sassari Bancali per protestare contro l’articolo 41bis, blocco della corrispondenza e due sole ore d’aria al giorno in un cubicolo dal quale non si vede nulla di esterno alla prigione. Il 41bis per il gruppo dedicato a Carlo Giuliani “è un regime di sterminio politico, sociale sensoriale volto alla completa eliminazione di ogni contatto con il mondo esterno”. Il governo Meloni viene definito fascista e accusato di voler rendere l’Italia una fortezza con le sue leggi razziste anti immigrazione. “Per quanto vogliano seppellirti noi non ti dimenticheremo mai” sono le parole di solidarietà rivolte a Alfredo Cospito.
Il problema intorno a Cospito però non è tanto quello che accade in Grecia ma quanto succede in Italia dove dal giorno dell’attentato politici di ogni colore e giornali importanti hanno cercato con grande determinazione davvero degna di miglior causa di addebitare l’azione al detenuto anarchico che si trova in pratica sotto tortura. La “campagna” non ha influenzato la corte d’Assise d’appello di Torino che rigettando la richiesta di ergastolo della procura generale ha mandato gli atti alla Corte costituzionale sulla possibilità o meno di concedere l’attenuante della lieve entità per i pacchi esplosivi ai carabinieri di Fossano che non provocarono morti e nemmeno feriti.
Ma non è detto che questa sorta di accanimento politico mediatico non sortisca i suoi effetti sul Tribunale di Sorveglianza di Roma che sta decidendo sul reclamo contro il 41bis presentato dai difensori. Anzi. Sulla scelta della sorveglianza non c’è al momento che da essere pessimisti per la sorte di Alfredo Cospito. Dall’udienza romana sono trascorsi già sette giorni e essendo Cospito in sciopero della fame nel caso i giudici avessero voluto revocare le misure del 41bis con ogni probabilità lo avrebbero già fatto. Cospito in aula a Torino senza citare direttamente il fatto di Atene aveva detto di non essere “il capo di tutte le cose anarchiche che succedono nel mondo”. La speranza del detenuto è che i giudici della capitale ne tengano conto. Frank Cimini
La Consulta deciderà sull’ergastolo a Cospito, l’anarchico al 41bis per una strage senza morti. GIULIA MERLO su Il Domani il 05 dicembre 2022
La corte d’assise d’appello di Torino ha accolto la questione di costituzionalità sulle attenuanti all’ergastolo ostativo per il leader del gruppo anarchico della Federazione anarchica informale, che ha commesso una serie di attentati dal 2003 al 2016. La Cassazione aveva rideterminato nel reato di “strage politica” l’attentato davanti alla caserma allievi di Torino
La corte d’assise d’appello di Torino ha rinviato alla Corte costituzionale la decisione sulla possibilità di concedere le attenuanti ai due anarchici Alfredo Cospito e Anna Beniamino, per i quali il procuratore generale di Torino aveva chiesto rispettivamente l’ergastolo ostativo e 27 anni di carcere per strage politica.
L’anarchico Alfredo Cospito, 55 anni, è attualmente detenuto al regime di carcere duro del 41 bis nel carcere di Sassari e in sciopero della fame, la sua compagna Anna Beniamino è invece detenuta a Rebibbia.
Qualora i giudici costituzionali accogliessero le eccezioni della difesa, Cospito potrebbe venire condannato non più all’ergastolo ostativo ma una condanna tra 21 e 24 anni, che – sommata alle altre condanne – porterebbe gli anni da scontare in totale a 30.
Il processo è molto complicato ed è iniziato nel 2017 ed è attesa in giornata la sentenza dei giudici della corte d’appello di Torino, che deve solo riqualificare la pena per i due imputati.
Cospito e Beniamino, infatti, sono stati già condannati in via definitiva nell’ambito dell’inchiesta “Scripta manent”, che ha riguardato una serie di attentati nel nord Italia tra il 2003 e il 2016 con ordigni e plichi esplosivi contro politici, giornalisti e forze dell'ordine, e sono considerati gli ideologi del Fai, la Federazione anarchica informale.
