Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
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Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
I PARTITI
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
I PARTITI
INDICE PRIMA PARTE
SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Scissione: vaffanculo a loro stessi.
La Democrazia a modo mio.
Ipocriti.
Son Comunisti…
Beppe Grillo.
Giuseppe Conte.
Luigi Di Maio.
Alessandro Di Battista.
Dino Giarrusso.
Gianluigi Paragone.
Rocco Casalino.
Virginia Raggi.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Moralità.
Il Capitano.
Il Senatur.
Giancarlo Giorgetti.
Lorenzo Fontana.
Luca Zaia.
Roberto Calderoli.
Roberto Maroni.
La Bestia e le Bestie.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.
La morte del Comunismo.
Comunisti: La Scissione dell’atomo.
Ipocriti.
Razzisti e bugiardi.
Achille Occhetto.
Beppe Sala.
Carlo Calenda.
Elly Schlein.
Enrico Berlinguer.
Enrico Letta.
Giuseppe Pippo Civati.
Goffredo Bettini.
Luigi De Magistris.
Mario Capanna.
Massimo D’Alema.
Matteo Renzi.
Maria Elena Boschi.
Matteo Richetti.
Monica Cirinnà.
Nicola Fratoianni.
Gianni Vattimo.
Fausto Bertinotti.
Laura Boldrini.
Walter Veltroni.
Vincenzo De Luca.
Le Sardine.
I Radicali.
I Marxisti d’oltreoceano.
INDICE QUARTA PARTE
IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le vittime innocenti degli scontri con la polizia.
Le Primule rosse.
Il Delitto Biagi.
Le Brigate Rosse.
PAC. Proletari Armati per il Comunismo.
Lotta Continua.
La Falange armata.
Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, NAR (Nuclei armati rivoluzionari).
Gli Anarchici.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)
I PARTITI
SECONDA PARTE
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Scissione nella Lega lombarda, nuovo schiaffo a Salvini: il Comitato nord di Bossi fa sul serio. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Dicembre 2022
A pochi mesi dalle elezioni la Lega è scossa da un terremoto. Una scissione – forse non solo episodica – va a scalfire la proverbiale granitica compattezza del Carroccio. A farsene carico è il Comitato Nord voluto da Umberto Bossi per predicare il ritorno alla Lega delle origini. Lo strappo si consuma in quel Palazzo Lombardia, sede della Regione, dove ieri tre consiglieri hanno voltato le spalle a Matteo Salvini. I tre dissidenti sono Roberto Mura, Federico Lena e Antonello Formenti che ieri hanno annunciato la nascita di un loro gruppo autonomo.
Al momento sembrano intenzionati a mantenere l’appoggio ad Attilio Fontana, che in questi cinque anni hanno sempre sostenuto. Ma le incognite aperte da una scissione sono sempre tante. La Lega è all’anagrafe “Lega per Salvini premier”, un partito personale che ha legato indissolubilmente le sue sorti a quelle del leader. Gli occhi dei maggiorenti leghisti non rigorosamente salviniani sono tutti puntati sugli esiti della scissione. Resta da capire se l’uscita dei bossiani in vista delle imminenti regionali potrà portare a un cambio di strategia nel momento in cui dal centrodestra esce Letizia Moratti. I tre esponenti uscenti la appoggeranno? Un altro leghista, Giammarco Senna, era uscito per primo la settimana scorsa per unirsi al gruppo di Italia Viva.
L’uscita dei tre ha ieri ridotto da 31 a 27 il numero di consiglieri del Carroccio in aula, anche se rimarrebbero – almeno Mura, Lena e Formenti – nella galassia del centrodestra: fonderanno il gruppo consiliare del Comitato Nord a ridosso del perimetro leghista, pronti ad accogliere nuovi transfughi. Se per rimanere fedeli a Fontana o per sostenere Moratti, è presto per dirlo. Ma il giorno della verità si avvicina: l’appuntamento per le elezioni regionali del Lazio e della Lombardia è stato fissato dal Cdm di ieri, con una data prolungata: si voterà anche lunedì 13 febbraio fino alle 15 e non solo nella giornata di domenica 12 febbraio. Se la Lombardia dovrà fare i conti con la novità di Comitato Nord, anche nel Lazio lo schieramento favorito vede un riposizionamento, e in parte un ripensamento: Sinistra Italiana, il partito che fa capo a Nicola Fratoianni, strappa con i Verdi Europei di Bonelli e abbandona il candidato del centrosinistra Alessio D’Amato. “Non staremo con il Pd e Calenda. Per un’incompatibilità su elementi portanti e un profilo politico a guida Calenda che sostiene Alessio D’Amato”, ha detto ieri il segretario regionale di Sinistra Italiana, Massimo Cervellini.
La palla passa al Partito Democratico. Per ora tra i dem, impegnati nella fase precongressuale, il dibattito è tutto tra Stefano Bonaccini e Elly Schlein. Ieri a vantaggio del primo si è schierato anche Matteo Ricci. L’asse appenninico che univa la Toscana di Nardella all’Emilia di Bonaccini si rafforza infatti con le Marche di Ricci. Diventa un tridente. Il sindaco di Pesaro si sfila dalla corsa a cui molti lo avevano già iscritto: darà una mano alla candidatura del governatore emiliano. E la sua collocazione alla sinistra di Bonaccini è di quelle che cambiano i pesi in campo. Perché se una parte della sinistra Pd, soprattutto quella romana di Goffredo Bettini e Nicola Zingaretti aveva reso noto il sostegno a Ricci, è adesso nei fatti che questo sostegno si tradurrà in voti in più per la mozione centrale.
“Lui ha la sua piattaforma – ha detto durante una conferenza stampa a Pesaro – noi mettiamo a disposizione le nostre idee, il nostro programma in dieci punti, per spostare la barra più a sinistra”. Ma Ricci chiede anche di “far andare davvero avanti i sindaci”. Il sindaco di Pesaro ha ricostruito il suo percorso verso le primarie, fatto di incontri sui territori in tutta Italia, andando a cena dalle famiglie, “andando a parlare con i delusi”. “Noi al momento siamo terzi – ha spiegato – e il meccanismo delle primarie non lascia spazi. A Bonaccini ho detto che le primarie a due sono pericolose, perché rischiano di divaricare”. Bonaccini inaugura oggi il suo tour dei 100 comuni. Parte da Bari dove sarà sul palco con il governatore pugliese Michele Emiliano e il sindaco Antonio Decaro.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
La Lega di Salvini di terremoto in terremoto: dopo la scissione lombarda, Fedriga candidato in Friuli Venezia Giulia da “civico”. Redazione su Il Riformista il 10 Dicembre 2022
Di terremoto in terremoto. La Lega di Matteo Salvini è profondamente scossa al suo interno da una serie di spaccature che rendono la segreteria del ministro delle Infrastrutture sempre più traballante.
Dopo la spaccatura registrata in Lombardia, con tre consiglieri regionali (Roberto Mura, Federico Lena e Antonello Formenti) che hanno fondato un gruppo autonomo ‘in nome’ di Umberto Bossi dopo aver aderito al Comitato Nord del ‘Senatur’, l’altro fronte si è aperto in Friuli Venezia Giulia.
La Regione, che tornerà al voto in primavera, vedrà l’attuale presidente leghista Massimiliano Fedriga ricandidarsi, ma alla guida di una lista civica. “Stiamo vedendo che molti cittadini, che non si riconoscono nei partiti nazionali del centrodestra, e che magari guardano anche ad altre parti politiche, apprezzano l’azione amministrativa che abbiamo svolto“, ha detto Fedriga in una intervista a La Stampa in cui ha spiegato la sua decisione.
Al quotidiano Fedriga, uno dei nomi forti per l’eventuale successione a Salvini alla guida del partito, ha spiegato che la sua “non è un’operazione per recuperare consenso ma per allargarlo“, richiamando l’esempio di Zaia e Toti in Veneto e Liguria.
“Credo che una lista del presidente dopo il primo mandato sia utile alla coalizione per offrire agli elettori un’alternativa” fuori dai “binari nazionali“. Rispondendo a una domanda sull’autonomia, Fedriga ha annunciato che dopo un confronto “con tutti i governatori, da Nord a Sud, e delle diverse forze politiche“, si sta “trovando una strada condivisa per superare le legittime perplessità di alcuni colleghi“, e chiede di “implementare il Pnrr per renderlo il più utile possibile” rivendicando un ruolo per le Regioni.
Quanto a Bossi, “è colui che ha fondato la Lega e non l’ha mai lasciata. Ho profondo rispetto per lui e penso che abbia ancora molte cose da dire e sia utile stare ad ascoltarlo”.
I rapporti tra il fondatore e l’attuale leader del partito sono invece ai minimi termini. Lo testimonia la cacciata immediata dei tre consiglieri ‘bossiani’ della Lombardia, espulsi dal Comitato di Disciplina e Garanzia del partito. “Chi sceglie di uscire da un movimento è libero di farlo, ma fa una scelta”, ha ribadito oggi Salvini.
Al momento i tre consiglieri sembrano intenzionati a mantenere l’appoggio ad Attilio Fontana, che in questi cinque anni hanno sempre sostenuto. Resta da capire se l’uscita dei bossiani in vista delle imminenti regionali potrà portare a un cambio di strategia nel momento in cui dal centrodestra esce Letizia Moratti
Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 20 Novembre 2022.
Luca Zaia, qual è il suo primo ricordo?
«I profumi delle stagioni. Il fieno, le vacche, il pelo dei cavalli, il latte, le ciliegie che rubavamo. E le vinacce con cui si faceva la grappa».
Famiglia contadina?
«No. Mia madre Carmela era casalinga, mio padre Giuseppe, detto Beppo, aveva un'officina. Ho cominciato ad aiutarlo a sei anni e lui mi ha sempre dato la paghetta. Sono stato un bravo meccanico: ancora oggi, se la mia macchina si fermasse, saprei aggiustarla da solo. Tutte le altre famiglie del paese erano contadine».
Quale paese?
«Bibano, frazione di Godega Sant' Urbano, sinistra Piave. Era un tempo lento, scandito da ritmi antichi. Si pranzava a mezzogiorno, i contadini andavano a rivoltare il fieno, poi arrivava il momento di dormire: la pennichella. Scendeva un silenzio totale, si sentivano solo le cicale. Una sensazione che ho ritrovato solo con il lock-down. La natura ci insegnava tutto: la nascita, la vita, la morte... e anche l'educazione sessuale».
L'educazione sessuale?
«Diciamo che alla fatidica domanda "come nascono i bambini?" avevamo già la risposta da conigli, polli, anatre... Non avevamo grandi guide culturali, ma una potenza esperienziale fortissima. In tv si vedevano solo due trasmissioni, oltre al tg: la messa del Papa e Linea Verde. Eravamo una comunità aperta. Tornavano i veneti emigrati in Belgio, in Argentina, in Australia».
Nel suo nuovo libro autobiografico, «I pessimisti non fanno fortuna», lei cita un proverbio arabo: «Tempi duri danno vita a uomini forti, uomini forti danno vita a tempi facili...».
«...Tempi facili danno vita a uomini deboli, uomini deboli danno vita a tempi duri. Due guerre mondiali hanno formato uomini forti: i nostri nonni. Poi è arrivato il tempo facile; come alla fine dell'impero romano, quando pensavano che non servisse più lavorare per vivere; provvedevano gli schiavi, gli immigrati. Ora però il tempo facile è finito. E sono tornati i tempi duri».
Cosa facevano i suoi nonni?
«Mio nonno paterno aveva combattuto la Grande Guerra, lo legavano al cannone con il fil di ferro. Suo fratello voleva emigrare in America, ma non passò la visita medica per una dermatite, e il nonno ne prese il posto lasciando la famiglia in Veneto. A New York dormiva in una branda con le quattro gambe immerse in quattro brocche d'acqua, in modo che le pulci annegassero anziché tormentarlo. Era solo. Un giorno piangeva disperato, seduto su un marciapiede di Little Italy, quando arrivò un ragazzo a portargli una mela: era del suo paese, Codogné, accanto a Bibano. Tempi durissimi. Al ritorno con i guadagni di anni di sacrifici comprò dei terreni».
E i nonni materni?
«Mia madre è l'ultima di undici figli, che poi divennero diciassette».
Come mai?
«Mia nonna e una sua sorella avevano sposato due gemelli omozigoti: mio nonno e mio prozio. Erano perfettamente identici, da piccolo non li distinguevo. Poi la sorella di mia nonna morì, lasciando i suoi sei figli, che si aggiunsero agli undici della nonna».
Come si mantenevano?
«Erano mezzadri, hanno conosciuto la fame e la povertà. Poi nel dopoguerra pian piano si sono affrancati. Negli anni '70 gli zii crearono un'azienda agricola all'avanguardia. Compravano in Olanda vacche frisone, facendole arrivare con un treno speciale. In casa ospitavano imprenditori e studenti, che volevano conoscere il loro modello. Tra questi un giorno arrivò un senegalese. Era la prima volta in vita mia che vedevo una persona di colore».
E cosa pensò?
«Ai re magi del presepe, tra cui ce n'era uno nero: segno che Gesù nasceva per tutti. Il senegalese si chiamava Francesco, era stato battezzato in un villaggio missionario. Lo ricordo altissimo, sorridente, riflessivo. Parlava lento, e i suoi racconti dell'Africa erano i nostri romanzi di Salgari. Da allora ho sempre avuto orrore per il razzismo. Anche grazie alla mia maestra».
Perché?
«Ci fece vedere, come nuovo modello di formazione, lo sceneggiato tv Radici, tratto dal libro di Alex Hailey. Kunta Kinte strappato dalla sua Africa e ribattezzato Toby, sua figlia Kizzie...».
Non è proprio la politica della Lega.
«La Lega è antirazzista. Ed è antifascista. Il tema che poniamo sui migranti è un tema di coerenza, di rispetto della dignità umana e di legalità. Il Veneto è terra dove l'accoglienza è un faro, dove il modello di integrazione è sotto gli occhi di tutti, ma è anche una comunità che chiede il rigoroso rispetto delle regole».
«Non è un paese per giovani» è il titolo di un capitolo. Cosa bisogna fare?
«Non rassegnarci all'emigrazione. All'estero i ragazzi devono andarci per scelta, non per necessità. Purtroppo, le politiche a favore dei giovani cozzano spesso con il consenso, in un Paese dove gran parte degli elettori sono adulti. Dobbiamo buttare il cuore oltre l'ostacolo affinché nelle azioni di governo, sia nazionale sia dei territori, i giovani siano il nostro riferimento».
Lei nel libro parla di «battaglie di retroguardia, che fanno perdere energia». Cosa intende?
«Non possiamo parlare dell'omosessualità come se fosse un problema. Vuol dire essere fuori dalla storia. La politica deve garantire le libertà e i diritti, non limitarli o reprimerli. Anche i temi dell'etica, del fine vita, dei diritti della persona vanno affrontati, non lasciati alla sinistra».
Lei scrive: «Libere scelte in libero Stato».
«Appunto. Mi ha profondamente toccato la storia di Elena, la signora veneta di 69 anni che, malata terminale, ha scelto di andare in Svizzera per il suicidio assistito. Ha lasciato un videomessaggio per confermare la sua volontà e le sue motivazioni».
E lei Zaia che conclusione ne ha tratto?
«Che la politica deve tutelare la libera scelta, garantendo comunque ogni forma di sostegno sanitario, psicologico ed economico alle persone malate. Non dobbiamo giudicare, ma saper rispettare».
Lei era ministro al tempo di Eluana Englaro.
«Eravamo vicini a un passo importante dal punto di vista giuridico. Invece si arenò tutto.
Eluana ha concluso la sua vita prima che la politica desse una risposta; che arrivò invece dalla magistratura. I giudici autorizzarono la progressiva fine dell'alimentazione forzata. La politica sprecò l'opportunità di poter scrivere una pagina alta del Parlamento».
Il suo sembra un programma di governo.
Perché non sfida Salvini per la leadership della Lega?
«Con Salvini non ho un rapporto conflittuale, come spesso raccontato dai media, anzi.
Sono concentrato sul mio impegno con il popolo veneto, che tre anni fa mi ha rieletto presidente con il 77% dei voti».
Lei insiste per l'autonomia.
«L'autonomia è da sempre la ragione sociale della Lega. Finiamola con il definirla "secessione dei ricchi". Non toglie nulla a nessuno; avvicina le istituzioni alla gente. Un grande uomo del Sud, don Luigi Sturzo, nel 1949 diceva: "Sono unitario, ma federalista impenitente". E un grande uomo del Nord, Luigi Einaudi, padre costituente, nel '48 disse che "a ognuno dovremmo dare l'autonomia che gli spetta"».
Sturzo era democristiano, Einaudi liberale. Non erano leghisti.
«Sono da sempre convinto che la Lega debba occupare il centro dello schieramento politico. O pensa che il 77% dei veneti sia di destra?».
Bossi è stato anche separatista.
«Bossi è stato geniale. È riuscito con il percorso separatista a convogliare le diverse anime e a porre la questione della riforma federalista in questo Paese. Il federalismo è centripeto; il centralismo è centrifugo, disgrega l'unità.
Se oggi nell'agenda di governo c'è l'autonomia, è merito della Lega».
Perché è così importante per il Veneto?
«Perché il Veneto fu uno Stato per più di mille anni. E la Repubblica veneta fu il primo esperimento di democrazia, per quanto imperfetta, nella storia. I rapporti con Bisanzio e l'Oriente, la capacità di dialogo, il riconoscere le altre culture preservando una forte identità: sono i nostri valori, ancora oggi. La nostra storia è un esperimento inclusivo, aperto alle varie religioni, a tutte le etnie: pensi al fondaco dei turchi, a quello dei tedeschi, al contributo della comunità ebraica, ancora oggi presente e attiva».
Il ghetto di Venezia fu razziato dai fascisti nel dicembre 1943.
«Ripeto: i nostri valori, i miei valori, sono quelli dell'antifascismo, oltre ovviamente alla condanna assoluta delle leggi razziali».
Di solito si contrappongono Venezia e la terraferma veneta.
«Per i veneti di terraferma, Venezia è un sogno. Pietra adagiata sull'acqua, una città nata su milioni di pali. I mosaici dorati, le tradizioni, una cucina meticcia, pensi alle sarde in saor, con l'uva passa e le spezie: dentro c'è l'Africa, c'è l'Oriente... I miei genitori andarono a Venezia in viaggio di nozze. Abitavano a pochi chilometri e non ci erano mai stati».
E il suo primo viaggio quale fu?
«A 18 anni con altri due amici siamo partii, con i soldi contati, sulla Due Cavalli di mamma per Marbella, Andalusia: 3300 chilometri evitando le autostrade per risparmiare. Scrissi un diario. Il mio primo libro, scritto a penna. Lo conservo ancora».
È vero che faceva il pr di una discoteca?
«Per pagarmi la laurea. La sera portavo a ballare al Manhattan 4 mila persone, a volte 6 mila. Mi inventai l'invito di carta: le ragazze si sentivano le ospiti d'onore a un ballo di corte. Mai vista girare droga. Lo sballo era la musica di Linus e Albertino».
Cosa pensa della Meloni?
«Determinata, competente, cosciente della responsabilità che le abbiamo affidato. Siamo stati ministri insieme. È importante che ci sia una donna a Palazzo Chigi: è stato un percorso lungo, compiuto grazie a persone come Tina Anselmi, Nilde Iotti, Rita Levi Montalcini. Giorgia Meloni ha una forte personalità. Il momento storico è, purtroppo, unico. Due cigni neri - il Covid e la guerra - richiedono scelte forti per tempi davvero complicati».
A proposito: il Covid?
«Avevano ragione gli scienziati: si è passati dalla fase pandemica a quella endemica. Diventerà la nostra influenza, il nostro raffreddore. I veneti hanno seguito le indicazioni del mondo scientifico e si sono vaccinati. Non bisogna abbassare la guardia. La stragrande maggioranza degli infetti si cura in autonomia, ma altri hanno ancora bisogno delle strutture sanitarie. Resta l'amaro in bocca per quello che è accaduto in Italia ad opera dei laureati sui social».
E la sovranità alimentare?
«È un'espressione che ho inventato vent' anni fa, da ministro dell'Agricoltura. Facciamo i prosciutti con i maiali olandesi; neppure l'olio sulle nostre tavole è italiano. Non va bene. Dobbiamo salvare l'agricoltura e l'ambiente. Anche dal cambio climatico».
Cosa pensa della guerra?
«Tutto il peggio possibile. Venezia guerre non ne faceva, se non quando costretta, come a Lepanto».
Certo, ma dalla guerra in Ucraina come se ne esce?
«Tenendo duro sulle sanzioni. Continuando ad aiutare l'Ucraina, che altrimenti sarebbe schiacciata. Ma anche rilanciando l'azione diplomatica, oggi ancora insufficiente».
Le Olimpiadi a Milano e Cortina funzioneranno?
«Valgono un miliardo di Pil. Faremo la nuova strada per le Dolomiti senza stravolgere l'ambiente, liberando Longarone, i paesi del Cadore e Cortina dalla morsa dei camion. Ho creduto sino in fondo nella candidatura, per il mio Veneto. È andata bene. E andrà bene, a conferma che i pessimisti non fanno fortuna».
Lega, Luca Zaia difende l'autonomia regionale: non sarà una secessione per ricchi. Il Tempo il 20 novembre 2022
Luca Zaia presenta il suo libro autobiografico e fa il punto su tutti i temi su cui si misurano le forze politiche in questi giorni: tasse, immigrazione, autonomia regionali e governo Meloni. «La Lega è antirazzista. Ed è antifascista. Il tema che poniamo sui migranti è un tema di coerenza, di rispetto della dignità umana e di legalità». Luca Zaia lo dice in un’intervista al "Corriere della Sera" presentando il suo libro autobiografico "I pessimisti non fanno fortuna". «Il Veneto è terra dove l’accoglienza è un faro, dove il modello di integrazione è sotto gli occhi di tutti ma è anche una comunità che chiede il rigoroso rispetto delle regole», aggiunge e invita tutti a non rassegnarsi all’emigrazione. «All’estero - spiega - i ragazzi devono andarci per scelta, non per necessità. Purtroppo, le politiche a favore dei giovani cozzano spesso con il consenso, in un Paese dove gran parte degli elettori sono adulti». E sui diritti, suggerisce la sua parte politica a non lasciare alla sinistra i temi dell’etica e del fine vita: «La politica deve tutelare la libera scelta, garantendo comunque ogni forma di sostegno sanitario, psicologico ed economico alle persone malate. Non dobbiamo giudicare, ma saper rispettare».
Il rapporto con Matteo Salvini, assicura, è tutt’altro che conflittuale e sull’autonomia dice: «È da sempre la ragione sociale della Lega. Finiamola con il definirla "secessione dei ricchi". Non toglie nulla a nessuno; avvicina le istituzioni alla gente». «Sono da sempre convinto che la Lega debba occupare il centro dello schieramento politico», insiste. Infine un passaggio su Giorgia Meloni? «Determinata, competente, cosciente della responsabilità che le abbiamo affidato. Siamo stati ministri insieme. È importante che ci sia una donna a Palazzo Chigi: è stato un percorso lungo, compiuto grazie a persone come Tina Anselmi, Nilde lotti, Rita Levi Montalcini. Giorgia Meloni ha una forte personalità. Il momento storico è, purtroppo, unico. Due cigni neri - il Covid e la guerra - richiedono scelte forti per tempi davvero complicati». La chiusura è proprio sul conflitto in Ucraina. Come se ne esce? «Tenendo duro sulle sanzioni. Continuando ad aiutare l’Ucraina, che altrimenti sarebbe schiacciata. Ma anche rilanciando l’azione diplomatica, oggi ancora insufficiente».
La Secessione dai secessionisti.
Portineria Milano. La secessione veneta: via dall’Italia (e dai lombardi). Alessandro Da Rold su L'Inkiesta il 17 Settembre 2013. Post Bossi, la Liga riscopre l'autonomia.
«Si sente lo spirito indipendentista del ’92». Fabrizio Comencini, ex leghista, ora segretario di Liga Veneta Repubblica, cacciato da Umberto Bossi nel ’98 dopo aver chiesto l’indipendenza della Liga dalla Lega Lombarda e del Veneto dall’Italia, è radioso mentre attende che nell’aula del consiglio regionale di «Venessia» votino sul referendum «secessionista» sostenuto dal governatore Luca Zaia. «Stiamo tornando, siamo tutti uniti. È qualcosa di trasversale che non riguarda sinistra e destra: forse possiamo finalmente farcela. Mi sorprende che il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo non abbia nulla da dire in merito».
E non fa niente se a fine serata il risultato in consiglio sarà nullo perché il provvedimento dovrà passare ancora in commissione. Il risultato c’è: in Veneto si inizia a parlare e fare sul serio in termini di «distacco» dallo stato «padrone italiano» al grido «Viva el leon che magna el teron». A Venezia c’erano più di mille persone per le calli a protestare e chiedere «Veneto libero». Allo stesso tempo, caso vuole, la Liga veneta, inizia a impegnarsi nella secessione pure da via Bellerio e dal Carroccio lombardo: il progetto di Comencini di fine anni ’90 potrebbe finalmente diventare realtà.
«È evidente che in tempi di crisi economica di spazi per la cooperazione ce ne siano sempre di meno» spiega Stefano Bruno Galli, ideologo leghista, professore alla Statale di Milano e consigliere regionale in Lombardia. «É nella natura delle cose, direi inevitabile quindi che le spinte indipendentiste del lombardo-veneto siano sempre più forti. E tutto questo – conclude – passa attraverso la realizzazione della macroregione». Eppure, mentre la Lombardia è ancora in attesa di sapere se il governatore Roberto Maroni avvierà il processo per il referendum indipendentista, il progetto Color44 resta ancora sulla carta, in Veneto iniziano a fare sul serio. Soprattutto dal punto vista politico. “Bobo” ha bollato le loro proposte come «provocatorie», ma c’è il rischio che diventino più di una semplice boutade.
Il partito del governatore Zaia e del sindaco Flavio Tosi ha incominciato a plasmare qualcosa di nuovo sotto il cielo della politica italiana, in attesa della caduta di Silvio Berlusconi e la scomparsa dell’antiberlusconismo. Forse più di un progetto politico, pronto chissà in occasione delle prossime elezioni europee quando si voterà, se tutto andrà per il verso giusto, pure il referendum sull’indipendenza. Prima la mozione per far fuori Bossi dal partito, al momento stoppata da Maroni, ma comunque ancora in auge («Ne parleremo al congresso» dice Zaia); poi un’altra mozione, questa volta per dire addio al Popolo della Libertà e a Berlusconi, con la scelta di favorire invece le alleanze con le liste civiche e i movimenti indipendentisti. Dalle parti del primo cittadino di Verona si minimizza, ma le spinte dei leghisti veneti iniziano a farsi sentire. E potrebbero esplodere già questo fine settimana a Mestre, durante l’assemblea federale dove Maroni rassegnerà le dimissioni da segretario.
Il congresso federale dovrebbe essere fissato per il prossimo 15 dicembre. Non è chiaro se Bossi si ricandiderà. Di fatto c’è che il Senatùr fu capace di tenere unite le leghe dei lombardi, dei veneti e dei piemontesi, a costo anche di espulsioni eccellenti come quella di Comencini. Ma ora il vecchio Capo non c’è più. Per contrastare Tosi si limita a insultarlo, tanto da non ricevere indietro neppure una replica. Specchio di una Lega Nord che al momento non esiste più. E che presto potrebbe cambiare faccia, tra chi seguirà il Senatùr in Padania Libera o chi si affiderà alle nuove idee politiche di Maroni che vorrebbe pescare in quei voti dispersi del Pdl, dopo la rinascita di Forza Italia.
Nel frattempo i veneti, da sempre a malpartito con i lombardi, si portano avanti col lavoro. Molti lo avevano predetto: dopo Bossi, nessun leader sarà in grado di tenere insieme popoli diversi. Sembra essere questo il vero significato del tentativo federalista: prima ancora che una secessione dall’Italia, una separazione dai cugini lombardi. Il rinvio in commissione della proposta di referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto, infatti, «non è la tomba del provvedimento» avverte Zaia, che auspica un rilancio della stessa proposta discussa in Consiglio regionale del Veneto. «Prendo atto che le regole del Consiglio prevedono anche il rinvio in commissione. Ma questo – sottolinea Zaia – non significa buttare via il provvedimento e dimenticarlo. Sono sicuro che tra qualche giorno la trattazione ritornerà in commissione e io ci andrò personalmente per parteciparvi. Dopodichè la proposta tornerà sicuramente in Consiglio, dove registrerà un nuovo slancio», ha concluso Zaia.
LA SECESSIONE SILENZIOSA E L’ANTICA PARTITA DELL’AUTONOMIA VENETA. Francesco Jori su Limesonline.com il 6/03/2019.
Un secolo fa Roma già studiava gli scenari di un separatismo all’irlandese nel Veneto. Dopo l’ambiguo referendum autonomista Zaia ha aperto un fronte per ottenere più soldi e più potere a Venezia. Tutto rischia di affogare nel pantano della politica.
1. Un’Irlanda veneta. È uno scenario da secessione quello che nel 1919 arriva sul tavolo di Vittorio Emanuele Orlando, presidente del Consiglio dei ministri. A prospettarglielo non è un volantino anonimo, ma una lettera firmata dal veneziano Luigi Luzzatti, già premier per un anno nel 1910, banchiere e politico di primo piano.
Il parallelo è significativo: sono i mesi in cui a Dublino un parlamento autoproclamato su iniziativa del Sinn Féin ha deliberato il distacco da Londra, dando vita a una guerra che nel 1921 si concluderà con un trattato che riconosce all’Irlanda l’indipendenza.
Sono dunque di antica data i venti autonomisti che oggi spazzano un Veneto giunto a uno snodo decisivo di una lunga e sfibrante
Regionalismo veneto. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
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Per regionalismo veneto, noto anche come venetismo, si intende l'insieme di associazioni, partiti e persone che sostengono l'autonomia o l'indipendenza del Veneto.
Fra questi vengono genericamente ricompresi i movimenti che richiedono maggior autonomia, quelli che auspicano l'indipendenza del Veneto o dei territori dell'antica Repubblica di Venezia e quelli che, più semplicemente, promuovono la riscoperta della cultura e della lingua veneta. Il giornalista Paolo Possamai ha definito tali movimenti coniando il termine "venetismo", intendendo con ciò "la tensione del Veneto e dei veneti verso il riconoscimento della loro identità e autonomia".
Alcuni regionalisti considerano i cittadini veneti come facenti parte di una nazionalità distinta da quella italiana. Le posizioni più radicali e revisioniste contestano anche presunte irregolarità nel risultato del plebiscito del 1866 con cui le province venete, che all'epoca includevano anche parte del Friuli, approvarono l'annessione al Regno d'Italia., o ancora la validità del referendum del 1946 che sancì la nascita della Repubblica Italiana. Tale identità viene da taluni considerata inventata e, secondo Davide Mutto, sarebbe in alcuni casi funzionale all'attività politica di gruppi di estrema destra e del tradizionalismo cattolico.
Indice
1Storia e ideologia
1.1Tra le due guerre mondiali
1.2Dal dopoguerra alla nascita della Liga Veneta
1.3Referendum consultivo e ultime elezioni regionali
2Partiti politici
Storia e ideologia
Tra le due guerre mondiali
I precursori dei movimenti regionalisti risalgono al periodo successivo la prima guerra mondiale, e si collocano politicamente sia a destra che a sinistra. Nel 1920 un giornale veneto socialista e repubblicano, La riscossa, si sbilanciò a favore di un “governatorato unito ed elettivo con organi tecnici e amministrativi autonomi e competenti” pensando a un'alternativa al "governo politico centrale". Guido Bergamo, deputato repubblicano eletto in Veneto, scrisse che "il «problema veneto» è così cocente che da oggi noi sosterremo la ribellione dei veneti. Cittadini, non paghiamo le tasse, non riconosciamo il governo centrale a Roma, scacciamo i prefetti, tratteniamo i soldi delle tasse in Veneto!" Poco dopo Italico Corradino Cappellotto, membro della Camera dei Deputati per il Partito Popolare Italiano, lanciò il primo partito regionalista per le successive elezioni del 1921: leone di san Marco ottenne il 6,1% dei voti nella provincia di Treviso.
Il territorio che comprende le attuali regioni Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, viene conosciuto anche col nome di Tre Venezie o Triveneto: Venezia Euganea (l'odierno Veneto, insieme a larghe parti del Friuli), Venezia Giulia (la parte levantina dell'odierno Friuli-Venezia Giulia e Venezia Tridentina.[17] In base alla Costituzione della Repubblica Italiana adottata nel 1948, Trentino-Alto Adige/Südtirol e Friuli-Venezia Giulia hanno ottenuto lo status di Regione a statuto speciale e i relativi privilegi, specialmente relativi all'autonomia fiscale, scolastica, sanitaria e delle tutela del territorio; da qui le proposte di alcuni gruppi di persone di unificare il Veneto con le altre due regioni citate o di dotare anche il Veneto di uno statuto speciale.
Dal dopoguerra alla nascita della Liga Veneta
Le idee venetiste hanno conosciuto un nuovo sviluppo negli anni sessanta, quando il Movimento Autonomo Regionalista Veneto (MARV) condusse una campagna a favore dell'istituzione delle Regioni, secondo i dettami della Costituzione che furono poi messi in pratica nel 1970. Il forte sviluppo economico del Veneto avvenuto a partire dagli anni settanta, basato soprattutto sulle piccole e medie industrie, favorì lo sviluppo di correnti di pensiero politico in cui venivano messi in contrapposizione gli aiuti statali per lo sviluppo del Mezzogiorno con il carico fiscale e la burocrazia richieste da parte del governo nazionale. Queste posizioni, unite alle rivendicazioni linguistiche e storiche, hanno costituito le basi per la formazione della Liga Veneta, che tenne il suo primo congresso nel dicembre 1979 e venne fondata ufficialmente nel gennaio 1980.
Sulla scia della Liga Veneta sorsero tutta una serie di associazioni e movimenti, alcuni ispirati dallo statuto regionale che riconosce l'esistenza di un "popolo veneto", e il suo diritto all'auto governo, altri invece basati sulla continuità con la storia della Repubblica di Venezia. Alcuni di questi mirano a promuovere principalmente la lingua veneta e la sua salvaguardie ufficiale, altri chiedono maggiore autonomia regionale, altri ancora sono apertamente indipendentisti o secessionisti e rivendicano una sovranità originaria di tutto il Veneto storico corrispondente alle odierne regioni Veneto e Friuli-Venezia Giulia.
Referendum consultivo e ultime elezioni regionali
Il 12 giugno 2014 il Consiglio Regionale veneto ha approvato a larga maggioranza la proposta di legge per l'indizione di un referendum consultivo sull'indipendenza, divenuta legge regionale n. 16/2014 e pubblicata in data 24 giugno 2014 sul BUR n° 62 del Veneto. Il 28 luglio 2014 la Giunta Regionale, in ossequio a tale legge, ha approvato la delibera n°1331/2014 che ha normato le modalità di voto del referendum. Il 24 giugno 2015 la Corte costituzionale Italiana ha dichiarato inammissibile tale referendum, in quanto contrario al principio costituzionale dell'unità della repubblica, ritenendo invece ammissibile la proposta di un secondo referendum regionale, calendarizzato per domenica 22 ottobre 2017, per richiedere maggiore autonomia in settori specifici tra i quali istruzione, ambiente, beni culturali e giustizia di pace. Il referendum consultivo del 22 ottobre, spesso criticato per la scarsa rilevanza politica e per i costi sostenuti per la sua organizzazione, è stato caratterizzato da un'affluenza del 57,2% e una vittoria dei favorevoli all'autonomia con il 98,1%. In seguito alla consultazione, vi è la possibilità di avviare trattative tra il governo e la regione in merito all'eventuale trasferimento dallo Stato all'ente regionale di ventitre competenze specifiche.
Alle elezioni regionali in Veneto del 2015 i partiti e le liste riconducibili al regionalismo veneto hanno superato il 50% dei voti. In particolare, la Liga Veneta – Lega Nord, la lista "Zaia Presidente" (composta prevalentemente da membri dal partito precedentemente menzionato), la "Lista Tosi per il Veneto", "Indipendenza Noi Veneto con Zaia" e "Indipendenza Veneta" hanno ottenuto rispettivamente il 17,8%, il 23,1%, il 5,7%, il 2,7% e il 2,5% dei voti.
Partiti politici
I primi partiti regionalisti organizzati presero il via dopo l'istituzione della regione Veneto e l'elezione diretta del consiglio regionale nel 1970.
Fra i partiti politici regionalisti, quello storicamente e numericamente più rappresentativo è la Liga Veneta, costituita nel 1979 e dal 1991 membro fondatore e "sezione nazionale veneta" della Lega Nord, che ottenne su base regionale quasi il 30% dei voti nelle elezioni politiche del 1996. Altri partiti minori, come Liga Veneta Repubblica, Indipendenza Veneta, Progetto Nordest o Union del Popolo Vèneto, hanno ottenuto consensi largamente inferiori, superando difficilmente il 5% dei voti a livello regionale.
Quale Veneto? Secessionisti da se stessi.
Tre Venezie (Triveneto). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
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Mappa delle Tre Venezie (Triveneto)
Stati
Italia, Slovenia, Croazia
Territorio
Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli-Venezia Giulia
Nome abitanti
Trentini, Alto-atesini, Veneti, Ladini, Friulani, Giuliani
Il toponimo Tre Venezie (o Triveneto) indica la regione geografica costituita dai territori della Venezia Tridentina, della Venezia Euganea e della Venezia Giulia. Viene comunemente usato il termine "Triveneto" per riferirsi alle tre regioni italiane che la compongono: il Trentino-Alto Adige, il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia (escludendo i territori della Venezia Giulia appartenenti a Slovenia e Croazia), che formano insieme alla regione Emilia-Romagna, l'Italia nord-orientale.
Indice
1Storia
1.1Origine del nome
1.2Prima guerra mondiale e periodo interbellico
1.3Seconda guerra mondiale e dopoguerra
2Regioni
Storia
Origine del nome
Il termine apparve in alcuni circoli culturali a metà dell'Ottocento, poco dopo la II Guerra d'Indipendenza. Fu coniata dal glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli nel 1863 con l'intento di marcare l'italianità culturale (pur senza sfumature irredentiste) di terre come il Veneto, il Trentino e il Litorale austriaco che all'epoca erano ancora sottoposte al dominio asburgico (Impero austriaco, dal 1867 Impero austro-ungarico) e solo successivamente alla prima guerra mondiale sarebbero state interamente annesse al Regno d'Italia.
La denominazione di Tre Venezie traeva ispirazione dal termine con cui era conosciuta, in età imperiale, la X Regio di Augusto, detta Regio X Venetia et Histria. Graziadio Isaia Ascoli battezzò la parte di territorio relativa al Veneto asburgico (allora parte del Regno Lombardo-Veneto e comprendente all'incirca il Veneto e il Friuli attuali) con il nome di Venezia Euganea, in omaggio alla popolazione degli Euganei, che abitò la regione in età preistorica e che, a seguito della successiva invasione dei Paleoveneti, si concentrò sulla zona dei colli, che da loro presero il nome.
Nell'ambito di quella che fu la X Regio augustea esistevano poi altre due zone di etnia neolatina: una a nordovest che chiamò Venezia Tridentina, dal nome latino di Trento (Tridentum), all'epoca parte della Contea del Tirolo, l'altra ad est, per gran parte inquadrata nella regione del Litorale austriaco, che denominò Venezia Giulia, in quanto raggiungeva lo spartiacque delle Alpi Giulie. Rispetto alla Venezia Euganea, queste due regioni erano, dal punto di vista storico e giuridico, maggiormente collegate al mondo tedesco, e facevano parte, nel 1863, oltre che dell'Impero austriaco, anche della Confederazione germanica, con le sole eccezioni di parte dell'Istria e della città di Fiume.
Nel 1866, dopo il passaggio della Venezia Euganea all'Italia, rimasero ancora sotto il dominio dell'Austria, da quell'anno non più parte della Confederazione germanica. Nel 1867 sorse l'Impero austro-ungarico, Fiume fu aggregata all'area ungherese mentre il resto delle terre furono unite alla regione austriaca. È da notare che nel 1863, al tempo dell'ideazione del termine, solo i confini della Venezia Euganea erano ben identificati, essendo quelli già esistenti tra il Regno Lombardo-Veneto e le altre suddivisioni asburgiche, mentre quelli della Venezia Tridentina e della Venezia Giulia saranno univocamente definiti solo con i trattati successivi alla prima guerra mondiale, seguendo grosso modo il principio dello spartiacque alpino, pur racchiudendo al loro interno rilevanti aree popolate da genti di lingua tedesca nella prima, slovena e croata nella seconda.
Prima guerra mondiale e periodo interbellico
Nel maggio 1915 l'Italia dichiarò guerra agli Imperi centrali, con la finalità dichiarata di riunire al Regno quei territori che, pur trovandosi soggetti alla sovranità asburgica erano abitate da popolazioni di lingua italiana. Tali terre, definite irredente, includevano anche e soprattutto le due Venezie restate al di fuori dei confini della Nazione italiana, e cioè quella Tridentina e quella Giulia. Al termine della guerra, tali territori entrarono a far parte del Regno d'Italia.
La Venezia Tridentina alla fine della prima guerra mondiale era formata dalla provincia di Trento, dalla quale successivamente verrà creata quella di Bolzano, nonché dai comuni di Cortina d'Ampezzo, Colle Santa Lucia e Livinallongo del Col di Lana (dal 1923 parte della provincia di Belluno), di Pedemonte e Casotto (dal 1929 parte della provincia di Vicenza) e di Valvestino (dal 1934 parte della provincia di Brescia). In quegli anni la Venezia Tridentina fu poi ufficialmente denominata Trentino-Alto Adige.
La Venezia Euganea comprendeva otto province: Venezia, Padova, Rovigo, Verona, Vicenza, Treviso, Belluno, Udine. La provincia di Udine, denominata ufficialmente provincia del Friuli, comprendeva anche i territori che nel 1968 avrebbero poi formato la provincia di Pordenone. La Venezia Giulia dopo la prima guerra mondiale era composta inizialmente dalle quattro province di Gorizia, Trieste, Pola e Zara cui si aggiunsero nel 1924 Fiume e, durante la seconda guerra mondiale, anche Lubiana.
Il Friuli storico risultava pertanto suddiviso fra Venezia Euganea, che includeva il Friuli centrale ed occidentale, e la Venezia Giulia che invece comprendeva anche il Friuli orientale, esteso nella pianura isontina e in altre zone del Goriziano. Dal 1923 al 1927 la Provincia di Gorizia fu soppressa: la parte settentrionale fu aggregata a quella del Friuli (o di Udine), la parte meridionale a quella di Trieste. Perciò la Venezia Euganea, di cui faceva parte la provincia del Friuli ampliata, si allargò a spese della Venezia Giulia. Nel 1927 fu ricostituita la provincia di Gorizia, di nuovo nell'ambito della Venezia Giulia, con una parte dei territori che erano stati assorbiti da quella del Friuli. Rimasero alla provincia del Friuli, e quindi nella Venezia Euganea, i mandamenti di Tarvisio e di Cervignano.
Seconda guerra mondiale e dopoguerra
Mappa della Croazia indicante i residenti di madrelingua italiana per comune, secondo il censimento croato del 2011
A seguito della sconfitta italiana nella seconda guerra mondiale, gran parte della Venezia Giulia prebellica venne ceduta alla Jugoslavia, provocando tra l'altro un massiccio esodo delle popolazioni italofone residenti.
Nel 1947, quando si definirono i confini con la Jugoslavia e si creò il Territorio Libero di Trieste, fu scorporata dalla Venezia Euganea (che passò così a chiamarsi, anche ufficialmente, Veneto) la provincia di Udine e fu creata la nuova regione Friuli-Venezia Giulia che comprendeva anche quelle zone della Venezia Giulia ancora facenti parte dell'Italia. Dal 1954, alle province di Udine e Gorizia, si aggiunse quella di Trieste, allorché il territorio Libero fu suddiviso fra Italia e Jugoslavia. Le province di Gorizia e Trieste risultano notevolmente ridimensionate rispetto a prima della seconda guerra mondiale.
In generale, a partire dal secondo dopoguerra si diffuse l'uso del termine Triveneto per indicare l'area geografica costituita dalle tre regioni italiane del Veneto, del Trentino-Alto Adige e del Friuli-Venezia Giulia.
Da ilfoglio.it il 27 Ottobre 2022.
Matteo Salvini ha iniziato le purghe. Con una lettera indirizzata al segretario della lega lombarda Fabrizio Cecchetti, si diffida il Comitato nord di Bossi, corrente lanciata poche settimane fa dal fondatore della Lega, di continuare l’attività. È qualcosa di enorme. È l’inizio della rappresaglia da parte del segretario della Lega adesso vicepremier del governo Meloni. La missiva è stata mandata dal tesoriere della Lega. Questo il contenuto.
Si invita “a cessare la promozione dell’associazione Comitato nord nei confronti degli iscritti della lega per Salvini premier e l’utilizzazione dei simboli e della denominazione del partito”. Non solo. Si chiama in causa il garante della privacy per la violazione della raccolta dei dati personali” da parte di questo comitato che Bossi aveva affidato, per la gestione, a Paolo Grimoldi e Angelo Ciocca storici leghisti Lombardi.
In questa lettera ufficiale si segnala la totale estraneità “della Lega per Salvini premier da questa iniziativa promossa da un soggetto giuridico distinto dal partito e in nessun modo collegato”.
A Saronno, poche settimane fa, e il Foglio era presente, Salvini aveva detto ai militanti “Ogni iniziativa di Bossi ha la mia firma”. I militanti avevano chiesto cosa sarebbe accaduto ai leghisti che avrebbero aderito al comitato e lui, Salvini, aveva promesso che non sarebbe accaduto nulla. È spergiuro. Con questa lettera, di fatto, dichiara Umberto Bossi, fondatore della Lega e di questo comitato, un traditore, un dissidente. Bossi ha 81 anni. Alla Camera pochi giorni fa, Salvini lo aveva pure abbracciato. Stretto. Oggi lo mette fuori dal partito.
Cesare Zapperi per il “Corriere della Sera” il 23 ottobre 2022.
Cinque ministri e tutti lombardi. «Altro che Lega Nord o Lega per Salvini premier, qui siamo tornati alla Lega lombarda di Umberto Bossi». Lo sfogo di un leghista veneto è la fotografia degli umori che si colgono se ci si allontana dagli ambienti più vicini al segretario e neo ministro alle Infrastrutture, che ieri ha cenato con i quattro colleghi, il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi e la compagna Francesca Verdini nel cuore di Roma.
Il leader che si dice soddisfatto per il ruolo e il peso conquistato nel nuovo esecutivo deve scontare il rilievo di chi gli fa osservare che non è stato capace di valorizzare le diverse espressioni territoriali del suo partito. I più arrabbiati sono i veneti. Nel governo ci sono tre corregionali (Carlo Nordio, Elisabetta Casellati e Adolfo Urso) ma nessun esponente della Lega.
Un doppio affronto che per sfortunata coincidenza abbina il giuramento dell'esecutivo con il quinto anniversario dei referendum per l'Autonomia che si tennero proprio in Veneto e in Lombardia. Un lustro è passato invano, nonostante la Lega sia stata al governo sia con Conte che con Draghi.
L'insofferenza è forte, soprattutto nella Regione governata da Luca Zaia. Non è un caso che un uomo di sua fiducia, l'assessore Roberto Marcato, ieri sia stato protagonista di un flashmob a Bassano del Grappa per «gridare il diritto per il popolo veneto di avere ciò che chiediamo da anni». I toni sono ultimativi, e poco importa che il neo ministro per le Autonomie sia un leghista come Roberto Calderoli. «Questo governo non ha più alibi - scrive su Facebook Marcato - noi siamo stanchi di aspettare. Se non ci sarà l'autonomia non ci sarà motivo di stare al governo».
Non avere uomini del territorio dentro l'esecutivo accentua il disagio. E a nulla è valso far eleggere alla presidenza della Camera un veronese come Lorenzo Fontana perché i suoi rapporti con Zaia non sono idilliaci e, soprattutto, viene considerato più uomo di fiducia di Salvini che rappresentante del Veneto. Ai vertici del partito, comunque, sono consapevoli che bisogna intervenire per un riequilibrio.
Il modo più immediato e diretto per aggiustare il tiro è sfruttare la nomina dei sottosegretari per dare spazio a leghisti veneti ma anche di altre Regioni, non fosse altro che per tenere fede alla vocazione nazionale su cui Salvini ha investito negli ultimi anni. Qualche nome affiora. Per esempio, quello del siciliano Nino Minardo, entrato nella Lega nel 2019 dopo una lunga militanza in FI. O quello di Michele Marone, assessore regionale in Molise, non eletto alle Politiche. Per il Veneto tra i candidati l'identikit giusto potrebbe corrispondere alla figura di Alberto Stefani, 29 anni, commissario regionale. Che proprio ieri sui social ricordava che sull'Autonomia «ora servono i fatti».
VIAGGIO NEI LUOGHI DEL DISASTRO DEL CAPITANO. Processo alla Lega di Salvini, lo spettro di nuovo partito autonomista del nord e la base in rivolta. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 26 settembre 2022
«An ciaparà ona palàda», tradotto dal bergamasco vuol dire «prenderemo una legnata». La profezia non è di un fine politologo, ma di una militante della Lega fin dal 1994. Alla fine aveva ragione.
E se Matteo Salvini avesse ascoltato di più la base e i militanti nei giorni che hanno preceduto il voto forse sarebbe corso ai ripari. Invece Matteo Salvini si comporta come se non fosse accaduto nulla. Il giorno del giudizio è arrivato, riunioni carbonare sono in corso e continueranno nei prossimi giorni.
GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
COSA RESTA DEL CAPITANO. La rivolta contro Salvini esplode, ma i governatori del nord frenano. GIULIA MERLO E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 27 settembre 2022
La mancata elezione del fondatore Umberto Bossi è il simbolo della disfatta leghista, ma la resa dei conti è rimandata e non avverrà a via Bellerio. Addirittura, al termine del consiglio federale, Riccardo Molinari ha detto che «la Lega chiede che Salvini abbia un ministero di peso nel prossimo governo». Ma il malcontento dalla base è arrivato alla dirigenza del nord.
Nel corso del lungo consiglio federale, durato più di tre ore, Bossi non è stato tenero né con Salvini né con gli altri dirigenti. «Li ha bacchettati tutti. Il Senatur era molto arrabbiato», dice un’autorevole fonte interna.
Tuttavia, a lanciare la carica contro il segretario ci ha pensato il suo predecessore alla guida della Lega, Roberto Maroni, che dalla sua rubrica sul Foglio ha scritto che «serve un nuovo segretario» .
GIULIA MERLO E GIOVANNI TIZIAN. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Da "barbari" a "saggi". La sinistra riabilita persino Bossi per colpire Matteo. Per anni hanno sbeffeggiato canottiera, ampolle del Po, elmi vichinghi e riti padani. Ma l'orco-Senatùr adesso è uno statista perché ha iniziato a criticare il Capitano. Francesco Maria Del Vigo il 5 ottobre 2022 su Il Giornale.
Lo sport più diffuso dopo le elezioni è, da sempre, il salto sul carro del vincitore. Ma è tallonato da un'altra attività tanto meschina quanto diffusa: il tiro allo sconfitto. In questo caso il perdente è Matteo Salvini che, per esser chiari, ha lasciato sul campo un sacco di voti ma, tecnicamente, perdente non è. Tuttavia il notevole flop elettorale della Lega ha dato modo agli sconfitti di sinistra (loro sì, perché nelle urne hanno perso veramente) di scatenare il loro odio ancestrale contro Matteo Salvini. Per la stampa engagé è diventato tutto secondario: dalla guerra in Ucraina al caro bollette, dal riscaldamento globale alla lotta per i diritti di genere, persino il sempiterno allarme del ritorno del fascismo e delle sue squadracce è stato momentaneamente accantonato. La priorità assoluta è una e soltanto una: sparare a palle incatenate contro il Capitano. Comprendiamo che di fronte a una sconfitta così cocente è necessario distrarsi, cercare qualcuno a cui le cose non sono andate particolarmente bene e autoconsolarsi pensando: beh, alla fine a lui è andata peggio. Anche se - come è evidente - così non è, anche perché il Carroccio, bene o male, sarà al governo, la sinistra no. Il rischio - che in questo caso si consolida in una certezza -, è quello di scadere nel ridicolo. Operazione perfettamente riuscita. Nel tentativo di sparare fango sul leader della Lega, l'intellighentia rossa ha persino riabilitato Bossi e i bossiani. Un testacoda ideologico non da poco. Dopo aver sbeffeggiato per decenni i barbari in canottiera, le ampolle, gli elmi da vichingo, i pratoni fangosi di Pontida, le folle urlanti e ruttanti, le acque rigeneranti del Po e i vari riti di dubbia origine celtica, ora tutto viene purificato nel lavacro ideologico del progressismo. Contrordine: i barbari non sono più barbari, anzi sono diventati dei damerini. La narrazione è elementare: Salvini è l'orco padano che ha abbrutito la Lega, il Senatùr il vecchio saggio a cui è stato sottratto il balocco e traviato la sua creatura. La Repubblica, in trance agonistica, riesce persino a riabilitare Angelo Ciocca, il sulfureo europarlamentare che nel 2018 imbrattò con le scarpe la relazione di Moscovici. A noi è sempre stato simpatico, ma dalle parti dei progressisti era visto come un cafone chiassoso e parvenu. Ora - per gli osservatori progressisti - è uno dei tanti alfieri della palingenesi del Carroccio, un eroico componente della corrente che farà opposizione all'uomo che voleva chiudere i porti e citofonava agli spacciatori. Ovviamente qualcosa non torna: la storia recente ci insegna che quando la sinistra punta su qualcuno di destra c'è sempre una fregatura: non sanno scegliersi i loro leader, figuriamoci quelli degli altri.
D'altronde, a quelle latitudini, c'è sempre stata una certa tentazione leghista. Ai tempi del primo governo Berlusconi, quando Bossi fece cadere l'esecutivo, Massimo D'Alema in meno di un amen lo battezzò «costola della sinistra». E qualche anno prima, il 25 aprile del 1994, il Senatùr comparve all'improvviso, a Milano, nel bel mezzo del corteo per la commemorazione della liberazione professandosi fieramente antifascista. Persino Giorgio Bocca, alle elezioni amministrative del 1993, cedette alle sirene del primo Carroccio e votò Formentini: «Chi come me pensa che il sistema dei partiti abbia fatto il suo indecoroso tempo, chi è convinto che bisogna arrivare presto a una nuova legge elettorale, a una nuova costituzione, a facce nuove, in pratica a Milano non aveva scelta».
Ma quella era tutta un'altra storia: ora cercano di blandire Bossi soltanto per far fuori Salvini e prendersi questa minuscola rivincita dopo una maiuscola batosta. Miserie della politica.
Se perfino Bossi dice a Salvini che ha sbagliato. Giampiero Casoni il 27/09/2022 su Notizie.it.
Il leader della Lega non ha cominciato a sbagliare in campagna elettorale, ma molto prima. E alla fine ha scontentato tutti.
Umberto Bossi a Matteo Salvini glielo aveva detto già nel 2017: per lui la Lega non era un partito nazionale. Due precisazioni, una di forma ed una di sostanza: a dire il vero Bossi, che sa fare Bossi meglio di chiunque altro, aveva detto che “la Lega nazionale è una roba da coglioni”.
Veniamo al merito: nel regionalizzare in ortodossia “saggia” una forza come la Lega Bossi aveva torto marcio ma a suo modo aveva sollevato un problema reale: per rendere il Carroccio non più padano ma tricolore ecumenico serviva un carrettiere che sdoganasse con dolcezza quella nuova impalcatura affrancandosi con gradualità dalla mistica dei lombardo-veneti incazzati con tutto ciò che sta oltre Roncobilaccio.
Il dato reale era perciò che di quella equazione delicatamente evocata dal senatùr andavano invertiti i termini, ponendosi il problema di cambiare timoniere o modo di timonare prima di cambiare rotta.
Flashback, dissolvenza e veniamo ai giorni nostri, con Matteo Salvini “sconfitto nella vittoria”, il centrodestra vittorioso malgrado gli sconfitti e Giorgia Meloni vittoriosa e basta.
Umberto Bossi è tornato, da trombato a Varese per effetto flipper, a dire la sua e ha sentenziato ad AdnKronos: “Dal popolo Nord è arrivato un messaggio chiaro e inequivocabile“. Mettiamo un attimo da parte la manfrina del padre fondatore di tutti i vichinghi di Pontida che (e)ruttano fiele nordico e andiamo alla polpa.
E la polpa è quella degli errori di Salvini nella gestione di una campagna elettorale che non lo ha visto sbagliare, perché lui a sbagliare ha cominciato molto prima.
Lo ha fatto quando si è inventato (Salvini è molto meno simile a “quel” Salvini là, fidatevi) il personaggio social con una divisa pronta per ogni evenienza. Lo ha fatto quando ha polarizzato la dialettica di un partito che nel frattempo acquisiva skill amministrative di pregio su temi che hanno un difetto: sono temi che surfano il momento e che dal momento si disarcionano, temi come i migranti, la sicurezza poliziotta e l’italianità come mito.
Lo ha fatto quando non ha visto che gli cresceva in seno un’ala governista che aveva assaggiato il tormento di amministrare e a discapito dell’orgoglio di appartenere e non ha saputo cogliere l’usta di un cambiamento che lo chiamava. L’ultimo errore, quello che già da anni ha portato la Lega di Matteo a diventare larva di se stessa, limbo con ideali stantii e scarsissima formazione tecnica, è stato di non accorgersi che la Lega salviniana non era più da tempo la Lega tutta e che un’altra Lega si affacciava su un paese bisognoso di soluzioni, non di slogan un tanto al chilo.
Mentre il Capitano allevava la sua bestia e ciondolava al Papeete ripetendo che da ministro di era immolato per il popolo contro una capitana tedesca gente come Luca Zaia e Giancarlo Giorgetti sperimentava i bocconi traversi della gestione dei sistemi complessi nel momento più complesso della storia patria, con l’Alpha del Covid e l’Omega di guerra e crisi energetica.
Alla fine Salvini ha scontentato tutti: i fedelissimi di pancia che ha radunato invano a Pontida in mood rimpatriata del liceo e i tesserati che da tempo pensavano ad una Lega del futuro che prendesse le misure alla nazione ed all’elettorato: li ha presi, incartati e consegnati a Giorgia Meloni che se li è messi in cassa per arrivare a Palazzo Chigi con una lista di ministri in testa che forse nemmeno ce l’ha, un Salvini in spunta.
Poi gli ultimi scivoloni: quello di “incentivare” il colpo di mano di Giuseppe Conte nel far cadere l’esecutivo di Mario Draghi e di una campagna elettorale lemme e brandizzata come poche. Tutto fino all’apoteosi finale dove alla fine il Capitano ha preso la verità per il bavero e l’ha detta: la Lega ha pagato la scelta di stare al governo perché chi sta all’opposizione può farsi figo ad ogni battaglia mentre chi sta dentro i meccanismi decisionali si sporca con i residui di quelle decisioni, specie se le prende in “camarilla” con altri partiti che ti guastano la purezza della mission.
E l’unica cosa che Salvini non ha capito, e che gli ha ricordato Umberto Bossi, è stata quella di non aver saputo traghettare il Carroccio al di là della strada imbelle dove l’aveva guidato e di averlo lasciato a metà esatta della strada: già troppo lontano da dove batte il cuore e ancora troppo distante da dove lavora la testa.
E in mezzo a quella strada oggi Matteo Salvini vuole Umberto Bossi senatore a vita per ricordarsi da dove viene mentre è costretto a fare i conti con il pallottoliere degli altri per non scordarsi dove è arrivato: al capolinea.
Lo "strappo" di Bossi: nasce il Comitato Nord, la prima corrente della Lega che fondò vent'anni fa. Umberto Bossi su La Repubblica l'1 Ottobre 2022.
Il senatur ha deciso di dare vita a una formazione 'nordista' interna alla Lega Salvini premier, non un partito diverso ma "un passaggio vitale - dice -per riconquistare elettori e per rilanciare la spinta autonomista". Il Carroccio annuncia: "Sarà una legislatura che attuerà l'autonomia"
Umberto Bossi anima della prima corrente del partito che fondò vent'anni fa: il senatur ha deciso di dare vita a una formazione 'nordista' interna alla Lega Salvini premier. Quindi non un partito diverso, come per esempio 'Grande Nord' di Roberto Bernardelli che in Lombardia ha accolto alcuni ex leghisti. Ma la prima vera corrente in un partito tradizionalmente 'monolitico' (anche perché i dissidenti sono speso stati espulsi). ''È un passaggio vitale - ha spiegato all'Adnkronos Bossi, risultato eletto alla Camera alle ultime politiche, dopo la correzione dei conteggi del Viminale - finalizzato esclusivamente a riconquistare gli elettori del Nord, visto il risultato elettorale del 25 settembre per rilanciare la spinta autonomista".
Ecco così la corrente "nordista" della Lega, che agirà dentro il partito ma che ha anche il sapore di uno "strappo" dalla leadership di Matteo Salvini. Le adesioni sono già aperte in Lombardia e Veneto.
Nel 'Comitato Nord' sono invitati ad aderire, tutti gli iscritti alla 'Lega per Salvini premier', come sottolinea lo stesso Bossi, "che vogliono impegnarsi con rinnovato entusiasmo alla conquista degli obiettivi che sono stati alla base della fondazione della Lega nel marzo 1984". Il progetto sarebbe già in fase avanzata, poiché "sono state poste le basi per la struttura organizzativa del Comitato". Con il 'Comitato Nord', di fatto, Umberto Bossi torna in campo energicamente per la Lega e per l'autonomia, fanno sapere fonti vicine al Senatur.
La Lega interviene con una nota precisando che "dopo trent'anni di battaglie, questa sarà la legislatura che finalmente attuerà quell'autonomia delle Regioni che la Costituzione prevede. È nel programma del centrodestra, non costerà nulla anzi farà risparmiare milioni, avvicinerà i cittadini alla politica, taglierà sprechi e burocrazia. E il ministero per le Riforme e gli Affari regionali sarà protagonista di questa pacifica rivoluzione", riporta una nota del Carroccio.
Bossi si fa la sua corrente: nasce il "Comitato Nord". Il Senatùr: bisogna recuperare gli obiettivi fondativi della Lega e rilanciare l'autonomia. Pier Francesco Borgia il 2 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Continua il «processo» ai risultati in casa Lega. Da Zaia a Maroni, nei giorni scorsi sono stati tanti i dirigenti del Carroccio che hanno sollevato perplessità sulla gestione salviniana del partito. Soprattutto negli ultimi due anni. Con risultati che hanno fatto crollare i consensi a vantaggio dell'alleata Meloni anche in «piazze» considerate da sempre fedeli alla politica leghista. Come il Nordest. Ed è proprio partendo da questi dati che da più parti si fa forte l'esigenza di tornare alle origini. E chi meglio di Umberto Bossi può indicarne la via. Il «senatur», ripescato dopo un affrettato conteggio da parte del Viminale, resta in campo e ora, dall'alto della sua esperienza maturata in oltre 35 anni di vita parlamentare, suggerisce un ritorno alle origini.
E a questo suggerimento Bossi intende dare una forma concreta. Ed ecco l'idea di una corrente. Non di un partito alternativo alla Lega, sia ben chiaro. Semmai una corrente all'interno del movimento che lui stesso ha contribuito a fondare. Una formazione «nordista» interna alla Lega Salvini premier. «È un passaggio vitale - ha spiegato Bossi - finalizzato esclusivamente a riconquistare gli elettori del Nord, visto il risultato elettorale del 25 settembre per rilanciare la spinta autonomista». Nel Comitato Nord sono invitati ad aderire tutti gli iscritti alla Lega «che vogliono impegnarsi con rinnovato entusiasmo alla conquista degli obiettivi che sono stati alla base della fondazione della Lega nel marzo 1984». Il progetto sarebbe già in fase avanzata, poiché «sono state poste le basi per la struttura organizzativa del Comitato». Con il Comitato Nord, di fatto, Umberto Bossi torna in campo energicamente per la Lega e per l'autonomia, fanno sapere fonti vicine al Senatur. «Bossi si sente molto frustrato perché avverte che tante persone per bene stanno pensando di lasciare la Lega», spiega un dirigente che ha parlato con lui in queste ore. «In tanti lo chiamano per dire che il segretario sta facendo troppo pasticci e si è sentito in dovere di fare qualcosa», conclude. La corrente dovrebbe chiamarsi «Comitato del Nord». Per il momento si tratta soltanto di un progetto. Si stanno, infatti, raccogliendo adesioni e sondando l'opinione degli attivisti di Lombardia e Veneto.
Un'altra iniziativa, che aspira anch'essa a risvegliare l'orgoglio autonomista del nord, è portata avanti da alcuni ex parlamentari, che ancora aderiscono alla Lega Nord, il partito fondato da Bossi ma tecnicamente «sostituito» dalla Lega Salvini premier a partire dal 2017. Si tratta, tra gli altri, di Gianni Fava, ex sfidante di Salvini al congresso del 2017, Emanuela Munerato e Gianluca Pini. L'appuntamento è per il 15 ottobre alle 10:30 alla sala Cattaneo di Biassono (Monza e Brianza). 'Per il Nord riparte la battaglia è il titolo dell'iniziativa scritto, nel manifesto su sfondo verde, con i caratteri usati ai tempi nella campagna di Roberto Maroni per lo slogan «Prima il Nord».
Ucraina, Bossi ricorda il D-Day con lo sbarco in Normandia: «Democrazia e libertà vincono». Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 5 Giugno 2022.
Il fondatore della Lega nord: «Ho coscienza che i popoli combatteranno sempre per la libertà e la democrazia e vinceranno».
Non cita il conflitto in corso in Ucraina. Ma il 78esimo anniversario dello sbarco in Normandia gli offre lo spunto per sottolineare che «alla fine la democrazia e la libertà vincono», indicando l’intervento degli americani come decisivo. Il fondatore della Lega nord e oggi senatore Umberto Bossi, in una nota diffusa alla vigilia della ricorrenza del D-Day della Seconda guerra mondiale, del 6 giugno 1944, ricorda che «anche Mussolini e Hitler sono caduti» ed esprime «gratitudine agli americani» per «averci liberati dal nazifascismo. Ho coscienza che i popoli combatteranno sempre per la libertà e la democrazia e vinceranno». Seppur senza collegare direttamente il secondo conflitto mondiale con le dinamiche del l’attuale guerra in Ucraina, un messaggio alle forze politiche, incluso forse Matteo Salvini, critico verso l’invio di armi a Kiev.
Regina Elisabetta, il contenuto della clamorosa lettera ricevuta da Umberto Bossi: "Ricca di particolari..." Fabio Rubini Libero Quotidiano il 05 giugno 2022.
In politica da sempre esiste una specie di fil rouge che unisce le grandi personalità. E che - fatti dovuti distinguo - la regina Elisabetta e Umberto Bossi siano politici di razza è fuor di dubbio. Per questo non stupisce più di tanto che i due, in un certo senso, siano diventati "amici di penna". Già, perché così come era successo nel 2021 alla morte del principe consorte Filippo - ne riparleremo - il Senatùr ieri ha ripreso carta e penna e anche in occasione del Giubileo di platino della sovrana più longeva di sempre, ha scritto ad Elisabetta per farle gli auguri. Una lettera che, chi l'ha letta, ha definito scritta con uno stile «formale ma affettuoso» e ricca di «particolari». Bossi l'ha scritta in inglese e firmata di suo pugno, la spedirà oggi via posta a Buckingham Palace. Il contenuto, come si conviene in questi casi, è top secret, ma a grandi linee contiene gli auguri per i 70 anni di regno e una visione volta al futuro che da sempre accomuna i due personaggi politici.
IL RICORDO DI FILIPPO
Come detto in precedenza, non è la prima volta che Umberto Bossi scrive alla regina Elisabetta. Il primo contatto tra la Lega e la famiglia reale risale al 2003 quando le poste inglesi emisero una serie di francobolli a tema leghista. Uno riportava la foto di Umberto Bossi, allora ministro per le Riforme, con la scritta "Forza Senatùr" e gli altri avevano i simboli identitari della Lega di allora, ovvero il Sole delle Alpi, la bandiera della Padania, Pontida - sede dei raduni oceanici di militanti e simpatizzanti - e Venezia dove, solo pochi anni più tardi, il 15 settembre 2006, sarebbe stata celebrata la nascita della Padania.
Lo scambio epistolare tra il "Capo" come ancora lo chiama chi gli è rimasto vicino e la regina Elisabetta risale invece al 2021, quando alla morte del principe consorte Filippo, dopo 73 anni di matrimonio, Bossi aveva scritto alla sovrana una lunga lettera di vicinanza e affetto in un momento così doloroso e difficile da superare. Una lettera frutto anche delle sofferenze che lo stesso Senatùr ha dovuto affrontare in prima persona dopo la malattia che lo colpì l'11 marzo del 2004. E con le quali deve fare i conti ancora oggi. In quell'occasione - forse un po' a sorpresa - era arrivata anche la risposta della Regina (per mano di Andrew Paterson, direttore delle operazioni, segretario privato di sua Maestà) che si disse «grata» e «colpita» dalla lettera carica di umanità ricevuta dal fondatore della Lega Nord. «La Regina - scriveva Paterson - mi ha chiesto di ringraziarla per il suo premuroso messaggio di affetto che le ha inviato in occasione della morte dell'amato marito di Sua Maestà, il Duca di Edimburgo». E ancora: «La Regina è rimasta colpita dai messaggi ricevuti ed è molto grata per le sue parole gentili».
NELLO STUDIO
Una lettera, quella di Elisabetta, preziosa per il Senatùr che ancora oggi la tiene incorniciata in bella vista nel suo ufficio a Palazzo Madama, assieme a una storica bandiera della Lega Lombarda che, al pari di quella inglese, ha la croce di San Giorgio rossa su sfondo bianco. Un altro punto di "contatto" tra i due. Del resto anche nel periodo secessionista della Lega - quando i simboli erano l'irlandese Bobby Sands e gli indipendentisti scozzesi - non si ricordano parole forti contro la regina e la famiglia reale.
Quando Renzo Bossi e la Lega Nord trionfavano agli Europei di calcio. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 2 Maggio 2022.
A giugno Nizza ospiterà i campionati continentali Conifa, la federazione che accoglie le nazioni non riconosciute. Ossezia del Sud e Abkhasia, entrambe in area Putin, sono state sostituite da Elba e Sicilia. E la Padania punta al terzo titolo, anche se i tempi d’oro del Trota sono finiti.
Eliminati dai Mondiali in Qatar? Il riscatto è vicino. Una squadra italiana potrebbe vincere gli Europei di calcio che si terranno a Nizza dal 3 al 12 giugno. Il torneo è organizzato dalla Conifa, l’organizzazione mondiale di 63 nazioni che non sono tali, perché non riconosciute né dall’Onu (193 membri) né dalla Fifa (209 membri).
Fra le dodici partecipanti che si affronteranno nella città natale di Giuseppe Garibaldi, malauguratamente ceduta ai cugini di oltralpe, ben cinque sono localizzate nel condominio geopolitico presieduto da Sergio Mattarella. Si tratta della Padania, già campione europea nel 2015 e 2017, delle Due Sicilie, ma senza regno, della Sardegna, dell’Elba e della Sicilia senza il continente. Le ultime due sono state ripescate all’ultimo momento al posto di Ossezia del Sud e Abkhasia, due enclavi filorusse in territorio georgiano alle quali sono stati negati i visti. Sarà regolarmente in campo l’Artsakh, più nota come Nagorno Karabakh, l’enclave armena in Azerbaijan dove ci sono state due guerre (1992 e 2020). Il conflitto più recente ha visto la vittoria dell’esercito azero con il sostegno della Turchia fino alla pace mediata dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov su ordine di Vladimir Putin.
Nell’universo parallelo della Conifa spesso il calcio evoca miti suggeriti dalla storia oppure brevettati da poco come quello della Padania, squadra a lungo finanziata dalla Lega e presieduta fra il 2007 e il 2012 da Renzo Bossi detto il Trota, il giovane rampollo del senatore Umberto. Le vittorie sono state ottenute grazie alla presenza di ex calciatori di livello, come il bomber di Inter e Milan Maurizio Ganz, l’ex Piacenza Gianpiero Piovani ed Enoch Barwuah, fratello di Mario Balotelli convocato più che altro per fugare dubbi di razzismo.
Ma la Conifa è soprattutto un raccoglitore di aspirazioni nazionali collegate a conflitti e separatismi. Ai Mondiali del 2014 i prodi padani maramaldeggiarono per 20-0 contro il Darfour, selezione della provincia sudanese vittima di una guerra civile genocida. Gli Europei del 2017 sono stati vinti ai rigori dalla rappresentativa del Po contro i padroni di casa di Cipro Nord, la zona dell’isola mediterranea occupata dai turchi dall’invasione del 1974. Altri nomi che evocano violenze sono Somaliland, Rohingja, Kurdistan, Kashmir, Sahara occidentale, Tamil Eelam. Per chi ama l’appartenenza etnica sono da segnalare la squadra dei Coreani Uniti del Giappone, quella del popolo Romanì, degli indios Mapuche, dei Sapmi della Lapponia. Fra gli associati c’è la nazionale più misteriosa di sempre, quella di Rapa Nui (isola di Pasqua).
Tanto interesse ma pochi soldi. Dopo nove anni di attività la Conifa, presieduta dall’ex arbitro e allevatore di renne di origine lappone Per-Anders Blind, vivacchia. La passione resta ma i tornei della federazione sono finanziati alla bell’e meglio. Lo spettacolo è da calcio amatoriale. Chi sa che i russi non vengano in soccorso.
"La Padania esiste, il Nord deve essere rispettato". Francesca Galici il 24 Aprile 2022 su Il Giornale.
Umberto Bossi è tornato a parlare e a ribadire lo spirito originario della Lega Nord, promuovendo l'attuale impostazione dell'Unione europea.
Umberto Bossi è tornato a parlare alla stampa e l'ha fatto attraverso un'intervista concessa al sito lanuovapadania.it. Il senatore e capostipite della Lega ci ha tenuto a sottolineare che lo spirito fondante del suo partito, nonostante negli anni ci siano state delle importanti evoluzioni, "è una impronta che resta per sempre. Non la cancelli". Ed è in quello spirito che nel corso dell'intervista raccolta dalla direttrice Stefania Piazzo ha rievocato anche la Festa di autoderminazione dei popoli, cioè l'evento nel 1996 durante il quale, con l'ampolla di acqua del Po, venne proclamata la nascita della Padania.
Ed è in questo spirito che Umberto Bossi, seppure ormai lontano dai vertici attivi del suo partito, pur restando ancora presidente della Lega nord, ha voluto comunque mandare un messaggio forte e tuonante al governo di Roma: "Il nord deve essere rispettato, non ridotto come ora a portatore di acqua allo Stato italiano". Parole chiare che rispecchiano la spina dorsale della vecchia Lega, distante da quella che è diventata ora. Il senatore ha preferito non commentare le voci di un ipotetico nuovo contenitore chiamato "Prima l'Italia", che dovrebbe fungere da aggregatore per proporre liste uniche tra Lega e FI alle prossime elezioni in Sicilia: "Non serve far polemica, non mi interessano le polemiche, io guardo oltre. Chi vuole far fuori il nord, sbaglia a capire. Quelli che, a Roma e con Roma, costringono i popoli del nord a subire le scelte dello Stato non hanno capito che lo spirito di Venezia è rimasto nel cuore della gente del nord".
Lo spirito di Umberto Bossi non è cambiato nel corso degli anni e il senatore continua a credere nel futuro della Padania come entità collettiva che racchiude le regioni del nord Italia: "Popoli giganteschi come quello lombardo, veneto, emiliano sanno che la Padania esiste. E sono coscienti della forza che ha". L'idea di nazionalismo è lontana dal pensiero di Umberto Bossi, anche ora che la crisi internazionale spinge i governi e i Paesi a prendere decisioni difficili e decisive: "Quello che si vede è illusorio, è apparente". A differenza di quanto in tanti potrebbero pensare, gli ideali di Umberto Bossi non sono così distanti da quelli dell'Unione europea, contestata dai sovranisti di tutta Europa ma non dal padre della Lega nord: "Non mi dispiace affatto, non è male, è abbastanza buono l'assetto attuale. Tutto sommato poteva essere peggio, poteva essere un super-Stato centralista che schiacciava tutti i popoli, invece così non è stato".
Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 23 marzo 2022.
Oggi il menu della politichetta presenta Lega alla vaccinara, nel senso che per la prima volta il Consiglio federale degli ex lumbard è stato convocato in un posto che più Roma non potrebbe essere.
Là dove dall'autunno del 2020 si dà vita alla "Belva" salviniana - che il dio degli scandaletti rivelatori l'abbia in gloria - comunque a fianco dei ruderi della Porticus Minucia e davanti al museo sotterraneo della Crypta Balbi, lungo via delle Botteghe Oscure, già storica sede del Pci e altrettanto antica testata diretta da una intelligente nobildonna, Marguerite Caetani.
Se si pensa al modesto paesaggio di via Bellerio, con l'altarino del Capitano ingombro di icone sacre e ritrattini di Putin, viene un po' da piangere, un po' da ridere e un po' da pensare a come cambiano le cose, e nella Lega vertiginosamente.
Il fatto che si tratti di una riunione in gran parte da remoto rende l'evento ancora più simbolico e la capitolazione definitiva. Si ricorderà lo slogan: "Roma ladrona, la Lega non perdona". Ebbene, forse anche perché un po' ladrona, ma soprattutto perché ha dalla sua il tempo lunghissimo della storia, Roma non solo perdona tutto, ma lascia anche che le sue vendette accadano più o meno avvertitamente, per cui anvedi il raduno leghista in pieno centro.
A suo modo il vecchio Bossi lo sapeva e così, entrati in Parlamento nel 1992 un bel numero di leghisti, «siamo un popolo in guerra e pianteremo le nostre tende» eccetera, diede l'ordine di reperire una specie di falansterio con camerate e pasti in comune con il dichiarato scopo di estraniare i suoi rudi guerrieri dalle mollezze e dalle tentazioni dell'Urbe.
Inutile dire che il proposito fallì miseramente col risultato che le lusinghe della capitale e le bramosie dei conquistatori si combinarono al meglio, il soggiorno dei lumbard venne di molto addolcito e lui stesso finì per essere invitato dalle astute e turpi signore dei salotti, eccitatissime nel ricevere finalmente il capo dei Barbari di cui si diceva che non si lavava, ruttava a tutto spiano e inzuppava i grissini nella cedrata Tassoni.
Luciano Capone per “il Foglio” il 23 marzo 2022.
In Parlamento ad ascoltare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky non c’era Vito Comencini.
Non è un caso. Il deputato, reduce da un viaggio in Russia, è il frontman dell’avanguardia filoputiniana della Lega che ha il suo ambito d’azione nel Veneto e il suo epicentro a Verona.
In città, dove è anche consigliere comunale, sabato Comencini ha partecipato a un incontro pubblico che aveva l’obiettivo di ribaltare le “false informazioni” dei media che “vorrebbero additare nella Federazione russa e nel presidente Putin gli unici responsabili del conflitto” in Ucraina.
Per Comencini la responsabilità dell’invasione dell’Ucraina è dell’occidente, perché “l’operazione militare (sic!) è scattata dopo che la Russia aveva ripetutamente richiesto alla Nato e agli Usa un accordo formale vincolante sulla propria sicurezza strategica”, richieste che per Comencini erano “più che legittime e ragionevoli, alle quali però non è stata data alcuna risposta positiva”.
L’invasione, o meglio “l’operazione militare”, è stata una doverosa conseguenza.
Ma per il deputato del partito di Matteo Salvini ci sono anche altre ragioni per stare dalla parte di Putin: “Quello in atto è uno scontro di civiltà tra i valori in cui la nuova Russia post sovietica si riconosce, i millenari valori tradizionali cristiani, e gli anti valori portati avanti dagli Usa di Biden e dalla maggior parte dei governanti europei ormai totalmente scristianizzati”.
Sembrano riecheggiare la parole del patriarca di Mosca Kirill. Ospite d’onore dell’incontro veronese, in collegamento, il deputato della Duma Vitaly Milonov, noto antisemita e omofobo del partito Russia unita di Putin.
L’evento di sabato è stato organizzato dall’“Associazione Veneto-Russia”, nata sul modello di quella Lombardia-Russia fondata da Mr. Metropol Gianluca Savoini, che negli ultimi anni ha dettato la politica filorussa della Liga e di Luca Zaia.
Il Savoini veneto, animatore dell’associazione, è Palmerino Zoccatelli. Zoccatelli è un leghista, tradizionalista cattolico, indipendentista veneto e da due anni responsabile dell’ufficio territoriale a Verona della Repubblica Popolare di Donetsk, uno dei due autoproclamati stati secessionisti dell’Ucraina (l’altro è Luhasnk). Vladimir Putin, che ha finanziato e armato i separatisti filorussi anti Kyiv, ha formalmente riconosciuto le due repubbliche solo il giorno in cui ha annunciato l’invasione dell’Ucraina.
A Verona la Lega ha fatto molto prima: ha riconosciuto Donetsk e Luhansk con due anni di anticipo rispetto al Cremlino. Altro esponente di spicco dell’Associazione Veneto-Russia è il consigliere regionale Stefano Valdegamberi, eletto a Verona nella lista Zaia. Da anni questo gruppo, che opera nella zona di pertinenza e con il sostegno del vicesegretario federale della Lega Lorenzo Fontana, tiene contatti con le frange più estremiste del nazionalismo panrusso in Ucraina.
Nel 2014, ad esempio, all’indomani della rivoluzione ucraina di Euromaidan, in una conferenza organizzata da Zoccatelli per denunciare i crimini del governo “nazionalista e antirusso” di Kyiv venne invitato come ospite d’onore Oleg Tsarev, un politico filorusso vicino all’ex presidente ucraino deposto Viktor Yanukovich.
Tsarev all’epoca era nella lista delle personalità sanzionate dall’Unione europea in quanto autoproclamato leader della Novorossiya, la federazione delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk. Un elemento di attualità fa inquadrare la rilevanza del personaggio: secondo il Financial Times, che cita fonti di intelligence, nei piani originari dell’“operazione militare speciale” Tsarev era stato individuato da Putin come il fantoccio da mettere al posto di Zelensky per fare dell’Ucraina una seconda Bielorussia.
A partire dal 2014 sono stati numerosi i viaggi della colonna veneta nei territori ucraini contesi con la Russia, ma le gite che hanno prodotto le conseguenze politiche più rilevanti non sono state in Donbas bensì in Crimea.
Nell’aprile del 2016, il consigliere regionale zaiano Stefano Valdegamberi è ospite dell’International Economic Forum di Yalta, l’evento organizzato dal Cremlino per far incontrare politica e affari nella Crimea illegalmente annessa. Valdegamberi torna da Yalta pienamente convertito alla causa putiniana: pochi giorni dopo presenta in Consiglio regionale una risoluzione, poi approvata a larga maggioranza, che chiede di togliere le “inutili sanzioni” alla Russia, di “condannare la politica internazionale dell’Unione europea” e di “riconoscere la volontà espressa dal Parlamento di Crimea e dal popolo mediante un referendum”.
Così il Veneto diventa la prima istituzione del mondo occidentale e democratico – dopo Afghanistan, Cuba, Corea del Nord, Kirghizistan, Nicaragua, Sudan, Siria e Zimbabwe – a riconoscere l’annessione russa della Crimea. E giustamente diventa una notizia rilanciata da tutti i principali media russi, che addirittura mandano inviati e telecamere in Veneto. La posizione dell’avanguardia putiniana veronese diventa poi la linea ufficiale della Lega.
Nei mesi successivi risoluzioni analoghe vengono approvate in Liguria e in Lombardia (presentata dall’attuale capogruppo al Senato Massimiliano Romeo), e mozioni fotocopia vengono presentate dai consiglieri leghisti, stavolta senza successo, in Emilia-Romagna e Toscana. In maniera anche un po’ ridicola.