Il processo d’appello per rideterminare la pena è stato celebrato davanti alla corte d’assise d’appello di Torino, blindata per l’occasione: davanti al tribunale, infatti, si è tenuto un presidio di anarchici e antagonisti, che hanno srotolato uno striscione con la scritta “al fianco di Alfredo e Anna stragista è lo stato”. Nel corso dell’udienza, si è svolto anche un corteo con il lancio di tre bombe carta e di fumogeni da parte degli anarchici con scontri in strada con la polizia e l’identificazione di 100 persone.
SU COSA DECIDE LA CONSULTA
La Consulta è chiamata a esprimersi si può applicare o meno l'attenuante della particolare tenuità del fatto al reato di strage politica. A Cospito viene infatti contestata la recidiva reiterata specifica (ha commesso più volte lo stesso reato) e quindi teoricamente non si potrebbe operare alcun bilanciamento tra attenuanti e aggravanti e per lui la pena sarebbe quella dell’ergastolo, come chiesto dalla procura generale.
I giudici costituzionali dovranno valutare se anche nel reato di strage politica debba operare il divieto di bilanciamento oppure no. Flavio Rossi Albertini, legale di Cospito ha spiegato che ora «la Corte costituzionale può decidere che in questo caso ricorra una prevalenza rispetto alla recidiva reiterata, così come deciso dalla Corte stessa in altri casi».
COSPITO IN SCIOPERO DELLA FAME
Il caso di Cospito è diventato uno dei simboli dell’attuale contestazione anarchica e autonoma, in moltissime città italiane, da Milano a Roma, a Genova e Torino. L’uomo, infatti, è detenuto da 6 anni nel carcere di Sassari in regime di alta sicurezza e dallo scorso aprile per lui è stato disposto il regime di carcere duro del 41 bis.
La ragione di questo cambio di regime è stato motivato dagli scambi di lettere con altri anarchici che Cospito mantiene da 10 anni e da scritti da lui inviati per la pubblicazione su riviste d’area. Secondo i magistrati torinesi, questo epistolario farebbe riemergere l’esistenza di una vera e propria organizzazione anarchica e la rinascita della Federazione anarchica informale.
Con il 41 bis, Cospito ha perso la possibilità di andare in palestra, di accedere ai libri, divieto di corrispondenza e di avere 4 ore di aria al giorno. Per protestare contro questa decisione, il leader anarchico ha iniziato uno sciopero della fame che dura ormai da un mese e mezzo, durante il quale ha perso più di 25 chili.
«Tutto questo è scomparso senza che sia intervenuto nulla di evidente che possa giustificarlo. Cospito ha intrapreso questo sciopero della fame perché è il solo strumento di protesta che ha a disposizione», ha spiegato il suo avvocato, Flavio Rossi Albertini, a Radio Radicale.
Nel corso del processo, Cospito è intervenuto con dichiarazioni spontanee: «Oltre all'ergastolo ostativo, visto che dal carcere continuavo a scrivere e collaborare alla stampa anarchica, si è deciso di tapparmi la bocca per sempre con il 41 bis», ha detto, spiegando che «continuerò il mio sciopero della fame per l'abolizione del 41 bis e dell'ergastolo ostativo fino all'ultimo mio respiro, per far conoscere al mondo questi due abomini repressivi di questo paese».
In suo favore si è mobilitata anche una parte dell’opinione pubblica, a partire dal sociologo Luigi Manconi, che ha scritto su Repubblica che «ciò che questa storia racconta è, innanzitutto, la situazione così drammaticamente critica che l'applicazione arbitraria e irrazionale del 41 bis può determinare». Secondo Manconi, «Tutte le altre misure e limitazioni adottate senza una documentata ragione vanno dunque considerate extra-legali. Ovvero illegali. E come tali risultano, palesemente, le condizioni di detenzione di Alfredo Cospito».
In aula al Senato, inoltre, Ilaria Cucchi ha presentato una interrogazione al ministro della Giustizia, Carlo Nordio.
L’INCHIESTA
L’inchiesta “Scripta manent” ha riguardato la galassia anarchica Fai-Fri, che tra il 2003 e il 2016 ha rivendicato una serie di attentati, commessi con ordigni esplosivi contro politici, giornalisti e forze dell’ordine.
Tra gli episodi più gravi, la gambizzazione di un dirigente della Ansaldi di Genova nel 2012, l’attentato nel quartiere pedonale torinese di Crocetta e l’attentato esplosivo alla scuola allievi carabinieri di Fossano, avvenuto nella notte tra il 2 e il 3 giugno 2006.