Claudio Borghi, all’epoca consigliere toscano, copia pari pari il testo veneto sottoponendo al consiglio della Toscana di votare una risoluzione contro le “sanzioni alla Russia che stanno comportando gravi conseguenze all’economia del Veneto”.
La mossa viene comunque apprezzata dal Cremlino: a ottobre 2016 l’ente statale “Business Russia” organizza e paga un nuovo tour in Crimea a un’ampia delegazione dei consiglieri delle regioni che hanno presentato la risoluzione.
Tra di loro c’è il numero 2 del Veneto e braccio destro del Doge Luca Zaia, il presidente del Consiglio regionale Roberto Ciambetti che consegna la bandiera con il Leone di San Marco al presidente del parlamento della Crimea Vladimir Konstantinov (all’epoca nella black list dell’Ue), provocando l’ira degli ucraini.
I putiniani veneti vengono invitati a Yalta ogni anno, in delegazioni sempre più ampie di politici e imprenditori interessati a fare affari in una zona però dove è proibito investire per via delle sanzioni: “Purtroppo dobbiamo ricorrere a dei raggiri”, disse candidamente Valdegamberi. Un altro risultato significativo dei putiniani veronesi, che ha prodotto un caso diplomatico, è la revoca della cittadinanza onoraria all’allora presidente ucraino Petro Poroshenko.
L’onorificenza era stata assegnata nel 2016, dall’allora sindaco di Verona Flavio Tosi, dopo il ritrovamento a Odessa e alla restituzione, seppure dopo 7 mesi, delle opere d’arte trafugate nel clamoroso furto al museo di Castelvecchio. Due anni dopo, con la nuova giunta targata Federico Sboarina, su proposta del putiniano Comencini, il comune di Verona decide di revocare la cittadinanza onoraria a Poroshenko citando la “diffusa violazione dei diritti” dell’etnia russa in Donbas (la ragione dell’invasione invocata ora dal Cremlino).
“Burattini di Putin”, fu la dura replica dell’Ambasciata d’Ucraina a quello che appariva solo un “atto provocatorio”. “Questo filoputinismo all’amatriciana è sempre stato contrario gli interessi nazionali”, dice al Foglio Flavio Tosi, ricordando con amarezza quelle vicende, “e ora la Lega lo sta pagando in termini di credibilità e di consenso. Dietro ci sono tanta superficialità e infantilismo, che su questioni che riguardano gli equilibri internazionali non sono attenuanti ma aggravanti. Non vedo però il coraggio di affrontare il tema in maniera chiara”.
Il governatore Zaia si è schierato chiaramente dalla parte dell’Ucraina, ma le dichiarazioni di ora cozzano con gli atti di allora. Per renderle credibili bisogna passare dalle parole ai fatti. Si potrebbe iniziare in tre modi: tagliare i ponti col putinismo alla veronese; approvare una risoluzione che condanni l’annessione illegale della Crimea; ridare la cittadinanza onoraria veronese al presidente dell’Ucraina, se non all’ex Poroshenko va bene anche a quello attuale, Zelensky, che la Lega ha tanto applaudito in Parlamento.
Luca Zaia: «Noi veneti nei film eravamo solo storditi o cameriere ingenuotte». Luciano Ferraro su Il Corriere della Sera il 26 febbraio 2022.
Viene da una famiglia povera e ha cominciato a lavorare da bambino («passavo l’estate nell’officina di mio padre e lui mi pagava»), poi è arrivata la politica. «Da ragazzo ho organizzato un baccanale in discoteca e ho visto che funzionava, quei soldi mi servivano per l’università».
Luca Zaia, 53 anni, governatore del Veneto ed ex ministro. Il suo debutto in politica è datato 1993, quando fu eletto consigliere comunale della Lega . Nella foto in piazza San Marco il 15 novembre 2019 quando una marea record sommerse quasi tutta Venezia (foto Agf)
Ha lavorato 20 ore al giorno da febbraio a giugno 2020, «senza tregua e sotto stress. Come ho fatto? Ho resistito grazie all’amore per il Veneto». Dorme due o tre ore a notte. E come accade a tutti gli insonni, nel buio si affollano i ricordi. Che hanno preso la forma di un libro, Ragioniamoci sopra (da un tormentone di Crozza, che lo diverte quando lo imita). Editore rigorosamente veneto, Marsilio. Non poteva essere altrimenti, perché per il governatore Luca Zaia, il Veneto è il centro del mondo. Ne parla come la regione del fare, ed è il primo ad aver fatto: meccanico con il padre, manovale, produttore di creme anti dermatiti, istruttore d’equitazione, pr per discoteche, raccoglitore di capi per le lavasecco. Poi politico. «No, amministratore», precisa. Rieletto con quasi il 77% dei voti, domina nello Zaiastan (copyright Massimo Cacciari). Con i “suoi” sindaci comunica in dialetto, sciorinando proverbi (uno sempre buono: Scoa nova, scoa mejo , scopa nuova, scopa meglio). Non ha visto La sposa , la fiction Rai in cui un rozzo veneto “compra” una sposa-schiava in Calabria. «Un fenomeno inesistente nel Veneto», si arrabbia «pura invenzione».
Nessun arrivo di lavoratori dal Sud?
«Qui non c’erano grandi industrie. Il modello è stato il metalmezzadro, l’operaio-contadino. Piccole aziende, 2,5 ettari in media. E poi un formicaio di micro industrie, un’economia diffusa, l’opposto del gelo della grande Torino. I lavoratori del Sud sono arrivati sì, ma negli uffici pubblici, scuole e Poste».
«NOI VENETI SIAMO STATI VITTIME DEGLI STEREOTIPI DEL CINEMA». LA FICTION RAI IN CUI UN ROZZO VENETO “COMPRA” UNA SPOSA-SCHIAVA IN CALABRIA?. «UN FENOMENO INESISTENTE NEL VENETO, PURA INVENZIONE»
Lei viene da una famiglia di migranti.
«Mio nonno Enrico andò a lavorare in Brasile. C’è stato un grande flusso a fine Ottocento: ci sono più veneti fuori dal Veneto che nel Veneto».
È vero che lei ha tenuto un comizio in Brasile parlando in dialetto?
«C’erano tremila persone. In alcune zone la lingua ufficiale è il talian , il dialetto arcaico. E quando mangiano la minestra ci versano il vino, come mio nonno. Nel Dopoguerra i veneti sono migrati in tutto il mondo, dal Belgio all’Australia».
Suo nonno diceva che dove passavano loro la giungla era bonificata.
«È ancora così, dove non hanno lavorato è rimasta la giungla».
Anche sua madre è migrata per lavoro?
«Mia mamma Carmela è andata a servire, ha fatto la colf e la tata, si direbbe ora».
Come nelle commedie all’italiana degli Anni 60.
«I veneti sono stati a lungo vittime degli stereotipi: nei film erano veneti i carabinieri un po’ storditi e le cameriere ingenuotte. Grandi diffamatori nazionali ci hanno descritto per decenni come abitanti della periferia dell’impero».
«MIA MADRE VIVEVA CON DIECI FRATELLI: IN MEZZO ALLA TAVOLA C’ERA UN SOLO POLLO, CHE DOVEVA BASTARE PER TUTTI»
Sua madre ha raccontato di aver visto per la prima volta un piatto di carne a 18 anni. Cosa si mangiava a casa?
«Pochi giorni fa, al compleanno degli 80 anni di mio padre, l’abbiamo ricordato. I miei nonni, polenta e latte. Oppure zampe di gallina. Mia sorella ha chiesto: ma con una famiglia così grande quando mangiavate il pollo, quanti polli c’erano a tavola?. E mia mamma: uno».
«La sposa», quella fiction Rai che non piace a Veneto e Calabria, di Marzio Breda, Antonio D’Orrico, Renato Franco
Televisione, «La sposa» a Vicenza. Fiction con polemiche da Nord a Sud, di Alice D’Este
Luca Zaia: «Draghi resti. Lui eletto al Quirinale? Solo con tanti voti al primo scrutinio»
di Cesare Zapperi
Luca Zaia sprona la Lega a fare i congressi: «Impensabile non celebrarli» di Martina Zambon
Zaia: «Le mie dirette sul Covid? Presidio contro le fake news» di Marco Cremonesi
Zaia: «Cambiamo strategia sul Covid, immunità di gregge raggiunta. E il 31 marzo finisca l’emergenza» di Mauro Giordano
Quanto era grande la famiglia?
«Mia nonna aveva 11 figli. Sua sorella, che ne aveva 6, morì giovane. E la nonna li adottò tutti».
Cosa si impara da una famiglia così?
«La solidarietà e l’umanità, valori che mi porto dentro».
Valori condivisi nel Veneto degli schei ?
«I veneti sono gran lavoratori, gente per bene. Uno su 5 fa volontariato. Siamo primi per donazioni di organi a livello nazionale. Abbiamo dimostrato ingegno per arrivare all’attuale benessere. Negli Anni 50 eravamo era un popolo di contadini, alfabetizzazione quasi zero. Ora ci sono 600 mila imprese, 180 miliardi di fatturato, anche la più innovativa delle idee qui mette radici».
Ora il Veneto è ricco.
«Tutto il mondo si rifornisce da noi perché siamo bravi nel saper fare. Un grande industriale mi ha raccontato: costruisco macchinari da milioni di euro, ma quando devo montarli mi serve un veneto. Uno che se manca una rondella si guarda in giro e la trova. Dopo lo sdoganamento economico c’è stato quello culturale. C’è una generazione di super laureati con il master».
Le credono quando racconta che in prima elementare facevate i turni per alimentare la stufa a legna?
«Era la normalità. Eravamo poveri, ma ho avuto un’infanzia felicissima. La stufa in classe era una prova d’abilità, lo sportello era rovente, dopo che il primo bambino si è scottato, abbiamo imparato la lezione».
«ABBIAMO PROFONDE RADICI CATTOLICHE, IL BIGOTTISMO NON C’ENTRA. HO FATTO IL CHIERICHETTO FINO A 14 ANNI, MI ANNOIAVO MAHO RESISTITO»
Poi ha fatto il chierichetto, per un bambino veneto era quasi obbligatorio?
«Sì, abbiamo profonde radici cattoliche. Il bigottismo non c’entra. La solidarietà e la compassione vengono da questa cultura. I chierichetti erano tanti, riempivano tutto il retro altare. Mi annoiavo, ma ho resistito fino a 14 anni. E distribuivo Famiglia cristiana e giornale parrocchiale. In bici, con un carretto. Che serviva anche per la questua, raccoglievamo salumi e formaggi per i preti».
E il primo lavoro com’è arrivato?
«Da una festa di classe. Ho organizzato un Baccanale in una discoteca. Ho capito che poteva diventare una opportunità. Era un Veneto in cui bastava uno spunto per trovare un lavoro. Ho inventato gli inviti da distribuire sulle spiagge e tra i ragazzi al bar. Il guadagno serviva a pagarmi gli studi. In quel periodo ho conosciuto tante persone che ho ritrovato come avvocati, medici, imprenditori. E tanti personaggi: Amadeus, Fiorello, Albertino...».
«A 8 ANNI LAVORAVO D’ESTATE NELL’OFFICINA DI MIO PADRE... QUANDO ARRIVAVA IL MEDICO DEL PAESE, PULIVO I VETRI DELL’AUTO. SIAMO STATI EDUCATI COSÌ, AD AVERE RISPETTO»
Nel libro ha scritto che la laurea è stata il «riscatto sociale di un figlio del popolo».
«Della mia famiglia sono il primo laureato. Lavoravo tutte le estati nell’officina di papà. Conservo ancora l’agendina in cui segnavo le ore: papà era molto rispettoso, mi pagava, certo una cifra simbolica, avevo 8 anni».
Cosa faceva?
«Quando arrivava il medico del paese, pulivo i vetri dell’auto. Siamo stati educati così, ad avere rispetto».
Il medico era la star del paese.
«Come il maestro, il prete e il geometra. E anche il norcino, il porzeler , una vera autorità alla quale si affidava il bene più prezioso per un famiglia da sfamare, il maiale».
A proposito di proverbi, spesso cita “anno bisesto, anno senza sesto”.
«I proverbi sono filosofia popolare, imparati dai contadini che non citano Platone e Socrate. All’anno bisesto e funesto non ho mai creduto, non sono superstizioso: ma il 21 febbraio 2020 con iI primo morto di Covid in Veneto ho pensato che eravamo entrati nell’anno più buio».
Già prima, per lei, non erano stati anni allegri.
«Nel 2010 l’alluvione a Vicenza, 270 Comuni sott’acqua. Nel 2019 la tempesta Vaia, 100 mila ettari di alberi a terra. Nello stesso anno l’acqua alta a Venezia come non accadeva da 50 anni. Poi è arrivata la pandemia».
Aveva detto, ricordando un detto della Serenissima, che sarebbe durata «do Pasque e un Nadal».
«È durata un po’ di più. Nella pandemia del 1630 solo a Venezia morirono 80 mila persone. Questa volta in tutto il Veneto ne sono morte 13.500. Grazie alla sanità veneta e ai vaccini. E anche alle decisioni sulle chiusure e sui tamponi a tappeto che ho preso da solo, mentre molti mi attaccavano».
Le Dolomiti (dove è riuscito a portare le Olimpiadi) o le colline del Prosecco per cui vi siete battuti con l’Unesco, ora promosse a Patrimonio dell’Umanità. A cosa tiene di più?
«Ma dove trovi un posto dove in due ore di auto passi dallo sci sul ghiacciaio della Marmolada ai bagni a Jesolo? Il Veneto è talmente bello che è quasi difficile da credere, per fortuna i turisti lo capiscono: 72 milioni di presenze l’anno».
Ad emergenza finita, dove andrà in ferie?
«Penso di restare nel Veneto. Al massimo stacco una settimana l’anno. Con me la Regione è sempre aperta, anche a Ferragosto. Avevo un cavallo e mi piacevano le escursioni, è morto durante la pandemia. Ma resto ottimista, solo i pessimisti non fanno fortuna. Dopo la pioggia viene il sereno».
Zaia: «Non ci sono più tabù, l’autonomia è di tutti. Questo Parlamento può scrivere la storia». Marco Cremonesi su Il Corriere della Sera il 21 Febbraio 2022.
Il governatore: illuminanti le parole di Mattarella sui territori. «Sergio Mattarella ha indicato la strada. E io spero che Mario Draghi la voglia percorrere». Luca Zaia non ha mai smesso di parlare delle autonomie regionali. Ma ora lo fa con un appello alle massime cariche dello Stato.
Che cosa le fa pensare che possa essere la volta buona?
«Noi veneti negli ultimi 25 anni abbiamo chiesto tre volte di votare sull’autonomia. Il consiglio regionale ha votato una legge per il referendum, che fu impugnata dal governo Renzi nel 2014. Dopo un anno di battaglie, la Corte costituzionale ci ha dato ragione: il referendum si può fare. In quella corte, sedevano Marta Cartabia e, appena prima dell’elezione al Colle, Sergio Mattarella».
E come mai non è successo niente?
«Che dice? Il Veneto e la Lombardia hanno votato nell’ottobre del 2017. In Veneto sono andati alle urne in 2 milioni e 273mila. Il dar voce al popolo è stato determinante: questo non è più il dossier di Luca Zaia, ma quello di milioni di cittadini che si aspettano che la loro voce sia ascoltata».
Eppure, il 2017 è ormai lontano…
«Sono passati quattro anni, di cui due di Covid, e quattro governi. Però, mi faccia dire: se c’è una ricaduta positiva dell’immane catastrofe che ci ha colpito, possiamo dire che ha dimostrato che le regioni sono perfettamente in grado di gestire il più delicato dei temi, quello sanitario».
Che cosa vi ha spinto a tornare alla carica?
«Noi non abbiamo mai smesso. Ma le parole di Sergio Mattarella su questo tema sono state illuminanti e anche dirimenti. Il presidente non solo ha riconosciuto il valore delle amministrazioni territoriali, ma soprattutto ha fatto crollare l’ultimo tabù, il pensare alle autonomie come a qualcosa di sovversivo».
Nel senso che l’autonomia non è più considerata cripto separatismo?
«Appunto, l’autonomia è assunzione di responsabilità, finalmente non si sentono più certe fandonie, non si sente più parlare di secessione dei ricchi, di apoteosi dell’egoismo o, come diceva lei, di un modo subdolo per dividere il Paese».
Non teme che le divisioni, quando si andrà a stringere, riemergeranno in tutta la loro evidenza?
«Io sono davvero convinto che questo governo e questo parlamento abbiano la possibilità di scrivere una pagina di storia. Se riuscissimo a mettere sul binario giusto l’autonomia prima delle elezioni dell’anno prossimo, sarebbe un fatto poderoso che darebbe il senso a tutta la legislatura. Questo parlamento potrebbe essere ricordato come quello costituente, e come il primo che ha rispettato il dettato dei padri fondatori della Repubblica».
Eppure, questo governo ha già moltissima carne al fuoco…
«Questo è certamente vero, ma io credo che i tempi siano maturi. Tra l’altro, alle tre regioni che hanno avviato il percorso - Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna - se ne sono aggiunte parecchie altre. E c’è un punto che io credo fondamentale: dopo 75 anni si darebbe finalmente attuazione alla Costituzione. Si ricorda il piemontese Luigi Einaudi? “Ad ognuno verrà data l’Autonomia che le spetta”. Si ricorda il siciliano, conterraneo del nostro presidente, Don Luigi Sturzo, che nel 1949 si diceva “federalista impenitente”? La spinta era al Nord ed era al Sud».
Resta il fatto che dopo il referendum del 2017 tutti i dubbi possibili delle forze politiche sono stati espressi.
«Io penso che se tutte le forze politiche volessero essere coerenti, la fase post referendaria oggi potrebbe dirsi conclusa e oggi l’autonomia è di tutti. Non si può essere federalisti sui territori e centralisti a Roma».
Lei pensa che il premier Mario Draghi sia sensibile all’argomento?
«Lo dico a un presidente del Consiglio che ben conosce i modelli federali internazionali, e dunque siamo pronti a una legge quadro che confermi le nostre aspettative. Di certo, non andrà incontro a imboscate. Io credo che sia inutile pensare al futuro, al Pnrr, alla modernità se non costruiamo un Paese in grado di affrontare le sfide. Non credo proprio che si possa pensare al futuro con un centralismo medievale».
Il presidente della Lombardia Fontana ha delle perplessità sulla legge quadro in gestazione. Sbaglia?
«Io condivido le sue preoccupazioni, la Costituzione prevederebbe intesa diretta tra Stato e Regioni. Però, se il punto di caduta è il passaggio parlamentare, lo affronteremo. Ma solo se sarà rispettoso delle istanze delle Regioni».
Varese, così funzionava la «fabbrica» dei falsi invalidi: 8 mila euro per un certificato. Andrea Camurani su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2022.
Sette medici specialisti e una coppia di coniugi sono considerati i promotori dell’organizzazione, che aveva «clienti» anche nel Sud Italia. False commissioni Inps di valutazione istituite solo sulla carta.
Menomazioni. Sordità e cecità. Handicap o disabilità varie: il «sistema» garantiva di poter arrivare a ogni genere di risultato con percentuali che permettevano di far salire fino al 100% il livello di invalidità, così da beneficiare di indennità riconosciute dalla legge. Il tutto però a carico dello Stato. Un vero e proprio sistema criminale portato alla luce da un’inchiesta della Guardia di finanza di Varese coordinata dalla procura del capoluogo prealpino per la quale è stata comunicata la conclusione delle indagini a 39 persone coinvolte a vario titolo in quella che per gli investigatori è una associazione a delinquere, con reati contestati che vanno dalla truffa ai danni dello Stato alla corruzione.
Degli indagati, 32 risultano essere i «clienti» mentre 7 fra medici (specialisti in psichiatria, neurochirurgia od ortopedia e traumatologia) e una coppia di coniugi considerati i promotori dell’organizzazione. L’indagine è partita nel 2019 e quanto contestato riguarda le annualità precedenti, almeno fino al 2015. Ciascun soggetto aveva un compito predefinito nell’organizzare i servizi illeciti a clienti disposti a pagare mazzette fino a 8 mila euro a seconda della prestazione: una sorta di investimento per garantirsi un futuro tranquillo fatto di indennità illecite.
Il pacchetto era «all inclusive»: c’era chi assisteva il paziente nella presentazione della domanda di invalidità, chi lo metteva in contatto con gli specialisti compiacenti e chi lo accompagnava di fronte alle commissioni valutatrici. Al richiedente venivano poi consegnati dei certificati medici contenenti diagnosi ed informazioni rituali che enfatizzavano la condizione medica, certificati redatti senza visitare il paziente e che confluivano nella sua cartella personale esibita alla commissione valutatrice Asl (poi Ats), e in caso di revisione a quella dell’Inps. Sempre secondo le indagini dei finanzieri di Varese è stato possibile dimostrare che due medici convenzionati (accusati di far parte dell’associazione criminale) procedevano autonomamente a istituire, solo sulla carta, false commissioni Inps di valutazione, senza che gli altri componenti ne fossero al corrente. Poi, riportando gli esiti di malattie e menomazioni permanenti o croniche inventate, avviavano telematicamente la procedura che serviva al richiedente per ottenere i benefici della falsa invalidità.
L’associazione a delinquere operava non solo nel Varesotto o in Lombardia ma aveva interessi e ramificazioni estese sino al Sud Italia, infatti nel corso delle indagini è stato accertato che alcuni richiedenti, seppur residenti fuori regione, venivano fatti trasferire temporaneamente in zona presso il domicilio di altri falsi invalidi così da consentire di presentare la domanda di invalidità proprio a Varese. L’importo delle tangenti pagate e suddivise tra tutti i componenti dell’associazione ammonta a circa 400.000 euro mentre i benefici economici illegittimamente garantiti corrisponde nel solo periodo di indagine a circa 600.000 euro, senza calcolare quelli fiscali e previdenziali ancora in fase di quantificazione, tenuto conto che almeno tre indagati sono riusciti ad andare in pensione anticipatamente rispetto ai limiti previsti. In seguito alle contestazioni emerse a 13 beneficiari sottoposti a visita di revisione straordinaria da parte dell’Inps è stata revocata la percentuale d’invalidità inizialmente riconosciuta, mentre per gli altri 19 è stata sensibilmente diminuita.
"Il pensiero leghista" da Bossi a Salvini. Paolo Bracalini il 12 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Dall'epopea di Bossi e Miglio alla mutazione del 2013. E alle nuove sfide. Il libro di Andrea Rognoni.
Il pensiero autonomista ha molti padri e ispiratori in ogni epoca storica. Fu Umberto Bossi, nel '95, a farne un partito attivo e agguerrito quale lo conoscemmo nel tripudio popolare di Pontida. Da allora la Lega Nord, desunta dalla prima Lega Lombarda, ebbe nei vent'anni successivi un enorme travaglio e parecchie mutazioni, attraverso l'apporto fondamentale di Gianfranco Miglio, Oneto e altri epigoni del pensiero secessionista. Il centralismo italiano, timoroso di cambiamentI troppo radicalI, bollò la Lega di xenofobia.
In Il pensiero leghista (Italia Storica, pagg. 282, euro 18, pref. DI Emanuele Ricucci), Andrea Rognoni, direttore del Centro Regionale della Cultura lombarda, storico militante della Lega, spiega l'ideologia leghista e gli eventi che ne fecero un fenomeno politico inedito e originale. Il libro offre un vasto panorama di idee e personaggi che nei secoli hanno ispirato il federalismo moderno. La grande mutazione nella Lega avvenne nel 2013, quando da Bossi, fondatore e guida carismatica del partito (ma fisicamente sofferente), la guida passò al giovane rampante Matteo Salvini. Bossi usciva di scena, ma non del tutto. A ogni elezione, il partito gli garantiva la nomina di senatur. Salvini aveva vinto le elezioni di partito ed era diventato segretario con pieni poteri. Subito compie due gesti altamente significativi, che fanno presagire il nuovo corso: toglie dalla Lega la parola «Nord» e cambia colore al partito, non più verde ma una sfumatura di blu (ma resta l'icona di Alberto da Giussano). Il partito non è più secessionista: è diventato italiano. Quello che colpisce di più è l'abbandono del padanismo, scrive Rognoni. Secondo Salvini il padanismo ha fallito «perché si configurava con un programma troppo marcato e sfacciato nei confronti dello stato italiano». La contrapposizione frontale del Nord al Sud e l'antirisorgimentalismo causavano condizioni di ostilità e odio da parte di Roma e del Meridione. Il progetto salviniano è meno traumatico. Si tratta di inquadrare la lotta per l'autonomia regionale in un tessuto che non rinnega l'unità della penisola. Insomma, più autonomia amministrativa e non più secessione. Però la staticità dello Stato italiano non fa sperare che ciò avvenga. Anche il termine «federalismo» è sempre meno usato, Salvini preferisce parlare di «federalismo ragionevole» che liberi «dal giogo romano le comunità territoriali».
La prerogativa conservatrice e di destra della Lega sfocia nel cosiddetto «sovranismo», così come il motto, un tempo padanista, «padroni a casa nostra» si estende all'Italia intera. Il populismo della nuova Lega scende in difesa dei lavoratori, il cui nemico non è il padrone, ma proprio chi arriva da lontano accettando una scarsa remunerazione e ritmi di lavoro gravosi. Salvini conferma «di essere nato comunista padano», ciò che lo fa sentire vicino ai lavoratori, gli operai, i disoccupati, gli esodati. Nessuna contraddizione con il partito repubblicano (versione americana) che vorrebbe fondare con l'apporto dello schieramento di centrodestra. Paolo Bracalini
Francesco Specchia per "Libero Quotidiano" il 20 gennaio 2022.
«La libertà non è star sopra un albero/non è neanche il volo di un moscone/la libertà è partecipazione». Così, canticchiando un Gaber del '72 su una personale idea di libero traffico delle opinioni, Giulio Cainarca annuncia il cambiamento epocale di Radio Padania Libera.
Tolta la "Padania" un anacronismo territoriale, un reperto semantico del passato, «un'istanza politica che non esiste più» il suddetto direttore della (ex) storica emittente leghista inaugura le trasmissioni col nuovo marchio: "Radio Libertà".
Che poi, ad esser raffinati esegeti, richiama un po' le atmosfere battagliere di Radio Londra e, soprattutto, il nome dell'antica omonima emittente partigiana, «e questo farà di sicuro incazzare l'Anpi», afferma Cainarca.
Di certo s'irriteranno i leghisti d'antàn, che dalle frequenze di Radio Varese nel 76 assistettero alla nascita e crescita sulle frequenze 100.700 in megahertz, della potente voce della Lega bossiana che proprio lì vide nascere e crescere il giornalista Matteo Salvini.
Dietro il logo con una "R" azzurro cielo, accompagnata da un microfono rosso, la fu Radio Padania si propone dunque non più (non solo) come megafono del Carroccio. Ma più come una sorta di aggregatore culturale del centrodestra che possa diventare, in futuro, speaker's corner per un'area politica priva, finora, nella sua globalità, dello strumento radiofonico.
Commenta il direttore: «Il centrodestra, in fondo, non ha una radio. Dei partiti politici solo Italia Viva sta tentando l'esperimento di Radio Leopolda. Questa sarà sempre più un luogo di confronto che ci richiami ai valori delle libertà non ascrivibile ad un solo campo politico».
Basta dunque "Roma ladrona!" e pittoreschi epiteti di contorno, basta istanze identitarie talora al limite del razzismo, basta pentola a pressione di istinti pop molto nordici e assai antipolitici, basta con gli ultimi strascichi del leghismo duro e puro, insomma.
Sono lontanissime anche le vecchie, storiche controversie del bossismo in modulazione di frequenza: il tifo per il Paraguay nella partita contro l'Italia, le mitragliate in diretta degli ascoltatori contro tutti i governi centrali, i proclami assai pesanti dei vari Mario Borghezio.
Libertà. Non solo padana. Chiedo a Cainarca cose ne pensi il Salvini della svolta della sua radio preferita, "oltre la Lega". «Salvini è esploso da queste frequenze. Salvini non dice nulla perché non l'ho sentito. D'altronde questa non è più una radio di partito, siamo una cooperativa; non siamo mai stati organo della Lega come Radio Radicale lo fu con Pannella; e ora, negli ultimi anni, anche dal punto di vista pratico, siamo molto lontani dal controllo Lega».
Vero è che nella testa di Salvini è ben chiaro il prospetto, in futura chiave governativa, di un medium che cavalchi gli umori e le istanze di una maggioranza sempre più allargata.
Non è un caso che l'audience della nuova Rpd - ora Libertà - perda pochi fedelissimi della prim'ora; e acquisti in pubblico giovane (merito di programmi nuovi, anche trasversali, come le rubriche d'arte di Nicoletat Orlandi Posti inserite nei format economici di Alessandra Mori, per dire).
Radio Libertà sarà radio digitale Dab, canale del digitale terrestre (740 e il nuovo 252), sito, social. Informazione multitasking col solito spirito polemico, solo per una platea più vasta...
Se cade l'ultimo baluardo padano. Giannino della Frattina il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.
E così se ne va anche uno degli ultimi brandelli del sogno secessionista della Lega di Umberto Bossi che aveva infiammato i suoi primi seguaci pronti a dar fuoco al Tricolore e ad alzare il muro anti terroni a Bologna.
E così se ne va anche uno degli ultimi brandelli del sogno secessionista della Lega di Umberto Bossi che aveva infiammato i suoi primi seguaci pronti a dar fuoco al Tricolore e ad alzare il muro anti terroni a Bologna. Perché dopo il pensionamento del Capo, la messa ai margini dei colonnelli, le epurazioni nei simboli e nelle liste dei candidati alle elezioni, ora tocca anche a un monumento del leghismo duro e puro come quella Radio Padania nata, da un'idea di Davide Caparini allora amministratore delegato di Editoriale Nord di Milano. E allora dopo 25 anni dall'inizio delle trasmissioni come voce dell'allora Lega Nord ed essere diventata Rpl, Radio Padania da oggi acquisirà la più neutra denominazione di Radio Libertà. Via anche l'ormai rinnegato verde della tradizione e per la «R» della griffe ecco un azzurro cielo di memoria più berlusconiana che bossiana. E poi, orrore, un microfono rosso e la parola «libertà» in bianco a ricordare quella bandiera italiana tranquillamente sopravvissuta, e in ottima salute, agli assalti di un Carroccio evidentemente finito fuori strada. Ci mancava solo di chiamarla Azzurra libertà e la mutazione sarebbe stata completa. «A dirigerla sarà l'attuale direttore di Rpl Giulio Cainarca e sono confermati anche gli speaker». Poi venerdì, aggiunge il comunicato per tranquillizzare elettori e militanti, «in trasmissione ci sarà anche il segretario della Lega Matteo Salvini». Lui che di quella radio per lustri fucina di arrembanti e corrosivi politici e amministratori leghisti, era stato direttore. Come poi l'oggi vice ministro Alessandro Morelli e in principio il giornalista-politico Roberto Poletti. «Il nostro credo? Essere la voce di chi non è mainstream, perché per noi essere liberi vuol dire partecipare, come cantava Giorgio Gaber nel 1972», spiega il direttore. «Anche se molti credono di poter comunicare e partecipare sui social, noi siamo convinti che la radio sia ancora quel mezzo davvero in grado di parlare a tutti e dare spazio alle mille sfaccettature di un mondo complesso, nel quale non è mai tutto nero o tutto grigio». E per rimanere al passo con la tecnologia, assicura che la radio sarà accessibile sui canali 740 del digitale terrestre e sul nuovo 252 («dove ci potrete anche vedere con la smartTv»), attraverso la radio digitale Dab, il sito radioliberta.net, e infine le nostre pagine Youtube e Facebook. Come a dire che tutto deve cambiare per restare tutto come prima. O forse no. Giannino della Frattina
Per tutta la vita Miglio studiò la lezione della geopolitica. Il volume, curato da Damiano Palano, consente di ripercorrere la genesi del pensiero del politologo. Luigi Iannone il 23 Novembre 2022 su Il Giornale.
Gli studi di Gianfranco Miglio sulle trasformazioni del sistema interstatale europeo e sulle istituzioni moderne, oltre che sul federalismo, restano non solo presenti nel dibattito accademico ma, col passare degli anni, rendono ancor più centrale uno studioso che, invece, deve gran parte della sua popolarità all'impegno politico.
È proprio la militanza a mostrarci un Miglio impegnato per una riforma neo-federalista e quasi pronto a sottodimensionare la riflessione internazionalistica che, al contrario, è stata corposa e continuativa. La sua formazione si modellò in un ambiente in cui non poteva essere in alcun modo marginale la politica internazionale e il ruolo dell'Europa nella trasformazione del sistema globale ma, tutto questo, si muoveva dentro una personale teoria per la quale i fatti interni vanno sempre ad incidere nei grandi sommovimenti storici perché esisterebbero precise «regolarità».
Ne fornisce prova il volume curato da Damiano Palano (La lezione del realismo, Rubbettino, pagg. 250, euro 26,60) che contiene molti scritti inediti e articoli che coprono un ampio arco di tempo (dal 1945 al 2000) e segnalano almeno tre elementi distintivi: la teoria della «regolarità della guerra», l'utilizzo di un «realismo migliano» che si discosta sotto diversi aspetti dal realismo fissato nel dibattito internazionalistico da autori come Morgenthau o Mearsheimer, e soprattutto l'idea della compenetrazione diretta tra fatti interni degli Stati e fatti esterni. Una complessa teoria del ciclo politico che non ebbe modo di sistematizzare in versione definitiva ma che, in questi scritti giornalistici, il lettore vedrà affiorare da ogni singolo rigo.
Miglio infatti inaugura gli scritti di politica internazionale già a fine guerra, nell'aprile del 1945. Il primo numero del Cisalpino, testata fondata da alcuni federalisti vicini alla Dc, ospita un articolo di questo ventisettenne, laureato in Giurisprudenza con una tesi sul diritto internazionale, nel quale oltre a manifestare aspettative nei confronti degli Alleati, si invitano gli italiani a evitare gli errori compiuti nel processo di unificazione nazionale e si propone una riforma federale dello Stato in modo da non cadere di nuovo «in un rabbioso nazionalismo».
In questa prima fase post-bellica è già in nuce tutto il suo percorso teorico. Ciò accade perché nel frattempo ha scoperto e approfondito la «categoria» del politico fissata da Carl Schmitt nel Begriff des Politischen e quindi inizia a prendere le mosse una prospettiva analitica che non si focalizza più sulle relazioni fra Stati e fra unità politiche autonome, ma sull'interno delle singole comunità. Le cause della fragilità internazionale, e perciò della guerra, andrebbero rintracciate non più nell'assenza di istituzioni condivise, ma nella conflittualità dentro i confini. Questa sua teoria generale ha come fondamento l'idea che ogni sintesi politica possa sostanziarsi solo con un nemico, convinto che il controllo della conflittualità interna dipenda dalla opportunità di proiettare le tensioni verso un nemico esterno: «I grandi imperi possono essere tenuti insieme soltanto scaricando le latenti conflittualità interne con l'aggressività esterna, e, quindi, offrendo alla parte più attiva e irrequieta della popolazione una causa per la quale battersi».
Anche per i nuovi equilibri creati dalla Guerra Fredda, Miglio aveva oramai abbandonato la ricerca sulla Humana Respublica, vale a dire il tentativo di costruire un ordine giuridico internazionale in grado di limitare il ricorso alla guerra. Ma, per taluni, sembrò anche accantonare gli interessi internazionalistici che sarebbero tornati in superficie solo quarant'anni dopo, con l'insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca e con quella nozione di «ritorno al privato» che da tendenza stava diventando prassi consolidata. Come dimostra ampiamente il volume curato da Palano quello fu un grave errore di valutazione da parte della critica.
Di questi articoli che coprono sessant'anni di vita di Miglio colpiscono però due elementi. In primo luogo, il quadro di fondo su cui cercò di indirizzare i suoi studi, l'invito a non rivolgere l'interesse ai fenomeni congiunturali della politica ma verso le grandi trasformazioni. E infatti, ancora negli anni '80, così scriveva: «La mia attenzione per i possibili cambiamenti di medio e lungo periodo deriva dal fatto che non dimentico mai di essere tenuto a pensare e a lavorare per i miei studenti». E poi una sorta di disillusione finale. Nell'ultima fase lo accompagnò la convinzione che quel «ritorno al privato», oltre allo Stato, stava conducendo anche la politica verso il suo definitivo il tramonto. Non ebbe il tempo di sviluppare questa teoria.
"Cattaneo non basta più" Il federalismo (e l'Italia) secondo il "prof" Miglio. Stefano B. Galli il 31 Dicembre 2021 su Il Giornale. Da tecnico, diede un significativo contributo alla "costruzione" della Lombardia attuale. Gianfranco Miglio (1918-2001) è stato uno dei più autorevoli scienziati della politica del secondo '900. Autorevole sia sul terreno della ricerca, della produzione scientifica e dell'attività accademica, sia sul versante della riflessione teorica e dell'elaborazione dottrinaria. Nei fatti, il professore lariano non è stato solo un acuto studioso. È stato anche un originale pensatore politico, che dall'immediato secondo Dopoguerra ben prima del Referendum del '46 e dell'elezione dell'Assemblea Costituente ha abbracciato l'opzione federale. E l'ha sempre sostenuta con energia e solide argomentazioni.
All'indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale, partecipò attivamente al movimento del Cisalpino, che di fronte alla prospettiva della rinascita dello Stato, una volta archiviati la monarchia dei Savoia e l'autoritarismo fascista in favore della repubblica e della democrazia si batteva per un ordine politico federale in chiave nazionale, fondato sull'articolazione macroregionale e ispirato al modello cantonale svizzero. E metteva sul banco degli accusati l'unità politica e istituzionale del 1861, censurando il processo di State building, cioè il progetto di costruzione dello Stato realizzato dai Savoia. L'idea di una repubblica federale che i cisalpini auspicavano li portava a rivedere le letture convenzionali, riabilitando i filoni ideologici e le progettualità politiche dei «vinti» del Risorgimento. A cominciare da Carlo Cattaneo.
Miglio non ha tuttavia mai abbracciato sino in fondo questa interpretazione della vicenda italiana dall'unità in poi. La sua lettura era più raffinata. Non ha mai scritto molto dei federalisti risorgimentali. Anzitutto perché nessuno di loro era un vero pensatore politico. Cattaneo compreso. Da rigoroso storico delle dottrine politiche, Miglio rubricava la pur ampia polifonia di voci risorgimentali al massimo come un confronto fra idee politiche, non certo ascrivibili al rango di «dottrine». Alla metà dell'800, il dibattito teorico e dottrinario secondo Miglio non attraversava una fase di «particolare vivacità», poiché «nessun grande ingegno, nessuna autorevole scuola tenevano il campo: emergevano solo modeste personalità, più politiche che scientifiche».
Ma vi è di più. Miglio era anche uno scienziato della politica e cercava di analizzare la dinamica dei fenomeni nel loro divenire. Per tale ragione, in una seduta della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali guidata da Massimo D'Alema, disse che «non servono più Carlo Cattaneo e Vincenzo Gioberti». Il nuovo federalismo sarà fatto di strutture politiche «a tempo determinato». E ha una fisionomia opposta rispetto a quello tradizionale.
«Mentre, ancora nel secolo scorso, il problema dominante scriveva Miglio era come fare di ogni pluralità di paesi minori un più o meno grande Stato nazionale, oggi la questione cruciale è come restituire o assicurare, alle convivenze particolari, il diritto a conservare e sviluppare la loro identità nel quadro di sistemi economico-politici non dominati dai principi dell'unità e della omogeneità». Il foedus, accordo politico fondativo della federazione, si era ormai trasformato in un contratto a tempo tra comunità autonome impegnate a raggiungere obiettivi comuni e poi destinate a rescindere il patto.
Il «nuovo» federalismo teorizzato da Miglio si collocava oltre la fine dello Stato. Anche il suo modello di Costituzione federale presupponeva l'eclissi della statualità tradizionale. Grande invenzione della civiltà europea occidentale, lo Stato inteso quale ordine politico prodotto dalla modernità aveva imboccato da molti decenni una deriva di irreversibile declino, connessa alla crisi dello ius publicum europaeum, espressione dell'Europa statalista. Era destinato a morire, secondo una visione vitalistica delle istituzioni politiche, che non sono eterne.
Dentro la vicenda storica dello Stato moderno bisogna collocare la dinamica di quello italiano, che nacque su fragili basi a cominciare da quelle giuridiche e amministrative. L'accentramento ebbe degli effetti negativi sul sistema istituzionale, che subì l'applicazione estensiva degli istituti giuridici della «piccola patria» subalpina al resto della Penisola, imponendo «a un gigante il vestito di un nano».
I temi del federalismo, del regionalismo e del decentramento politico e amministrativo animarono il dibattito all'Assemblea costituente. Ma il disegno di federalizzazione non raccolse adesioni. E fu sostituito dalla regionalizzazione. Progettato da Cesare Correnti e da Pietro Maestri nei dintorni dell'unità, il regionalismo si fondava su basi burocratiche e statistiche, non già su studi seri, finalizzati a valorizzare la storia, la cultura e le tradizioni civiche delle singole comunità territoriali. La regionalizzazione venne adottata dai partiti alla Costituente come una sorta di maschera del centralismo, in funzione anti-federalista.
L'autonomia e il decentramento non posero affatto lo Stato repubblicano in prossimità del federalismo, come sosteneva uno dei padri della Costituzione, Piero Calamandrei. Il regionalismo fu anzi concepito allo scopo di arginare eventuali prospettive federaliste. Nei fatti, l'articolo 5 sul quale si è costruita la falsa idea della Repubblica delle autonomie e dello Stato regionalista formalizza un'idea marmorea di sovranità. Tutto il potere è depositato al centro. E qualsiasi forma di decentramento si configura ancora oggi come una graziosa concessione a favore della periferia. Questa dinamica è opposta rispetto ai veri processi di federalizzazione, che muovono in direzione ostinata e contraria, dalla periferia verso il centro del potere.
La nascita delle Regioni nel 1970 non rispose a dinamiche autonomistiche, bensì a logiche politiche e di potere, legate al sistema dei partiti. In mezzo secolo di vita, il regionalismo ha funzionato male perché l'attribuzione di nuove competenze al sistema regionale è avvenuto su un impianto centralista qual è appunto quello della Costituzione repubblicana. Con la nascita delle Regioni e l'attribuzione di funzioni legislative e amministrative sulla carta sempre più ampie, non si è infatti regionalizzato lo Stato centrale.
Non solo. Nella sua qualità di tecnico delle istituzioni, il professore diede un significativo contributo alla «costruzione» della Lombardia attuale. Se c'è un parallelismo fra Miglio e Cattaneo è quello intorno all'idea di Lombardia. Quattro anni prima delle Cinque giornate, Carlo Cattaneo diede alle stampe le sue Notizie naturali e civili su la Lombardia, grande affresco di quella regione «naturalmente e civilmente dalle altre distinta». Una regione che si adagia su una pianura fertile e densamente popolata, ricca di acque e con un clima mite sino alla fascia pedemontana. A questa realtà «mancava solo un popolo, che compiendo il voto della natura, ordinasse gli sparsi elementi a un perseverante pensiero».
Ma l'evoluzione della prosperità materiale e morale vale a dire l'incivilimento di una comunità territoriale non piove mai dal cielo, non è un dono della natura, per quanto possa essere generosa. È piuttosto il risultato dell'impegno e della dedizione al lavoro, del senso del rischio e del primato dell'intelligenza produttiva che alberga nella mentalità e risiede nello spirito e nelle tradizioni civiche dei lombardi.
Nelle ultime righe delle Notizie, Cattaneo elenca i grandi successi del genio lombardo nelle lettere e nelle arti, nella filosofia e nella matematica, nel campo dell'idraulica e dell'agricoltura. Afferma che «noi» lombardi, «senza dirci migliori», possiamo reggere il paragone con qualsiasi altro popolo. Aspettiamo tuttavia che «un'altra nazione ci mostri, se può, in pari spazio di terra le vestigia di maggiori e più perseveranti fatiche». E conclude: è una «scortese e sleale asserzione» quella che attribuisce tutto «al favore della natura e all'amenità del cielo». Nessun popolo infatti «svolse con tanta perseveranza d'arte i doni che gli confidò la cortese natura». È il manifesto ideologico dello spirito lombardo, quello di Cattaneo. Una celebrazione quasi apologetica, che Miglio auspicava venisse studiata da tutti gli alunni delle scuole primarie lombarde. Aveva ragione. Stefano B. Galli
Estratto dell'articolo di Emanuele Lauria per repubblica.it il 25 novembre 2022.
Domenica i corsisti della Lega in Emilia riceveranno gli attestati di frequenza. Un paio di settimane dopo toccherà ai colleghi nelle Marche. Poi calerà definitivamente il sipario sul progetto dell’Accademia del Carroccio, una sorta di università della politica istituita nel 2018 con l’obiettivo di formare nuova classe dirigente.
“Formare per governare”, era lo slogan che ancora campeggia sull’ambiziosa pagina in cui c’è la foto sorridente di Matteo Salvini e del responsabile dell’Accademia, il senatore Manuel Vescovi. Che oggi è molto meno sorridente. E che in silenzio ingoia il rospo di uno stop all’attività comunicata senza dovizia di particolari dal segretario. Ma tant’è, il leader ha deciso. […]
La scelta di Salvini è quella di mantenere in vita una sola struttura formativa: quella del fedelissimo Armando Siri, l’ideologo della Flat tax, che gestisce la sua scuola attraverso una srl, la Formapolis. È a questa società, posseduta a maggioranza da un amico e stretto collaboratore di Siri, Marco Perini, che finiscono i proventi delle iscrizioni, circa 600 euro per ogni corsista che deve accollarsi anche le spese per le trasferte a Milano, sede unica delle lezioni.
La Formapolis ha sostanzialmente acquisito l’attività dell’associazione Spazio Pin, fondata proprio dall’ex sottosegretario, che aveva come scopo sociale quello “di ampliare gli orizzonti didattici di educatori, insegnanti ed operatori sociali in campo olistico affinché sappiano trasmettere una nuova visione dell'Uomo e del suo rapporto con l'Universo e tutte le espressioni della natura”.
Era, l’associazione Spazio Pin, una delle espressioni della multiforme personalità di Siri, teorico del pensiero laterale: ma è finita all’attenzione di magistrati e finanzieri che indagano sul senatore ligure per finanziamento illecito ai partiti e dichiarazione infedele dei redditi.
Quest’ultimo il capitolo che riguarda l’associazione che negli anni scorsi, oltre ai proventi delle iscrizioni degli studenti leghisti, ha incassato donazioni da rilevanti gruppi imprenditoriali.
A partire da Inalca, sigla dominante della filiera della carne del gruppo Cremonini guidato da Luigi Scordamaglia, presidente di Assocarni, che ha versato 18mila euro. Un gruppo che, secondo il Sole 24 ore, produce il 9 per cento del suo fatturato in Russia. Versamenti per 15 mila euro all’associazione di Siri sono arrivati anche dal gruppo Psc, specializzato nell'impiantistica, guidato dalla famiglia Pesce e partecipata da Fincantieri e Simest.
I dubbi possono riguardare la disinvoltura imprenditoriale di Siri (che ha a suo carico il patteggiamento di una condanna per bancarotta fraudolenta) ma non la capacità di relazioni al servizio del partito. […]
E riemerge in questi giorni, la figura di Siri, a distanza di tre anni dall’inchiesta per corruzione che gli costò il posto di sottosegretario ai Trasporti: a lui, responsabile dei dipartimenti leghisti, è stata affidata l’organizzazione della convention che domani aprirà il ciclo di eventi in tutte le regioni che dovrebbe riavvicinare il Carroccio (o il succedaneo “Prima l’Italia”) al territorio. Ma il cuore di Siri è soprattutto per la sua scuola, su cui rimane il simbolo della Lega. […]
Carmelo Caruso per “Il Foglio” il 25 novembre 2022.
Continua a parlare con Matteo Salvini e ha perfino rinnovato la tessera. Gianluca Savoini, protagonista dell’Affaire Metropol, l’inchiesta sui presunti fondi russi, lo conferma al Foglio. A Varese, al funerale di Bobo Maroni, l’uomo che per molti ha sporcato l’immagine della Lega, fa ancora parte della Lega. Savoini che rapporti ha con Salvini: “Buoni come sempre”.
Vi parlate ancora?
“Ci parliamo naturalmente”.
Perché è venuto in questa piazza, in questo luogo?
“Sono venuto a ricordare un grande segretario come Bobo Maroni”.
Salvini è ancora un grande segretario?
“Lo è ed il mio segretario”.
Dicono che lui non voglia più saperne di lei. È vero?
“Questo è quello che si vuole fare credere”.
La verità quale è?
“La verità è che io sono un tesserato della Lega”.
Quale Lega, la vecchia lega, la Lega dei nostalgici?
“No”.
Allora a quale?
“Alla lega per Salvini premier”.
Il comitato nord?
“Non ho niente a che spartire con loro”.
Come finirà l’inchiesta che ha fatto scrivere pagine di giornali?
“Finirà presto e bene. Io i giornali non li leggo”.
Ripeto, perché si sta facendo vedere?
“Perché faccio parte della Lega”.
Irene Pivetti: «Non ho potuto proteggere i miei figli. Oggi vivo con 1000 euro al mese, per un anno ho messo gli stessi jeans». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 3 Dicembre 2022.
È stata presidente della Camera, conduttrice tv, ballerina. Oggi è sotto inchiesta per due vicende legate a commerci con la Cina e lavora in una mensa sociale: «Vivo con 1000 euro, per un anno ho messo lo stesso maglione e lo stesso paio di jeans. Adesso, però, ho imparato a prendere le onde....»
La interrompe prima il cuoco, che le chiede se deve preparare la pizza, poi, una cliente, che vuole prenotare un tavolo per un compleanno. Il telefono, poi, squilla di continuo. «Pronto? Smack ristorante». Irene Pivetti smista con scioltezza il traffico della coloratissima mensa sociale di Monza che gestisce da ottobre. Non sembra la stessa persona che 28 anni fa, giovane e glaciale, ingessata in accollati tailleur, suonava la campanella della Camera dei deputati: «Deputato Bossi, il suo tempo è finito».
La donna che a 31 anni fu la più giovane terza carica dello Stato è alla sua ennesima trasformazione. Prima, c’era stata la stagione da conduttrice tv, di Bisturi! e Tempi Moderni, delle foto con la tutina in latex da Catwoman. Più di recente, due inchieste in cui è indagata - una sulle importazioni di mascherine dalla Cina, un’altra sull’export di Ferrari - ce l’hanno fatta conoscere come imprenditrice dai presunti affari spericolati e da impensati fatturati milionari.
Irene Pivetti quando era presidente della Camera (1994-1996)
Già quando esordì in tv, era descritta come la donna che visse due volte. Adesso, a quante vite siamo?
«Ora, è certo che sono una donna veramente difficile da uccidere. Mi sono detta: non morirò per via di queste inchieste. Ci sono momenti in cui pensi qualsiasi cosa: la tua vita è a brandelli, la famiglia a pezzi, non hai più soldi e la tentazione di lasciarti andare c’è. Per un anno, ho messo sempre lo stesso jeans e lo stesso maglione, non avevo fisicamente voglia di esistere. Ma ho pensato: se muoio, do ragione a chi mi accusa e io non sono quella di cui scrivono loro. Leggere 45mila pagine che argomentano perché sei un truffatore è orrendo, se non lo sei».
Com’è finita a lavorare in una mensa sociale?
«È un posto che esiste dagli Anni 70, prima come dormitorio della Caritas, poi del Comune. Il ristorante sottostante nasce come mensa e, col tempo, diventa il centro di aggregazione del quartiere, poi chiude. Nel 2020, io avevo dovuto lasciare i miei uffici e sono stata accolta dalla Cooperativa Mac, che si occupa del reinserimento di ex detenuti, disoccupati e soggetti con fragilità. Ho cominciato a collaborare con loro. Quando il Comune ci ha chiesto di riaprire e gestire l’ex mensa, abbiamo accettato, con l’obiettivo di farla tornare un centro di animazione sociale. Questo è un posto dove si mangia con poco, ma anche dove gli anziani vengono a giocare a carte, i ragazzi a fare il doposcuola. Di pomeriggio, riceviamo chi cerca lavoro o aiuto con pratiche sanitarie, fiscali...».
Dove abita adesso?
«Sopra, nel dormitorio. Ho una camera e un bagno. Apro lo Smack alle 6,30, chiudo alle 22,30: trasferirmi qui era la scelta più ragionevole».
Una casa ce l’ha?
«Ho preso una microcasa in affitto a Milano, dove sono stata 15 giorni senza luce, perché per allacciartela, guardano la bancalità e, ora, la mia reputazione è considerata negativa. Per avere la corrente, ho dovuto trovare una persona che garantisse per me».
Come si vive con mille euro al mese?
«Spartanamente. Ma non mi lamento. Io questa storia non l’avrei neanche raccontata, se n’è accorto il giornale locale. Questa vicenda giudiziaria è capitata a me e la si racconta, ma tantissimi restano coin volti in inchieste che finiscono magari in nulla. Intanto, però, ti ritrovi con le aziende polverizzate, la reputazione distrutta».
I suoi due figli come l’hanno presa?
«Hanno 22 e 24 anni, la grande è sposata, il ragazzo studia all’estero. Una vicenda simile stravolge la famiglia e mi sento in colpa verso di loro perché non ho potuto proteggerli».
Qual è stato il momento più duro?
«L’inizio. All’inizio, non puoi crederci, pensi che sia un errore, pensi: ora si accorgono che hanno sbagliato. E doloroso è sentire un mare di odio di cui non sai farti una ragione. Ai miei figli, ho detto: non dobbiamo cedere alla rabbia né covare rancore, non dobbiamo lasciarci cambiare».
A settembre, la Cassazione ha confermato il sequestro di 3,5 milioni di euro per l’inchiesta sulla vendita delle Ferrari. L’udienza preliminare ci sarà il 25 gennaio. Se dovessero archiviare, lascerà la cooperativa? «Spero che non mi caccino. Credo nel terzo settore: non fare utili ma l’utile sociale è quello che serve per affrontare la crisi che attraversiamo. Ma l’archiviazione non ci sarà: si sono mosse troppo Procure. Però, sono serena: la fede mi dà pace. Io sento di aver ricevuto una grazia da San Giovanni Paolo II, lo prego sempre, ma non gli chiedo che questa storia finisca. Gli chiedo: fammela vivere in pace. Intanto, la mia vita continua. Ho fatto un ragionamento: la tegola mi ha colpito a 58 anni, un processo dura in media un decennio, è pensabile ricominciare a vivere a 70 anni? No».
Perché pensa di aver ricevuto una grazia da Papa Wojtyla?
«La terza volta che lo incontrai, dopo la messa, mi ero già tolta il velo, ma mi fece chiamare e mi abbracciò: una cosa completamente fuori dal protocollo. Ancora oggi, mi dico: perché non gli ho chiesto perché?».
La vera Irene Pivetti è la cattolicissima presidente della Camera, la scatenata donna di spettacolo, la donna d’affari o questa che ho davanti?
«In profondità, penso di essere rimasta fedele a me stessa, a parte la naturale evoluzione che si ha crescendo. Crescere ti evita di stare sulla difensiva. Certo, se rappresenti un’istituzione, hai dei vincoli da rispettare, se fai la conduttrice, usi altri codici. Io sono come una cantante con una grande estensione vocale».
Agli esordi a Montecitorio, appariva così severa che Indro Montanelli scrisse: «Di tutti gli uomini nuovi, il più nuovo e il più uomo è Irene Pivetti».
«Ho elementi marziali nel carattere, rivendico che la mia femminilità sia fatta così, anche se ci ho messo un po’ per capirmi».
Più si copriva, però, più seduceva. Vittorio Sgarbi sosteneva che si fossero invaghiti di lei Paolo Flores D’Arcais, direttore di MicroMega , ed Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica .
«Parliamo di uomini d’altri tempi che amano esprimersi con garbo ed eleganza, ma che mi hanno manifestato, al massimo, stima».
L’attenzione era morbosa. Una compagna di scuola raccontò che, da ragazzina, prendeva il tè nuda in veranda.
«L’aggettivo “morboso” è giusto: sui giornali, pullulavano finti amici di gioventù, finti cugini».
In un’intervista, Maria De Filippi disse d’essere gelosa del suo rapporto con il marito Maurizio Costanzo.
«L’avrà detto solo perché narrativamente funzionava. È stato Costanzo a indurmi a fare tv. Da lui, ho imparato l’alfabeto della televisione, la sintesi e la chiarezza estrema».
Come nasce la foto da Catwoman?
«Era una campagna di Radio Montecarlo di cui ero speaker. Ci vestimmo tutti da Super eroi. Mi chiesero: vuoi fare Catwoman? Risposi: certo».
Perché dal 2008 non ha più un programma tv suo?
«La tv finisce. Ero nell’agenzia di Lele Mora, che poi fu indagato e una cosa trascinò l’altra. Dopo, ho fatto l’opinionista. Poi, sei indagato e, ovviamente, sparisci da tutte le agende».
A un certo punto, finì in copertina, in spiaggia, abbracciata al tronista Costantino Vitagliano.
«Fu un’idea di mio marito. Conducevo Bisturi! e il linguaggio dell’intrattenimento è fatto anche di foto. Ma non ho mai travalicato i limiti della volgarità».
A proposito del suo ex marito: lei stupì anche sposando un ragazzo più giovane di dieci anni. Che ne è di Alberto Brambilla?
«Ha la sua vita professionale e il diritto di essere tenuto fuori dalla comunicazione che mi riguarda».
Quando divorziò, disse che non era stata una sua scelta e che non avrebbe avuto un altro uomo. Il tempo l’ha smentita?
«Non sento la mancanza di un amore. La vita fa la sua strada e noi possiamo solo decidere come prendere le onde. Io ho imparato a nuotare in mare aperto».
Quando ha smesso di tingere i capelli?
«Da almeno 15 anni. Li ho tinti fino a Ballando con le stelle . Se uno si sente a suo agio con la tinta, la faccia. Ma certi cliché estetici sono una specie di burka occidentale».
In principio, diceva di sé, «sono prima cattolica, poi leghista, poi donna». Oggi, cos’è e in che ordine?
«Toglierei leghista. Sono prima cattolica, poi madre e poi donna».
Espulsa dalla Lega perché contraria alla secessione, fondò un suo partito. Dal 2001, non è più in Parlamento. Quanto le manca la politica?
«Ho avuto l’onore di servire lo Stato e ho capito che chiunque di noi serve lo Stato. Infatti, rispetto chi mi accusa perché rappresenta lo Stato. La politica non mi manca, la lasciai per fare l’imprenditrice, ma mi è rimasta la lettura politica della realtà: per me, più del profitto, è importante incidere sulla società. Ora, trovo che ci sia della politica, nel senso di spirito di servizio, anche nel lavare le tazze del bar».
Irene Pivetti, evasione e auto-riciclaggio: confermato il sequestro di 3,5 milioni di euro. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022.
Nel mirino erano finite diverse operazioni commerciali, in particolare la compravendita di tre Ferrari Gran Turismo, che sarebbero servite per riciclare proventi frutto di evasione fiscale
L’ex presidente della Camera dei deputati Irene Pivetti vede confermare dalla Corte di Cassazione il sequestro di quasi 3,5 milioni di euro nell’inchiesta della procura della Repubblica di Milano in cui è accusata di evasione fiscale e autoriciclaggio nella compravendita di tre autovetture da corsa Ferrari Gran Turismo che avrebbe avuto lo scopo di riciclare il denaro frutto di una evasione fiscale.
La Cassazione ha rigettato l’istanza con la quale i difensori della Pivetti avevano chiesto di annullare il sequestro ottenuto dal sostituto procuratore Giovanni Tarzia a seguito delle lunghe e complesse indagini fatte dalla Guardia di Finanza di Milano. A febbraio dal Tribunale del riesame di Milano aveva accolto il ricorso del pm che si era visto bocciare dal gip il sequestro parte di circa 3,5 milioni ai carico dell’ex deputata e di quasi mezzo milione ad un suo consulente, Pier Domenico Peirone, il quale ha già patteggiato 1 anno e 10 mesi. Intanto sempre il pm Tarzia ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex più giovane presidente di Montecitorio e di altre 5 persone al gup Fabrizio Filice che la esaminerà il caso il 6 ottobre.
La vicenda è legata alla mediazione nella vendita per 10 milioni di euro al magnate cinese Zhou Xijiandi del marchio della scuderia di auto da corsa Gt Leo e di tre Ferrari da competizione, che però, secondo l’accusa, sarebbero andate in Cina solo sulla carta perché sono state vendute in Europa. Nell’affare il gruppo Only Italia che fa capo alla Pivetti avrebbe realizzato una plusvalenza di 8,8 milioni che non sarebbero stati dichiarati e di cui 7,9 sarebbero arrivati alla stessa Pivetti alla quale è stato recapitato anche un avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate per quasi 3,5 milioni di evasione.
Secondo l’accusa, i 10 milioni sarebbero partiti dal gruppo acquirente di Honk Kong «More & more investment» di Zhou Xijian per giungere in Italia attraverso una società della galassia Only Italia, passando da Cina e Polonia. Una «esterovestizione» di società italiane che sarebbe, cioè, state fatte apparire come se operassero all’estero ma in realtà lavorano in Italia dove non avrebbero pagato le tasse.
Irene Pivetti, mille euro al mese e la mensa sociale: "Non mi lamento, ma non sono una criminale". Redazione Spettacoli su La Repubblica il 10 Novembre 2022.
La ex presidente della Camera e ex imprenditrice indagata per evasione fiscale racconta la sua seconda vita. Dalla politica alla tv, ora lavora in un centro sociale e abita in un dormitorio a Monza
E' stata presidente della Camera dei deputati e imprenditrice, autrice televisiva e protagonista di show popolari come Ballando con le stelle, oggi vive con mille euro al mese, il compenso che prende dalla mensa sociale per cui lavora, servendo gli avventori. "Non mi lamento, non è questo il problema, c'è gente che non ha neppure quelli. La vita che sto facendo è molto gratificante". Irene Pivetti, 59 anni, racconta la sua seconda vita in un'intervista sul prossimo numero di Gente, in edicola domani, venerdì 11 novembre.
Irene Pivetti, chiesto il processo per l'ex presidente della Camera accusata di evasione fiscale e autoriciclaggio
11 Maggio 2022
Una lunga carriera politica, l'elezione a presidente della Camera a soli 31 anni, nel 1994, la più giovane presidente della Camera della storia italiana. Poi la carriera televisiva, dopo l'abbandono dell'attività politica: autrice e conduttrice, su LA7, dei programmi Fa' la cosa giusta e La giuria (2002-2003), ha condotto anche alcune trasmissioni sulle reti Mediaset (Bisturi! Nessuno è perfetto e Giallo 1), poi nel 2005 ha collaborato a Buona domenica, il programma di Maurizio Costanzo ed è tornata a condurre con il talk di Retequattro Liberi tutti. Il quinto posto come concorrente di Ballando con le stelle lo conquista invece nel 2007, passa a Odeon Tv da conduttrice e autrice del programma Iride - il colore dei fatti, tra le altre cose dal 2011 al 2013 è stata opinionista fissa a Domenica in... Così è la vita, condotto da Lorella Cuccarini.
Ricorda, la ex parlamentare e ex imprenditrice, l'indagine per evasione fiscale nella quale è coinvolta e che esattamente un anno fa, il 18 novembre del 2021, ha portato al sequestro da parte della Guardia di finanza di 3,5 milioni di euro nell'ambito di un'inchiesta su una serie di operazioni commerciali che, secondo l'accusa, sarebbero servite per riciclare proventi di un'evasione fiscale.
"Sono una indagata - dice Irene PIvetti - non sono neppure rinviata a giudizio. Però queste cose innescano dei processi mediatici devastanti, la banca ti impedisce di fare qualsiasi cosa. Diventa un inferno. All'improvviso frana tutto ciò che hai fatto nella tua vita. E di colpo sei un criminale".
Pivetti conduttrice del talk 'Liberi tutti' Dal mese scorso si occupa del coordinamento dello Smack, una mensa sociale del centro sociale di Via Tazzoli, a Monza. "E abito nel dormitorio adiacente - spiega a Gente - è più comodo perché non ho l'auto. E poi non potrei permettermela". "Mi hanno azzerato la società, mi hanno distrutto tutto - continua - e io avevo messo tutti i miei beni lì. Hanno avuto la buona idea di privarmi dei mezzi di sussistenza, ma fa niente". "Mi mantengo con i mille euro mensili che mi dà la cooperativa sociale per il lavoro che svolgo alla mensa. Ma non mi lamento. Non è questo il problema. C'è gente che non ha neppure quelli. La vita che sto facendo è molto gratificante". E a proposito dell'indagine spiega: "Aspetto i tempi della giustizia. Mi hanno consigliato di ammettere qualcosa. Ma io non ammetto niente, perché non ho fatto niente. Ho tutto il tempo della mia vita, e anche dopo, perché si chiarisca come sono andate le cose".
Irene Pivetti, la nuova vita alla mensa no profit di Monza: «Ogni giorno servo 100 pasti. I processi? Ne uscirò». Rosella Redaelli su Il Corriere della Sera il 3 Novembre 2022
Fu la più giovane Presidente della Camera. Da un anno e mezzo lavora con una cooperativa che si occupa di fragilità sociali: «Ho preso una stanza qui, al mattino sono la prima ad arrivare»
A guardarla girare tra i tavoli, controllare il menù, risolvere il problema di un registratore di cassa che non ne vuole sapere di funzionare, c’è da chiedersi se fosse più semplice gestire una seduta alla Camera o un ristorante sociale da cento posti. La nuova vita di Irene Pivetti, la più giovane Presidente della Camera tra il 1994 e il 1996, deputata della Lega per tre legislature, quindi conduttrice televisiva e imprenditrice, ricomincia da Monza, dal ristorante «Smack» del Centro Sociale di via Tazzoli, cuore del quartiere di San Fruttuoso.
«Da un anno e mezzo sono responsabile delle startup per la cooperativa sociale Mac di Milano — racconta Pivetti, avvolta in uno scialle che ha preso il posto dei suoi leggendari foulard —. Ci occupiamo di offrire opportunità di lavoro per persone con fragilità sociali, immigrati, uomini e donne che non avrebbero molte chance di inserimento nel mercato del lavoro tradizionale. Nel ristorante diamo lavoro a dieci persone, ma a regime contiamo di assumere ancora. Il nostro obiettivo è la sostenibilità».
L’arrivo di Pivetti a Monza è stato fortuito e legato alla collaborazione tra Mac e la cooperativa Per Monza 2000 che gestisce il centro sociale comunale che comprende un pensionato da 92 camere singole per persone non abbienti, situazioni in carico ai servizi sociali, ma anche lavoratori e studenti che hanno bisogno di un alloggio temporaneo in città. «Io stessa — racconta l’ex politica — ho preso una camera qui perché il locale apre alle 6.30 e chiude tardi. Sono la prima ad arrivare e l’ultima a spegnere le luci, quindi mi è sembrato più pratico restare qui, piuttosto che fare la spola da Milano». Anche il nome «Smack» è una sua idea: «Alla cooperativa piaceva di essere presente nel nome, stavo rinunciando quando ho avuto questa idea a cui si accompagna una campagna di comunicazione sulla falsariga dei fumetti».
Alle 12 ci sono i primi clienti che si mettono in fila con il proprio vassoio davanti ad Adolfo che è il responsabile di sala. In menù ci sono risotto alla monzese o tortelli al pomodoro, pollo e verdure, scaloppine e melanzane. Un pasto completo costa 8,50 euro per gli interni del pensionato e un euro in più per gli esterni, bibite analcoliche incluse. Una signora distinta entra per la prima volta in questa sala arredata con tavoli e sedie recuperati ed è evidente la sua sorpresa nel trovare ad accoglierla l’ex Presidente della Camera.
«C’è curiosità intorno alla mia presenza — spiega Pivetti —. Qualcuno ama parlare di politica, non mi sottraggo, anche se non fa più parte della mia vita. Mi piacerebbe che questo luogo diventasse una sorta di tinello di casa, dove trovare cucina casalinga a prezzi calmierati, ma anche un luogo di aggregazione per il quartiere. Mi ha fatto piacere vedere intere famiglie nel fine settimana, non vedo l’ora di organizzare spaghettate a mezzanotte e ho fatto portare un piccolo palco per gli eventi».
La brigata di cucina è multietnica: Denis e Edoardo dal Salvador, Julio dal Perù, Erdis e Diamantino dall’Albania. Poi Tiziana, Ketty e Viola che si occupano del bar, ma anche del nuovo centro servizi che nel pomeriggio apre per offrire un supporto nelle pratiche burocratiche. In cucina Irene Pivetti ha poca voce in capitolo: «Ho fatto crescere i miei figli con i surgelati».
La sua attività imprenditoriale le ha portato più di un guaio con la giustizia e c’è un processo in corso per evasione fiscale e riciclaggio: «È molto doloroso finire nel tritacarne, ma ho capito che la giustizia ha i suoi tempi. È una cosa che è successa nella mia vita e a questo punto preferisco uscirne con le ossa aggiustate bene, piuttosto che in qualche modo».
Secondo l’ Intelligence Usa, Mosca ha finanziato partiti in oltre 20 Paesi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Settembre 2022.
Secondo un rapporto dell'intelligence dal 2014 a oggi la Russia ha versato oltre 300 milioni di dollari a partiti e candidati per accrescere la propria influenza. Gli Stati Uniti forniranno ai singoli governi le informazioni “classificate” sui politici coinvolti
A dodici giorni dalle elezioni in Italia, Washington accusa la Russia di aver distribuito più di 300 milioni di dollari, fin dal 2014, per influenzare politici e rappresentanti di governo in più di venti Paesi, tra cui molti in Europa. L’informazione è contenuta in una nota interna inviata lunedì dal Dipartimento di Stato USA alle ambasciate e consolati americani in Europa, Asia del Sud e nord Africa. Palazzo Chigi è stato informato dagli americani, sollecitati dall’intelligence italiana, che il rapporto esiste.
Il messaggio era classificato come “sensitive”, cioè con informazioni importanti, ma non “classified“, dunque non da tenere strettamente riservato, come riferisce il Washington Post. E quindi in poche ore la notizia ha fatto il giro del mondo . Nel cablogramma, firmato dal segretario di Stato Antony Blinken, non si fanno nomi di politici e Paesi individuati dagli 007 americani ma si dice che Washington informerà direttamente le nazioni coinvolte. I primi Paesi coinvolti, i cui nomi circolano negli Stati Uniti, sono quelli della Bosnia e dell’ Ecuador.
In molti si chiedono se anche l’Italia è coinvolta e quindi citata nel cablo di Blinken. Secondo alcuni media americani questa notizia conferma la linea del presidente Joe Biden, deciso a togliere il velo della segretezza alle manovre di Mosca per influenzare politicamente gli altri Paesi, ma secondo altri può essere un tentativo di inserirsi nelle vicende elettorali di Paesi dell’Alleanza Atlantica.
Che la notizia rivelata dal Washington Post sia una vera e propria bomba mediatica-politica è ormai chiaro a tutti i livelli politici e istituzionali. La caccia ai nomi sarebbe già di per sé capace di stravolgere equilibri e bruciare carriere politiche. Un potenziale scandalo di questa portata che promette di diventare pubblico a undici giorni dalle elezioni politiche rende il tutto letteralmente esplosivo. E lo sa molto bene anche Mario Draghi, che viene investito della gestione di questo caso. E ne sono altrettanto consapevoli
Una volta uscita la notizia l’Italia i vertici dei Servizi italiani, hanno passato il pomeriggio di ieri avendo continui contatti con gli interlocutori americani depositari della linea e delle informazioni dell’amministrazione Usa, chiedendo conto tramite i canali ufficiali di intelligence della veridicità della notizia e dei dettagli. In un primo momento, i rappresentanti dell’intelligence americana presenti in Italia hanno risposto di non essere a conoscenza di nulla e di non aver ricevuto comunicazioni ufficiali da Washington.
La logica istituzionale sarebbe quella di investire il Copasir, vale a dire la commissione parlamentare di vigilanza sui Servizi segreti italiani. L’intelligence può infatti comunicare in quella sede al Parlamento i dettagli eventualmente ricevuti dal Paese alleato. Non è ancora una scelta già assunta, perché come rilevano le stesse fonti esiste “un margine di discrezionalità” che è prerogativa di Palazzo Chigi.
In alcuni ambienti di Washington la posizione della Lega di Matteo Salvini viene vista con preoccupazione per le sue posizioni sovraniste e la vicinanza al premier ungherese di destra Viktor Orbàn, tra i pochi interlocutori del presidente russo Vladimir Putin. Salvini infatti non aveva convinto neanche l’amministrazione guidata da Donald Trump durante la sua visita ufficiale da rappresentante del governo italiano.
E’ possibile che, nelle prossime ore, vengano fuori i nomi dei Paesi finanziati e coinvolti dalla pressione di Mosca ma anche i nomi dei politici a “libro paga” del Cremlino. Funzionari dell’amministrazione americana non hanno fornito, al momento, altri dettagli, limitandosi a ricordare l’influenza russa nelle recenti elezioni avvenute in Albania, Bosnia e Montenegro, che una volta facevano parte del blocco sovietico. Secondo il Washington Post, un membro dell’amministrazione Usa ha evidenziato che il presidente russo Vladimir Putin ha speso ingenti somme “nel tentativo di manipolare le democrazie dall’interno“.
Il dipartimento di Stato sostiene che il flusso di denaro uscito da Mosca sia entrato in Europa attraverso ‘think tank‘ politici e in Asia, Medio Oriente, Africa e Centro America attraverso aziende statali.
La cifra di 300 milioni elargita dalla Russia sarebbe peraltro calcolata per difetto. I soldi sarebbero molti di più. Nel messaggio interno del dipartimento non ci sono, invece, riferimenti alla possibilità che Mosca possa di nuovo intromettersi nelle elezioni americane. Il quotidiano Washington Post ha chiesto, un commento all’ambasciata russa a Washington, senza ottenerlo. Sotto i riflettori, in particolare, le attività russe in Ucraina: la fonte consultata non ha chiarito quanto denaro Mosca abbia speso nel paese guidato dal presidente Volodymyr Zelenskyy ed invaso lo scorso febbraio dalle forze armate russe.
Un alto funzionario Usa ha infatti spiegato che “la decisione di gettare luce sulle azioni segrete russe serve a mettere in allerta i partiti che se accettano segretamente soldi dai russi, possiamo svelare” la loro identità. Ed ha fornito l’esempio di un Paese dell’Asia (senza nominarlo) in cui un candidato alla presidenza ha ricevuto soldi dall’ambasciatore russo.
Non è la prima volta che i Servizi segreti USA denunciano una campagna di influenza da parte russa alimentata da soldi recapitati essenzialmente a partiti nazionalisti e antieuropei che rappresentano un quinto di quelli dell’Europarlamento. Nel 2016 la National Intelligence guidata da James Clapper ricevette l’incarico dal Congresso di controllare i finanziamenti russi degli ultimi dieci anni, e la ricerca è tutt’ora in corsa. Già nel 2016 Washington evitò di menzionare i nomi dei partiti e dei movimenti coinvolti nelle donazioni di Putin, ma nel mirino finirono i partiti di destra in Francia, Paesi Bassi Ungheria (Jobbik, non la Fidesz di Orban) ed Italia. A quell’epoca le attenzioni si spostarono sulla Lega di Matteo Salvini il quale negò ogni coinvolgimento.
Le reazioni e commenti della politica italiana
Il segretario nazionale del PD ha commentato: “Secondo fonti americane ben informate, la Russia in questi anni ha pagato partiti politici occidentali. Chiedo che ci sia in Italia la dovuta informazione e la dovuta chiarezza prima del voto“. Sono state queste le parole di Enrico Letta intervenendo nel programma “Cartabianca” (RAITRE) . “Chiedo che gli italiani, quando andranno al voto il 25 settembre, sappiano se partiti politici del nostro paese sono stati finanziati da una potenza, la Russia, che ha invaso l’Europa” aggiungendo “Vogliamo chiedere al governo italiano di dare le informazioni e che il Copasir intervenga: credo sia fondamentale che l’opinione pubblica sappia se ci sono partiti politici che hanno preso posizione di sostegno alla Russia perché sono stati pagati dalla Russia stessa“.
Immediata la reazione di Matteo Salvini , considerato “filorusso”: “Gli unici che hanno preso soldi dalla Russia in passato sono stati i comunisti e qualche quotidiano italiano. Liberi di farlo… Io non ho mai chiesto soldi e non ho mai preso soldi. La Lega querela? Ci credo… L’emergenza di chi è davanti al televisore sono le bollette… Dicano nomi e cognomi: chi hanno pagato? Se la Russia ha pagato il Pd, è giusto che si sappia“. Sono le parole di Matteo Salvini, leader della Lega, anche lui a “Cartabianca“: “L’unico paese straniero che nella mia attività politica mi ha offerto un viaggio tutto pagato e spesato, che poi non feci, furono gli Stati Uniti. Io non ci andai, altri ci andarono pagati dal governo americano, liberi di farlo”. Una nota della Lega aggiunge “L’unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino è stato prima il Partito Comunista Italiano e in epoca recente ‘la Repubblica’ che per anni ha allegato la rivista ‘Russia Oggi’. La Lega ha dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini come è già accaduto in alcuni contesti televisivi con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci. Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta“.
Guido Crosetto, co-fondatore di Fratelli d’Italia ha commenta su Twitter: “Dicono che la Russia abbia finanziato partiti in 20 nazioni, dal 2014, con oltre 300 milioni di dollari. La cosa non mi stupisce perché c’era una tradizione antica da parte loro. Però vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché è alto tradimento”, ma incredibilmente il tweet subito dopo la pubblicazione è scomparso ? Redazione CdG 1947
Da ansa.it il 13 settembre 2022.
La Russia ha trasferito segretamente oltre 300 milioni di dollari a partiti politici, dirigenti e politici stranieri in oltre una ventina di Paesi a partire dal 2014: lo affermano alti dirigenti Usa sulla base di accertamenti dell'intelligence americana.
Si tratta di informazioni declassificate di un report dell'intelligence Usa, ha spiegato un alto dirigente dell'amministrazione Biden in una conference call.
Informazioni che sono state condivise con altri Paesi.
I fondi segreti sono stati usati nell'ambito degli sforzi di Mosca di guadagnare influenza all'estero. Gli 007 ritengono che gli oltre 300 milioni trasferiti segretamente da Mosca a partiti e politici stranieri siano cifre minime e che Mosca abbia trasferito probabilmente altri fondi in modo coperto: lo riferisce un alto dirigente Usa.
Da adnkronos.com il 13 settembre 2022.
"Dicano nomi e cognomi: chi hanno pagato?". Matteo Salvini, segretario della Lega, a Cartabianca risponde alle domande sulle notizie basate su informazioni dell'intelligence Usa, secondo cui la Russia avrebbe finanziato partiti di altri paesi con 300 milioni di dollari dal 2014.
"Gli unici che hanno preso soldi dalla Russia in passato sono stati i comunisti e qualche quotidiano italiano. Liberi di farlo... Io non ho mai chiesto soldi e non ho mai preso soldi. La Lega querela? Ci credo... L'emergenza di chi è davanti al televisore sono le bollette... Dicano nomi e cognomi: chi hanno pagato? Se la Russia ha pagato il Pd, è giusto che si sappia", dice Salvini. "L'unico paese straniero che nella mia attività politica mi ha offerto un viaggio tutto pagato e spesato, che poi non feci, furono gli Stati Uniti. Io non ci andai, altri ci andarono pagati dal governo americano, liberi di farlo".
Gli Usa: dai russi 300 milioni per interferire in 24 Paesi. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.
Il documento inviato dal dipartimento di Stato chiede agli ambasciatori di sollevare il problema nelle varie Nazioni. L’Italia non è stata contattata
Il governo russo ha speso, o meglio, investito almeno 300 milioni di dollari dal 2014 in avanti per cercare di «influenzare» i politici di almeno 24 Paesi. È il messaggio inviato lunedì 12 settembre dal segretario di Stato Antony Blinken alle ambasciate e ai consolati Usa con sede soprattutto in Europa, ma anche in Africa e nel Sud-Est asiatico. Non ci sono i nomi, però, né dei Paesi interessati, né dei partiti o di singoli dirigenti politici che avrebbero beneficiato dei finanziamenti «coperti» distribuiti dal Cremlino.
La notizia riapre la polemica sulle manovre pianificate da Mosca per condizionare le dinamiche politiche e sociali in altri Stati, specie quelli schierati con l’Alleanza atlantica. E chiaramente la mossa americana cade in un momento delicato per l’Italia, in piena campagna elettorale.
Il documento firmato da Blinken è stato concepito come un atto interno alla diplomazia americana. Anche se il segretario di Stato invita gli ambasciatori a «sollevare il problema» con le autorità dei Paesi che li ospitano. Il governo guidato da Mario Draghi fa sapere di non essere stato contattato.
Le informazioni provengono da un nuovo rapporto dei servizi segreti Usa e si inseriscono in un filone di indagine iniziato almeno 7-8 anni fa. In un primo tempo gli analisti americani hanno ricostruito le manovre del Cremlino per disturbare la campagna presidenziale del 2016 negli Stati Uniti. I democratici accusarono Donald Trump di aver cospirato con Putin per danneggiare Hillary Clinton.
L’inchiesta venne affidata al super procuratore Robert Mueller che il 22 marzo 2019 consegnò un mastodontico rapporto, sostanzialmente con due conclusioni. Primo: il Cremlino aveva cercato di favorire Trump. Secondo: non c’erano prove di una collusione tra l’allora candidato repubblicano e il vertice russo.
In parallelo si mosse anche la commissione Affari esteri del Senato americano. Era il 2017, i repubblicani, allora in maggioranza, si rifiutarono di partecipare alle indagini. I democratici, comunque, completarono un dossier, un «minority report», datato 10 gennaio 2018. Titolo: «L’assalto asimmetrico di Putin alla democrazia in Russia e in Europa, implicazioni per la sicurezza Usa».
Il testo dedica largo spazio ai tentativi di destabilizzazione o di condizionamento nei Paesi baltici, in Ucraina, Georgia, Montenegro, Serbia, Bulgaria ed Ungheria. Ci sono anche tre pagine dedicate all’Italia. I parlamentari puntano l’attenzione sulle «posizioni anti-establishment» e favorevoli alla Russia del Movimento 5 Stelle. Ma osservano che «non ci sono prove di finanziamenti corrisposti al Movimento 5 Stelle da fonti legate al Cremlino».
Viceversa si riportano «i sospetti» di «alcuni osservatori» a proposito della Lega: «Potrebbe aver ricevuto fondi dai servizi segreti del Cremlino». Come è noto il vertice leghista, a cominciare da Matteo Salvini, ha sempre negato qualsiasi legame economico con Putin.
In ogni caso il rapporto firmato dai senatori democratici, oggi in maggioranza, si concludeva con queste parole: «L’Italia può essere un bersaglio per il Cremlino», favorendo quelle posizioni «che possono indebolire l’unità europea sulle sanzioni (quelle del 2014, ndr) contro la Russia»
L’ombra delle ingerenze agita la politica, la Lega minaccia querele. Stefano Montefiori e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.
Il Pd: intervenga il Copasir, si faccia chiarezza prima del voto. L’Ungheria sembra essere destinazione privilegiata di investimenti da Mosca
La notizia del dossier americano irrompe sulla campagna elettorale italiana come una bomba. Tanto che il leader della Lega Matteo Salvini reagisce subito: «L’unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino è stato prima il Partito Comunista Italiano e in epoca recente La Repubblica che per anni ha allegato la rivista Russia Oggi . La Lega ha dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini come è già accaduto in alcuni contesti televisivi con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci. Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta».
Al momento nessuna comunicazione ufficiale risulta arrivata per via diplomatica. Ma non si può escludere che nei prossimi giorni possano essere trasmessi dettagli sul contenuto dell’informativa dell’intelligence statunitense. Per questo già da oggi anche il Copasir potrebbe aprire una pratica per accertare quali dati siano stati acquisiti, se ci siano «canali» economici verso il nostro Paese e soprattutto che tipo di verifica sia stata effettuata. Lo ha chiesto il segretario del Pd Enrico Letta: «Si deve fare chiarezza prima del voto, intervenga subito il Comitato parlamentare». E Giuseppe Conte si è allineato: «Il M5S come sempre agisce in piena trasparenza: ci auguriamo che il Copasir indaghi con il sostegno di tutte le forze parlamentari. Non possiamo non esprimere preoccupazione sul fatto che la campagna elettorale possa essere inquinata da fattori esterni». «Dicono che la Russia abbia finanziato partiti in 20 nazioni, dal 2014, con oltre 300 milioni di dollari. La cosa non mi stupisce perché c’era una tradizione antica da parte loro. Però vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché è alto tradimento», ha scritto su Twitter Guido Crosetto, co-fondatore di Fratelli d’Italia.
L’Italia è il Paese più al centro delle attenzioni vista l’imminenza del voto del 25 settembre, che potrebbe spostare gli equilibri in Europa e — nelle speranze del Cremlino — indebolire la coesione del fronte pro-Ucraina. Ma ci sono sospetti su ingerenze russe nel processo democratico di molti Paesi, primo fra tutti la Francia, dove Marine Le Pen ha finanziato le campagne elettorali grazie a prestiti russi. Nel 2014 l’allora Front National ha contratto un prestito di 9,4 milioni di euro presso la First Czech-Russian Bank (FCRB), che ha concesso anche un finanziamento di due milioni per il micro-partito Jeanne di Jean-Marie Le Pen. Fallita la banca due anni più tardi, il credito viene rilevato da una società formata da ex militari russi con la quale nel 2020 il Rassemblement national trova un accordo per un rimborso scaglionato fino al 2028. In occasione della campagna presidenziale del 2017, poi, il partito viene di nuovo aiutato dal prestito dell’uomo d’affari Laurent Foucher — legato a Mosca secondo il giornale Mediapart —, che fornisce otto milioni di euro benché sia insolvente e sotto inchiesta a Ginevra per truffa e riciclaggio. Nel 2022, visto che la legge francese ormai proibisce finanziamenti ai partiti da Paesi fuori dell’Unione europea, Marine Le Pen si rivolge a una banca ungherese che le assicura 10,6 milioni di euro.
L’Ungheria sembra essere una destinazione privilegiata degli investimenti di Mosca. Anche tramite la «International Investment bank», nuovo nome della banca del Comecon di era sovietica, che nel 2019 ha spostato la sua sede da Mosca a Budapest. Il suo direttore è Nikolai Kosov, figlio dell’allora capo del Kgb in Ungheria.
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.
Il dossier sui 300 milioni di dollari elargiti dalla Russia a venti Paesi è stato confezionato qualche mese fa, quando alla Casa Bianca c'era già Joe Biden. Le informazioni e le verifiche sarebbero state affidate a funzionari del ministero del Tesoro sulla base dei dati raccolti dalla Cia ma senza coinvolgere la National Security.
Sono le prime informazioni trasmesse al governo italiano per via diplomatica e di intelligence . Un report che però non scioglie il nodo cruciale sulla presenza dell'Italia nella lista degli Stati dove ci sarebbero stati partiti e uomini politici «a libro paga».
«Al momento non risulta ma le cose potrebbero cambiare», dichiara il presidente del Copasir Adolfo Urso in trasferta a Washington. E in serata twitta: «Ho appena concluso un positivo incontro al Dipartimento di Stato», con la foto delle due bandiere. La tensione in una campagna elettorale già segnata dal sospetto di interferenze straniere rimane però altissima. Perché dopo la notizia sull'esistenza del report filtrata martedì sera, nessuna comunicazione ufficiale è arrivata dagli Stati Uniti sui Paesi coinvolti. Anzi, nelle note informali di queste ore si specifica che il dossier non sarà consegnato ai governi stranieri perché «classificato». E questo aumenta i dubbi su modi e tempi di diffusione delle informazioni.
Il warning
Gli analisti ritengono che la «bomba» sganciata due giorni fa possa essere in realtà un avviso, una sorta di warning per chi vincerà le elezioni italiane rispetto all'atteggiamento da tenere nei confronti di Washington. Motivo in più per spingere l'esecutivo in carica a sollecitare informazioni chiare sugli elementi raccolti dagli analisti statunitensi. E soprattutto su eventuali dettagli italiani. Finora si è parlato genericamente di fondi ai partiti stranieri. Quali? Si tratta di finanziamenti diretti? Ci sono triangolazioni? Sono coinvolte società o altre istituzioni? Interrogativi al momento senza risposta.
«Fondi dal 2014»
Nessun chiarimento è stato fornito anche sul motivo per cui l'indagine avrebbe riguardato le elargizioni di Mosca a partire dal 2014. È l'anno dell'invasione della Crimea e del Donbass, nel febbraio ci fu la rivoluzione ucraina culminata con la fuga del presidente Viktor Yanukovich.
Date cruciali rispetto alla guerra in corso tra Russia e Ucraina che potrebbero aver spinto l'amministrazione Biden - schierata al fianco del presidente Volodymyr Zelensky - a sollecitare indagini mirate sulla rete tessuta da Putin. Ma la scelta di far filtrare i risultati in maniera parziale proprio in questi giorni in Italia fa presto a trasformarsi in accusa di ingerenza sulla campagna elettorale in vista del voto del 25 settembre. Anche tenendo conto che negli Stati Uniti sono circolate indiscrezioni sul condizionamento del voto in Albania, Montenegro, Ecuador, Madagascar, ed è stato specificato che «si stanno contattando le ambasciate degli Stati interessati» ma non risultano contatti con la nostra sede diplomatica o con la Farnesina.
Al Copasir
Domani mattina il sottosegretario con delega ai Servizi Franco Gabrielli riferirà al Copasir l'esito delle istanze presentate in queste ore agli interlocutori di Washington. «Perché - ribadisce il deputato del Pd Enrico Borghi - siamo in un momento delicatissimo, non possiamo permetterci di rimanere in una situazione di incertezza e sospetto». La prossima settimana il presidente del Consiglio Mario Draghi sarà negli Stati Uniti e incontrerà Biden. Sembra difficile che possa essere quella l'occasione per un chiarimento, ma nessuno può escluderlo. E il timore di rivelazioni con il contagocce in grado di avvelenare questi ultimi giorni di campagna elettorale continua a salire.
Soldi russi, la mossa del premier Draghi e quella mail Usa che per ora chiude il caso. Giuseppe Sarcina e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022
Ma già si parla di altri dossier in arrivo nelle prossime settimane su finanziamenti russi. Il Dipartimento di Stato americano: il nostro allarme è sul piano globale. Proroga del Copasir fino alla scelta dei nuovi componenti (è la prima volta)
Mario Draghi lo dirà pubblicamente. Già oggi — nella conferenza stampa convocata a Palazzo Chigi dopo il Consiglio dei ministri — il premier potrebbe confermare che nel dossier sui 300 milioni di dollari distribuiti dalla Russia a venti Stati non c’è l’Italia. Le fibrillazioni che avevano segnato le ultime 48 ore con le notizie fatte filtrare negli Stati Uniti su finanziamenti a partiti e uomini politici stranieri, lo avevano convinto sulla necessità di ottenere un chiarimento con l’amministrazione di Joe Biden. E così, ieri mattina, il capo del governo ha chiamato il segretario di Stato Antony Blinken per avere informazioni dirette sul contenuto del dossier. E la risposta è stata esplicita: «Nulla su di voi».
La mail Usa
Il rapporto sui fondi russi ai partiti occidentali, risponde il Dipartimento di Stato al Corriere, va interpretato come «un’allerta globale». Non sono indicati alcuni Paesi in particolare, né forze politiche o singoli leader. È la stessa spiegazione fornita da Blinken a Draghi. E nelle stesse ore il Dipartimento di Stato ha inviato una mail ai governi: «Noi non entriamo nelle informazioni specifiche di intelligence , ma siamo stati molto chiari nell’esporre la nostra preoccupazione sulle interferenze della Russia nel processo democratico in diversi Paesi del mondo, compreso il nostro. A questo proposito non concentriamo il nostro allarme nei confronti di nessuno Stato in particolare, ma sul piano globale, poiché dobbiamo fronteggiare le sfide contro le società democratiche. Continueremo a lavorare con i nostri alleati e partner per mettere in luce i tentativi di influenza pericolosa della Russia, aiutando gli altri Paesi a difendersi contro tali attività».
Il Copasir
Mercoledì sera Adolfo Urso, presidente del Copasir per Fratelli di Italia, ha ottenuto più o meno le stesse risposte nella sua ultima giornata a Washington. Accompagnato dal numero due dell’ambasciata italiana, Alessandro Gonzales, ha avuto una serie di incontri al Dipartimento di Stato. Poi, scortato dall’ambasciatrice Mariangela Zappia, ha visto il presidente della Commissione Intelligence al Senato, il democratico Mark Warner, nonché il repubblicano Richard Burr, componente dello stesso organismo. E in tutti i colloqui ha ricevuto rassicurazioni sull’esclusione dell’Italia. Del resto poco dopo la divulgazione delle notizie, gli Stati Uniti avevano fatto sapere che le ambasciate interessate sarebbero state contattate. Ma né gli addetti diplomatici negli Usa, né la Farnesina, né gli apparati di intelligence — subito allertati dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Gabrielli — hanno ricevuto informazioni specifiche sull’inserimento dell’Italia nel dossier. Resta il dubbio che nel rapporto compilato dai servizi segreti e dal Consiglio di sicurezza nazionale, diretto da Jake Sullivan, il più stretto collaboratore di Joe Biden, possano esserci dei riferimenti risaputi, attinti dalle cosiddette «fonti aperte», cioè notizie già pubblicate.
Avviso al governo
Le informazioni fatte filtrare da Washington — che gli analisti leggono come un warning per il prossimo governo — potrebbe comunque essere il preludio all’invio di altri dossier. Le parole del ministero degli Esteri Luigi Di Maio, che conferma di essere «in contatto con gli americani per tutti gli ulteriori aggiornamenti», dimostrano che nelle interlocuzioni di queste ore della diplomazia e dell’intelligence è stato spiegato che ci sono numerosi report preparati dal Tesoro e dagli 007 Usa sui finanziamenti di Mosca a partiti, imprese, uomini politici stranieri e per questo non è affatto escluso che nelle prossime settimane possano emergere altri documenti che coinvolgano anche italiani.
La proroga
I timori per quello che potrà accadere in materie così delicate sembrano dimostrati dalla norma, votata all’unanimità e inserita nel decreto Aiuti, che — per la prima volta — proroga il Copasir. E stabilisce che «fino alla nomina dei nuovi componenti dello stesso Copasir le relative funzioni sono esercitate da un comitato provvisorio costituito dai membri del comitato della precedente legislatura che siano stati rieletti in una delle Camere».
Da lastampa.it il 13 settembre 2022.
Quasi alla vigilia delle elezioni, il rapporto con la Russia torna al centro del dibattito elettorale. Un rapporto dell'intelligence statunitense denuncia, infatti, che dal 2014 – anno dell'occupazione della Crimea – a oggi Mosca ha finanziato con 300 milioni di dollari partiti politici e candidati in oltre 20 Paesi per accrescere la propria influenza. «Vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani – incalza Guido Crosetto –, perché è alto tradimento». Il Pd ha chiesto «a tutti i partiti politici italiani di assicurare la propria estraneità a questi finanziamenti». L'informativa non indica specifici 'target' russi ma chiarisce che gli Stati Uniti stanno fornendo informazioni classificate a singoli paesi specifici.
Intanto, dopo il confronto Letta-Meloni di ieri, da cui son emerse due Italie contrapposte su tanti temi, dal Pnnr ai diritti, fino all’immigrazione, oggi la leader di FdI ha parlato di sé in un'intervista al Washington Post: «Qualora gli italiani decidessero che vogliono Meloni premier, sarò premier», ha sottolineato, spiegando il programma del suo partito che definisce «conservatore» e il suo rapporto con l'Europa: «Non mi considero una minaccia, una persona mostruosa o pericolosa».
Aggiornamenti ora per ora
20.46 – Bonelli: “Quali partiti italiani hanno preso soldi dalla Russia?”
«Quali partiti italiani hanno preso soldi dalla Russia per condizionare le elezioni? Secondo intelligence Usa 300 mln di dollari sono stati trasferiti a partiti di Paesi esteri. Esistono atti declassificati di cui il governo è a conoscenza ? Se si, li renda pubblici». Così Angelo Bonelli, leader dei Verdi.
21.05 – Russia: Crosetto, fuori i nomi. E' alto tradimento
«Dicono che la Russia abbia finanziato partiti in 20 nazioni, dal 2014, con oltre 300 milioni di dollari. La cosa non mi stupisce perché c'era una tradizione antica da parte loro», scrive Guido Crosetto su Twitter. «Però - riprende l'ax parlamentare FdI - vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché - incalza - è alto tradimento».
21.18 – Pd, tutti partiti assicurino estraneità finanziamenti
«Dal 2014 la Russia inquina la democrazia pagando partiti e candidati che ne difendono gli interessi. La nostra democrazia è troppo preziosa per metterla in vendita. Chiediamo a tutti i partiti politici italiani di assicurare la propria estraneità a questi finanziamenti». Lo scrive su Twitter Lia Quartapelle, responsabile Esteri del Partito Democratico.
21.37 – Borghi: solo Pd garantisce di non prendere soldi esteri
«Il Pd è stato l'unico partito sin qui a dire che mai prenderemo soldi dall'estero. Abbiamo chiesto a tutti i partiti di fare altrettanto (e finora non abbiamo avuto risposte). Alla luce di queste notizie tutti i partiti garantiscano che nessuno rientra nella fattispecie». Così su Twitter Enrico Borghi, responsabile Politiche per la sicurezza nella segreteria nazionale del Pd.
21.40 – Salvini: basta falsità, ora querelo
«L'unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino è stato prima il Partito comunista italiano e in epoca recente 'la Repubblica' che per anni ha allegato la rivista 'Russia Oggi'». È quanto si legge in una nota della Lega che prosegue annunciando di avere «dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini, come è già accaduto in alcuni contesti televisivi, con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci». «Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta», conclude la nota della Lega.
21.49 – Ricci: da anni rapporto Salvini-Putin sotto occhi tutti
«Sono anni che la Russia cerca di influenzare le elezioni in occidente e in Italia aveva scommesso particolarmente sulla Lega». Lo ha detto il presidente di Ali - Autonomie Locali Italiane - e coordinatore dei sindaci del Pd, ospite di Stasera Italia, su Rete4. «Ora vedremo anche se c'è qualche partito italiano che ha preso i soldi, ma che ci sia un rapporto tra il partito di Salvini e quello di Putin è sotto gli occhi di tutti», ha aggiunto Ricci, come riferisce una nota, sostenendo poi che «Putin è stato il capitano e l'esempio dei sovranisti italiani, basta guardare quello che è successo negli ultimi anni. Ora bisogna prendersi le proprie responsabilità. Quelle del 25 settembre sono elezioni politiche dove ci si gioca il posizionamento dell'Italia in Europa e nel Mondo, in un cambiamento geopolitico molto delicato. È evidente - ha concluso - che le posizioni internazionali sono molto importanti quando ci si rivolge agli elettori. Il Partito democratico sta con l'Europa e occidente, senza se e senza ma».
Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 15 settembre 2021.
È difficile stabilire un punto d’inizio delle storie più oscure delle operazioni di interferenza russa in Italia, siamo pur sempre il Paese che ha avuto il partito comunista più grande d’Occidente, vent’anni di governo di Silvio Berlusconi – un amico personale di Putin che il Dipartimento di Stato sospettava di «affari personali» con il presidente russo, attorno a Gazprom e usando suoi presunti prestanome – e in anni recenti la più grande esplosione di partiti populisti-sovranisti in Europa, il M5S e la Lega. Ma forse è il 2014, l’anno di annessione illegale della Crimea alla Russia, il punto di svolta. E gli uomini vicini all’oligarca ortodosso Konstantin Malofeev e a Alexander Babakov (menzionato anche nell’ultimo cablo Usa) giocano un ruolo decisivo.
È una storia che si può far partire da Torino. La Lega nel 2013 deve eleggere il nuovo segretario, che sarà Matteo Salvini. Arrivano in Piemonte Aleksey Komov, collaboratore dell’oligarca ortodosso ultranazionalista russo Konstantin Malofeyev, e il deputato di “Russia Unita” Viktor Zubarev. Entrambi legati anche a Babakov, oligarca nel settore dell’energia. Nel 2015 un convegno di Lombardia-Russia a Milano sarà pagato con i soldi di Malofeev, secondo il racconto di uno dei collaboratori del Carroccio. Babakov sarà intermediario dei nove milioni “prestati” dai russi a Marine Le Pen.
Nei primi mesi del 2014 era nata l’associazione Lombardia-Russia, di Gianluca Savoini e Claudio D’Amico. Nella primavera 2014 Lombardia-Russia si lega alla “Gioventù Russa Italiana”, un’organizzazione fondata nel 2011 da Irina Osipova, figlia di Oleg Osipov, capo del potente ufficio italiano di Rossotrudnichestvo, che nel 2016, si candida persino con Fratelli d’Italia al Comune di Roma.
Partono andirivieni trasversali con Mosca. Nell’ottobre 2014 un gruppo di leghisti vola prima in Crimea, a sostenere i russi. Ci vanno anche due volte delegazioni parlamentari M5S, la star è Alessandro Di Battista. Grillo diventa special guest di RT, oggi bannata in Europa, come Assange e come Michael Flynn, il primo consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump. Sappiamo che Flynn riceve compensi da RT. RT paga anche per quelle interviste grilline?
Dopo la Crimea i leghisti vanno a Mosca, dove incontrano anche Sergey Naryshkin, oggi capo del Svr, i servizi segreti esteri. L’operazione d’influenza, per i russi, si lega fin dall’inizio allo spionaggio. I leghisti lo sanno? Anni dopo, a Roma, a parlare con gli emissari leghisti per un «viaggio di pace» di Salvini a Mosca sarà Oleg Kostyukov (figlio del capo del Gru), vicario dell’ambasciata russa a Roma, che arriva a domandare ai leghisti, il 27 maggio 2022, se sono «orientati a ritirare i leghisti dal governo Draghi». Mosca ha tramato per abbattere Draghi?
Secondo Newslinemag, che ha ottenuto delle mail del gruppo “Tsaargrad” – del filosofo Alexander Dugin e di Malofeev – il 17 ottobre 2018 Salvini ha un appuntamento con Malofeev, così scrive per mail il braccio destro dell’oligarca. Il giorno dopo, all’hotel Metropol a Mosca, Savoini discute un accordo: il colosso petrolifero Rosneft, guidato da Igor Sechin (in tutti questi anni portato in palmo di mano in Italia dal capo di Banca Intesa Russia, Antonio Fallico), avrebbe venduto gasolio all’Eni con uno sconto del 4%, 65 milioni, destinato alla Lega. Esce l’audio. È ancora aperta a Milano un’inchiesta, ma i soldi non sono mai stati trovati.
Nell’ultimo cablo Usa – dove non si fanno nomi specifici – si legge che spesso «il finanziamento politico russo è stato eseguito da organismi come il Fsb». E con un meccanismo di «società di comodo, think tank, università». Le ombre russe in Italia hanno spesso riguardato presunti finanziamenti a dipartimenti universitari. O alla Link University, l’università cara ai 5 Stelle e a pezzi dei servizi. O a riviste di geopolitica più o meno gialloverdi e anti-atlantiche.
Il ministro degli esteri Luigi Di Maio ha detto «io me ne sono andato dal M5S perché Conte stava flirtando con Putin». Conte ieri ha assicurato: «Io posso parlare del M5S, non c’è nessuna possibilità che possa essere coinvolto e subire interferenze». Da anni i 5S, soprattutto con Vito Petrocelli, poi espulso, hanno flirtato con uomini di Putin, per esempio Konstantin Kosachev, o Leonid Slutsky, o Serghey Zeleznyak.
Nel marzo 2020 l’allora premier grillino concesse a Putin una sfilata di mezzi militari e intelligence e generali russi in Italia, dai russi rivenduta come «missione di aiuti». Fu quello, o una missione di propaganda, con uomini dello spionaggio militare su suolo Nato, seguita da pressioni per far adottare il vaccino Sputnik in Italia? Un alto dirigente dello Spallanzani rivelò a La Stampa che due funzionari di stato russi gli proposero 250 mila euro per spingere lo Sputnik, lui rifiutò e informò carabinieri e Servizi. Cosa ruotò attorno a quella grigia storia? I russi ottennero in cadeaux la coltura virale del coronavirus dal potenziale valore commerciale miliardario?
Le domande sulle zone oscure del caso italiano si moltiplicano. Le spie russe in Italia proliferano, arrivando quasi a un centinaio. Lunedì scorso una nota del Dipartimento di Stato inviata alle ambasciate Usa in più di 100 Paesi – compresa Roma – ha suggerito le misure per reagire: sanzioni, divieti di viaggio e l’espulsione di presunte spie russe coinvolte in finanziamento. Chissà se dopo Draghi ne vedremo più qualcuna.
Da lastampa.it il 16 settembre 2022.
Davide Casaleggio attacca duramente Giuseppe Conte, sulla vicenda del presunto finanziamento dal Venezuela di Chavez-Maduro a Gianroberto Casaleggio – finanziamento che Davide Casaleggio ha sempre negato, querelando il giornale spagnolo che per primo aveva diffuso la notizia riportando un documento dei servizi segreti spagnoli.
Ora però Casaleggio sostiene che Conte, in quella storia, ebbe un ruolo. A pochi giorni dal voto del 25 settembre, con un video su Facebook, il figlio del cofondatore del M5S attacca il leader del Movimento, l’avvocato del popolo: «Aveva questo documento da oltre anno, non disse nulla. Fece finta di nulla».
E avanza il dubbio, tra l'altro, che dietro quel caso ci fosse la volontà di cambiare il corso del Movimento 5 Stelle. «Devo raccontarvi un fatto grave che è successo in questa legislatura. Molti di voi lo conosceranno come il "caso Venezuela". Un'infamia che è stata condotta contro mio padre - esordisce Casaleggio - Bene, in questi anni ho condotto diverse ricerche e questo mi ha permesso di farmi un'idea di cosa sia successo.
E anche di quali sono gli attori che sono stati coinvolti in questa vicenda. Anche i servizi segreti italiani, anche persone nel governo italiano sono state coinvolte in questa vicenda. Speravo che la giustizia avesse già fatto il suo corso per la fine di questa legislatura, ma così non è stato. Credo sia quindi importante condividere alcune informazioni pubblicamente».
«Molti di voi ricorderanno il "caso Venezuela" perché è finito su tutti i giornali. Tutte le televisioni, tutte le inchieste di approfondimento in televisione parlavano del “caso Venezuela”. Una valigetta con 3,5 milioni di dollari - ricorda Davide Casaleggio - che sarebbe arrivata nelle mani di mio padre per cambiare il corso delle idee del governo italiano tramite il Movimento 5 Stelle che a suo tempo - si parla del 2010 almeno dalla storia raccontata - era fuori dal Parlamento, fuori dal Governo e quindi sostanzialmente parliamo di una storia irrealistica, che però molti giornali hanno sposato comunque. Ma cosa ho scoperto in questi anni?
Beh, innanzitutto i tempi. Questo documento falso è arrivato al giornale spagnolo, che poi lo pubblicò, proprio nel momento in cui il capo politico del Movimento 5 Stelle si era dimesso. Un momento delicato per il Movimento 5 Stelle. L'inchiesta esce sul giornale sei mesi dopo. Proprio nel momento in cui si sta discutendo del fatto di fare o meno il voto per il capo politico che doveva essere rivotato. Proprio in quel periodo in cui - come molti di voi ricorderanno - io sostenevo la necessità di fare un voto aperto a candidature multiple con il voto degli iscritti, per poter avere un nuovo capo politico».
«Questo non successe mai - rimarca Casaleggio - perché nel frattempo è stato cambiato lo statuto. È stato nominato sostanzialmente un monocandidato, che alla fine è stato ratificato da alcuni iscritti. Ora questo per quanto riguarda i tempi. Chi era invece a conoscenza di questo documento prima che arrivasse nelle mani del giornalista spagnolo?
Bene, questo documento era custodito in un cassetto del governo italiano già da un anno. Tra l'altro prima della pubblicazione, il 27 di aprile del 2019 i servizi segreti italiani con in mano questo documento vanno da Giuseppe Conte - sostiene il foglio del cofondatore del M5S - vista la gravità del fatto denunciato dal documento e lo sottopongono per una sua valutazione. Quello che è stato fatto? Nulla». «Non si fece né un'indagine su un fatto che effettivamente poteva essere molto grave, parliamo di corruzione, riciclaggio, cercare di pagare una forza politica per indurre il governo a fare qualcosa per un Paese straniero.
È qualcosa di molto grave ma il Presidente del Consiglio al tempo non fece nulla. Non fece nulla neanche nell'altro senso. Se pensava che questo documento fosse falso, era una chiara calunnia. Un tentativo di calunnia perché al tempo il documento era segreto, ma non fece nulla neanche quando questo documento uscì sui giornali. Tutti i giornali italiani ne hanno parlato e Conte aspettò ben due giorni per fare la sua dichiarazione in cui sostanzialmente faceva finta di non saperne nulla».
«Ora tutto questo usciva, e il governo? Nulla. Conte che aveva questo documento da oltre anno, non disse nulla. Fece finta di nulla. Ora io spero che nel prossimo governo, che nella prossima legislatura, tutte le persone che avranno a che fare con i servizi segreti: sia le persone che controlleranno i servizi segreti, sia le persone che li gestiranno, abbiano il senso dello Stato. Perché io non tollero che si infanghino le persone che non possono difendersi. Non tollero che si infanghi mio padre. E quindi spero che si faccia chiarezza su un'operazione di calunnia pubblica che è stata portata avanti contro mio padre».
Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per il Foglio il 16 settembre 2022.
La cosa grave, per quanto riguarda i finanziamenti russi a partiti italiani, è che le ombre sono poche, riguardano dettagli scabrosi ma non l’essenziale. Tutto si è svolto alla luce del sole. (...)
Salvini nella sua ingenua furbizia ha pensato, e ha manifestato apertamente nelle forme più primitive, perfino infantili, che il suo impulso verso il regime dei pieni poteri, dell’uomo forte, della soluzione risolutiva, dell’odio per le élite euroatlantiche, dell’ideologia del risentimento e della frustrazione contro la democrazia liberale, si identificasse con la Russia di Putin (...)
Non è questione di insinuazioni o accuse, di prove, di ulteriori accertamenti, di passaggi di rubli, tutte cose in ombra ma non poi così tanto, è questione direi quasi gratuita, solare, evidente, di infatuazione per un modello che è venuto alla luce per quel che è e per quel che costa in termini di equilibrio, sviluppo, libertà, pace e comune umanità.
Il Salvini invotabile, pericoloso, spiazzato in modo grottesco dalla storia di questi anni, non è uno sconosciuto agente del Kgb, non è un politico corrotto dai rubli, è il leader che ha scommesso apertamente su un modello insopportabile per il nostro modo di concepire la vita e l’esercizio dei diritti civili in un paese democratico. (...)
Il putinismo, che per Berlusconi è un’amicizia personale, ma l’uomo ha anche pianto la notte per Gheddafi, come raccontò mentre veniva bombardato e spento, per Meloni è una tentazione apparentemente rifiutata, per Salvini, che sta nel tridente elettorale della destra, è una seconda, macché una prima pelle. Altro che ombre russe
Marcello Sorgi per la Stampa il 17 settembre 2022.
Il lungo (forzatamente lungo) addio di Draghi si colora a tinte forti in una conferenza stampa in cui, prendendo spunto dal legittimo orgoglio di presentare un nuovo decreto Aiuti da 14 miliardi, il premier mette a posto i suoi ex-alleati e avversari. Ce n’è per tutti, con toni ora sornioni (più consoni a Draghi) ora risentiti, ora superiori, tanto che a un certo punto SuperMario accetta anche di sentirsi definire «sceso dall’alto», per dire che non ha mai avuto bisogno, né ha voluto, fare i conti con le miserie della politica quotidiana. E conferma il suo «no» a un secondo mandato.
Il primo ad affacciarsi nel mirino è Salvini, a cui sembra rivolto quel «pupazzo prezzolato» che continua a «parlare di nascosto» con Mosca. Draghi si prende la soddisfazione di far notare che l’ammontare degli ultimi due decreti è superiore, 31 contro 30 miliardi, all’ammontare dello scostamento di bilancio chiesto ogni giorno dal leader leghista. E di precisare che grazie ai suoi contatti con Blinken e l’amministrazione Usa il governo è stato in grado di scagionarlo completamente dal Russiagate. Della serie “So’ ragazzi”.
Il secondo, ma sempre associato a Salvini, è Conte per lo scetticismo sulle sanzioni per Mosca, «che invece funzionano», e quell’ipocrita plauso alla resistenza dell’Ucraina «che avrebbe dovuto difendersi a mani nude».
La terza è Meloni, alla quale, dopo il voto a favore di Orban, Draghi ricorda che la tradizionale collocazione dell’Italia in Europa con Francia, Germania e i maggiori membri dell’Unione è scelta di pragmatismo: sono Paesi che hanno gli stessi nostri problemi, in cerca di una soluzione comune. Consiglio non richiesto.
Il limite di queste considerazioni, sollecitate dalle domande dei giornalisti, è che sono state tutte senza fare nomi. Sassolini, o pietre, tolte dalle scarpe fuori tempo limite.
Draghi ovviamente rifiuta di dare un giudizio sulla campagna elettorale in corso, anche se è evidente che non gli è piaciuta, e fa un solo appello: al voto. Rivolto a tutti i cittadini, perché in fondo, anche se non lo ha detto apertamente, il premier pensa che gli italiani siano meglio dei partiti che li rappresentano, e il meglio del meglio forse si annidi tra quelli astensionisti, che potrebbero cambiare le cose facendo uno sforzo per andare alle urne.
Mattia Feltri per la Stampa il 17 settembre 2022.
Forse sono io a essere inadeguato agli arabeschi logici del mio tempo. Per esempio, ora Matteo Salvini pretende delle scuse. Come sapete, qualche giorno fa il Dipartimento di Stato americano ha diffuso una nota secondo cui da anni il Cremlino paga partiti di altri paesi per sovvertirne l'ordine democratico.
Con una deduzione particolarmente precipitosa, molti hanno dato per certo che fossero coinvolti pure dei partiti italiani e, una volta compiuto questo passo, la deduzione successiva era fatale: chi potrà mai essere stato retribuito da Mosca, se non quel tizio incline a indossare felpe con l'immagine di Putin sulla Piazza Rossa, promotore di una collaborazione politica fra il suo partito e quello di Putin, di cui è un tale ammiratore da averlo definito il garante della pace in Europa, il miglior leader al mondo insieme a Donald Trump, il presidente di un paese molto migliore dell'Unione europea, uno che vale il doppio di Obama, il triplo di Mattarella, il quadruplo di Renzi, un modello di lucidità e lungimiranza, uno senza difetti, un grande, un amico (tutto testuale)? Chi, dunque, se non Matteo Salvini?
Salta però fuori che il documento di tutto parla fuorché di partiti italiani, e tantomeno di Salvini, circostanza confermata ieri da Franco Gabrielli, sottosegretario delegato per la sicurezza della Repubblica. Ecco, ora Salvini indignato vorrebbe che i suoi avventati accusatori gli porgessero le scuse. Lui non è - per usare le parole di Mario Draghi - un pupazzo prezzolato. No, lui ha fatto tutto gratis. E a me, inadeguato agli arabeschi logici contemporanei, pare una terribile aggravante.
Leon Panetta ex capo della CIA: “Chi parla delle sanzioni come Salvini è stato influenzato da Mosca”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Settembre 2022.
Leon Panetta ex capo della CIA e del Pentagono sotto la presidenza Obama, parla di Putin, Salvini, Berlusconi, e sa di cosa parla...
“Sentire da chiunque quelle cose sulle sanzioni a Mosca mi dice che è stato influenzato dalla Russia”. È netto il giudizio di Leon Panetta, quando gli ricordi l’intervento di Matteo Salvini a Cernobbio. Subito dopo il capo di Cia e Pentagono nell’amministrazione Obama, quando Biden era vice presidente, aggiunge: “Fatico a pensare che chiunque verrà eletto in Italia non capisca come il ruolo del vostro paese nel mondo sia rafforzato dall’alleanza con Nato e Usa, e facendo altro minerebbe l’economia e la politica italiana“.
Vista la denuncia del segretario di Stato Blinken, può dirci cosa sa lei della corruzione russa in Italia e in Europa?
“Abbiamo sempre avuto intelligence sugli sforzi dei russi per aggirare le sanzioni e dirigere fondi verso coloro che sono vicini a Putin e nemici degli Usa. Usa i soldi come farebbe un tiranno, per complicare l’applicazione delle sanzioni“.
il segretario di Stato USA Blinken
Cosa sa della corruzione dei politici in Europa?
“Normali operazioni di intelligence russa. Usano i fondi per convertire alla loro linea, piazzare spie e alleati nel mondo. È quello che Putin ha fatto per anni, sfruttare ogni leva di potere per minare stabilità e Usa“.
Ha informazioni sull’Italia?
“Non mi sorprenderebbe che stessero usando fondi per influenzare chi sarebbe più favorevole alla Russia. In Italia e in altri paesi”.
Silvio Berlusconi e Vladimir Putin in Sardegna
Lei ha conosciuto Berlusconi nel 1994 durante la visita del presidente Clinton. L’apprezzamento che ha espresso in varie occasioni per Putin è politico, o legato al business?
“Non sarei sorpreso se Berlusconi avesse una relazione stretta con Putin. Risale ai tempi in cui il capo del Cremlino era più rispettabile come leader, sono sicuro che il loro rapporto vada indietro negli anni. Filosoficamente Berlusconi e Putin la pensavano allo stesso modo, ciò è probabilmente vero anche oggi“.
L’episodio del Metropol dimostra che la Lega è un target?
“Dobbiamo capire che Putin e la Russia sono in un angolo, a causa dell’Ucraina. Proveranno ad usare ogni mezzo per costruire un qualche tipo di sostegno“.
Salvini , l’ambasciatore russo in Italia e SavoiniSalvini e Savoini a Mosca
Tra una settimana in Italia si vota. Si aspetta operazioni di disinformazione?
“La Russia ha lanciato un attacco sfacciato contro gli Usa durante le nostre elezioni, e continua a farlo, per minarne l’integrità. È un approccio standard per aiutare chi pensano sosterrebbe le loro posizioni. Sta accadendo in Italia e altrove“.
Anche la corruzione?
“Sì. Non escluderei nulla, in particolare quando sono in un angolo come oggi. Putin era e resta prima di tutto un agente del Kgb, ed userà le tattiche che conosce per spingere gli altri a sostenere la Russia“.
Vladimir Putin
L’Ucraina può vincere la guerra?
“Putin non può vincerla, e dovrà affrontare la difficile decisione di salvare se stesso, oppure muovere verso l’escalation“.
C’è il rischio che usi le armi nucleari tattiche?
“Resta sempre una possibilità. Quando metti una tigre all’angolo, non sai mai come risponderà“.
Quindi Putin ora ha un incentivo ad influenzare le elezioni italiane per dividere la coalizione occidentale?
“Assolutamente. Usano queste tattiche quando le circostanze sono favorevoli, immaginiamoci ora che sono in difficoltà per guerra e sanzioni. Putin non ha ottenuto neppure il sostegno della Cina, e ciò dice tutto sulla sua posizione. È molto vulnerabile ora. Perciò cercherà di colpire comunque potrà“.
Quanto importante sarebbe sfilare l’Italia dalla coalizione?
“Punta a cercare di favorire questo risultato. Ma fatico a pensare che chiunque verrà eletto non capisca come il ruolo dell’Italia nel mondo sia rafforzato dall’alleanza con Nato e Usa, e facendo altro minerebbe tanto l’economia, quanto la politica del vostro paese“.
Salvini che a Cernobbio chiede di togliere le sanzioni è l’effetto di una posizione politica o delle pressioni russe?
“Non sei mai sicuro di cosa ci sia dietro a quel genere di commenti. È chiaro che Mosca si trova in una posizione molto difficile, non solo militarmente in Ucraina ma anche economicamente a causa delle sanzioni, sentire da chiunque quelle cose mi dice che è stato influenzato dalla Russia”.
Leon Panetta ex capo della CIA e del Pentagono
Quando era alla Cia ha visto informazioni sulla corruzione russa in Italia?
“Ogni giorno vedevo intelligence sugli sforzi dei russi per corrompere, spiare e minare la stabilità mondiale“.
È ciò che fanno. Il popolo italiano deve sapere che, ci piaccia o no, siamo impegnati in una guerra che dirà molto sul futuro della democrazia nel Ventunesimo secolo. Se vogliamo che sopravviva, dobbiamo fare tutto il possibile per fermare tiranni come Putin».f
“La Russia si ritrova ormai in un angolo a causa dell’Ucraina e proverà a usare ogni mezzo anche la corruzione“
*intervista di Paolo Mastrolilli, corrispondente dagli USA de La Repubblica
Russia, altro che i regali di Putin: ecco il peccato originale della sinistra comunista. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 18 settembre 2022
Le simpatie che negli anni, a destra e a manca, si sono coltivate in favore del regime russo devono essere giudicate per quel che sono dal punto di vista di ciascuno: inoffensive o pericolose, scriteriate o ragionevoli, comprensibili o condannabili. Ma farne la materia di una specie di Mani Pulite transazionale e geopolitica - per combinazione in concomitanza con un appuntamento elettorale - rappresenta il solito trattamento italianamente imbecille e profondamente disonesto con cui si pretende di affrontare e risolvere una vicenda con etichettatura para-giudiziaria.
Per farsi un'idea del vignettista che raffigura il presidente degli Stati Uniti e Volodymyr Zelens' kyj con baffetti hitleriani e braccia fasciate di svastica non occorre verificare se la bella trovata ha ricevuto o no remunerazione. E quel giornalista democratico che descriveva l'operazione speciale come la cauta iniziativa di chi «punta sui suoi obiettivi, e intanto cerca di non spaventare la popolazione», propinava questa sua chicca - c'è da esserne sicuri- senza che fosse retribuita: e a farla condivisibile o infame non era la presenza o l'assenza del corrispettivo. E la pretesa di investigazione sulle cause interessate e monetizzate delle simpatie verso le gesta di quel regime ha poi questo doppio effetto pericoloso: che si va alla ricerca delle bustarelle dove verosimilmente non ci sono, magari tirando in mezzo chi non c'entra, e magari lasciando fuori chi non aveva bisogno nessun bisogno di riceverne. I comunisti italiani che ricevevano i soldi sporchi dell'aguzzino sovietico eran quel che erano a prescindere da quel rifornimento.
Felice Manti per il Giornale il 16 settembre 2022.
Dottor Jekill o Mister Hyde? Dove finisce l'Enrico Letta politico che vuole guidare (di nuovo) il Paese e dove inizia l'Enrico Letta lobbista? Domanda legittima che il Giornale pone al segretario Pd in campagna elettorale, finora senza risposta. Abbiamo ricostruito gli interessi e i legami di Letta con la Cina, solida alleata della Russia di Putin, attraverso la sua nomina nel Cda della holding del lusso cinese Liberty Zeta Ltd e nella società Tojoy, legata al presidente Xi Jinping di cui è stato co-presidente per l'Europa occidentale fino a marzo 2021.
Un intreccio di relazioni costruite nell'interregno tra l'addio di Letta alla politica con le dimissioni da parlamentare - dopo lo strappo su Palazzo Chigi orchestrato da Matteo Renzi col suo tweet #Enricostaisereno - e il suo rientro al Nazareno come salvatore della patria. Sette anni in cui si è dato da fare. Si chiama élite capture. Si assume o si coopta un ex politico in un'impresa privata che opera sotto le direttive di uno Stato straniero «in cambio delle loro conoscenze e a discapito degli interessi dei cittadini dell'Ue e degli Stati membri», scrive il Parlamento europeo che il 9 marzo scorso ha approvato la risoluzione contro «le ingerenze straniere in tutti i processi democratici nell'Ue», realizzate non solo attraverso i fantomatici rubli in nero ai partiti di cui parlano gli Usa ma soprattutto attraverso parcelle (e influenze) in chiaro.
Lo ha sottolineato anche il Copasir nella relazione del 19 agosto scorso.
Adesso che Letta è tornato a far politica, come si concilia il suo lobbismo filocinese, la tutela dell'Europa e la fedeltà al modello atlantico? Nel suo magico mondo è tutto ok, tutto si può conciliare.
Quando nel 2019 il ministro degli Esteri Luigi Di Maio spalancò le porte dell'Italia a Pechino, dall'esilio il leader Pd commentò: «Non c'è alcuna contraddizione tra la nuova Via della Seta, le regole europee e la fedeltà agli Stati Uniti». Ma solo se la fedeltà agli americani di cui parla Letta è quella ai paradisi fiscali, dal Delaware al New Jersey, in cui hanno sede le società per cui l'ex premier ha lavorato.
Che così fanno dumping a scapito del gettito italiano (6,4 miliardi di euro il danno calcolato) e danneggiano il made in Italy. Privilegi che a parole il politico Letta dottor Jekill vorrebbe abolire, mentre il lobbista Letta Mister Hyde ne approfitta. A quale dei due credere?
Poi c'è un potenziale conflitto d'interessi. In questi sette anni, lo scrive nel suo curriculum, Letta è stato advisor di Equanim, società francese che ha contribuito attraverso la controllata Usa a ripulire l'immagine del regime saudita di Mohammad bin Salman dopo l'omicidio del giornalista Usa Jamal Kashoggi e che ha tra i suoi clienti anche Facebook, Disney, Google, la Monsanto e i big della farmacia mondiale, da Astrazeneca a Bayer.
Ma ha anche lavorato nella società di head hunting Spencer Stuart, di cui di recente si è servito anche Mario Draghi. È stato nominato nell'advisory board di Amundi, società specializzata nell'asset management, controllata dal gruppo Credit Agricole che in Italia ha inglobato Cariparma e che potrebbe scalare Banco Bpm.
È stato advisor di Tikehau Capital, società che nel 2020 ha favorito un'operazione Italia-Cina attraverso l'acquisizione del 30% di un'azienda di motori elettrici e una linea di credito accordata da Cassa depositi e prestiti per sostenere gli investimenti in nuovi impianti e macchinari ad alta tecnologia per il mercato automotive cinese. C'è anche il Letta presidente dell'associazione Italia-Asean dietro?
Plausibile, ma non è questo il punto. Quando Letta dice che il mercato delle auto elettriche è il futuro parla il politico dottor Jekill o il lobbista Mister Hyde?
Soldi russi ai partiti. Il ricatto degli 007 americani all’Italia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Settembre 2022
È molto inquietante la vicenda delle rivelazioni-non-rivelazioni dei servizi segreti americani sui finanziamenti russi a 24 paesi stranieri. E quello che preoccupa di più non è la Russia ma l’America. Le ipotesi, evidentemente, sono solo due. O le rivelazioni sono false oppure sono vere. I servizi segreti americani non sempre sono attendibili, quindi l’ipotesi-bufala non è da escludere. Se invece le rivelazioni sono vere, se cioè gli americani possiedono le prove dei finanziamenti e se – come è molto probabile – alcuni di questi finanziamenti riguardano l’Italia (non è ragionevole che la Russia abbia finanziato paesi vari e non l’Italia) allora bisogna capire perché la notizia (che è vecchia di cinque anni) è uscita solo oggi, quanto ha a che fare con la guerra in Ucraina e quanto con le future elezioni italiane.
È probabile che se i finanziamenti russi ci sono stati, siano stati distribuiti, più o meno equamente, tra diversi partiti, forse tutti i principali partiti. Dunque sarebbe nelle mani degli americani la decisione di come usarle e contro di chi. Che le rivelazioni possano influire sul risultato elettorale è improbabile. Potrebbero però influire sulla formazione e la composizione del futuro governo, spingendo ad escludere dal governo i partiti che si decide di denunciare come fedeli a Mosca. Oppure, ipotesi ancora più inquietante, potrebbero essere usate come minaccia e ricatto verso alcuni partiti, o verso tutti i partiti, per assicurarsi una politica filoamericana, sia nelle scelte di politica esteri sia in quelle di politica economica. Gli americani probabilmente sono preoccupati dal probabile abbandono di Draghi, che era una garanzia per loro, e potrebbero aver deciso di prendere le contromisure. L’Italia si troverebbe in una condizione di ricatto.
Piero Sansonetti.
Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Ci sono dati sensibili sull’Italia: il report Usa sui soldi ai partiti secretato a Washington. Paolo Mastrolilli su La Repubblica il 15 Settembre 2022.
Esiste un rapporto del “National Security Council” classificato. Il Dipartimento: “Non daremo dettagli ma c’è preoccupazione sull’attività della Russia”
L’Italia c’è, nel dossier americano sulla corruzione russa nel mondo. E non poteva essere altrimenti, considerando i rapporti con Mosca costruiti negli ultimi decenni da diversi partiti rilevanti. Non è un segreto, del resto, che forze come Lega o M5S frenano apertamente sulle sanzioni alla Russia e le armi all’Ucraina.
Lo conferma a Repubblica una fonte molto autorevole, con diretta conoscenza dei fatti, che ne ha discusso con i vertici del dipartimento di Stato.
Anna Macina: “Fondi esteri, così nel 2018 fermammo lo strano emendamento del Carroccio”. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 14 Settembre 2022.
Intervista alla sottosegretaria alla Giustizia, ex 5 Stelle. Nella legge Spazzacorrotti c'era un comma che vietava i finanziamenti ai partiti da altri paesi. Ma la Lega propose di cancellarlo. "La richiesta era assurda"
La sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, ex 5 Stelle e oggi in Impegno civico, durante il governo Conte uno era capogruppo alla commissione Affari costituzionali della Camera. Lega e Movimento discutevano il varo della legge cosiddetta “spazzacorrotti”. Sono i giorni che seguono l’incontro moscovita del 18 ottobre 2018 tra Gianluca Savoini e misteriosi emissari vicini al presidente Putin.
FABIO TONACCI,GIULIANO FOSCHINI per la Repubblica il 16 settembre 2021.
Un dossier madre redatto a inizio anno, da cui è germinato un secondo dossier dato in pasto alle cancellerie dei più importanti paesi dell'Occidente. Per capire le fibrillazioni della campagna elettorale italiana delle ultime 48 ore - cominciate quando dagli Stati Uniti qualcuno ha voluto soffiare sulla brace del sospetto trasformandolo in un incendio - è necessario fare un salto indietro nel tempo e tornare a sette mesi fa, tra gennaio e febbraio del 2022, alla vigilia dell'invasione russa in Ucraina.
È allora che il National security council, il Consiglio per la sicurezza nazionale che consiglia e assiste l'inquilino della Casa Bianca, consegna nelle mani del presidente Joe Biden e al Dipartimento di Stato un corposo report (il "dossier madre"), che mette insieme informazioni confidenziali di intelligence, fonti aperte e dati raccolti dalle diverse amministrazioni del governo americano, prima tra tutti il dipartimento del Tesoro. È un lavoro che ha l'ambizione di disegnare la mappa dell'influenza occulta della Russia di Putin sugli Stati dell'Occidente, Europa compresa. Un paragrafo è dedicato anche all'Italia.
Il warning alle Cancellerie Sette mesi dopo, settembre 2022, il Dipartimento di Stato decide di informare 200 ambasciate in tutto il mondo dell'esistenza del dossier. Ne declassifica alcune parti, per segnalare ai governi esposti l'allarme interferenze russe. In Italia, Palazzo Chigi scopre dell'esistenza del dossier dalla stampa americana. Dopo due giorni di lavoro serrato a livello di intelligence e di diplomazia, a seguito di una telefonata tra Mario Draghi e il segretario di Stato, Antony Blinken, fornirà oggi alcune risposte certe: al Copasir, prima, per voce del sottosegretario Franco Gabrielli.
E poi alla stampa, con il premier in persona. Stando alle informazioni che gli americani hanno fornito fino a questo momento, diranno i due, non ci sono evidenze che la Russia abbia finanziato direttamente alcun partito politico o leader del nostro paese.
Il documento classificato Come detto, tutto comincia quindi sette mesi fa quando il National Security Council stila il lungo report classificato. Repubblica - in un articolo di Paolo Mastrolilli - ha rivelato ieri che si tratta di una combinazione di informazioni di intelligence, cablo diplomatici e notizie open source. Si ripercorrono fatti e circostanze che vanno tra il 2014 e il 2022: gli analisti americani mettono in fila una serie di operazioni compiute dai russi in diversi paesi occidentali ed europei. E anche in Italia, della quale si parla diffusamente.
Di ciò il nostro governo ha chiesto conto in queste ore ricevendo però un secco no. Lo chiede anche Draghi a Blinken, si apprende da fonti di governo italiane, spiegandogli la delicatezza della fase pre-elettorale, ma ottenendo in cambio un inevitabile: esiste, ma si tratta di informazioni classificate e dunque non divulgabili. Almeno al momento, è la chiosa. A sera, il Dipartimento di Stato fa anche sapere che «Blinken ha detto a Draghi che gli Stati Uniti non vedono l'ora di lavorare con qualsiasi governo uscirà dalle prossime elezioni».
Il documento pubblico Ma perché allora, se tutto è segreto, la questione diventa pubblica? Succede martedì 13 settembre quando un lancio della Associated Press parla dell'esistenza di un report (il secondo dossier, nato dal primo) nelle mani del Dipartimento di Stato americano che dà conto di finanziamenti del Cremlino tesi a influenzare partiti ed esponenti politici occidentali: si citano 300 milioni di euro, spesi a partire dal 2014 e confluiti in una una ventina di paesi, tra cui alcuni in Europa. È stato inviato da Blinken alle ambasciate americane di almeno duecento paesi.
In Italia nessuno del governo è stato avvisato. Gabrielli (Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica) chiede conto all'intelligence Usa di cosa stia accadendo. Si muove personalmente il numero uno dell'Aise, Giovanni Caravelli. Poche ore dopo alla Farnesina viene notificata la famosa annotazione. Si tratta di un testo generico che mette in allerta le ambasciate delle operazioni di influenza russa. È in sostanza una sintesi del "dossier madre" classificato.
Nel documento si fa riferimento a venti paesi in cui sono stati certamente compiuti investimenti russi per influenzare la politica interna. Ma l'Italia non c'è. A conferma della veridicità, l'ambasciata deposita alla Farnesina il cablogramma originale mandando in confusione il ministro degli Esteri, Luigi di Maio. Che parla di nuovi file in arrivo. Ma in realtà si tratta sempre dello stesso: una sintesi di quello originale.
Le ripercussioni politiche Con la telefonata a Draghi, Blinken circoscrive - almeno al momento - l'effetto della campagna Usa sugli equilibri italiani, a pochi giorni dalle elezioni. Il premier, invece, si garantisce la possibilità di non dover gestire un dossier - quello principale - che potrebbe potenzialmente chiamare in causa leader e partiti. Resta però un enorme punto interrogativo attorno al contenuto e alla forza delle rivelazioni del testo secretato. Sarà il nuovo esecutivo a dover lavorare con questa spada di Damocle pendente. Certamente finendo per esserne condizionato, visto che potrebbe essere declassificato in qualsiasi momento.
Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 15 settembre 2021.
C'è un documento che sembra la fotocopia del "cable" del segretario di Stato Blinken sulla corruzione russa, e include l'Italia. È il rapporto "Covert Foreign Money", scritto dall'Alliance for Securing Democracy del German Marshall Fund of the United States nell'agosto del 2020, quindi alla fine dell'amministrazione Trump.
L'autore principale è Josh Rudolph, Fellow for Malign Finance , che nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale si era occupato di coordinare il lavoro delle agenzie federali sulle sanzioni contro la Russia. La Lega e il caso Metropol occupano un ampio spazio in questo studio di oltre cento pagine, dove compare anche il Movimento 5 Stelle.
Ancora una volta quindi è la Casa Bianca repubblicana a mettere sotto la lente il partito guidato dall'alleato ideologico Matteo Salvini, attraverso questa analisi realizzata da un suo ex alto funzionario.
Il testo comincia così: «Oltre a strumenti più ampiamente studiati come attacchi informatici e disinformazione, i regimi autoritari tipo Russia e Cina hanno speso oltre 300 milioni di dollari per interferire nei processi democratici più di 100 volte in 33 paesi nello scorso decennio. La frequenza degli attacchi finanziari è aumentata in modo aggressivo, da due o tre all'anno prima del 2014, fino a 15 o 30 ogni anno dal 2016 in poi».
Sembra di leggere i rapporti di intelligence che hanno ispirato Blinken, a conferma di quanto bipartisan sia l'emergenza, con la differenza che qui si scende nei dettagli: 11 milioni di dollari a Marine Le Pen; 16 milioni stanziati dall'oligarca Oleg Deripaska per sovvenzionare il blocco europeo anti Nato, scoperti dai procuratori del Montenegro.
«Noi chiamiamo questo strumento di interferenza straniera "finanza maligna", definita come "il finanziamento di partiti politici stranieri, candidati, campagne, élite ben collegate o politicamente influenti, gruppi, spesso attraverso strutture non trasparenti progettate per offuscare i legami con uno stato nazione o i suoi delegati».
Quindi l'ex consigliere di Trump aggiunge: «Un 17% particolarmente aggressivo dei casi di finanza maligna non opera principalmente attraverso scappatoie legali. Gli esempi includono i profitti petroliferi russi destinati a finanziare la Lega in Italia».
Il rapporto rivela che il Cremlino pretende dagli oligarchi di «destinare parte delle loro ricchezze ad attività "patriottiche all'estero». Salvini ha sempre ripetuto di non aver mai ricevuto un rublo da Mosca, ma secondo il documento originato nei corridoi della Casa Bianca repubblicana il punto non è questo, perché ci sono «tre diverse sottocategorie di contributi stranieri a campagne, candidati e funzionari eletti: benefici tangibili, come prestiti finanziari o regali; servizi mediatici, come la manipolazione dei social media su misura; e informazioni preziose, come le ricerche sull'opposizione».
Il rapporto si concentra sul "Commodity enrichment", ossia «concedere ai donatori privilegiati lucrose posizioni nei mercati corrotti, oscuri e bizantini per le materie prime».
Ciò «può essere visto con tre esempi in Europa: il presunto contrabbando di diamanti dall'Africa, esportazioni scontate di petrolio in Italia, e transito di gas attraverso l'Ucraina».
Un altro strumento sono «le organizzazioni non profit, spesso segretamente sfruttate da poteri autoritari per trasferire finanziamenti agli attori politici; sovvenzionare i partiti che la pensano allo stesso modo; raggiungere specifici risultati politici o catturare le élite».
L'inchiesta inquadra la vicenda del Metropol in un mutamento strategico del Cremlino: «Prima del 2014, Putin aveva costruito legami politici con l'Europa occidentale attraverso capi di stato amichevoli come Schröder, Berlusconi e, in misura minore, Sarkozy». Ma «la sua convinzione che la Russia abbia "interessi privilegiati" per violare la sovranità nazionale delle sue precedenti conquiste imperiali si è rivelata fondamentalmente in contrasto con l'ordine del dopoguerra».
Perciò, deluso, «Putin ha iniziato a promuovere in modo aggressivo politici e partiti non tradizionali. Ciò era fatto in parte per sviluppare alleati alternativi, fungendo da organizzazioni di facciata che sostengono l'accettazione da parte occidentale delle politiche russe aggressive. Tuttavia, tali alleati possono anche essere visti come combattenti in una forma di guerra politica: beni umani acquistati e pagati, destinati a servire, consapevolmente o meno, come misure attive per destabilizzare il consenso liberaldemocratico».
Con questa logica si arriva al Metropol, che l'ex consigliere di Trump viviseziona nei dettagli: «Sembra che l'accordo sia stato scoperto dai giornalisti prima che fosse chiuso.
Se fosse stato completato, probabilmente sarebbe stato illegale, in quanto lo sconto sul prezzo di circa 130 milioni di dollari superava il limite di 100.000 euro per i contributi politici in Italia al momento».
Descrivendo il ruolo di Savoini da intermediario di Salvini, come Aleksandr Babakov, Vladimir Kornilov e Manuel Ochsen avevano fatto per Marine Le Pen, Thierry Baudet e Markus Frohnmaier, il rapporto nota che «ciò mostra come le relazioni del governo russo con l'estrema destra dell'Europa occidentale non siano più centralizzate all'interno del Kgb, come durante la Guerra Fredda, ma invece gestite da individui che sperano di impressionare il Cremlino».
Savoini è «lo sherpa di Salvini a Mosca. È presidente dell'Associazione Culturale Lombardia-Russia, domiciliata dal febbraio 2014 nella sede della Lega, che spinge costantemente la propaganda pro-Cremlino e ha legami con gruppi dell'estrema destra in Russia e in Europa. Il suo presidente onorario è Alexey Komov, rappresentante russo del Congresso mondiale delle famiglie, che funge da collegamento con Konstantin Malofeev». Il rapporto ricorda gli incontri di Savoini con Alexander Dugin, definito «l'ideologo fascista di Putin».
Così si arriva al 17 ottobre 2018, quando Salvini va a Mosca, partecipa ad una conferenza, «e poi secondo quanto riferito esce da una porta laterale per vedere segretamente il vice primo ministro russo Dmitry Kozak, uomo del circolo ristretto che sovrintende al settore energetico. L'incontro tra i due avrebbe avuto luogo nell'ufficio di Vladimir Pligin, potente membro del Partito Russia Unita di Putin con stretti legami con Kozak».
Savoini la mattina dopo partecipa all'incontro al Metropol con Ilya Andreevich Yakunin, che rappresenta Pligin, Andrey Yuryevich Kharchenko, che lavora per Dugin, e un terzo uomo identificato come Yuri. La delegazione italiana comprende Gianluca Meranda, che rappresenta la banca d'investimenti Euro-IB e dovrebbe fare da intermediario tra Rosneft ed Eni, che ha negato qualsiasi ruolo.
Poi c'è «Francesco Vannucci, che sembra essere il responsabile dei meccanismi per incanalare lo sconto concordato del 4% sul prezzo alla Lega tramite gli intermediari ». Il resto lo raccontano le registrazioni dell'incontro, dove si parla di fornire diesel e kerosene russo a prezzi di favore. Il rapporto dice che i negoziati erano continuati fino a febbraio, e non erano andati a buon fine solo perché i media li avevano rivelati. Quindi cita anche i documenti del giornale spagnolo ABC sui presunti 3,5 milioni di euro regalati nel 2010 dal Venezuela a M5S.
Il consigliere di Trump però non chiude qui la sua analisi, passando alla legge "Spazzacorrotti": «L'incontro a Mosca si è svolto il 18 ottobre 2018. All'epoca, l'unico limite ai finanziamenti esteri delle elezioni italiane era di 100.000 euro. Tuttavia il partner della coalizione della Lega (M5S ndr) stava spingendo una nuova legge anticorruzione che vietava completamente il finanziamento estero di partiti e candidati italiani. Nelle settimane successive all'incontro di Mosca, nove deputati della Lega hanno proposto un emendamento che avrebbe rimosso il divieto. Il testo è stato infine ritirato e la legge anticorruzione contenente il divieto di finanziamento estero è stata approvata nel dicembre 2018.
La Lega però è riuscita alla fine ad indebolire le restrizioni nell'aprile 2019. In quell'occasione ha aggiunto una disposizione in un disegno di legge economico non correlato, che ha modificato la legge in modo da escludere "fondazioni, associazioni e comitati" dal suo campo di applicazione », come rivelato da Repubblica. Ora però gli analisti americani si chiedono: l'obiettivo era consentire agli italiani emigrati di fare donazioni politiche, oppure riaprire la porta alle ingerenze appena denunciate da Blinken?
Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 15 settembre 2021.
Un finanziamento nascosto dietro un'operazione commerciale, destinato alla Lega attraverso intermediari e società autonome vicine al Carroccio. Fondi per sostenere il partito alle elezioni, per prime le Europee 2019. Se c'è una storia che rispecchia il meccanismo - svelato ieri dall'intelligence Usa - dei trecento milioni russi arrivati negli anni a politici e candidati di Paesi stranieri, questo è lo schema Metropol. O meglio, il "sistema Savoini".
Quello teorizzato dall'ex portavoce di Matteo Salvini e fondatore dell'associazione Lombardia-Russia, seduto al tavolo del lussuoso albergo moscovita, il 18 ottobre 2018, insieme agli altri cinque protagonisti di una trattativa che avrebbe dovuto portare nelle casse leghiste circa 65 milioni di dollari.
Il livello "superiore" del patto Una fornitura da oltre un miliardo di dollari di gas dal colosso petrolifero Rosneft su cui la procura di Milano indaga da almeno tre anni, da quando l'incontro è stato svelato dall'Espresso , prima che la testata americana Buzzfeed pubblicasse anche l'audio della trattativa. Indagini finite nel vicolo cieco di una probabile richiesta di archiviazione, il prossimo dicembre, da parte dei pm di Milano Giovanni Polizzi e Cecilia Vassena.
Le rogatorie inviate a Mosca per chiarire il ruolo dei tre russi del Metropol e anche il silenzio dei tre italiani opposto alle domande dei pm e degli investigatori della Guardia di Finanza di Milano hanno impedito di scavare e ricostruire il tentativo di finanziamento milionario. Anche se dai cellulari sequestrati sono emersi i rapporti con il livello politico superiore che garantiva la trattativa coi russi.
"Europa vicina alla Russia" A cosa servisse quel denaro, però, lo spiega proprio Savoini, registrato al Metropol. «È molto importante che in questo periodo storico e geopolitico l'Europa stia cambiando - dice - Il prossimo maggio ci saranno le elezioni europee. Vogliamo cambiare l'Europa. Una nuova Europa deve essere vicina alla Russia come prima, perché vogliamo avere la nostra sovranità (..) Vogliamo davvero iniziare ad avere una grande alleanza con questi partiti che sono pro Russia, ma non pro Russia per la Russia ma per i nostri paesi».
Savoini parla nella hall del grande albergo. Seduti con lui ci sono l'avvocato Gianluca Meranda e il broker finanziario Francesco Vannucci, che avrebbero dovuto occuparsi degli aspetti tecnici di un'operazione naufragata dopo la pubblicazione degli articoli. I tre italiani sono indagati per corruzione internazionale.
Dall'altro lato i tre russi Ilya Yakunin, Yury Burundukov, Andrey Kharchenko. Il filo diretto Lega-Cremlino Tutti e tre i russi sono vicinissimi alle stanze del potere di Mosca. Ilya Yakunin è legato all'avvocato e parlamentare Vladimir Pligin e al ministro dell'Energia Dmitry Kozak; Yury Burundukov è un fedelissimo dell'oligarca Konstantin Malofeev; Andrey Kharchenko è un ex agente dei servizi segreti russi, vicino - come Yakunin - a Aleksandr Dugin, il filosofo russo scampato a fine agosto a un attentato in cui ha perso la vita sua figlia. Di Dugin parla proprio Savoini al Metropol. «Abbiamo creato questo triumvirato, io, te e lui, che deve lavorare in questo modo - dice a Miranda - Solo noi tre.
Un compartimento stagno. Anche ieri Aleksander ha detto che la cosa importante è che siamo solo noi tre.
Tu, io, rappresentiamo il collegamento con entrambi, l'italiano e il loro "lato politico", e tu - con me - siete i miei partner. Solo noi. Tu, Francesco e io. Nessun altro».
Anche Salvini a Mosca Ma c'è di più. Poche ore prima della trattativa al Metropol, anche Matteo Salvini - in quel momento vicepremier e ministro degli Interni - è a Mosca. Al Lotte Plaza Hotel, nel centro della capitale russa, prende la parola al convegno di Confindustria Russia. «Io qua mi sento a casa mia, in alcuni Paesi europei no», dice alla platea di imprenditori, diplomatici e politici russi. Tra di loro anche l'allora vicepremier e ministro dell'Energia russo Dmitry Kozak, che all'incontro con i tre italiani al Metropol aveva come suo uomo Yakunin. Dopo il convegno, è la sera prima della trattativa sul gas russo, Salvini e Kozak avrebbero avuto un incontro riservato nello studio di Pligin. Anche su questo i pm hanno indagato a lungo, convocando a Milano una giornalista russa, Irina Afonichkina, che sarebbe stata presente al vertice.
I soldi per la campagna Il giorno dopo è Meranda che riassume i termini dell'accordo raggiunto coi russi. «L'idea, come concepita dai nostri ragazzi politici, è che con uno sconto del quattro per cento, 250.000 più 250.000 al mese per un anno, possono sostenere (mandare avanti) una campagna». Poi uno dei russi fa riferimento a una «commissione» che potrebbe essere garantita ai tre italiani. «Perché no? - risponde Miranda - . Ma sai, finora non è una questione professionale, è solo una questione politica. Quindi noi non contiamo lui non conta di farci dei soldi. Contiamo di sostenere una campagna politica, che è di beneficio direi di reciproco vantaggio per i due Paesi».
Estratto dell’articolo di Stefano Vergine per “il Fatto quotidiano” il 16 settembre 2022.
"Il governo americano ha detto che prevede l'arrivo da Mosca di altre centinaia di milioni di dollari nei prossimi mesi. Siccome il rapporto in questione […] non riguarda gli Stati Uniti e quindi sono escluse le elezioni di medio termine, mi chiedo: cos' altro succederà di importante nel mondo nei prossimi mesi se non le elezioni italiane?".
Josh Rudolph […] è l'autore di uno studio che due anni fa anticipava il tema emerso con le recenti dichiarazioni della Casa Bianca. In passato è stato consigliere del governo Usa con Obama, Trump e Biden.
[…] I suoi calcoli su che tipo di informazioni si basano?
Sono basati su articoli di giornalismo investigativo pubblicati nei Paesi dove questi fatti sono accaduti. Li abbiamo analizzati, abbiamo valutato la credibilità dei media. Così abbiamo ricostruito 120 casi.
Quindi questi 300 milioni non sono necessariamente arrivati a destinazione?
Per lo più i soldi sono arrivati, ma nel rapporto sono incluse anche vicende come quella della Lega e del Metropol, in cui non abbiamo prove che il denaro sia giunto a destinazione, anche perché la notizia è uscita sui giornali quando la trattativa era in corso.
[…] Quali sono state le operazioni condotte in Italia?
Il caso più evidente è quello del Metropol Hotel. Dai miei calcoli il finanziamento promesso era di 130 milioni di dollari. Nel report ho incluso anche la notizia, riportata dalla testata spagnola Abc, di 3,5 milioni di dollari del Venezuela al M5S.
Notizia smentita dall'ex capo dei servizi segreti venezuelani, poi uscito dal Paese. Ritiene affidabile il rapporto Usa?
È credibile: la mia ricerca è arrivata alla stessa conclusione.
Certo, gli anni presi in considerazione sono leggermente diversi: i calcoli dell'intelligence vanno dal 2014 al 2022, i miei dal 2010 al 2020, ma c'è da dire che il governo Usa ha accesso a documenti classificati.[…]
DAGOREPORT il 16 settembre 2022.
E’ chiaro che non sia stato un caso il rapporto dell’intelligence statunitense che rivela i 300 milioni di finanziamenti russi a forze politiche in due dozzine di paesi, allo scopo di influenzare e interferire nei loro processi politici. Una bomba, per i nostri Salvini, a undici giorni dalle elezioni.
In attesa che il segretario di Stato Antony Blinken, gran frequentatore dei salotti parigini (ha studiato in Francia) scodelli la lista, la caccia ai nomi beneficiati da Mosca, è cominciata.
Oltre ai putiniani risaputi come Marine Le Pen e Orban, da fonti autorevoli Dagospia apprende che il primo nome della lista è quello di Jimmie Akesson, leader dei Democratici Svedesi, nati dalle ceneri dei neonazisti, con una solida alleanza con Fratelli d'Italia all'Europarlamento.
In mezzo c’è l’Italia, starring la Lega. A partire da Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Matteo Salvini, dominus dell’operazione petrolifera del Metropol di Mosca, accusato di aver fatto da tramite per far arrivare alla Lega un finanziamento illecito da 65 milioni di euro dalla Russia di Vladimir Putin. A proposito, che fine hanno fatto le indagini del tribunale di Genova su Savoini? E’ stato prosciolto? E’ ancora sotto indagine? Non si sa nulla.
Sottolineano Giuliano Foschini e Tommaso Ciriaco oggi su “la Repubblica”: “Il nodo dei rapporti tra i russi e Matteo Salvini era stato sollevato pochi giorni fa su Repubblica da un'ex analista della Cia, Julia Friedlander, ai tempi di Trump consigliere per l'Europa nell'Office of Terrorism and Financial Intelligence del dipartimento al Tesoro e dal 2017 al 2019 Director for European Union, Southern Europen and Economic Affairs al Consiglio per la Sicurezza Nazionale”.
"Penso che Matteo Salvini abbia un interesse politico personale nel suo rapporto con la Russia. Assolutamente", afferma la Friedlander. E aggiunge: “Il problema è che non è facile tracciare questi collegamenti economici. Usano le shelf company, compagnie inattive che offrono donazioni alle campagne politiche, o lobbisti informali che spingono certi contratti, che riflettono gli interessi russi. Quindi è difficile provare che il Cremlino abbia staccato un assegno per Marine Le Pen, ma è interessante studiare connessioni e intermediari".
Dagospia il 16 settembre 2022. Riceviamo e pubblichiamo da Gianluca Savoini, in riferimento all’articolo
Quanto affermato nell'articolo pubblicato sul sito internet di Dagospia il 14 settembre 2022 è privo di qualsivoglia fondamento. Il dott. Gianluca Savoini non ha infatti mai percepito alcun finanziamento da Mosca, né in proprio, né per conto della Lega". Resta inteso che il dott. Savoini si riserva comunque di agire in giudizio in ogni competente sede per i gravissimi danni reputazionali che ha subito e sta tuttora subendo in seguito alla pubblicazione oggetto di contestazione e alla permanenza online della stessa.
Prendiamo atto della rettifica che ci ha inviato Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini, ma precisiamo altresì che non abbiamo mai scritto, né ci saremmo sognati di farlo, che ha “percepito” finanziamenti da Mosca. Semplicemente, come hanno scritto più volte molti altri organi di stampa, (per citarne solo alcuni, “l’Espresso”, “Domani”, “Repubblica”, “Stampa”), ci siamo limitati a riportare che è stato coinvolto nell’operazione Metropol.
Ecco il passaggio “incriminato” del nostro Dagoreport: “A partire da Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Matteo Salvini, dominus dell’operazione petrolifera del Metropol di Mosca, accusato di aver fatto da tramite per far arrivare alla Lega un finanziamento illecito da 65 milioni di euro dalla Russia di Vladimir Putin. A proposito, che fine hanno fatto le indagini del tribunale di Genova su Savoini? E’ stato prosciolto? E’ ancora sotto indagine? Non si sa nulla”. Dove avremmo scritto che ha percepito finanziamenti da Mosca?
Dagospia il 15 settembre 2021. LE TANTE VITE DEL GRILLINO MANLIO DI STEFANO – NEL 2016 VOLAVA IN RUSSIA PER BACIARE LA PANTOFOLA DI PUTIN SOSTENENDO CHE “L'UCRAINA FOSSE UNO STATO FANTOCCIO DEGLI USA” MA DOPO UN RUSSO RISVEGLIO L'EX PUTINIANISSIMO SOTTOSEGRETARIO DEGLI ESTERI ORA È DIVENTATO IL MIGLIORE AMICO DI BIDEN E RILANCIA LA PROPOSTA DI INSTITUIRE UNA COMMISIONE D’INCHIESTA CHE INDAGHI I RAPPORTI TRA RUSSIA E PARTITI ITALIANI (INIZIAMO DA LUI?) - MA IL WEB NON DIMENTICA IL SUO PASSATO E LO SPERNACCHIA
Manlio di Stefano per blogdellestelle.it (28 giugno 2016)
Ne ha parlato la stampa di tutto il mondo e, in Italia, solo il Corriere della Sera. Domenica ho avuto il piacere di rappresentare il M5S al congresso di Russia Unita, il partito di Putin. Erano presenti circa 40 delegazioni internazionali delle quali solo 10 hanno avuto parola, io sono stato il quarto in assoluto e l’unico italiano. Sinceramente ho apprezzato questo segnale. Noi, che ad oggi rappresentiamo solo una forza di opposizione, abbiamo avuto parola prima o al posto di vice presidenti di Parlamento e segretari di partiti di maggioranza.
Evidentemente in Russia hanno già capito che siamo prossimi al Governo se ci danno tutto questo peso e hanno apprezzato un lavoro onesto e sincero in questi due anni contro le sanzioni imposte dalla UE. Qualcuno pensava che fossi andato a inchinarmi ai piedi del potente di turno come hanno sempre fatto i nostri politici, oggi in USA domani in Russia dopo domani chissà, invece no, sono andato a ribadire che il nostro unico obiettivo è difendere gli interessi nazionali italiani.
Per farlo dobbiamo immediatamente bloccare le sanzioni alla Russia e intraprendere un dialogo sull’antiterrorismo. Credo abbiano apprezzato la fierezza e chiarezza con cui ho pronunciato la frase “noi non siamo né filo russi né filo statunitensi, siamo filo italiani” spiegando cosa significhi dover ristabilire una serie di relazioni, convenienti per l’Italia, interrotte per via della miope sudditanza a forze esterne.
Non ho potuto fare il video del mio intervento per questioni logistiche ma ho registrato l’audio e, in massima trasparenza, vi invito ad ascoltarlo. Una politica estera differente è possibile, puntare ad una vera sovranità è possibile, serve solo una classe politica degna e fiera. Noi lo siamo. Ed è solo questione di tempo…
Manlio di Stefano per ilblogdellestelle.it (12 gennaio 2017)
Bassezze e scorrettezze fanno parte della quotidianità politica nazionale e, in fondo, ogni Paese si piange le sue. Quando però la voglia di pestare i piedi al tuo successore mette a rischio la stabilità di altri popoli, allora occorre prestare attenzione.
Mi riferisco, in particolare, al Presidente uscente Obama ed al suo patetico addio alla presidenza americana fatto di sgambetti a Trump di cui l’ultimo, però, rischia di essere molto pericoloso per l’Europa tutta.
87 carri armati, obici semoventi e 144 veicoli da combattimento Bradley sono stati scaricati pochi giorni fa nel porto tedesco di Bremerhaven e, nelle prossime settimane, si aggiungeranno oltre 3.500 truppe della 4° Divisione di Fanteria di Fort Carson, una brigata di aviazione da combattimento che “vanta” circa 10 Chinook, 50 elicotteri Black Hawk e 1.800 membri del personale da Fort Drum nonché un battaglione con 24 elicotteri d’attacco Apache e 400 membri del personale da Fort Bliss, tutti destinati all’Est Europa come riporta l’Independent.
Si tratta del più grande trasferimento di armamenti e truppe americane in Europa dalla caduta dell’Unione Sovietica.
L’obbiettivo? Militarizzare l’Europa orientale con lo scopo, dichiarato, di “sostenere un’operazione della NATO per scoraggiare l’aggressione russa“, la cosiddetta “Operazione Atlantic Resolve” nata dopo la crisi ucraina.
Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia si sentono “minacciate” dalla Russia e Obama che fa? Come un giocatore di Risiko preso dalla smania di conquistare la Kamchatka decide di sommergerci di carri armati.
Sia chiaro, Obama dopo due mandati sa perfettamente che non sarà la Russia di Putin a fare il primo passo per destabilizzare ancora di più l’est Europa e i Paesi Baltici e allora, l’unica ragione plausibile, è la stessa che accompagna da settimane questa triste chiusura di sipario su Obama: minare la ripresa dei rapporti tra Stati Uniti d’America e Russia, destabilizzare i rapporti tra Trump e Putin.
Ci ha provato cacciando i 35 ambasciatori russi dagli USA, ci ha provato con la storia dello spionaggio russo contro la Clinton, ci ha provato con la gigantesca bufala del ricatto su Trump e le prostitute russe (generato dall’area mediatica e di intelligence sotto l’influenza dei democratici) e ci prova, adesso, portando la tensione militare alle stelle ai confini con la Russia.
Ad oggi Trump, fortunatamente, ha rassicurato gli animi e parlato di ottime relazioni con la Russia e di stupidità da parte di chi alimenta tensioni e odio e, sinceramente, aspettiamo con ansia il 20 Gennaio per capire se alle parole seguiranno i fatti.
Da tempo la NATO (tanto per non dire gli Stati Uniti?) sta giocando con le nostre vite. Vite che hanno già conosciuto due guerre mondiali e sanno cosa si provi ad essere un vaso di coccio tra due d’acciaio.
Il M5S si oppone da sempre a questa immonda strategia della tensione e chiede, con una proposta di legge in discussione alla Camera dei Deputati, che la partecipazione italiana all’Alleanza Atlantica sia ridiscussa nei termini e sottoposta al giudizio degli italiani.
Il nostro territorio, le nostre basi, i nostri soldati (che saranno inviati in Est Europa) e la salute dei nostri connazionali non possono essere ostaggio di giochi di potere e degli umori del presidente americano di turno.
Rapporto intelligence Usa sui finanziamenti russi ai partiti europei, Urso: «Non c’è notizia dell’Italia». VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 14 settembre 2022
Il Washington Post martedì ha rivelato che la Russia avrebbe segretamente finanziato per almeno 300 milioni di dollari partiti e candidati politici stranieri in più di due dozzine di paesi. La Lega ha dato «mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini». Fratelli d’Italia chiede la lista dei nomi
Il Whashington Post martedì ha rivelato che la Russia avrebbe segretamente finanziato per almeno 300 milioni di dollari partiti e candidati politici stranieri in più di due dozzine di paesi dal 2014 nel tentativo di influenzare la politica. Il quotidiano statunitense cita un documento dei servizi segreti commissionato quest’estate dall'amministrazione del presidente degli Stati uniti Joe Biden che spiega come Mosca abbia pianificato di spendere altre centinaia di milioni di dollari nella sua campagna segreta per indebolire i sistemi democratici e promuovere le forze politiche di tutto il mondo viste come allineate con gli interessi del Cremlino.
Il presidente del Copasir Adolfo Urso ha detto di essersi confrontato con i servizi italiani: «Mi sono confrontato con l'Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica Franco Gabrielli» sul rapporto «e al momento non esistono notizie che ci sia l'Italia» tra i paesi coinvolti. Palazzo Chigi non commenta, a quanto risulta a Domani non avrebbe ancora informazioni di dettaglio.
I NOMI
Un alto funzionario statunitense ha spiegato alla stampa che il governo ha deciso di declassificare alcuni dei risultati del file nel tentativo di contrastare le influenze del presidente russo Vladimir Putin nei sistemi politici nei paesi europei, Africa e altri. Negli schemi di finanziamento sarebbero stati coinvolti i due oligarchi Yevgeniy Prigozhin e Aleksandr Babakov. Nessun nome di stati coinvolti e di politici è stato fatto, ma gli Usa hanno inviato il report al oltre cento delle loro ambasciate.
LEGA
Nel passato della Lega pesa il caso del Metropol, quando Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini, come rivelato dall’Espresso nel 2019 trattò per un finanziamento da parte di Mosca attraverso una partita di gasolio da vendere alla compagnia italiana Eni.
Matteo Salvini si è a più riprese dimostrato amichevole con il Cremlino e negli anni passati, quando non ricopriva incarichi di governo, ha personalmente incontrato Vladimir Putin con la mediazione di Claudio D’Amico, oggi consigliere leghista a Sesto San Giovanni e in rapporti d’affari con Mosca.
L’ultimo capitolo che ha fatto discutere sono stati il mancato viaggio a Mosca che il leader della Lega stava organizzando a maggio con il consulente Antonio Capuano e gli incontri con l’ambasciatore russo Sergej Razov senza avvisare Palazzo Chigi. Di fronte a queste circostanze, dopo le rivelazioni di Washington il leader della Lega ha immediatamente minacciato querele: «L’unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino è stato prima il Partito Comunista Italiano e in epoca recente la Repubblica (il quotidiano) che per anni ha allegato la rivista “Russia Oggi”».
La Lega «ha dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini come è già accaduto in alcuni contesti televisivi con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci. Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta», recita una nota del partito divulgata mercoledì sera.
Il leader della Lega intervistato da Rtl dice di non aver ricevuto denaro: «Mai presi rubli, euro o altro». Da Mosca, ha detto, «ho portato solo una cosa di Masha e Orso per mia figlia».
FRATELLI D’ITALIA
«Ora il ritornello costante è che anche Fratelli d'Italia abbia ricevuto qualche aiuto», ha detto a Repubblica Kurt Volker, ex ambasciatore Usa alla Nato col presidente Bush e inviato speciale per l'Ucraina con Trump: «Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l'Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fratelli d'Italia da voi». Per il fondatore del partito di Giorgia Meloni Guido Crosetto ricevere soldi da Putin è «alto tradimento». Meloni a Radio 24 ha detto sui soldi che «penso che non risulterà, sono mesi che sentiamo dire cose e poi non c'è niente».
IL COPASIR
In questa situazione, il Pd torna a chiedere l’intervento del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che opera in Parlamento. Il segretario del Pd Enrico Letta lo ha sottolineato con un tweet: «Gli italiani devono sapere i nomi prima del voto».
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Giovanni Tizian per “Domani” il 15 settembre 2021.
Alle tre e mezza del pomeriggio del 13 settembre il quotidiano americano Washington Post pubblica la notizia destinata a provocare molte ore più tardi un terremoto nella politica italiana. Titolo: «La Russia ha speso milioni per finanziare partiti e politici stranieri in tutto il mondo». La fonte della notizia è un documento desecretato dall'amministrazione Biden e ormai solo classificato come "sensibile".
I milioni di cui si parla sono circa 300. Un numero che ritorna in un report del 2020, letto da Domani, sui finanziamenti coperti messi sul piatto da Russia, Cina e paesi arabi, destinati all'Europa e al resto del mondo. Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha inviato a oltre cento paesi il dossier, che sarebbe approdato anche presso alcuni governi europei. Quali? Non è dato saperlo. Chi sono i leader coinvolti? La risposta è la stessa, nessun nome, nessun riferimento concreto.
Almeno pubblicamente, perché un elenco esiste ma è stato consegnato ai paesi interessati. L'Italia per ora non è compresa, questo dicono da palazzo Chigi, salvo poi specificare: «Le segnalazioni da parte degli Stati Uniti non è detto che siano concluse e che sia escluso che possano arrivare entro venerdì poiché il lavoro dell'intelligence americana è ancora in corso e le segnalazioni per vie diplomatiche vengono fatte solo quando si ritiene certa l'azione russa».
Sulla stessa linea il Copasir, il comitato di sorveglianza parlamentare sull'attività dei nostri servizi segreti. «Nessuna notizia che riguarda l'Italia, ma le cose possono cambiare», ha dichiarato il presidente dell'organismo di controllo, Adolfo Urso. Il Copasir ha comunque convocato una riunione sul tema venerdì 16 settembre. Alla notizia sono seguite le reazioni dei leader nostrani, alcune scomposte non sono mancate a destra, dove si trovano i principali sospettati di vicinanza a Putin.
La Lega in particolare, che ha gridato al complotto. Matteo Salvini ha definito «fake news» la faccenda e ha promesso querele contro chi osa accostare il nome Lega a finanziamenti occulti del Cremlino. Curiosa reazione, nel documento finora non è citato né lui né il suo partito.
Il leader leghista ha messo le mani avanti, perché sa bene che la storia recente dei suoi rapporti con Mosca non svanisce così all'improvviso. È certo che il suo partito sarà il primo sospettato. Sospetti, legittimati dai fatti accaduti in questi ultimi anni, che ricadono sul suo partito prima di altri per motivazioni concrete, per eventi documentati quando lui era da poco al governo con i Cinque stelle.
Come i suoi fedelissimi beccati con le mani nella ciotola russa dei soldi destinati ai sovranisti europei. Fatti, appunto, per i quali Salvini non ha mai neppure denunciato i giornalisti autori dello scoop sul caso Metropol, l'hotel di Mosca dove il 18 ottobre si è tenuta la trattativa tra l'ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, e una banda di tre russi (tutti legati a oligarchi e politici vicini a Putin) durante la quale hanno negoziato un finanziamento alla Lega per sostenere la campagna elettorale delle europee 2019.