Nel caso della caserma, gli anarchici avevano posizionato due ordigni a basso potenziale esplosivo in due cassonetti dell’immondizia davanti all’ingresso della caserma. Secondo la ricostruzione giudiziaria, il primo ordigno doveva servire ad attirare sul posto le forze dell’ordine, il secondo – costruito con chiodi e pezzi di ferro – doveva esplodere subito dopo. Nell’attentato, tuttavia, non ci sono stati morti nè feriti.
Tra le azioni, le sigle anarchiche avevano anche inviato un plico incendiario inviato all’ex sindaco di Bologna, Sergio Cofferati nel 2005 e un pacco esplosivo all’ex sindaco di Torino, Sergio Chiamparino nel 2006.
L’inchiesta della procura di Torino oordinata dal pubblico ministero Roberto Sparagna ha preso spunto da quelle di ‘ndrangheta e di mafia: invece di considerare ogni evento, ha collegato tra di loro gli attentati, ipotizzando l’esistenza di una vera e propria associazione con finalità terroristica, anche se composta da numerose sigle “informali”, tra le quali una aveva scelto la lotta armata (formando il cosiddetto gruppo dei “lottarmatisti”).
I GRADI DI GIUDIZIO
Il processo di primo grado, iniziato nel 2017, aveva visto l’imputazione di 23 anarchici con l’accusa di associazione con finalità di terrorismo e dell’ordine democratico e strage con finalità di attentare alla sicurezza dello Stato per gli episodi della caserma allievi e a Crocetta.
La corte d’assise di Torino aveva però parzialmente smontato l’impianto accusatorio, con 5 condanne e 18 assoluzioni. Le pene più alte erano state per i due anarchici considerati gli ideologi del gruppo: Alfredo Cospito, condannato a 20 anni, e Anna Beniamino, a 17. In primo grado, per gli episodi di Crocetta e della caserma allievi, il reato era stato rigualificato come strage “semplice”, quindi senza la finalità di attentato alla sicurezza. (422 e non 285)
Nel 2020 la corte d’assise d’appello, invece, ha parzialmente ribaltato la sentenza di primo grado. I giudici d’appello hanno infatti confermato che la Federazione anarchica informale e le sue diverse “cellule” fossero «un’associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico». In appello i condannati sono stati 13 (dieci per reati meno gravi come apologia di reato e istigazione per scritti su blog e volantini, con pene tra i 18 mesi e i 2 anni), invariata è rimasta la pena di Cospito a 20 anni e a Beniamino (16 anni e 6 mesi).
Nel 2022 la Cassazione ha respinto i ricorsi delle difese, confermando le condanne irrogate nel secondo grado. Solo nel caso di Cospito e Beniamino, invece, i giudici di Cassazione hanno deciso di rinviare gli atti alla corte d’assise d’appello di Torino per un ricalcolo in peggio della pena solo per l’episodio della caserma allievi, accogliendo la richiesta della procura di riqualificare il reato in “strage politica”.
IL REATO DI STRAGE POLITICA
La differenza di qualificazione del reato per l’attentato alla caserma allievi è determinante. Il reato di strage, rubricato all’articolo 422 del codice penale, condanna a una pena non inferiore al 15 anni (e all’ergastolo nel caso di uccisione di qualcuno) chi «al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità» ed è un delitto di pericolo comune.
Il reato previsto all’articolo 285, invece, è di strage «allo scopo di attentare alla sicurezza dello stato» ed è un delitto contro la personalità dello stato, punito con l’ergastolo senza alcuna variante di pena anche senza che la strage abbia provocato morti.
Nel corso dell’indagine, la procura di Torino aveva ipotizzato il reato dell’articolo 285 per l’attentato alla caserma allievi e nel quartiere Crocetta, il primo grado lo aveva degradato a quello previsto all’articolo 422 e invece la Cassazione lo ha riqualificato come ex articolo 285. Per questa ragione Cospito rischia la condanna all’ergastolo.