Uno schema usuale
Finanziamento milionario mascherato con un'operazione di compravendita di milioni di tonnellate di gasolio. Schema che viene citato anche dall'intelligence americana come usuale nei metodi usati dalle truppe di Putin per elargire soldi agli amici politici della Russia in giro per il mondo.
Questo schema del sostegno elettorale camuffato da scambio commerciale, emerso per la prima volta pubblicamente con il negoziato del Metropol, prevede l'utilizzo di società estere fittizie attraverso le quali far transitare la somma ufficiale e quella destinata allo scopo politico dell'operazione.
Quel 18 ottobre con Savoini si è parlato anche di questo aspetto. Un caso scuola potremmo definirlo, seppure la transazione non sia avvenuta. L'esperta di intelligence Julia Friedlander, in una recente intervista, cita le «shelf company» per un quali strumento per veicolare soldi russi verso gruppi politici dell'Unione.
Si tratta di società cartiere, di comodo o dormienti, create in uno stato estero rispetto all'obiettivo da finanziare. Friedlander, alto funzionario di stato con Donald Trump, è stata analista della Cia, consigliere per l'Europa nell'Office of Terrorism and Financial Intelligence del dipartimento al Tesoro, e dal 2017 al 2019 direttrice per l'Europa al consiglio per la sicurezza nazionale. Friedlander nel dialogo con La Repubblica ha parlato espressamente di Lega e Salvini, il quale sulla Russia «penso abbia un interesse politico personale... Ci sono connessioni ideologiche, ma anche obiettivi economici», ha detto.
Otto giorni dopo l'intervista, ecco la notizia sui milioni distribuiti dalla Russia a partiti e leader di tutto il mondo pubblicata dal Washington Post. E che in Italia ha avuto più eco rispetto ad altri paesi proprio perché tra una settimana si terrà il voto che deciderà il prossimo governo, con la destra unita data in netto vantaggio dai sondaggi. In questa coalizione c'è la Lega, la principale indiziata non da oggi ma dall'inizio dell'era Salvini (2013) di avere stretto con Mosca un rapporto che va oltre la condivisione di ideali comuni.
Il manifesto del Metropol
Per capire il motivo di tanta attenzione internazionale sulle ingerenze russe in Italia è necessario partire ancora una volta dal Metropol e da Savoini seduto al tavolo con gli uomini vicini al presidente Putin. L'ex portavoce di Salvini è chiamato in Russia il consigliere di Matteo pur non ricoprendo già all'epoca ruoli ufficiali nel partito.
Savoini prima di entrare nel clou dei dettagli tecnici della trattativa ha pronunciato parole che diventano una sorta di manifesto politico dell'incontro segreto, fanno da cornice ideale allo scambio commerciale dietro il quale si celava un finanziamento reale: «La nuova Europa deve essere vicina alla Russia. Non dobbiamo più dipendere dalle decisioni di illuminati a Bruxelles o in Usa. Vogliamo cambiare l'Europa insieme ai nostri alleati come Heinz-Christian Strache in Austria, Alternative für Deutschland in Germania, la signora Le Pen in Francia, Orbán in Ungheria, Sverigedemokraterna in Svezia».
Attenzione alle sigle dei partiti nominati: sono quasi tutti stati coinvolti in scandali con alla base fondi russi. Va ricordato, inoltre, che un anno prima (2017) La Lega aveva siglato un patto politico con il partito di Putin, Russia Unita. Accordo di collaborazione ancora in vigore. Nel discorso introduttivo, in pratica, l'uomo di Salvini garantisce ai russi che solo i sovranisti, di cui la Lega è in quel momento forza trainante in Europa, possono cambiare gli equilibri.
In altre parole destabilizzare l'Unione, secondo i desideri e le strategie del presidente Putin. Dopo aver presentato il manifesto sovranista-leghista, Savoini ha lasciato la parola ai tecnici italiani e russi seduti al tavolo del Metropol. Iniziava così la trattativa vera e propria, fatta di cifre e luoghi, sconti sul carburante e società estere tramite le quali far passare i soldi.
Tre anni prima del Metropol, invece, è accaduto un fatto curioso. Come raccontato da Domani nei mesi scorsi, c'è stato uno strano giro di contanti, segnalato dall'antiriciclaggio italiano, che ha riguardato un alto funzionario dell'ambasciata russa nei giorni in cui Putin era in visita a Milano e ha incontrato il leader della Lega, accompagnato da Savoini.
Si trattava di un prelievo in banca di 125mila euro, giustificato dal diplomatico russo con la necessità di soddisfare le esigenze della delegazione in arrivo da Mosca per il vertice nel capoluogo lombardo il 17 ottobre 2014. Quel giorno Salvini ha incontrato Vladimir Putin. Un saluto rapido, un caffè al volo dopo un importante convention sull'Eurasia.
Forse il primo incontro tra il capo della Lega e il presidente della federazione russa. È interessante il nome del funzionario dell'ambasciata che ha ritirato i contanti per la delegazione russa: Oleg Kostyukov. Lo stesso che in questi mesi ha curato le relazioni con Matteo Salvini e il suo consulente improvvisato, Antonio Capuano, l'avvocato di Frattaminore (Napoli), che ha accompagnato il capo leghista durante gli incontri segreti con l'ambasciatore di Putin a Roma per parlare del piano di pace in salsa sovranista.
Marine e Vladimir
È interessante da analizzare il periodo in cui i russi sostengono, o tentano di farlo, i sovranisti europei. Savoini organizza decine di incontri prima del Metropol a partire dal maggio precedente con un oligarca di nome Konstantin Malofeev, rappresentato da un suo emissario al tavolo dell'hotel moscovita e artefice di alleanze tra Cremlino e destre europee. In quel periodo la Lega aveva fatto il pieno di voti, aveva il vento in poppa, si apprestava ad andare al governo dell'Italia.
Era di fatto il primo partito dichiaratamente sovranista al governo di un paese fondatore dell'Unione Europea. Il più importante e forte nel 2018. Quattro anni prima lo scenario era decisamente diverso. La Lega era una forza residuale, Salvini era diventato segretario da un anno e la metamorfosi sovranista era appena cominciata. All'epoca all'apice dell'ascesa c'era Marine Le Pen con il Front national, che stava riorganizzandosi in vista delle elezioni del 2017 con sondaggi molto favorevoli sopra il 30 per cento.
Perciò al tempo se il Cremlino doveva sostenere un partito anti europeista con buone possibilità di vittoria, questo era sicuramente il Front national. A fine novembre 2014 la testata francese Mediapart pubblica lo scoop sul prestito da 9 milioni di euro dato al Front national dalla First Czech Russian Bank. Le Pen si era giustificata seguendo il protocollo caro ai sovranisti, il vittimismo: «Nessuna banca francese ce lo avrebbe concesso».
Aggiungendo che il denaro non ha influenzato le sue posizioni politiche. Di certo in Europa Le Pen, insieme a Salvini, la più strenua paladina della Russia e di Putin. La banca aveva accordato il finanziamento dopo l'inizio delle ostilità in Ucraina e nello stesso periodo Le Pen aveva annunciato di riconoscere il referendum sull'annessione russa della Crimea.
Anche in questo caso, come per l'affare Metropol, non si trattava di spedire borse zeppe di contanti o portare fuori dalle ambasciate buste farcite di rubli. Il sostegno è mascherato da un'operazione finanziaria con tutti i crismi della legalità. A fornire indizi di opacità però è il nome stesso della banca: di proprietà di una società di costruzioni russa, a sua volta controllata da società riconducibile a Gennady Timchenko, amico stretto di Putin e da tempo sotto sanzioni per la guerra in Ucraina.
«Questa banca è un noto ufficio di riciclaggio di denaro di Putin» aveva scritto Aleksej Navalny, l'oppositore più noto del presidente. La banca ha chiuso i battenti nel 2016 ed è stata rilevata da una società di ex militari russi, pure questa colpita da sanzioni. L'accordo per la restituzione del debito aveva fissato il 2019 come data ultima. Alla fine si sono accordati per il 2028 con una ristrutturazione rivelata dal Wall street journal ad aprile 2022, nei giorni caldi delle ultime presidenziali francesi.
Non vanno dimenticati, poi, i 2 milioni di euro ricevuti nel 2014 dall'associazione di raccolta fondi di Jean Marie Le Pen (padre di Marine) sostenitrice del Front national. Il denaro era partito da una società di Cipro connessa a un banca del Cremlino. A favorire l'operazione sarebbe stato l'oligarca Malofeev, ancora lui, l'amico di Savoini e della Lega. Germania russa In Germania Putin ha puntato tutto sui sovranisti di Alternative für Deutschland (Afd).
Negli anni ci sono state tracce di relazioni politiche e finanziarie tra gli uomini del Cremlino e il gruppi di estrema destra tedesco. I casi più eclatanti sono certamente due: nel 2017 a tre leader di Afd è stato pagato un volo per Mosca su un jet privato da un donatore russo; nel 2019, invece, la Bbc ha pubblicato alcuni documenti in cui emergeva il sostegno del Cremlino a Markus Frohnmaier, membro del parlamento tedesco di Afd, «avremo il nostro parlamentare assolutamente controllato nel Bundestag».
Una frase contenuta in uno scambio di mail tra un ex ufficiale del controspionaggio navale ed ex membro della camera alta del parlamento russo, e un alto funzionario dell'amministrazione del presidente Putin.
Il trappolone di Ibiza
Di tutt' altra fattura è il caso Ibizagate che ha coinvolto Heinz Christian Strache, l'ex leader della Fpoe, la destra radicale e sovranista austriaca.
Anche loro citati da Savoini nel discorso del Metropol. Lo scandalo austriaco ha provocato la caduta del governo, è considerato tuttavia una trappola tesa a Strache, ripreso in un video sull'isola spagnola mentre prometteva appalti a una donna, che recitava la parte di figlia di oligarca, in cambio di soldi per sostenere la campagna elettorale. I video sono stati pubblicati da Der Spiegel e Suddeutsche Zeitung.
E seppure l'incontro sia stato costruito ad arte, il caso Strache evidenzia la sensibilità sovranista alle sirene russe. Il report del 2020 Il report non più segreto rivelato dal dipartimento di stato americano ricorda in molti passaggi un dossier dettagliato pubblicato nell'agosto 2020 dal think tank americano "The Alliance for Securing Democracy".
Nel consiglio consultivo troviamo pezzi grossi un tempo ai vertici dell'intelligence statunitense: Da Rick Ledgett, già vice direttore della National Security Agency, a Michael Morell, ex direttore ad interim della Cia tra il 2011 e il 2013. Il report rilasciato due anni fa si intitola Covert foreign money ed è un viaggio nelle ingerenze russe, cinesi e arabe che hanno come obiettivi l'Europa e il resto del mondo. I casi citati sono numerosissimi: da Le Pen al Metropol della Lega fino al caso tedesco.
Ma c'è molto altro: si parla dell'estrema destra svedese, citando casi concreti, della Polonia, della Nuova Zelanda, dell'Australia. Gli analisti spiegano i vari metodi per celare i finanziamenti. E sono quelli scoperti con i casi Le Pen e Metropol. Oppure l'utilizzo di associazioni, fondazioni, onlus. «Oltre a strumenti più ampiamente studiati come attacchi informatici e disinformazione, regimi autoritari come Russia e Cina hanno speso più di 300 milioni di dollari per interferire nei processi democratici più di 100 volte in 33 paesi nel scorso decennio», è l'incipit del report 2020, che prosegue: «Chiamiamo questo strumento di interferenza straniera "finanza maligna", definita come il finanziamento di partiti politici stranieri, candidati, campagne elettorali, élite ben collegate o gruppi politicamente influenti». La cifra e i meccanismi citati da "The Alliance for Securing Democracy" sono identici a quelli emersi in questi giorni dopo la pubblicazione del documento desecretato dal dipartimento di stato sulle interferenze russe nel mondo. L'ennesima conferma, se mai dovesse servire.
Da globalist.it il 15 settembre 2021.
«L’intelligence americana quando ci racconterà quanto spende per i politici italiani?». È il commento all’AGI della portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, alla notizia del rapporto degli 007 Usa secondo cui, dal 2014 a oggi, la Russia ha versato oltre 300 milioni di dollari a movimenti politici e candidati in diversi Paesi del mondo, per accrescere la propria influenza.
“Non dobbiamo perdere di vista il modo in cui gli autocrati stranieri prendono di mira i nostri stessi Paesi. Le entità straniere sono istituti di finanziamento che minano i nostri valori. La loro disinformazione si sta diffondendo da internet nelle aule delle nostre università” ha dichiarato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. “Abbiamo introdotto una legislazione per controllare gli investimenti diretti esteri nelle nostre aziende per problemi di sicurezza.
Se lo facciamo per la nostra economia, non dovremmo fare lo stesso per i nostri valori? Dobbiamo proteggerci meglio dalle interferenze maligne. Questo è il motivo per cui presenteremo un pacchetto di Difesa della Democrazia. Porterà alla luce l’influenza straniera nascosta e finanziamenti loschi. Non permetteremo ai cavalli di Troia di nessuna autocrazia di attaccare le nostre democrazie dall’interno”, ha aggiunto nel suo discorso sullo stato dell’Unione.
DAGOREPORT il 14 settembre 2022.
E’ chiaro che non sia stato un caso il rapporto dell’intelligence statunitense che rivela i 300 milioni di finanziamenti russi a forze politiche in due dozzine di paesi, allo scopo di influenzare e interferire nei loro processi politici. Una bomba, per i nostri Salvini, a undici giorni dalle elezioni.
In attesa che il segretario di Stato Antony Blinken, gran frequentatore dei salotti parigini (ha studiato in Francia) scodelli la lista, la caccia ai nomi beneficiati da Mosca, è cominciata.
Oltre ai putiniani risaputi come Marine Le Pen e Orban, da fonti autorevoli Dagospia apprende che il primo nome della lista è quello di Jimmie Akesson, leader dei Democratici Svedesi, nati dalle ceneri dei neonazisti, con una solida alleanza con Fratelli d'Italia all'Europarlamento.
In mezzo c’è l’Italia, starring la Lega. A partire da Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Matteo Salvini, dominus dell’operazione petrolifera del Metropol di Mosca, accusato di aver fatto da tramite per far arrivare alla Lega un finanziamento illecito da 65 milioni di euro dalla Russia di Vladimir Putin. A proposito, che fine hanno fatto le indagini del tribunale di Genova su Savoini? E’ stato prosciolto? E’ ancora sotto indagine? Non si sa nulla.
Sottolineano Giuliano Foschini e Tommaso Ciriaco oggi su “la Repubblica”: “Il nodo dei rapporti tra i russi e Matteo Salvini era stato sollevato pochi giorni fa su Repubblica da un'ex analista della Cia, Julia Friedlander, ai tempi di Trump consigliere per l'Europa nell'Office of Terrorism and Financial Intelligence del dipartimento al Tesoro e dal 2017 al 2019 Director for European Union, Southern Europen and Economic Affairs al Consiglio per la Sicurezza Nazionale”.
"Penso che Matteo Salvini abbia un interesse politico personale nel suo rapporto con la Russia. Assolutamente", afferma la Friedlander. E aggiunge: “Il problema è che non è facile tracciare questi collegamenti economici. Usano le shell company, compagnie inattive che offrono donazioni alle campagne politiche, o lobbisti informali che spingono certi contratti, che riflettono gli interessi russi. Quindi è difficile provare che il Cremlino abbia staccato un assegno per Marine Le Pen, ma è interessante studiare connessioni e intermediari".
Soldi russi, in Italia quante "excusatio non petita". GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sud il 15 Settembre 2022.
In quali tasche è finito l’oro di Mosca? Secondo l’intelligence Usa sono venti i partiti finora accertati (in Europa, in Africa, in Asia) che ricevono un finanziamento dal Cremlino allo scopo di portare avanti nei rispettivi Paesi una linea politica favorevole alla Russia. In Italia, sui soldi russi, sono piovute le smentite a titolo di excusatio non petita. Giacchè, a quanto si conosce in merito ai documenti messi in circolazione dagli 007 americani, non sono stati resi noti i nomi dei partiti interessati, né quello dei loro leader.
Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno annunciato querele nei confronti di chiunque li chiamasse in causa. Il che è singolare, dal momento che nessuno l’aveva ancora fatto. Addirittura Guido Crosetto, il ‘’gigante buono’’ di FdI, si è spinto fino a chiedere «i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché è alto tradimento».
Sul versante del centrosinistra, la notizia viene commentata con il fair play del gatto che è in procinto di avventarsi sul topo. Anche se per ora i dirigenti si limitano a chiedere la pubblicazione dei documenti.
SOLDI RUSSI E ITALIA, L’AVVISO DI URSO
Adolfo Urso, il deus ex machina del Copasir, mantiene una condotta corretta sul piano istituzionale, riservandosi di approfondire la questione con il sottosegretario Franco Gabrielli (il quale esclude la presenza di partiti italiani). Nello stesso tempo, però, il presidente del Copasir rilascia in tv delle dichiarazioni inquietanti.
«L’ingerenza straniera esiste – ha detto Urso – Cina e Russia cercano di delegittimare e sottomettere la nostra democrazia, ma noi dobbiamo garantire una campagna elettorale serena».
«Noi dovremmo contrastare il gioco di Russia e Cina che vogliono far credere che il voto nei nostri Paesi conti nulla, che loro sono in grado di condizionarlo», ha insistito Urso, spiegando poi che chiederà conto delle rivelazioni degli 007 Usa anche negli incontri che ha in programma a Washington, dove tra l’altro incontrerà il presidente della Commissione Intelligence del Congresso. Vedremo, allora, nei prossimi giorni, man mano che si avvicina il 25 settembre, se verranno rese note, in maniera attendibile, altre informazioni.
Senza mettere troppo le mani avanti, sembra comunque pacifico che i finanziamenti – ammesso e non concesso che abbiano viaggiato in percorsi bancari oscuri e coperti o attraverso le classiche valigette diplomatiche – anche per la loro consistenza non siano finiti ai partiti della Repubblica del Titano o ad Andorra o in qualche piccolo Stato di analoghe dimensioni.
SOLDI RUSSI IN ITALIA? LE CONSEGUENZE SUL VOTO
Ma se si scoprisse che alcuni partiti italiani hanno messo le mani nell’insalata russa, si potrebbero ipotizzare conseguenze sul voto, tanto da cambiarne l’esito? La risposta che ci sentiamo di dare è negativa. L’opinione pubblica è molto preoccupata per i costi dell’energia (che rappresentano gran parte della vita quotidiana delle loro famiglie).
I media – al solito – danno spazio alle peggiori notizie: nessuno è informato del ristoro, sia pur modesto, determinato dallo stanziamento, in circa un anno e al netto dell’ultimo decreto Aiuti, di una cinquantina di miliardi da parte del governo. Nella prospettiva di un avvenire prossimo molto cupo (anche per l’erosione dei redditi provocato dall’inflazione) è facile abboccare all’amo delle narrazioni populiste: perché fare tanti sacrifici quando basterebbe presentarsi da Putin con il cappello in mano? Se questa potrebbe essere la soluzione dei nostri problemi, perché prendersela con i partiti che, grazie ai loro rapporti con il Cremlino, sarebbero in grado di liberarci dagli incubi del razionamento?
Io mi sono convinto che noi, e in generale l’Occidente, abbiamo un debito di riconoscenza immenso nei confronti dell’Ucraina. La resistenza eroica di quel popolo ci ha salvato tante volte. Se l’operazione militare speciale russa fosse andata a buon fine, l’Occidente ne avrebbe preso atto, come aveva già fatto dopo le aggressioni nei confronti della Georgia e della Crimea.
Ma la lotta di un popolo ha risvegliato quel po’ di etica sopravvissuta al cinismo e all’opportunismo. Anche perché – e del resto Putin non lo ha mai negato – la crisi sarebbe andata ben oltre l’invasione dell’Ucraina. Come hanno capito subito le repubbliche baltiche, la Svezia e la Finlandia, la stessa Polonia, la Bulgaria e le altre nazioni confinanti con la Federazione russa.
L’UCRAINA CI HA SVEGLIATI
Un altro motivo di gratitudine sta nell’esserci resi conto, in conseguenza del conflitto, della dabbenaggine che ci aveva portati, in un tempo relativamente breve, a dipendere dalla Russia anche per fare la doccia.
Infine, i successi sul campo di battaglia dell’esercito ucraino possono condurre a uno scenario imprevisto. Un scenario in cui venga tolto di mezzo o almeno ridimensionato non tanto il problema della crisi energetica, ma l’autocrate che l’ha creata per motivi politici, perseguendo un disegno imperialista. Si direbbe, quasi, che gli ucraini abbiano fretta di mettersi al sicuro con i mezzi di cui dispongono proprio perché non si fidano della nostra fermezza.
L’esito delle votazioni in Svezia (neofita della Nato) manda un segnale sinistro. Biden ha i suoi guai interni e internazionali con la Cina. Macron è un’anitra azzoppata. In Italia, ormai, le nostre speranze per una politica internazionale coerente sono affidate (sic!) a Giorgia Meloni, perché Salvini e il Cav continuano a essere amici del giaguaro.
"Da Mosca 300 milioni a politici e partiti esteri". Gli 007 Usa: dal 2014 fondi per accrescere la propria influenza. "Informeremo i governi". Marco Liconti il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.
La «bomba» è arrivata inattesa, al pari dell'offensiva lanciata dalle forze ucraine contro gli invasori russi. E potrebbe avere gli stessi imprevedibili effetti. A partire dal 2014, Mosca ha finanziato partiti politici, singoli candidati, funzionari e think tank stranieri con oltre 300 milioni di dollari in una ventina di Paesi. La fonte non è un anonimo funzionario di intelligence, ma il dipartimento di Stato degli Stati Uniti. La firma in calce al «cablo» riservato e inviato alle ambasciate Usa è quella del segretario di Stato, Antony Blinken. L'«investimento» di Mosca per garantirsi un atteggiamento benevolo da parte di forze politiche, intellettuali e perfino aziende di Stato, copre ogni latitudine: dall'Europa, all'America Centrale, dall'Asia, al Medioriente, al Nordafrica.
Nel documento del dipartimento di Stato non si fanno nomi, né di Paesi specifici, di personalità coinvolte, ma la tempistica, per quanto vasta sia la portata dell'operazione russa, non può non far pensare alla data fatidica del 25 settembre e alle tante polemiche che, dall'inizio dell'invasione russa, hanno visto al centro proprio l'Italia e la presunta «Quinta Colonna» filorussa che agirebbe all'interno di partiti politici, istituzioni, redazioni giornalistiche. A rafforzare il ragionamento, il fatto che Washington fa sapere che «informazioni classificate» verranno fornite a una serie di «Paesi selezionati». Non solo, secondo fonti del Giornale, i nomi dei partiti e delle personalità coinvolte potrebbero essere resi noti la prossima settimana, attraverso il consueto canale dei «leak» alla stampa, praticamente alla vigilia del voto italiano.
Nel «cablo» firmato da Blinken sono contenute anche una serie di istruzioni, «talkin points», secondo il linguaggio del dipartimento di Stato, per i diplomatici Usa impegnati nei Paesi in oggetto: in pratica, le questioni da sollevare con gli interlocutori stranieri a livello governativo, per esprimere la preoccupazione di Washington e minacciare con «sanzioni» e perfino «rivelazioni ai media» chi non prenderà provvedimenti per arginare e fermare i tentativi russi di influenzare la politica di questi Paesi. Il contesto nel quale è stato reso noto il documento ha per gli Usa un risvolto interno. Si tratta del lungo lavoro compiuto dall'intelligence statunitense per svelare i tentativi russi di influenzare le elezioni presidenziali del 2016 e del 2020, fino alle anticipazioni della Cia sull'intenzione di Mosca di invadere l'Ucraina, al tempo ampiamente inascoltate. Ma è chiaro che l'obiettivo della bomba sganciata dal dipartimento di Stato è soprattutto al di là dei confini nazionali. Putin ha speso ingenti risorse «nel tentativo di manipolare le democrazie dall'interno», riferisce un alto funzionario dell'Amministrazione, che ha chiesto di rimanere anonimo per la delicatezza delle questioni trattate.
Nel cablo firmato da Blinken e fatto trapelare ai media, classificato come «sensibile», gli 007 Usa affermano di ritenere che la Russia aveva piani per trasferire «almeno altre centinaia di milioni» in giro per il mondo a partiti politici e funzionari «amici». Non è chiaro come l'intelligence sia arrivata alla cifra, finora dichiarata, di 300 milioni di dollari spesi da Mosca per penetrare all'interno di governi e democrazie straniere. «Stiamo promuovendo una collaborazione con i nostri pari democratici. Ci scambieremo quanto abbiamo imparato, tutto per il bene della sicurezza collettiva dei nostri processi elettorali», afferma l'alto funzionario dell'Amministrazione. Ora, non resta che aspettare la prossima bomba.
Francesco Curridori per “il Giornale” il 15 settembre 2021.
«Noi ci meravigliamo perché siamo dei provinciali, ma la politica estera si fa non solo con le armi, ma con i soldi, con i trattati commerciali e, persino, col sostegno ad alcuni partiti politici». Il generale Carlo Jean, esperto di strategia militare e di geopolitica, commenta così la notizia arrivata da Washington sui finanziamenti di Putin destinati ad alcuni partiti occidentali per accrescerne l'orientamento filo-russo.
Generale, ma, quindi, non la stupisce minimamente questa rivelazione?
«Mi stupisce il fatto che i fondi segnalati siano troppo ridotti perché 300 milioni di dollari dal 14 ad oggi sono niente».
Niente?
«Sì, niente rispetto a quello che le grandi potenze usano per sostenere le proprie ragioni attraverso la disinformazione oppure attraverso i finanziamenti ai partiti, agli uomini politici e ai giornali o social network».
Perché oggi sembra più facile scoprire determinanti flussi di denaro?
«Il controllo dei flussi finanziari è cominciato ad essere più stretto quando è stato esteso al finanziamento del terrorismo di Al Qaeda o Isis che funziona con quantità di denaro molto ridotte e, perciò, deve essere molto capillare. Verosimilmente, le grandi potenze o medie come l'Italia hanno degli infiltrati nel sistema finanziario che informano i servizi segreti su quel che sta capitando. Queste, però, sono notizie che generalmente rimangono solo all'attenzione dei governi».
Passiamo alla guerra. Gli ucraini stanno vincendo?
«Gli ucraini hanno avuto un grande successo. La situazione in Ucraina sul fronte Est e sul fronte Sud sta volgendo a favore degli ucraini, ma vittoria è una parola grossa. Il 20% del territorio è in mano ai russi e quello riconquistato dagli ucraini è il 3-4%».
Com' è stata possibile questa rimonta?
«I russi hanno creduto che lo sforzo principale degli ucraini sarebbe stato verso Kherson, ma, in realtà, una gran quantità di forze di Kiev erano dirette in segreto verso Kharkiv. I russi non se ne sono accorti e sono stati travolti. Il successo tattico degli ucraini è merito degli Himars, i lanciarazzi multipli usati non più per colpire la controbatteria, ma contro le forze avanzate russe che sono dovute scappare. È stata una Caporetto».
Quali sono gli errori della Russia?
«L'errore strategico è stato invadere un Paese di 600mila km e 44 milioni di abitanti con 200mila uomini e una scarsissima fanteria, pensando che gli ucraini non avrebbero combattuto. I primi successi, invece, hanno rafforzato il morale delle forze ucraine consentendo a Zelensky di ordinare la mobilitazione generale».
Ma sono stati utili anche gli aiuti militari dell'Occidente?
«Sono stati determinanti. Ora, l'Occidente ha un dilemma: intensificare questi aiuti, col rischio che Putin ricorra alle armi nucleari, oppure avanzare con una guerra di logoramento, consapevole che il capo del Cremlino non può ordinare la mobilitazione generale».
Perché non può farlo?
«La Russia di oggi è diversa da quella contadina in cui le famiglie avevano 8 figli: due morivano per la patria e gli altri lavoravano la terra. Putin non chiama la mobilitazione generale per tenere buona l'opinione pubblica».
"I comunisti hanno preso soldi dalla Russia". Ora Salvini minaccia querele. Il pensiero di Matteo Salvini si discosta da quello di Giorgia Meloni, che tiene la barra sull'impostazione di Mario Draghi e dice no allo scostamento. Francesca Galici il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.
Sfilata di politici a Cartabianca, dove da Bianca Berlinguer si sono presentati, uno dietro l'altro, Enrico Letta, Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Matteo Salvini ha esordito replicando a Enrico Letta sulle accuse mosse dal segretario del Partito democratico e ha rilanciato: "Gli unici che hanno preso soldi in passato dalla Russia sono i comunisti e qualche quotidiano come Repubblica. Io non ho mai chiesto né preso soldi. Dicano nomi e cognomi. Ha pagato il Pd? Se la Russia ha pagato il Pd è giusto che si sappia".
Il segretario della Lega ha rimarcato: "L'unico Paese straniero che nella mia attività politica mi offri un viaggio pagato e spesato all'estero furono gli Stati Uniti. Io non ci andai. Altri ci andarono, liberi di farlo". Durante la giornata, è arrivata anche una nota della Lega: "Ennesime insinuazioni, zeppe di dubbi e condizionali, contro la Lega e Matteo Salvini che si difenderanno in ogni sede opportuna contro le parole di Julia Friedlander e il quotidiano che le ha pubblicate". Quindi, nella nota si aggiunge: "A differenza del gruppo editoriale che per anni ha diffuso in allegato 'Russia Oggi', la Lega non ha ricevuto finanziamenti da Mosca".
Matteo Salvini è ritornato anche sul tema dello scostamento di bilancio, della necessità di mettere 30 miliardi per supportare le famiglie e le imprese in questo momento così particolare: "La Lega chiede di mettere 30 miliardi a debito, che è debito buono perché salva posti di lavoro". Una mossa che non è condivisa "dall'amica Giorgia", che si trova in linea con la decisione di Mario Draghi non procedere in questo senso. "Gli altri governi europei sono intervenuti, anche il nostro dovrebbe farlo per aiutare famiglie e lavoratori. Questa è un'altra forma di Covid, non riempie gli ospedali ma svuota le fabbriche. È un errore parlarne più avanti", ha dichiarato il segretario della Lega, sottolineando come ci siano importanti differenze in questo senso con Giorgia Meloni, sebbene i due alleati, come più volte sottolineato, vadano d'accordo su quasi tutti i punti condivisi del programma di centrodestra. "Meloni sbaglia, l'emergenza di questo momento non è il presidenzialismo, ma le bollette", ha rimarcato il segretario della Lega.
Salvini, quindi, ha aggiunto: "La riforma pensioni è da fare tra sei mesi ed è già calibrata, poi ci sono la riforma della giustizia, il presidenzialismo, l'autonomia, tutte cose che faremo una volta al Governo. Ma il problema di domani mattina non è il fascismo o la Russia, ma che è arrivata una bolletta che non puoi pagare". Ed è un provvedimento che deve prendere il governo in carica, senza aspettare quello nuovo: "C'è un governo in carica, ha trovato 13 miliardi per aiutare alcune famiglie, non sono sufficienti. Il governo italiano in carica deve intervenire, sbagliano sia Letta che Meloni: l'amica Giorgia dice che non è il momento di aiutare milioni di italiani? Allora è un errore".
Fondi russi, il Copasir: "Nessun partito italiano". Lorenzo Vita il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.
Il presidente del Copasir afferma di avere parlato con Franco Gabrielli e di non avere avuto indicazioni di fondi russi a favore di partiti o personalità italiane nel dossier presentato dall'intelligence Usa.
"Al momento non esistono notizie che riguardano il nostro Paese in questo dossier". Le parole del presidente del Copasir, Adolfo Urso, colpiscono come un macigno le accuse nei confronti di alcuni partiti italiani accusati di essere legati a doppio filo a Mosca.
Il presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, parlando alla trasmissione "Agorà" in onda su Rai 3 del dossier statunitense riguardante i finanziamenti dati dalla Russia a esponenti politici e partiti dal 2014, ha mandato un messaggio molto chiaro: "Mi sono confrontato con il sottosegretario con delega ai servizi segreti, Franco Gabrielli" e "al momento al governo è stato escluso che l'Italia compaia in questo dossier". Dichiarazioni che dunque confermerebbero che al momento le accuse nei confronti di partiti italiani risulterebbero frutto di altre ipotesi non affatto collegate alle inchieste dei servizi segreti statunitensi.
In ogni caso, il Copasir vuole vederci chiaro, ed è lo stesso Urso ad affermare che il Comitato si riunirà nei prossimi giorni, probabilmente venerdì, per discutere del dossier di Washington riguardo i 300 milioni di dollari utilizzati da Mosca per finanziare partiti in varie parti del mondo. "Il Comitato si riunirà con l'audizione di Gabrielli e in quella sede verificheremo, se le avremo, altre notizie in merito", ha detto il presidente del Copasir. Ieri i media americani avevano parlato di questo dossier senza che però trapelasse alcuna informazione riguardo i Paesi coinvolti. Come riportato dalla Cnn, un alto funzionario dell'amministrazione Biden ha detto che la Russia avrebbe utilizzato questi soldi in tutti i continenti, coinvolgendo più di venti Paesi. "La comunità dell'intelligence statunitense sta informando in via riservata i Paesi individuati" ha detto il funzionario ai giornalisti, "manteniamo riservati questi briefing data la sensibilità dei dati e per consentire a questi paesi di migliorare la loro integrità elettorale in privato".
Le parole di Urso rispondono anche alle accuse rivolte dall'ex ambasciatore Usa alla Nato, Kurt Volker, che in un'intervista a Repubblica sottolinea come i partiti del centrodestra, in particolare ora Fratelli d'Italia, sarebbero affini alla Russia al punto da essere oggetto di un presunto finanziamento e supporto esterno. "Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l'Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fratelli d'Italia da voi", queste alcune delle frasi di Volker, abbastanza sorprendenti dal momento che quanto detto dall'ex inviato di Donald Trump in Ucraina non appaiono verificate.
Accuse che sono state rispedite al mittente da parte della stessa leader di Fdi, Giorgia Meloni, che a Radio 24 ha annunciato di voler querelare Repubblica e l'ex ambasciatore per quanto detto sui finanziamenti nei confronti del suo partito. "Sono tutte verificabili le nostre forme di finanziamento. Sono certa che Fratelli d'Italia non prende soldi da stranieri", ha detto Meloni, "Repubblica e Volker ci portino le prove. Siccome non ci sono penso che la querela sia inevitabile".
Fondi russi, Paolo Guzzanti: "Quel dossier è una vera patacca". Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 settembre 2022
Giorgia Meloni pagata dai comunisti, Matteo Salvini ingoiato dal Kgb e finito nel grande ventre del Cremlino. Fantastico. Questo è John Le Carré prigioniero di una pochade. C’è qualcosa di nuovo, anzi d'antico, c'è un retrogusto da propaganda elettorale nella doppia rivelazione americana che i russi abbiano foraggiato «300 paesi» (fatta dal segretario di Stato dem Antony Blinken); e che lo stesso Putin abbia finanziato Fratelli d'Italia e Lega (pubblicata da Repubblica organo dem, che riporta un commento di Kurt Volker ex ambasciatore americano alla Nato). Sono due dichiarazioni che non c'entrano un piffero tra loro, l'una avulsa dal contesto dell'altra. Eppure stanno diventando materia infiammabile.
Caro Paolo Guzzanti, da cronista, ex senatore, ex presidente della Commissione Mitrokhin, tra i massimi esperti di cose russe: che succede?
«Mi suona tutto molto strano, che Blinken spari una dichiarazione pubblicamente e priva di corredo probatorio (un generico "fonti d'intelligence"), be' è contrario alle procedure. Se un governo amico vuole avvertirti di qualcosa, di solito si parlano i capi di Stato, o comunque si va per via diplomatica. C'è una sciatteria sospetta. E, tra l'altro la Russia, storicamente, da noi non ha neanche bisogno di corrompere».
Nel senso che siamo, di natura, moralemente fragili?
«Guarda, io mi ricordo che Kolosov, capo della Presidentura di Roma mi diceva che "da noi c'è sempre stata la fila di chi voleva collaborare." Ne arruolavamo parecchi, di solito evitavamo i comunisti per un accordo col Pci che prevedeva di tenerli fuori; ma c'erano i Dc, i socialisti. Un comportamento pro-russo, qui è assolutamente naturale. Ma li vedi anche tu quando vanno in televisione, no?».
Cioè allora ha ragione Blinken: i comunisti vivono tra noi e nessuno ci ha avvertito?
«Dai, li vedi. Sono quelli che iniziano con "premetto che c'è un paese aggressore e uno aggredito", però poi sbracano nel filoputinismo.
Quelli che - giornalisti, politici, imprenditori - "le sanzioni alla Russia fanno più male a noi", e quindi forse è meglio lasciargli invadere la Georgia e la Crimea. Che tra l'altro, dal punto di vista meramente degli affari, era pure comprensibile».
Vabbè, stiamo divagando. Torniamo alle due dichiarazioni, rigorosamente separate. Quella di Blinken c'entra con le elezioni?
«C'entra di sicuro. Ma, se ben guardiamo, quali sono le fonti ufficiali americane della notizia? Esistono davvero? E di cosa si tratta? Di un documento certificato, di un rapporto della Cia, di un "me l'ha detto mi cuggino", o di una semplice illazione?».
Be' Blinken non sarà mica il primo cazzaro che passa, no?
«Mi pare che, nello specifico di questo fantomatico rapporto, siano indicati un pugno di paesuncoli di Asia e Africa. L'Italia, a quanto dice anche il Copasir, non è neanche citata. Cioè: non c'è nulla di ufficiale da Washington, anzi...».
Poi c'è l'intervista a Volker di Repubblica. Tra le tante cose, sono credibili i finanziamenti a Fratelli d'Italia?
«Ma è tutto illogico politicamente. La Meloni, gli Stati Uniti, in questo momento se la stanno coccolando, le danno spazio, e non tanto perché gli è simpatica, ma perché è quella che probabilmente vincerà le elezioni nel rispetto delle regole democratiche. Lei è atlantista nei fatti e nelle parole e soprattutto non mi ricordo sue sospette simpatie comuniste, neppure in gioventù...».
L'ex ambasciatore Terzi di Sant' Agata, canditato per FdI, ha scritto, all'ex collega Volker: «Vorrei quindi pregarti di chiarirmi su quali fatti e circostanze concrete si basino le insinuazioni riportate da La Repubblica, se effettivamente corrispondono alle tue parole». Gli è partito l'embolo...
«Terzi ha ragione a incazzarsi. Ma poi, 'sto Volkov, ripeto: per conto di chi parla. Coinvolgere, proprio in questo momento, Lega e Fratelli d'Italia sui finanziamenti russi senza riscontri, mi pare perfino sciocco. Finora abbiamo solo Repubblica che mette in bocca a un ex ambasciatore delle dichiarazioni contro il centrodestra, senza che l'ex ambasciatore lo ripetain tv».
Però che gli italiani siano sempre stati non ostili alla Russia, non è vero?
«Be' che l'Italia, tra i paesi occidentali sia storicamente il più vicino alla Russia (mi pare in una misura del 60% tra fan e non dichiaratamente ostili) è risaputo. Tra l'altro ti ricordo che la vera dipendenza dal gas russo l'abbiamo avuta da 'mo, dai tempi del governo Letta».
E del governo Berlusconi, per essere precisi.
«Sì. certo. Valter Bielli, capogruppo del Pds ai tempi in cui ero presidente della Commissione Mitrokhin, mi diceva: "Guzzanti, noi tutti di sinistra qui siamo da sempre filorussi, ora ci si sono messi anche quelli di destra pro Putin: a lei chi glielo fa fare di andare a schiantarsi?"».
Tutto questo potrebbe incidere sul risultato delle elezioni?
«Ma ti pare che la notizia dei soldi russi possa scuotere l'Italia? Il vecchio Cossiga mi raccontava che il Pci fino a Berlinguer aveva sempre un compagno preposto che, da Mosca, tornava con la valigetta: in aeroporto era controllata da due agenti del tesoro Usa e dal ministero degli Interni, per poi passare allo Ior dove si cambiavano i rubli, e per accertarsi che non fossero falsi. Tutti sapevano tutto. Quand'è finita la pacchia hanno dovuto vendere Botteghe Oscure».
Cioè mi stai dicendo che l'elettore medio non diserterà, schifato, le urne?
«Ma va'. Dirà:"Embè?" e poi "Ecchisenefrega". Dimenticandosi magari di Di Maio che la spara grossa su una commissione apposita da organizzare in quattro e quattr' otto; il quale, a sua volta, si dimentica che a portare l'ultima Armata Rossa in Italia coi camici e le siringhe per il Covid era stato Conte».
Guido Crosetto invoca l'alto tradimento per chi s' è preso i soldi dei russi.
«Ma, ad occhio, non c'è lo stato di guerra. Se fosse accertato tutto -"se"- ci starebbe magari il finanziamento illecito, al limite l'evasione fiscale. Ma, al limite...».
I fiumi di soldi dal Cremlino tollerati se vanno a sinistra. Paolo Guzzanti il 15 Settembre 2022 su Il Giornale.
Oggi i dem si indignano, ma fu il Pci a introdurre la corruzione della politica con i fondi illegali dell'Urss.
Troppe cose non quadrano nella storia dei finanziamenti russi a partiti e politici accennata dal ministro della Difesa americano, poi rafforzata da indiscrezioni senza padre né madre. La storia, se non sono pronte altre scatole cinesi, sarebbe questa: il ministro americano Blinken davanti alle telecamere svela il contenuto di un rapporto dei servizi segreti americani secondo cui la Russia avrebbe speso centinaia di milioni per corrompere politici e partiti di paesi stranieri per favorire si suppone - la sua bellicosa politica estera. Poi un funzionario di rango minore afferma che fra questi Paesi c'è l'Italia e che i partiti beneficiati dai russi sarebbero quello della Meloni, di Salvini e il Movimento Cinque Stelle. Queste dichiarazioni provocano il prevedibile putiferio senza né capo, né coda perché manca sia la logica, il movente, che la fonte. È bizzarro, per non dire ridicolo, che i più indignati per questo fumosissimo scandalo, siano proprio gli uomini del Pd a partire dall'intrepido suo segretario. Enrico Letta è al timone di un partito fatto per metà dal vecchio Pci e per metà dalla vecchia Dc. E anche se lui non proviene dalla metà comunista, non può far finta di non conoscere il codice genetico del partito, quello comunista, che ha introdotto la corruzione della politica attraverso gli illegali e sontuosi finanziamenti russi, costringendo i partiti democratici ad approvvigionarsi in maniera altrettanto illegale. Ogni anno un funzionario del Pci andava a Mosca con una valigetta vuota e la riportava piena di milioni di dollari che venivano controllati al ritorno da due agenti del Tesoro americano che volevano controllare che le banconote non fossero false. Poi la banca vaticana dello Ior cambiava i dollari in lire. Alla fine, tutti i partiti democratici che avevano praticato il finanziamento illegale furono condannati a morte e sono scomparsi, mentre soltanto Il PCI si è salvato per il rotto della perché nel 1989 una provvidenziale amnistia cancellava tutti i gravissimi peccati di corruzione del sistema democratico commessi con sfacciato candore dal PCI. Oggi si alza un gran polverone su un possibile finanziamento russo a partiti e politici. Se fosse vero sarebbe gravissimo, ma con poco senso. Che gli americani vogliano danneggiare Giorgia Meloni è in aperta contraddizione con lo stile e la diligenza con cui il Dipartimento di Stato ha cercato di capire la figura e il progetto politico della Meloni. Lo hanno fatto non solo con lei ma probabilmente ha giocato a suo favore il fatto di essere una possibile candidata alla guida del governo italiano con una posizione nettamente filoatlantica, anche se sostenendo che l'Italia deve essere risarcita dai costi derivati da una scelta netta senza se e senza ma.
Quanto alla Lega, le note e passate simpatie di Matteo Salvini per Vladimir Putin non spiegherebbero il movente perché è universalmente nota l'alleanza politica fra la Lega, il partito di Putin, quello della Le Pen e dell'ungherese Orban in un contesto che non è più da tempo quello attuale dal momento che oggi Salvini si è riposizionato a causa dall'aggressione all'Ucraina. Perché, dunque, come e quando il Cremlino avrebbe speso una somma di denaro per investirlo in una incomprensibile «operazione simpatia»? Non solo mancano le prove, ma manca il senso. Ma, ammesso e non concesso, perché? Per creare una superflua turbolenza che non raggiungerebbe mai le proporzioni dello scandalo, in mancanza assoluta di prove e logica. Per quanto riguarda i Cinque Stelle si potrebbe capire il senso, ma non l'attualità. È un dato di fatto che Conte abbia ordito l'abbattimento del governo Draghi per incassare i voti dell'elettorato contrario all'invio di armi agli ucraini con una giravolta sull'invio delle armi a chi sta resistendo. Nel suo caso la logica ci sarebbe ma manca comunque qualsiasi prova.
Francesco Storace: tutti gli affari della sinistra con Cina e Putin. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 16 settembre 2022.
Ma quanto sono ipocriti a sinistra. Si riparano dai venti fragorosi sui finanziamenti russi al Pci con l'alibi del tempo trascorso («Siamo un'altra cosa»), dicono adesso. Come se sull'ambiguità delle relazioni internazionali dei figliocci di quel partito si debba solo risalire al tempo del Togliattismo. No, anche gli idoli di adesso hanno peccati da farsi perdonare e persino i loro cuginetti a Cinque stelle. Nel gioco delle relazioni pericolose spiccano tutti, a sinistra, e suscita davvero indignazione il loro accanimento su colpe inesistenti a destra. Spesso si sono fatti fare anche fessi da Mosca. Accadde a Romano Prodi e Massimo D'Alema, per la crisi energetica del 2007. All'epoca fu siglata un'intesa Eni-Enel con Gazprom, che in realtà ci mise in condizioni di sudditanza verso Mosca. E la partita la condusse con mano di spregiudicato mazziere l'ex cancelliere tedesco Schroeder. Sai che gliene fregava della fratellanza progressista...Venne poi il tempo di Enrico Letta.
Era il 2013 e nel giro di una giornata, nel freddo polare di Trieste, l'allora premier siglò con Vladimir Putin una serie di accordi a raffica sicurezza compresa dai quali non si evinceva un giudizio così definitivamente negativo sull'uomo di Mosca. Anzi, Letta uscì da quella radiosa giornata davvero tanto contento. Ma gli autogol della sinistra italiana non hanno riguardato solo la Russia, dopo la grande stagione dell'Urss in cui i comunisti di allora almeno ammettevano i legami con i fratelli del Pcus. Anche la Cina è tutt' ora protagonista di dubbie relazioni. Nei giorni scorsi, per merito de Il Giornale, è emersa la fitta collaborazione di sodali di Enrico Letta con paradisi fiscali nei quali occultare denaro evidentemente accumulato in maniera illecita. Al segretario del Pd è stata sollecitata chiarezza, senza accusarlo di fatti specifici. Ma dalla sua bocca non è uscita una parola. E la grande stampa gli ha riservato il trattamento di riguarda che di solito è omesso quando si tratta della Meloni, di Salvini o di Silvio Berlusconi.
SOSPETTI
Per non parlare poi dei compari di merenda pentastellati. Ancora è fresco nella memoria di molti il caso di Vito Petrocelli, ex presidente della commissione esteri del Senato. Da quella postazione è stato cacciato a furor di popolo per il suo esplicito sostegno all'invasione russa in Ucraina, arrivando anche a votare "no" alla risoluzione del governo Draghi sulla guerra in Ucraina, in difformità rispetto alla indicazioni del partito (dove pure fiorivano altri sotterranei distinguo). In quel caso, le polemiche furono davvero feroci, con l'imbarazzo di un Movimento politico in cui i filoPetrocelli stavano acquattati pur condividendone le posizioni a sostegno di Mosca. Ma altrettanto clamore hanno suscitato nel tempo i sospetti rapporti del M5s con il Venezuela. Tra Chavez e Maduro c'è stata una fitta rete di relazioni che sono arrivate a far partire un'indagine giudiziaria su un presunto versamento di discrete quantità di quattrini che sarebbero addirittura arrivate in valigetta a Gianroberto Casaleggio.
Una questione ancora non chiara. Ma che aldilà del presunto maneggio di denaro si parlò di ben 3,5 milioni di dollari campeggia sulla politica internazionale dell'Italia proprio perché i pentastellati non hanno mai voluto assumere posizioni di netta condanna del regime rosso di Caracas. Va detto anche che il figlio di Casaleggio, Davide, non ha esitato a denunciare il giornalista spagnolo che aveva realizzato lo scoop. Il che, se vale per tutelare l'onorabilità e la memoria del padre, nulla sposta rispetto alla linea filovenezuelana del Movimento cinque stelle. In Italia c'è comunque un'inchiesta della Procura di Milano. Il paradosso, per un Movimento come quello di Beppe Grillo, è che tutto possa finire in prescrizione. Salvando quelli che non la volevano per i processi. Sono quelli che strillano contro la destra per non far parlare dei peccatucci di casa loro.
Fondi russi, il foglio che incastra la sinistra: ferie pagate, cosa state vedendo. Libero Quotidiano il 16 settembre 2022
C'è stato un tempo in cui l'Urss non si limitava a finanziare il Pci con operazioni politiche. Ma agiva come la più grande agenzia di viaggio nazionale per i compagni italiani che si guadagnavano gite premio in aereo a Mosca o crociere sul Mar Nero, per veder realizzate le promesse del sol dell'avvenire e consolidarsi nella propria fede filo-sovietica, magari con relativa delusione al ritorno.
A occuparsi di questi tour con l'avallo del Pci e del Pcus era l'Italturist, un'agenzia di viaggio operativa per circa un trentennio, dall'inizio degli anni '60 fino alla fine degli anni '80, e presieduta all'inizio da Armando Cossutta, che raccontava quell'esperienza con entusiasmo e la presentava come strumento di servizio al popolo, a cui consentiva di visitare «Paesi proibiti»: l'Urss, ma anche la Cina e Cuba, tutti rigorosamente comunisti.
Una prima svolta ci fu all'inizio degli anni '70 allorché l'Italturist, fino ad allora di proprietà del Pci, fu ceduta alla Lega delle cooperative immobiliari, partecipata anche dal Psi, della cui sezione milanese era stato presidente Francesco Siclari. Lo stesso Siclari fu "promosso" a presidente dell'Italturist, che di fatto continuava ad agire nell'orbita del Pci: sotto la sua gestione, come ci dicono le nostre fonti, professionisti che lavoravano per Italturist in vari settori, «si consolidò quel criterio "meritocratico" che permetteva a tre categorie, sindacalisti e militanti del partito, dirigenti del Pci, e villeggianti generici provenienti dalla classe operaia, di prendere il volo in direzione Mosca o Leningrado per una vacanza su mezzi sì scassati ma a prezzi ridottissimi. Talmente bassi, se non nulli, che l’agenzia turistica non riusciva a coprire le spese ed era cronicamente in perdita. I debiti venivano poi gentilmente ripianati non solo da Italturist e dagli organismi collegati, ma anche dal fornitore, cioè l’Urss».
Se consideriamo che la Italturist organizzava un volo a settimana verso la Russia, che su ogni volo c’erano un centinaio di passeggeri e che solo il volo costava circa 100mila lire (non pagate dai passeggeri), «possiamo affermare», continuano le fonti, «che tra anni ’60 e ’70 l’Urss abbia tappato le falle di Italturist, versando qualche miliardo di lire». Vacanze a carico del Cremlino che offriva lo svago al proletariato italico, all’insegna di Falce e Martello... All’inizio degli anni ’80 Italturist iniziò a contemplare, tra le sue mete, anche posti turistici come Santo Domingo. Solo che a metà del decennio un Jumbo della compagnia restò piantato a terra nell’aeroporto di New York, tra le proteste dei viaggiatori che avrebbero dovuto raggiungere Santo Domingo e quelli che avrebbero dovuto tornare in Italia. Fu il punto di non ritorno: l’Italturist passò sotto il controllo dell’Unipol, trasformandosi in un’azienda di mercato. Da allora forse gli aerei cominciarono ad arrivare in orario, non come quando c’era Breznev...
Le rivelazioni americane e il polverone italiano. Americani e russi irrompono come al solito in campagna elettorale. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Settembre 2022
La storia si ripete e spesso nelle forme più cretine. Basta non avere memoria e il gioco è fatto. Adesso siamo tutti impegnati a fingere di voler sapere immediatamente, a tutti i costi, senza fare sconti a nessuno – vada come deve andare – che cosa e chi si nasconde dietro le sibilline parole del ministro della Difesa americano, il quale ha dichiarato che i russi avrebbero speso parecchi milioni per corrompere politici, partiti, giornalisti, influencer e chiunque possa portare loro dei vantaggi.
Poi, dopo questa prima generica affermazione, arriva la notizia sotto forma di indiscrezione secondo cui due partiti italiani del centrodestra, se non tutti e tre, sarebbero coinvolti insieme ai Cinque Stelle il cui leader ed ex presidente del Consiglio fece entrare in Italia un distaccamento dell’Armata Rossa per portare siringhe e medici. È certamente stata una mano santa per il dibattito televisivo che non riusciva a liberarsi dalla noia dei funerali regali e del tetto sul prezzo del gas. Così, “er dibbbattito” si è arricchito del chiacchiericcio con cui si finge di accusare e difendere chi forse ha preso i soldi di Putin. Il lettore mi perdonerà se parlo in prima persona, ma di queste faccende ne so qualcosa avendo vissuto la terribile avventura di presiedere tra il 2002 e il 2006 una Commissione parlamentare bicamerale di inchiesta che aveva il compito di scoprire se e come i nostri servizi segreti avessero utilizzato le informazioni dei colleghi inglesi sugli agenti russi durante la guerra fredda. Quella commissione (la più ostacolata, diffamata, derisa, e dimenticata anche se gli atti del Parlamento dimostrano che scoprì molto di più del previsto) fu varata dal Parlamento in seguito alle voci, insinuazioni, accuse, seguite alla pubblicazione del libro L’Archivio Mitrokhin scritto dall’ex archivista del Kgb Vasili Mitrokhin e da Christopher Andrew, storico di fiducia del servizio segreto inglese.
In Italia scoppiò una guerra civile delle parole tra i comunisti che si accusavano l’un l’altro di essere stati al soldo del Kgb mentre un’altra parte li accusava di essere stati al soldo della Cia. Fu fatto un drammatico polverone nel corso del quale almeno 5 persone persero la vita nell’indifferenza generale. L’ultimo fu Sasha Litvinenko, quello avvelenato con il polonio visto isu tutti gli schermi del mondo prima che morisse E non gliene frega assolutamente niente a nessuno della verità di come andarono realmente le cose, di chi era colpevole e di che cosa: oggi sembra che si voglia giocare di nuovo la stessa carta sussurrando un segreto – non poi troppo segreto perché si tratta solo di una informativa – in cui si rivelerebbe che i russi hanno speso una modestissima quantità di denaro per influenzare le politiche di paesi stranieri. Ma i russi non hanno nessun bisogno di spendere e spandere per ottenere questo risultato. Ci sono paesi – e certamente tra questi l’Italia – in cui una parte della dirigenza e dell’intellighenzia si trova naturalmente e gratuitamente dalla parte dei russi sia in versione sovietica che putiniana senza alcuna soluzione di continuità.
Io nella mia vita giornalistica che ha ormai superato i sessant’anni ricordo benissimo tutte le spie russe che venivano a trovare i giornalisti nelle redazioni di quasi tutti i giornali in cui ho lavorato. Ed è facilissimo vedere sugli schermi, o sulle pagine, soltanto osservando le omissioni, le riduzioni di evidenza, le esaltazioni laddove ti aspetteresti un tono basso, la manina e la luna russa che suona con agevolezza tutte le musiche che vuole sia nel la politica parlamentare che sulla stampa stampata. E non parliamo poi della comunicazione televisiva che conta molto più dei social totalmente sopravvalutati per la mania del correre dietro a personaggi insignificanti come gli influencer. Questo modo di agire ricorda quello dei guardiani dello zoo che vanno a portare il cibo ai grandi felini in gabbia. Quando arrivano col secchio della carne le bestie si agitano, ruggiscono, frustano l’aria con la coda, poi mangiano i loro bocconi e se ne tornano tranquille nelle loro tane. Non esiste e non esisterà mai alcuna lista di coloro i quali agiscono perché pagati dai russi. Come mi disse davanti a tutta la commissione il capo dello spionaggio sovietico a Roma, «noi non abbiamo mai avuto bisogno di spendere un centesimo per avere informazioni perché dietro la nostra porta c’è la fila dei volontari che corrono al nostro soccorso e non si tratta solo dei comunisti, anzi i comunisti li teniamo alla larga perché non vogliamo che si compromettano con noi». Si riferiva evidentemente al periodo in cui il partito comunista esisteva e aveva l’obbligo tassativo di non consentire ai suoi iscritti di lavorare per i sovietici proprio per evitare possibili scandali.
Oggi è evidentissimo che in Italia agisce, come sempre ha agito, un partito filorusso a prescindere che non ha a che vedere né col comunismo né col capitalismo ma semplicemente con gli interessi della Russia. Da anni e anni assistiamo alla pantomima delle continue richieste di abrogare le sanzioni comminate alla Russia per avere riportato la guerra in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale aggredendo paesi europei come la Georgia e poi l’Ucraina, prima nel 2014 occupandone la Crimea con un’armata di soldati senza mostrine senza gradi e poi con l’operazione militare speciale del 24 febbraio scorso. In Italia la reazione però è sempre stata e resta del tutto automatica: una gran parte dei nostri opinion makers hanno protestato vivacemente soltanto per contestare l’invio delle armi agli aggrediti, quelle armi che oggi permettono agli stessi aggrediti di difendersi con efficacia dagli aggressori. Ma soltanto in Italia accade che seriamente si finga che ci sia un approfondito dibattito fra chi vuole schierarsi con gli aggrediti e chi con gli aggressori. Naturalmente questa operazione non viene condotta in maniera così rozza e non c’è filorusso che non inizi la sua perorazione contro l’invio di armi all’Ucraina senza premettere con voce contrita che “naturalmente condanniamo nel modo più deciso l’aggressione di Putin all’Ucraina”.
Ora il fatto che la Russia spende una ragionevole quantità di soldi per alimentare la propaganda a suo favore, è non solo previsto e banale, ma rende piuttosto ridicolo anche chi finge di scandalizzarsi. Avendo svolto molte inchieste giornalistiche sulle influenze della Cia in Italia a partire dal 1947 so come tutti che gli americani hanno finanziato largamente giornali, politici e partiti e hanno fatto a mio parere benissimo perché permettevano di contrapporre una spesa ingente a quella che i comunisti potevano spendere. In Italia si sono già viste commissioni d’inchiesta e procedimenti giudiziari nati e abortiti per indagare sugli agenti e gli anni della vecchia Guerra fredda che sembra oggi sempre la stessa. Le dichiarazioni americane, finora prive di qualsiasi corredo, finiscono per fare il gioco del nemico proprio per la fragilità e la vaghezza con cui sono state formulate, tanto che le stesse fonti americane hanno indicato una dozzina di lontanissimi Paesi extraeuropei, mentre in Italia salivano all’onore della cronaca i nomi di due partiti di centrodestra e del Movimento Cinque stelle.
Risultato? Molte banali levate di scudi di chi grida allo scandalo, simmetriche e altrettanto inutili rispetto a quelle di chi pretende la verità (da chi? dagli americani che hanno preso l’iniziativa di rivelare senza rivelare?) e chi – con raffinatezza intellettuale – si delizia all’idea che l’Italia cada preda di un nuovo maccartismo, una nuova “caccia alle streghe”, seguendo il titolo della commedia di Arthur Miller che dette il nome a un’epoca: quella della persecuzione degli intellettuali sospettati di essere agenti sovietici e oggi di Putin. Avendo compiuto i miei sessanta anni da giornalista, più quattro dedicati all’insabbiata inchiesta sugli influencer russi, mi viene il sospetto che il Segretario di Stato americano sia caduto nel gioco di specchi in cui i russi sono davvero i maestri assoluti.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Fondi russi, gli altarini di Repubblica: cos'ha pubblicato per sei anni. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 16 settembre 2022
L'Italia s' è desta, La Repubblica no. Fanno i segugi nel quotidiano di Maurizio Molinari, masi sono scordati i loro precedenti specifici. Recenti, recentissimi. Ogni giorno ci raccontano di quattrini arrivati da Mosca, mai quelli che sono passati dalle loro parti. La memoria tocca rinfrescarla nei nostri archivi o anche su Google. Mica c'è solo - se c'è, anche se Gabrielli e Urso, sottosegretario ai servizi e presidente del Copasir smentiscono- la politica. I finanziamenti opachi li prendeva ieri chi li denuncia oggi. Se li sono scordati quei soldi dalla Russia, i signori di Repubblica. Prima della guerra all'Ucraina sono arrivati con certezza anche a loro. No, non ci passa per la testa di dire che stanno con Kiev perché Mosca non caccia più moneta, ma davvero le lezioni di etica, fasulle, potrebbero risparmiarcele. Ieri, ad esempio, ci hanno raccontato la bufala dei finanziamenti russi a Lega e Fdi, ma senza uno straccio di prova, di indizio. Voci, che chiunque può far circolare. Tanto in Italia non ci sarà un solo magistrato pronto a sanzionare le balle da campagna elettorale.
LINEE POLITICHE
Ma intanto il puzzo arriva. Lo porta Kurt Volker, ex ambasciatore Usa alla Nato, che si fa intervistare dal quotidiano della Gedi: «Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l'Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fdi da voi». Alè, pure la Meloni adesso. La domanda è obbligata: «Davvero l'allarme riguarda anche Fratelli d'Italia?», chiede Repubblica. «Non ho prove dirette personali, ma è un ritornello costante che c'è stata qualche assistenza. Se guarda bene la loro linea politica, alcuni aspetti riflettono le posizioni russe». Ma complimenti per lo scoop, senza «prove dirette personali»: intanto lo diciamo. Improvvisamente dalla "home" di Twitter spunta un messaggio di aprile del Fatto quotidiano: «Quando chiuse con la Repubblica, Russia Today offrì 1,5 milioni di euro l'anno al Sole 24 ore. Ripetiamo la domanda a Rep: quanto vi dava Mosca per gli spot?». Forse non hanno "prove dirette" sui soldi alla Gran casa della sinistra editoriale. E però non si può fare la morale, "senza prove", da una testata che le "prove" invece se le può far contestare agevolmente.
FINANZIATO DA MOSCA
Perché sono stati sei anni belli ed evidentemente generosi, quelli dal 2010 al 2016. Ogni mese i lettori di Repubblica erano deliziati da un supplemento intitolato Russia Oggi. Era il derivato di Russia Today, poi messo al bando in Occidente sotto l'accusa più pesante: emanazione mediatica dei voleri di Vladimir Putin. Ricordiamo che il quotidiano allora lo dirigeva Ezio Mauro che non nascondeva il suo legame con il supplemento impacchettato ogni trenta giorni dal Cremlino. Perché c'era un annuncio a "spiegare" la pubblicazione dell'inserto, «realizzato senza la partecipazione dei giornali e dei redattori di Repubblica. È finanziato dai proventi dell'attività pubblicitaria e dagli sponsor commerciali, così come da mezzi di enti russi». E chi lo realizzava quel giornale ospitato non gratis da Repubblica? La redazione si chiamava Rossiyskaya Gazeta, quotidiano a sua volta finanziato da Mosca. Insomma, per sei anni uno dei maggiori quotidiani del nostro paese ha concesso spazio alle tesi di Putin attraverso una rivista megafono della Russia. Avrebbero potuto chiedere a uno dei colleghi di Rossiyskaya Gazeta un editoriale su «quanto ci costa la politica italiana». Non conveniva, sennò il flusso dei soldi di Mosca in redazione sarebbe stato immediatamente bloccato. Nel nome della democrazia e della libertà di stampa.
La rivelazione degli 007 americani. Dalla Russia almeno 300 milioni ai partiti di 24 Paesi, l’Italia chiede chiarimenti. Linkiesta il 14 Settembre 2022.
Non sono stati rivelati al momenti i nomi coinvolti. Roma ha chiesto maggiori informazioni, soprattutto in vista delle elezioni del 25 settembre. La Lega, intanto, ha già fatto sapere di voler querelare chiunque associ il nome del Carroccio a questa vicenda. L’ex ambasciatore Volker punta il dito contro Salvini, Meloni e Berlusconi
La Russia ha speso almeno trecento milioni di dollari, a partire dal 2014, cioè dall’anno dell’annessione della Crimea, per finanziare partiti politici, think tank e candidati di 24 Paesi e influenzare così i risultati elettorali. La rivelazione è contenuta in un report dell’intelligence americana di cui ha parlato in un briefing con i giornalisti un alto funzionario dell’amministrazione Biden. Mentre il Dipartimento di Stato rendeva noto un cablogramma inviato dal segretario di Stato Antony Blinken a numerose ambasciate e consolati Usa all’estero – molti dei quali in Europa, Africa e Asia del Sud – manifestando le preoccupazioni americane e spiegando ai funzionari come rispondere, con misure che vanno dalle sanzioni economiche al bando dei viaggi.
Non sono stati resi pubblici né le nazioni bersaglio del soft power russo, né i partiti o i dirigenti coinvolti in questo schema. Ma gli Stati Uniti ritengono che i 300 milioni siano una parte di uno sforzo economico più esteso da parte russa.
Il Washington Post, citando fonti anonime del governo americano, riporta che tra i partiti coinvolti ci sono anche candidati alla presidenza. Tra gli oltre venti paesi interessati ci sarebbero Albania, Montenegro, Madagascar e forse anche l’Ecuador. Si parla anche di un Paese asiatico non identificato, in cui l’ambasciatore russo avrebbe dato milioni di dollari in contanti a un candidato. Gli altri Paesi e politici coinvolti non sono stati rivelati, ma sono concentrati soprattutto in Europa.
«Facendo luce sul finanziamento politico segreto russo e sui tentativi di minare i processi democratici, stiamo avvisando questi partiti e candidati stranieri che se accettano segretamente denaro di Mosca, noi possiamo denunciarli e lo faremo», dice una fonte dell’amministrazione al quotidiano americano. I funzionari, sempre secondo il Washington Post, hanno affermato che le forze legate al Cremlino hanno utilizzato società di comodo, think tank e altri mezzi per influenzare gli eventi politici, a volte a beneficio di gruppi di estrema destra. Il cablo nomina gli oligarchi russi coinvolti negli «schemi di finanziamento», tra cui Yevgeniy Prigozhin e Aleksandr Babakov.
Materiale potenzialmente esplosivo soprattutto in Italia, che tra 11 giorni andrà alle urne. Roma – come spiega Repubblica – ha chiesto a Washington tramite i canali ufficiali di intelligence se l’Italia è parte del dossier e l’identità degli eventuali politici finiti nella rete. Ma gli Stati Uniti mantengono ancora una certa riservatezza. È più probabile quindi che i nomi escano prima da fonti americane che da canali italiani ufficiali. O che magari vengano rilanciati dai media statunitensi.
Palazzo Chigi avrebbe preso molto sul serio la questione, soprattutto in vista del 25 settembre. Unanime la reazione dei partiti italiani, che hanno chiesto al Copasir di fare chiarezza e comunicare eventualmente al Parlamento le informazioni che arrivano dal Paese alleato.
Ieri, in serata, intanto la Lega in una nota ha già fatto sapere di voler querelare chiunque associ il nome della Lega a questa vicenda.
Ma nell’intervista rilasciata a Paolo Mastrolilli di Repubblica, l’ex ambasciatore americano alla Nato Kurt Volker fa esplicitamente i nomi di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. «Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l’Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri Paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fratelli d’Italia da voi», dice.
Come? «Per promuovere la loro narrazione. A volte i fondi vanno ai partiti in Europa, o anche ai singoli politici, con pagamenti diretti oppure affari conclusi da compagnie russe che beneficiano questi politici, creando in loro un interesse diretto ad aiutare Mosca».
L’ambasciatore ammette di non avere prove dirette personali, «ma è un ritornello costante che c’è stata qualche forma di assistenza». E poi, aggiunge, «la Lega è in circolazione da parecchio tempo ed era noto che riflettesse le prospettive russe. Fratelli d’Italia è una formazione più recente, anche se erede di altri partiti, ed è cresciuta in maniera straordinaria nell’ultimo anno. Ciò obbliga a porsi domande su quali sono le fonti dei loro finanziamenti, delle posizioni prese e dell’aumento della popolarità».
E secondo l’ambasciatore, ci sono sospetti anche riguardo Forza Italia. «È interessante che Berlusconi non fosse così filo russo, quando aveva fatto il premier la prima e la seconda volta, ma alla terza è completamente cambiato. Ha sviluppato uno stretto rapporto personale con Putin, e forti relazioni di business con la Russia», sostiene Volker.
Mosca Connection. Ci sarebbe anche l’Italia nel dossier americano sui soldi russi ai partiti. Linkiesta il 15 Settembre 2022.
Secondo quanto scrive Repubblica, citando «una fonte molto autorevole, con diretta conoscenza dei fatti, che ne ha discusso con i vertici del dipartimento di Stato», ci sarebbero informazioni anche sul nostro Paese nel report redatto dagli 007 Usa. Ma per il momento i nomi dei politici che hanno preso soldi da Mosca non vengono divulgati. Secondo Di Maio, potrebbero arrivare presto altri dettagli
Con la nota del segretario di Stato americano Antony Blinken recapitata a Palazzo Chigi e alla Farnesina sulla penetrazione dell’influenza russa nei Paesi europei, a Roma è iniziata la caccia ai nomi. Al momento, non filtra nulla. Il documento con i dettagli è secretato. Ma, secondo quanto scrive Repubblica, citando «una fonte molto autorevole, con diretta conoscenza dei fatti, che ne ha discusso con i vertici del dipartimento di Stato», l’Italia ci sarebbe eccome nel dossier americano sulla corruzione russa nel mondo. E non poteva essere altrimenti, considerando i rapporti con Mosca costruiti negli ultimi decenni da diversi partiti rilevanti. E questo alimenta molti dubbi sulle elezioni del 25 settembre e il futuro assetto del governo italiano.
È possibile che il nostro governo e i servizi di intelligence non siano ancora stati informati dei dettagli perché, dopo l’annuncio dei giorni scorsi, Washington ha deciso di procedere per passi, in base a necessità e circostanze. Ieri però il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Ned Price, ha confermato che «condivideremo con i Paesi alleati le informazioni classificate di intelligence raccolte sulle attività della Russia per influenzare i processi politici nelle democrazie». Quindi se ci sono nomi di politici o partiti che hanno ricevuto favori, e magari violato la legge, prima o poi Roma verrà informata.
Un portavoce del dipartimento di Stato spiega così la logica a Repubblica: «Non entreremo in specifiche informazioni di intelligence, ma siamo stati chiari sulla nostra preoccupazione per l’attività della Russia per influenzare il processo democratico in vari paesi del mondo, inclusi gli Stati Uniti. La nostra preoccupazione per l’attività di Mosca in questo senso non riguarda un Paese, ma è di natura globale, mentre continuiamo ad affrontare le sue sfide contro le società democratiche». La fonte quindi ha chiarito così la strategia: «L’influenza politica segreta russa rappresenta una sfida importante per gli Usa e altre democrazie in tutto il mondo. Abbiamo lavorato per esporla mentre la scopriamo. Abbiamo, e continueremo a lavorare con i nostri alleati e partner in tutto il mondo, per denunciare gli sforzi di influenza maligna della Russia e aiutare altri paesi a difendersi da questa attività». Quanto alla pubblicazione di nomi e cognomi, «non abbiamo ulteriori informazioni da discutere sui Paesi specifici, in merito a questo argomento». E «si tratta di una decisione deliberata», ha spiegato Ned Price, perché ora era importante denunciare la minaccia di Mosca a livello globale, ma nel dettaglio dei singoli Paesi coinvolti l’intelligence lavorerà con discrezione.
Il rapporto inviato a Roma è stato redatto dal Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca ed è composto da un mix di informazioni di intelligence e “open source”, ossia già disponibili pubblicamente. Però non può essere divulgato nella sua interezza, perché contiene diversi capitoli classificati. La ragione per cui Washington ha deciso di procedere con la denuncia è simile a quella che ha portato alla progressiva declassificazione e pubblicazione delle manovre militari russe, alla vigilia e dopo l’invasione dell’Ucraina. I servizi americani, tra l’altro, hanno raccolto negli anni una grande quantità di informazioni sulla corruzione condotta dal Cremlino. Ora quindi le pubblicano, e soprattutto le condividono con i Paesi alleati più colpiti, allo scopo di metterli in condizione di reagire e fermare Mosca.
Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha spiegato che dopo la nota potrebbero arrivare altre rivelazioni, accennando alla possibilità che almeno un altro dossier venga recapitato all’esecutivo italiano.
La notizia, chiaramente, ha messo in subbuglio i partiti italiani a pochi giorni dal voto. E in particolare la coalizione di destra. Il leader della Lega Matteo Salvini è stato il primo a esporsi, dopo aver minacciato querele: «Mi hanno processato come bieco spione russo e invece non era vero niente. Abbiamo chiacchierato sul nulla». Giorgia Meloni ha chiesto «chiarezza» sul caso e Guido Crosetto ha evocato addirittura «l’alto tradimento».
Mentre Adolfo Urso, capo del Copasir di Fratelli d’Italia, dall’America, dove si trova in missione per Giorgia Meloni, inizialmente ha detto: «Non ci sono italiani nel dossier americano». E ha convocato in tutta fretta per domani l’audizione di Franco Gabrielli al Copasir. Poi Urso a Washington ha incontrato il presidente democratico della Commissione intelligence del Senato, Mark Warner, e il repubblicano Richard Burr. Al termine dei colloqui, il suo tono è cambiato, fa notare Repubblica. «L’amministrazione Usa fornisca immediate ed esaurienti informazioni al governo italiano sul dossier sui finanziamenti russi a partiti ed esponenti politici di alcuni Paesi», ha detto. «È necessario fare subito assoluta chiarezza. Siamo in campagna elettorale e abbiamo il dovere di tutelare le istituzioni democratiche e di evitare ogni forma di delegittimazione».
Unfit to lead. Salvini è inadeguato a governare, ma risparmiamoci il processo alle intenzioni sui soldi dalla Russia. Andrea Cangini su L'inkiesta il 16 Settembre 2022
Finora la notizia sui presunti finanziamenti del Cremlino ai partiti europei non ha portato a elementi concreti di colpevolezza. Non bisogna indulgere nella cultura del sospetto. Basta guardare la storia politica del leader della Lega per capire la sua mediocrità
Ci sono ottime ed evidenti ragioni politiche interne e internazionali per considerare Matteo Salvini inadeguato a ricoprire funzioni di governo, ragioni che rischiano di essere eclissate dal fuoco di sbarramento mediatico innescato dalle rivelazioni sui finanziamenti russi.
Rivelazioni che, per il momento, non hanno rivelato nulla. Nulla di concreto: né un nome, né un fatto, né una circostanza. Per ora si tratta di un processo alle intenzioni. Un processo mediatico ispirato dalla cultura del sospetto.
Un sospetto legittimamente dovuto alle passate scelte politiche filoputiniane di Matteo Salvini e alle sue ambiguità presenti sull’Ucraina. Ma comunque un processo alle intenzioni. Intenzioni criminali, per giunta. Un metodo oggettivamente scorretto, poco garantista e nella realtà destinato a puntellare il sempre più precario segretario della Lega Salvini premier, un tempo “Lega Nord”.
In attesa di eventuali prove sui soldi russi e sulla eventuale ricattabilità di Matteo Salvini, il metodo liberale imporrebbe di attenersi ai fatti. Ai fatti della politica interna e ai fatti, mai come oggi qualificanti, della politica internazionale. Ne abbiamo già a sufficienza per esprimere un giudizio lapidario.
Rublodollari e moralismi. Gratuito o mercenario, il sostegno a Putin è un alto tradimento. Carmelo Palma su L'inkiesta il 16 Settembre 2022
Al di là di stucchevoli processi mediatici sulle presunte mazzette del Cremlino ai partiti italiani, è così rilevante sapere se l’amore dichiarato per il dittatore russo di Salvini e Berlusconi sia stato sincero o pagato? O se il pacifismo anti-ucraino del Movimento 5 stelle sia stato fatturato? È una questione di responsabilità politica, non solo penale
Scommetto un euro che dei trecento milioni di rublodollari, di cui i servizi americani seguono le tracce in Europa e rendono noto di avere una contabilità abbastanza precisa, neppure una mazzetta sarà trovata in Italia nelle tasche o nei conti dei molti indiziati speciali della benevolenza del Cremlino.
Non lo dico – sia chiaro – per fiducia nell’onestà degli amici italiani di Putin, che sono tanti e pure tanto bisognosi, né per sfiducia nelle buone intenzioni dell’intelligence Usa. Non è in discussione, ovviamente, che il regime putiniano, alla pari di qualunque organizzazione mafiosa, usi la corruzione economica, quanto il ricatto e l’intimidazione, come strumento di infiltrazione, reclutamento e condizionamento politico.
A essere in discussione è che queste operazioni speciali possano essere contestate, accertate e sanzionate in sede giudiziaria come se fossero le bustarelle di Mario Chiesa. Per quanto malconciati siano gli apparati russi, c’è da dubitare che ignorino le tecniche, alla portata di qualunque organizzazione criminale transnazionale, per movimentare montagne di soldi invisibili.
Per altro verso, sia detto in generale, varrebbe la pena di essere prudenti circa il vantaggio di montare processi mediatici usando a spizzichi e bocconi gli stralci dei dossier degli apparati di sicurezza, come altri fanno con le intercettazioni ricettate nelle segrete stanze delle procure. Anche perché al gioco dei veri o finti dossier potrebbero iniziare a giocare anche i russi. Così, in ogni caso, non si fa una buona giustizia, ma neppure una buona politica, meno che mai antitotalitaria.
A partire da questa vicenda, è invece più interessante e secondo me urgente riflettere sul fatto che a suscitare interesse e riprovazione e a far gridare al tradimento non sia la militanza apertamente collaborazionistica di una grande parte della politica italiana con l’avvelenatore in chief di Mosca, ma il possibile emolumento per il servizio prestato.
Davvero è così rilevante sapere se l’amore dichiarato per Putin di Salvini e Berlusconi sia stato sincero o mercenario, se il pacifismo anti-ucraino del Movimento 5 stelle e della sinistra senza se e senza ma, prima e dopo il 24 febbraio 2022, sia stato pro bono o fatturato e se il ruffiano relativismo sulla complessità della questione russa, che ha portato la meglio gioventù e i venerati maestri della politica italiana, a destra come a sinistra, a tenere bordone al macellaio del Cremlino e a menare scandalo per le sanzioni e per l’isolamento di Mosca, sia stato remunerato o l’unica remunerazione concessa sia stata la considerazione e l’amicizia del grande capo della satrapia cekista?
In un Paese come l’Italia, abituata al voyeurismo giudiziario e quindi a eccitarsi e indignarsi solo guardando la politica dal buco della serratura delle inchieste e dei processi, sembra che l’accusa di putinismo, che oggi la generalità dei putiniani rigetta sdegnosamente, possa essere dimostrata unicamente portando le prove di una corruzione economica o di un guadagno colpevole.
Il che conferma che la cultura di Tangentopoli non ha solo imbarbarito, ma anche instupidito l’Italia, stabilendo l’equivalenza tra lo scandalo e l’illecito e tra la responsabilità politica e quella penale. Quindi, alla fine, se non c’è un reato, se non si trovano i piccioli, se non si trovano ad esempio le piste, cancellate proprio da parte russa, del dopo Metropol, allora non c’è nulla di cui rispondere, vero?
Se Salvini eleggeva Mosca a Gerusalemme della diaspora sovranista, se Meloni esecrava le «folli sanzioni» alla Russia dopo l’invasione del Donbass e l’annessione della Crimea, se Berlusconi giurava in mondovisione sulla caratura democratica del suo amico particolare, se Prodi denunciava l’errore dell’ostracismo di Putin e ostentava ricambiato familiarità col capobanda moscovita, sdilinquendosi in complimenti sulla sua abilità economica e politica, se insomma accadeva tutto questo e moltissimo altro di uguale o di simile, possiamo dire che in realtà non è successo niente e non si è consumato alcun oltraggio alla causa della verità e della libertà, della pace e della sicurezza, se questa difesa di Putin non è stata contraccambiata almeno da un piccolo cadeau?
Possibile che pure sugli affari internazionali, cioè sulle questioni più radicalmente esistenziali per la nostra democrazia, la misura della qualità, dell’onestà e della lealtà patriottica della classe politica sia misurata da un metro così stupidamente moralistico
Strumenti di pressione. La lunga storia dell’influenza esercitata da Putin per destabilizzare l’Occidente. Maurizio Stefanini Linkiesta il 15 Settembre 2022.
Le rivelazioni del Dipartimento di Stato americano sui soldi dati da Mosca alle formazioni politiche europee non sono una sorpresa perché accompagnano una fitta e variegata serie di operazioni, anche social, che da tempo abbiamo purtroppo imparato a conoscere
La Russia di Putin usa i finanziamenti, ma i suoi strumenti di influenza sono soprattutto altri. Lo stesso alto funzionario dell’amministrazione Biden, che in una conference call ha riferito di come all’intelligence americana risultino almeno 300 milioni di dollari in trasferimenti segreti a partiti politici, dirigenti e politici stranieri in 24 Paesi a partire dal 2014 ha subito aggiunto come gli Stati Uniti si aspettino comunque nei prossimi mesi un utilizzo sempre maggiore dei mezzi di influenza coperta da parte dei russi. Con l’obiettivo di minare le sanzioni internazionali per la guerra in Ucraina e mantenere la sua influenza nel mondo.
Quando si parla delle operazioni con cui in passato il Cremlino è stato accusato di avere influenzato la politica straniera, come con la Brexit, l’elezione di Trump, la protesta separatista in Catalogna, la sconfitta del referendum di Renz, l’agitazione No Vax o la richiesta di impeachment a Mattarella per favorire la formazione del governo giallo-verde, il riferimento è essenzialmente a un lavorio fatto sulle piattaforme social. In particolare, attraverso quella Internet Research Agency di San Pietroburgo che si è meritata il soprannome di «fabbrica dei troll», e il cui finanziatore è Yevgeny Prigozhin. Il «cuoco di Putin» che – su un altro campo – sempre per rafforzare l’influenza russa ha inventato la compagnia di ventura Wagner.
Il Dipartimento di Stato ha fatto sapere di avere inviato la relativa documentazione alle ambasciate e ao consolati nei Paesi interessati, ma a quanto pare secondo i servizi americani sarebbe solo la punta dell’iceberg. Quei 300 milioni, spiegano, non sono che una cifra minima, e probabilmente Mosca ha preferito trasferire probabilmente altri fondi in modo coperto. Non vengono fatti nomi o citati Paesi, ma il Dipartimento di Stato è sicuro di poterli fornire presto. Non è chiaro se ci sia un problema di accertamenti o decrittazione, o se piuttosto i nomi vengano tenuti in sospeso per tenere qualcuno sotto pressione.
Ma il fatto che i finanziamenti non siano neanche il principale strumento di influenza di Putin, ad esempio, era stato espresso dal politologo ucraino Anton Shekhovtsov quando nel 2017 era venuto a Roma per un convegno sulla strategia di influenza della Russia in Europa organizzato dall’Atlantic Council e dall’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici.
Visiting Fellow all’austriaco Institute for Human Sciences, tra i massimi esperti nei rapporti tra Putin e i movimenti populisti di destra e di sinistra, autore di un libro sulla storia dell’attrazione reciproca tra la Russia sovietica e post-sovietica e il fascismo e radicalismo di destra, Shekhovtsov spiegò in particolare che all’epoca «l’evidenza più forte per un finanziamento vero e proprio dalla Russia riguarda solo un gruppuscolo di estrema destra polacco non molto influente».
In effetti, ci sarebbero anche i 9 milioni di euro che nel 2017 il partito di Marine Le Pen ottenne in prestito dalla First Czech Russian Bank: fondata nel 1996 con capitali di Praga e di Mosca, acquisita nel 2002 dalla StroyTransGaz , la società russa che costruisce i gasdotti per la Gazprom. Lo scorso 20 aprile il presidente francese Emmanuel Macron glielo rinfacciò durante un dibattito elettorale, e lei rispose: «Se sono stata costretta ad andare a fare un prestito all’estero è perché nessuna banca francese ha accettato di concedermelo. Sono una donna assolutamente libera». L’idea di Shekhovtsov era che «non è corretto dire che è stata finanziata dalla Russia. Ha ricevuto soldi in prestito, ma dovrà restituirli». Va detto che secondo successive inchieste di Le Monde e Mediapart la Le Pen avrebbe chiesto a banche russe 40 milioni.
Poi, nel febbraio del 2019, fu rivelata la la storia dell’incontro che il 18 ottobre 2018 ci sarebbe stato all’hotel Metropol di Mosca tra tre italiani e alcuni russi non identificati. Tra gli italiani c’è Gianluca Savoini, esponente leghista proveniente dall’estrema destra, presidente dell’associazione Lombardia Russia, già portavoce di Salvini, e grande tessitore di rapporti tra la Russia e la Lega. Si parla di una trattativa per la vendita di petrolio dalla quale, secondo gli accordi, dovrebbero risultare dei fondi neri per il finanziamento della campagna elettorale della Lega in vista delle elezioni europee: 3 milioni di tonnellate di gasolio da far arrivare all’Eni, per un valore di 1 miliardo e mezzo di dollari, 65 milioni dei quali per le casse della Lega.
Savoini, in particolare, fornisce il contesto politico della trattativa, spiegando che la Lega insieme all’alleanza sovranista vuole «cambiare l’Europa. La nuova Europa deve essere molto vicina alla Russia». Il giorno prima, il 17 ottobre, sempre a Mosca, l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva partecipato a un incontro organizzato da Confindustria al Lotte Hotel, al quale era presente anche Savoini. In realtà, molti analisti si dissero subito certi che sotto dovessero esserci i servizi russi, per il fatto che l’Hotel Metropol è notoriamente sotto stretto controllo del Fsb. Ma nessuno si sbilanciò se fosse on regolamento di conti nei servizi russi stessi, o piuttosto un «avvertimento» a Salvini, che in quel momento si stava avvicinando a Trump, e aveva anche proposto al Cremlino di fare una «prima mossa» in Ucraina.
In realtà, un rapporto organico tra Lega e regime di Putin esiste nella forma di un patto di cooperazione col partito putiniano Russia Unita. Firmato a Mosca il 6 marzo del 2017, scadeva il 6 marzo 2022, ma in mancanza di comunicazione è stato rinnovato automaticamente fino al 6 marzo 2027. Come ricordava sempre Shekhovtsov, la Lega ha poi votato sistematicamente posizioni pro-Putin al Parlamento Europeo all’interno di un gruppo in cui fa parte di un nucleo duro filo-Cremlino, assieme al partito di Marine Le Pen e all’Fpö austriaco. Di quest’ultimo partito si può ricordare come il 18 maggio 2019 Heinz-Christian Strache diede le dimissioni da presidente, oltre che da vicecancelliere e ministro del Servizio Civile e dello Sport, in seguito alla pubblicazione da parte della Suddeutsche Zeitung e dello Spiegel di un video girato nel 2017 a Ibiza in cui Strache accettava offerte di corruzione dalla sedicente nipote di un oligarca russo, che in realtà era una giornalista d’inchiesta. Insomma, come la Lega anche la Fpö si è mostrata filo-Putin, è apparsa disposta a prendere soldi dalla Russia, ma non c’è evidenza che li abbia presi. Da ricordare che accanto a Strache a dirsi disposto a prendere 250 milioni di euro era il compagno di partito Johann Gudenus; noto come «uomo dei russi», e figlio di un colonnello negazionista dell’Olocausto.
Nello stesso gruppo figura anche Alternative für Deutschland (Afd). In un’inchiesta congiunta del 2019 dello Spiegel, della Zdf e della Bbc sui tentativi del Cremlino di influenzare le Legislative del 2017 saltò fuori un documento russo sul deputato Afd Markus Frohnmaier come «uno dei parlamentari che sarà sotto assoluto controllo». Secondo un’informativa di un’intelligence dell’Ue in mano all’emittente britannica, Frohnmaier avrebbe chiesto aiuto ai russi per la campagna del 2017 in cambio della fedeltà poi in politica estera. Sempre durante quella campagna tre esponenti della Afd sarebbero volati a Mosca con biglietti pagati dai russi. Effettivamente in questi mesi Afd sta facendo una campagna durissima contro le sanzioni, al punto che il cancelliere Scholz la ha definita «partito della Russia».
Insomma, ci sono sospetti di finanziamenti, e ci sono evidenze di appoggi. In Italia riguardano non solo la Lega ma anche i Cinque Stelle e Forza Italia. In passato anche Fratelli d’Italia, che però sembra avere ora cambiato linea in modo radicale. È possibile che le due cose siano state collegate? Tutti e tre i partiti del centrodestra sono stati in realtà tirati in ballo in una intervista dell’ex-ambasciatore Usa presso la Nato di Bush, Kurt Volker. «Le simpatie per la Russia della Lega e di Berlusconi erano note, ma ora il ritornello costante è che anche Fratelli d’Italia abbia ricevuto qualche aiuto», ha detto. «Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l’Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fratelli d’Italia da voi».
Ovviamente, la cosa ha provocato minacce di querela e smentite, e si è detto addirittura che l’Italia tra i 24 Paesi non ci sarebbe. Lo stesso Volker ammette che non ha «prove dirette personali, ma è un ritornello costante che c’è stata qualche assistenza. Se guarda bene la loro linea politica, alcuni aspetti riflettono le posizioni russe».
Ma forse la cosa interessante è che pure secondo Volker «il Cremlino cerca di promuovere da anni la divisione nelle nostre società: l’uso più semplice dei fondi è coi social media». Era appunto anche la tesi di Shekhovtsov. «A volte i fondi vanno ai partiti in Europa, o anche ai singoli politici, con pagamenti diretti oppure affari conclusi da compagnie russe che beneficiano questi politici, creando in loro un interesse diretto ad aiutare Mosca», ha aggiunto Volker. Ma la sua domanda di Volker su come Fratelli d’Italia sia «cresciuta in maniera straordinaria nell’ultimo anno» e dunque «su quali sono le fonti dei loro finanziamenti, delle posizioni prese e dell’aumento della popolarità» trova però come prima risposta proprio il fatto che Fratelli d’Italia come unico grande partito di opposizione alla compagine di unità nazionale di Draghi ha raccolto un vento di protesta di cui è stata componente quell’agitazione No Vax che la «fabbrica dei troll» ha pompato.
Così come per far eleggere Trump aveva pompato la storia di «Hillary Clinon pedofila» o per favorire la Brexit aveva pompato fake anti-Ue.
Giovanni Tizian e Nello Trocchia per editorialedomani.it il 17 marzo 2022.
Mille euro sono spiccioli per un partito. Ma ci sono spiccioli che pesano più di altri. Soprattutto se a versarli a un movimento politico, in questo caso l’articolazione siciliana della Lega di Matteo Salvini, è un’azienda tra i cui soci c’è un imprenditore condannato per reati di mafia e ha un fratello capo clan imparentato con il latitante dei latitanti: Matteo Messina Denaro, un fantasma da 29 anni, condannato anche per le stragi al tritolo del 1993 e 1994 firmate da Cosa nostra, la mafia siciliana all’epoca ancora in mano a Totò Riina.
In questa storia di finanziamenti ai partiti ambientata nel cuore della Sicilia c’è anche un’altra anomalia: nella ditta, che si chiama Flott Spa, è presente con una quota persino lo stato, subentrato dopo una confisca effettuata secondo la normativa antimafia.
Flott Spa è una realtà solida, marchio internazionale nella conservazione del pesce. La sede è a Aspra, comune di Bagheria, città natale di grandi talenti come il pittore Renato Guttuso e Giuseppe Tornatore, regista tra i tanti successi anche di Baaria, in siciliano Bagheria, appunto. Grandi talenti, ma feudo di cosche feroci prima e di successo imprenditoriale negli anni della pace post stragi ‘92-’94.
Flott Spa ha versato 1.000 euro alla Lega Salvini premier Sicilia alla fine di dicembre 2021. La donazione ha seguito i canali formali e legali, è stato dichiarato alla tesoreria del Parlamento che acquisisce le dichiarazioni congiunte di entrami le parti in causa con cui attestano la ricezione di finanziamenti.
Sul piano della forma, perciò, nulla da eccepire. Lascia certamente a desiderare la dimensione dell’opportunità politica di accettare un contributo seppure minimo da una società in cui il 20 per cento è in mano a Carlo Guttadauro, che ha finito di scontare una condanna per estorsione aggravata dal metodo mafioso e ha un fratello medico (ex primario del Civico di Palermo) arrestato di nuovo recentemente con l’accusa di aver fatto parte della famiglia mafiosa del mandamento di Brancaccio, quartiere di Palermo. Il terzo fratello Guttadauro si chiama Filippo: è lui il marito della sorella del latitante di Matteo Messina Denaro.
E dalle carte dell’inchiesta che ha portato in carcere Giuseppe Guttadauro emerge che quest’ultimo non ha niente più da spartire con il fratello Carlo e da tempo in famiglia le comunicazioni tra i congiunti si sono interrotte. Ma torniamo alla Flott e allo scomodo e indesiderato socio.
Il fatto curioso è che tutti i protagonisti di questa generosa donazione alla Lega dicono di non sapere, non ricordano, rimandano ad altri e altri ancora. Tutti prendono le distanza dal socio scomodo, Guttadauro, e sostengono che hanno provato a mandarlo via senza riuscirci.
Fatto sta che l’uomo della cosca è tuttora socio e lo era anche nei giorni in cui è partito il bonifico per sostenere la Lega. Di certo c’è che nella Flott convivono anime diverse: l’imprenditore, l’imprenditore cognato del condannato per estorsione mafiosa, il condannato per estorsione mafiosa e lo stato.
Partiamo dall’Agenzia dei beni confiscati, che si occupa anche delle aziende sottratte ai clan. Lo stato controlla il 5 per cento della società Flott, ma una funzionaria contattata da Domani spiega che la percentuale di azioni detenuta dopo la confisca è talmente irrisoria da non permettere all’amministratore giudiziario di quel pacchetto azionario di intervenire nella gestione della ditta.
Carlo Guttadauro ha detto, invece, a Domani che non ne sapeva nulla di questo finanziamento alla Lega, si dice vittima della giustizia, perseguitato dalla legge per alcune parole pronunciate contro un interlocutore e per questo condannato. Così ridimensiona quello che hanno accertato i giudici: un’estorsione aggravata dal metodo mafioso.
Ma non ci parla solo della sentenza, ma anche della sua posizione all’interno dell’azienda. Ci racconta il conflitto nato con l’altro socio presente nella Flott, suo cognato, con il quale non ha più rapporti.
Da quel che dice il fratello del capo mafia è in corso una guerra legale per la proprietà dell’azienda, Guttadauro accusa il cognato di avergli rubato la titolarità, ma ha perso tutte le cause che ha intentato e si sente inascoltato dalla legge. Intanto però Guttadauro continua a essere dentro l’azienda. Perché nessuno riesce a cacciarlo.
Né il cognato, Tommaso Tomasello che si smarca dalla parentela scomoda e dice di non sapere nulla di quei soldi. «Chi ti ha dato il mio numero, non può chiamare e rompere le palle, che ne posso sapere, io sono solo un socio», dice Tomasello.
Così chiediamo all’amministratore unico, Giovanni Perilli, che prende le distanze dal socio scomodo: «Non mette piede in azienda da trent’anni». Dopo un primo tentennamento, verifica le carte e racconta quel versamento. «Abbiamo deciso di sostenere la Lega perché condividiamo l’impegno del ministro Giancarlo Giorgetti a favore delle piccole e medie imprese». Ci risponde non prima di aver sottolineato la solidità dell’azienda e denunciando l’atavico problema della carenza infrastrutturale in Sicilia.
«Non sono di che donazione parlate», risponde Antonino Minardo, coordinatore regionale della Lega di Salvini. La telefonata non dura molto, per un impegno del deputato. Può un segretario non conoscere i suoi finanziatori? Potrebbe essere.
Da queste parti ricordano tutti Matteo Salvini l’ultima volta che ha fatto un viaggio a Palermo indossare la mascherina con disegnato il volto di Paolo Borsellino, il giudice ucciso il 19 luglio 1992 nell’attentato terroristico-mafioso di via D’Amelio. Certamente Salvini non era a conoscenza della storia dell’azienda che ha donato il soldi al partito siciliano. Ora lo sa, come si comporterà? Restituirà il denaro o lascerà che i suoi leghisti di Sicilia lo utilizzino per organizzare eventi politici?
Lega, il tesoriere e deputato Giulio Centemero condannato a 8 mesi per finanziamento illecito. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 14 Marzo 2022.
La vicenda riguarda 40mila euro ricevuti da Esselunga nel 2016 concordato con il fondatore Caprotti e utilizzati per sanare i conti di Radio Padania.
E' stato condannato a otto mesi Giulio Centemero, il deputato e tesoriere della Lega accusato di finanziamento illecito per i 40 mila euro ricevuti da Esselunga, nel giugno 2016. Accolta così la richiesta del procuratore aggiunto Eugenio Fusco e del pm Stefano Civardi che avevano chiesto per lui la stessa condanna. Secondo l'impianto accusatorio, Centemero aveva concordato tra il 2015 e il 2016 il pagamento della somma di denaro con il fondatore della catena di supermercati, Bernardo Caprotti, poi deceduto.
(ANSA il 14 marzo 2022) - E' stato condannato a 8 mesi il tesoriere della Lega e deputato Giulio Centemero imputato per un presunto finanziamento illecito da 40mila euro del giugno 2016 concordato, per l'accusa, con il patron della catena di supermercati Esselunga Bernardo Caprotti, morto nel settembre di 6 anni fa.
Lo ha deciso il giudice dell'undicesima penale di Milano Maria Idria Gurgo di Castelmenardo. Secondo l'accusa, il presunto finanziamento illecito da Esselunga alla Lega era arrivato all'associazione 'Più voci', di cui Centemero era legale rappresentante, e sarebbe stato girato al Carroccio anche per rimpinguare le casse di Radio Padania.
Il giudice ha anche stabilito una multa per Centemero da 9mila euro, la sospensione della pena e la non menzione della stessa (motivazioni del verdetto in 30 giorni). Secondo le indagini della Gdf, coordinate dall'aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi, che avevano chiesto una condanna proprio a 8 mesi, "il 13 giugno del 2016 per volontà di Bernardo Caprotti" erano stati "erogati 40mila euro alla Lega, camuffati da liberalità nei confronti dell'associazione 'Più voci'" e "che sono serviti per pagare i debiti della voragine aperta della Lega, che è Radio Padania".
Col "processo di Genova in corso", aveva detto Civardi nella requisitoria, e col "problema della confisca dei soldi che poi è arrivata" sui famosi 49 milioni di euro di cui si è persa traccia, "il modo più semplice per finanziare la Lega era pagare i debiti, versare i soldi nella voragine aperta della Lega, ossia Radio Padania".
L'ordinamento, ha detto ancora il pm, "richiede che quando finanzi un partito devi dirlo devi essere trasparente", mentre "è reato quando lo fai senza ammetterlo", ovvero passando come in questo caso, secondo l'accusa, per un'associazione.
Con quei 40mila euro da Esselunga, secondo l'accusa, erano state fatte "due cose": un finanziamento a Radio Padania da 10mila euro e 30mila euro "girati a Mc, che lo stesso Centemero indica come una società partecipata dalla Lega". Società quest'ultima che, poi, con parte di quel denaro ha pagato anche un "convegno del 25 giugno 2016 a Parma, organizzato dalla Lega per la costruzione del cantiere del centrodestra".
I legali di Centemero, gli avvocati Roberto Zingari e Giovanni Conti, avevano chiesto l'assoluzione "perché il fatto non sussiste", perché non "è emerso in alcun modo che ci sia stato un accordo illecito per un finanziamento occulto alla Lega". Per la difesa, si è trattato di "un finanziamento a Radio Padania" per "ragioni commerciali", dato che la radio faceva pubblicità al marchio Esselunga, "e non è andato un solo euro alla Lega".
(ANSA il 14 marzo 2022) - "Prendiamo atto del provvedimento assunto oggi e vedremo a breve quali ne saranno le motivazioni. Ma rimaniamo fermi sulle nostre posizioni. L'associazione 'Più voci' è stata amministrata nel pieno rispetto delle regole e siamo certi che nei successivi gradi di giudizio non si potrà che prenderne atto". Così il deputato Giulio Centemero, tesoriere della Lega.
(ANSA il 14 marzo 2022) - "Attendiamo le motivazioni, ma siamo assolutamente sicuri dell'innocenza e confidiamo nei prossimi gradi di giudizio". Lo ha detto l'avvocato Roberto Zingari, uno dei legali di Giulio Centemero, commentando la condanna a 8 mesi per finanziamento illecito per il tesoriere e deputato della Lega.
Sentenza arrivata oggi da parte dell'undicesima sezione penale di Milano. Centemero è a processo anche a Roma, assieme, tra gli altri, al senatore di Italia Viva Francesco Bonifazi, nell'ambito di uno dei filoni scaturiti dall'inchiesta sul nuovo stadio della Roma. I due sono accusati di un presunto finanziamento illecito ricevuto dall'imprenditore Luca Parnasi.
Al centro dell'indagine romana i finanziamenti di Parnasi e in particolare i 150 mila euro destinati alla fondazione Eyu, vicina al Pd (partito per il quale Bonifazi era tesoriere all'epoca dei fatti), e i 250 mila euro all'associazione 'Più Voci' presieduta all'epoca dei fatti da Centemero, a cui la Procura della Capitale contesta anche il reato di autoriciclaggio per soldi trasferiti a 'Radio Padania'.
IL FALLIMENTO DI SALVINI. Condannato il tesoriere che doveva cambiare il sistema leghista. ALFREDO FAIETA E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 14 marzo 2022
Centemero è stato condannato dal tribunale di Milano a otto mesi di carcere e 9mila euro di multa per finanziamento illecito di partito. La pena, ha stabilito il giudice della undicesima sezione Maria Idria Gurgo Di Castelmenardo, è stata sospesa ed è stata decisa anche non menzione nel casellario giudiziale.
La decisione del magistrato milanese ha ricalcato esattamente quella che era stata la richiesta della procura, che all'incirca un mese e mezzo fa aveva sottolineato l'illiceità di un pagamento da 40 mila euro effettuato dalla catena di supermercati Esselunga nel 2016 all'associazione Più Voci.
Quei soldi erano serviti, secondo la ricostruzione della procura, sia per sostenere Radio Padania sia per organizzare nel 2016 un convegno politico patrocinato dalla Lega che si è tenuto a Parma nell'auditorium Paganini nel quale è intervenuto anche il leader Matteo Salvini, cui Centemero è molto legato.
Giulio Centemero, oltreché deputato, è il tesoriere della Lega scelto da Matteo Salvini per far dimenticare gli scandali del passato, quelli dell’epoca della truffa da 49 milioni sui rimborsi elettorali. E invece con la stagione di Salvini segretario è iniziata una nuova era di scandali nati sempre dalla gestione delle finanze del partito. Centemero è stato infatti condannato dal tribunale di Milano a otto mesi di carcere e 9mila euro di multa per finanziamento illecito di partito. La pena, ha stabilito il giudice della undicesima sezione Maria Idria Gurgo Di Castelmenardo, è stata sospesa ed è stata decisa anche non menzione nel casellario giudiziale.
PIÙ VOCI
La decisione del magistrato milanese ha ricalcato esattamente quella che era stata la richiesta della procura, che all'incirca un mese e mezzo fa aveva sottolineato l'illiceità di un pagamento da 40 mila euro effettuato dalla catena di supermercati Esselunga nel 2016 all'associazione Più Voci. Un ente fondato dagli uomini del cerchio magico di Matteo Salvini e domiciliato presso lo studio dei «commercialisti della Lega» Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, finito anche nell'inchiesta della procura di Roma che vede al centro il costruttore Luca Parnasi.
Quei soldi erano serviti, secondo la ricostruzione della procura, sia per sostenere Radio Padania sia per organizzare nel 2016 un convegno politico patrocinato dalla Lega che si è tenuto a Parma nell'auditorium Paganini nel quale è intervenuto anche il leader Matteo Salvini, cui Centemero è molto legato.
I soldi, nella ricostruzione della Guardia di finanza che ha svolto le indagini, erano entrati nella disponibilità del partito tramite un'oscura srl – la Mc – che è di proprietà di Pontidafin, a sua volta posseduta dal partito. L'ex direttore affari generali e rapporti istituzionali della catena di Esselunga Marco Zambelli a tal proposito aveva raccontato ai giudici di aver incontrato in un paio di occasioni proprio Centemero nella storica sede del Carroccio in via Bellerio a Milano e da lui aver ricevuto la richiesta di effettuare un versamento a Più Voci.
«L'associazione Più Voci non esiste» aveva detto senza tanti giri di parole il pubblico ministero Stefano Civardi durante la sua breve requisitoria per sottolineare la mancanza di un'attività propria che giustificasse il ricevimento di questo denaro. «Se la cercate sul web troverete solo notizie sul processo romano che riguarda Parnasi», aveva anche ironizzato davanti al giudice che poco prima aveva ricevuto dall'avvocato di Centemero le sue dichiarazioni spontanee per iscritto nelle quali si sottolineava invece il suo carattere sociale e culturale.
Per l'accusa un altro indizio di colpevolezza era rappresentato da una email dell'ottobre del 2017, inviata da Centemero a una serie di colleghi di partito o di personaggi contigui alla Lega, nella quale si faceva presente che il «veicolo» per supportare le future elezioni sarebbe dovuto essere un'associazione (quale era Più Voci), perchè una fondazione «avrebbe avuto profili di rischio».
L’ALTRO PROCESSO A ROMA
Centemero è sotto processo anche a Roma con la stessa accusa di finanziamento illecito per 250 mila euro ricevuti dal costruttore Parnasi, versati alla Più Voci. Una somma sostanziosa ricevuta tra il 2015 e il 2016, negli anni in cui la Lega di Salvini aveva bisogno di denaro per soddisfare la ambizioni di crescita del suo leader.
Con il costruttore Parnasi, poi coinvolto nell’inchiesta per corruzione sul nuovo stadio della Roma, i leghisti avevano avuto incontri riservati nella sua abitazione e l’intenzione dell’imprenditore era quello di foraggiare ulteriormente il partito tramite varie modalità. Una di queste era la via già praticata della Più Voci, l’altro non più percorsa era pagare Radio Padania per della pubblicità fittizia.
I TRE CONTABILI
La vicenda dell’associazione “inesistente” usata per veicolare denaro al partito si incastra nella più complessa gestione delle finanze del partito da quando Salvini ha messo ad occuparsene Centemero e i suo amici e colleghi commercialisti, Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba. Il tesoriere oltre a essere socio dei due ha delegato gran parte del lavoro di amministrazione allo studio dei professionisti bergamaschi, che sono stati condannati in primo grado per la distrazione di fondi della regione Lombardia. Un’altra storia che incrocia i fondi del partito: infatti i denari pubblici sono finiti a società del giro dei commercialisti che dalla Lega hanno ricevuto centinaia di migliaia di euro per servizi offerti. Di Rubba e Manzoni sono stati, fino a che l’indagine non li ha travolti, i revisori contabili dei gruppi parlamentari alla Camera e al Senato. Scelti da Centemero e da Salvini, hanno fatto grandi affari con il partito.
La condanna del tesoriere in primo grado è un problema per il leader della Lega, che si trova con l’ufficio finanziario del partito falcidiato dai processi. Tuttavia può ritenersi fortunato Salvini: ai tempi di tangentopoli, quando processarono il tesoriere dell’epoca della Lega Nord a processo finì anche il capo del partito nonché fondatore, Umberto Bossi, per un cifra inferiore a quella sganciata dal costruttore Parnasi all’associazione Più Voci.
LE ALTRE INCHIESTE SUI SOLDI
Il processo a Centemero non ha, però, chiuso il capitolo giudiziario sui fondi della Lega. A Milano i magistrato continuano a indagare sui due commercialisti, soci del tesoriere. E da ormai due anni gli investigatori stanno setacciando i conti correnti di aziende fornitrici del partito per verificare i sospetti avanzati dall’antiriciclaggio di Banca d’Italia, che a partire dal 2016 ha inviato numerose segnalazioni a diverse procure. ALFREDO FAIETA E GIOVANNI TIZIAN
(ANSA il 9 febbraio 2022) - Il pm di Milano Stefano Civardi ha chiesto una condanna a 8 mesi per il tesoriere della Lega e deputato Giulio Centemero per un presunto finanziamento illecito da 40mila euro del giugno 2016 concordato, per l'accusa, tra il 2015 e il 2016 con il patron della catena di supermercati Esselunga Bernardo Caprotti, morto nel settembre di 6 anni fa.
Secondo le indagini, il finanziamento illecito da Esselunga alla Lega arrivò all'associazione 'Più voci', di cui Centemero era legale rappresentante, e poi sarebbe stato girato al Carroccio anche per rimpinguare le casse di Radio Padania.
Il pm nel chiedere la condanna ha ricordato, in particolare, una delle tre testimonianze arrivate nella scorsa udienza, quella di Marco Zambelli, ex direttore affari generali (fino al 2018) di Esselunga.
"Centemero prima mi disse che il finanziamento doveva andare a Radio Padania e poi che invece doveva andare all'associazione 'Più voci' e così venne fatto, l'indicazione del cambio di beneficiario dell'erogazione fu data da Centemero", aveva spiegato il teste.
"Incontrai Centemero - aveva detto Zambelli, rispondendo alle domande del pm Civardi davanti al giudice Maria Idria Gurgo di Castelmenardo - dopo una richiesta di Caprotti che mi invitava a vederlo e lo incontrai in via Bellerio nella sede della Lega. Faceva parte del mio compito di curare le relazione esterne".
E ancora: "Caprotti è sempre stato legato, come noto, al centrodestra e alla Lega e fu lui a dirmi che bisognava aiutarla in qualche modo con un'erogazione. Decideva Caprotti chi finanziare". Oggi i legali di Centemero, imputato anche a Roma per finanziamento illecito, hanno depositato ai giudici delle dichiarazioni difensive del deputato, che non ha potuto essere presente in aula perché "impegnato in votazioni".
E' stato ascoltato oggi in aula anche un consulente della difesa che, in sostanza, ha illustrato la regolarità del finanziamento da 40mila euro.
Il pm nel suo intervento, invece, ha fatto riferimento pure a una "mail dell'ottobre 2017" nella quale Centemero, "dopo la confisca di Genova e scrivendo a due dirigenti della Lega, tra cui Luca Morisi, e mettendo in copia anche Di Rubba e Manzoni", diceva in generale che era necessario evitare "la contestazione della elusione della norma del finanziamento illecito".
(ANSA il 9 febbraio 2022.) - La Procura di Milano ha dimostrato che "il 13 giugno del 2016 per volontà di Bernardo Caprotti", patron di Esselunga morto quello stesso anno, "sono stati erogati 40mila euro alla Lega, camuffati da liberalità nei confronti dell'associazione 'Più voci'" e "che sono serviti per pagare i debiti della voragine aperta della Lega, che è Radio Padania".
Lo ha spiegato nella sua requisitoria il pm Stefano Civardi davanti all'undicesima penale, prima di chiedere la condanna a 8 mesi per il tesoriere e deputato del Carroccio Giulio Centemero per finanziamento illecito ai partiti.
Il processo è stato aggiornato al prossimo 14 febbraio, quando prenderanno la parola per l'arringa i legali di Centemero, gli avvocati Roberto Zingari e Giovanni Conti. Col "processo di Genova in corso", ha spiegato il pm, e col "problema della confisca dei soldi che poi è arrivata" sui famosi 49 milioni di euro di cui si è persa traccia "il modo più semplice per finanziare la Lega - ha aggiunto il pm - era pagare i debiti, versare i soldi nella voragine aperta della Lega che è Radio Padania".
L'ordinamento, ha chiarito il pm, "richiede che quando finanzi un partito devi dirlo devi essere trasparente", mentre "è reato quando lo fai senza ammetterlo", ossia passando come in questo caso, secondo l'accusa, per un'associazione.
'Più voci', associazione tra i cui soci figuravano, oltre a Centemero (uno dei suoi legali è Giovanni Ponti, non Conti, come scritto in precedenza), anche i revisori contabili per la Lega in Parlamento Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba (già condannati a Milano in un altro processo sul caso Lfc), con quei 40mila euro da Esselunga, ha detto il pm, ha "fatto due cose".
Ha "finanziato Radio Padania con 10mila euro e ha girato 30mila euro a Mc, che lo stesso Centemero indica come una società partecipata dalla Lega". Società quest'ultima che, poi, con parte di quel denaro ha pagato anche un "convegno del 25 giugno 2016 a Parma, organizzato dalla Lega per la costruzione del cantiere del centrodestra".
"Il contributo che Caprotti voleva dare alla Lega - ha spiegato ancora il pm - è stato dato a 'Più voci' per bocca del tesoriere della Lega, questa è la realtà sostanziale, un fatto solare, la trasparenza non è stata rispettata".
La presunta soluzione illecita che venne trovata, secondo la Procura, fu "far arrivare il contributo attraverso la strada traversa del finanziamento all'associazione, così nel bilancio di Esselunga non troviamo un contributo al partito politico, ma ad un'associazione". Nessuno, tra l'altro, ha aggiunto Civardi, "ha mai conosciuto l'associazione, che non esiste in pratica e che viene fuori su internet solo per l'altro processo in corso a Roma", dove è imputato sempre Centemero.
Le indagini sui soldi della Lega che preoccupano Matteo Salvini. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 14 gennaio 2022.
Matteo Salvini è concentrato a tal punto sulle trattative per il Quirinale che non ha avuto tempo per commentare l’ultima indagine per truffa che vede coinvolto il tesoriere del suo partito.
Al centro dell’indagine una presunta truffa realizzata dall’associazione “Maroni presidente” con i rimborsi elettorali delle regionali 2013, vinte da Roberto Maroni che ha governato la regione fino al 2018 per poi lasciare il posto ad Attilio Fontana. Il materiale investigativo potrebbe puntellare l’inchiesta più importante in corso e coordinata dai pm di Milano: ci sarebbero una decina di indagati e la Guardia di finanza sta setacciando da mesi conti correnti
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GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Il tesoriere della Lega di Salvini indagato per truffa sui rimborsi elettorali. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 13 gennaio 2022.
Da quanto risulta a Domani, è l’ultimo tesoriere a finire nuovamente sotto indagine: Giulio Centemero. Indagato con il suo predecessore, Stefano Stefani, in un’inchiesta per truffa iniziata dalla procura di Genova e trasmessa a Milano per competenza.
Gli atti sono stati inviati dal procuratore genovese Francesco Pinto al procuratore aggiunto Eugenio Fusco, che nel capoluogo lombardo segue gli altri filoni investigativi sulla Lega e che ora deve decidere se seguire le indicazioni dei colleghi genovesi, cambiare ipotesi di reato oppure archiviare.
Il reato di truffa contestato a Centemero e a Stefani dai pm genovesi è riportato nell’atto di trasmissione degli atti alla procura di Milano. Le indagini affidate alla guardia di finanza hanno rilevato una serie di anomalie nella gestione dei rimborsi elettorali per le regionali del 2013
GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 18 settembre 2022.
«Se andrò a Pontida? Non penso, ma deciderò domani, magari un giro in bici lo farò». Un bel tragitto da 20 chilometri da Lecco al pratone sacro della fu Lega Nord, un corpo agonizzante, scatola piena di debiti, da quando Matteo Salvini ha fondato nel 2017 il nuovo partito, Lega Salvini premier.
Roberto Castelli ha tuttavia uno spiccato senso dell’umorismo. È fuori dalla dirigenza della Lega da quando non ha più la parola nord nel simbolo, continua però ad avere le tessere dei due partiti: «Sa, c’era sempre la speranza di fare un congresso prima o poi, così non è stato».
Castelli è stato parlamentare, viceministro, due volte ministro della Giustizia nel governo di Silvio Berlusconi. Uno dei padri di quel partito radicato sul territorio e strenuo difensore dell’autonomia. Fedelissimo di Umberto Bossi, il fondatore. Castelli adesso fa parte dell’associazione Autonomia e libertà, che conta centinaia di iscritti. Ed è tra i più critici della linea Salvini.
Critica alla luce del sole, senza nascondersi. «Per Salvini sarà decisivo il voto del 25, se va sotto una certa soglia, si cambia. Ecco chi sarebbero i leader di un nuovo corso fedele alle origini», dice a Domani.
Con questa Pontida si chiuderà un ciclo, la stagione di Salvini?
Questa parabola di Matteo Salvini si inserisce in un periodo storico in cui l’elettore si disinnamora in fretta dei leader. È un elettore che manda alle stelle e in brevissimo tempo divora i suoi idoli. Lo abbiamo visto con Renzi, con i Cinque stelle, lo stiamo vedendo con Salvini. Non si vota più per i partiti ma per i leader, a parte il Pd, l’unico rimasto con una struttura, gli altri hanno tutti il nome del leader nel simbolo.
Ecco, mi pare che Salvini stia soffrendo anche lui di questa sindrome, viene sparato a livelli stratosferici, ma non è la Lega a prendere il 40 per cento, è lui. Altrettanto rapidamente li sta perdendo. Il suo destino non è legato tanto a Pontida, a qualche protesta che potrebbe starci, ma è legato al risultato elettorale.
C’è una soglia critica?
Se si attesta attorno al 15 per cento nessuno lo metterà in discussione, se non supera il 10-12 per cento probabilmente qualcosa succederà, un cambiamento sarà avvertito come necessario.
Quindi questa 34esima edizione di Pontida che significato assume?
Pontida 2022 si innesta in un tentativo tardivo di andare a recuperare quel popolo del nord, della Lega nord di cui faccio parte anche io. Ma è un tentativo che verrà percepito come strumentale o sincero? E questo il dilemma vero della Lega del futuro. Se è strumentale il popolo del nord lo percepisce e non ci casca. Se è sincero vuol dire tornare a una lega a trazione settentrionale, perdendo il consenso in meridione. È un dilemma che va affrontato. Salvini si è trasformato in un leader che difende gli interessi di tutta l’Italia, però questo ha creato fortissimi malumori.
Questo malumore della base e di parte della dirigenza avrà conseguenze alle elezioni?
Se sono veri i sondaggi è dura, non c’è un collegio al nord in cui noi sopravanziamo Fratelli d’Italia e, con tutto il rispetto per Meloni, vedere un popolo che ha lottato per anni per l’autonomia essere superato da un partito centralista, capisce che è dura per i leghisti storici. La questione settentrionale è lì, esiste ancora. E non verrà rappresentata da nessuno neanche questo prossimo giro in parlamento.
Chi può essere la leadership alternativa? Esiste chi si prende la responsabilità di ereditare la guida di Salvini e riportarla ai principi del federalismo?
Posso dire che Luca Zaia ha un carisma forte ed è quello che preferisco. Ma anche Attilio Fontana, Giancarlo Giorgetti e Massimiliano Fedriga andrebbero benissimo. Tutti e quattro potrebbero assumere la leadership della Lega, dichiarando fallito il partito egemone di Salvini, anche perché il nome del partito non ha più senso senza Salvini: diventerebbe Lega premier di che cosa?
E quindi con il cambio di leader quale potrebbe essere lo scenario futuro?
Ci sarebbe un completo ripensamento del movimento, certo avremmo perso un giro e per 5 anni abbiamo perso la partita. Con Fontana, Giorgetti, Fedriga o Zaia, tutti con le doti per essere leader, inizierebbe tutta un’altra partita, sicuramente sono le persone adatte a ricucire lo strappo con il ceto produttivo settentrionale.
Secondo lei l’errore macroscopico di Salvini?
Intanto lui fa una cosa gigantesca, bloccare gli sbarchi, basta vedere i dati. È un fatto, tanto che è dovuta intervenire la magistratura per fermarlo.
In realtà i dati dicono anche che è stato l’accordo con la Libia firmato da Minniti ad aver frenato gli sbarchi.
Minniti ha posto le basi per il lavoro di Salvini. Il fatto che una persona di destra e una di sinistra, la coppia Minniti-Salvini, abbiano risolto il problema in maniera pragmatica vuol dire che le cose si possono fare bene.
Torniamo agli errori di Salvini.
La politica sull’immigrazione porta Salvini a essere sparato nell’empireo dal popolo. Lui però non ha saputo capitalizzare e ha sprecato questo grande capitale. È dura mantenere i piedi per terra, pensi che sei l’uomo del destino, e commette l’errore del Papeete. Fa cadere un governo della Lega, errore imperdonabile. Una caduta di stile che non è perdonabile. Da lì inizia una serie di errori politici. Inizia così la parabola discendente. Il popolo quando si disinnamora del leader va da un’altra parte.
Sull’aver fatto cadere il governo Draghi? Salvini ha giocato di strategia, correttamente o è stato un errore?
Dal punto di vista tattico, la politica è cinica. In quest’ottica ha fatto bene, perché ha frenato l’emorragia di voti nei sondaggi. Ma i principali colpevoli restano i Cinque stelle
Democrazia interna azzerata, cerchio magico, gestione personale. Che ne pensa? Nella Lega nord c’erano congressi e pochi commissariamenti?
Le assicuro che nella Lega con il leader maximo Umberto Bossi non c’è mai stato un commissariamento dall’alto, ma ci sono state sempre elezioni con voto segreto. Quando andavamo a lamentarci da Bossi di qualcosa, la sua risposta era: “Siete dirigenti del partito e venite a chiedere a me cosa fare? Se non siete capaci non lo meritate quel ruolo”. È chiaro che se non è più il partito che è forte ma solo il leader a essere forte, questo non ha più bisogno del partito, perché dal partito arrivano richieste, lamentele, dibattiti, discussioni.
E allora ti circondi del tuo cerchio magico e nessuno ti rompe più, questo è un vantaggio quando va tutto bene, ma quando le cose si mettono male è uno svantaggio. Perché se hai il nocciolo duro delle sezioni, che sono dalla tua parte e si sentono coinvolte, resisti anche nei momenti di crisi. Ecco perché il Pd resiste. Se manca tutto questo, e il partito lo smantelli e resta solo il cerchio magico alla prima crisi sei finito. Salvini ha fatto questa scelta qui, comando io, commissario tutto, scelta legittima per carità, ma ora pagherà le conseguenze.
Lei crede a un ritorno della Lega nord come partito?
Io ho fatto il movimento Autonomia e libertà, perché vogliamo combattere per l’applicazione del federalismo vero, è uno scandalo che una previsione costituzionale votata da più di 5 milioni cittadini non abbia avuto ancora esito legislativo, poi criticano Orban e la mancanza di democrazia. Guardiamo in casa nostra prima. Abbiamo centinaia di soci e ci stiamo allargando, guardiamo ovviamente a tutti questi movimenti di ritorno alle origini della Lega. Ma non capisco il progetto di riprendersi la Lega nord, perché chi lo prende eredità il debito con lo stato da 49 milioni. Se fossimo costretti a rifondare un partito autonomista e federalista del nord non è tanto il simbolo che conta ma sono le persone, le idee, i principi.
Il ceto produttivo, gli imprenditori veneti e lombardi, le ci parla con quel mondo li, cosa dicono?
Ci parlo e ci lavoro, è venuta meno la fiducia in Salvini. È visto come meno affidabile del passato, Meloni è considerata più affidabile. Provo a spiegare che Meloni è centralista, ma non cambiano idea. Pensano ora alle bollette, il federalismo è passato in secondo piano, anche perché Salvini l’ha cancellata dalle priorità.
Salvini, il geniale capopopolo che non è diventato statista. Max Del Papa su Nicolaporro.it 4 Settembre 2022
Non c’è uno più frainteso di Salvini. Bestia, cannibale, truce: chi? Lui? Con quel faccione lì? Ma chi vuol credere che un milanesone così potesse battersela con i razzisti abissali della risma di Stalin o Hitler? Al massimo, lui si scioglie per Putin, con tanto di maglietta pop: uno dei suoi peccati di gioventù che non finisce mai. Salvini è rimasto un ragazzone indeciso a tutto, lui ascolta ascolta e poi gli restano nelle orecchie le parole dell’ultimo che ha sentito. Disperatamente bisognoso di farsi apprezzare, da Mattarella in primis, ma questa è fatica sprecata, vorrebbe amare e farsi amare da tutti, questa è la verità; anche dai migranti che, a torto, gli imputano di voler sterminare. Tutta fuffa, il Pd gli spediva contro i provocatori a gettone, le Carola, i Casarini (per l’ennesima volta bruciato con vane promesse elettorali) e poi gli faceva una proposta che non si poteva rifiutare, a mezzo magistratura: caro Matteone, o la galera o il governo. Voi che avreste deciso?
E così la sinistra postcomunista, sempre un po’ comunista, lo ha dissodato dal suo interno. Salvini “il truce” è diventato un orsacchiotto alla mercè prima di Conte, poi, soprattutto, di Draghi. Di lotta e di governo – ma di governo, più si accaniva a garantire qualcosa e più gliela facevano apposta: “Mai più lockdown!”. Zàcchete il lockdown. “Mai discriminazioni sul vaccino”. Tàcchete, chi non si vaccinava perdeva il lavoro. “Sostegno alle imprese!”. E la ignobile gestione di Draghi-Speranza finiva per decimare le imprese, odiate dal Pd, base elettorale dei Capitone. Che così perdeva emorragie di consensi, perché nessuno capiva più cosa cazzo stesse a fare in un regime che pareva fatto apposta per fottere lui. A un certo punto gli hanno pure distrutto lo spin doctor, il povero Luca Morisi che si faceva i fatti suoi senza commettere alcun reato, ma si sa come funziona a sinistra: prima ti sputtano, poi ti lascio andare, tanto sei finito.
E siccome il ragazzo Matteo si baloccava molto coi social, infilando anche parecchie topiche, tipo quella del citofono che forse gli costò l’Emilia Romagna, o l’altra del Papeete che davvero poteva risparmiarsi, ha finito per restare senza copertura. Da allora, solo infortuni e progressiva irrilevanza. Fine della gioiosa macchina da guerra gastronomica, quelle orgie di tortelloni, focaccione, salamelle, un estenuante tour de force che faceva schizzare il colesterolo a livelli sora Lella. Uno lo seguiva su Twitter e faceva indigestione. “Gotta continua” a un certo punto ha dovuto farsene una ragione: gli italiani stringevano sempre più la cinghia, causa coprifuoco politici, e poteva lui continuare a farsi vedere con una fetta di prosciutto penzolante davanti alle fauci?
E così il profeta della Nutella è rimasto senza identità; poca lotta, molto governo, gli è riuscito un miracolo double face, prendere la Lega sbossata al 4% e portarla al 32-35% e ritorno: oggi si teme un risultato a una cifra e poco è servito far piazza pulita, specie in Veneto, dei dissidenti; lo aspettano al varco e stavolta, dovesse andar male, neanche i consigli del suocero Denis Verdini lo salveranno. È inseguito da fantasmi putiniani, dalla fronda interna, dall’indecisione caratteriale: oscilla fra un ritorno con Berlusconi e uno da Conte: tutto pur che non stravinca Giorgia, la sua più cara nemica.
Altra strategia alla polenta: se oggi Salvini non ha più peso, se le sue dichiarazioni passano come acqua pisciarella, deve ringraziare solo se stesso. Almeno la Meloni aveva l’alibi della opposizione, più teorica che reale: Salvini però nel governo ci stava con tutte le scarpe e con tutti i ministri, e non può chiamarsi fuori dallo sfacelo vaccinale, sociale, economico: poi si può tirarla lunga con la balla della vigilanza interna, ma gli autori di cotanto disastro erano alleati suoi. E Salvini e la Lega in due anni non hanno detto una parola chiara sul o meglio contro i lockdown, i ricatti, le discriminazioni, le persecuzioni per chi veniva abusivamente marchiato come novax.
A un certo punto, la Lega era diventata, e per molti versi lo è rimasta, più draghista del Pd stesso. Col segretario come sempre ondivago e tentennante. Ma diciamola come va detta: esaurita (e subito vanificata) la sua funzione di contenimento degli sbarchi, Salvini non ha saputo più ritrovare il bandolo, le sue proposte suonavano sempre più improbabili, come la guerra aperta ai rivenditori autorizzati di canapa light, qualcosa che il grosso dei cittadini, per molte ragioni, non capisce e considera di irrisoria importanza. Lui, di conseguenza, tendeva ad occuparsi di tutto, specie di ciò che non gli compete, con accenti moralistici, ma finendo per incidere su niente; è la sindrome che coglie presto o tardi (prestissimo, nel suo caso), gli uomini forti al comando: una improvvisa incapacità di intercettare come prima gli umori popolari, la coazione a ripetersi, lo sbagliare i tempi e i modi.
Salvini non è privo di attenuanti psicologiche: logorato da attacchi anche meschini, bassi, miserabili, come quello inscenato a suo tempo al Salone del Libro, sa che i giudici lo puntano, che Mattarella lo detesta, che l’Europa lo vuole morto, che alleati e opposizioni lo stanno stritolando. Ma qui si testa la statura di un leader e Salvini, alla prova dei fatti, non ha saputo crescere, non è riuscito in quel salto di qualità da capopopolo a statista, cinismo incluso. Oggi si dibatte fra il sostegno atlantico all’Ucraina e certe suggestioni troppo recenti per essere dimenticate; anche se lo Zar veniva leccato più dai compagni, Letta, Fratoianni, Rizzo, che da lui. Ma è questione di propaganda e sulla propaganda Salvini ha perso, ha chiuso. Lui ridimensionato, la colata d’odio ereditata da Berlusconi è passata, fisiologicamente, alla nuova ragazza, Giorgia Meloni. La scuola è quella comunista, in tutto e per tutto e non finirà mai. Ma la Meloni sembra essere più corazzata e autosufficiente e non basterà dipingerla come strega a farla arretrare così come accaduto al Matteo padano, uno che dicevano truce ed era buono come pane e Nutella. Max Del Papa, 4 settembre 2022
Matteo Salvini e l'oscurantismo della Lega. Tito Boeri e Roberto Perotti su La Repubblica il 22 Luglio 2022.
È una garanzia di arretratezza. Non c'è argomento su cui non abbia espresso posizioni dilettantesche, prima ancora che estremiste. Si è chiusa in un bozzolo e non ne è più uscita. Il vero mistero è come persone intelligenti si siano illuse che potesse diventare una farfalla
La Lega era nata, diceva qualcuno, anche per dare sfogo alle istanze di quel ceto produttivo del Nord che si sentiva oppresso da tasse, burocrazia e politichese. Bei tempi, se veramente sono mai esistiti. Oggi la Lega è una garanzia di arretratezza e oscurantismo. Non c'è praticamente un argomento del dibattito degli ultimi anni su cui non abbia espresso posizioni dilettantesche, prima ancora che estremiste.
Dagospia il 22 luglio 2022. ALLA FINE SALGONO TUTTI SUL CARROCCIO DI SALVINI - LA CADUTA DEL GOVERNO DRAGHI HA MOSTRATO CHE NELLA LEGA I TANTO DECANTATI “GOVERNISTI”, “RESPONSABILI” E “MODERATI” NON ESISTONO - NON SOLO IL PAVIDO GIORGETTI, ANCHE ZAIA E FEDRIGA CHE HANNO INSALIVATO DRAGHI PER MESI ELOGIANDOLO IN OGNI MODO, NON HANNO MOSSO UN MUSCOLO PER EVITARE IL “DRAGHICIDIO”: TUTTI ALLINEATI E COPERTI DIETRO IL “CAPITONE” - LA COLPA NON E’ LA LORO, E’ DI CHI GLI HA ATTRIBUITO UNO SPESSORE CHE NON HANNO...
FEDRIGA, DRAGHI HA FATTO OTTIMO PERCORSO TRA DIFFICOLTÀ
(ANSA il 22 luglio 2022) - "Mario Draghi ha fatto un ottimo percorso in mezzo a molte difficoltà con una maggioranza estremamente eterogenea. Penso al Pnrr, alla lotta alla pandemia, alla crisi con la guerra in Ucraina, alla crisi economica: è riuscito a tenere e ad avere quella capacità di dialogare con i paesi stranieri che ha reso l'Italia protagonista". Lo ha sottolineato il presidente del Friuli Venezia Giulia e della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga, a margine di un incontro alla Corte dei Conti. Riflettendo su una possibile candidatura di Draghi con un grande centro e il Pd alle prossime elezioni, Fedriga ha puntualizzato che il premier dimissionario "ha escluso qualsiasi ipotesi di strumentalizzazione della sua persona e questo, secondo me, sottolinea ancora una volta anche le qualità umane di Draghi". Il Governo Draghi, ha quindi aggiunto, "c'è ancora per disbrigare gli affari correnti. Sono contento delle parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella", sulle questioni urgenti, che "verranno portate avanti dal governo in carica e avranno un processo di continuità rispetto alle elezioni che si terranno a settembre, quindi alla nascita del nuovo esecutivo". Tra queste, ha ricordato Fedriga, le milestone del Pnrr e la questione energia.
C. Zap. per il “Corriere della Sera” il 23 luglio 2022.
Matteo Salvini si compiace per la compattezza mostrata dalla Lega. Ma con i governatori del Carroccio ci sono state 48 ore di gelo dopo tanti malumori e maldipancia trattenuti a fatica per giorni (vedi il caso del mancato comunicato di sostegno a Draghi). Perché sui territori l'ipotesi di andare ad elezioni prima e di non votare la fiducia al governo poi ha avuto un peso ben diverso da quello percepito a Roma. Le categorie economiche e i mondi di riferimento si sono fatti sentire, contavano che prevalesse il senso di responsabilità. Quella linea in Senato, però, non ha retto. Il timore di pagarne le conseguenze è stato avvertito dai governatori che hanno tuttavia preferito annegare la loro rabbia nel silenzio.
Ma ora è già tempo di campagna elettorale. È anche, o soprattutto, per questo che Luca Zaia e Massimiliano Fedriga (ma anche Attilio Fontana, Christian Solinas, Donatella Tesei e il presidente della Provincia autonoma di Trento Maurizio Fugatti), così come Giancarlo Giorgetti e i colleghi ministri Massimo Garavaglia e Erika Stefani, alla fine, pur avendo sostenuto la necessità di garantire appoggio a Draghi, si sono allineati alla scelta del leader, diversamente da quanto è avvenuto in Forza Italia.
La fronda sembra rientrata, pronta a riemergere se le elezioni non dovessero andare come ci si aspetta. Nella Lega il dissenso esplicito, al di là di non essere gradito, non ha mai fatto la fortuna di chi se ne è reso interprete, fin dai tempi di Umberto Bossi. Del resto, Salvini sapeva che la posizione dei governatori poteva essere insidiosa per lui.
Per questo li ha consultati prima, durante e anche nei momenti decisivi dell'epilogo del governo. E anche ieri, all'avvio di una campagna elettorale che nelle intenzioni dovrebbe riportare il centrodestra nella stanza dei bottoni, il segretario della Lega li ha voluti sentire per un confronto.
La nota diffusa da Salvini sottolinea che «è emersa grande soddisfazione per la compattezza della Lega, a differenza di altri partiti» (annotazione velenosa). E poi aggiunge: «I governatori sono già al lavoro anche per offrire spunti utili in vista dei dossier più interessanti per la campagna elettorale a cominciare dall'autonomia. Grande attenzione per economia, sburocratizzazione, infrastrutture, energia e tasse».
Zaia guarda avanti: «Io capisco la posizione delle categorie economiche, che è quella di chi vorrebbe stabilità e scadenze perfette per le elezioni. Il tempo che manca per avere un nuovo Parlamento e un nuovo governo non è molto e spero che si recuperi velocemente. Mi auguro che ci sia una maggioranza solida e che si continuino a fare le riforme di cui l'Italia ha bisogno».
Fedriga nelle ultime settimane ha preso più volte le difese del presidente del Consiglio. E anche all'interno della Lega si è speso perché non si spezzasse il filo. La linea «governista» non ha prevalso, ma il governatore del Friuli-Venezia Giulia conferma le sue valutazioni: «Secondo me Draghi ha fatto un ottimo percorso in mezzo a molte difficoltà con una maggioranza estremamente eterogenea.
È riuscito a portare a casa il Pnrr, ma penso anche alla lotta alla pandemia, alla crisi con la guerra in Ucraina e la crisi economica, è riuscito ad avere la capacità di dialogare con i Paesi stranieri e ha reso l'Italia protagonista». Fedriga e Zaia rispondono all'unisono su un loro possibile impegno a Roma. «Non vedo l'ipotesi di una mia chiamata» replica il primo. «Io presidente del Consiglio? No, ogni volta che si parla di elezioni sono candidato a tutto quello che passa per strada. Io penso al Veneto» chiude il secondo.
GOVERNO: ZAIA, NON VOLEVAMO PIÙ I 5 STELLE
(ANSA il 22 luglio 2022) - "E' innegabile lo standing al presidente Draghi però è anche vero che la Lega, il mio partito, ha fatto delle proposte, nel senso che abbiamo posto la questione di non avere più i 5 Stelle perchè ricordo che noi il 14 luglio abbiamo votato il decreto aiuti con 10 miliardi di aiuti per i cittadini e i 5 Stelle no. Quindi la fiducia non l'abbiamo votata". Lo ha detto il Presidente del Veneto Luca Zaia parlando oggi a Treviso della situazione di Governo.
"Guardiamo anche all'altra metà della vicenda, stiamo parlando dei mesi di agosto e metà settembre, quindi alla fin fine riusciamo a recuperare tutta questa fase estiva grazie al Presidente della Repubblica che ha fissato subito le elezioni". Lo ha detto il Presidente del Veneto Luca Zaia parlando della crisi di Governo. "Comunque avremmo avuto un mese di chiusura del Parlamento - sottolinea - . Ricordo che i ministri restano in carica e si va avanti assolutamente con i provvedimenti strategici anche perchè noi abbiamo dato la disponibilità a votarli".
"Capisco la posizione delle categorie venete, che è la posizione di chi cerca stabilità, di chi vorrebbe sempre giustamente avere scadenze perfette per le elezioni. Chi non lo vorrebbe. Però pensiamo che tra 60 giorni abbiamo un Parlamento, un governo e tutto". Lo dice il governatore del Veneto Luca Zaia parlando del pressing del mondo economico veneto perchè Draghi continuasse il suo lavoro. "Penso e spero che si recuperi velocemente e soprattutto mi auguro che questo Paese possa avere una maggioranza solida e che si continuino a fare le riforme - sottolinea -. Perchè al di là di chi prenderà in mano le redini dell'Italia voglio ricordare che le riforme vanno fatte, perchè ne abbiamo bisogno". Precisa poi che "l'autonomia non riparte da zero perchè i compiti per casa sono stati fatti e non c'è governo di destra o di sinistra che può prescindere dall'autonomia, altrimenti avrà il Veneto contro".
Michele Serra per “la Repubblica” il 22 luglio 2022.
In casa mia la campagna elettorale è iniziata ufficialmente ieri, 21 luglio, alle 13,05 in punto, quando il leghista Morelli ha dichiarato a Rainews che il governo Draghi è stato fatto cadere da Enrico Letta «che vuole la droga libera».
Normalmente le frescacce dei politici, specie con questo caldo, sono per me ragione di moderato divertimento. Invece (con questo caldo) mi sono alzato in piedi e ho cominciato a inveire contro il tizio come se avessi ancora vent' anni e dunque credessi ancora che la verità esiste, come ingenuamente capita in gioventù; e gli ho detto, ad altissima voce, quello che merita un sottosegretario di Draghi che non ha votato la fiducia a Draghi e ora, vigliaccamente, accusa di draghicidio proprio chi ha votato la fiducia a Draghi. Superior stabat lupus: niente come Il lupo e l'agnello descrive l'invincibile alleanza tra la menzogna e la protervia.
Per fortuna ero solo nella stanza e nessuno ha potuto vedermi in quello stato. Sta di fatto che, dopo lunghi mesi nei quali ero sostanzialmente asintomatico, la febbre della politica mi ha ripigliato a tradimento.
E so già che peggiorerà: ci sono in giro decine di persone con la pistola fumante (uno è Tajani, compresente in decine di telegiornali, forse fa uso di ologrammi) che esprimono vivo apprezzamento per Draghi, anzi sono più draghiani di Draghi, e soprattutto, pur avendo fatto cadere Draghi, sono più draghiani di chi ha votato la fiducia a Draghi. Sento che, in questa stramba estate elettorale, non ci basterà più il vecchio titolo di Cuore "Hanno la faccia come il culo". Dovremo ricorrere, per le licenze poetiche, al Vernacoliere.
Francesco Olivo per “la Stampa” il 22 luglio 2022.
Non esce dalla Lega, ma non sa se ricandidarsi. Giancarlo Giorgetti resta al ministero per sbrigare quegli affari correnti di cui Mattarella ha allargato il perimetro. Ma le cose sarebbero potute andare in maniera diversa. Mercoledì sera, infatti, il ministro dello Sviluppo economico aveva rassegnato le proprie dimissioni. La Lega, di cui è vicesegretario, aveva appena affossato il governo e la prima reazione è stata quella di comunicare a Mario Draghi, il suo passo indietro.
Il presidente del Consiglio e il Quirinale però, gli hanno chiesto di restare, troppo delicati i dossier che sono sul tavolo del suo ministero: Pnrr, accordi di sviluppo, crisi aziendali. Ma l'amarezza per la fine del governo non è certo passata: «Ora diranno che eravamo entrati al governo per colpa mia», scherza, senza sorridere, in un colloquio con Il Foglio. La giornata al Senato, d'altronde, è stata lunga e ricca di scene forti.
Nelle ore più drammatiche, quando tutto sta per precipitare anche per mano della Lega, il telefono di Giorgetti squilla. È una telefonata che non può lasciare indifferente un leghista della primissima ora. Umberto Bossi sta assistendo da casa alla morte del governo Draghi e crede che si tratti di un errore enorme. Così chiama uno dei pochi di cui si fida ancora. Con il tono flebile, il Senatùr recapita un messaggio al ministro: «Quei due stanno facendo un cavolata». I due che stanno sbagliando sono Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, l'alleato di una vita e il successore mai amato davvero.
Giorgetti ascolta, è sconsolato, crede che Draghi non meriti queste scene, lo spettacolo che il Senato sta offrendo è, nel suo giudizio, poco dignitoso. Così, l'unica risposta a Bossi è la seguente: «Prova a chiamarli tu». L'appello del fondatore della Lega e i tentativi dello stesso Giorgetti di intavolare una trattativa, non avranno alcun effetto: Salvini, d'altronde ha deciso da tempo che conviene andare alle urne e il discorso di Draghi, letto come un attacco al partito, gli offre un argomento per ritenere che è giunta l'ora.
Giorgetti non commenta questa decisione, ha visto spesso il segretario nei giorni scorsi, ma la disciplina di partito gli impone discrezione. Eppure, se le parole, al solito, sono poche, i gesti pubblici dicono molto: mercoledì il ministro ha abbracciato Draghi al termine del suo discorso, scambiando con lui parole e sorrisi anche dopo la replica, quando la fine ormai era vicina.
Ieri, alla Camera, altro momento significativo: il lungo applauso dei ministri al premier, Giorgetti non fa eccezione, «vedere Draghi emozionato fa un certo effetto», commenta un altro ministro. In questa scena c'è tutta la difficoltà di Giorgetti di questi mesi: gli applausi vengono dal vicesegretario di un partito che non ha votato la fiducia.
E infatti, dal Pd arrivano accuse di ipocrisia: «Ho visto applausi ipocriti al presidente Draghi, come quelli del ministro Giorgetti o del capogruppo di Forza Italia, Barelli. E non posso sopportarlo», dice il deputato del Pd, Walter Verini, parlando in Transatlantico. Ma anche alcuni fedelissimi salviniani, che esultano per la fine del governo, storcono il naso e fanno notare come Giorgetti riservi a Draghi un trattamento assai migliore di quello verso il segretario, come quando lo paragonò a Cristiano Ronaldo.
La sua risposta è netta: «Applaudo chi se lo merita». Ai suoi collaboratori e ai deputati che gli sono più vicini ripete che non c'è nessuna voglia di criticare Salvini, ma se la strategia per la campagna elettorale, come si nota già dai primi fuochi, sarà incentrata nel criticare l'operato del governo cui la Lega ha fatto parte, allora sarà difficile trovare Giorgetti in prima linea: «Io non rinnego Draghi - ripete in queste ore - per lui rimane il rispetto e la stima». I due, d'altronde, si conoscono da molto tempo e non sarà certo questa crisi di governo a incrinare i rapporti.
L'amarezza per la fine del governo è tale che il ministro ha raccontato di non voler prendere ora decisioni sul suo futuro. Eppure, non c'è molto tempo, fra meno di un mese vanno consegnate le liste e Giorgetti ancora non sa se avrà voglia di starci. Salvini, nelle riunioni di ieri, ha chiesto a tutti, ministri compresi, di metterci la faccia. Chi lo conosce sa che sicuramente non seguirà le orme dei suoi colleghi di Forza Italia, Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, che hanno lasciato il partito: «Se Giancarlo non dovesse candidarsi - racconta un fedelissimo - la Lega è casa sua, non se ne andrà». Però una campagna elettorale con la ruspa potrebbe volerla evitare.
Il sedicente bravo. Le acrobazie di Giorgetti per riallinearsi a Salvini dopo l’esperienza draghiana. Amedeo La Mattina su L'Inkiesta il 23 Luglio 2022
L’eminenza grigia del Carroccio era un sostenitore convinto del governo di unità nazionale e non l’ha mai negato. Adesso dovrà condurre la campagna elettorale al fianco del segretario leghista e forse tornare ministro al fianco della peggior destra
Di solito non parla, gli piace interpretare l’eminenza grigia che lavora sodo nell’ombra e decide, con un debole per le nomine pubbliche. In questi giorni invece i giornali traboccano di sue frasi soffiate per lanciare messaggi, spiegare, giustificare, prendere le distanze, per non assumersi la responsabilità della caduta di Maradona. Così Giancarlo Giorgetti aveva definito Mario Draghi quando, esercitando l’arte calcistica-politica da mediano, aveva convinto Matteo Salvini a entrare nella nazionale dell’unità.
Ci entrò lui, il suo amico di cordata Massimo Garvaglia e la veneta Erika Stefani, vicina al governatore Luca Zaia. I moderati, i governisti. Senza che Salvini ci mettesse becco. Lo stesso è accaduto con Forza Italia: Mara Carfagna, Renato Brunetta e Mariastella Gelmini non sono stati scelti da Silvio Berlusconi e abbiamo visto cosa è successo. Sempre osteggiati dal cerchio magico di Arcore, mai invitati alle riunioni in cui si decideva, comprese alle ultime dove è stata emessa la sentenza di morte del loro esecutivo.
La Lega di governo al governo e i colonnelli del “Capitano” leghista a rosicare, a dire che Giorgetti è appiattito su Draghi, che se ne infischia delle esigenze del Carroccio, dell’elettorato leghista. Sarebbe sua la colpa del crollo dei consensi, e non di Salvini, che ha inanellato un errore dietro l’altro. Lui, il ministro dello Sviluppo economico, non ci sta e si assolve per giustificare l’espulsione dal campo di Maradona.
Un leghista in tutte le stagioni. Trent’anni lì, «una vita da mediano… sempre lì, lì nel mezzo, finché ne hai stai lì» al vertice del partito, da Umberto Bossi a Roberto Maroni, a Salvini, con le cravatte slacciate, le giacche stropicciate, la faccia furbacchiona, la bacchetta bocconiana in mano per picchiare. Come è successo all’inizio di luglio scorso quando ha definito «rivoluzionari della scuola Radio Elettra» quelli del suo partito tentati dalla crisi di governo approfittando delle turbolenze innescate da Giuseppe Conte sul Dl Aiuti.
Tutto inizia da queste turbolenze che sono diventate tempesta. Ma Giorgetti, che conosce bene i suoi polli, aveva già capito che sarebbe stato lo stesso Salvini a infilarsi nel pertugio che ha portato alla crisi di governo. Quando c’è odore di sangue la bestia si risveglia: farsi scappare l’occasione di tirare il calcio di rigore a porta vuota, cioè far precipitare tutto a elezioni, era un’occasione d’oro. È quello che è successo, ma Giorgetti non si è messo di traverso. Ha avvertito il premier di quello che veramente stava montando al vertice della Lega?
Ora, nelle innumerevoli uscite sui giornali in maniera indiretta, sostiene di avere suggerito a Draghi di tenere il punto, di dare dimissioni irrevocabili: «Tanto ti incastrano lo stesso». Insomma, sapeva cosa aveva in testa Salvini, ma non l’ha detto in tempo al premier. E quando era troppo tardi gli ha suggerito di tenere duro. In questo modo smentisce in un solo colpo Berlusconi e Salvini che si affannano ad attribuire a Draghi la volontà di mollare perché lo sciagurato non ha accettato il bis con nuovi ministri e senza i Cinquestelle. E poi era stanco, si è premurato a dire Berlusconi, si lamentava di lavorare il doppio rispetto a quando era alla Bce. Oltre il danno la beffa.
Giorgetti ora non intende rinnegare nulla di quello che ha fatto accanto a Draghi, che a suo avviso meritava un’uscita di scena migliore. Alla Camera e al Senato lo ha abbracciato e applaudito, gli ha espresso solidarietà ma non ha ingaggiato una battaglia nel suo partito. Uscire dalla Lega come hanno fatto da Forza Italia Gelmini, Brunetta e Carfagna? Figuriamoci!
A Enrico Letta che lo ha criticato per gli applausi, ha risposto che continuerà a farlo perché Draghi lo merita. Però sta sempre lì «a recuperar palloni» per Salvini. Non ha condiviso la scelta dei rivoluzionari Radio Elettra, verrà ricandidato e, in caso di vittoria del centrodestra farà il ministro, magari dell’Economia o comunque con portafoglio pesante.
Dovrà prima impegnarsi in campagna elettorale, accanto a Giorgia Meloni e coloro che hanno sempre detto che il governo Draghi è stato una disgrazia per l’Italia. Si impegnerà con acrobazia, senza mai rinnegare Draghi, sia chiaro.
Poi, quando tornerà al governo, dovrà pure sobbarcarsi la fatica di trasformare in leggi tutte le promesse elettorali dei suoi alleati e amici di partito, comprese la flat tax alla Viktor Orbàn e gli scostamenti di bilancio. Prenda appunti: Berlusconi propone di porterà tutte le pensioni a mille euro. Il Cavaliere è già in orbita, è carico come un grillo (lo assicura Antonio Tajani), vuole vendere cara la pelle di titolare dei moderati, altro che succube dei sovranisti. Pregusta, Berlusconi, di tornare tra i banchi del Senato dal quale era stato allontanato dopo la condanna e l’applicazione della Severino. Vendetta, tremenda vendetta.
Prepariamoci allo show, a un film paradossale, a vedere magari Meloni frenare l’impeto e l’assalto della finanza pubblica, Giorgetti, insieme a Guido Crosetto, a mediare con Bruxelles. Prima ancora però, tra pochi giorni, l’horror movie della divisione dei collegi uninominali.
C’è chi scommette che il mediano maximo ci stupirà, non accetterà di candidarsi, e se ne andrà in pensione anticipata a 55 anni, sdegnato da questa politica e da questi politicanti, a organizzare gite in pullman con altri pensionati a Città di Pieve.
La fine del governo scuote il Vaticano. La Chiesa condanna Salvini: “Trionfo di interessi beceri”. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 22 Luglio 2022.
Democrazia a rischio, classi sociali svantaggiate ancora più in difficoltà e politicamente inascoltate. Tra questi due poli si svolge la riflessione preoccupata del mondo cattolico all’indomani della crisi di governo certificata dal capo dello stato. «La scelta di Conte e del Movimento 5stelle di rimettere in discussione in nome del popolo la vita del Governo Draghi non deve meravigliare. I populismi, infatti, sono come burrasche che si infrangono su tutto ciò che è Governo e istituzioni». Lo scrive il settimanale Famiglia Cristiana, nell’editoriale del numero in edicola e affidato al gesuita Francesco Occhetta. «I populismi sono movimenti storici ciclici che compaiono quando il popolo soffre e subisce crisi finanziarie, l’aumento della disoccupazione, flussi migratori, l’incremento delle spese militari, il coinvolgimento nei conflitti, la crisi della classe media, la corruzione della classe politica e la constatazione che le classi dirigenti da popolari diventano aristocratiche».
Il populismo ha memoria corta e vive un “eterno presente liquido” in cui «è possibile essere prima populisti e poi europeisti; filorussi e, poco dopo, favorevoli alla Nato; statalisti e poi liberali; alleati della destra e poi della sinistra», «strumentalizzando il popolo che ha la responsabilità di avergli affidato una delega in bianco». Se “anche la Chiesa” ha una responsabilità, ora «è urgente un accordo di sistema strategico, non politico, tra la destra e la sinistra per garantire che il Paese rimanga nel quadro costituzionale e negli accordi internazionali presi e sia in grado di affrontare i grandi temi sociali dal lavoro al sostegno di famiglie e imprese. È il segno della scissione tra demos (popolo) e kratos (potere) che ha screpolato il cristallo della democrazia». All’analisi fanno da contrappunto le riflessioni sintetiche sui social media del vescovo ausiliare di Roma Benoni Ambarus. «E così – commenta sul suo profilo Twitter – anziché pensare al bene comune, oggi buona parte della classe politica ha dimostrato che pensa solo al proprio interesse, becero ed egoista. E così, ancora una volta, questa crisi la pagheranno le persone più deboli. Che tristezza».
Nei giorni scorsi all’approssimarsi della crisi il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, parlava di «grande preoccupazione alla situazione politica che si sta determinando e che rischia di sovrapporsi ad una fase di crisi più generale che sta già incidendo in modo pesante sulla vita delle persone e delle famiglie». Riferendosi alle emergenze: guerra in Ucraina, inflazione, pandemia, precarietà lavorativa, aveva chiesto uno scatto di responsabilità in nome dell’interesse generale del Paese che deve prevalere sulle pur legittime posizioni di parte per identificare quello che è necessario e possibile per il bene di tutti». Due giorni fa era intervenuto con un’intervista al Corriere della Sera mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Parlando nella veste di coordinatore della Commissione governativa per la riforma dell’assistenza agli anziani. «Con un’iperbole, ma non tanto, direi al presidente Draghi che, tra le varie ragioni, ci sono anche quattordici milioni di anziani che vivono in Italia a chiedergli di restare». Aggiungendo: «Mi auguro comprenda quanto sia essenziale che resti. Ci sono responsabilità più grandi delle nostre condizioni e sensibilità personali. Capisco tutte le difficoltà, ma è importante che il presidente del Consiglio e il governo, in un momento difficile come questo, possano continuare a svolgere la loro opera».
E adesso tra i provvedimenti congelati c’è anche la legge-delega sulla riforma dell’assistenza agli anziani che il governo non ha fatto in tempo ad approvare. Ma anche prima della crisi, i segnali di allarme sulla situazione politica erano stati raccolti dalla parte più sensibile e ricettiva del mondo cattolico. I Dehoniani di Bologna, attraverso Settimananews, sito di notizie ed approfondimenti, avevano commentato lo “stato di salute” del cattolicesimo democratico prendendo spunto da un articolo di Marco Damilano, ex direttore de L’Espresso. “Settimananews” sottolineava la corresponsabilità del mondo cattolico per non essere stato “all’altezza” della tradizione democratica dei decenni passati. Tuttavia «davanti alla crisi nostrana della democrazia, la società non è innocente ma coprotagonista di una trasformazione della politica da negoziazione delle conflittualità sociali a specchio narcisistico della loro implementazione istituzionale. A questo si unisce l’incuria nei confronti delle istituzioni ridotte a erogatrici di soddisfazione dei nostri bisogni privati e dei desideri rivendicati come diritti inalienabili. L’esplosione e il tramonto del movimento 5stelle ne è un esempio». Da qui l’auspicio che quanto prima inizi “un dibattito su cattolici e politica” perché «hanno contribuito sia a scrivere alcune delle pagine più luminose della nostra democrazia, sia a indebolirne in molti modi gli assi portanti negli ultimi decenni».
Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).
Matteo Salvini, Vittorio Feltri: il lungo calvario e la mossa che lo ha fregato. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 29 giugno 2022
Seguo Matteo Salvini da parecchi anni, ovvero da quando accadde il terremoto nella Lega e venne escluso dal vertice Umberto Bossi, il quale era impedito per mille motivi, anche di salute, ma io personalmente non conoscevo questo giovane che se ne andava in giro vestito da profugo appena approdato a Lampedusa, con orribili felpe verdi, ostentando un linguaggio talvolta da uomo con la clava sebbene molto efficace.
Allorché fu issato a capo del Carroccio al posto di Roberto Maroni, io, non avendo di Salvini una impressione precisa, attesi prima di formarmi una mia personale opinione su cosa potessimo attenderci da costui. Insomma, mi mancavano gli elementi per giudicarlo ed ero quindi diffidente, o meglio, prudente. Ero anche convinto che la Lega Nord, essendo precipitata al 4%, quindi avendo più che dimezzato i consensi, difficilmente sarebbe risorta, riuscendo a recuperare voti.
Partecipai alla manifestazione "L'è ura de netà fò ol polér", dal bergamasco "è ora di pulire il pollaio", tenutasi a Bergamo nell'aprile del 2012, dove tra i militanti della Lega si respiravano sia rabbia, per come erano andate le cose, sia desiderio di rinnovamento. E quel rinnovamento ci fu: Salvini nel giro di poco tempo, ovvero un paio d'anni, ha risollevato le sorti del partito fondato da Bossi, recuperando ampio consenso, crescendo nei sondaggi, estendendo l'influenza della Lega al di fuori dei confini della Padania.
MERITI - Questi risultati sorprendenti sono indiscutibilmente merito di Matteo Salvini, il quale ha l'abilità di cavalcare temi molto popolari, di essere sintonizzato sulle esigenze reali della gente, di riuscire ad interpretare il pensiero e lo stato d'animo di una base, non più soltanto nordica, cioè lombarda, piemontese e veneta, realizzando un miracolo. Salvini ha fatto risorgere la Lega e questa operazione mi ha impressionato. E così ho preso ad osservarlo con molta attenzione, ad interessarmi a lui, a tenere in considerazione le sue affermazioni e proposte. Dirigevo Il Giornale e scrivevo spesso di lui, quando un giorno, mentre mi trovavo a bordo di un treno diretto dal Veneto a Milano, ricevetti una telefonata da un numero che non conoscevo.
Era Salvini, il quale mi chiedeva se mi andasse di essere il candidato della Lega e di Fratelli d'Italia al Quirinale.
Si trattava di una sorta di candidatura di bandiera, con alcuna chance di vincere, anche perché di trasferirmi al Colle non avevo nessuna voglia. Mi faceva piacere però essere rappresentante di Lega e FdI in Parlamento, dunque accettai. Giunto il giorno delle elezioni, a leggere i risultati in aula era ovviamente l'allora presidente della Camera, Laura Boldrini, la quale non appena doveva pronunciare il mio nome faceva una smorfia involontaria, cioè il viso le si contorceva in una espressione di disgusto. Va da sé che la cosa mi abbia non poco trastullato. Anzi, diciamo pure che fu un vero spasso seguire tutta la votazione, dall'inizio alla fine, e sbellicarmi dalle risate nel momento in cui Boldrini era costretta a leggere "Vittorio Feltri".
Naturalmente, e per fortuna, non fui eletto, noiosa è la vita da presidente della Repubblica.
Le elezioni del 4 marzo 2018 hanno certificato in maniera incontrovertibile l'ascesa della Lega, che conquistò il 17% delle preferenze. Il miracolo di Salvini era ormai sotto gli occhi di tutti, ma la vittoria non era un trionfo.
Non si poteva mica compattare una maggioranza con il 17%.
Si trattava adesso di formare il governo. Il Pd non era disponibile a fare alleanze strambe, Matteo Renzi, allora ancora segretario del Partito democratico, in conferenza stampa riconobbe che il suo partito era stato bocciato e che occorreva fare un passo indietro. Il M5s si era aggiudicato il 33% dei voti, che, sommati a quelli della Lega, consentivano di mettere insieme una maggioranza tale da sostenere l'esecutivo.
Certo, ma per allearsi con i pentastellati ci sarebbe voluto coraggio, anzi no, tanto fegato. Non avevo nessuna stima del Movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, come molti altri avevo intuito che i grillini erano una compagnia del filo di ferro, come si dice dalla mie parti, a Bergamo, ovvero un gruppo di sbandati i quali, arrivati in Parlamento, si erano montati la testa. Tuttavia il governo gialloverde si fece e durò poco più di un anno durante il quale Matteo Salvini, in qualità di ministro dell'Interno, si distinse così tanto da essere poi perseguitato e processato per il suo agire.
Ad ogni modo la maniera in cui il capo del Carroccio ricoprì il suo ruolo di vertice del Viminale fece accrescere di molto la mia stima nei suoi confronti. Accadde l'inimmaginabile: diminuzione drastica degli sbarchi illegali e dunque anche dei morti in mare. La sinistra sosteneva che fosse impossibile arrestare gli arrivi dei clandestini, Salvini è stato in grado di compiere quindi l'impossibile, ne prendiamo atto, anzi ne prendano atto i suoi detrattori.
LO STRAPPO CON CONTE - Ma nemica di Salvini fu la forte l'impulsività. Nel maggio del 2019 si tennero le consultazioni europee, un ulteriore successo per la Lega, che balzò al 34%. Intanto i rapporti con gli alleati di governo si facevano sempre più difficili, tesi, complicati.
L'animo di Matteo doveva essere come una pentola a pressione, che esplose nell'infuocata estate di quell'anno. Il leader della Lega avrà pensato, ma questa è una mia interpretazione senza prova, che, se si fosse tornati alle urne, il Carroccio avrebbe potuto ottenere una consistente maggioranza e governare senza i grillini che continuavano a fare ostruzionismo, quindi si è dimesso decretando la fine del Conte 1.
Tuttavia mai Salvini ha spiegato le ragioni della sua repentina uscita. Ha addotto come motivazione, comunque plausibile, l'uso dei pentastellati di bocciare ogni iniziativa leghista. Salvini non ha calcolato, e questo è stato un gravissimo errore dettato forse dalla ingenuità politica, che c'era comunque la disponibilità del Pd di sostituirsi alla Lega, sebbene i democratici seguitassero ad urlare la loro ostilità nei confronti dei cinquestelle. Poi, alla resa dei conti, sentendo il profumo di poltrone e avendo l'occasione di infliggere un duro colpo a Salvini, relegandolo in un angolo, lo hanno fatto, cioè hanno stretto un accordo con i nemici.
I GIALLOROSSI - Ed è così che Matteo è rimasto fuori dal governo, mentre il Pd vi è entrato. Poi, in questo scenario, ha fatto irruzione pure la pandemia e l'ipotesi di andare al voto, che era già improbabile, è stata del tutto scartata. Non essendo un esecutivo stabile e solido, dato che il collante che ha tenuto insieme democratici e grillini non è stato l'amore verso il Paese ma l'odio verso Salvini nonché la cupidigia, il governo giallosso è crollato come un castello di sabbia e per mano di colui che aveva favorito in tutti i modi questo sposalizio di convenienza, ovvero Matteo Renzi.
Profilatosi Draghi sulla scena politica, Salvini si è messo coni due partiti con i quali mai avrebbe voluto associarsi: con Pd e M5s. Il che ha lasciato perplesso me e come me milioni di persone, che apprezzano di Matteo la lucidità eppure non gli perdonano i clamorosi e inspiegabili colpi di testa.
Certi comportamenti di Salvini lasciano attonito l'elettorato. Si dice contrario ad alcuni provvedimenti del governo di cui la Lega è parte e poi la Lega li approva in Consiglio dei ministri da lì a qualche giorno o addirittura da lì a qualche ora.
Questa condotta ha comportato inevitabilmente uno sbiadimento della figura di Salvini e il calo di stima si evidenzia altresì nei sondaggi. La gente non comprende più dove intenda andare Matteo, che prima distrugge l'alleanza con i grillini, poi ci si rimette insieme, Pd incluso. Gli italiani gli rimproverano una assenza di coerenza.
STATO CONFUSIONALE - È come se il leader offuscato versasse in pieno stato confusionale. Fin dal primo momento, ancora prima della formazione del governo Draghi, ho manifestato la mia perplessità riguardo una possibile adesione della Lega ad una maggioranza per nulla amalgamata, mentre tutti incoraggiavano codesta scelta senza valutarne rischi e danni. Si sono dovuti ricredere in quanto la Lega non riesce a fare sentire il suo peso, è minoritaria rispetto ai giallorossi, è minoranza, e questo la fa apparire debole, non incisiva, poco affidabile, poco credibile tanto più allorché muta posizione. Quando attraverso i miei editoriali ho fatto notare a Salvini che ha perduto lucidità e l'ho invitato a recuperarla, egli si è risentito, come coloro che sanno di avere torto, di avere combinato un pasticcio. In preda alla rabbia mi ha mandato un messaggio sul cellulare: «Con te ho chiuso», o qualcosa del genere. Non ho risposto. Del resto, a me cosa vuoi che me ne freghi di aprire o di chiudere con Matteo Salvini? Non è mica il mio fidanzato. Ammetto che mi è dispiaciuto che non abbia accettato i rilievi che gli ho sottolineato, da allora i rapporti sono congelati. Il gelo è totale e non l'ho più visto né sentito. Quando va al mare e indossa il costume da bagno, o quando mangia pane e Nutella o si fotografa con succulenti piatti della tradizione nostrana con un sorriso un po' da ebete o sventola il Rosario, viene criticato aspramente da chi prima storceva il naso davanti ai felponi verde prato, che Matteo ha riposto da un bel po' nell'armadio, eppure questi giudizi feroci non li comprendo. L'unico rimprovero che gli muovo è che la sua politica negli ultimi anni non è stata coerente al suo pensiero. Da quando ha smesso, per sua esclusiva decisione, di fare il ministro dell'Interno ha sbandato e questo ha avuto ripercussioni sul partito.
Salvatore Merlo per ilfoglio.it il 14 Giugno 2022.
La battuta è fulminante, un epitaffio. “Povero Salvini ormai ha perso tutto, anche la testa. Se la faccia prestare dalla Meloni”. Cattivissimo, Vittorio Feltri. Esagerato. “Mi limito a descrivere un fatto oggettivo”. Quindi da oggi Giorgia Meloni è la leader del centrodestra? “Mi pare evidente”.
E Salvini? “Voi che direste di uno che parla ogni minuto e non riesce a farne una dritta?”. Dunque ha perso tutto. “Soprattutto la testa, ripeto. Non da oggi. Mi dispiace, persino. Mica ce l’ho con lui personalmente”. Lui non sarà contento. “Non mi saluta più. Ma quello che dico io lo vedono tutti. Lo dicono tutti. Bisognerebbe dirlo anche a lui. Datti una calmata. Ragiona. Fermati. Farglielo capire non è un atto di inimicizia, è quasi un gesto di affetto”.
A Roma si dice: scànsate, lèvate. Fatti da parte. Glielo dicono quelli della Lega? “Chi gli vuole bene dovrebbe consigliarglielo. Ma quelli della Lega non sono amici suoi, fanno politica. Quindi più che altro immagino siano tentati di chiuderlo in una botte e gettarlo nel Tevere come Cola di Rienzo. Ma poi si guardano in faccia l’uno con l’altro e capiscono che non possono farlo”.
Giorgetti, Zaia, Fedriga. Perché non può esserci il 25 luglio nella Lega? “Perché non c’è nessuno pronto che possa sostituire Salvini. Quindi se lo devono tenere ancora per un po’”. Si è riavvicinato a Berlusconi. “E non mi pare un segno di forza”.
Ieri pomeriggio, mentre i risultati delle amministrative e del referendum andavano componendo la débâcle della Lega e il sorpasso di Fratelli d’Italia, Salvini attaccava l’Europa e la Bce. “Tentava di portare il discorso da un’altra parte. Parlava di Castrocaro terme e di Ponza. Ma come pensi di poterlo fare? Nascondi un elefante sotto un guscio di noce? E poi… S’è messo a parlare di economia, di Bce. Mah”.