«La magistratura italiana ha deciso che troppo sovversivo non potevo avere più la possibilità di rivedere le stelle, la libertà, si è preferito l'ergastolo ostativo, che non ho dubbio mi darete, con l'assurda accusa di aver commesso una strage politica per due attentati dimostrativi in piena notte, in luoghi deserti, che non dovevano e non potevano ferire o uccidere nessuno», sono state le parole di Cospito nell’ultima udienza.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato
Chi è Alfredo Cospito, il primo anarchico condannato al carcere duro. A cura di redazione Torino su La Repubblica il 5 dicembre 2022.
Classe 1967, pescarese, gli sono già stati inflitti dieci anni per la gambizzazione del manager Ansaldo Adinolfi. Ora rischia l'ergastolo per due bombe alla scuola allievi carabinieri di Fossano
Il mondo anarchico è in fibrillazione per la sorte di Alfredo Cospito, in carcere in regime di 41 bis. È detenuto da oltre 10 anni nel carcere di Bancali, a Sassari, nel 2014 è stato condannato a 10 anni e 8 mesi per la gambizzazione dell'ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, nel 2012, rivendicato dalla sigla Nucleo Olga Fai-Fri, Federazione anarchica informale-Fronte rivoluzionario internazionale. Cospito è accusato anche di aver piazzato due ordigni a basso potenziale nei pressi della Scuola allievi carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo, nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006. L'esplosione dei due ordigni non causò vittime.
Pescarese, classe '67, Cospito è il primo caso di un anarchico al 41 bis, una disposizione introdotta nell'ordinamento penitenziario italiano con una legge nel 1986, in funzione di lotta e contrasto alle mafie. Da ottobre scorso è in sciopero della fame: dopo sei anni in regime di alta sicurezza, ad aprile, la sua condizione carceraria si è aggravata, con il passaggio al 41 bis, così come stabilito da un decreto del Ministero della Giustizia, secondo il quale Cospito, comunicando con l'esterno, manterrebbe i legami con il gruppo anarchico di riferimento.
Una decisione motivata sulla base degli scambi epistolari avvenuti, negli anni della detenzione, con altri anarchici. I magistrati di Torino hanno ritenuto che, attraverso lo scambio epistolare, Cospito mantenesse i legami con l'organizzazione di riferimento. Successivamente, i pm di Torino hanno avviato una indagine che ha portato a un procedimento nei confronti degli appartenenti alla Fai per i reato compiuto tra il 2003 e il 2006. Cospito è stato identificato quale "capo e organizzatore di un'associazione con finalità di terrorismo" e condannato a 20 anni di reclusione in primo e secondo grado. Lo scorso mese di luglio, la Cassazione ha riformulato le accuse nei suoi confronti: strage contro la sicurezza dello Stato, reato che prevede l'ergastolo ostativo o, in altre parole, "fine pena mai".
Chi è l’anarchico Alfredo Cospito: dalla «gambizzazione» del dirigente dell’Ansaldo all’attentato alla caserma dell’Arma. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 5 dicembre 2022.
L’ideologo del Fai-Fri ispirato agli anarchici russi. Da falsi volantini di Amnesty del 1991 alle condanne per gli ordigni fatti esplodere in piazze, redazioni e davanti ai presidi delle forze dell’ordine. I pacchi-bomba inviati a Sergio Cofferati e Romano Prodi
Falsi volantini di Amnesty International
La prima volta che il nome di Alfredo Cospito — anarchico 55enne detenuto a Sassari con il 41 bis per il gambizzamento del dirigente Ansaldo Roberto Adinolfi e in attesa a Torino dell’udienza sulla rivalutazione della pena, che prevede anche l’ergastolo, per un attentato, nel 2006, alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano (e per il quale oggi si mobilità il mondo anarchico, ma non solo) — compare sul Corriere della Sera è il 2 novembre 1991. Le pagine sono quelle della cronaca di Milano. Vengono trovati falsi volantini attribuiti ad Amnesty, che ne aveva preventivamente segnalato l’esistenza e l’estraneità, con scritte così: «Libertà immediata per l’anarchico Alfredo Cospito», «Più nessun prigioniero, diroccamento e spianamento delle carceri, liberi tutti», «Ogni individuo è libero di rifiutare le imposizioni dello Stato». Non è chiaro perché Cospito all’epoca fosse in carcere, fatto sta che il suo nome ricompare, sempre nelle cronache del Corriere il 4 ottobre 2013 e in poco più di una menzione, dopo che a Bergamo viene recapitata un bomba presso gli uffici di Bergamo di Europol. Poco dopo l’accaduto venne diffuso un documento firmato da lui e da Nicola Gai in cui si evocava «l’odore della dinamite».