Mah? “Tutte cose che lui orecchia, di cui non sa nulla, di cui probabilmente nemmeno gliene frega nulla e che tira fuori così, un po’ a caso, perché pensa che gli possa essere utile dirle. Solo che è sempre fuori tempo o contro-tempo. La gente se ne accorge. Anzi, peggio: se n’è già accorta. E rimane perplessa. O addirittura ride, che è persino peggio. E il guaio, guardate, è che Salvini va avanti così da quasi tre anni. Fedele a un copione ripetitivo”. Per esempio? “Un giorno descrive Medvedev come un uomo di pace, e quello due giorni dopo minaccia l’atomica contro l’Europa”.
Sfortuna. “No, è una cosa da pirla. Devi sapere di che cosa stai parlando”. E’ incontinente. “Lui è riuscito a portare la Lega dal 4 al 34 per cento. E quando uno produce un miracolo così, pensa di essere San Francesco. Ovviamente non è vero. Però lui non lo sa. Quindi pensa: come sono arrivato al 34 per cento una volta posso farlo di nuovo.
Di conseguenza le prova tutte. E fa una minchiata dietro l’altra”. Afflitto dall’ansia di risalire la china. “Dalla mattina alla sera. Ventiquattrore su ventiquattro. Ininterrottamente. Circondato poi da gente strana, casi umani o personaggi da commedia all’italiana”. Tipo? “Nella Lega c’è gente che s’intende sul serio di politica estera. Gente che per fare quelle cose ha studiato o s’è impegnata nelle istituzioni con ruoli rilevanti che peraltro era stato Salvini a dargli. Ma lui chi va a cercare?”. Capuano. “Ecco appunto. Dimmi chi ti accompagna e ti dirò chi sei”.
Mario Ajello per ilmessaggero.it il 14 Giugno 2022.
Silurare Salvini? La sola ipotesi era ritenuta, fino a prima del voto disastroso della Lega in queste Comunali, non solo blasfema ma impronunciabile, assurda, fuori luogo e fuori tempo. Si è finora detto infatti: il Carroccio è un partito leninista e il capo non si discute mai.
Ecco, adesso Salvini - indebolito e stremato dai suoi errori che sono quelli del viaggio a Mosca, del referendum gestito malissimo e del rapporto indeciso, incerto, altalenante e più di lotta che di governo rispetto all’esecutivo Draghi: e da tutto ciò deriva il tonfo elettorale - si può discutere ma non si può ancora silurare.
La Lega del leninismo
È la Lega del leninismo, tipo quella in cui non esiste dirigente che non dica, ma riservatamente: “Matteo non ne azzecca più una”. Ed è una sconfessione pubblica del leader l’assenza di Giorgetti ieri al vertice in via Bellerio. Così come gli atteggiamenti di Zaia e di Fedriga che vogliono bene a Matteo ma sembrano distanti, nelle loro mezze parole e soprattutto nei loro silenzi, dal segretario.
Che di fatto ormai si muove in una foresta di dubbi, quelli degli altri nei suoi confronti, di recriminazioni (chi come i giorgetti si sostengono che bisogna essere più governativi e chi come il vicesegretario Fontana lascerebbe subito Draghi al suo destino e Salvini indeciso e sbandante dice a tutti: “Accetto consigli”), di freddezza e di solitudine. “
Ma se lui si rivolge a tipi improbabili, sconosciuti e pericolosi come Capuano, quello del viaggio in Russia, abbandonando il rapporto con il partito, la colpa di chi è se non sua?”: questo si sente dire in queste ore tra parlamentari lumbard e tra quelli della Lega veneta che sono particolarmente preoccupati della china che sta prendendo il partito salviniano, ovvero della sua tendenza alla sconfitta continua.
La via crucis di Salvini
Salvini inizia a capire l’antifona. E ripete a tutti: “Non sono certo attaccati alla poltrona, se volete un altro leader basta dirlo”. Ma nessuno gli dice di andarsene, anche perché al momento non c’è nessuno che lo voglia sostituire. E allora nessun siluramento di Matteo? Semmai, un siluramento per gradi.
Uno che se ne intende, Mario Borghezio, leghista doc da sempre, assicura: “Ormai la Lega è saltata e a farla saltare, rompendo il rapporto tra il partito e la base, tra il cerchio magico del segretario e gli organi territoriali, è stato Salvini. Il leader sostitutivo si trova, dipende solo da qua di lo si vuole trovare”. Fedriga? Sarebbe secondo tutti il più attrezzato. La via crucis di Matteo comunque è già cominciata.
Verrà tenuto in piedi fino alle elezioni del 2023, a meno che qualche vicenda legata alla Russia o altri incidenti di percorso non arrivino come tegole sul segretario, ma i maggiorenti del partito, ministri e governatori, non gli faranno fare le liste elettorali solo a lui. Anzi lo condizioneranno pesantemente nella scelta degli eletti, che saranno pochi con questi chiari di luna e ognuno vuole assicurarsi i propri fedelissimi in una battaglia sui nomi che sarà durissima, perché ognuno vuole attrezzarsi in vista del dopo Salvini. Che in seguito a questo periodo da anatra zoppa potrà essere silurato all’indomani del voto 2023 se dovesse andare male.
E al momento, nessuno si aspetta miracoli di resurrezione nelle urne dell’anno prossimo. Tranne, forse, lo stesso Salvini. Il quale pare che sia intimamente convinto che così come ha portato la Lega dal 4 al 34 per cento può ancora ripetere quel miracolo. Ma il tempo è pochissimo. E i suoi compagni di partito non vogliono più fargli sconti.
Francesco Bechis per formiche.net il 14 Giugno 2022.
Più dei lunghi coltelli, i larghi tendoni. La vera grana con cui il segretario della Lega Matteo Salvini dovrà fare presto i conti non si trova tra i corridoi di via Bellerio ma nelle centinaia di piazze italiane affollate da più di un anno da gazebo e banchetti di militanti leghisti.
Passino le trame interne e i malumori dei colonnelli. Ci sono, erano già più che palpabili al Consiglio federale convocato all’indomani delle amministrative e continueranno ad esserci nei prossimi mesi. Difficile che bastino nel breve periodo a preparare il dopo-Salvini in un partito che – con buona pace di tanti retroscena veri, presunti o sperati –nonostante tutto vive di obbedienza al commander-in-chief che lo ha raccolto al 4% otto anni fa.
A togliere il sonno al leader è semmai un altro popolo, più silenzioso, più decisivo e più arrabbiato dei dirigenti per la doccia fredda dei sei referendum sulla Giustizia e la debacle astensionista, con il dato record in negativo di una partecipazione al 20,9%. È il popolo delle migliaia di militanti che per più di un anno, ogni week end, con la pioggia e con il sole, si è riversato in piazza a sventolare depliant, raccogliere firme e sostenere in ogni modo la causa referendaria.
Tutto è iniziato il primo luglio, quando assieme ai radicali la marea di attivisti del Carroccio ha montato i banchetti sulla scia di una solenne promessa del “Capitano”: “Altro che 500mila firme, ne raccoglieremo 5 milioni”. Le firme sono state meno, anche se è impossibile fare stime esatte. Sì perché, dopo sei mesi di militanza sotto i gazebo, la partita referendaria di Salvini è inceppata in un primo, grande imbarazzo. Il comitato promotore ha giurato di averne raccolte quattro milioni – 4 milioni e 275mila per l’esattezza – ma la Lega non ha mai depositato le sottoscrizioni popolari: sfruttando una scorciatoia prevista dalla Costituzione (art. 75), Salvini ha preferito far approvare i referendum da nove consigli regionali del centrodestra.
Vicenda chiusa con un rigo al fondo di un comunicato uscito da via Bellerio: “Dopo il via libera della Cassazione, non è più necessario il deposito delle firme previsto per domani”. La mossa ha reso di fatto inutile la lunga ed estenuante campagna di raccolta firme finite al macero. Suscitando la rabbia non solo del Partito radicale – pronto a depositare le sue firme raccolte al Palazzaccio – ma soprattutto quella del “popolo dei banchetti” che si è chiesto il senso di quella corrida dall’estate all’inverno.
Una delusione che si è riversata sulla seconda fase della campagna quando, da gennaio a giugno, gli stessi iscritti sono stati chiamati a riprendere la battaglia dei referendum per invitare la gente a votare cinque sì. Non è un caso, confida un parlamentare leghista, se nell’ultimo mese “si è vista nelle piazze meno della metà delle persone presenti l’anno scorso”. Complice lo sconforto per una causa forse “nobile”, come rivendica uno sconsolato Roberto Calderoli, ma certo poco comprensibile all’elettorato del Nord che di questioni “tecniche” come la riforma della Giustizia preferirebbe si occupi il Parlamento.
L’effetto tsunami sul morale dei militanti leghisti – la vera ossatura del partito, quella che lo ha tenuto in piedi anche nei momenti di alta marea – rischia ora di allargarsi alla campagna dei tesseramenti per il 2022. Lanciata a fine febbraio, sta andando a rilento. Colpa di un ritardo nella roadmap dei congressi locali: ad aprile sono partiti quelli comunali e sovracomunali, in autunno sarà il turno dei congressi provinciali e dunque regionali. Del Congresso nazionale – dove inevitabilmente si andrà alla conta sul segretario – Salvini non vuol sentire parlare prima delle elezioni politiche del 2023.
Per arrivare forte alle urne nazionali e al Congresso il leader dovrà allora recuperare la fiducia della militanza leghista amareggiata dal capitombolo referendario. Anzitutto mettendo un punto fermo sui rapporti nel centrodestra. Lì, sotto i gazebo, a nessuno è sfuggito l’assenteismo di Fratelli d’Italia e di Forza Italia. Un silenzio “piuttosto assordante”, ha sibilato il vicesegretario Andrea Crippa, uno che di territorio e militanza si intende da tempo.
Poi recuperando le battaglie storiche del partito che possono scaldare gli animi di un popolo deluso. Autonomia, immigrazione. Crisi economica nel Nord-Est, dove una marea di imprenditori ribolle per le sanzioni russe che, ripetono di continuo ai dirigenti del Carroccio, rischiano di mandare a casa centinaia di lavoratori. Più delle manovre di corridoio, gridate sulla stampa e assai meno nei confronti interni, Salvini ha ben altro di cui preoccuparsi.
Forza Vaffa. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2022.
Quanto è spontaneo e vicino al popolo il in maglietta rossonera che saltella tra i tifosi mandando pesantemente a stendere gli interisti. Non troverei niente da ridire, se fosse un operaio, un influencer, un dentista, un fruttivendolo, un tenore, un camionista, un ricercatore, un ricercatore disoccupato (mi esprimo per surreali elenchi, come piace a lui). Ma Salvini è un leader politico, cioè qualcuno che desidero, anzi pretendo sia diverso da me. Migliore di me. Più controllato, più educato, più consapevole delle conseguenze dei suoi gesti. Al posto di Salvini, io avrei fatto esattamente quello che ha fatto lui. Ma lui non può fare quello che faccio io. O forse pensa che il suo attuale statista di riferimento - il Mahatma Gandhi - non morisse dalla voglia di intonare coretti goliardici contro la squadra di cricket rivale? Eppure, ha sempre saputo trattenersi. Bella forza, era Gandhi. Allora prendiamo esempi più umani: qualcuno si immagina Andreotti che saltella per strada mentre spedisce a quel paese i laziali? Berlinguer che festeggia lo scudetto del Cagliari spernacchiando a squarciagola gli squadroni del Continente? I politici della Prima Repubblica non esprimevano neanche le loro simpatie, figuriamoci le antipatie. Sono quelli della Seconda che hanno scoperto il tifo come instrumentum regni. Però si limitavano a urlare «forza». La Terza è nata con un «vaffa» e non riesce proprio a cambiare argomento.
Fattore S. Salvini è un disastro, ma gli adulti della Lega non hanno il coraggio di sostituirlo. Mario Lavia su L'Inkiesta il 16 Marzo 2022.
Dopo la figuraccia mondiale in Polonia, il leader del Carroccio non si è più ripreso. I sondaggi danno il suo partito al 16, sei punti in meno di Fratelli d’Italia. Giorgetti, Zaia e Fedriga non lo detronizzano con un congresso per paura di peggiorare la situazione a un anno dalle elezioni politiche.
L’ultima notizia è un nuovo processo, il 9 giugno, per diffamazione aggravata ai danni di Carola Rackete definita dall’allora ministro dell’Interno con epiteti tipo «criminale tedesca», «ricca tedesca fuorilegge», «ricca e viziata comunista». Non sarà il processo del secolo ma è un’altra storia poco piacevole che conferma nel suo piccolo come ormai Matteo Salvini sia un problema. Per la Lega.
Nessuno lì dentro lo dice ad alta voce, perché il solo dirlo equivarrebbe a squadernare il problema e dunque ad aprire un gigantesco problema politico ma da tempo a via Bellerio, e soprattutto nelle sedi della Regione Friuli Venezia Giulia e in quella del Veneto, la fiducia nell’ex Capitano è calata in modo costante.
Se vogliamo fissare una data recente (dunque abbuonando la pazzia del Papeete, agosto 2019) la mente di tutti va al disastro-Quirinale, quando il capo leghista si autoaffidò l’incarico di trovare un presidente della Repubblica raccogliendo solo brutte figure: dalle visite nelle case di intellettuali vari tipo Sabino Cassese alla bruciatura rovente, insieme all’amico Giuseppe Conte, di una figura istituzionale come il capo dei servizi segreti Elisabetta Belloni.
Dopo è andata sempre peggio. Oggi la Swg dà la Lega al 16,2%, meno 0,8 in una settimana (alle Europee del 2019 aveva ottenuto il 35%, primo partito), in un trend negativo che appare inesorabile parallelo a quella del partner ai tempi del governo gialloverde, il Movimento 5 stelle – e non può essere una caso che le due colonne del populismo cadano assieme «come un corpo morto cade», avrebbe detto Dante.
Ma c’è una differenza enorme tra grillini e leghisti. Il M5s cede perché, come abbiamo scritto tante volte, si è esaurita la sua ragion d’essere: si tratta di un naufragio strategico. Mentre per la Lega, la crisi odierna è imputabile essenzialmente a lui, al leader, alle sue mosse avventate, spregiudicate, sbeffeggiate, restando viva, dietro di lui, una organizzazione almeno al Nord ancora forte, innervata nella società settentrionale con punte significative anche nel centro-Italia (nel Sud, alla fine, non è andata) e delle buone ragioni politiche, la rappresentanza del mondo produttivo del Nord, una persistente tensione all’autonomia regionale, un moderatismo però di movimento abbastanza spregiudicato: insomma i motivi di fondo che giustificarono la nascita della prima Lega.
Dopo anni di crescita, oggi è il Fattore S che corrode l’albero leghista. È stato Salvini l’uomo-disastro, come detto, nella vicenda istituzionalmente più importante, quella della elezione del Capo dello Stato, un Salvini che in questo anno ha tentato di tenere i due piedi nella scarpa del governo e in quella dell’opposizione, malsopportato da Mario Draghi nel primo caso, surclassato da Giorgia Meloni nel secondo.
Nella competition con la leader di Fratelli d’Italia ormai non sembra esserci partita: nel sondaggio Swg citato il partito della Meloni non solo è il più votato ma dà alla Lega quasi 6 punti. In un quadro – come notava ieri Stefano Folli su Repubblica – che vede svettare FdI e Partito democratico, due partiti che nella delicatissima fase attuale stanno mostrando un profilo adulto mentre gli junior partner come minimo impacciati sulla guerra di Putin – Lega e M5s – annaspano.
La terribile figuraccia di Salvini in Polonia non è stata solo penosa in sé ma il simbolo di un crollo d’immagine e, se possiamo dire così, di un modo di quel certo modo fare politica da commedia all’italiana intriso di superficialità, pelo sullo stomaco, insipienza. E a colmare la clamorosa défaillance d’idee non bastano certo le piroette dell’ultimo minuto per far dimenticare la contiguità tra lui e il Cremlino né quelle – come ha ricordato su Linkiesta Amedeo La Mattina – che lo hanno fatto diventare soi disant un fervido sostenitore delle posizioni di Papa Francesco in un grottesco travestimento da pacifista della domenica.
Ora, è ovvio che per rimuovere l’ostacolo Salvini servirebbe un piano politico per sostituirlo, piano che non c’è soprattutto per timore di uno sconquasso troppo pericoloso a un anno dalle elezioni politiche. Ma è anche vero che dentro la Lega non mancano personaggi in grado di incarnare una fase nuova del partito, a partire, anche questo si è scritto tante volte, da Giancarlo Giorgetti per finire a Luca Zaia (che però non ne vuole sapere) a Massimiliano Fedriga, uno che è molto cresciuto nella veste di governatore del Friuli Venezia Giulia e presidente della Conferenza delle Regioni. Ma occhio anche al ministro Massimo Garavaglia e al capogruppo Riccardo Molinari.
L’impressione dopo il misfatto di Przemyśl è che i maggiorenti di via Bellerio tenderanno se non a imbrigliare quantomeno a controllare l’ex Capitano tentando di ridurre l’impatto negativo delle sue uscite. Intanto lui ha annunciato di voler tornare in Polonia: come diceva Nanni Moretti, «continuiamo così, facciamoci del male». Il Fattore S è il problema della Lega, per la gioia di Giorgia Meloni ma anche dei nemici del sovranismo.
(ANSA il 3 marzo 2022) - Il Gip del tribunale di Bologna Grazia Nart ha archiviato il fascicolo per diffamazione a carico di Matteo Salvini, sulla 'citofonata' del leader della Lega a una famiglia del quartiere Pilastro, il 21 gennaio 2020, a pochi giorni dalle Regionali.
"Il Giudice ha accolto la richiesta del Pubblico Ministero e ha valorizzato la nostra argomentazione difensiva sulla causale politica della condotta", sottolinea il difensore di Salvini, avvocato Claudia Eccher. Archiviata con Salvini anche Anna Rita Biagini, la donna che lo accompagnò nella passeggiata. Salvini suonò al citofono chiedendo se era vero che lì abitassero spacciatori.
Ricapitolando il senso dell'archiviazione, l'avvocato Eccher evidenzia come il giudice abbia riconosciuto anche che nella dinamica dei fatti e dagli atti del processo si evince che l'intenzione di entrambi era quella di porre in essere un'azione polemica e provocatoria, ma non di rivolgere un attacco personale ai membri della famiglia. Salvini e Biagini, dunque, hanno agito "al solo scopo di manifestare l'urgenza dell'intervento politico nel quartiere, ove lo stato di degrado ha compromesso le abitudini di vita dei cittadini esasperati".
I genitori del ragazzino che rispose al citofono, all'epoca minorenne, presentarono querela segnalando anche l'eco mediatica avuta dalla citofonata. Poi, attraverso l'avvocato Filomena Chiarelli, si erano opposti alla richiesta di archiviazione presentata dalla Procura. Era stata quindi fissata un'udienza e il Gip ha sciolto oggi la riserva accogliendo le ragioni dei pm Flavio Lazzarini e Giuseppe Amato.
Secondo il Gip era integrato anche l'interesse pubblico della notizia: obiettivo di Salvini e Biagini era mettere in luce problematiche e degrado del quartiere, perlopiù causato dall'attività di spaccio di droga. Il giudice fa anche notare come un anno dopo i due genitori furono arrestati effettivamente per spaccio.
Pur riferendosi a fatti successivi, la circostanza varrebbe a corroborare la tesi di Biagini secondo cui il fatto che alcuni membri della famiglia fossero dediti alla vendita di droga era circostanza nota nel quartiere. L'intervento degli indagati fu dunque mosso da motivi politici, volto a supportare, conclude il Gip, "quella parte di popolazione che aveva mostrato insofferenza verso gli episodi di criminalità del quartiere, nonché a mostrare come la lotta a tali fenomeni sarebbe stata in cima all'agenda politica qualora il partito di Salvini avesse vinto le elezioni regionali".
Estratto della biografia di Vladimir Putin, raccolti da Giorgio dell’Arti per “Oggi” il 3 marzo 2022.
Matteo Salvini (1973) Segretario della Lega. Ministro dell’interno nel primo governo Conte (2018-2019)
Saputo che Putin aveva aperto una linea di credito di 9 miliardi in favore di Marine Le Pen (novembre 2014) dichiarò che un po' di soldi russi avrebbero fatto comodo anche a lui.
La strategia di Putin nei finanziamenti ai partiti europei era chiara: aiutare le formazioni politiche anti-euro dovunque fossero, in modo da destabilizzare i nemici annidati a Strasburgo e Bruxelles. Putin li considera nemici perché hanno accolto nella Ue e nella Nato Lituana, Estonia e Lettonia, e hanno poi tentato di prendersi pure l'Ucraina. La Lega è contraria alle sanzioni, che, dice, costano più a noi che a loro, e appoggia in genere la linea putiniana in Ucraina, sì alla Crimea russa, sì alle legittime aspirazioni dei russi d'Oriente
La magistratura indaga sui soldi russi alla Lega e sul misterioso incontro all'Hotel Metropol di Mosca nel corso del quale - è l'ipotesi - una vendita di gasolio all'Italia avrebbe dovuto fruttare, a ricasco, un finanziamento alla Lega. Alla riunione (cinque persone in tutto) sarebbero stati presenti Gianluca Savoini, l'uomo che mantiene i rapporti con Mosca per conto di Salvini, e un agente dei servizi segreti russi.
Da “il Giornale” il 3 marzo 2022.
«In questo momento c'è qualcuno che invade e qualcuno che è invaso, c'è qualcuno che ha aggredito e qualcuno che è stato aggredito, noi siamo a fianco degli aggrediti, c'è Putin che ha aggredito e Zelensky che è aggredito». Così ieri Matteo Salvini, nel corso di una conferenza stampa alla Camera per presentare il sondaggio del professor Enzo Risso sul conflitto Russia-Ucraina. «È il caso di dirlo - ha precisato il leader della Lega - per dire basta alle polemiche stucchevoli».
All'ex ministro dell'Interno, infatti, erano state rivolte molte critiche, in particolare dal Pd, per non aver citato Vladimir Putin nell'intervento che aveva svolto martedì in Senato. Ma ieri il New York Times ha citato Salvini in un articolo di prima pagina titolato «L'aggressione di Putin lascia i fan sovranisti a contorcersi» nel quale si legge anche: «Il politico italiano si trova in buona compagnia fra i leader europei che ora faticano a conciliare il loro appoggio passato a Putin con la guerra che ha deliberatamente scatenato contro il loro continente». La replica: «Per il New York Times io sarei ricattato dalla Russia? Sciocchezze. Ho tanti difetti ma mi godo la mia libertà. Non ho mai preso rubli, dollari o franchi svizzeri: zero».
(ANSA il 25 febbraio 2022) - Oggi "sono deluso dall'essere umano che nel 2022 cerca di risolvere con la guerra problemi economici, politici. Se qualcuno attacca e qualcuno viene attaccato bisogna schierarsi da subito con chi è attaccato".
Lo ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini intervenuto a Radio Anch'io su Rai Radio uno. "Da ieri - ha aggiunto - lavoro a corridoi umanitari. Il ruolo del Vaticano sarà fondamentale come il ruolo della Chiesa in Ucraina e Russia. Io lavoro a 360 gradi, ma ora bisogna fermare le bombe. Poi ragioneremo di geopolitica, di sanzioni e di tutto il resto".
Ribadendo che ora "bisogna aiutare chi si sta difendendo", Salvini ha sottolineato però che "l'occidente si deve fare delle domande: ad ogni vuoto che lascia, corrisponde una reazione. Se fugge dall'Afghanistan, ci troviamo i talebani; se fugge dalla Libia - che è la porta di casa nostra - poi la troviamo spartita da Russia e Turchia, se ignoriamo la Cina... Se tu sei distratto o malaccorto raccogli i frutti del tuo non agire", ha concluso spiegando che "dobbiamo capire se ci interessa la pace o gli interessi economici".
Alberto Gentili per "il Messaggero" il 25 febbraio 2022.
La conversione di Matteo Salvini avviene di buon mattino, alla notizia dell'invasione russa dell'Ucraina. Giuseppe Conte segue a ruota, il tempo di prendere il caffè. E se Silvio Berlusconi - che ha trascorso giorni e settimane dal 2001 tra Villa Certosa e la dacia di Sochi assieme a Vladimir Putin - tace fragorosamente, Giorgia Meloni conferma una volta per tutte la sua scelta di campo atlantista, anche se meno di un anno fa metteva a verbale: «Putin difende i valori europei».
E' un risveglio ruvido, brusco e amaro quello dei filo-russi d'Italia. Vedere l'amico di Mosca stracciare il diritto internazionale e invadere l'Ucraina con carri armati, jet, truppe d'assalto, di colpo ribalta antiche certezze. Come quelle di Salvini che nel 2015, indossando una t-shirt con stampata la faccia del presidente russo, twittava: «Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin».
Oppure quelle di Conte che nel 2018, agli albori dell'era giallo-verde, nel contratto di governo mise nero su bianco assieme a Luigi Di Maio e a Salvini «l'impegno a rivedere le sanzioni contro la Russia». Per poi dichiarare: «Quelle misure rattristano l'Italia». Acqua passata. Un feeling sbriciolato (per il momento) dalle bombe russe sull'Ucraina. Il primo a svegliarsi, si diceva, è Salvini.
Ancora il giorno prima il leader leghista si era scagliato contro le sanzioni anti-Putin, ma ora corre a «condannare con fermezza ogni aggressione militare». Un po' poco. Quelli del Pd se ne accorgono. «Basta ambiguità», tuona Enrico Letta. Così Salvini ci riprova minacciando di emulare Jan Palach: «E' la Russia che sgancia i missili, sono loro a essere in torto. E la mia condanna è ferma, senza se e senza ma. Il Pd dice che devo fare di più? Mi dovrò dare fuoco sulla pubblica piazza».
E pur senza parlare di sanzioni, il leghista dichiara: «Bisogna tornare alla pace, costi quel che costi». Letta apprezza. Tanto più che il leghista si presenta, a sera, all'ambasciata ucraina con un mazzo di tulipani bianchi «in segno di solidarietà». Segue segno della croce e breve preghiera davanti alla targa in ottone della sede diplomatica, neanche fosse un'edicola della Madonna.
Poi arriva l'abiura di Conte. Il leader 5Stelle stigmatizza «con fermezza» l'attacco «ingiustificato» dell'Ucraina. E chiede «una risposta ferma, coesa, unitaria dell'Unione europea». Non poco per chi, quattro anni fa, si rattristava per le sanzioni anti-Putin. In più Conte chiama l'ambasciatore ucraino e tutti i leader di partito: «Le forze politiche devono unirsi contro l'aggressione».
Peccato che in una lunga nota dei parlamentari 5Stelle delle commissioni Esteri e Difesa si descriva il disastro provocato «dall'aggressione militare russa», le conseguenze «sull'Europa», ma non si faccia alcun accenno alle misure contro Mosca. Ancora più in imbarazzo l'ex grillino Alessandro Di Battista, che Conte ha ricominciato a frequentare. Il Che Guevara dei poveri, cultore a oltranza di posizioni terziste, cade dal pero: «Non mi aspettavo minimamente la guerra in Ucraina.
L'ho scritto: dubito fortemente che a Putin possa interessare una guerra. Evidentemente così non è stato». Già. Più facile (ma più costoso) per Matteo Renzi prendere le distanze da Mosca. Prima definisce «inaccettabile l'assurda guerra». Poi, e questa è la sostanza, si dimette dal board della società di car-sharing russa Delimobil. Come è facile per la Meloni, da oggi negli States per un convegno del partito repubblicano, mettere alle spalle ogni simpatia per Putin: «E' il tempo delle scelte di campo.
L'Occidente sia unito nel sostenere Kiev». Rumoroso, invece, il silenzio di Berlusconi. Tanto rumoroso da spingere il deputato forzista Elio Vito a invocare «parole nette di condanna» da parte del Cavaliere, in quanto «non ha mai nascosto la sua amicizia con Putin». Invito che Berlusconi, memore delle festose giornate in dacia con il presidente russo, non accoglie.
Si limita a far sapere ai suoi di condannare l'attacco e di mettere le sue «relazioni internazionali al servizio della pace». Ma non rilascia alcuna dichiarazione ufficiale. In più fa filtrare di essere «preoccupato» dei rischi che va incontro anche la Russia.
Alessandro Trocino per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2022.
«Ma quale filo-putiniano, è una calunnia, è cambiato il contesto, sono successe un miliardo di cose, stavo all'opposizione. Non ho niente di cui pentirmi e non ho cambiato idea». Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri M5S, prova a tirarsi fuori, a spiegare che «siamo tutte persone con un cervello e una cosa è il ragionamento politico, sullo spostamento innegabile della Nato a est, una cosa l'attacco militare, che è ingiustificabile. Noi dobbiamo tutelare solo i nostri interessi.
Se Putin mi ha deluso? Ma io non l'ho mai ammirato, non sono mica Salvini che lo definiva un grande politico». Fino a ieri i putiniani d'Italia erano un piccolo esercito variegato e baldanzoso, che pescava a sinistra e a destra, passando per quella nebulosa inclassificabile che è diventato il Movimento.
Oggi, si fa fatica a trovarne uno. Prendiamo Matteo Salvini, che si sentiva più a casa all'ombra della cattedrale di San Basilio che sotto la Madonnina. Quel Salvini che le sanzioni contro Putin sono «da deficienti», che lui è «un gigante», che «cedo due Mattarella per mezzo Putin» e che per amor della Russia è diventato un pacifista gandhiano. Ieri ha cambiato giacchetta: fuori la felpa moscovita, dentro la grisaglia: «Condanno con fermezza ogni aggressione militare».
Poi ha annunciato che non rinnoverà l'accordo di cooperazione con Russia Unita, il partito di Putin. E neanche quello dei Giovani padani siglato nel 2018, quando inneggiavano a Putin, «punto di riferimento nella difesa dei valori tradizionali e della cristianità», lamentandosi parecchio dell'«isteria anti russa». Non ne era contagiato, all'hotel Metropol, Gianluca Savoini, già presidente dell'associazione Lombardia-Russia, e ufficiale di collegamento con il nazional-fascista russo Aleksandr Dugin.
La Lega è stata dominata da una fascinazione per l'uomo forte, quel Putin che affronta a petto nudo, e colpi molto proibiti, i dissidenti. Ma gli opposti sovranismi, a lungo termine, non vanno d'accordo. Il grillo-leghismo è stato un sovranismo un po' all'amatriciana e il versante 5 Stelle è stato più dominato da un antiamericanismo vecchio stile, un tempo appannaggio delle sinistre (vedi Vito Petrocelli). Alessandro Di Battista martedì spiegava, con invidiabili capacità profetiche: «La Russia non sta invadendo l'Ucraina. Per carità, tutto può accadere ma credo che Putin tutto voglia fuorché una guerra».
E infatti. Ieri ha condannato la guerra, aggiungendo: «Ho le mie idee e me le tengo». Padronissimo. E del resto le sue idee piacciono parecchio a Giuseppe Conte, che vagheggia - in chiave anti Di Maio - un ritorno nell'alveo populista e corteggia Di Battista e la Russia. Almeno da quando, in pieno Covid, fece sfilare l'esercito russo da Roma a Bergamo, con la benedizione del leghista Paolo Grimoldi.
Di Maio, con un presente di fulgido atlantista, ha il record di onorificenze a oligarchi putiniani, come avevamo scritto nella newsletter Rassegna del Corriere del 20 gennaio. Nel caso dell'avvelenamento di Alexei Navalny, leader dell'opposizione russa, la Lega si è schierata con Putin e i 5 Stelle si sono astenuti sulla risoluzione che chiedeva un'indagine internazionale. Dalle parti di Arcore, l'espressione «l'amico Putin» è diventata proverbiale, come i due colbacchi di Putin e di Berlusconi nella dacia del Mar Nero.
L'azzurro Franco Frattini, presidente del Consiglio di Stato, è stato persino escluso dalla corsa per il Quirinale in quanto troppo filo-russo. E a sinistra? Rifondazione è contro «gli etno-nazionalisti, collaborazionisti con il nazismo», mentre Matteo Renzi si è appena dimesso dal board della società russa Delimobil. Romano Prodi, non proprio filo putiniano ma adepto del pragmatismo, si interroga sui contratti del gas. Perché poi, alla fine, la domanda è una sola: quanto siamo disposti a esporci, a pagare, a «morire», di freddo e non solo, pur di contrastare il disegno egemonico, imperialista e antidemocratico di Putin?
Stefano Iannaccone per tag43.it il 25 febbraio 2022.
La disdetta del contratto non si trova. E così, come prevede lo stesso documento, è tacito il rinnovo per un altro quinquennio. L’intesa tra la Lega di Matteo Salvini e Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, è tuttora in vigore, essendo stata sottoscritta il 6 marzo 2017 con una durata di cinque anni.
In questi anni non risulta alcun passo indietro ufficiale e l’accordo resta valido
Si dirà: ma è in scadenza, praticamente agli sgoccioli. Vero. Ma c’è un articolo, tra i 10 che compongono il testo, che recita: «L’accordo è automaticamente prorogato per successivi periodi di cinque anni, a meno che una delle parti notifichi all’altra parte, entro e non oltre sei mesi prima della scadenza dell’accordo, la sua intenzione alla cessazione dello stesso». Una sorta di diritto di recesso mai esercitato.
Agli atti non risulta alcun passo indietro ufficiale, nessuna cancellazione formale, insomma, né è rintracciabile qualche dichiarazione pubblica che lasci intendere la rottura del patto.
Anzi, da quanto viene riferito a Tag43, «non c’è stato alcun cambiamento della situazione», con la puntualizzazione, tesa a minimizzare, che «di fatto non è operativo».
Sarà. Ma il Salvini che oggi «condanna» le azioni di Putin in Ucraina (senza però citare né il presidente russo né Mosca) sarebbe lo stesso che ha un’intesa politica in vigore con il partito dello stesso Putin, stipulata quando aveva già messo piede nel Donbass attraverso gruppi paramilitari.
Il conflitto nella regione è infatti iniziato nel 2014. Il primo punto del contratto prevede che «le parti si consulteranno e si scambieranno informazioni su temi di attualità della situazione nella Federazione Russa e nella Repubblica Italiana, sulle relazioni bilaterali e internazionali, sullo scambio di esperienze nella sfera della struttura del partito, del lavoro organizzato, delle politiche per i giovani, dello sviluppo economico, così come in altri campi di interesse reciproco».
Magari «non è operativo», come viene sostenuto, ma sarebbe il caso di sgomberare il campo da dubbi, perché si parla di «scambio di informazioni». Non una questione secondaria.
L’incontro tra Matteo Salvini e Sergej Zheleznyak
Ma per capire la vicenda, bisogna andare con ordine. Nel marzo 2017, a circa un anno dalle Politiche (si era da poco insediato a Palazzo Chigi Paolo Gentiloni), Salvini volò a Mosca, da leader della Lega Nord (ancora con la vecchia denominazione, successivamente sostituita con Lega per Salvini Premier), per stipulare un contratto, ben prima di quello fatto con il Movimento 5 stelle per il governo gialloverde.
L’altro contraente era il partito Russia Unita, proprio quello guidato dal leader del Cremlino, rappresentato in quell’occasione da Sergej Zheleznyak, responsabile Esteri e uomo di fiducia del presidente russo. Il post su Facebook del segretario leghista parlava addirittura di «storico accordo», che voleva porre fine alle sanzioni inflitte alla Russia.
I punti dell’accordo tra Lega e Russia Unita
Il Paese che qualche anno prima aveva annesso la Crimea e avallato l’avanzata dei separatisti nel Donbass. Era la fase del sovranismo rampante di Salvini, della campagna tutta euroscettica che da Mosca veniva vista con grande favore.
La Lega appariva l’interlocutore ideale per minare alla base il progetto dell’Unione europea e portare avanti una campagna di delegittimazione dell’atlantismo. Così quel contratto includeva il regolare scambio di «delegazioni di partito a vari livelli, per organizzare riunioni di esperti, così come condurre altre attività bilaterali e la promozione attiva delle relazioni tra i partiti e i contatti a livello regionale».
E non solo. L’impegno era quello di arrivare all’interno delle Istituzioni. Come? Con «la creazione di relazioni tra i deputati della Duma di Stato dell’Assemblea federale della Federazione Russa e l’organo legislativo della Repubblica Italiana, eletti dal partito politico nazionale russo “Russia Unita” e il partito politico “Lega Nord” e anche organizzano lo scambio di esperienze in attività legislative».
E ancora erano inclusi: «lo sviluppo di una cooperazione reciprocamente vantaggiosa e la collaborazione di organizzazioni giovanili, femminili, culturali, umanitarie, ecc. al fine di rafforzare l’amicizia, la formazione giovanile nello spirito di patriottismo e di operosità» e «la cooperazione nei settori dell’economia, del commercio e degli investimenti tra i due Paesi».
Un’intesa a tutto tondo che sanciva un legame di ferro. E che oggi, ancor più dopo l‘invasione russa dell’Ucraina, fa un certo effetto.
Maria Pia Mazza per open.online il 27 Febbraio 2022.
«Putin? Si è trovato di fronte ad un’Europa in fuga, come sull’Afghanistan. È chiaro che se l’Occidente scappa dalla Libia, alla Siria per fare qualche esempio, chi è abituato a usare la forza è incentivato a usare la forza».
Dice il segretario della Lega, Matteo Salvini, commentando l’offensiva russa nei confronti dell’Ucraina. E mentre a Bruxelles i ministri dell’Interno dell’Unione Europea sono stati chiamati a stabilire la road map per la redistribuzione dei profughi ucraini in fuga dal Paese dopo l’attacco russo, oltre a discutere sull’opportunità di stanziare ulteriori fondi per affrontare l’emergenza in Ucraina, il leader della Lega, ospite della trasmissione Mezz’ora in più, ha dichiarato che i profughi ucraini «saranno i benvenuti, c’è enorme spazio per le persone di buona volontà: tutti i sindaci della Lega si stanno muovendo (per accoglierli, ndr), ma non è questione di partiti».
Il segretario leghista ha poi dichiarato di aver «sempre combattuto per l’aiuto dei profughi e contro i barchini e i barconi e gli arrivi clandestini che subiamo dal Nord Africa, da persone che non sono profughi veri», aggiungendo che «li andrei personalmente a prendere a migliaia e migliaia, senza mettere limite numerico».
Parole che richiamano quelle già pronunciate da Salvini in Senato lo scorso 25 febbraio, dopo l’informativa del premier Draghi: «L’Italia ha il dovere di spalancare le porte a chi scappa dalla guerra vera, ai profughi veri, perché spesso si parla di profughi finti che scappano da guerre finte, ma questi (riferendosi al popolo ucraino, ndr) sono profughi veri in fuga da una guerra vera».
Salvini: «L’Ue non dia armi letali all’Ucraina»
Nel corso dell’intervista con Lucia Annunziata, Salvini si è detto contrario alla proposta dell’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell, di rifornire l’Ucraina di «armi letali».
Il segretario leghista ha infatti osservato: «Sono un tifoso dell’introduzione del servizio militare, ma all’Europa non chiedo di distribuire armi ma di perseguire la via del Santo Padre: confronto, dialogo, diplomazia, sanzioni e non voglio che la risposta dell’Italia e dell’Europa, culla di civiltà, sia distribuire armi letali».
Salvini, inoltre, si trova d’accordo con la scelta del governo italiano di rafforzare la sua presenza nelle zone Nato: «Io mi tolgo il capello al cospetto dei 5.500 militari italiani che sono forza di pace in giro per il mondo». Quanto invece all’annuncio del cancelliere tedesco Scholz dell’aumento di cento miliardi di euro per per gli investimenti necessari e per i progetti di armamento della spesa militare della Difesa tedesca nel 2022, Salvini ha concluso: «Investire di più in difesa e delle forze armate va bene».
(ANSA il 27 Febbraio 2022) - "No alle armi letali". Cosa dobbiamo inviare secondo Salvini delle fionde? Dei fucili a coriandoli? Delle felpe?". Così il leader dei Azione, Carlo Calenda, replica alle parole di Matteo Salvini durante il suo intervento a In Mezz'ora in più.
"Già sono insopportabili i distinguo e le furbizie su Covid o politica economica", scrive poi Calenda in un altro tweet. "Ma su politica estera e di difesa in tempo di guerra sono inaccettabili. Se Salvini non riesce a staccarsi da Putin se ne vada all'opposizione. E si assuma per una volta le sue responsabilità".
La pace a chiacchiere. Salvini accarezza un antibellicismo cinico alla Alberto Sordi. Mario Lavia su L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022.
Draghi punta all’unanimità contro Putin. Ma sull’invio di armi a Kiev il supporto potrebbe incrinarsi per l’irenismo da anime belle della Lega (che guarda ai voti di chi preferisce farsi i fatti propri) e di una minoranza di sinistra (che sta già lucidando l’antiamericanismo)
Il Parlamento, martedì, potrebbe votare all’unanimità una risoluzione di appoggio al discorso che lì farà Mario Draghi e che conterrà l’insieme delle iniziative del nostro Paese contro l’invasione russa dell’Ucraina. Sarebbe un fatto politico di primaria grandezza che, oltre a confermare l’unità della maggioranza, salderebbe addirittura a quest’ultima anche Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana: e non sarebbe un miracolo politicista ma il risultato di un posizionamento in prima fila dell’Italia nel consesso del mondo civile e democratico.
Le primissime timidezze sono state via via superate di pari passo con la barbara escalation dell’esercito di Putin e della crescente sintonia con gli alleati, giungendo all’uso di armi molto pesanti come l’esclusione della Russia dal sistema Swift, la chiusura dello spazio aereo italiano ai voli russi e la decisione di inviare mezzi militari. Ma quest’ultima questione rischia di far saltare tutto. C’è Matteo Salvini di traverso.
È evidente che finora si è morso la lingua. Il suo fariseismo malcela un grande fastidio per lo schierarsi dell’Italia contro il suo (ex?) faro del Cremlino dal quale peraltro ha ottenuto riconoscimenti e chissà che altro (andrebbe chiesto a quel Gianluca Savoini, sempre presente durante le visite ufficiali di Salvini a Mosca, che, secondo un’inchiesta dell’Espresso, aveva condotto la trattativa per il finanziamento russo alla Lega prima delle elezioni europee).
Salvini copre questo fastidio per la posizione antirussa del governo italiano con le solite amenità finto-buoniste («Ai missili non si risponde con altri missili»), la retorica sui «bimbi» vittime della guerra, la sfacciata strumentalizzazione delle parole di Papa Francesco il quale, com’è noto, parla da un pulpito morale che è cosa ben diversa dalla tragicità della politica e della storia.
La contrarietà all’invio di armi, naturale conseguenza dell’appoggio a Volodymyr Zelensky, non gli va giù («Non in mio nome», dice con slogan pacifista) perché è il segno plastico della guerra del mondo libero a Vladimir Putin, il contrario del generico e generoso volemose bene che alimenta i discorsi di ampi pezzi di società italiana. Salvini è un uomo pronto a utilizzare tutte le conseguenze negative dell’intransigenza italiana e occidentale per lucrare qualche voto e addebitare allo schierarsi contro il dittatore di Mosca l’aumento delle bollette, contando su un certo cinismo alla Alberto Sordi per cui sarebbe stato meglio farci i fatti nostri, senza ovviamente comprendere che la guerra di Putin è anche a noi, che sono “fatti nostri”, come ha spiegato lucidamente Giorgio Gori.
E d’altra parte, al riparo di un pacifismo da anime belle, vago e incolore, sta riemergendo il mai sopito antiamericanismo di una parte del pacifismo italiano annidato un po’ da tutte le parti, specie a sinistra, e per fortuna Enrico Letta ha reso immune il Pd dai tristi cincischiamenti insiti nei discorsi dell’Anpi (una gloriosa associazione che dovrebbe rinverdire la memoria della più fulgida pagina della storia del Novecento italiano, la Resistenza, ma ormai da tempo ridotta a una simil-formazione politica girotondina e estremista) nei quali si considerano «legittime» le preoccupazioni di Mosca per un’immaginario allargamento a est della Nato.
Per non parlare di una ex ministra della Difesa (!) che si chiama Elisabetta Trenta, all’epoca seguace grillina, o dello scoperto filoputinismo del Fatto, apprezzato dall’ambasciata russa a Roma. Massimo D’Alema, che è più intelligente di tutti questi, almeno fa riferimento alle condizioni del «popolo russo», che è comunque un tema, per criticare l’Occidente; mentre Maurizio Landini, chiede «di capire le ragioni profonde di quanto accade» che è un modo obliquo per dire che insomma le ragioni non stanno tutte da una parte, un latente cerchiobottismo che imbeve la posizione della Cgil di retorica pacifista, quella che non entra nel merito.
C’è da chiedersi quanto sia larga, nel Paese, questa voglia di pace a chiacchiere, senza sporcarsi le mani e pagare dei prezzi. La domanda è importante perché dalla sua risposta si potrebbe capire se effettivamente il popolo italiano stia con il governo Draghi che sceglie con coraggio da che parte stare o se domani potrebbe fargli pagare questa scelta. Salvini punta su questa possibile contraddizione ergendosi a punto di riferimento del “pacifismo” imbelle e delle pulsioni filorusse. Un gioco pericoloso. Molto più del Papeete. Ma differenziarsi in questo frangente non conviene nemmeno a uno svelto di mano come lui.
Se il Pd dà la caccia ai filorussi cominci dal «suo» Schroeder e la smetta con gli attacchi a Salvini. Hoara Borselli su Il Tempo il 28 febbraio 2022
In evidente imbarazzo per la plateale figuraccia del Partito Democratico al Parlamento Europeo, dove si è spaccato nel voto sui provvedimenti per difendere il Made in Italy, la compagine Dem cerca di distogliere l'attenzione attaccando la Lega e il suo «tiepido» dissociarsi dal Cremlino. Dicono così i Dem: tiepido. Chissà perché poi. Matteo Salvini ha appoggiato pienamente tutte le scelte di Mario Draghi. Dov'è la tiepidezza? Certo, la Lega non è mai stata guerrafondaia. È una colpa grave? Comunque il partito di Salvini ha risposto all'attacco del Pd, soprattutto sul piano europeo: «se proprio vogliono parlare di rapporti con il Cremlino, Benifei e il Pd ci parlino del loro alleato Gerhard Schroeder, ex cancelliere socialdemocratico tedesco, esponente di spicco della sinistra tuttora influente sulla scena politica e primo lobbista della Russia in Europa». Già. Il Pd che oggi, nonostante la sanguinosa guerra in corso, avverte la necessità di soffiare vento sulla sterile polemica politica contro il nemico leghista, è lo stesso che è alleato nel Parlamento europeo con i socialisti tedeschi che si tengono stretto Schroeder, da anni al soldo di Putin senza aver mai chiesto, a quanto ci risulta, una sua espulsione dalle fila della grande famiglia socialdemocratica. Così intransigenti con gli altri e così disattenti con sé stessi.
Chi è questo Schroeder cui gli stessi Dem non sembra abbiano alcuna intenzione di dissociarsi? Gerard Schroeder, non è un tizio qualsiasi. È un gigante della socialdemocrazia tedesca ed europea. È stato l'erede di Brandt e Schmidt. Cancelliere dal 1998 al 2005. Vincitore nel duello elettorale col mitico Helmut Kohl. In questo secolo, scomparsi Craxi e Mitterrand, è stato sicuramente il numero uno in Europa del socialismo post-caduta del muro. Capite bene che non si possono ignorare le sue mosse. Ebbene, proprio lui, in queste ore, ha messo in guardia l'Occidente, chiedendo di non esagerare con il muro contro muro verso i Russi. Ma come esagerare? Quelli hanno invaso l'Ucraina, assediano Kiev, hanno riportato, dopo decenni, la guerra nel cuore dell'Europa, bombardano gli ospedali dei bambini, e noi che dovremmo fargli: un sorriso? Il fatto è che, probabilmente, l'idea dolce di Schroeder sulla Russia non nasce da una analisi politica, ma da qualche altra cosa. Per esempio dal fatto che da una quindicina d'anni l'ex cancelliere ha assunto ruoli di vertice in alcune società del gruppo Gazprom, colosso del commercio del gas. Società tedesca? No, russa. Tutto chiaro.
Ma se questi sono gli statisti che produce l'Europa, che speranze ha l'Europa? E la Spd tedesca, cioè il partito di Schroeder, cosa fa? Lo espelle? No, se lo tiene. E lo tiene nel suo Pantheon. Che futuro ha una socialdemocrazia opportunista e priva di valori fino a questo punto? Del resto, forse, l'indulgenza del Pd verso Shroeder può avere una spiegazione semplice. Bisogna tornare al 2013. Nove anni fa. Furono siglati 28 accordi commerciali con società russe e sette intese intergovernative. Era la prova di una certa, evidente amicizia con la Russia. E chi era, nel 2013, il premier italiano? Enrico Letta. C'è da stupirsi se oggi il Pd è comprensivo con Schroeder? Mentre scrivo queste righe penso a Zelensky. Il premier ucraino, sereno e combattivo, va incontro alla morte. Gli dicono tutti: scappa, ti aiutiamo noi, ti diamo un aereo! Lui risponde: no, sto qui col mio popolo. Vedete, gli statisti ancora esistono. E hanno il cuor di leone. Poi esistono anche gli Schroeder.
Lega, Salvini: "Io, pronto ad andare in Ucraina come combattente per la pace". La Repubblica il 2 marzo 2022.
La proposta dopo gli equilibrismi dei giorni scorsi: "Marcia l'8 marzo. Una grande iniziativa, potrebbe essere il Papa a lanciarla". Su Putin: "Ha torto, è lui l'aggressore". E sull'inchiesta sui presunti fondi russi al Carroccio: "Per il New York Times io ricattato? Sciocchezze".
"Invadere" pacificamente l'Ucraina con una marcia per "celebrare" lì l'8 marzo e "chiedere un cessate il fuoco". Matteo Salvini rilancia l'idea stamani. Dice che si tratta di "un sogno", ma assicura anche che lui sta lavorando davvero all'iniziativa, "in contatto con l'ambasciata italiana a Leopoli".
Il segretario della Lega, in conferenza stampa alla Camera, spiega: "Ora stanno uscendo dall'Ucraina le vittime della guerra e delle bombe, ecco, se in entrata ci fossero non solo combattenti ma anche combattenti disarmati per la pace io sarei molto orgogliosamente fra di loro. Se qualcuno lanciasse una grande iniziativa continentale, un'invasione pacifica in senso contrario. Più siamo e meglio è", perché "se siamo in cento è un conto, se fossimo in centomila sarebbe un altro conto".
Ecco allora chi potrebbe coinvolgere le persone secondo Salvini: "Se magari fosse direttamente il Santo Padre a lanciare una grande iniziativa di pace a livello continentale, nessuno lo potrebbe accusare di avere secondi fini, di fare ragionamenti geopolitici o di essere amico di Putin".
Per l'ex ministro dell'Interno "sanzioni e armi non basteranno", ecco perché sogna oggi "un grande movimento per la pace a livello continentale che andasse a frapporsi in Ucraina fra il popolo e le bombe, fra il popolo e i missili". La chiama "una forte iniziativa di pace", non "un'iniziativa tanto per fare", messa in atto con la "presenza fisica di parlamentari, studenti, imprenditori, operai, camionisti, agricoltori sul posto a dire fermatevi".
Salvini vorrebbe quindi andare in Ucraina la prossima settimana, "anche perché ogni giorno che passa è un passo in più verso il baratro". Martedì prossimo potrebbe essere il giorno giusto: "L'8 marzo è la festa della donna: in Ucraina quest'anno non c'è, perché le donne, le mogli, le mamme scappano. Ricordarla a Roma ha un certo senso, ricordarla in territorio di guerra facendo un appello al cessate il fuoco avrebbe un altro senso".
Salvini afferma poi che "in questo momento c'è qualcuno che invade e qualcuno che è invaso, c'è qualcuno che ha aggredito e qualcuno che è stato aggredito: noi siamo a fianco degli aggrediti, c'è Putin che ha aggredito e Zelensky che è aggredito. È il caso di dirlo, per dire basta alle polemiche stucchevoli". Per Salvini "chi ha torto, chi ha scatenato l'attacco è chiaro, è la Russia".
Sull'inchiesta sui presunti fondi russi alla Lega, ha aggiunto: "Per il New York Times io sarei ricattato dalla Russia? Sciocchezze. A me dispiace che un giornale così importante abbia queste sciocchezze da scrivere. Ho tanti difetti ma mi godo la mia libertà. Non ho mai preso rubli, dollari o franchi svizzeri: zero. C'è una inchiesta da anni che non ha mai trovato niente: perché non c'è niente. L'ultima volta che andai a Mosca portai a casa 'Masha e orsò per mia figlia, pagandola ai magazzini Gum. Poi ho smesso di andarci perché ogni volta che andavo aprivano una inchiesta. Mentre tutti, da Prodi a Renzi e Letta, quando erano al governo hanno avuto contatti con la Russia e con Putin, giustamente". Nel reportage del Nyt, in realtà, non si fa esplicito riferimento all'arma del ricatto. Il quotidiano statunitense traccia una approfondita analisi dei politici di destra e ultradestra europei che, negli anni, sono stati tra i più strenui sostenitori di Vladimir Putin. Il quotidiano ricorda la posizione a favore dell'annessione della Crimea, le magliette con il volto del capo del Cremlino indossate da Salvini e come quest'ultimo schernisca chiunque lo abbia accusato di essere 'a libro paga' di Putin rispondendo: "Lo stimo gratuitamente, non per soldi".
Nella sua ricostruzione, il Nyt poi sottolinea come in questi giorni il segretario leghista abbia condannato la violenza russa cercando di accostare il nome di Putin "nella stessa frase". Il quotidiano cita poi i rapporti di Marine Le pen e dei tedeschi di Afd. E, infine, la storica amicizia di Silvio Berlusconi per Putin e il silenzio del Cavaliere in pubblico, riportando però le parole del sottosegretario forzista alla Difesa Giorgio Mulè che parla di un Berlusconi "molto preoccupato e abbastanza terrorizzato: non riesce a vedere in Vladimir Putin la persona che ha conosciuto".
Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 2 marzo 2022.
A qualcuno ricorda il Fonzie di Happy Days, che non riusciva a chiedere «scusa». Ad altri il Veltroni delle elezioni 2008, che, per non nominare Berlusconi, parlava del «principale esponente dello schieramento a noi avverso».
Per Matteo Salvini l'innominabile è Vladimir Putin. Ieri, in 11 minuti di intervento al Senato, è riuscito a non citarlo mai, tenendosi sul vago, come fa sui social: un «aggressore», «chi ha scatenato la guerra», «chi bombarda». Già, ma chi? Amnesia comprensibile. Ma, per ricordare, a Salvini basterebbe cercare nei cassetti le magliette che in passato si è fatto stampare con la faccia del presidente russo.
Nel 2015 una l'aveva indossata anche al Parlamento europeo e, all'epoca, non lesinava elogi allo "Zar". Uno memorabile: «Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin». E qui tornerebbe utile la parolina proibita di Fonzie.
Estratto dell’articolo di Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 2 marzo 2022.
Pacifista, fautore dell'accoglienza, distante dalla Russia. Matteo Salvini, come Zelig, cambia volto e prova ancora a reinventarsi. La guerra, dopo la pandemia, lo costringe a una nuova trasformazione. Che si completa nell'aula di Palazzo Madama, intorno all'ora di pranzo.
I dieci minuti di intervento del leader della Lega (...) sono una veloce corsa sul filo dei distinguo, rappresentano una terza via fra l'interventismo e le vecchie posizioni filo-Putin. Accadde già nel periodo caldo del Covid, il capo del Carroccio non attaccava i No Vax ma votava con il governo a favore del Green pass.
Il copione si ripete: quando parla in aula, Salvini, sembra inseguito dal suo passato che urla ancora sui social, magliette e smodati elogi all'inquilino del Cremlino. Ma la colpa non è di chi lo ha interpretato, quel passato, piuttosto di chi glielo ricorda: «Le polemiche oggi non fanno onore alla classe politica e giornalistica», tuona subito il numero uno di via Bellerio. Non c'è un pentimento, ma certo la Lega si ricolloca, perché «chi tira le bombe non ha giustificazioni» e la guerra «mette un punto fermo fra quello che c'era prima e quello che c'è dopo ».
(…) L'importante, per il segretario leghista, è raccontare al meglio la nuova versione di sè. Sempre un passo indietro rispetto a Draghi: al premier pieno mandato, però dubbi sull'uso delle armi e un continuo richiamo al valore della diplomazia e della pace. (…) . Il tutto fra gli interrogativi di alcuni colonnelli che pensano che la terza via adottata possa essere vista come una conferma dell'ascendente putiniano non del tutto scomparso.
Mentre altri, nella Lega, ritengono giusto l'appello di Salvini a non mischiare i temi della guerra con la politica interna, però proprio per questa ragione restano perplessi rispetto all'uso di sondaggi e di una nuova campagna sull'immigrazione, che distingua fra profughi veri e finti. (…)
Da “la Repubblica” il 2 marzo 2022.
Non mi meraviglia che tra i 5stelle ci siano filorussi sia nascosti e sia spudorati come il tarantino Vito Petrocelli, presidente, nientemeno, della commissione Esteri del Senato. Dai tempi del vaffa e delle gogne sono convinta, proprio come lei caro Merlo, che i 5stelle siano (siano stati?) il peggio d'Italia. Ora si conferma che sono i veri compari di Salvini.
Mariella Clemente - Altamura (Bari)
Risposta di Francesco Merlo
Salvini però si vergogna di Putin: balbetta, si contraddice e persino si finge pacifista francescano. Dopo essere stato il riferimento del partito russo d'Italia, ha appoggiato la fermezza di Draghi pur non eliminando "le ambiguità di una posizione che cambia ogni ora" come ha spiegato ieri Stefano Folli.
Ma questa sua vergogna che, dal latino "verecondia", è "turbamento, imbarazzo, senso di fallimento e nascondiglio", va sì smascherata e derisa ma, trattandosi di una guerra d'aggressione da cui l'umanità uscirà abbrutita e depravata, forse va anche - lo dico a me stesso - incoraggiata. E vale la pena citare il vecchio Marx: "La vergogna è già una rivoluzione, una specie di collera che si rivolge contro se stessa, come un leone che prima di spiccare il salto si ritrae su se stesso"
LA CONVERSIONE DI SALVINI SU PUTIN BY ELLEKAPPA il 2 marzo 2022.
RACCOLTA DI ELOGI DI SALVINI A PUTIN
11 marzo 2015: “Io credo che la Russia sia sicuramente molto più democratica dell’Unione europea così come oggi è impostata. Farei a cambio: porterei Putin nella metà dei paesi europei.
25 marzo 2017: “Io ritengo che Putin sia una delle persone più lungimiranti attualmente al potere sulla faccia della terra. Invece qualcuno ha deciso che Putin è brutto e cattivo. Io tra Putin e la Merkel lascio la Merkel e mi tengo Putin per tutta la vita”.
29 marzo 2017: “Secondo il PD è un dittatore sanguinario. Hanno dei problemi”
18 ottobre 2016: “Qualcuno in questo studio o a casa ha paura di essere invaso dai russi stanotte?. (…) Io ridiscuterei anche la presenza dell’Italia nella NATO”
28 novembre 2017: “Avessimo un Putin anche in Italia staremmo molto meglio”
12 luglio 2019: “Lo dico gratis, che Putin è uno dei migliori uomini di governo che ci siano in questo momento sulla faccia della Terra”
Ucraina:Salvini, valuto possibilità di andarci
(ANSA il 2 marzo 2022) - "Sto valutando la possibilità tecnico-logistica di essere in presenza perchè al di là delle manifestazioni un conto è invocare la pace un conto è esserci in presenza. Mi piacerebbe che in entrata ci fosse un flusso di combattenti per la pace.
Sto ragionando con l'ambasciata italiana, la Caritas, Sant'Egidio. Ho inviato messaggi al premier polacco e ungherese per avviare dei corridoi di pace. Stiamo lavorando ad un grande movimento per pace che si frapponga alla guerra". Lo afferma il leader della Lega Matteo Salvini nel corso di una conferenza stampa.
Ucraina: Salvini, Putin ha aggredito e Zelenskyj si difende
(ANSA il 2 marzo 2022) - "In questo momento assistiamo a qualcuno che invade a qualcuno che è invaso. Noi siamo a fianco degli aggrediti e degli invasi. Putin ha aggredito e Zelenskyj su sta difendendo. La nostra priorità e fermare le armi.
Stop agli scontri con la diplomazia è chiaro che ad un popolo sotto assedio gli devi dare strumenti per difendersi ma è chiaro che gli italiani odiano la guerra. Io mi metto a disposizione per arrivare al cessate fuoco, sto incontrando tutti però se devi chiedere il cessate il fuoco va chiesto ai russi, va chiesto ai cinesi, alla Santa Sede che è terreno neutrale. Chiedere la mediazione delle diplomazie ecclesiastiche è fondamentale". Lo afferma il leader della Lega Matteo Salvini nel corso di una conferenza stampa alla Camera.
Ucraina:Salvini, mia presenza? Prima sentirò ambasciatore
(ANSA il 2 marzo 2022) - "Non si tratta di andare a fare una passeggiata, se ritenessi di poter dare il mio minuscolo contributo andando a sostenere le associazioni umanitarie ad esempio a Leopoli lo farei. Se potesse servire lo faremmo nelle prossime ore, prima però sentirò ambasciata". Lo afferma il leader della Lega Matteo Salvini a proposito di un suo possibile viaggio in Ucraina.
Ucraina:Salvini,parlare con i russi? Io parlerò con tutti
(ANSA il 2 marzo 2022) - "Se devo chiedere di fermare gli attacchi lo chiedo ai russi non è che lo posso chiedere al mio parroco di Milano... il mio mestiere è parlare con tutti. Conto che lo faccia anche il ministro degli Esteri, che abbia canali aperti con tutti. Io sono solo il segretario di un partito". Lo afferma il leader della Lega Matteo Salvini a chi gli chiede se ha intenzione di avviare colloqui anche con i russi.
Ucraina:Salvini,pronto a andare come combattente per la pace
(ANSA il 2 marzo 2022) - "Se ci fosse un' invasione pacifica in senso contrario e cioè se in entrata ci fossero non combattenti disarmati per la pace io sarei fra di loro, se siamo in 100 è un conto se fossimo 100mila un altro.Se fosse il santo padre a lanciare l' iniziativa di pace nessuno potrebbe accusarlo di secondi fini o di essere amico di Putin". Lo afferma il leader della Lega Matteo Salvini.
Matteo Salvini prova a dimenticare il suo passato di fan di Putin. Glielo ricordiamo noi. Carlo Tecce su La Repubblica il 24 Febbraio 2022.
Savoini, la trattiva del Metropol, la Lega contraria alle sanzioni in Europa, l’associazione Lombardia Russia… Sì, il leader leghista è stato il più putiniano tra i putiniani
Il ministro Giancarlo Giorgetti è il leghista più addentro al sistema di relazioni americane in Italia. Già tre anni fa, mentre il Carroccio era scivolato all’opposizione dopo il ribaltone del Papeete di Matteo Salvini, Giorgetti disse che tentò di «mettere in guardia» il suo segretario dagli amici russofili Gianluca Savoini & C.
Adesso che il mondo ha percepito con maggiore chiarezza il pericolo di Vladimir Putin, nonostante decenni di segnali inequivocabili sparsi tra Georgia, Crimea, Donbass, Salvini cerca goffamente di cancellare le prove dei suoi trascorsi putiniani.
La sua carriera politica è talmente impastata di ingredienti russofili che non ci riesce. Gianluca Savoini e Claudio D’Amico sono gli ex fondatori dell’associazione “Lombardia Russia”, dissolta dopo le inchieste dell’Espresso di Giovanni Tizian e Stefano Vergine che portarono alla scoperta della trattativa del Metropol. Ex portavoce del capo leghista, Savoini era al tavolo dell’albergo di Mosca a discutere di un finanziamento al partito per le elezioni Europee del 2019. D’Amico non c’era, non c’entra con quella vicenda, in quel periodo – tre anni fa – era consulente del vicepremier Salvini con un’esperienza formativa a Sebastopoli: osservatore internazionale per accertare la regolarità del referendum che sancì l’annessione a Mosca della Crimea scippata all’Ucraina.
Allora la Lega era già al potere nell’alleanza gialloverde con i Cinque Stelle con le continue sbandate in politica estera, ma la Lega di Salvini, risorta dopo gli scandali dei rimborsi pubblici e la fine dell’epoca di Umberto Bossi, s’ispirò al partito Russia Unita di Putin, si abbeverò alle teorie del filosofo Alexander Dugin e sì avvicinò all’oligarca putiniano Kostantin Malofeev.
Invece in Europa, da sempre, la Lega è il partito più attivo nel contestare le sanzioni economiche al regime moscovita. Per dirne una, esattamente sette anni fa, l’associazione “Lombardia Russia” organizzò un convegno a Milano con i vari Savoini e D’Amico e ospite d’onore un ministro della Repubblica di Crimea riconosciuta da paesi non proprio liberi come la Bielorussia e ovviamente le conclusioni furono affidate a Salvini.
Quando Matteo Salvini diceva: "Sono a Mosca gratis"
Il segretario del Carroccio celebrò Putin, «uno dei pochi leader che ha le idee chiare su una società positiva, ordinata, pulita e laboriosa per i prossimi cinquant’anni». Un elogio così coinvolgente e appassionante che terminò con la richiesta all’Europa di accettare l’indipendenza della Crimea. Salvini ha un solo modo per eliminare le tracce di ciò che ha fatto e detto su Putin. Cambiare identità.
Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 22 agosto 2022.
Tra i silenzi degli indagati e il muro di gomma di Mosca di fronte alle rogatorie dei pm di Milano, l'inchiesta sulla trattativa al Metropol rischia di concludersi, a dicembre, senza fare luce sulla compravendita di gas che avrebbe dovuto portare circa 65 milioni di dollari nelle casse della Lega.
Il 18 ottobre 2018 nella hall dell'hotel moscovita Gianluca Savoini, l'ex portavoce di Matteo Salvini e presidente dell'associazione Lombardia-Russia, l'avvocato Gianluca Meranda e il broker finanziario Francesco Vannucci incontrano tre emissari del Cremlino: Ilya Yakunin, vicino al parlamentare Vladimir Pligin e all'allora ministro dell'Energia Dmitry Kozak; Yury Burundukov, legato all'oligarca nazionalista russo Konstantin Malofeev; Andrey Kharchenko, ex agente dei servizi segreti.
Tutti e sei sono indagati ora a Milano per corruzione internazionale. Almeno due di loro, Yakunin e Kharchenko, sono considerati vicinissimi proprio ad Aleksandr Dugin, di cui parla Savoini nell'audio di Buzzfeed. «Abbiamo creato questo triumvirato, io, te e lui, che deve lavorare in questo modo - dice in maniera criptica a Miranda - . Solo noi tre. Un compartimento stagno. Anche ieri Aleksander ha detto che la cosa importante è che siamo solo noi. Tu, io, rappresentiamo il collegamento con entrambi, l'italiano e il loro "lato politico". Solo noi. Nessun altro».
In effetti, il 17 ottobre Savoini incontra Dugin davanti al Metropol. E lo stesso giorno l'allora vicepremier Matteo Salvini, a Mosca per un evento di Confindustria Russia, avrebbe incontrato il suo omologo russo Dmitry Kozak. Coi pm i tre italiani si avvalgono della facoltà di non rispondere. E anche le rogatorie in Russia restano lettera morta. Dopo mesi di silenzio, Mosca risponde chiedendo quesiti più dettagliati. Poi la guerra in Ucraina chiude ogni comunicazione. E ora, dopo l'ultima proroga di due mesi fa, l'inchiesta rischia di essere archiviata a dicembre.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 22 agosto 2022.
Nell'affaire Metropol, la trattativa in un hotel di Mosca per un presunto finanziamento russo di 65 milioni alla Lega - su cui è ancora in corso un'indagine a Milano per corruzione internazionale - assieme a un emissario della Lega, Gianluca Savoini, due dei russi identificati come parte della conversazione erano Andrey Kharchenko e Ilya Yakunin.
Kharchenko è uno dei collaboratori stretti di Alexandr Dugin, il filosofo del rossobrunismo eurasiano che probabilmente era il vero bersaglio dell'autobomba esplosa nella notte di sabato a Mosca. Dugin è stato in realtà dietro tutta quella partita, e dietro molte altre, in Europa e in Italia.
Non è solo un intellettuale, quell'uomo che vediamo nei fermo immagine davanti alla macchina esplosa della figlia, con le mani nei capelli, e Kharchenko non è solo il suo migliore allievo laureato. Il filosofo è figlio di un dirigente del Kgb, e Karchenko - rivelò Bellingcat - viaggiava con un passaporto speciale che di solito viene rilasciato solo dagli Esteri russi, per lo più agli uomini dei servizi. Insomma, filosofo molto particolare, Dugin.
Non perché sia particolarmente vicino a Putin - non lo è affatto - ma perché è stato coscientemente usato dal Cremlino per una serie di operazioni di propaganda e penetrazione nei partiti e nei media occidentali, proprio quell'Occidente che la sua "Quarta teoria politica" disprezza, cercando di congiungere separatismo etnico di estrema destra e anticapitalismo e anti Nato di estrema sinistra.
Fu così che Dugin è entrato in Italia. A metà tra agitatore culturale e servizi segreti. Savoini lo porta a Milano già nel 2015, plenipotenziario di Tsaargrad, il network dall'oligarca Malofeev. I libri come ottimo pretesto geopolitico.
Quel giorno Dugin ha accanto Maurizio Murelli, militante neofascista già condannato negli Anni 70. Anni dopo, nell'estate 2018 della nascita del governo Lega-M5S, un tour duginiano lanciato da Savoini vedrà Dugin approdare sulla terrazza di Casa Pound, con il segretaro Simone Di Stefano, ancora Murelli e, moderatore, Giulietto Chiesa. Estrema destra e estrema sinistra.
Nel marzo scorso fu fatta trapelare dal Dossier Center di Mikhail Khodorkovsky una mail che riferiva di un altro incontro, che i russi stavano organizzando nel novembre 2017, tra Salvini e il team di Malofeev e Dugin: «Per novembre, durante la visita di lavoro di Matteo a Mosca, il mio capo ha organizzato con lui un incontro privato, affittando una stanza allo stesso piano dell'Hotel Lotte per evitare che la stampa occidentale si accorgesse dell'incontro», scriveva Mikhail Yakushev, numero due di Malofeev, oligarca plurisanzionato fin dall'annessione illegale della Crimea nel 2014, che finanziò ampiamente.
In un'altra mail il team russo di Tsaargrad scrive che bisogna creare in Europa una rete di partiti, di estrema destra (Lega, Le Pen, Wilders) «ma anche euroscettici», chiamata "Altintern" (citazione del vecchio Comintern): «Senza il nostro impegno attivo e il sostegno tangibile ai partiti conservatori europei, la loro popolarità e influenza in Europa continueranno a diminuire».
Dugin pensava anche al M5S. E lo disse a chiare lettere al sito web di Defend Democracy Press. Se a italiani, tedeschi e francesi fosse stata data la possibilità di ritirarsi, affermò, «sarebbe successo il giorno dopo»: «Se lo chiedessimo oggi agli italiani, ovviamente se ne andrebbero anche loro.
E sappiamo che lo chiedono Lega Nord e Cinque Stelle. Dobbiamo affrontare la verità: l'Unione europea sta cadendo a pezzi; è la fine della Torre di Babele, basata sulla geopolitica atlantica e sul sistema di valori liberale». «L'Italia è oggi l'avanguardia geopolitica della Quarta Teoria Politica» spiegò Dugin lodando Giuseppe Conte e il suo primo governo: «L'unione tra Lega e Cinque Stelle è il primo passo storico verso l'affermazione irreversibile del populismo e il passaggio a un mondo multipolare».
Per questo, disse, quel governo italiano era un partner naturale del Cremlino. Di certo foto e amici imbarazzanti tornano a galla: ieri per esempio l'estremista di ultradestra americano James Porrazzo ha twittato una foto di Darya Dugina, chiamandola «una guerriera che sapeva che sarebbe potuto succedere», e in questa foto "Dari" è proprio accanto a Salvini.
Il contratto. Report Rai. PUNTATA DEL 04/04/2022 di Danilo Procaccianti
Collaborazione di Norma Ferrara
Quali sono oggi i rapporti tra gli esponenti leghisti e i sovranisti di Putin?
Il 6 marzo 2017 Matteo Salvini a Mosca siglava un patto con Sergey Zheleznyak, responsabile esteri di “Russia Unita”, il partito di Putin. Era ed è l’unico caso di accordo scritto siglato da un partito politico italiano con un partito straniero. Nel documento si parla di “partenariato paritario e confidenziale tra la Federazione Russa e la Repubblica Italiana”. A cosa serviva questo patto? È ancora in vigore? Quali sono oggi i rapporti tra gli esponenti leghisti e i sovranisti di Putin? Proprio il 9 marzo scorso, il Parlamento europeo ha approvato a larghissima maggioranza una risoluzione contro le ingerenze straniere nella vita pubblica, nella politica e nei partiti. La relazione denuncia come in Europa ci sia una «larga impreparazione» sulla gravità della minaccia rappresentata dai regimi autocratici stranieri, in particolare Russia e Cina. La Lega ha deciso di astenersi dal voto. La relazione, che cita «accordi di cooperazione» tra il partito di Putin e la Lega Nord, «condanna il fatto che i partiti estremisti, populisti, antieuropei e alcuni altri partiti e individui abbiano legami e siano esplicitamente complici nei tentativi di interferire nei processi democratici dell’Unione», spesso puntando sulla disinformazione digitale guidata da potenze straniere. Report ha rincorso i protagonisti di questo "contratto" in cerca di risposte, dal Parlamento sino al confine fra Polonia e Ucraina, dove da settimane vengono accolti i profughi che scappano dalla guerra. E dove l'8 marzo si è recato anche il segretario della Lega, Matteo Salvini.
“IL CONTRATTO” di Danilo Procaccianti collaborazione Norma Ferrara Immagini Cristiano Forti – Chiara D’Ambros Giovanni De Faveri – Fabio Martinelli Montaggio e grafica Monica Cesarani
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Siamo a Medyka, cittadina del Sud-Est polacco al confine con l’Ucraina. Uno dei sette valichi di frontiera che è stato attraversato da gran parte dei quattro milioni di profughi. Un flusso ininterrotto di persone fragili, disabili, anziani, donne e bambini, traumatizzati dagli stenti e dagli orrori della guerra.
ALICE SILVESTRO – MEDICO INTERSOS Ci sono bambini che faticano a parlare, che faticano a mangiare, che non dormono la notte.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO I volontari li smistano nei vicini centri di prima assistenza come quello di Korczowa, dove un centro commerciale è stato trasformato in rifugio.
ALICE SILVESTRO – MEDICO INTERSOS Persone che hanno passato gli ultimi 20 giorni nei sotterranei, nei rifugi, magari non avevano a disposizione l’acqua potabile o corretta alimentazione quindi soprattutto i bambini hanno tutti gastroenteriti, vomiti, diarree e le donne arrivano principalmente disidratate, perché la poca acqua l’hanno data ai figli.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La cittadina polacca che più di altre si è fatta carico di assistere i profughi è Przemysl, questo perché qui ci si arriva anche in treno. E qui ci sono la maggior parte dei due milioni di profughi rimasti in Polonia. E l’otto marzo scorso è arrivato anche Matteo Salvini, unico leader di partito a farsi vedere da queste parti.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma una volta arrivato davanti alla stazione di Przemysl per incontrare il sindaco Bakun ecco l’amara sorpresa per Matteo Salvini.
WOJCIECH BAKUN - SINDACO DI PRZEMYSL Desideriamo vivamente esprimere il nostro profondo rispetto a tutti i cittadini italiani e a tutte le organizzazioni che ci sostengono. Però ho un pensiero personale per il signor Salvini. Ho un regalo che vorrei consegnarle, con cui vorrei che andasse alla frontiera e al centro profughi, signor senatore, per vedere cosa ha fatto il suo amico Putin, per vedere cosa ha fatto la persona che lei definisce amico. Qui arrivano 60.000 profughi al giorno. No, non andremo insieme al centro profughi in questo momento! Nessun rispetto per lei, senatore!
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Una vera beffa per Matteo Salvini, messo alla berlina di fronte ai media di tutto il mondo per mano di un sindaco di estrema destra.
DANILO PROCACCIANTI La posizione di Salvini sui profughi è simile alla sua o no?
WOJCIECH BAKUN - SINDACO DI PRZEMYSL Non so quale sia la sua posizione adesso, io ho parlato della situazione dell’Ucraina, della situazione con la Russia e abbiamo una posizione completamente differente.
DANILO PROCACCIANTI Ma perché adesso è diverso? Anche i profughi afgani scappavano dalla guerra e la Polonia li respingeva.
WOJCIECH BAKUN - SINDACO DI PRZEMYSL Non è una domanda per me, è una domanda per l’Unione Europea perché noi stiamo accogliendo i profughi. Io potrei chiedere perché tenete fuori dall’Unione Europea un milione di profughi?
DANILO PROCACCIANTI Lei è Salvini siete della stessa parte politica.
WOJCIECH BAKUN - SINDACO DI PRZEMYSL Probabilmente sì ma io non ho mai supportato Putin. La guerra è iniziata nel 2014, non un mese fa. Salvini, nel 2017 o nel 2018, ha detto che Putin era un suo amico e ha supportato Putin contro l’Ucraina. È colpevole di questo.
DANILO PROCACCIANTI Pensa che Salvini sia venuto qui a fare propaganda?
WOJCIECH BAKUN - SINDACO DI PRZEMYSL Sì. E non capisco perché l’ha fatto. Solo tre anni fa supportava Putin e adesso viene qui nel più grande centro profughi della Polonia e viene a dire che vuole aiutare. DANILO PROCACCIANTI Lei non crede a Salvini?
WOJCIECH BAKUN - SINDACO DI PRZEMYSL Non proprio.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il 16 marzo del 2014 con le truppe russe che avevano invaso la Crimea si tiene un referendum. Il 95 percento degli abitanti dice sì all’annessione alla Russia. Onu, Unione Europea, Stati Uniti d’America, Osce e Consiglio d’Europa dichiarano quel referendum illegale. Non Matteo Salvini.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Prima delegazione europea che va nella sede del ministero per la Crimea. Due milioni di persone che hanno deciso di scegliere al 95 percento, con un referendum, di unirsi alla Russia. Le scelte dei popoli vanno rispettate sempre: in Scozia, in Catalogna in Veneto e in Crimea.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Le sanzioni contro la Russia di cui tanto si parla oggi furono votate dal parlamento europeo per la prima volta proprio nel 2014 dopo l’annessione della Crimea e il referendum truffa. Anche in quel caso, Salvini si schierò a fianco di Putin e contro le sanzioni.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Tantissimi cittadini non vogliono né capiscono le sanzioni contro la Russia. Quindi come Lega non solo chiediamo con forza l’interruzione delle sanzioni, anzi rilanciamo perché Bruxelles riprenda da subito il dialogo con la Russia che per quanto mi riguarda potrebbe a tutto titolo entrare a far parte dell’Unione europea.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Queste parole Salvini le pronuncia durante un viaggio in Russia. E viene accolto con una standing ovation dalla Duma. I parlamentari russi apprezzano la sua felpa contro le sanzioni.
DEPUTATO RUSSO Sulla felpa del leader del partito, signor Matteo Salvini, c’è scritto “No alle sanzioni alla Russia!”.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Anche negli anni successivi Salvini ha fatto della lotta alle sanzioni contro a Russia una sua missione.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Che titolo ha quest’aula per processare Putin e il popolo russo, per decidere chi è democratico e chi invece è un dittatore. Questa Europa non ha niente di democratico. Questa Europa è pericolosa. Questa Europa istiga alla guerra e alla violenza. Appena arriviamo al Governo tratto di penna, via le sanzioni contro la Russia. Con la Russia si torna a dialogare e a lavorare. Io non mi fermo e ritengo che le sanzioni contro la Russia siano una follia economica, culturale, geopolitica e commerciale. Le mie posizioni, l’ho detto prima, sulle sanzioni contro la Russia sono esattamente quelle di un anno fa due anni fa, tre anni fa, quattro anni fa e cinque anni fa, sono uno strumento inutile.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Salvini ha spesso affermato di preferire la leadership di Putin rispetto a quella di molti politici europei. Il 25 novembre 2015, per esempio, ha partecipato a una seduta del Parlamento europeo in cui era ospite il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. In quell’occasione Salvini indossa una maglietta con il volto di Putin e su Facebook scrive: «Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin!». Nel 2015 scrive «Sostituirei Renzi con Putin domani mattina!». E ancora, nel 2017 «Se devo scegliere tra Putin e la Merkel… vi lascio la Merkel, mi tengo Putin!». Poi nel 2018 quando si sono svolte le ultime elezioni politiche in Russia, ha auspicato la vittoria di Putin definendolo «uno dei migliori uomini politici della nostra epoca».
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Dico gratis che Putin è uno dei migliori uomini di governo che ci siano in questo momento sulla faccia della terra.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nell’ottobre 2014, durante la sua visita a Mosca, Salvini aveva pronunciato una frase enigmatica.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Totale collaborazione sia a Strasburgo che a Bruxelles tra la Lega e Russia Unita e ci saranno delle sorprese.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La sorpresa arriva nel 2017. Queste sono le foto di quello che lo stesso Salvini definisce uno storico accordo.
IGOR BONI - PRESIDENTE NAZIONALE RADICALI ITALIANI È un accordo sottoscritto da Matteo Salvini il 6 marzo del 2017 che sancisce una collaborazione molto stretta tra Russia Unita che è il partito di Vladimir Putin e la Lega di Matteo Salvini. Sicuramente a nostra conoscenza è l’unico accordo con un partito italiano.
DANILO PROCACCIANTI Cosa prevede questo accordo?
IGOR BONI - PRESIDENTE NAZIONALE RADICALI ITALIANI È un accordo diciamo di collaborazione, di scambio di informazioni, di costruzione di comuni iniziative, quella che però è la sostanza è un accordo di collaborazione tra il partito del dittatore Vladimir Putin e uno dei principali partiti italiani, tra l’altro in un periodo nel quale Matteo Salvini è stato Vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Interni.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Non ho seguito la vicenda, non vado in Russia…
DANILO PROCACCIANTI Siccome lo ha firmato lei…
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Sì, ma non vado in Russia da non so quanti anni, non c’è nessun tipo di rapporto economico, giuridico, politico….
DANILO PROCACCIANTI Scambio di informazioni. C’era scritto…
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Ma che scambio di informazioni, su facebook al massimo
DANILO PROCACCIANTI Però quando già Putin aveva annesso la Crimea, lei ha fatto questo contratto, qualcuno dice che tutto è partito da lì
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Che cosa?
DANILO PROCACCIANTI La situazione anche attuale
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Ah, quindi è colpa mia?
DANILO PROCACCIANTI No, da quando Putin ha annesso la Crimea
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Sii serio, ti voglio bene
DANILO PROCACCIANTI Da quando Putin ha annesso la Crimea, la domanda è chiara!
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Buona giornata dai
DANILO PROCACCIANTI Ma quindi, come dire, rivendica quel passato filo-putiniano o no?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Siamo nel 2022, chi fa la guerra ha sempre torto, penso che ti direbbero lo stesso Renzi, Berlusconi, Letta, Conte e tutti quelli che hanno avuto rapporti con Putin ben più costanti dei miei
DANILO PROCACCIANTI Però lei insomma diceva due Mattarella in cambio di mezzo Putin…
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Che anno era?
DANILO PROCACCIANTI 2016 o 17…
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Perfetto, quanti anni son passati? DANILO PROCACCIANTI Vabbè ma il passato di un politico conta.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER C’è una guerra di mezzo.
DANILO PROCACCIANTI C’erano già le sanzioni e lei era contro le sanzioni.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Ma c’è qualcuno che ha premiato gli oligarchi con le massime onorificenze italiane, sapeva che poi sarebbe scoppiata la guerra? No, quindi quando c’è una guerra cambiano i parametri, cambiano i giudizi, chi fa la guerra ha sempre torto.
DANILO PROCACCIANTI Quindi non è più un suo punto di riferimento politico Putin?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER In questo momento è il Santo Padre il mio punto di riferimento, perché lavora per pace più di tutti gli altri.
IGOR BONI - PRESIDENTE NAZIONALE RADICALI ITALIANI Putin dal 1999, da quando è arrivato al potere ha mostrato la sua faccia al mondo. Il mondo si è girato dall’altra parte. Ha distrutto la Cecenia, ha fatto più di centomila morti. Ha contribuito con Bashar al-Assad alla distruzione di Aleppo bombardando i civili, ha invaso la Georgia, l’Abkhazia, la Crimea e il Donbass. Oggi Putin invade l’Ucraina ma è sempre lo stesso Putin con sempre la stessa tecnica che ha utilizzato negli anni precedenti, Salvini lo sapeva benissimo.
STUDIO SIGFRIDO IN STUDIO È stato anche europarlamentare e il segretario di Partito. Ora quello fra Salvini e Russia Unita, il partito di Putin, è un contratto – Report è venuto in possesso dello scritto integrale – non è vincolante dal punto di vista legale, è una manifestazione di interesse, tuttavia dentro ci sono dei punti importanti, c’è una firma, è stato firmato il 6 marzo del 2017. Cosa c’è scritto dentro? insomma, che si deve intendere – quello fra Russia tra il partito di Putin e Salvini che si deve intendere come un “partenariato paritario e confidenziale fra Federazione russa e Repubblica italiana”. Il contratto prevede “consultazioni e scambio di informazioni per quello che riguarda i partiti, gli esponenti regionali, tra parlamentari italiani e quelli della Duma. Ecco, insomma, c’è da chiedersi quanto questo contratto ha condizionato lo svolgimento della democrazia nel nostro Paese? È ancora valido questo contratto? Da quello che si legge dovremmo intendere di sì, perché si legge di una validità quinquennale e il fatto che questo contratto va rinnovato da sé con il tacito assenso. Ecco, almeno che qualcuno non l’abbia disdetto sei mesi prima è da ritenersi rinnovato per altri cinque anni. Insomma, Salvini e Putin l’hanno disdetto questo contratto? Sarebbe importante saperlo perché il nostro Danilo ha trovato anche un secondo contratto che riguarda sempre la Lega.
ANTON SHEKHOVTSOV - DIRETTORE CENTER FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Quello che Salvini ha firmato insieme ai rappresentanti del Partito di Putin è un tipico contratto che Russia Unita ha per i partiti stranieri. Lo stesso accordo è stato firmato nel dicembre 2016 tra Russia Unita e il Partito della Libertà d'Austria, un partito di estrema destra austriaco. Il fatto che fosse lo stesso accordo implica che né la Lega né il Partito della Libertà d'Austria hanno avuto alcuna possibilità di discutere i termini dell’accordo. I russi hanno preparato il contratto, e hanno detto a Salvini “se vuoi firmare questo accordo, sei il benvenuto, ma non puoi cambiare il contenuto di questo accordo”.
DANILO PROCACCIANTI Che valore e che significato hanno questi contratti?
ANTON SHEKHOVTSOV - DIRETTORE CENTER FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Sono uno strumento per influenzare l'opinione pubblica in Occidente. Persone come Salvini ricevono input da operatori del Cremlino, dagli stakeholder russi, dagli agenti russi.
DANILO PROCACCIANTI Lo avete disdetto, almeno?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Buon lavoro!
DANILO PROCACCIANTI Sempre così. Una risposta, sì o no?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Report abbiamo una dozzina di querele e ci vediamo in tribunale.
DANILO PROCACCIANTI Eh ma a parte quello, su questo contratto?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER No no no… per come lavorate voi ci vediamo in tribunale.
DANILO PROCACCIANTI Che scambio di informazioni?
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il senatore sulla validità del contratto con Putin non si esprime, ma strada facendo aumentano il numero delle querele che dice di averci fatto: da una dozzina a 35.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Ci vediamo in tribunale per una delle 35 querele che vi abbiamo fatto.
DANILO PROCACCIANTI Che non mi risultano, però forse a sua insaputa
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Sì sì. Quando diventerete una trasmissione di giornalismo ne parleremo. Intanto risolvete alcuni piccoli problemi interni che avete.
DANILO PROCACCIANTI Ma su questo contratto?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Buon lavoro
DANILO PROCACCIANTI Questo contratto della Lega con il partito Russia Unita? Non ne sa nulla? Ne sapeva qualcosa lei? Solo sapere se è stato disdetto questo contratto
ALBERTO BAGNAI – SENATORE LEGA SALVINI PREMIER (non risponde)
MASSIMILIANO ROMEO – CAPOGRUPPO SENATO LEGA SALVINI PREMIER Ma perché venite sempre da noi? Andate a vedere tutti gli altri partiti che si sono sempre…
DANILO PROCACCIANTI Ma perché voi avete firmato un patto scritto, Salvini con Russia Unita.
MASSIMILIANO ROMEO – CAPOGRUPPO SENATO LEGA SALVINI PREMIER Ma dai.
DANILO PROCACCIANTI Ma ci può dire se è stato disdetto almeno?
MASSIMILIANO ROMEO – CAPOGRUPPO SENATO LEGA SALVINI PREMIER Io posso solo dire che noi abbiamo mantenuto un dialogo ai tempi semplicemente per dare una mano alle nostre aziende che hanno subito una penalizzazione dalle sanzioni.
DANILO PROCACCIANTI Beh, c’era una connessione politica.
MASSIMILIANO ROMEO – CAPOGRUPPO SENATO LEGA SALVINI PREMIER Ehhh diteglielo al Pd ex Pci con la Russia
DANILO PROCACCIANTI Sono di Report, di Raitre GUGLIELMO PICCHI – LEGA SALVINI PREMIER Noooo
DANILO PROCACCIANTI Ma perché quando ci vedete scappate… mi dice se questo contratto è valido o no? Addirittura a scappare.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Oltre al contratto firmato da Salvini l’anno dopo, nel 2018, viene firmato un memorandum che vi mostriamo in esclusiva tra il movimento giovanile della Lega nord e quello del partito di Putin. Per la Lega lo firma Andrea Crippa, allora segretario dei giovani padani e oggi deputato della Repubblica. A rileggere oggi le parole di Andrea Crippa vengono i brividi, si parla infatti di “riconoscimento della Russia come partner imprescindibile del sistema di sicurezza internazionale”.
DANILO PROCACCIANTI Onorevole Crippa, buongiorno.
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER Ciao, posso dopo?
DANILO PROCACCIANTI Danilo Procaccianti di Report. Una domanda veloce, lei nel 2018 firmò un memorandum con il movimento giovanile del partito di Putin, disse “la Russia è un punto di riferimento politico”. Pentito, oggi?
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER No, la Russia al tempo…è chiaro che son cambiate le condizioni e non c’era la guerra al tempo.
DANILO PROCACCIANTI Però Putin aveva già annesso la Crimea…
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER No, non aveva annesso, non aveva annesso niente
DANILO PROCACCIANTI Nel 2018 sì.
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER Era una posizione…tra l’altro con il movimento giovanile quindi su temi di politica giovanile è chiaro che adesso essendo cambiati i tempi qual patto non è stato…
DANILO PROCACCIANTI Putin è sempre stato quello
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER Io sto dicendo cosa è successo, poi lei ha la sua posizione e io le sto dicendo quello che era successo nel 2019, nel 2019 firmammo un memorandum.
DANILO PROCACCIANTI 2018
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER No, era…era inverno tra il 2018…adesso non mi ricordo il mese, comunque sì a cavallo tra il 2018 e il 2019.
DANILO PROCACCIANTI L’anno prima Salvini ne firmò uno con Russia Unita e non si sa se è stato disdetto.
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER No, è stato disdetto. Come non si sa, è stato disdetto.
DANILO PROCACCIANTI E non abbiamo le prove però
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER Eh, ho capito. Però mi sembra che sia stato disdetto.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Un altro esponente della Lega che aspirava a un filo diretto con la Russia di Putin e con la Bielorussia di Lukashenko è il senatore Armando Siri. Nelle mail trovate da Report nel database del consorzio OCCRP, emerge che il responsabile economico del partito di Salvini cercava l’approvazione di Lukashenko, per la flat tax da approvare in Italia. Inoltre, Siri avrebbe voluto ospitare per i giovani aspiranti leghisti della scuola politica, un intervento video di Vladimir Putin. Chissà oggi cosa pensa di Putin il senatore Siri. Abbiamo provato a chiederglielo il 19 marzo scorso, il giorno dell’inaugurazione della settima edizione della scuola politica.
DANILO PROCACCIANTI Senatore, senatore siamo di Report di Raitre.
ARMANDO SIRI – LEGA SALVINI PREMIER Sì, arrivo.
DANILO PROCACCIANTI Ci dice qualcosa su questa scuola? Sulle sue mail per avere Putin. Ha cambiato programma adesso?
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ad aprire il corso dei futuri aspiranti candidati della Lega, c’è Salvini. Finito il suo discorso saluta e si allontana di corsa. Lo attende un appuntamento importante, il matrimonio simbolico di Silvio Berlusconi che prima di tagliare la torta lo incorona come unico leader politico del Paese.
SILVIO BERLUSCONI – FORZA ITALIA E allora signori, questo è Matteo Salvini l’unico leader vero che c’è in Italia.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA Olè, forza Milan.
SILVIO BERLUSCONI – FORZA ITALIA Lui è sincero, per questo lo ammiro e gli voglio molto bene. È una persona sincera, cosa che in politica non esiste. Va bene?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, Berlusconi insomma lo nomina, gli conferisce lo status di leader, anche per questo bisognerebbe sapere se poi quel contratto con Putin, Salvini l’ha disdetto o meno. Mentre invece dovrebbe essere ancora in vigore, l’altro contratto, il memorandum firmato nel 2018, che l’allora coordinatore federale dei giovani leghisti, Andrea Crippa, aveva firmato con il movimento giovanile del partito di Putin. I giovani leghisti – c’è scritto - percepiscono la Russia come parte fondamentale del sistema di sicurezza internazionale e leader naturale per la gestione delle crisi e dei conflitti nel mondo”. Ecco quello tra Lega e Russia è un rapporto consolidato, emerge anche da alcune e-mail del 2015 e del 2016, che Report ha trovato all’interno del database del consorzio giornalistico OCCRP e che riguardano l’allora responsabile economico della Lega Armando Siri, poi diventato senatore. Siri scrive al governo bielorusso, guidato dal presidente Lukashenko, gli chiede un consiglio sull’introduzione della Flat Tax. Scrive Siri: “Se potessimo concordare prima una proposta positiva alla Flat Tax potremmo essere anche più diretti”. Ecco, perché Siri chiede un parere al governo bielorusso? Perché tutto il blocco dell’ex Unione Sovietica la Flat Tax l’aveva già sperimentata e messa in pratica da tempo. Insomma, la sintonia fra Lega e Russia è evidente e aiuta anche a capire il perché poi la Lega, il 17 settembre del 2020, si astiene quando il Parlamento europeo, a causa delle frodi elettorali e delle violenze che si erano consumate in Bielorussia, chiede di condannare il presidente Lukashenko e di sanzionare alcuni dirigenti del governo del partito. Così come la Lega si è anche astenuta il 9 marzo, in piena guerra in Ucraina, quando si è trattato di votare una risoluzione del Parlamento Europeo tesa a contrastare l’ingerenza dei paesi stranieri sullo svolgimento della vita democratica dei paesi membri. La relazione denunciava come in Europa ci sia una «larga impreparazione» ad affrontare una grave minaccia rappresentata soprattutto da Russia e Cina, che usano armi della disinformazione digitale. Ecco e questo potrebbe in qualche modo condizionare la vita pubblica e politica dei partiti dei paesi membri. La Lega è stata l’unico partito italiano ad astenersi anche perché, insomma, al centro di questa risoluzione che conteneva una relazione era finito proprio il contratto che era stato siglato da Salvini e il partito Russia Unita di Putin.
Le radici del contratto. Report Rai. PUNTATA DEL 04/04/2022 di Giorgio Mottola
In passato ha finanziato movimenti di ultradestra in Europa, come il partito della Le Pen e in Italia ha costruito ottime relazioni con la Lega.
Report proporrà parti inedite dell'intervista di Giorgio Mottola all'oligarca russo Konstantin Malofeev, uno dei principali sostenitori di Putin e in passato finanziatore di movimenti di ultradestra in Europa, come il partito di Jean Marie Le Pen.
LE RADICI DEL CONTRATTO di Giorgio Mottola Collaborazione di Norma Ferrara, Alessia Pelagaggi, Simona Peluso Immagini di Alfredo Farina, Davide Fonda Montaggio e grafica di Giorgio Vallati
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Per capire però la natura dei legami fra Lega e Russia bisogna riavvolgere il nastro al 18 ottobre del 2018 quando nell’hotel Metropol a Mosca avviene una trattativa per una compravendita di gasolio. Secondo i magistrati che hanno indagato per corruzione internazionale sarebbe stata finalizzata a portare nelle casse della Lega, che erano un po’ in crisi per via dello scandalo dei 49 milioni, un po’ di denaro fresco e preparare la campagna elettorale delle europee. Ecco, in questa trattativa viene registrata su un nastro la voce di Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini.
PRIMO AUDIO - GIANLUCA SAVOINI Il prossimo maggio ci saranno le elezioni europee. Vogliamo cambiare l'Europa. Una nuova Europa deve essere vicina alla Russia come prima. Salvini è il primo uomo che vuole cambiare tutta l'Europa.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È il 18 ottobre del 2018. Savoini è seduto a un tavolino dell’Hotel Metropol di Mosca, a due passi dalla piazza Rossa. Con le parole che abbiamo appena ascoltato, l’ex portavoce di Matteo Salvini inizia una lunga trattativa con tre russi per una partita di gasolio da un miliardo e mezzo di dollari. Si accordano su un prezzo bassissimo in modo da garantire a Savoini un guadagno extra di 65 milioni di dollari. Durante la trattativa al Metropol uno dei russi accenna a carte da mostrare a un certo “vice primo ministro”.
SECONDO AUDIO - INTERLOCUTORE RUSSO Grazie. Ora i nostri documenti tecnici sono già stati fatti e sono pronti per essere consegnati al vice primo ministro.
GIANLUCA SAVOINI Sì, sì. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Salvini ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento nella trattativa, sebbene finora non abbia mai fornito spiegazioni precise.
MATTEO SALVINI – MINISTRO DELL’INTERNO (GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019) CONFERENZA STAMPA DEL 12 LUGLIO 2019 Scusate il ritardo ma stavo cercando di nascondere gli ultimi rubli sotto i cuscini del Ministero perché d’altronde 65 milioni non è che… anzi, abbiamo firmato un accordo con le discoteche italiane perché si possa pagare in rubli anche questa estate e il tavolo e il cocktail vengono scontati se uno paga cash con denaro riciclato, di dubbia provenienza.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma, aldilà delle battute, c’è una curiosa coincidenza temporale. La sera prima della trattativa, il 17 ottobre 2018, anche Salvini si trovava a Mosca. Partecipava da ministro dell’Interno a un incontro ufficiale di Confindustria Russia che il leader leghista ha mandato in diretta anche sulla sua pagina Facebook.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Ogni volta che poi torno in Italia – sappiatelo – c’è qualche giornale che si diletta a dire “Salvini va in Russia perché i russi lo pagano”. Vengo qua gratis, perché sono convinto che le sanzioni siano una follia economica, sociale e culturale.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Subito dopo l’esplosione dello scandalo Salvini dichiara senza mezzi termini di non sapere che anche Savoini fosse a Mosca, proprio come lui, nei giorni della trattativa. Ma, come si può vedere da questo video mai mostrato prima, mentre il leader della Lega è sul palco di Confindustria Russia, Savoini è pochi metri da lui, in prima fila.
GIUSEPPE CONTE - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2018 - 2021 Tale visita è consistita nella partecipazione del vicepresidente Salvini all’assemblea generale 2018 di Confindustria Russia, cui risulta abbia partecipato anche il signor Savoini. Gli eventi, gli incontri successivi all’evento organizzato da Confindustria Russia hanno rivestito carattere privato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gli incontri privati si sono svolti all’85esimo piano di un grattacielo di Mosca, dove si trova il Rusky, uno dei ristoranti più lussuosi della capitale russa. Qui il 17 ottobre del 2018, vale a dire la sera prima della trattativa al Metropol, Salvini ha trascorso la serata cenando privatamente insieme a Savoini e ad altre persone.
GIORGIO MOTTOLA Senta ministro, sono Giorgio Mottola di Report. Che cosa si è detto con Savoini il 17 ottobre all’Hotel Rusky?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Siamo… l’inchiesta va avanti.
GIORGIO MOTTOLA Lei su questo argomento ha mentito. Come mai ha mentito su questo? Ha detto che non sapeva che Savoini fosse a Mosca?
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA C’è un’inchiesta, lasciamo lavorare l’inchiesta.
GIORGIO MOTTOLA No, no però lei è un ministro anche dell’Interno. Lei ministro ha mentito pubblicamente: ha detto che non sapeva che fosse…
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Sei maleducato. C’è un’inchiesta, lasciamo lavorare i giudici.
GIORGIO MOTTOLA Lei è reticente. No: io le sto facendo una domanda…
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Mi hai dato del bugiardo, del ladro, del corrotto, del reticente.
GIORGIO MOTTOLA No, no: le ho detto che lei ha detto una bugia. Lei ha detto una bugia.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA In un altro contesto…
GIORGIO MOTTOLA Cosa farebbe in un altro contesto?
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Stai disturbando tutti i tuoi colleghi. I tuoi colleghi ti direbbero: “Fai fare le domande anche a loro?”
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, quattro giorni dopo quell’intervista Salvini fece, causò la crisi di governo e il caso Metropol finì nelle retrovie. Ora, va detto che i magistrati che indagano per corruzione internazionale ad oggi non hanno trovato traccia di quei 65 milioni di dollari che sarebbero dovuti confluire nelle casse di società che facevano riferimento a Savoini. Ora, poi, va anche detto che con la guerra la Russia è uscita dal Consiglio d’Europa e quindi non ha più l’obbligo di rispondere alle rogatorie che vengono fatti dai tribunali italiani. Insomma, rischia sul caso Moscopoli di calare il sipario. Rimane però un dato politico: noi abbiamo sentito la voce di Savoini su quei nastri i cui contenuti erano stati anticipati dall’Espresso e poi pubblicati integralmente dal sito americano Buzzfeed, abbiamo sentito Savoini dire chiaramente: “Noi vogliamo cambiare l’Europa, vogliamo portarla più vicino alla Russia”. Ecco, che cosa intendeva dire? Quello che Report ha scoperto è che quella trattativa era il tassello di un progetto molto più ampio che era cominciato nel 2013, un progetto di cui Savoini è un mediatore mentre invece il tessitore, uno dei tessitori, è il filosofo putiniano Dugin, colui che ha il progetto di unire Europa e Asia sotto l’egemonia russa, cioè creare un impero euroasiatico, un progetto euroasiatico da contrapporre a quello atlantico. Dugin era un figlio di militari che appartenevano, il padre apparteneva al servizio segreto militare russo, il GRU, poi ha fatto parte Dugin anche di un gruppo di intellettuali che si riuniva segretamente, un gruppo di intellettuali occulto, appassionati di esoterismo e fascismo tanto che hanno anche, Dugin ha anche tradotto l’ultimo libro del filosofo esoterista e fascista Evola. Ecco, insomma, però tutto questo fa emergere un’ipocrisia: quella di Putin che dice, definisce l’operazione militare speciale tesa a denazificare l’Ucraina, quando poi invece nel mondo stringe e cerca accordi con l’estrema destra, cioè con coloro che sono più vicini all’idea di nazismo.
GIANLUCA SAVOINI Sono particolarmente contento di essere in questa sala perché qui vedo la vera Germania, qui vedo la vera Europa.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella formazione politica di Gianluca Savoini e nel suo stretto rapporto con la Russia c’è una figura chiave degli anni di piombo, Maurizio Murelli, fin dagli anni ‘80 punto di riferimento del neofascismo milanese.
GIORGIO MOTTOLA Lei è uno degli ultimi cattivi maestri dell’estrema destra italiana.
MAURIZIO MURELLI - FONDATORE ORION Due termini in cui non mi identifico. Né come maestro, né come estrema destra. GIORGIO MOTTOLA Ma come cattivo sì?
MAURIZIO MURELLI - FONDATORE ORION Cattivissimo, se non altro per aver passato undici anni nel cattiverio, come si definisce il carcere.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Murelli ha scontato undici anni di carcere per il concorso nell’omicidio dell’agente di polizia Antonio Marino, ucciso da una bomba a mano durante una manifestazione di piazza nel ‘73. Dopo essere uscito di prigione Murelli fonda Orion, un centro culturale che mescola idee neonaziste e filosovietiche, e lavora per la nascita di un continente euroasiatico sotto l’egemonia della Russia. Tra gli adepti di Orion, c’è anche Gianluca Savoini.
GIORGIO MOTTOLA E Savoini è uno di quelli che è stato affascinato dalle attività del gruppo Orion?
MAURIZIO MURELLI - FONDATORE ORION Penso che lui si sia molto riconosciuto in quelle posizioni che noi andavamo sviluppando dai filmati che lui fa quando su Lombardia-Russia, quando fa le sue esposizioni, riconosco, percepisco molte di quelle posizioni, di quelle teorie che noi sviluppiamo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È infatti grazie a Maurizio Murelli che Gianluca Savoini conosce Aleksandr Dugin, controverso filosofo russo che nella trattativa del Metropol potrebbe avere avuto un ruolo.
GIORGIO MOTTOLA Gianluca Savoini lo conosce da molto tempo?
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO Sì, è giornalista della tendenza tradizionalista, molto bravo secondo me.
GIORGIO MOTTOLA Dal 1992 addirittura?
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO Sì, sì, sì, sì. Quando per la prima volta ha visitato la Russia.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Considerato per anni uno dei principali ideologi del putinismo, Dugin è il fondatore del partito nazional bolscevico, il cui simbolo è una bandiera nazista con una falce e martello al posto della svastica. Con l’arrivo di Salvini al governo, il rapporto di Dugin con Savoini e Murelli è tornato a essere particolarmente intenso. Questa foto è stata scattata nel locale gestito da Rainaldo Graziani, figlio di Clemente, fondatore del movimento neofascista Ordine Nuovo. Murelli e Savoini sono seduti allo stesso tavolo, poco distanti da Dugin che quella sera viene omaggiato della lampada di Yule, un manufatto della simbologia celtica che il capo delle SS Himmler introdusse nelle cerimonie naziste.
RAINALDO GRAZIANI - CENTRO STUDI ORDINE NUOVO Non era una cerimonia, era un convegno, un incontro in cui una ragazza gli ha offerto quella lampada solstiziale, dici?
GIORGIO MOTTOLA La lampada di Yule.
RAINALDO GRAZIANI - CENTRO STUDI ORDINE NUOVO Oggi è molto diffusa ma non per quel motivo lì. Tutte le forme di spiritualismo…
GIORGIO MOTTOLA Diciamo che tutti la legano un po’ alla ritualistica nazista.
RAINALDO GRAZIANI - CENTRO STUDI ORDINE NUOVO No, solo quelli come te o come me, che magari si informano.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quest’altra foto è ancor più significativa. Sono Dugin e Savoini davanti al Metropol la mattina del 18 ottobre del 2018. È lo stesso giorno in cui si è tenuta la trattativa per la mega tangente. Un coinvolgimento del filosofo russo non è mai stato dimostrato ma, stando alle rivelazioni del sito Buzzfeed, a negoziare con Savoini al tavolo del Metropol ci sarebbe stato anche Andrey Karashenko, che alcuni organi di informazione ufficiale russi indicano come dipendente del movimento politico di Aleksandr Dugin.
GIORGIO MOTTOLA Savoini è venuto spesso in Russia anche a cercare finanziamenti per la Lega. Questo lo sa?
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO Questo non lo so. Sono un filosofo, odio il denaro. Non mi interessa più nulla.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli ultimi anni Dugin è diventato uno dei principali ideologi del sovranismo europeo. Il filosofo russo auspica la fine della democrazia liberale e, stando alle sue parole, l’avvento di un populismo integrale e di una rivoluzione illiberale. Se in Russia il riferimento politico di Dugin è Putin, in Europa occidentale è Matteo Salvini.
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO Salvini vedo con grande rispetto. È una coincidenza organica delle posizioni tra Matteo Salvini e me.
GIORGIO MOTTOLA Ma quand’è la prima volta che lei ha incontrato Matteo Salvini?
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO Alcuni anni fa quando già era capo della Lega.
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO E chi glielo ha presentato?
GIORGIO MOTTOLA Alcuni amici.
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO Come Gianluca Savoini?
GIORGIO MOTTOLA Sì.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La comunanza di idee tra Dugin e Salvini è emersa anche in una rara intervista rilasciata in una tv russa al controverso filosofo nel 2016.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER L’Italia è sempre stata serva dell’Unione Europea, di Bruxelles. Ha fatto politica su dettatura di qualcun altro. Anche perché alcuni temi etici, al di là degli obiettivi economici, la visione della famiglia, l’importanza della religione, della tradizione mi sembra che stiano tornando anche grazie a molti giovani che se ne interessano.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La tv in cui va in onda l’intervista è Tsargrad tv, all’epoca diretta da Dugin. Si tratta un canale di informazione militante, ultraconservatore e ultratradizionalista. Il suo proprietario è Konstantin Malofeev, nostalgico dello zarismo e sostenitore di Putin. Possiede Marshall Capital, un fondo di investimento da 1 miliardo di dollari. Malofeev è uno degli oligarchi russi più ricchi e potenti.
GIORGIO MOTTOLA Mister Malofeev, è giusto definirla un oligarca?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL No, non è corretto: grazie al presidente Putin non ci sono più oligarchi. Io preferisco definirmi un filantropo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sebbene Malofeev si definisca un filantropo, nel 2014 è stato inserito dall’Unione Europea nella lista nera delle persone non desiderate. Da allora gli è stato vietato l’ingresso nell’area Schengen, gli sono stati congelati tutti i conti presso le banche europee e sono state introdotte pesanti sanzioni per chi fa affari con lui. Tutto ciò non ha impedito a Salvini, negli ultimi anni, di volare più volte a Mosca e incontrare l’oligarca filantropo.
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHAL CAPITAL Mi piace Matteo Salvini. La prima volta che l’ho incontrato sono rimasto molto impressionato. Matteo è un politico diverso da tutti gli altri che ho conosciuto. Ha idee molto forti.
GIORGIO MOTTOLA Quando lo ha incontrato l’ultima volta?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Poco prima che diventasse vice primo ministro.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è un rapporto ormai che si può definire quasi di antica data visto che risale almeno al 2013. Quando Salvini fu eletto segretario della Lega tutti rimasero molto sorpresi quando videro intervenire dal palco un russo, un certo Alexey Komov, che nessuno conosceva.
ALEXEY KOMOV Buongiorno Lega Nord, buongiorno Torino. Siamo i vostri fratelli in Russia, sosteniamo gli stessi valori dell’Europa cristiana.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Grazie a Malofeev scopriamo finalmente qual è l’inedito retroscena che si nasconde dietro quella misteriosa presenza.
GIORGIO MOTTOLA Quando ha incontrato Salvini la prima volta?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Molti anni fa.
GIORGIO MOTTOLA Nel 2013?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sarei dovuto andare al congresso quando fu eletto.
GIORGIO MOTTOLA Era stato invitato? KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì, ma non andai perché avevo altri impegni.
GIORGIO MOTTOLA Quindi Komov era lì a rappresentare lei?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì.
GIORGIO MOTTOLA Lei è ancora un grande sostenitore di Vladimir Putin?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì. Oggi, domani e anche dopodomani.
GIORGIO MOTTOLA Nel suo mondo ideale, Putin sarebbe lo zar perfetto?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sarebbe un miracolo. Perché se un uomo come Vladimir Putin guidasse la Russia non per altri cinque anni ma per altri venti, saremmo la nazione più felice e fortunata del mondo. Ma purtroppo ogni cinque anni dobbiamo partecipare a questo orribile gioco delle elezioni che causano un’interferenza da parte delle forze globaliste straniere. Ecco perché sono a favore di Putin. Penso che sia un dono di Dio. Anche tu un giorno dirai ai tuoi nipoti: io ho vissuto all’epoca di Putin. GIORGIO MOTTOLA In realtà in Italia io vivo nell’epoca di Salvini.
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Ecco, hai centrato il punto. Tu dici che vivi nell’epoca di Salvini. Immagina se avessi detto che vivevi nell’epoca di… qual era il suo nome?! Mortadella…
GIORGIO MOTTOLA Prodi. KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Renzi o un altro di questi politici.
GIORGIO MOTTOLA Salvini è il Putin italiano?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Speriamo. Ha del grande potenziale ma è ancora troppo giovane. Vediamo come evolverà.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Visti i rapporti così stretti con un uomo discusso e oscuro come Malofeev, proviamo a chiedere conferma anche al segretario della Lega: lo incontriamo alla festa di Pontida.
GIORGIO MOTTOLA Salvini, posso chiederle come mai nel 2013 ha invitato Konstantin Malofeev al congresso della Lega?
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Amico mio, ma ti pare il momento di fare l’intervista?
GIORGIO MOTTOLA Vabbè, sta facendo i selfie. Mentre fa le interviste può anche rispondere a me.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Appunto, sto facendo i selfie. Dai, porta pazienza.
GIORGIO MOTTOLA Ho capito, nel frattempo può anche dare una risposta.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E visto che il rito dei selfie è sacro, per ottenere una risposta ci mettiamo in fila anche noi.
GIORGIO MOTTOLA Mi sono messo in fila anche io. Come mai così tanti incontri con Konstantin Malofeev? Di che avete parlato?
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Chi?
GIORGIO MOTTOLA Come chi? Malofeev. Konstantin Malofeev. L’oligarca russo.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Ah.
GIORGIO MOTTOLA Lei lo ha invitato nel 2013 al congresso della Lega Nord quando è stato eletto. Come mai?
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Eh?
GIORGIO MOTTOLA Eh, come mai? Non capisce la domanda? Parlo italiano.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER No, lei parla italiano, se vuole ne parliamo seduti, tranquilli.
GIORGIO MOTTOLA E quando possiamo parlarne?
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Quando vuole, guardi. Non mi sembra questo il contesto.
GIORGIO MOTTOLA Malofeev.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Se lei ha voglia io vado a ricostruire cosa è successo sei anni fa, volentieri.
GIORGIO MOTTOLA Quindi la contattiamo tramite la sua segretaria e ci dà l’intervista.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Va bene. Magari non in maglietta, in un prato.
GIORGIO MOTTOLA Va bene, d’accordo. È una promessa, allora.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Grazie. Buon lavoro.
GIORGIO MOTTOLA Grazie.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Purtroppo però Salvini la promessa non l’ha mantenuta e l’intervista non ce l’ha mai concessa. Eppure sarebbe stato interessante chiedergli come mai i rapporti tra il mondo salviniano e quello di Malofeev si siano così velocemente intensificati dopo la sua elezione a segretario della Lega. Appena qualche mese dopo il congresso il suo portavoce Gianluca Savoini fonda infatti l’associazione Lombardia Russia e chi nomina come presidente? L’uomo di Malofeev, Alexey Komov.
ALEXEY KOMOV - PRESIDENTE ONORARIO ASSOCIAZIONE LOMBARDIA RUSSIA Quando Savoini mi ha chiesto di diventare presidente onorario gli ho detto: sì, certo. Avevano bisogno di un russo che rappresentasse il mondo ultraconservatore e tradizionalista russo, quindi ho detto di sì, ma non ho la minima idea di cosa facciano l’associazione e Savoini.
GIORGIO MOTTOLA Salvini e Savoini le hanno mai chiesto soldi per la Lega?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL No, gliel’ho detto. È da cinque anni che non finanzio niente e nessuno in Europa a causa delle sanzioni e non voglio metterli in pericolo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Prima delle sanzioni, però, Malofeev si è dimostrato molto generoso con i partiti di destra europei: al neofascista Jean Marie Le Pen ha fatto ottenere tramite una società cipriota un prestito di due milioni di euro e, stando alle accuse mosse contro Malofeev in Francia, grazie al suo intervento il Fronte Nazionale di Marine Le Pen avrebbe ottenuto tramite una banca russa 9 milioni e 400mila euro.
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL No, questo non è vero.
GIORGIO MOTTOLA E invece il padre, Jean Marie Le Pen, lo ha mai finanziato?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL In quel caso sì, l’ho aiutato, ma c’è una grande differenza: è stato prima delle sanzioni.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO I rapporti tra la Lega e Malofeev, insomma, che sono emersi nella nostra inchiesta sono stati anche confermati da una recente serie di documenti che sono stati trovati dal Dossier Center di Londra, che fa riferimento all’ex oligarca russo dissidente Chodorkovskij. Ecco, sono stati pubblicati anche da un consorzio di giornalisti internazionali e anche dall’Espresso. Si tratta soprattutto di mail che vanno dal 2013 al 2019 dalle quali intanto si evince che il Cremlino va a braccetto con Lega ma anche con i partiti dell’estrema destra nazionalisti e xenofobi d’Europa: quelli della Germania, dell’Austria, dell’Olanda e, insomma, anche di altri paesi dell’Ue. Salvini poi avrebbe incontrato Malofeev segretamente, nel novembre del 2018, che era stato già nominato vice premier e ministro dell’Interno, nell’hotel Lotte per evitare, diciamo, che la stampa occidentale riprendesse questo incontro. Ecco, lo dice chiaramente, anzi, lo scrive Mikhail Yakushev, che è direttore di Tsagrad, l’organizzazione che fa riferimento a Malofeev, in un documento dell’8 giugno 2019. Yakushev esprime anche il rammarico perché non è più possibile, insomma, contattare Salvini perché si è perso il punto di riferimento, il suo portavoce, Gianluca Savoini, finito nel clamore dell’inchiesta giornalistica del Metropol, sostanzialmente non ha più accesso libero al suo capo ed è finito sotto l’occhio dei servizi segreti italiani. Così scrive Yakushev, che manifesta anche la necessità di trovare un altro punto di riferimento per mantenere vivo il contatto con Salvini. Sempre da questi documenti del Dossier Center di Londra emergono delle mail di Savoini che aveva organizzato nel gennaio 2016 a Milano incontri con Marine Le Pen, con il presidente del Partito della libertà austriaco di estrema destra, Heinz-Christian Strache, che è l’altro che aveva firmato il contratto con il partito Russia Unita di Putin, e poi c’erano anche altri partiti dell’estrema destra. Un altro incontro era fissato poi a dicembre del 2016 con Salvini, con esponenti del partito Russia Unita e con Dugin ma poi questo incontro, scrive Savoini stesso, è saltato perché la Lega era finita sotto l’attacco dei globalisti e atlantisti, lo scrive lui stesso a Dugin, alla figlia di Dugin, Daria Dugina. Ecco, insomma, dal Dossier Center di Londra emerge anche il fatto che la Lega chiedeva consigli su come contrastare le politiche anti-Russia: c’è una mail del marzo del 2015 di Claudio D’Amico, responsabile dell’ufficio delle relazioni estere della Lega, che scrive a Komov, proprio l’uomo di Malofeev, consigli sugli emendamenti da presentare per contrastare una mozione presentata a Bruxelles da un eurodeputato. Insomma, scrive a Komov che è proprio l’uomo che detiene l’agenda segreta di Malofeev, un’agenda dalla quale spuntano incontri tra l’oligarca russo ed esponenti di quelle fondazioni dell’ultradestra, ultracristiane americane, una sorta di santa alleanza dalle quali casse emergeranno dollari, tanti dollari, un fiume di dollari, circa un miliardo di euro che finirà con alimentare delle campagne contro i gay, contro l’aborto, contro l’immigrazione, contro il pontificato di Bergoglio, tese a far implodere l’Europa. Un fiume di denaro tanto da far tirar fuori il rosario anche a chi fino a quel momento non aveva dato una grande prova di aderenza alla cristianità.
PETER MONTGOMERY – SENIOR FELLOW RIGHT WING WATCH Malofeev è “l’oligarca di Dio”. Lui finanzia con milioni di dollari l’anno la fondazione San Basilio il Grande, con cui prova a raggiungere il suo scopo primario: rendere la Russia il faro della civilizzazione cristiana nel mondo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO San Basilio il Grande è la più ricca e potente fondazione russa. Malofeev, l’oligarca di Dio, la finanzia ogni anno con decine di milioni di euro. Usa la fondazione per attività benefiche ma soprattutto per combattere i nemici della cristianità, a partire dalla lobby gay.
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Io uso la parola sodomiti.
GIORGIO MOTTOLA Sodomiti?!
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Oppure posso usare la parola pederasta.
GIORGIO MOTTOLA Non crede che sia giusto un po’ offensiva?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Poiché sono cristiano, pretendo di usare questa parola e credo che queste persone devono al più presto darsi una calmata. Perché l’Europa deve diventare una terra di sodomiti?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma le lobby gay non sono gli unici nemici che “minacciano” le radici cristiane della Russia e dell’Europa.
GIORGIO MOTTOLA Nel suo mondo ideale qual è il ruolo delle donne?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Il loro ruolo è essere amate dai mariti. Solo le donne infelici e non amate diventano femministe. E poi dobbiamo garantire loro abbastanza soldi. In questo modo non avrebbero voglia di lavorare e resterebbero a casa. Solo donne consapevoli del loro ruolo di casalinghe e madri possono risolvere il calo demografico.
GIORGIO MOTTOLA Ma Salvini condivide i suoi valori?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Ma certo. Il suo discorso a Verona è stato magnifico.
MATTEO SALVINI – MINISTRO DELL’INTERNO (GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019) VERONA – 30/03/2019 – WORLD CONGRESS OF FAMILIES Mi incuriosiscono queste presunte femministe, che se io fossi donna mi metterebbero in difficoltà, che manifestano a pagamento… secondo me c’è un business organizzato del turismo. Cioè, un po’ vado a Verona, un po’ vado a Genova, un po’ vado a Palermo. Sempre gli stessi a dire sempre le stesse cose, con gli stessi cartelli.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da dopo che si sono intensificati i suoi viaggi in Russia il rapporto pubblico di Salvini con la religione è profondamente cambiato.
MATTEO SALVINI - MINISTRO DELL’INTERNO (GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019) MILANO – 18/05/2019 – MANIFESTAZIONE PRIMA L’ITALIA E io personalmente affido l’Italia, la mia e la vostra vita, al cuore immacolato di Maria che sono sicuro ci porterà alla vittoria.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sono seguiti post sulla Madonna, ostentazione di simboli religiosi e tanti altri crocifissi baciati in pubblico. Fino ad arrivare al sostegno pubblico dato al World Congress of Families a Verona del marzo del 2019.
MATTEO SALVINI - MINISTRO DELL’INTERNO (GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019) VERONA – 30/03/2019 – WORLD CONGRESS OF FAMILIES E se parlare di mamma, papà e bimbi con l’aggravante di dirsi cristiani o cattolici è da sfigati, sono orgoglioso di essere uno sfigato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il World Congress of Families a cui Salvini annuncia il suo sostegno è un’organizzazione internazionale antiabortista e contraria alle unioni omosessuali. Il presidente è un americano, Brian Brown, il suo vice è una nostra vecchia conoscenza: Alexey Komov. L’organizzazione esiste da più di vent’anni ma è stato Konstantin Maloveev a dargli una nuova vita nel 2013. È l’anno in cui l’oligarca di Dio in gran segreto vola negli Stati Uniti a incontrare i capi della destra religiosa con l’aiuto di Alexey Komov.
GIORGIO MOTTOLA Qual era l’argomento di questi incontri?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Abbiamo discusso di come difendere le famiglie dal totalitarismo dell’agenda sodomita che si sta diffondendo in tutto il mondo.
GIORGIO MOTTOLA Quindi è in quel momento che è nata la Santa Alleanza?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì, l’idea è nata lì.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La Santa Alleanza del World Congress of Families si riunisce pochi mesi dopo nel 2014 a Mosca per il primo congresso internazionale ultratradizionalista organizzato da Malofeev. Gli americani partecipano sebbene poche settimane prima ci sia stata l’invasione della Crimea e la Russia e l’oligarca di Dio siano stati colpiti dalle sanzioni di Stati Uniti ed Europa. Scorrendo la lista degli invitati al Forum di Mosca del 2014 troviamo una nutrita rappresentanza italiana. La delegazione più folta è quella dell’associazione Pro Vita presieduta da Toni Brandi.
GIORGIO MOTTOLA Tutto spesato dai russi. Molto ospitali.
TONI BRANDI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE PRO VITA No, non è vero, non è vero. Ci hanno offerto l’albergo.
GIORGIO MOTTOLA E il viaggio.
TONI BRANDI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE PRO VITA Vabbè, ora non mi ricordo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’associazione Pro Vita si è fatta conoscere negli ultimi anni per sue campagne shock contro l’aborto e contro le unioni omosessuali. Il suo portavoce è Alessandro Fiore, figlio di Roberto, leader di Forza Nuova. E fino a qualche anno fa a distribuire il Notiziario dell’associazione Pro Vita era Rapida Vis, una società intestata ai figli del leader di Forza Nuova.
GIORGIO MOTTOLA I suoi rapporti con Roberto Fiore, il movimento Pro Vita è una succursale di Forza Nuova?
TONI BRANDI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE PRO VITA Ma figlio mio, ma lei è una persona che c’ha una faccia così pulita, ma perché dice queste panzane. Vede come sono educato? Ho detto solo panzane. Mi trovi per cortesia una fotografia in pubblico dove io e Roberto Fiore parliamo insieme e allora lei ha ragione.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Abbiamo trovato di meglio di una foto. Toni Brandi indossa la maglietta Pro Vita e a fianco a lui c’è Roberto Fiore. Le immagini provengono da un documentario intitolato Sodoma, commissionato da associazioni antigay russe.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha partecipato nel 2014 al congresso Pro Vita, al forum per le famiglie in Russia del 2014?
ROBERTO FIORE - SEGRETARIO FORZA NUOVA In Russia? Sì, ho partecipato.
GIORGIO MOTTOLA Quindi lei conosce anche Konstantin Malofeev?
ROBERTO FIORE - SEGRETARIO FORZA NUOVA Conosco Konstantin Malofeev.
GIORGIO MOTTOLA L’ha incontrato più volte?
ROBERTO FIORE - SEGRETARIO FORZA NUOVA L’ho incontrato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma non è stato solo un incontro: in questa mail, del database Occrp, Alexey Komov, l’uomo di Malofeev, definisce Roberto Fiore “il nostro amico italiano filorusso”. E proprio a Komov Fiore chiede aiuto per trovare un avvocato a un leader neofascista in carcere in Grecia.
GIORGIO MOTTOLA C’è questa mail in cui lei chiede un avvocato da mandare ad Atene perché c’erano…
ROBERTO FIORE - SEGRETARIO FORZA NUOVA Certo. Noi riteniamo che la Russia abbia un enorme ruolo nel mondo, con la sua cultura giuridica, con la sua storia e con le lotte per le libertà che in questo momento sta facendo la Russia in giro per il mondo.
GIORGIO MOTTOLA Quindi faceva bene Komov a definirlo il nostro amico italiano filorusso, Roberto Fiore?
ROBERTO FIORE - SEGRETARIO FORZA NUOVA Assolutamente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma dalla Russia, oltre al sostegno politico, negli anni scorsi è arrivata anche una valanga di soldi al mondo Pro Vita italiano. Da tre conti dell’Est Europa legati a società dell’Azerbaijan e della Russia sono partiti oltre due milioni di euro destinati alla Fondazione Noave Terrae di Luca Volonté, ex parlamentare dell’Udc e membro del direttivo, insieme ad Alexey Komov, dell’Howard Center, la fondazione presieduta da Brian Brown che organizza il World Congress of Families. A partire dal 2015, entra nel direttivo di Novae Terrae anche il senatore della Lega Simone Pillon.
GIORGIO MOTTOLA Anche dopo che è partita l’inchiesta…
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Scusa, eh. Dimmi, dimmi Putin.
GIORGIO MOTTOLA Senatore, siamo al cabaret. Siamo al cabaret, veramente…
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Ma il cabaret lo fate anche voi!
GIORGIO MOTTOLA Noi facciamo il cabaret?
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Qualunque cosa andate a toccare, la dovete sporcare. GIORGIO MOTTOLA Questo noi?
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Se questo è il vostro modo di lavorare, complimenti, continuate così.
GIORGIO MOTTOLA Oppure le fondazioni che ricevono soldi da società offshore?
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Continuate così.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo scorso anno Luca Volonté è stato condannato in primo grado per corruzione internazionale dopo un’indagine partita nel 2015 sui soldi offshore arrivati alla fondazione Novae Terrae. Anche dopo l’apertura dell’inchiesta i soldi hanno continuato ad arrivare non più da Oriente ma dalle fondazioni americane amiche di Malofeev, come la National Organisation for Marriage, la Home School Legal Defence e soprattutto Patrick Slim, figlio di Carlos Slim, il quinto uomo più ricco del pianeta. Si tratta di denaro che arriva nel periodo in cui fa il suo ingresso nella fondazione il senatore Pillon, completamente estraneo all’inchiesta che ha coinvolto Volonté.
GIORGIO MOTTOLA Dal momento che i movimenti Pro life portano avanti un’agenda politica molto precisa e che sta cambiando la legislazione del nostro Paese…
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Scusi eh, ma il suo obiettivo qual è? È quello i dire che quindi “Pillon è brutto e cattivo” e “mi sono sbagliato non prende i rubli ma prende i dollari”?
GIORGIO MOTTOLA Io le sto citando, ecco, una serie di finanziamenti, una serie di bonifici, arrivati tutti quanti da stranieri.
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Il vostro obiettivo è molto chiaro. La ringrazio per la domanda. I fondi che sono entrati nelle associazioni sono fondi perfettamente leciti per quello che riguarda la situazione nella quale io ero lì. Se lei ha qualcosa di segno opposto, fa la sua denuncia e io farò la mia querela. Va bene? Lei mi porta i finanziamenti di cui mi sta parlando, non quegli appuntini lì sul foglio di carta igienica e io poi le risponderò completamente. GIORGIO MOTTOLA É la mia agenda, la tratti un po’ con più rispetto, senatore.
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Vabbè, foglio di carta di agenda.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Però il foglio d’agenda contiene le prove per bonifici per 75 mila euro. Ora, resta da vedere come sono stati spesi. All’epoca Pillon non volle darci delle spiegazioni. Il senatore leghista in questi anni si è reso protagonista di un controverso disegno di legge sulla famiglia e anche di alcune campagne, dichiarazioni contro l’aborto e contro i diritti dei gay. Insomma, abbiamo però capito che sotto l’ombrello di Malofeev, a vario titolo, si sono coperti la Lega e anche il leader di Forza Nuova, Roberto Fiore, e quello di Pro Vita Brandi. Malofeev, dopo le sanzioni scattate per aver finanziato la guerra in Crimea, dopo essere finito nella black list, ha posato il suo sguardo sulle fondazioni della destra americana, quelle ultra cristiane, insomma, e dentro le quali abbiamo trovato anche i finanziatori di Trump e anche i finanziatori di Cambridge Analytica, cioè di chi ha violato i 50 milioni di profili degli utenti Facebook e avrebbe condizionato l’esito delle presidenziali e anche la Brexit, cioè l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Ecco, Malofeev ha rivitalizzato quelle fondazioni e proprio in quel periodo è aumentato il flusso di denaro, parliamo di circa un miliardo di dollari, che da quelle fondazioni è venuto verso associazioni, fondazioni, movimenti in Europa che hanno alimentato campagne contro i gay, contro l’aborto, contro i migranti, contro il pontificato di Bergoglio col tentativo di far implodere l’Europa. E un po’ di spicci, avevamo anche scoperto, erano finiti nell’associazione Dignitatis Humanae Institute, che era un’associazione che faceva riferimento allo stratega di Trump, Steve Bannon, che dopo aver contribuito alle presidenziali che cosa aveva fatto? Era venuto in Italia per fondare la sua scuola di sovranismo, aveva scelto come sede una meravigliosa abbazia, la Certosa di Trisulti, aveva posto lì la sua sede, vicino Frosinone, e poi dopo è stato costretto ad andar via grazie anche al nostro contributo, che avevamo scoperto alcune irregolarità nell’assegnazione della Certosa all’associazione. Però la Dignitatis Humanae è la prova dell’anello, della congiunzione tra, della santa alleanza, se possiamo definirla così, cioè di quella congiunzione tra l’oligarca di Dio Malofeev e le fondazioni della destra americana ultracristiana. Infatti abbiamo trovato questa fotografia del 2012 che appartiene alla cerimonia di inaugurazione della Dignitatis Humanae e insieme a Bannon e agli altri c’è anche l’uomo di Malofeev, Komov, cioè l’uomo che era legato anche a Gianluca Savoini e quindi a Salvini. Ecco, insomma, abbiamo capito che in un contesto come questo per smuovere, per condizionare l’opinione pubblica l’ostentazione di una fede religiosa è fondamentale.
Sebastiano Messina per la Repubblica il 24 febbraio 2022.
Dice Matteo Salvini che «le sanzioni sono l'ultima delle soluzioni». Ma non ci rivela quali sono le altre. Telefonare di notte al Cremlino e fare una pernacchia? Togliere il "mi piace" alla pagina Facebook di Putin? Mandargli tante cartoline con la scritta «Scusa ma secondo me forse dovresti ripensarci»? Ce lo dica: magari funzionano, e quello si ritira.
(ANSA il 24 febbraio 2022) - La Lega condanna con fermezza ogni aggressione militare, l'auspicio è l'immediato stop alle violenze. Sostegno a Draghi per una risposta comune degli alleati". Lo dice il leader della Lega Matteo Salvini.
Ucraina: Meloni, inaccettabile attacco bellico Russia
"Inaccettabile attacco bellico su grande scala della Russia di Putin contro l'Ucraina. L'Europa ripiomba in un passato che speravamo di non rivivere più. È il tempo delle scelte di campo. L'Occidente e la comunità internazionale siano uniti nel mettere in campo ogni utile misura a sostegno di Kiev e del rispetto del diritto internazionale». Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni.
Mattia Feltri per "la Stampa" il 24 febbraio 2022.
Matteo Salvini (che negli anni ha detto: Berlusconi frequenta Vladimir Luxuria, io preferisco Vladimir Putin; fra Renzi e Putin scelgo Putin tutta la vita; io vorrei Putin come alleato; Putin è un leader mondiale; Putin ha le idee chiare per una società ordinata, pulita e armoniosa; io sto con Putin; preferisco Putin all'Unione europea; Putin fa, io sarei più sicuro con uno come lui; io voglio la pace, sto con Putin;
Putin è fra i migliori statisti in circolazione; apprezzo la visione dell'Europa di Putin; le sanzioni contro Putin sono da cretini/ deficienti/idioti; ammiro Putin per le idee chiare, la fermezza, il coraggio, la visione della società; Putin non ha difetti; Putin ha scelto la Lega come unico interlocutore; Putin garantisce la pace in Europa; farei carte false per avere Putin presidente del Consiglio;
Putin è libero, non è schiavo delle banche; mi basterebbe essere minimamente al livello di Putin; Putin è un modello; con Putin faremo la storia; Putin è un gigante; più Putin e meno Obama; Putin è fonte di speranza; in Italia ci vorrebbero dieci Putin; darei due Mattarella per mezzo Putin;
meno male che c'è Putin; se avessimo Putin in Italia staremmo molto meglio; mi piace Putin, lo stimo; Putin è uno degli uomini di governo più lucidi, lungimiranti e concreti; da Putin mi sento a casa mia; Putin è il miglior uomo di governo sulla faccia della terra insieme a Trump; Putin è un grande; Putin è un amico) non capisce proprio perché, se sostiene la necessità di dialogare con la Russia semplicemente per evitare la guerra, poi «finisco sui giornali come amico di Putin».
Da corriere.it il 24 febbraio 2022.
Condanne all’aggressione sono arrivate da tutte le forze politiche, ma tra Lega e Pd è stato scontro. Matteo Salvini, leader del Carroccio e in passato vicino alle posizioni della Russia di Putin e contrario alle sanzioni economiche contro Mosca, ha invitato al dialogo e ricordato di aver parlato già con gli ambasciatori dei due Paesi in conflitto, aggiungendo: «La Lega condanna con fermezza ogni aggressione militare, l’auspicio è l’immediato stop alle violenze.
Sostegno a Draghi per una risposta comune degli alleati». Emanuele Fiano del Pd gli ha però risposto: «Non è certo questo il momento di condanne generiche. Forse qualcuno non si rende bene conto della gravità di quanto sta accadendo in Ucraina. Bisogna condannare senza se e senza ma l’aggressione decisa da Putin. Una volta tanto anche Salvini dovrebbe essere chiaro e netto su questo senza tentennamenti». Mentre Mauro Berruto della segreteria dem, scrive su Twitter: «”La Lega condanna con fermezza ogni aggressione militare”? No, Matteo Salvini, condanna esplicitamente la #Russia e l’azione sconsiderata di colui che portavi sulla maglietta.
#UkraineRussiaConflict #UkraineRussie #NoWar». Agli attacchi Salvini ha poi risposto da Radio libertà: «Se qualcuno usa per polemica politica italiana, per beghe quella che è una tragedia dimostra di essere un piccolo uomo. C’è una guerra in corso, ci sono missili, ci sono attacchi, quindi bisogna unirsi per fermare questa tragedia il prima possibile. Se qualcuno la usa in chiave interna, per equilibri di maggioranza e cose del genere è veramente fuori dal mondo». Data la situazione di emergenza, il leader leghista ha poi convocato la segreteria del partito e la Lega è ritornata a partecipare ai lavori del Copasir, «con l’obiettivo di portare un contributo per favorire la pace».
Sul fronte Pd, il segretario Enrico Letta ha annunciato che «oggi pomeriggio proponiamo di ritrovarci alle 16 di fronte all’ambasciata russa a Roma per esprimere la nostra ferma condanna dell’invasione russa dell’Ucraina». Al Gr1 Rai aveva intanto detto : «Non bisogna essere arrendevoli e cedevoli, non c’è spazio per terzismi e ambiguità, c’è spazio per una reazione ferma perché sono in gioco i principi che sono alla base della nostra convivenza civile e della stessa vita dell’Europa».
Per Letta: «Putin cercherà di dividerci, ha già cercato di farlo e se trova unità e fermezza questa è la prima risposta. La necessaria reazione deve essere unita, nessun paese europeo deve andare per conto suo, fa bene il presidente del Consiglio oggi subito con gli alleati europei a trovare l’unità».
Quanto al fronte interno, per il segretario dem «c’è bisogno che il Parlamento italiano dica cose senza ambiguità, noi chiediamo che nelle prossime ore ci sia una riunione del Parlamento, che prenda una posizione chiara e tutti si esprimano senza nessuna forma di ambiguità. Le sanzioni sono la prima reazione, bisogna creare un cordone attorno alla Russia perché sia la stessa società russa a dire che non bisogna andare avanti su questa linea di follia rispetto alla quale Putin in modo ingiustificato sta portando l’Europa e il mondo».
Anche da Giuseppe Conte, leader del M5S, parole preoccupate: «Condanno con fermezza l’attacco russo che precipita la situazione e allontana ogni spiraglio di soluzione diplomatica. Confidiamo ancora in una risposta europea e nel contributo che l’Italia può dare in questo senso alla comunità internazionale. In questo momento, però, il mio pensiero va anche a alla popolazione civile, per la quale sono profondamente preoccupato». Il collega di partito Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, aggiunge via Twitter: «L’operazione militare russa è una gravissima e ingiustificata aggressione, non provocata, ai danni dell’Ucraina, che l’Italia condanna con fermezza. Una violazione del diritto internazionale. L’Italia è al fianco del popolo ucraino, insieme ai partner Ue e atlantici».
Social netwar. Quello che più ci interessa (e ci stressa) della guerra è il nostro personale psicodramma.
Guia Soncini su L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022. Quelli che vanno in pizzeria da Briatore senza impavesarsi in una bandiera azzurra e gialla (e vengono filmati da un qualche telefono) sono cattivi. Mica come noi, che postiamo il nostro struggimento. E invece siamo uguali, noi e Salvini. Perché mettiamo sempre noi stessi al centro di tutto. E non siamo più invisibili, né lui né noi, mentre lo facciamo
Se un disturbo della psiche è collettivo, può ancora definirsi disturbo? Non è piuttosto una nuova norma, il modo in cui l’umanità si è evoluta, ciò che ormai siamo?
Abbiamo organizzato, negli ultimi giorni, le lavagne dei buoni e dei cattivi in modo assai curioso. I cattivi sono quelli che vanno a mangiar la pizza da Briatore e fanno «ué ué ué» quando il pizzaiolo la fa girare, invece di contrirsi e postare bandierine azzurre e gialle. I buoni sono quelli che vanno a incontrare gli amici al sole, avvolti in bandiere azzurre e gialle, e rilasciano dichiarazioni su quanto soffrono.
Solo che questa descrizione non coglie la colpa né il merito. Solo che questa descrizione manca il punto della questione.
La colpa di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi non è di mangiare brioche mentre il popolo soffre la guerra, così come il merito del ceto medio riflessivo non è di dirci che la notte non dorme per il peso emotivo del conflitto. La colpa di là e il merito di qua risiedono in ciò che hanno in comune i due gesti: essere compiuti davanti alle telecamere dei telefoni.
Più che con la globalizzazione, più che con la fine della guerra fredda, più che coi social, più che con la smaterializzazione dei consumi culturali; più di tutto, il mondo è cambiato quando, delle duecento cose impresentabili che facevamo ogni giorno, centonovanta hanno iniziato a essere in rischiosa vicinanza della telecamera d’un altrui telefono (nei casi più gravi: del nostro).
Non sapevamo quanto fossero beate le nostre vite finché a nessuno importava che ci grattassimo, che mangiassimo la pizza, che accogliessimo un orfano ucraino, che fossimo contro la guerra, che non mettessimo il parmigiano sulle vongole. Non sai quel che hai finché non lo perdi, e noi abbiamo perso la possibilità d’essere invisibili.
La vera oligarchia, il vero lusso, è che la tua pizza non finisca sui social e sui siti. Ma per potertela permettere, quell’oligarchia lì, devi essere almeno Beyoncé: devi avere fantastiliardi da investire in guardie del corpo e assistenti che sequestrino i cellulari dei presenti, quando vuoi fare il karaoke col pizzaiolo e fuori c’è la guerra. E distribuirli e incitare a usarli, invece, i telefoni, quando vuoi dirti contrita dalla guerra e puntualmente dolente.
Poiché nessuno è Beyoncé – quasi neanche Beyoncé – a noialtri mortali resta la consolazione che ci sarà sempre un cretino che la fa più grossa di noi, un’inadeguatezza salviniana sulla quale dirottare la potenziale pericolosissima attenzione per l’inadeguatezza nostra (che magari abbiamo rilanciato la raccolta fondi sbagliata, o tardato a postare una bandierina e un cuoricino infranto nel nostro profilo social).
È anche molto interessante la scuola critica secondo la quale è grave che, all’uscita dalla pizzeria, e a chi chiedeva «avete parlato dell’Ucraina?», Salvini abbia risposto di sì: mentiva, l’abbiamo visto ridere e applaudire per due minuti e quindi di certo non ha fatto altro per ore. Interessante non perché io pensi che Salvini invece non mentisse, e sia invero contrito quanto il ceto medio riflessivo che, come passatempo del sabato pomeriggio, accende candele e manifesta avvolto in bandiere fotogeniche: esattamente come voi, a stento so cosa provo io, figuriamoci se conosco le preoccupazioni altrui.
Interessante perché mi sembra un’ovvietà così ovvia da non servire uno studioso di psicologia per decodificarla che chi vive di consenso popolare sarà più preoccupato delle conseguenze pratiche d’una guerra per il suo elettorato di quanto lo sia chi vive d’altro.
Ma, soprattutto, interessante la stranezza d’un tempo in cui il problema non è che un giornalista vada fuori da una pizzeria a chiedere «avete parlato dell’Ucraina?» (versione politica estera del «cosa prova?» che i giornalisti di cronaca nera domandano ai parenti del morto); il problema è che un senatore risponda con una frase di circostanza. Cosa doveva dire per non scontentarci, «ma sa quanto me ne fotte a me»? Ne avremmo approvato il sestessismo e l’autenticità?
Il guaio è che, come nei campi di calcetto della nostra infanzia, le squadre erano fatte da prima. Salvini non va bene neanche quando va a depositare i fiori per gli ucraini, mica solo quando applaude il pizzaiolo. Mentre noialtri, la nostra dolenza è certamente vera e sentita e vibrante e empatica, e la nostra eventuale pizzeria sarebbe un tentativo di distrarci dai dolori del mondo che tanto ci pesano. Noialtri che mai mai mai diremmo che le ucraine in Italia sono perlopiù badanti, come quella stronza renudista della Annunziata, le reazioni isteriche alla cui frase (detta mentre non era inquadrata, e pure veritiera) hanno fatto sembrare l’attentato di Sarajevo una spaghettata tra amici.
L’incipit dell’editoriale scritto sul New York Times di ieri da Maureen Dowd fa così: «Quel che mi ha sorpreso di più della Storia della quale sono stata coeva è quanto spesso siamo stati trascinati in percorsi dementi e distruttivi da leader che hanno dato la precedenza ai loro personali psicodrammi rispetto al benessere pubblico». Non si può darle torto.
Tuttavia nel frattempo la National Public Radio, l’istituzione culturale più di sinistra degli Stati Uniti d’America, pubblicava consigli su come affrontare le notizie stressanti sulla guerra: prendetevi cura di voi, cucinate una torta, scrivete una lettera a un amico. E sempre, sempre, ricordatevi che al centro ci siete voi, le vostre emozioni, le vostre percezioni, le vostre indignazioni e dolenze. Il vostro personale psicodramma, cifra espressiva unica sulla quale poi per forza ai politici tocca sintonizzarsi.
Da "Oggi" il 2 marzo 2022.
«Se cresci in mezzo a gente che ti dice le peggiori cattiverie su tuo padre, a 14 anni piangi, a 30 non ti lasci ferire più. Il clima attorno alla mia famiglia mi ha spronata, da adolescente, a impegnarmi per costruire una mia identità indipendente dal resto».
Francesca Verdini, figlia di Denis e da tre anni compagna di Matteo Salvini, rompe il silenzio e si racconta in un’intervista esclusiva al settimanale OGGI. «In questi anni ho letto ritratti variopinti su di me. Tutti hanno pensato di conoscermi solo perché conoscevano mio padre e l’uomo che avevo accanto. Io, invece, riesco a definirmi solo tramite il mio lavoro», dice.
Verdini è produttrice cinematografica, in società con un amico d’infanzia, e sta portando avanti un progetto per rendere il cinema “green”. «Si chiama Ecoset, un protocollo in fase di certificazione per rendere ecosostenibili le produzioni cinematografiche», dice.
Poi parla del rapporto con Salvini («Andiamo d’accordo, sono felice»), della loro convivenza, «iniziata molto presto», delle cose su cui sono in disaccordo: «Sono da sempre favorevole all’eutanasia: credo la vita sia nostra e che decidere di non essere condannati a soffrire per sempre sia un diritto. È compito dello Stato riconoscerlo e far sì che sia di tutti».
E di quelle su cui concordano: «Siamo entrambi sensibili ai diritti, come quelli Lgbtq+, solo che io non essendo leader di un partito conservatore non devo far compromessi quando prendo posizione». L’intervista completa su OGGI, in edicola da giovedì 3 marzo.
Selvaggia Lucarelli per “Domani” il 27 gennaio 2022.
È una giornata qualunque, di quelle molto fredde in cui si ha solo voglia di rimanere a casa e farsi un tè caldo quando vedo sul display del telefono un numero fisso che lampeggia. Ormai i numeri fissi con prefisso della mia città per me vogliono dire solo due cose: o è un tizio che mi comunica che il contratto col mio operatore telefonico è dispendioso e obsoleto e se passo con lui mi regala anche un green pass usato poco, oppure è un commissariato/una stazione.
Nel secondo caso, c’è sempre una certa familiarità nei discorsi, tipo «Buongiorno. Sono sempre io, il commissario, devo notificarle una cosa… quand’è che sarebbe libera?» (la cosa è quasi sempre una querela, ma le forze dell’ordine di solito usano al delicatezza di chiamarla “cosa” per non essere irriguardosi, un po’ come quelli che quando ti muoiono gli animali non dicono «è morto il tuo Fuffy» ma «Fuffy è passato sotto il ponte dell’Arcobaleno»).
Così finisce che io e il commissario passiamo dieci minuti a incastrare il mio parrucchiere con i suoi figli da prendere a scuola e alle volte, ormai, mi propongo anche di passare a prenderglieli io e di tenerglieli direttamente fino alla prossima notifica di querela, così è più comodo per entrambi. Fatto sta che quel giorno di freddo polare a Milano il numero fisso che mi stava chiamando era, appunto, quello di un commissariato di polizia. Mi si chiedeva di andare subito lì perché «è una cosa delicata». Non la solita «cosa», ma cosa «delicata».
Ho immaginato una roba grossa. Ho pensato alle recenti battute fatte su Bin Salman, poi mi sono detta che non era mica una convocazione all’ambasciata saudita, era un commissariato di polizia. Italiano. Sono andata. Il poliziotto era molto gentile, si è scusato per la convocazione urgente, mi ha spiegato di essere stato incaricato dalla Digos di una città del nord Italia di farmi alcune domande.
C’era un’indagine che mi riguardava a seguito di una denuncia per diffamazione. «Una denuncia di chi?». «Di Matteo Salvini», mi ha risposto il commissario con l’espressione di chi mi aveva appena diagnosticato un herpes zoster.
Matteo Salvini. Quello che “basta reati d’opinione”, quello che ha contribuito ad affossare la legge Zan perché «Un conto sono le minacce, gli insulti o l'istigazione al terrorismo, altra cosa sono le idee, belle o brutte, che si possono confutare ma non arrestare».
Ero dunque curiosa di sapere quando lo avrei minacciato, insultato (pubblicamente, intendo, nell’intimità alzo le mani e mi dichiaro colpevole) o quando avrei chiesto a qualcuno di mettergli del tritolo nel ghiaccio del mojito. Il commissario mi ha chiesto se mi ricordassi di aver scritto un post su di lui, poi me l’ha mostrato, stampato. Guardo il post.
C’è l’immagine di un ragazzo giovane, quella di un funerale, una bara in mezzo a un prato, incorniciata in una di quelle cartoline tanto in voga sui social di Salvini e dei salviniani, con le scritte a caratteri cubitali così anche quelli che si sono fermati alla prima elementare capiscono con chi ce l’ha il Capitano senza dover leggere più di 50 caratteri.
Naturalmente, in foto, si vede anche Salvini, seduto di spalle. Che, a onor del vero, non è preso a fare selfie come ai funerali delle vittime del ponte Morandi, è già qualcosa.
Il mio commento nel post era «La presenza di Salvini e la Meloni al funerale di un ex ragazzo di Amici morto per una leucemia fulminante, perché? È un funerale in cui la presenza della politica dovrebbe significare qualcosa? No, solo passerella. Con tanto di cartolina da pubblicare sui social». Dunque, per questo post su Facebook Matteo Salvini si è rivolto alla Digos.
Ora, io non so bene su cosa si stia indagando e su cosa mai si discuterà in un (eventuale) processo, ma ammetto di averci pensato parecchio. Penso, sì, che quella sua presenza sia stata passerella politica, visto che ha pubblicato le immagini di se stesso al funerale sui suoi social, social tramite i quali fa propaganda politica. Non ho cambiato idea.
Penso che non la rinnegherò dovessi anche essere mandata al rogo, sul fuoco acceso per il dio Po a Pontida. Penso che lui, in caso di processo, dovrà portare prove sulla sua reale, genuina partecipazione emotiva agli eventi disgraziati della vita (dunque potremmo chiudere le pratiche in un quarto d’ora) e io del suo cinismo politico, dunque il tutto potrebbe durare quanto il maxiprocesso.
Fatto sta che il politico che ci ha molestati per mesi con lo slogan «le idee non si processano» per permettere a chiunque di picchiare un omosessuale senza l’aggravante dell’omofobia, vuole il carcere per chi pensa che lui sia un cinico calcolatore, con l’aggravante della cartolina da boomer sui social.
A saperlo, anziché chiamarla passerella la definivo «deplorevole carnevalata da gay pride», magari chissà, questa me la faceva passare.
(AGI il 3 dicembre 2022) - Umberto Bossi 'sferza' la Lega di Matteo Salvini. "Senza identità un movimento politico muore", scandisce il senatur, che non ha voluto far mancare la sua presenza all'appuntamento organizzato dal comitato del Nord, a Giovenzano, nel Pavese. L'incontro era stato fissato in un primo tempo il 27 novembre ma poi il fondatore della Lega era stato ricoverato e sottoposto a piccolo intervento per un'ulcera gastrica. Ed eccolo a Giovenzano insieme ad Angelo Ciocca, Paolo Grimoldi e Roberto Castelli.
Voce roca, sul palco con la sedia a rotelle, il vecchio 'leone' sembra avere però le idee chiare sul messaggio che vuole mandare con la costituzione del comitato, a cui la Lega Salvini premier ha diffidato l'uso dei simboli del partito e l'accesso ai dati dei militanti. "Abbiamo dato vita al comitato del Nord come conseguenza di alcune scelte che abbiamo sofferto - spiega Bossi -. Abbiamo visto cancellare identità della Lega. Sapevamo come sarebbe finita: se cancelli l'identità muori. Un movimento politico non può esistere se non ha una identità chiara".
"Abbiamo dato vita al comitato del Nord per rinnovare la Lega non per distruggerla - insiste più volte -. Temevamo che molta gente se ne sarebbe andata dalla Lega si sarebbe dispersa". "Noi a Roma chiediamo l'autonomia, giustamente, e' prevista anche dalla Costituzione. Però non possiamo a casa nostra essere centralisti", lamenta. Bossi critica altre scelte come quella di "commissariare il Veneto".
"I fratelli veneti da centinaia di anni sono un popolo fratello rispetto al popolo lombardo, sono sempre stati assieme", protesta. "Centinaia e centinaia di persone si sono legate al comitato in queste settimane. Si vede che il problema era sentito. Non ci interessa punire. Noi siamo qui per rinnovare la Lega punto. Non potevo ignorare l'appello dei militanti della Lega 'Bossi fai qualcosa'", conclude.
La "novità" Bossi. La storia infinita del rivoluzionario in Aula da 35 anni. Paolo Guzzanti il 24 Agosto 2022 su Il Giornale.
Un'altra legislatura da capolista per il fondatore della Lega entrato nel 1987
Questo Parlamento ha qualcosa di nuovo, anzi di antico. Deve essere lui, l'Umberto. Umberto Bossi che dopo 35 anni fra Senato e Camera - fu eletto per la prima volta nel 1987 - è capolista della Lega a Varese per tornare a Montecitorio non è un fatto di pura cronaca, neppure un fatto soltanto sentimentale benché la politica sia fatta anche di forti sentimenti. E di sentimenti forti Umberto Bossi ha inondato la politica fin da quando cominciò a diffondere l'ultimo brivido rivoluzionario in un'Italia ideologicamente frolla, praticamente inerte dopo i fallimenti già consumati ho invia di consumazione delle cosiddette ideologie del ventesimo secolo. Chissà perché fascismo comunismo, due disgrazie sorelle che hanno devastato un secolo con tutti i suoi abitanti e che hanno illuso, mentito, aggredito, sterminato e evitato di pentirsi davvero e fino in fondo, meritino ancora il titolo di ideologie. Intendiamo parlare di fascismo e comunismo e con tutti gli altri ismi vengono tutti insieme da una stessa matrice quella filosofica della sinistra hegeliana di Carlo Marx e poi quella di destra che porta diritto a Hitler. Umberto Bossi invece e stato un ideologo irrequieto, capace di mettere in crisi un sistema che ha scricchiolava, fare incetta di consensi ingiustamente mantenuti da altri: tutti gli operai doverosamente tesserati del Partito comunista che con un moto di auto liberazione esistenziale si riconobbero in quel che erano, leghisti legati a un territorio, una tradizione, un accento, un modo di sentire e di mangiare e dividere che li rendeva e li rende parte di una comunità senza essere ostile ad altri.
Umberto Bossi sconvolse la politica tradizionale dei partiti rimettendo in pista un'ideologia liberale e risorgimentale di altissimo lignaggio quale era ed è il federalismo, un sogno che non era appartenuto soltanto a Cattaneo ma ad una generazione di patrioti che avevano sempre immaginato di riunire gli italiani in una nazione federata di diversi e tuttavia uniti, senza sopraffazioni essenza appiattimenti, nel rispetto quindi dell'identità di ciascuno e della libertà di tutti.
Il messaggio di Umberto alla prima crociata era pesantissimo: secessione. L'Italia si spacca e quella che produce se ne va lasciando a secco l'Italia che non produce e che vive di rendita e sulle spalle della prima. Tutto ciò che era seguito al fortunoso sbarco di Garibaldi in Sicilia, e alla sua fin troppo fortunata risalita dello Stivale senza incontrare alcuna resistenza, veniva non solo messo in discussione ma idealmente rigettato. Certo era molto difficile per un romano come me sentire dieci volte al giorno parlare di Roma ladrona, come se Roma capitale d'Italia non fosse stata ridotta a sentina dell'Italia intera, sfigurata nella sua identità e nella sua storia, ridotta un labirinto di palazzi afflitti dalla piaga della burocrazia e dello spreco.
E anche per questo alla fine non solo apprezzai lo spirito più radicale di Umberto Bossi ma mi trovai d'accordo: prendetevi questa capitale portatevela da qualche altra parte, pensavo, e che ognuno vada per la sua strada. Non sarebbe stato possibile senza traumi e conflitti forse anche sanguinosi ma non ce ne fu bisogno perché Bossi fu attentissimo a tenere la corda tesa fino a che potesse emettere una nota molto forte, ma senza strappare mai l'Italia.
Due ricordi di Umberto Bossi. Il primo quando facemmo campagna elettorale insieme nel 2001 e benché non mi conoscesse mi offrì il microfono come un bicchiere di vino con quel sorriso piena di denti che lo rendeva popolare e amato dalle donne. Anche il suo modo di parlare di sesso non era mai volgare per quanto fosse esplicito: il suo modo di dire «ce l'ho duro» mi fece coniare la categoria del «celodurismo» che ebbe una certa fortuna.
L'altro ricordo è di qualche anno fa quando mi senti chiamare da un signore seduto al bar vicino al Parlamento dallo stesso tavolo dove molti anni prima sedevano d'estate Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. Era Umberto che pur non avendo mai avuto una frequentazione amicale si alzò e mi abbracciò con una fisicità fraterna oggi rara. E poi i tumultuosi incontri con Miglio, il teorico e l'ideologo del federalismo nel Transatlantico insieme a tutti quelli che rappresentavano un mondo politico eccitato in modo ideale, in cui persino gli insulti erano riconoscimenti di qualità.
Francesco Moscatelli per “La Stampa” il 19 agosto 2022.
«Il Gianca non puoi cacciarlo – dice un leghista Docg che lo conosce bene -. L’unico che poteva dire basta, e che probabilmente questa volta ci ha anche pensato seriamente, era lui stesso. E invece».
E invece «il Gianca», che poi sarebbe il ministro dello Sviluppo economico e vice-segretario della Lega Giancarlo Giorgetti, ieri era ancora lì al suo posto, a partecipare per conto del suo partito al vertice tecnico del centrodestra per la compilazione delle liste. E a metterci la giacca stazzonata e la camicia bianca spiegazzata, oltre che la faccia, davanti ai microfoni e alle telecamere.
Con quell’estetica da Seconda Repubblica che già dice tutto del suo essere uno degli ultimi elefanti della politica politicata (ma lui la definirebbe «l’arte di rendere realizzabili i desideri» oppure «l’arte del possibile») in un mondo dominato dai consulenti marketing e dagli slogan sparati sui social o proiettati sui muri.
Una sistemata agli occhiali e una dichiarazione telegrafica ai giornalisti – «I nomi per le candidature? Servono ancora 24 ore» – e poi via di corsa senza perdere troppo tempo. Perché Giorgetti è così: sbrigativo quando c’è da parlare, meticoloso quando c’è da fare. Tutto molto lombardo e molto pragmatico, del resto è laureato in Economia aziendale alla Bocconi e sicuramente preferisce discutere di Made in Italy e piani di sviluppo con amministratori delegati e industriali piuttosto che partecipare a un talk show televisivo.
L’essere schivo è una caratteristica che gli ha fatto comodo anche in politica: insieme a Roberto Calderoli nella prossima legislatura potrebbe essere uno dei pochissimi parlamentari leghisti ad aver attraversato tutte le stagioni, dall’âge d’or el Senatur alla Lega per Salvini premier, passando per la stagione del «cerchio magico» di Bossi e per la gestione targata Bobo Maroni. «La politica è il mio mondo» è quanto lui stesso ha confidato nei giorni scorsi ad alcuni amici, come ad ammettere di non poterne fare a meno.
Figlio di un pescatore del lago di Varese, cresciuto insieme al governatore lombardo Attilio Fontana negli anni in cui Varese era una delle città più di destra d’Italia (lo stesso Giorgetti ha militato fra i giovani del Movimento sociale), nei primi anni Novanta si è iscritto alla Lega Lombarda. Giorgetti c’era, c’è e ci sarà.
E la domanda che si fanno in molti, in queste ore, riguarda proprio questo suo rimanere al suo posto, nel suo partito, nonostante tutto. Lui, il più draghiano fra i leghisti, ha dato battaglia dentro la Lega contro le sbandate sovraniste, ha combattuto per farla entrare nell’esecutivo Draghi e poi ha provato a difendere fino «ai supplementari» l’esistenza stessa del governo.
Eppure, anche dopo aver metabolizzato che quell’esperienza era terminata (giornata per la quale si è spinto a usare parole come «uno show poco dignitoso»), ha lasciato sbollire l’amarezza e dopo qualche giorno è tornato in pista. Il segretario Matteo Salvini gli ha chiesto di restare in squadra è vero, ma c’è modo e modo di esserci e di giocare: Giorgetti è tornato a farlo in prima fila.
C’è la sua firma, ad esempio, accanto a quelle di Giorgia Meloni e Antonio Tajani, sotto il foglio di bloc notes con cui il centrodestra il 28 luglio ha siglato un accordo per la spartizione dei candidati nei 221 collegi uninominali. In queste settimane, poi, ha partecipato a tutte le feste della Lega a cui era atteso.
Come pure, il 25 agosto, sarà sul palco del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini per inaugurare di fatto la sua campagna elettorale. E pazienza se quest’anno, tra comizi, elezioni e successive consultazioni al Quirinale, dovrà aspettare almeno ottobre per volare in Inghilterra a vedere una partita del suo amato Southampton.
«Giancarlo è un democristiano vero, mastica tutto - racconta un amico con il quale spesso si scambia degli sms -. La verità è che ci aspetta una legislatura dura e che c’è bisogno di gente come lui, di colombe, perché sia a destra che a sinistra si vedono in giro troppi falchi. Sono rimasti in pochi quelli capaci di far ragionare la gente. E poi in qualche modo lui è l’unico esponente del centrodestra che può davvero dare all’Europa un segnale di continuità con il governo Draghi».
Un altro che lo conosce da sempre è Emilio Magni, primo cittadino di Cazzago Brabbia, il paese di 800 abitanti affacciato sul lago di Varese in cui Giorgetti è diventato grande e in cui tuttora è residente dopo esserne stato anche sindaco per due mandati.
«Ho qualche anno più di lui e me lo ricordo ragazzino che sbrogliava le reti da pesca in riva al lago e ancora oggi lo incrocio quando esce con la sua barchetta a remi o con il “barchett” da pesca di famiglia per andare a fare il bagno in mezzo al lago con suo fratello - ricorda Magni, alla guida di una lista civica ma iscritto al Pd –. Giancarlo avrebbe dovuto fare il pescatore, il lavoro si tramandava dai padri ai figli maschi, ma quando è arrivato il suo turno il lago era inquinato e così lui e tanti altri hanno studiato.
Però ricordo bene quando ha dovuto lasciare la presidenza della cooperativa dei pescatori perché è venuto fuori che era incompatibile con il suo incarico di sottosegretario alla Presidenza del consiglio. Sembrava una barzelletta. In paese è stimato e benvoluto da tutti, anche perché da amministratore ha recuperato le vecchie ghiacciaie per conservare il pesce».
Quanto alla politica, il sindaco ammette di essere poco aggiornato sulle ultime mosse dell’illustre cittadino: «Di natura è uno che sguscia, che compare poco, un’anguilla. Con me, le poche volte che si è lasciato andare, mi ha confessato di non essersi mai fidato fino in fondo di Conte e di non approvare certe boutade di Salvini. Di sicuro è uno che è sempre stato capace di rimanere a galla. Quando lo si vede tanto in paese non è un buon segno: vuol dire che è tornato a casa a ricaricare le pile perché lo hanno fatto infuriare».
Quest’anno, a parte qualche giorno in montagna con la famiglia a camminare, pare che buona parte delle vacanze Giorgetti le abbia fatte proprio a Cazzago Brabbia.
Chi è Lorenzo Fontana, l’idolo dei Pro-Vita e dell'estrema destra veronese eletto presidente della Camera. L’ex ministro ha un lungo curriculum fatto di rapporti con Putin e i suoi uomini e strette alleanze con i partiti neofascisti di mezza Europa. Oltre a prese di posizione contro Lgbt, aborto, eutanasia e Peppa Pig. E ora è la terza carica dello Stato. Simone Alliva su L'Espresso il 14 Ottobre 2022.
Convinto che la caduta dell’Impero romano sia stata causata dalla scarsa natalità. Graniticamente certo che l’immigrazione e le unioni civili puntino a «dominarci e cancellare il nostro popolo». Lorenzo Fontana, classe 1980, è stato eletto come terza carica dello Stato della Repubblica Italiana, dopo quella di presidente della Repubblica e quella di presidente del Senato. Di sé dice “veronese e cattolico”. E basta scorrere i social per capirlo, tra foto di santi e sante, invoca spesso l’arcangelo Michele per «difenderci nella battaglia» (l’arcangelo Michele è colui che conduce gli angeli nella battaglia contro il drago, cioè il demonio), il 25 aprile festeggia San Marco e non la Liberazione dal nazifascismo (quasi in sintonia con il neo-presidente del Senato).
Con una traiettoria politica nel segno della croce e della Russia di Putin («è il riferimento per chi crede in un modello identitario di società») il deputato si è già distinto negli anni come vicesegretario responsabile esteri della Lega dal 2016, eurodeputato dal 2009 al 2018. Nel 2014 quando la Lega Nord entrò nel Gruppo ENF (Europa delle Nazioni e delle Libertà) con il Front National di Marine Le Pen si vantò: «Un’alleanza storica che ho contribuito a stipulare».
Nel 2018 è stato ministro per la famiglia (rigorosamente al singolare) e le disabilità sino al 2019. Alla Camera ha già ricoperto il ruolo di vicepresidente ed è stato titolare degli Affari europei dal 10 luglio al 5 settembre 2019 nel governo Conte I.
Di Verona, città laboratorio dell’estrema destra e dell’integralismo cattolico è prodotto e produttore. Sin da giovane si unisce alla Liga Veneta e ai Giovani Padani. Qui, una delle capitali della Repubblica di Salò e sede del comando generale della Gestapo, ricopre il ruolo di consigliere comunale tra il 2007 e il 2009 e di vicesindaco.
Dopo l’invasione della Russia in Ucraina, l’ex ministro ha assunto toni moderati e dialoganti, nascondendo come polvere sotto il tappetto la giostra di dichiarazioni pro-Putin e soprattutto di incontri con Alexey Komov braccio destro dell'oligarca russo Malofeev.