«Adinolfi? Abbiamo agito da soli»
Poi ecco un’altra citazione il 31 ottobre, ma stavolta è ampia, un’apertura di pagina per un fatto grave. A Genova si tiene il processo per il ferimento del manager dell’Ansaldo Roberto Adinolfi, gambizzato più di un anno prima, il 7 maggio 2012. Cospito, che per quell’agguato è alla sbarra assieme a Nicola Gai — le accuse sono di lesioni gravi con finalità di terrorismo, furto di scooter e possesso di arma clandestina — confessa tutto ma con una rivendicazione orgogliosa: «Siamo anarchici e nichilisti, abbiamo agito da soli e lo abbiamo deciso dopo il disastro nucleare di Fukushima. Nessun altro ha partecipato al nostro progetto». In aula c’erano molti anarchici che a queste parole applaudirono, gridando «libertà» per gli imputati e «fascisti» all’indirizzo dei magistrati. Per l’agguato l’anarchico fu condannato a 10 anni e otto mesi (9 anni e 4 mesi per Gai). Ma chi è Cospito? Cerchiamo di capirlo, in queste cards successive, sempre dagli articoli del Corriere e dall’archivio dell’Ansa.
Gli anarchici russi, gli idoli di Cospito
Stando a un’informativa dei carabinieri del Ros, gli idoli di Cospito sono agli anarchici russi che, con atti di terrorismo, omicidi e attentati ai danni dei «padroni» hanno trasmesso «forza, tenacia, coerenza ed esperienza viva» ai «compagni di oggi». L’anarchico, personaggio di spicco del Federazione anarchica informale-Fri, sarebbe stato l’ispiratore, secondo gli investigatori, del gruppo romano di anarchici, autore di un libro — presentato a Roma — , «Anarchici di Bialystok 1903-1908» accusato di aver fatto esplodere una bomba, la notte del 7 dicembre 2017, davanti una caserma dell’Arma nella Capitale, al quartiere San Giovanni. Cospito, va detto, all’epoca dei fatti era detenuto in carcere a Ferrara per il ferimento di Adinolfi.
L’indagine per i 50 attentati
Nel 2016 è la Digos di Torino a ordinare il suo arresto in carcere (assieme a quello di Nicola Gai, ancora detenuto) e quello di altre cinque persone, tra cui la sua compagna Anna Beniamino. Accuse pesantissime: dal 2007, gli aderenti al Fai avrebbero seminato il terrore portando a compimento circa 50 azioni eversive. Tra queste l’esplosione al parco Ducale di Parma il 24 ottobre 2005; l’invio, il 2 novembre 2005, di un pacco esplosivo all’allora sindaco di Bologna Sergio Cofferati; una busta esplosiva inviata nel 2006 alla redazione di CronacaQui a Torino che deflagrò e ferì agli occhi il direttore del quotidiano Beppe Fossati. Il gruppo sarebbe stato anche responsabile dell’esplosione di due ordigni collocati, nel dicembre 2003, vicino all’abitazione bolognese di Romano Prodi. In questa indagine c’è anche l’attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano. Fatti per cui Cospito venne condannato a 20 anni sebbene la Cassazione abbia deciso un nuovo appello per rideterminare la pena (anche per Beniamino, 16 anni e 6 mesi) ritenendo che non sia stato commesso il reato di strage comune, bensì quello di strage politica. Che prevede anche l’ergastolo.
L’azione «dedicata ad Alfredo Cospito»
L’ultima citazione, dalle pagine della cronaca torinese, è recentissima e risale al 2 settembre scorso. Dopo che il 27 giugno un pacco bomba è stato indirizzato ad Alessandro Profumo, ad di Leonardo, sul web sono comparse delle rivendicazioni — a firma «Brigata Augusto Masetti, Fai, Fronte Rivoluzionario internazionale — di matrice anarchica in cui viene spiegato che l’azione era «dedicata ad Alfredo Cospito».
Storia di Alfredo, l’anarchico al 41-bis: un atto totalmente fuori legge. Luigi Manconi su Il Riformista il 26 Ottobre 2022
Caro Direttore,
la letteratura sul 41-bis si fa via via sempre più nutrita, assumendo i connotati del genere horror. Emerge un interrogativo: esiste un limite all’esecuzione della pena e alla sua afflittività? Viene da chiederselo ripercorrendo la vicenda di Alfredo Cospito, che ha intrapreso lo sciopero della fame all’interno della casa circondariale di Bancali, a Sassari, per denunciare le condizioni cui si trova costretto dal regime di 41-bis al quale è sottoposto dall’aprile scorso, dopo sei anni in Alta Sicurezza. Cospito è un anarchico condannato per strage perché così prevede il dispositivo del reato, anche se l’attentato in questione non ha provocato conseguenze letali.
Nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006, alla scuola Allievi Carabinieri di Fossano (Cuneo), esplodono due pacchi bomba a basso potenziale che non determinano morti, feriti o danni gravi. Per questo, la Corte d’Assise d’Appello ha qualificato il fatto come strage (art. 422 del Codice penale): delitto contro la pubblica incolumità, che prevede una pena non inferiore ai 15 anni. Successivamente, nel luglio scorso, la Cassazione ha modificato l’imputazione nel ben più grave delitto (contro la personalità interna dello Stato) di strage, volta ad attentare alla sicurezza dello Stato (art. 285 del Codice penale), condannando Alfredo Cospito e Anna Beniamino all’ergastolo.
Il verdetto è palesemente abnorme, tanto più se si considera che non si è fatto ricorso a quella fattispecie penale – come ricorda Damiano Aliprandi sul Dubbio – nemmeno nei casi di attentati quale quello di Capaci, che ha provocato la morte di Giovanni Falcone, di sua moglie e degli uomini della scorta, e quello di via D’Amelio contro Paolo Borsellino. Tuttavia, nell’immediato, tenuto conto dell’azione non violenta intrapresa da Cospito l’attenzione va concentrata sulle sue condizioni di reclusione. Fino all’aprile scorso, pur sottoposto al regime di Alta Sicurezza, il detenuto poteva comunicare con l’esterno, inviare scritti e articoli e così partecipare al dibattito della sua area politica, contribuire alla realizzazione di due libri, scrivere e ricevere corrispondenza. Poi tutto è cambiato.
Da sette mesi le lettere in entrata vengono trattenute e questo, di conseguenza, induce il detenuto a limitare e ad autocensurare le proprie. Le ore d’aria sono ridotte a due, interamente trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadrati; la “socialità” è limitata a un’ora al giorno, da passare con tre detenuti. In realtà, con uno soltanto, dal momento che un secondo si trova in isolamento diurno e un altro ormai non esce più dalla propria cella.
La conseguenza di tutto ciò è un sistema di vera e propria deprivazione sensoriale: il perimetro dello spazio destinato all’ora d’aria è delimitato da muri alti che interdicono lo sguardo, e la visione del cielo è filtrata da una rete di metallo. «La mancanza di profondità visiva incide sulla funzionalità del senso della vista – scrivono gli avvocati Rossi Albertini e Pintus – e la mancanza di sole limita l’assunzione della vitamina D».
Lo stato di deprivazione sensoriale viene in genere scarsamente considerato, eppure è una delle più efferate conseguenze della natura nociva e patogena del carcere; oltre alle condizioni igienico-sanitarie spesso degradanti. La limitazione dei movimenti e gli orari imposti d’autorità, l’impossibilità di avere scambi e rapporti liberi, la determinazione dall’esterno dei ritmi quotidiani di vita e il controllo sugli spazi più intimi: tutto ciò produce una “postura del carcerato” che finisce inevitabilmente con l’ottundere e deprimere la personalità.
Si tratta, in tutta evidenza, di una condizione totalmente illegale e di uno stravolgimento della lettera e del senso della legge che affida al regime di 41-bis il solo ed esclusivo scopo di impedire i legami tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna alla quale apparterrebbe. Tutto ciò che eccede tale finalità è fuori legge. Che cosa ha a che vedere, infatti, con la ratio della norma il blocco della corrispondenza o quella miserabile apparenza di ora d’aria e di “socialità”? Luigi Manconi