Il 7 dicembre 2013 al Congresso Federale Lega Nord, c’era anche Komov, a nome dell'associazione ultracattolica World Congress of Families, responsabile internazionale della Commissione per la Famiglia del Patriarcato ortodosso di Mosca e grande amico dell'oligarca Konstantin Malofeev, già molto attivo nei rapporti tra il Cremlino e i francesi del Front National. E mentre Salvini sposta definitivamente il baricentro della Lega verso la Russia, Fontana esporta in Italia i suoi contenuti (guerra alle persone Lgbt e ai diritti riproduttivi). Un rapporto fertile, quello tra il neo-presidente della Camera e l’emissario di Putin, lungo quasi un decennio. A raccontare del loro incontro su La Padania del 10 dicembre 2013 era stato un ancora sconosciuto Gianluca Savoini, che come racconterà anni dopo L’Espresso, ricoprirà un ruolo chiave durante il meeting avvenuto il 18 ottobre all’Hotel Metropol di Mosca al fine di strappare un accordo con una società petrolifera collegata a Malofeev per tentare di finanziare la Lega in vista della campagna elettorale per le elezioni europee di maggio.
Il 10 ottobre 2016 Fontana accoglie Komov nelle vesti di eurodeputato per un dibattito dal titolo “La famiglia sotto attacco”. Una relazione ben concreta, basti pensare all’invito ricevuto dal partito “Russia Unita” a partecipare come “osservatore” (insieme ad altri leghisti) al referendum sull’annessione della Crimea e nella battaglia contro le sanzioni dell’Europa alla Russia (si presentò al Parlamento Europeo indossando la maglia “No sanzioni alla Russia”).
Il sigillo di questa unione è visibile nella realizzazione del Congresso di Verona nel 2019, definito da Human Right Watch: “La più influente organizzazione americana esportatrice di odio”.
Anti-scelta lo è da sempre. Molti ricordano il suo attacco alle famiglie arcobaleno (“Non esistono”) ma nello stesso giorno da neo-ministro liquidò l’aborto come "uno strano caso di ‘diritto umano’ che prevede l’uccisione di un innocente. Fino a quando ci sarà chi vuole eliminare la persona umana, scendere in piazza è doveroso”.
Durante la presentazione del suo libro, scritto con l’economista ed ex presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, “La culla vuota della libertà”, disse: “La crisi demografica in Italia sta producendo numeri da guerra. È come se ogni anno scomparisse dalla cartina geografica una città come Padova. Noi non ci arrendiamo all’estinzione e difenderemo la nostra identità contro il pensiero unico della globalizzazione, che oggi ci vuole tutti omologati e schiavi”. Sull’immigrazione è netto da sempre: “la nostra azione politica sull’immigrazione si ispira al catechismo: ‘ama il prossimo tuo‘ ovvero in tua prossimità e per questo dobbiamo occuparci prima dei nostri poveri“. Di più, nel 2020 presentò anche una proposta di legge contro la cristianofobia e un ordine del giorno per impegnare il governo a occuparsi delle discriminazioni anti–cristiane.
«Oltre alla passione politica, questi anni sono legati ad un’altra grande passione: il tifo per l’Hellas Verona, rigorosamente e da sempre in curva sud», racconta lui stesso. Un dettaglio non da poco per Verona dove i politici hanno difficoltà a dichiarare fedeltà alla squadra e allo stadio, da vivaio dell’estrema destra.
Ma con l’estrema destra Fontana ha un rapporto ben radicato, nel 2015 partecipò al “Family Pride” di Verona, un evento anti-lgbt organizzato da Forza Nuova e dal circolo Christus Rex. Al suo fianco Yari Chiavenato (ex responsabile di Forza Nuova) e Luca Castellini (un capo degli ultrà che è anche il coordinatore del Nord Italia di Forza Nuova e che alla festa dell’Hellas del luglio 2017 aveva gridato dal palco: «Chi ha permesso questa festa, chi ha pagato tutto, chi ha fatto da garante ha un nome: Adolf Hitler!»).
Nel 2016 salutò l’ascesa degli “amici” di Alba Dorata, il movimento di estrema destra greco, di ispirazione fascista, che nel 2020 è stato dichiarato dal Tribunale di Atene come una “organizzazione criminale“. È contro l’eutanasia (è stato molto attivo sul caso di Alfie Evans: «Se non si rispetta la vita dal concepimento alla fine naturale, si arriva ad aberrazioni»), contro le adozioni da parte di coppie omosessuali e contro la cosìddetta ideologia del gender (la fake-news diffusa dall'estrema destra per contrastare gli interventi contro il bullismo omotransfobico). Durante un'intervista a L’Arena, quotidiano di Verona, spiegò che «la resistenza oggi è contro chi vorrebbe un mondo al contrario, un mondo che vorrebbe negare l’esistenza di mamme e papà, di bambine e bambini (…) i bambini vanno educati sul modello della famiglia naturale…altre formule strane non mi piacciono».
Elogiato dall’associazione Pro-Vita che negli ultimi mesi chiedeva a gran voce che diventasse nuovamente ministro. Sempre a Verona ha partecipato ad alcune iniziative di Fortezza Europa, associazione nata quando un gruppo di militanti della sezione veronese di Forza Nuova aveva deciso di sostenere Federico Sboarina (sostenuto da Fontana, che ne è diventato vicesindaco) alle amministrative del 2017. Festung Europa, in tedesco, era il termine impiegato dalla propaganda del Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale per indicare l’Europa nazista: la parte di Europa continentale dominata dalla Germania in contrapposizione con gli Alleati anglosassoni. Nel 2019 da ministro approva e incoraggia la “Processione di pubblica riparazione per lo scandalo del Modena Pride”.
In una delle sue ultime apparizioni pubbliche in veste da ministro, in occasione di un dibattito del Moige, Fontana, quasi a voler leggere nel futuro di una delle ultime polemiche di questa campagna elettorale, espresse dei dubbi sul cartone di Peppa Pig: «Non so se va bene per mia figlia, mi informerò». Chissà se sarà pronto a battersi anche da Presidente della Camera con la famiglia di porcellini omogenitoriali, come già annunciato su un post Facebook: «La prima e fondamentale educazione è un DIRITTO delle famiglie e non spetta né allo Stato, né alle scuole né ai mass media. Come disse Chesterton (Gilbert Keith Chesterton, scrittore inglese di inizio Novecento, ndr): “Verrà un tempo in cui spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate”. Chi difende la normalità oggi è un eroe!».
La rete di reazionari dietro Lorenzo Fontana. Dal cardinale Burke, nemico di Bergoglio, al guru di ultradestra Steve Bannon: l’inchiesta dell’Espresso del 2018 nell’internazionale sovranista con centro a Roma che costituisce il fondamento culturale del nuovo presidente della Camera. Elena Testi su L'Espresso il 26 settembre 2018.
La luce entra flebile, in lotta con le tenebre, a simboleggiare quanto avviene nelle anime dei presenti. Sei persone, quattro uomini e due donne con il capo coperto da un velo bianco. Pregano, sussurrando un’antica litania, mentre il pugno chiuso percuote il petto in segno di contrizione per tutti i peccati di cui si sono macchiati. Sono le sette e un quarto del mattino, dentro l’antica chiesa romana dalla facciata imponente a due passi da palazzo Farnese, ponte Sisto e via Giulia, le preghiere sono in latino, il prete che dice messa rivolge le spalle ai fedeli, un altro celebra per conto suo a un altare laterale, in prima fila c’è un uomo in disparte genuflesso, con il busto rivolto verso la panca. La bocca in un bisbiglio, le ginocchia rimangono inchiodate nel legno duro, senza fodera, tra le mani stringe un messale consumato, sfoglia le pagine logore velocemente, in cerca del passaggio. «Ite, missa est». Si volta e nel buio si riconosce la linea del volto. È il più ascoltato consigliere di Matteo Salvini, il senatore della Repubblica Lorenzo Fontana, il ministro della Famiglia.
Ogni mattina all’alba, quando si trova a Roma, Fontana si dirige nella chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, affiancato da un collaboratore meno esperto di antichi riti, all’uscita colazione e poi si incammina verso il suo ufficio di ministro della laica Repubblica italiana. Prima, però, ogni giorno, dopo la liturgia ecclesiastica, rimane in contemplazione per alcuni minuti, si alza e si dirige verso l’altare, dove si inginocchia di nuovo. Infine apre la porta della sacrestia e parla con la sua guida spirituale, nonché politica, don Vilmar Pavesi.
Prete della Fraternità Sacerdotale di San Pietro, fondata dal vescovo scismatico Marcel Lefebvre, scomunicato da papa Giovanni Paolo II nel 1988. La congregazione venne salvata e riammessa nella Chiesa nel 2008 da Benedetto XVI: da quel momento la Fraternità ha il permesso di celebrare la messa in latino, con l’antico rito tridentino, rifiutando la riforma della liturgia voluta dal Concilio Vaticano II che ha introdotto la messa in volgare con la possibilità per i laici di partecipare attivamente. Un’eresia per gli ultra-reazionari cattolici che fino a qualche anno fa sembravano un residuo della storia, una pattuglia di nostalgici della Tradizione. Oggi, invece, sono un’avanguardia. Il fronte più avanzato di un esercito che sta sconvolgendo la Chiesa e l’Europa. Nel buio della pluri-secolare chiesa dei Pellegrini, dove predicò san Filippo Neri, si gioca qualcosa di più di una semplice devozione a un rito passato. Si fanno vedere ministri della Lega, cardinali nemici di papa Bergoglio, americani alla Steve Bannon. In questa chiesa l’esercito si sta organizzando: qui si è visto Matteo Salvini, il porporato Raymond Leo Burke, amico di Bannon, è di casa, il vescovo Georg Gänswein, segretario di Ratzinger, ha celebrato le cresime in abito porpora. L’Internazionale sovranista ha qui, nel cuore di Roma, tra madonne, crocifissi e evangelisti, uno dei suoi nascosti punti di riferimento.
Fontana è uno di loro. Un crociato che si è candidato nel 2014 al Parlamento europeo nella Lega per bloccare l’ingresso nella Ue della Turchia. Un fedele che ripudia l’epoca moderna. Un nemico acerrimo dei progressisti e amico fidato dei prelati anti-bergogliani che tessono trame politiche nel sogno di ricostituire una guida cattolica per il gregge smarrito e per l’Europa. Ma Fontana è oggi l’uomo scelto dal Governo del Cambiamento per ricoprire un ruolo strategico in tema di diritti civili. Per lui è stato creato un ministero ad hoc, la Famiglia, insieme al compagno di partito Simone Pillon, suo sottosegretario. Amici fraterni e tradizionalisti convinti, tanto da lasciare insieme, ma non prima di aver parlato alcuni minuti davanti a palazzo Grazioli, la festa della Lega offerta dal vice-premier Salvini nel super attico del ministero dell’Interno. Don Vilmar Pavesi è la sua guida spirituale, la più influente.
Tra il ministro e il prete tradizionalista c’è un’amicizia che dura da tempo. «Veniva tutte le mattine a messa alla chiesa di Santa Toscana», confida il prelato, «ma ancora non era nessuno, lavorava alla Fiera di Verona». Era il 2005. “Lorenzo”, come lo chiama bonariamente padre Pavesi, scala i vertici del partito. Don Pavesi, arrivato dalla Spagna, nato in Brasile ma da una famiglia lombarda, viene precettato dal Carroccio come guida spirituale. Benedice sedi di partito, organizza cortei insieme a Mario Borghezio, stringe mani e partecipa alla vita politica della città. Nella sua chiesa, oltre a santi e feste comandate, si festeggia anche il 7 ottobre, l’anniversario di Lepanto, la battaglia del 1571 che, secondo i tradizionalisti, salvò l’Europa dall’invasione islamica, preservando così la fede cristiana e evitando l’infezione. Nostalgico, apertamente monarchico e intransigente verso qualsiasi apertura che non rispetti l’antica dottrina della Chiesa. Con lui il ministro per conto di Dio, ogni giorno, si consiglia, si confida, si confessa e parla di politica.
In quegli anni il futuro ministro conosce un altro personaggio: Maurizio Ruggiero, fondatore del movimento Sacrum Romanum Imperium, per cui «la democrazia è una grande pagliacciata», dovremmo tornare «a instaurare le antiche monarchie ispirate al principio divino o alle repubbliche patrizie». Ruggiero ha sempre votato Lega e dalla Liga Veneta è sempre stato appoggiato. Insieme a lui Fontana da euro-parlamentare fonda nel 2014 il comitato “Veneto Indipendente” per chiedere l’autonomia della regione e il ritorno dell’antica repubblica di Venezia. Nel programma, tra i punti di rilievo, si legge: «Basta al disfacimento morale e spirituale della società; riaffermare i valori della Tradizione e dei nostri Padri, pienamente espressi nella Religione Cattolica tradizionale». Presidente onorario del comitato è Fontana che in quell’occasione chiarisce quale sia il suo ruolo a Bruxelles: «Il mio impegno in Europa è quello di far valere il diritto dei popoli ad essere liberi e poter vivere secondo i valori della propria storia e tradizioni, anche come entità statuali nuove e non di essere omologati ad una pseudocultura individualista e nichilista, che annienta le comunità locali imponendo modelli di vita relativisti, contronatura e immorali».
Si costituisce un gruppo composto da veronesi di razza. Con un amico e una guida in comune: padre Pavesi. Mentre Lorenzo inizia la sua scalata dentro il Carroccio e al Parlamento, con l’intento di evitare l’annessione della Turchia all’Europa (il contagio con l’antico Impero Ottomano sarebbe fatale) e ripristinare gli stati antichi (il profilo Facebook del ministro è costellato di bandiere della Serenissima Repubblica di San Marco), a Verona continuano le bizzarre battaglie del prete tradizionalista e Ruggiero. Nell’aprile del 2011, quando il capo del Sacrum Romanum Imperium organizza nella piazza le celebrazioni delle Pasque veronesi, c’è chi irrompe e mette fine alla manifestazione. Don Pavesi non la prende bene: «Si abbatterà un cataclisma sulla città, saprete il perché», maledice.
Diventa un problema per la Chiesa e per la stessa Lega. Nel 2009 l’allora sindaco di Verona Flavio Tosi, che pure non è un progressista, decide di bloccare la benedizione della sede del partito di Villafranca, bloccando il parroco che della Lega era diventato un protagonista onnipresente. Nel 2011 Il vescovo Giuseppe Zenti, impaurito dalle sue idee, decide di allontanarlo. Lascia la città senza salutare i fedeli. Ma c’è chi sa benissimo dove si trova, ed è Fontana che ogni giorno si reca alla chiesa dei Pellegrini di Roma per incontrarlo. È stato lui a presentare Matteo Salvini a padre Pavesi ed a far in modo che l’amicizia e le consulenze continuassero negli anni.
Non è l’unico. Nella chiesa che fu di San Filippo Neri si intrecciano giochi di potere e personaggi che lavorano per una nuova Europa cattolica. Tra questi il cardinale Raymond Leo Burke che nella parrocchia di culto tridentino celebra messa nelle festività più importanti. Nemico dichiarato di Papa Francesco, astuto e tradizionalista convertito, firmatario dei Dubia, i quesiti teologici che mettono in discussione l’infallibilità del Papa, dipingendolo come eretico per la sua eccessiva modernità. È Burke, il porporato guerriero in aperta polemica con papa Francesco, tanto da fondare un gruppo dal nome i “Guerrieri del Rosario” che hanno il compito di portare avanti la “Operation Storm Heaven”. La battaglia si svolge pregando il rosario il primo giorno di ogni mese, in unione spirituale con il cardinale Burke. L’obiettivo finale, stando alla mailing list quotidiana, è quello di «formare un esercito spirituale di Guerrieri del Rosario per assediare il Cielo con le preghiera». L’intento vero è indottrinare i fedeli, riportandoli alla retta via e ricordare loro i principi fondanti della dottrina cattolica e, quindi, secondo i tradizionalisti, dell’Occidente intero.
È Raymond Leo Burke il cardinale di riferimento della Lega, come ammette Fontana: «A papa Francesco, preferisco lui». Amante dei salotti, conteso negli inviti della Roma che conta, e simpatizzante aperto della linea salviniana, è il porporato dagli occhi allegri e l’astuzia machiavellica che ha attratto il capo del Carroccio. Burke si è più volte lasciato andare, ammettendo sui migranti che «non dobbiamo ospitare tutti», aggiungendo poi: «Bisogna distinguere se gli immigranti siano rifugiati o se vengano solo per stare meglio».
È Burke quel “qualcuno” che ha contattato Matteo Salvini con l’invito «di andare avanti sulla strada cominciata». Il cardinale americano è un tessitore esperto. È amico di Steve Bannon, il guru ex trumpiano, consigliere per la sicurezza nazionale, direttore del sito di ultra-destra Breitbart, che ha lasciato l’incarico per i contrasti con il presidente Trump, oggi tra gli sponsor dell’istituto cattolico retto dal porporato, la Dignitatis Humanae Institute. E così, mentre Matteo Salvini aderisce a “The Movement”, partito euro-populista ideato da Bannon, con una forte impronta cattolica, l’ex stratega della Casa Bianca, appoggiato dal cardinale Burke, parte alla conquista della politica, lanciando un nuovo progetto: una serie di corsi di formazione per giovani leader politici con l’intento di favorire la nascita di una corrente di pensiero populista e nazionalista. E cattolico tradizionalista. Nel frattempo Bannon fa sapere che passerà d’ora in avanti la maggior parte del suo tempo in Europa. Lo scopo è la conquista di Bruxelles e il ritorno all’antica Europa cattolica. Andrà a pregare per la riuscita dell’impresa sugli inginocchiatoi della Santissima Trinità dei Pellegrini? Chissà. Di certo i nuovi crociati che disprezzano la modernità vanno all’attacco, in Italia e in Europa. Il ritorno a un passato oscuro con mezzi contemporanei, potentissimi, inquietanti.
Eletto il presidente della Camera. Chi è Lorenzo Fontana: l’erede di Pertini e Ingrao che ti fa rivalutare La Russa. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Ottobre 2022
Negli anni Sessanta anche i ragazzini si interessavano alla politica. Credo che nacque così la generazione del ‘68. Leggevamo i giornali, sentivamo la radio. Calcio, ciclismo e politica. Quando facevo la prima media seguii con grande passione l’elezione del presidente della Repubblica. Ascoltavo lo scrutinio alla radio e segnavo i voti con una crocetta sul quaderno a quadretti di matematica. Segni, Segni, Segni, Terracini.
Mi sembrava una sfida quasi alla pari. Facevo tifo per Terracini non per comunismo infantile ma perché Segni era in vantaggio e a me piaceva l’idea della rimonta. Non sapevo che era impossibile. Vinse Segni, infatti. L’anno dopo seguii anche la campagna elettorale, quella del ‘63, e cercai di capire che differenza ci fosse tra comunisti e socialisti; poi assistetti all’elezione del presidente della Camera. Aveva un gran nome: Leone. Non aveva solo un gran nome, era un personaggio di straordinario rilievo, come giurista e come avvocato. Io non ero ancora in grado di apprezzare queste doti, e qualche anno dopo, ormai ventenne, andai su tutte le furie per la sua elezione al Quirinale, contro Moro, grazie ai voti dei fascisti di Almirante.
Leone durò poco alla presidenza di Montecitorio, perché lo chiamarono – lo facevano spesso quando non sapevano che pesci pigliare – a palazzo Chigi per fare un governo di transizione. Stava nascendo il centrosinistra e c’era un bel casino. Al posto suo elessero al vertice della Camera un ex magistrato, molto stimato: Brunetto Bucciarelli Ducci. Lo votarono anche i comunisti. Togliatti dichiarò che Bucciarelli “dava tutte le necessarie garanzie di competenza, prestigio e responsabilità”. Tra qualche riga ci torno su queste parole del feroce “Ercoli”.
Bucciarelli Ducci tenne con saldezza la presidenza, anche in momenti difficilissimi come il minacciato colpo di Stato del 1964 e poi l’inizio del travolgente ‘68. Se ne andò in punta di piedi e restò una figura di alto profilo anche se all’inizio degli anni 80 fu un po’ travolto dallo scandalo della P2.
Dopo di lui venne Pertini, partigiano e comunicatore e tempra senza paragoni nella sua generazione. Poi Ingrao, tra i politici del dopoguerra forse il più colto e il più nemico del potere, e poi il monumento Nilde Jotti, rispettato da tutti, ma proprio da tutti. Ecco, scusate se ho fatto un po’ di cronaca antica. Ma ieri, quando ho sentito che era stato eletto presidente della Camera Lorenzo Fontana, chissà perché, mi sono tornati in mente quei nomi lì: Bucciarelli, Leone, Pertini, Ingrao, Iotti, Napolitano… e poi i nomi più recenti: Boldrini, Fico, Fontana. Ho avuto un lieve giramento di testa. Ho pensato: deve essere passato ormai senza freni il motto e l’ideologia grillina: uno vale uno. Fico vale Ingrao.
Fontana lo ho conosciuto qualche giorno fa, perché abbiamo partecipato insieme a una trasmissione televisiva. Mi è sembrato un ottimo ragazzo. Poi ho sentito il suo discorso di insediamento, mi è sembrato sempre un ottimo ragazzo, col quale giocherei con piacere a calcetto, anche se temo che sia molto più forte di me. (Più forte a calcetto, dico…). Ma davvero sarà lui l’erede di Pertini? E in che modo è stato scelto? Mi tornano in mente le parole di Togliatti: “competenza, prestigio, responsabilità”. Bucciarelli aveva fatto parte della Democrazia cristiana clandestina, a Bari, insieme al giovane Moro. Non vi voglio nemmeno raccontare i precedenti politici di Pertini e Ingrao. E Fontana? Dicono che sia celebre per la sua opposizione all’aborto. Andiamo bene…
Mi son riletto l’articolo che ho scritto ieri su La Russa. E poi ho riletto anche l’articolo che ha scritto il mio amico David Romoli. Credo che sia necessaria una correzione. Netta. Siamo stati molto critici con La Russa. Errore. Dopo aver ascoltato Fontana ho pensato che Ignazio sia un gigante. Sì, sì, fascista, fascista finché vi pare, ma un bel tipo, che fa parte della storia della Repubblica, che l’ha vissuta, che la conosce, che sa anche parlarne, che ha dimestichezza con le idee e con le ideologie… se poi gli scappa l’idea di fare la festa del regno, e un pizzico di nostalgia per il ventennio non la nasconde mai, francamente glielo perdoniamo. Contrordine, compagni: dopo aver ascoltato Fontana ti viene spontaneo dire così: per fortuna che c’è La Russa…
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Nel discorso del presidente Fontana le omissioni sono più importanti delle parole lette. GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sud il 18 ottobre 2022
DA TIFOSO del Verona Hellas, Lorenzo Fontana, il 14 ottobre, ha giocato a Montecitorio la ‘’partita della vita’’. È giovane, plurilaureato, in grazia di Dio, devoto della Madonna; pertanto può aspirare ad un futuro ancor più radioso. Essere stato eletto presidente della Camera ovvero terza autorità dello Stato è comunque un viatico di tutto rispetto.
È in queste circostanze che un leader politico deve dare il meglio di sé preparando, con i suoi collaboratori, un discorso che trapassi le mura di Montecitorio e, attraverso i mezzi di diffusione di massa, trasmetta ai cittadini una visione di futuro per la Repubblica. Non servono parole difficili, citazioni non comuni, perché “di parole che tutti odono sono scritte le frasi che nessuno ha udito mai’’.
Nel caso del discorso del presidente Fontana le omissioni sono molto più importanti e significative delle parole lette. Il neo presidente doveva presentarsi agli italiani smentendo le preoccupazioni che la sua elezione – a torto o a ragione – aveva suscitato. Prima di lui, al Senato, Ignazio La Russa si era accorto di questa esigenza e si era sforzato di riportare la sua storia personale e quella del suo partito all’interno dei valori della Costituzione, che non è mai neutra nei confronti della guerra civile che divise gli italiani tra il 1943 e il 1945, ma è intrisa dei valori che risultarono vincitori e bandisce in modo permanente quelli di coloro che combatterono “dalla parte sbagliata’’.
Fontana sa bene che esiste un’intera letteratura riguardante la sua vicinanza ideale a Vladimir Putin. In tante occasioni ha riconosciuto alla Russia una missione rigeneratrice della decadenza occidentale, con i medesimi argomenti del Patriarca Kirill. Molti italiani – che Fontana dovrà rappresentare – in merito alla sua elezione la pensano come Enrico Cisnetto che nella newsletter settimanale di Terza Repubblica ha scritto: “Vorrei essere una mosca a Mosca. Per poi entrare al Cremlino da qualche finestra lasciata aperta, superare i plotoni di esecuzione – se tanto mi dà tanto, devono farle fuori con la stessa ferocia con cui ammazzano gli ucraini – e infilarmi nelle stanze di Putin e dei suoi tirapiedi, per vedere lo spettacolo delle risa sguaiate e delle mani sfregate fino a consumar la pelle all’ascolto delle notizie provenienti da Roma. Figurati come se la ridono – ha aggiunto Cisnetto – nel vedere che un paese pilastro dell’Europa e della Nato – cioè quelli che Putin considera i suoi arcinemici – manifesta limiti clamorosi di tenuta della maggioranza uscita vincitrice dalle urne solo tre settimane fa, prima ancora che il Capo dello Stato abbia conferito l’incarico di formare il governo. E sai che piacere avrà fatto a quei signori trovarsi eletto presidente della Camera un fido amico della Russia, uno che ha indossato le t-shirt con la scritta “no sanzioni alla Russia”, che al tempo dell’annessione della Crimea bacchettava la Ue cattiva che non capisce la volontà di un popolo che “sente di essere tornato alla casa madre”, e che ancora dieci giorni prima della criminale invasione dell’Ucraina spendeva parole al miele per Putin. Così è, anche se non vi pare. Nel suo discorso il neo presidente non ha mai nominato Putin, non ha fatto riferimenti all’aggressione dell’Ucraina, ma la guerra era ricordata per l’esigenza di cercare la pace, con un occhio attento al Vaticano. «Il Papa sta svolgendo un’azione diplomatica a favore della pace senza uguali».
Poi, ricordando gli impegni iscritti all’ordine del giorno della XIX legislatura, il neo presidente è tornato sull’argomento con toni generici: “la prosecuzione dell’impegno nella ricerca della pace nel generale quadro della comunità internazionale e nei rapporti tra Ucraina e Russia’’. Un auspicio che rimane al di sotto di qualsiasi “minimo sindacale’’, tenuto conto delle critiche nei confronti dello zar del Cremlino, pronunciate in decine di occasioni ufficiali dal capo dello Stato: quel Sergio Mattarella definito da Fontana “perno della nostra nazione e fondamentale garante della nostra Costituzione’’. Poi dopo la più grave delle omissioni sulla guerra, il presidente ha lanciato la ‘’dottrina delle diversità’’, echeggiando vagamente concetti d’antan del Senatur, pubblicamente elogiato come Maestro.
“La ricchezza dell’Italia risiede proprio nella sua diversità e il compito delle istituzioni italiane è proprio quello di sublimare tali diversità, di valorizzarle attraverso le autonomie, nelle modalità previste e auspicate nella Costituzione. Il ruolo del Parlamento – ha proseguito un Fontana ispirato – sia all’interno delle aule che nella rappresentanza esterna, non deve prescindere dalla valorizzazione delle diversità e non deve cedere all’omologazione’’.
Poi il peana. “L’omologazione è uno strumento dei totalitarismi, delle imposizioni centrali sulle espressioni della volontà dei cittadini’’. Come la mettiamo con l’accusa di omofobia, di razzismo, di suprematismo bianco? Anche qui sarebbe stato opportuno fornire dei chiarimenti; chiedere delle scuse. Certo, sui “nuovi diritti civili’’ (che nel pensiero della sinistra hanno incautamente sostituito il marxismo-leninismo), Fontana ha delle opinioni diverse da quelle di Alessandro Zan (il che non è una colpa); ma nel momento in cui si arriva al vertice delle istituzioni sarebbe stato opportuno un po’ di revisione autocritica rispetto ad affermazioni discutibili più volte ribadite. Limitiamoci a riportare alcune performance di Fontana quando era ministro. “Abroghiamo la legge Mancino, che in questi anni strani si è trasformata in una sponda normativa usata dai globalisti per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano”.
E ancora: “I burattinai della retorica del pensiero unico se ne facciano una ragione: il loro grande inganno è stato svelato”. “I fatti degli ultimi giorni – scrisse ancora Fontana – rendono sempre più chiaro come il razzismo sia diventato l’arma ideologica dei globalisti e dei suoi schiavi (alcuni giornalisti e commentatori mainstream, certi partiti) per puntare il dito contro il popolo italiano, accusarlo falsamente di ogni nefandezza, far sentire la maggioranza dei cittadini in colpa per il voto espresso e per l’intollerabile lontananza dalla retorica del pensiero unico. Una sottile e pericolosa arma ideologica studiata per orientare le opinioni’’.
Poi ecco riemergere, sia pure in modo equivoco il demone del sovranismo. “L’Italia deve dare forza alla propria peculiare natura, senza omologarsi a realtà estere più monolitiche e a culture che non diversificano. Vedete la diversità non è rottura, non è indice di superiorità di alcune realtà su altre viste erroneamente come inferiori, ma è espressione di democrazia e di rispetto della storia’’. A questo punto diventa chiaro che “i gravi problemi e le minacce esterne che provano a indebolire il nostro Paese’’, non provengono – secondo Fontana – dal Cremlino, ma da chi attraversa, con mezzi di fortuna, quei confini che Matteo Salvini vorrebbe difendere.
Non solo Fontana: tutte le volte che la Lega si è schierata contro le sanzioni alla Russia. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 19 ottobre 2022
«Bisogna fare attenzione alle sanzioni: potrebbero essere un boomerang. Loro, la Russia erano preparati da tempo, noi in Europa no» ha detto il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, a “Porta a Porta”. Di fatto continua la linea ufficialmente non a favore di Putin, ma nemmeno delle sanzioni che il presidente russo non vuole
«Bisogna fare attenzione alle sanzioni: potrebbero essere un boomerang. Loro, la Russia erano preparati da tempo, noi in Europa no», ha detto il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, a “Porta a Porta”. Comincia così il mandato del leghista appena eletto terza carica dello stato. Il suo curriculum politico e i suoi rapporti con la Russia, sin da subito avevano suscitato perplessità.
Nel 2014 insieme ai colleghi leghisti Matteo Salvini e Gianluca Buonanno si era messo la maglietta per fermare le sanzioni inscenando una protesta a Bruxelles. Da allora la Lega si è detta sempre contraria e, dopo l’invasione del 24 febbraio ha moderato i toni sottolineando solo i disagi che comportano all’Italia e all’Europa.
«Abbiamo rapporti commerciali importanti con la Russia e per questo abbiamo interesse a mediare», diceva lo stesso Fontana a metà di quel mese.
DOPO L’INVASIONE
Salvini nei mesi ha aggiustato la linea del partito nei confronti di Mosca. Né a favore di Putin, ma nemmeno delle sanzioni. Il 23 febbraio si lanciava contro Josep Borrell: «Per il capo della politica estera dell'Unione europea, le sanzioni contro la Russia servono a bloccare lo shopping dei russi a Milano e i loro party a Saint Tropez siamo al ridicolo. O forse al tragico».
In campagna elettorale il tenore è lo stesso: «Ho cambiato idea su Putin? Chi scatena una guerra ha sempre torto». Prima, «tutti, me compreso prima avevano ottima idea. Poi, quando scateni una guerra passi dalla parte del torto. Quello che mi preme è che le sanzioni che l'Ue ha giustamente messo in campo contro la Russia per metterla in ginocchio non siano pagate dagli italiani. Bisogna fermare la guerra con ogni mezzo, ma non possono essere gli italiani a pagare».
Il 7 settembre proseguiva: «La Lega ha votato tutti i provvedimenti per proteggere l'Ucraina e chi fa la guerra ha torto». Ma ribadiva che la Russia stava continuando a raccogliere denaro «mentre l'Italia e l'Europa stanno soffrendo, le sanzioni oggettivamente non servono, noi facciamo parte della squadra internazionale dei paesi liberi democratici occidentali, non decide l'Italia da sola e se si decide di andare avanti così io chiedo solo che a rimetterci non siano gli italiani».
Le sanzioni «stanno mettendo in ginocchio i miliardari a Mosca o i pensionati a Roma? È nei fatti che più che punire Mosca puniscano Milano, Roma, Palermo. Allora io dico: andiamo avanti insieme, non voglio portare l'Italia sul cucuzzolo di una montagna, ma chiedo protezione per gli italiani, perché le bollette della luce e del gas sono un’emergenza nazionale per tutti».
Anche al meeting di Comunione e liberazione, durante il confronto fra i leader inclusa l’atlantista Giorgia Meloni, collega di coalizione, il problema era l’Unione europea: «Non vorrei che le sanzioni stiano alimentando la guerra. Spero che a Bruxelles stiano facendo una riflessione», concludeva.
Il 6 settembre: «L'idea sulla guerra quale sarebbe? Noi continuiamo con le sanzioni; tu ti arrendi, fermi i carri armati, ti ritiri e la smetti di rompere le scatole al mondo. I primi 6 mesi di sanzioni alla Russia hanno provocato questo effetto ? No». La richiesta resta sotto traccia: «Facciamo finta che non sia così? Andiamo avanti con le sanzioni? Andiamo avanti con le sanzioni. Mettiamo al tetto al vostro gas, e ve lo paghiamo quanto diciamo noi. Piccolissimo problema: quello là cosa può fare? Chiudere il rubinetto».
SALVINI AL GOVERNO
«Dal governo spero di potere presto raccogliere l’appello del presidente della Confindustria Russia: via queste assurde sanzioni», si leggeva sul Corriere della Sera quattro anni fa. Il piano per abbattere le sanzioni è stato quasi attuato. Dopo le elezioni del 2018 il contratto di governo tra Movimento e Lega recitava: «Si conferma l’appartenenza all’Alleanza atlantica, con gli Stati Uniti d’America quale alleato privilegiato, con una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico e commerciale potenzialmente sempre più rilevante. A tal proposito, è opportuno il ritiro delle sanzioni imposte alla Russia, da riabilitarsi come interlocutore strategico al fine della risoluzione delle crisi regionali (Siria, Libia, Yemen)».
Da lì la visita di stato di Vladimir Putin e del leader della Lega a Mosca. Mentre organizzava incontri con gli imprenditori di Confindustria Mosca si parlava addirittura di veto, l’ultima carta da usare nella partita con l'Ue, senza poter «escludere nulla». Il governo con il Movimento si è sciolto poche settimane dopo che si è scoperto che l’ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, trattava un finanziamento con Mosca per il partito attraverso la compravendita di gasolio.
A febbraio 2020: «Continuo a pensare che la Russia debba essere un partner che non va lasciato nelle braccia della Cina: credo che la politica delle sanzioni sia demenziale. Lo dico da 4 anni e non ho cambiato idea».
Il 20 settembre del 2021 preconizzava: «Ci saranno tanti cambiamenti sulla politica estera penso che avere buoni rapporti con la Russia sia fondamentale, soprattutto dopo il problema in Afghanistan». Quindi «rinnovare a vita le sanzioni contro la Russia non è utile per nessuno», concludeva Salvini.
L’intenzione di togliere le sanzioni è rimasta fino all’inizio della invasione. La delusione per il fatto che la Lega al governo non ci sia riuscita è arrivata direttamente da Silvio Berlusconi, che nel 2019 se la prendeva con lui: «Salvini aveva promesso, una volta al governo, che avrebbe tolto le sanzioni: non l'ha fatto. Bisogna riportare la Russia in Occidente. Non possiamo girare la testa dall'altra parte», aveva sottolineato il leader di Forza Italia nel corso della kermesse #IdeeItalia organizzata dal partito a Milano.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Dalla Russia, ai gay, all’aborto. Fontana spiegato da Fontana. Il Domani il 14 ottobre 2022
Abbiamo scelto 14 citazioni che in passato sono state pronunciate dal nuovo presidente della Camera. Spiegano meglio di tanti commenti quali sono le sue idee politiche
«No a un presidente omofobo e pro-Putin». Così il deputato Alessandro Zan e alcuni suoi colleghi hanno accolto l’elezione di Lorenzo Fontana a presidente della Camera. Ma chi è veramente il deputato leghista? Una carrelata delle sue frasi migliori può sicuramente essere utile per avere un’idea.
«Lo diciamo da sempre: i detenuti stranieri devono scontare la pena nei rispettivi paesi d’origine. Certo non basta dirlo e sarebbe anche importante non essere i soli. Gli altri preferiscono parlare di amnistia e indulto. Noi no».
17 maggio 2013
«Il capo dello stato è il servo intelligente di questi potentati europei che stanno impoverendo la nostra economia. Napolitano, ricordo, è colui che mette prima Monti e poi Letta al governo per desiderio di Bruxelles. Ma adesso quelli come lui hanno paura, temono la forza della Lega e dei suoi alleati europei. Napolitano è un simpatico 88enne, ma forse è ora che se ne vada in pensione mentre la Lega manderà a casa i suoi amici europei».
4 febbraio 2014
«La battaglia contro l’euro ovviamente è il primo punto del nostro programma perché rimanendo nella moneta unica le nostre economie non potranno mai ripartire. Poi però vogliamo cambiare la rotta dell’Europa anche sull’immigrazione clandestina, sulla politica di allargamento dell’Unione a paesi che poco o nulla hanno a che fare con noi e sulla difesa dei nostri prodotti dalla concorrenza sleale dei prodotti esteri, se occorre anche con l’introduzione di barriere doganali».
27 marzo 2014
«È giusto avere una limitazione del numero degli stranieri, anche europei, nelle squadre di calcio italiane. Quando c’erano al massimo due-tre stranieri andava bene, questa è la direzione per far tornare il calcio uno sport con sentimenti di appartenenza».
31 luglio 2014
«La vittoria di Russia Unita, il partito di Putin, nelle elezioni regionali in Crimea è l’attestazione di come il popolo della Crimea sente di essere tornato alla casa madre. Non si tratta di essere pro o contro Putin, ma pro o contro un popolo».
16 settembre 2014
«Presepe e crocifisso appartengono alla nostra cultura, fanno parte della nostra tradizione e andrebbero spiegati nelle scuole. Invece abbiamo insegnanti e presidi che forse non conoscono gli usi e i costumi del proprio paese e addirittura vorrebbero vietare l’esistenza del Natale».
1 dicembre 2015
«Dietro lo ius soli si cela solo un interesse elettorale della sinistra, che non si fa scrupoli a far politica sulla pelle dei bambini. Quella legge è un incentivo all’invasione. È il cavallo di troia per la sostituzione dei nostri popoli che rischiano la colonizzazione nel giro di una generazione».
12 ottobre 2016
«Viktor Orbán ha ragioni da vendere: il governo italiano, con la sua politica delle porte aperte e dell’accoglienza facile, sta mettendo in pericolo tutta l’Europa».
28 ottobre 2016
«La proroga delle sanzioni alla Russia è l’ennesimo atto autolesionistico dell’Europa. Mentre l’America si prepara a una nuova stagione di apertura alla Russia, grazie al presidente eletto Trump, l’Europa continua a fomentare la guerra contro Mosca».
15 dicembre 2016
«Nelle università non vedo la necessità di tutti questi laboratori gender che interessano a una sparuta minoranza di persone. Non comprendo il libretto alias che riguarda pochissime persone. Queste iniziative servono agli studenti o sono un laboratorio di indottrinamento? A me pare che ci sia la volontà specifica da parte di un nucleo di persone di educare alla teoria del gender».
25 aprile 2017
«La Lega è contro l’Europa della massoneria, dei Soros, della grande finanza, della globalizzazione, dell’omologazione, di chi vuole l’invasione islamica delle nostre terre».
21 maggio 2017
«Restringere il diritto all’aborto è un tema che nel Contratto non c’è, credo anche che nella maggioranza non esista una sensibilità di questo tipo. Purtroppo, a mio modo di vedere».
2 giugno 2018
«Abroghiamo la legge Mancino, che in questi anni strani si è trasformata in una sponda normativa usata dai globalisti per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano».
3 agosto 2018
«La sinistra s’indigna per la visita del primo ministro di un paese europeo (Viktor Orbán ndr). Soros invece era il benvenuto!»
29 agosto 2018
VITA E OPERE DEL PRESIDENTE DELLA CAMERA. Lorenzo Fontana, dall’amico dell’oligarca di Putin al padre spirituale contro i gay. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 14 ottobre 2022
Vicino all’organizzazione mondiale che si batte per la famiglia tradizionale, Fontana è notoriamente filorusso. E ha come guida un parroco durissimo contro gay e aborto
Lo spirito filorusso di Lorenzo Fontana è secondo solo a Gianluca Savoini, il regista, cioè, della trattativa all’hotel Metropol di Mosca che aveva l’obiettivo di portare denaro fresco del Cremlino nelle casse della Lega di Salvini in ottica campagna elettorale per le Europee del 2019. Fontana, oltre a essere putiniano di ferro, è il collante del partito con i cattolici radicali di Pro Vita e con i collaboratori più stretti dell’oligarca ortodosso Konstantin Malofeev, pure lui coinvolto in alcune trattative con Savoini.
Fontana durante il suo mandato da europarlamentare ha stretto queste relazioni soprattutto attraverso l’ambiente del World Congress of family, l’organizzazione mondiale che si batte per la famiglia tradizionale, contro le coppie gay e l’aborto. Del Wcf fa parte Alexey Komov, fedelissimo di Malofeev, ospite d’onore al congresso della Lega Nord del dicembre 2013, ossia l’evento di incoronazione di Salvini a segretario del partito.
L’AMICO CARO DELL’OLIGARCA
Non è un caso che il Wcf abbia organizzato uno degli eventi annuali più importanti a Verona nel 2019, l’anno in cui la Lega governava il paese insieme ai Cinque stelle. E Fontana era ministro della famiglia. Al congresso veronese hanno partecipato le sigle più estreme dalla destra politica e religiosa. Dalle associazioni pro vita alle sigle collegate ai neofascisti di Forza Nuova e di altri gruppi “neri” internazionali.
Il ministero di Fontana all’epoca ha concesso il patrocinio all’evento non senza polemiche. Tanto che poi è stato ritirato, perché la presidenza del consiglio dei ministri si smarcò da Fontana: «Una sua iniziativa personale». L’allora ministro della Famiglia e disabilità era tra i relatori presentati nel programma, insieme al suo leader Salvini. Tra gli speaker, naturalmente, c’era anche Komov.
Una vecchia conoscenza, dicevamo, quella tra Fontana e Komov, l’uomo dell’oligarca considerato lo stratega del Cremlino nei rapporti con i partiti di estrema destra in Europa e sotto sanzioni per essere uno dei più violenti sostenitori dell’invasione russa in Ucraina.
Uno dei primi incontri pubblici tra Fontana e Komov risale al 2014. A Rovereto, in provincia di Trento, erano seduti allo stesso tavolo nel palazzo della fondazione cassa di Risparmio, il leghista originario di Verona, al tempo europarlamentare, e il russo, console di Malofeev in Occidente. Titolo del convegno: «Russia ed Europa, le sfide del terzo millennio». Tra gli sponsor dell’evento troviamo una serie di associazioni collegate a gruppuscoli radicali con radici neofasciste, l’organizzazione Pro Vita (molto vicina anche a Forza Nuova), il World congress of family e il consolato russo a Bolzano.
Fontana ha avuto anche rapporti con Palmarino Zoccatelli, leader dell’associazione Veneto-Russia, e imprenditore che ha investito nella piccola repubblica di Calmucchia, zona
meridionale della Federazione, Mar Caspio, l’unico distretto russo a maggioranza buddhista. Qui Zoccatelli aveva fondato una società con Eliseo Bertolasi, di recente presentato tra gli osservatori “imparziali” del referendum farsa di annessione dei territori ucraini alla federazione russa.
L’EX BANCHIERE DELLO IOR
Di Fontana pochi ricordano una sua fatica letteraria. Un libro scritto con il banchiere Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior, il forziere del Vaticano. Economista cresciuto in McKinsey, è stato consigliere dell’allora ministro Giulio Tremonti, membro del consiglio d’amministrazione di Cassa depositi e prestiti, presidente del fondo F2I.
Il tema del libro è la famiglia. Vero e proprio manifesto politico sulla famiglia intesa in senso sovranista e tradizionale. È stato pubblicato a febbraio del 2018 da Fede e Cultura, una piccola cooperativa editoriale di Verona.
Si chiama La culla vuota della civiltà e ha l’ambizioso scopo di spiegare l’origine della crisi del nostro paese. La risposta? Gli italiani fanno pochi figli, questa la principale causa del declino economico della nazione. Tesi a cui segue un corollario caro ai sovranisti: invece di incentivare le nascite, i governi precedenti hanno scelto di colmare il gap demografico con i flussi migratori.
Il libro è accompagnato da una prefazione firmata da Matteo Salvini. Le tesi espresse sono quelle che Fontana ha ribadito più volte schierandosi contro l’interruzione volontaria di gravidanza, i matrimoni gay, le unioni civili.
IL PADRE SPIRITUALE
Un’inchiesta del settimanale L’Espresso nel 2018 aveva intercettato il padre spirituale di Fontana, Vilmar Pavesi. Parroco di riferimento del mondo pro vita, durissimo contro gay e aborto. Sui primi diceva: «Sono istigati dal diavolo, dietro ogni peccato di sensualità e lussuria c’è la mano del maligno».
Pessimo pure il suo giudizio sulle donne: «In questa chiesa vengono solo uomini, perché le ragazze e le donne si sono molto adeguate a questo mondo e non vogliono andare controcorrente. E poi ci vuole uno sforzo mentale per seguire una messa in latino. I ragazzi con i libri in mano si trovano più a loro agio».
Infine sull’aborto: «È un crimine. Una società che uccide i propri figli, lo fa per un capriccio. Cosa era un principe? Era un padre di tutti i padri. È ereditario, perché quella era la famiglia e questo dà un grande senso di stabilità. L’aborto va a distruggere l’idea di civiltà. È un capriccio. Non esiste famiglia senza rinuncia».
Così parlava la guida religiosa dell’allora ministro, oggi eletto dalla destra presidente della Camera di tutti gli italiani.
GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Chi è Emilia Caputo, moglie di Lorenzo Fontana: le nozze con rito tridentino e l’unica apparizione pubblica. Chiara Capuani su Il Riformista il 17 Ottobre 2022
Riservata, gelosa della sua privacy e tifosa sfegatata del Napoli. Emilia Caputo, 42enne partenopea è la moglie del neo presidente della Camera Lorenzo Fontana. Laureata in legge e dirigente all’Europarlamento, Caputo è finita sotto i riflettori sia per la carica appena assunta dal marito che per il post – che ha suscitato molto scalpore sui social – pubblicato dalla giornalista del Fatto Quotidiano Elisabetta Ambrosi, che ha dichiarato di disprezzare Lorenzo Fontana così come sua moglie: “Chi si accoppia a tali personaggi è come minimo connivente“, ha scritto su Facebook prima di eliminare il suo sfogo a causa dei numerosi commenti negativi ricevuti.
Caputo, che non ha risposto pubblicamente alle offese nei suoi confronti, ha conosciuto suo marito al Parlamento Europeo, dove lavorava da ben prima che il presidente della Camera approdasse nel 2009, eletto nelle liste per le Europee del Carroccio. Tra i due sembra sia stato un vero e proprio colpo di fulmine che si è concluso con un matrimonio celebrato con duplice rito: canonico e tradizionalista tridentino, l’antica funzione in latino che si svolge secondo la tradizione stabilita al Concilio di Trento del 1570 e in vigore fino al Concilio Vaticano II degli anni Sessanta del Novecento.
A celebrare il rito è stato don Wilmar Pavesi, sacerdote ultra conservatore molto vicino ai tradizionalisti cattolici e citato spesso come “consigliere spirituale” di Fontana, poi trasferitosi da Verona a Roma. A presenziare alle nozze anche i due pilastri della carriera politica di Fontana Flavio Tosi e Matteo Salvini. Dal matrimonio tra Fontana e Caputo è nata la figlia Angelica, che vive a Bruxelles con la madre, città che il presidente della Camera raggiunge appena ha un po’ di tempo libero.
Nonostante Emilia Caputo sia molto discreta – la sua unica apparizione pubblica al fianco del marito risale al 2018, quando lui fu nominato ministro alle Politiche per la famiglia e la disabilità – non ha mai nascosto di sostenere le idee e le convinzioni del compagno, anche se non ha mai espresso pubblicamente le sue posizioni politiche. Tuttavia, Caputo sembra concorde sulla linea ultraconservatrice del marito che si è dichiarato contro l’aborto (definendolo “la prima causa di femminicidio nel mondo“) e contro le unioni civili e l’educazione sessuale “pro-LGBT”. Insomma, una comunione di intenti che sembra incrinarsi solo su un fronte, quello calcistico. Mentre, come abbiamo visto, lei è tifosa del Napoli, lui sostiene la squadra della sua città d’origine: l’Hellas Verona.
La sua famiglia vive a Bruxelles dove lavora la moglie (Europarlamento). “Con mio cognato, tifoso del Napoli, parliamo di tutto, ma mai di calcio” ha spiegato Fontana. Chiara Capuani
Luca Zaia, "la mia casa con la muffa e i muri rotti". Libero Quotidiano il 23 novembre 2022
Pubblichiamo un estratto del libro «I pessimisti non fanno fortuna» del governatore del Veneto Luca Zaia (Marslio).
Durante gli anni dell'università, a Udine, dividevo la casa con altri tre studenti. La parola «casa» è un eufemismo perché non credo di aver mai visto una sistemazione più precaria di quella, nemmeno quando passavo le notti sulle sdraio in spiaggia durante i primi viaggi da ragazzo, senza un soldo in tasca, alla scoperta del mondo. Era un appartamento nel capoluogo friulano, collocato in un edificio dall'aspetto estremamente trascurato. Se l'esterno non era certo invitante, l'interno rischiava di esserlo ancora meno, con la muffa che affiorava da tutte le parti e i muri sbrecciati: un alloggio di due stanze, bagno e cucina.(...) In quell'abitazione fatiscente ma che si adattava alla perfezione alle nostre necessità, avevamo trovato un televisore, anche quello, a dir poco, sgangherato. Non potevamo nemmeno lontanamente immaginare che un giorno sarebbe arrivato internet né che si sarebbe diffuso fino a diventare alla portata di chiunque. Il nostro «ponte» con il mondo esterno era quella tv, da cui seguivamo i notiziari e ci concedevamo qualche programma la sera. (...)
DESERT STORM
È da quello schermo obsoleto, infatti, che ho visto per la prima volta scoppiare una guerra «in diretta». Era il gennaio del 1991. All'inizio di agosto dell'anno precedente l'Iraq di Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait, suscitando reazioni diplomatiche in tutto il mondo. La situazione internazionale, sotto la guida di George Bush, sembrava avviarsi ogni giorno di più verso l'intervento militare a fronte della caparbietà irachena nel rivendicare come suo diritto l'invasione dello Stato del Golfo Persico. Le discussioni anche tra noi giovani ruotavano tutte attorno all'attualità di quelle settimane. Il giorno in cui è scaduto l'ultimatum delle Nazioni Unite al dittatore iracheno, eravamo tutti col fiato sospeso, dominava una sensazione generale di ansia e di attesa.
Un'attesa spezzata improvvisamente dall'annuncio, nella notte italiana, che era iniziata l'operazione Desert Storm con cui le truppe della coalizione intendevano liberare il Kuwait. Contemporaneamente le immagini del conflitto e dei bombardamenti su Baghdad cominciavano a essere diffuse. Per la prima volta in vita mia, a quasi ventitré anni, la guerra cessava di essere un racconto che ascoltavo dal nonno o da altri adulti. (...) Mi arrivava in casa, con le immagini in diretta delle esplosioni che illuminavano il cielo iracheno o dei mezzi corazzati che sfidavano il deserto. Appartengo a una generazione cresciuta con i racconti della guerra vissuta dai nonni, che la descrivevano con episodi e vicende ben circostanziati e molto vividi. Solo da adulto avrei compreso appieno in quale fase delicata si trovava la nostra società quando sono venuto al mondo, nel 1968: apoco più di una ventina d'anni dalla fine del secondo conflitto mondiale e agli albori della grande contestazione studentesca, nel pieno degli effetti del boom economico, ma in un contesto sociale in cui ancora non erano state superate le ferite della guerra. Nei nostri paesi, infatti, erano ben presenti i segni lasciati da quella tragedia: in non poche famiglie c'era un congiunto che non aveva mai fatto ritorno dalla Russia, dalla Grecia, dalla Jugoslavia o da qualche altro fronte.
LE FAMIGLIE
Quando ci ritrovavamo tra noi ragazzi, nessuno si sarebbe stupito se qualche coetaneo avesse detto di non aver conosciuto il nonno perché era uno dei tanti caduti o dispersi tra il 1940 e il 1945. Anche i segni della guerra civile che ha caratterizzato gli ultimi due anni del conflitto erano noti. Non era un mistero, infatti – anche se l’argomento era trattato dai più come qualcosa da lasciare sottotraccia –, il motivo per cui c’era gente che dopo anni si guardava ancora di traverso; a volte anche persone provenienti dallo stesso nucleo familiare.All’origine dell’ostilità c’erano vecchie ruggini che risalivano agli anni di quella che era stata la Resistenza per gli uni e l’ultima esperienza del regime fascista per gli altri. Le scelte fatte in gioventù in quei tempi tribolati sembravano essere rimaste come un marchio per tanti, così come i ricordi di molte tragedie.
Nelle zone da cui provengo era ancora nella memoria comune il ricordo delle deportazioni e delle rappresaglie compiute dai tedeschi e dai reparti fascisti, ma non erano state dimenticate nemmeno le stragi del Bus de la Lum, una foiba sull’altopiano del Cansiglio, che erano attribuite a bande partigiane. Sapevamo anche di qualcuno che parlava veneto come noi ma con un accento marcatamente diverso, che testimoniava come tra gli effetti peggiori della guerra ci fosse anche la scelta di libertà di coloro che avevano preferito la via dell’esodo, per non restare vittime dell’odio etnico scatenato dalle bande titine nelle regioni orientali dell’Adriatico. A scuola, ai miei tempi, non si parlava delle foibe, dramma che per decenni è stato ignorato fino all’istituzione per legge del Giorno del Ricordo.
IDENTITÀ NEGATA
Mi sono reso conto in seguito di quale dramma abbiano rappresentato le foibe e l’esodo. In particolare conoscendo di persona tanti esuli giuliani e dalmati che, abbandonandola propria casa, gli affetti,i beni ele amicizie, hanno scelto il Veneto per continuare liberi la loro vita; il segno di un antico legame che risale ai tempi della Serenissima. Da presidente della Regione, ogni anno in questo giorno dedico a loro un messaggio, così come faccio nel Giorno della Memoria per ricordare tuttii cittadini ebrei perseguitati dal nazifascismo e vittime dell’Olocausto. Soffermarsi per riflettere sugli orrori del passato è il modo migliore per apprendere il vero insegnamento della storia. Onorare le vittime di simili tragedie non è e non deve essere un atto politico, ma l’espressionediunamemoria e una coscienza condivisa che impone il rifiuto e la condanna di qualsiasi sistema che si organizza sull’odio razziale ed etnico o sulla persecuzione a danno della libera e civile convivenza. Sono convinto che conservare la memoria di fronte agli orrori della storia sia l’unica arma per neutralizzare tentazioni di minimizzare, negare o rileggerela veraportata di quegli eventi.
IL CASO RIPORTATO SU «L’ESPRESSO». Zaia e i lavori contestati nella villa: «Fatti gratis». «Pagai, ho le prove». Il restauro, nel 2004, dell’ex residenza del governatore a Refrontolo. Oggi è un resort di lusso. Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 25 giugno 2022.
Chi pagò, nel 2004, i lavori di sistemazione dell’ex villa di Luca Zaia? A insinuare i sospetti è L’Espresso che riporta a galla gli atti di una vecchia controversia legale che vide contrapporsi l’allora presidente della Provincia di Treviso alla Cadore Asfalti Spa, impresa con sede nel Bellunese che si è aggiudicata diversi appalti pubblici anche per conto di Anas e Veneto Strade, «di cui all’epoca Zaia era consigliere di amministrazione». Il settimanale avanza il dubbio che la società lavorò gratis, come favore personale al politico. Il governatore ribatte di avere le prove del contrario.
La villa contestata
A centro della querelle c’è un bellissimo edificio ottocentesco che si affaccia sulle colline del Prosecco. Il governatore lo acquistò nel 2004 all’asta, pare per 230 mila euro. Lo sistemò, ci trasferì per un certo periodo la propria residenza e poi, nel 2011, lo vendette al «re della carta», l’imprenditore Bruno Zago, per una cifra che supererebbe i due milioni di euro. Oggi è un resort di lusso, che propone agli ospiti di soggiornare nelle proprie stanze e godere di un giardino di 1.500 metri quadrati con solarium e piscina privata. Al centro della polemica sono finiti proprio alcuni dei lavori di sistemazione della proprietà, ordinati all’epoca da Zaia. Salta fuori che nel 2007, quand’era nel frattempo diventato vicepresidente della Regione, si rivolse al tribunale di Treviso per chiedere 382 mila euro di risarcimento alla Cadore Asfalti. Nell’atto di citazione, l’avvocato di Zaia scrive che il giardino terminava con un ripido pendio e che il suo cliente, «tra l’inverno e la primavera del 2004» aveva incaricato la società bellunese di eseguire un’opera di contenimento e di rinforzamento della scarpata. Intervento che veniva fatto «mediante la realizzazione di scarpate in terra rinforzate con geogriglie di poliestere rivestito di Pvc, con casseri a perdere in rete elettrosaldata per una lunghezza di 35 metri e un’altezza variabile tra i 2 e i 5 metri». Ma i lavori si erano subito dimostrati inadeguati: sempre nel 2004, a seguito di forti piogge, parte dell’opera era collassata franando a valle e costringendo a una serie di nuovi interventi che però, negli anni successivi, non hanno evitato la formazione di altre crepe e di ulteriori frane.
La contestazione sui lavori
Che i lavori non fossero stati eseguiti correttamente lo dice anche il perito nominato dal giudice, che rileva una serie errori: dalla «scelta dell’utilizzo delle terre armate» che «non appare idonea», fino alla mancata realizzazione di una rete di drenaggio che avrebbe «impedito lo smaltimento delle infiltrazioni d’acqua». Questo il tema del contenzioso, che poi non arrivò a sentenza perché le parti raggiunsero un accordo. Oggi il problema per Zaia è di tutt’altro tenore. L’Espresso, infatti, gli rinfaccia alcuni passi del documento col quale la Cadore Asfalti replicò all’atto di citazione. In quelle pagine si sostiene che uno dei proprietari dell’impresa «all’incirca a fine febbraio del 2004 venne contattato da Luca Zaia» il quale «in virtù del rapporto di conoscenza tra loro» gli chiese «di mettergli a disposizione, per alcuni giorni, qualcuno degli operai della propria impresa per la realizzazione di non meglio precisati lavori nell’ambito di quelli che stava eseguendo per la ristrutturazione di una casa a Refrontolo». L’imprenditore, visto che «l’apertura dei cantieri inizia non prima di fine marzo e che pertanto molti dei dipendenti erano in quel periodo liberi (...) acconsentì a favorire in tal modo (l’allora presidente della Provincia, ndr)». Sempre stando alla «memoria» difensiva, gli operai prestati dalla Cadore Asfalti hanno operato nella villa «realizzando quanto di volta in volta richiesto, su incarico, istruzioni, indicazioni» che arrivavano direttamente da Zaia, visto che risultava responsabile ed esecutore dei lavori. Insomma, se i terreni cedevano la colpa era di chi aveva ordinato e coordinato l’intervento, e cioè il padrone di casa.
La replica del governatore
Ma il sospetti sono ben altri. Perché nell’atto depositato dall’impresa si legge anche che «a fronte dei lavori realizzati nel periodo da metà marzo a fine marzo 2004, nulla il dottor Zaia ha pagato né gli è stato chiesto di pagare da parte di Cadore Asfalti». E questo è anomalo: perché un’azienda - specie una che lavora con gli enti pubblici - dovrebbe intervenire gratuitamente per sistemare il giardino di un politico? Zaia smentisce e dice di averne le prove: «L’avvocato, dopo tutti questi anni, ha mandato al macero il fascicolo, ma la mia banca ha trovato la documentazione relativa al pagamento dei lavori in favore di Cadore Asfalti. Quindi nessun lavoro gratuito». Non solo: «La causa fu transata con il risarcimento in mio favore e con il pagamento delle spese». E ora è lui a passare all’attacco: «Perché si rivangano fatti di 18 anni fa? Fatti che sono passati all’esame di diverse autorità amministrative e giudiziarie senza che alcuni abbiano sollevato dubbi. Mi ci vorrà un po’ più di tempo per recuperare i documenti dell’epoca ma li troverò. E garantisco che ogni altro sospetto sarà prontamente dissipato».
La villa di Luca Zaia tra sospetti conflitti d’interesse e lavori che causano una frana. La casa è stata acquistata in un’asta e rimessa a nuovo da una ditta che riceve commesse pubbliche. Ristrutturazione per cui – sostiene la ditta – non avrebbe chiesto compensi al governatore veneto. Ma, durante i lavori per costruire la piscina, c’è stato lo smottamento di una collina. Andrea Tornago su L'Espresso il 24 giugno 2022.
AGGIORNAMENTO 24 GIUGNO ORE 19: La replica di Luca Zaia: “Ho pagato per quei lavori”.
Relax, vista mozzafiato e un’atmosfera fuori dal tempo. Persino il nome è incantato: “Torre delle Fate”. A Refrontolo, un paesino sperduto sulle colline del Prosecco in provincia di Treviso, l’antica torretta del dazio austriaco è stata fino al giugno del 2011 la villa di un politico con il vento in poppa: Luca Zaia.
SE la controparte mi dicono e danno conferma a quanto ricordo che la causa fu transatta con il risarcimento in mio favore e con il pagamento delle spese.
Quindi:
lavori alla Cadore Asfalti pagati;
indennizzo in mio favore dopo che ho intentato la causa davanti a un giudice della Repubblica ( un fatto questo già sufficiente a rendere insensati i “ sospetti” su di me).
Mi ci vorrà un po’ più di tempo per recuperare documenti di anche diciotto anni fa ma troverò quel che serve - ma quel che ho è già sufficiente - per convincere il signor Tornago che, anche questa volta, sarebbe stato meglio avesse davvero cercato di ricostruire i fatti per come si sono svolti anche - e, ovviamente, non solo - con la mia partecipazione e poi avesse offerto una ricostruzione completa ai lettori. Avesse fatto così non sarebbe rimasto nessun “sospetto” e così anche le carte che lui - o chi per lui - ha gelosamente conservato per tanti anni si sarebbe potuto capire che meritavano anch’esse il macero.
Inutile aggiungere qualche domanda: perché si rivangano fatti di 18 anni fa? Fatti questi che in sette anni sono passati all’ esame di diverse autorità amministrative e giudiziarie senza che alcuni abbiano sollevato dubbi. Anche rispetto all’intervento a tutela della pubblica incolumità da parte della provincia di Treviso.
Perché dare solo 24 ore di tempo per rispondere? Garantisco che ogni altro sospetto sarà prontamente dissipato. Ancora una volta deciderà il tribunale. Luca Zaia
Roberto Calderoli: «Il tumore mi ha cambiato, ora prego ogni giorno. Feci un assegno per mia moglie, con tutti i risparmi, prima dell’operazione». Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 25 giugno 2022.
Leghista, vicepresidente del Senato, si è ammalato 10 anni fa: «Prima del secondo intervento, che durò 14 ore, feci un assegno circolare con tutti i miei risparmi per mia moglie. Ho ancora la matrice nel portafoglio. Non rifarei più molte cose».
Roberto Calderoli, ora 66 anni, quando nel 2010 bruciò simbolicamente circa 400.000 mila leggi “inutili” che erano state già abrogate. Leghista, ex ministro, è vicepresidente del Senato
«Eravamo nella sede storica del Partito radicale per spiegare il senso di un appello al presidente della Repubblica perché fosse data maggiore visibilità ai referendum sulla giustizia. Sono entrato nell’ufficio che fu di Marco Pannella, mi sono seduto alla sua scrivania. Ne ho avvertito lo spirito e io che non avevo mai fatto uno sciopero della fame in vita mia, e anzi ne pensavo male, ho deciso di digiunare e l’ho fatto per dieci giorni». Anche se poi i referendum sono stati un flop (è mancato il quorum) e il sacrificio di 7 chili non è valso a nulla, quel Roberto Calderoli apparso accanto all’immagine scarnificata del leader radicale è un uomo, un politico (senatore della Lega e più volte ministro) che sta attraversando un nuovo corso della sua spericolata vita fatta di provocazioni, eccessi, sparate ma anche di sorprendenti soluzioni legislative che lo hanno reso autorevole e ascoltato esperto di leggi elettorali (suo il Porcellum, ma ne parleremo) e di escamotage parlamentari.
Nato rivoluzionario, è diventato ghandiano. Qual è il vero Calderoli?
«È nella natura dell’uomo cambiare ed evolversi. A trent’anni vuoi spaccare il mondo. A sessanta prevalgono esperienza e saggezza».
La sua vita ha avuto una svolta nel 2012 quando ha scoperto di avere un tumore. Otto interventi chirurgici in dieci anni (il secondo durò 14 ore), un percorso di dolore e speranza affrontato a viso aperto.
«La malattia mi ha dato tanto. Ho recuperato la fede, ho riscoperto Dio con cui ho un dialogo quotidiano. Gli do del tu».
Prima era un laico impenitente?
«Andavo a messa solo la domenica mentre Natale, per esempio, era solo un’occasione di festa in famiglia e lo scambio dei regali».
Ora, invece...
«Vado a messa la domenica ma anche due-tre volte durante la settimana. E ogni mattina dedico almeno mezz’ora alla preghiera».
«Salvini? Non sono mai stato salviniano, ma ha le qualità del leader. Deve solo imparare, per esempio in politica estera, ad ascoltare più campane»
È stata la malattia ad aprirle gli occhi?
«Quando entri in sala operatoria per certi interventi sei chiamato a fare i conti con la tua vita».
Ha detto: «Ero convinto di avere un’appendicite, mi sono ritrovato con un tumore». Aveva messo in conto un epilogo infausto?
«Sì, certo. Ma non ho pensato a me. La settimana prima del secondo pesantissimo intervento sono andato in banca e mi sono fatto staccare un assegno circolare con tutti i miei risparmi e l’ho dato a mia moglie. Volevo che tutto fosse a posto. Nel portafoglio conservo ancora oggi la matrice di quell’assegno».
A quell’intervento ne sono seguiti altri sei negli anni successivi. Ora sta meglio.
«Anche, o soprattutto, nello spirito. Ho scoperto i veri valori della vita».
Nella sua «prima» vita ne ha fatte di tutti i colori. Vediamo i casi più clamorosi. Tipo quell’epiteto («orango») all’ex ministra Kyenge.
«È stata una battuta infelice nel contesto di una festa di partito, peraltro rivolta all’insieme del governo Letta e non al singolo ministro, di cui mi sono scusato subito».
Nemmeno quella della maglietta anti-islam fu una gran trovata.
«Non rifarei più quel gesto, è chiaro. Ma anche lì la verità è uscita dopo. La mia maglietta, di cui non si vide praticamente nulla perché era nascosta da una camicia, non scatenò alcuna rivolta come dissero i telegiornali. Le sommosse erano contro Gheddafi».
Lei, comunque, se la poteva risparmiare.
«Ricordo che mi sono dimesso da ministro. Un gesto molto raro nel nostro Paese».
Definì «signora abbronzata» Rula Jebreal.
«Fu una reazione ad un atteggiamento aggressivo nel corso di un talk show. È stato un fallo di reazione. Ma con Rula ci siamo scritti e siamo diventati amici».
Nel 2006 disse che la Lombardia stava diventando un «ricettacolo di culattoni».
«Se mi si vuol far passare per razzista e omofobo siamo sulla strada sbagliata. Non lo sono e lo dimostro nei miei comportamenti quotidiani».
Però quella frase...
«Allora, eravamo nel 2006 e si tenevano i primi gay pride. Non tolleravo, e non tollero, l’esibizione e l’esagerazione. Mi pare che ridicolizzino una condizione che invece è assolutamente normale e non ha bisogno di essere spettacolarizzata».
Parteciperebbe ad un gay pride?
«Non ci andrei nemmeno se fossi omosessuale».
Ci sono gay nella Lega?
«Nella stessa percentuale in cui sono presenti nella popolazione». Eppure, non c’è un solo leghista che abbia fatto outing.
Siete un po’ omofobi?
«Assolutamente no».
Lo sa che nella Treccani c’è il termine «calderolata»?
«È un motivo di orgoglio. Con le mie trovate, che in realtà sono il frutto di studi faticosi e approfonditi, ho varato leggi importanti e contribuito a mandare a casa governi».
Qualche esempio?
«Con i miei trabocchetti ho fatto cadere il governo Prodi-D’Alema e ho bloccato il ddl Zan».
Lei però è anche il padre del contestato Porcellum.
«Era una legge perfetta nella sua impostazione iniziale, simile a quella che regola le elezioni regionali. Le correzioni che mi furono imposte da Berlusconi, Fini, Casini e dall’allora Capo dello Stato l’hanno stravolta. Per questo l’ho definita una porcata».
Una cosa buona l’ha fatta: il rogo delle leggi inutili.
«Ho bruciato 430 mila leggi, intervento mai fatto da nessuno. E ho creato il sito Normattiva.it che è diventato uno strumento imprescindibile per muoversi nel ginepraio delle norme italiane».
Non c’entra con la politica, ma pochi sanno che lei negli Anni 70 a Bergamo diede vita ad una delle prime radio libere.
«Ho sempre creduto nelle battaglie di libertà. Con alcuni amici investimmo 200 mila lire per divertimento. Con la nostra Radio Bergamo Alta rompemmo il monopolio ma ad un certo punto fummo costretti a venderla alla Curia che ce la pagò profumatamente pur di toglierci di mezzo».
Parliamo un po’ della Lega. Lei c’è dalla nascita.
«È la storia della mia famiglia. Mio nonno Guido fu tra i fondatori del Movimento autonomista bergamasco che voleva Bergamo provincia autonoma. Ho preso la prima tessera della Lega nell’89. Già un anno dopo fui eletto in Consiglio comunale a Bergamo con altri dieci leghisti. Fu un terremoto incredibile».
Le manca Umberto Bossi?
«Mi manca dal punto di vista umano e politico. Ho imparato tantissimo da lui. Ma la sua genialità non ce l’ha nessuno».
Può essere considerato un «Padre della Patria»?
«È stato molto di più perché aveva una visione del domani che nessuno della Prima Repubblica ha mai avuto».
Delle sue idee, però, è rimasto gran poco.
«Non è vero. La riforma del 2001, pur scritta male, è arrivata perché Bossi minaccia la secessione. E anche l’autonomia differenziata che presto avremo è figlia sua».
Voi siete nati giustizialisti, com’è che ora fate i garantisti?
«Ho creduto in Mani Pulite, adoravo Di Pietro. Ma quando sono andato a studiare i numeri ho constatato che otto anni dopo in galera c’erano solo 4 persone. C’è stato un abuso della custodia cautelare. Nella campagna referendaria ho incontrato centinaia di vittime della giustizia ingiusta».
Dov’è il male?
«La magistratura è diventata un potere. Di più, la magistratura è entrata in politica e la politica è entrata nella magistratura. Un disastro».
Aver puntato sui referendum, tuttavia, non ha pagato. Matteo Salvini sta tramontando?
«Io non sono mai stato salviniano ma credo sinceramente che il suo investimento sul governo alla fine pagherà. Ha tutte le qualità del leader. Deve solo imparare, su questioni delicate e complesse come la politica estera, a sentire più campane e soprattutto quelle di chi ha più professionalità specifica. Quando ci si muove in questo ambito le scelte non sempre possono essere dettate dalla ricerca del consenso».
Un’ultima curiosità: prima della Lega, per chi votava?
«L’unico voto l’ho dato al Partito Radicale. Evidentemente, visto il recente sciopero della fame, c’è anche un po’ di spirito pannelliano nel mio animo».
(ANSA il 22 novembre 2022) - E' morto l'ex ministro dell'Interno Roberto Maroni, aveva 67 anni. Lottava da tempo contro una grave malattia. Secondo quanto si è appreso, Maroni si è spento nella sua casa nel Varesotto dove ha trascorso gli ultimi mesi. Ha condiviso con Umberto Bossi gli inizi della Lega Nord: tre volte ministro, vicepremier, ex governatore della Regione Lombardia, è anche stato segretario federale della Lega. Dal 2021, quando ha scoperto la malattia che lo ha condotto alla morte, si era ritirato dalla politica attiva
(ANSA il 21 novembre 2022) - "Grande segretario, super ministro, ottimo governatore, leghista sempre e per sempre. Buon vento Roberto". Lo scrive sui social il leader della Lega Matteo Salvini commentando la scomparsa di Roberto Maroni.
"Questa notte alle ore 4 il nostro caro Bobo ci ha lasciati. A chi gli chiedeva come stava, anche negli ultimi istanti, ha sempre risposto: 'Bene'. Eri così Bobo, un inguaribile ottimista. Sei stato un grande marito, padre e amico". Così la famiglia ha comunicato sulla pagina Facebook di Roberto Maroni la morte dell'ex ministro avvenuta nella casa di Lozza, un paese del varesotto.
Roberto Maroni è morto, l’ex ministro dell’Interno aveva 67 anni. Marco Cremonesi su Il Corriere della Sera il 22 Novembre 2022
La malattia e il ritiro dalla corsa nel 2021 dell’ex governatore lombardo ed ex segretario federale della Lega, morto oggi per un tumore. I funerali si terranno venerdì alle 11 alla Basilica di San Vittore a Varese
Roberto Maroni è morto oggi, alle 4 di notte, nella sua casa di Lozza, un paese del varesotto. L’ex ministro dell’Interno e segretario della Lega aveva 67 anni ed era malato di tumore. Qui l’ultima intervista al «Corriere»: «Per guidare la Lega serve un moderato. La mia malattia? Sto facendo tutte le cure». Il ricordo della famiglia: «Fino all’ultimo, a chi gli chiedeva come stava, ha sempre risposto: “Bene”. Sei stato un grande marito, padre e amico». I funerali si terranno venerdì alle 11 alla Basilica di San Vittore a Varese.
Quante vite, Bobo. Tre volte ministro e una volta vicepremier, segretario della Lega autodimesso senza che nessuno glielo chiedesse, governatore che improvvisamente lasciò la sua Lombardia. Controcanto perenne di chiunque guidasse la Lega, persino quando a guidarla era lui: «Ah! Ci fosse un segretario…». Il «barbaro sognante» che mai rinunciò a ricordare di essere, soprattutto, «un velista» e un «soul boy».
Non c’era, Roberto Maroni, quel 12 aprile 1984 quando a Varese fu fondata da Umberto Bossi la «Lega autonomista lombarda». Di Bossi era il miglior amico, con lui aveva già fondato la Società Cooperativa Editoriale Nord Ovest, insieme facevano notte a discutere o a far gran scritte sui muri, perché i muri «sono i libri dei popoli». Si erano conosciuti perché il futuro capo della Lega aveva letto una lettera di Maroni alla Prealpina contro una lottizzazione a Lozza, la piccola patria «del» Bobo.
Ma alla fondazione, lui non c’era. Sempre un po’ così, quel suo cercare di essere sempre da un’altra parte. Esserci, ma senza farsi ingoiare. Leghista senza mai rinnegare la sinistra degli anni verdi, a cui semmai riservava l’ironia sorniona che era la sua seconda pelle. Ne fa spesso le spese uno dei suoi migliori amici, il giornalista dell’Unità Carlo Brambilla. Proprio Bossi, e non voleva fargli un complimento, definì Maroni «un aquilone che sta lontano da chi ha in mano il filo».
Voleva studiare filosofia e fare il giornalista, fece giurisprudenza e l’avvocato. Bossi lo voleva a tempo pieno nella Lega e lui non voleva mollare l’ufficio legale di Avon («Facevo meglio a restar là»), ma già nel 1990 è consigliere comunale a Varese. Pochi anni più tardi, primo ministro dell’Interno non democristiano, firmò il decreto Biondi che fu ribattezzato «salvaladri» e il giorno dopo se ne pentì.
Poco dopo, Bossi decise di sfiduciare il primo governo Berlusconi ma lui no, si oppose.
Il popolo leghista non la prese bene, era furioso, ma Bossi lo salvò dalle ire della base. Perché Maroni era anche quello: poco propenso allo scontro, ma capace fino all’ultimo giorno di far sentire e valere il proprio punto: «Ho perso? Ma no, ho tenuto la posizione…».
L’anno dopo, nel 1996, lui già entrato e uscito dal Viminale per la prima volta (saranno due), si guadagna l’unica condanna della sua vita, quella per aver addentato il polpaccio di uno dei poliziotti che stavano perquisendo via Bellerio a causa della fondazione della Guardia nazionale padana. Dai tafferugli uscì in barella. Anche lì, aveva tenuto la posizione.
Molti leghisti hanno sempre messo in dubbio il suo afflato indipendentista, e il dubbio è legittimo, però fu pure «primo ministro» della Padania e presidente del Parlamento del Nord. Salvini allora militava nei comunisti padani, Maroni stava con i Democratici Europei, riformisti e laburisti.
Al Viminale si conquistò la palma di «miglior ministro dell’interno di sempre». Lo dicevano in tanti, tutti, soprattutto da sinistra, ma la consacrazione fu quando certificò il titolo Roberto Saviano, nel pieno del successo di Gomorra. Si narra che a convincere dell’incarico uno scettico Oscar Luigi Scalfaro fu l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi, dopo una cena con Bossi e lo stesso Maroni. Fatto sta che da ministro partecipò con il suo amato gruppo, il «Distretto 51», al festival soul di Porretta terme. Scritta sulla maglietta: «Radio Mafia». Da ministro, la prima dichiarazione fu: «La Lega federalista, con un leghista al Viminale, diventa il garante dell’unità d’Italia».
Per anni tutti si sono chiesti se nelle frequenti sconfessioni delle trattative costruite da Bobo da parte di Bossi, il giovane di Lozza giocasse di ruolo e sempre di concerto con il Capo tonante: «A Bobo ho scaldato il latte tutte le mattine, ma è il nostro braccio debole e va amputato».
Si sa soltanto che tutto finì una sera, correva il 2011, quando Giancarlo Giorgetti portò ai leghisti il messaggio del «Capo»: vietato invitare Maroni a qualsiasi evento della Lega. Lo si accusa di intelligenza con il nemico, i giornalisti.
Ultima goccia, l’aver raccontato alla stampa la storia degli investimenti in diamanti. È la «fatwa».
È lì che entra in scena Matteo Salvini: già consapevole della potenza dei social, in 48 ore organizza per «il» Bobo 200 incontri pubblici. È la premessa per la «notte delle ramazze» a Bergamo, la sera in cui Bossi si scusò con i militanti. Pochi giorni ancora e darà le dimissioni.
Maroni è il candidato naturale alla successione, ma non sono in pochi ad essere convinti che, senza la spinta della fatwa e della «damnatio memoriae», Bobo si sarebbe disposto a sbiadire sullo sfondo. La battaglia, però, lo galvanizza, e nel luglio 2012 è alla guida della Lega. Un ruolo che ama poco («Ah! Ci fosse un segretario…»).
Silvio Berlusconi lo vuole a tutti costi governatore della Lombardia. Una partita tutt’altro che facile, la Lega era ai minimi storici e anche il centrodestra stava tutt’altro che bene. A complicare le cose, la candidatura dell’ex sindaco Gabriele Albertini. Ma alla fine, la sfida è vinta.
Poi, di nuovo il Maroni sfuggente: l’8 gennaio del 2018 annuncia a sorpresa che non si sarebbe ricandidato.
Si parla di un suo ritorno in Parlamento, di concerto con Berlusconi. Non avverrà: lui prende, e con 5 amici attraversa in barca a vela l’Atlantico.
Dopo, si dedica a quello che fanno gli ex presidenti di successo: board di aziende private, alta formazione universitaria, collabora con il Foglio. Lo scorso ottobre, un altro dei colpi «alla Bobo»: entra nella Consulta contro il caporalato chiamato dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. L’avversaria pubblica di Matteo Salvini. Pensa anche di tornare alla politica attiva, candidandosi a sindaco di Varese.
Ma nel giugno 2021 annuncia il ritiro dalla corsa: motivi di salute. Un tumore, che aveva causato il malore in casa nel gennaio del 2021. Ne era seguito un intervento, al Besta di Milano. All’uscita dall’ospedale, Maroni aveva scritto un messaggio: «Finalmente sono tornato. Mai mulà!». Poche settimane fa, l’ultima intervista al «Corriere». «Com’è cambiato il mio punto di vista sulle cose dop la malattia? Non molto. Certo che la malattia che mi ha colpito è una cosa che non trascuro, facendo tutte le cure necessarie. Ho capito che tra le cose importanti non c’è la politica con la “p” minuscola».
Maroni: «Per guidare la Lega serve un moderato. La mia malattia? Sto facendo tutte le cure». Marco Ascione su Il Corriere della Sera il 15 ottobre 2022
Esce Il Viminale esploderà, il nuovo libro dell’ex ministro Roberto Maroni: «La mia malattia? Adesso so che tra le cose importanti non c’è la politica con la “p” minuscola». Le tensioni con Salvini
Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno ed ex segretario della Lega, è morto il 22 novembre 2022. Aveva 67 anni, ed era malato da tempo. Qui il ritratto di Marco Cremonesi; qui sotto il testo della sua ultima intervista al «Corriere della Sera», poche settimane prima della scomparsa.
Le coincidenze, a volte. C’è un ministro dell’Interno, nato a Varese, che si chiama Roberto Macchi, detto Bobo. Ama Otis Redding, suona il soul e cita Emily Dickinson. In particolare una certa poesia: «Per fare un prato». Questo ministro, «fondatore di un partito populista composto da personaggi vari, ma perlopiù bellicosi» e impegnato «per dieci anni a correggere i toni del suo capo», è il protagonista di una trama ben intessuta che si srotola per quasi 400 pagine, tra hacker e spie. C’entra molto anche il Vaticano, un sale che non guasta mai. È in gioco la cybersicurezza del pianeta e il lettore è preso per mano con un buon ritmo. Titolo: «Il Viminale esploderà» (Mursia editore), autori Roberto Maroni e Carlo Brambilla. Tutta fiction, ma ogni riferimento all’ex ministro dell’Interno è puramente voluto.
Maroni, diciamo che il Viminale scotta sul serio ora che bisogna formare il governo. Lei che su quella poltrona si è seduto due volte (senza contare l’incarico che ha avuto dalla ministra Lamorgese alla Consulta contro il caporalato in agricoltura), a chi affiderebbe l’ambita casella?
«Al Viminale deve andare un prefetto, non certo Salvini. Io vorrei che il prefetto fosse Matteo Piantedosi, perché è un uomo di valore, è stato capo di gabinetto della ministra Lamorgese e ha passato indenne tutte le indagini della magistratura».
Nella sua rubrica su Il Foglio, Barbari foglianti, ha scritto: «Un congresso straordinario della Lega ci vuole. Io saprei chi eleggere». Ce lo fa questo nome?
«Io non faccio nomi, però il suo profilo ce l’ho ben chiaro: deve essere quello di un moderato, competente e con grande passione. E poi deve stare alla larga da ogni cerchio magico e ascoltare di più i veri militanti».
Giorgetti, Zaia, Fedriga: chi le è più affine?
«Tutti e tre, perché sono competenti. Hanno dimostrato di essere capaci nella gestione dei problemi al ministero e sul territorio. E poi pensano prima al fare che al comunicare».
Uno dei libri che cita spesso è «Lettera sulla felicità» di Epicuro. A Salvini che lettura consiglierebbe?
«A Salvini consiglierei un libro di Miglio, Come cambiare. Le mie riforme per la nuova Italia, perché Miglio è stato il padre del federalismo e non solo. Mi ricordo quando non fu scelto come ministro delle Riforme costituzionali perché Fini si oppose: Miglio mi invitò a Domaso, sopra il lago di Como, dove mi fece bere un po’ di vino prodotto da lui. Era davvero imbevibile... A Salvini consiglierei anche un libro che ho scritto io: Il mio Nordcon sottotitolo Il sogno dei nuovi barbari. Potrebbe imparare qualcosa a proposito della questione settentrionale».
Politicamente parlando lei è nato di sinistra, poi con Bossi è stato leghista. Quindi è diventato uno degli esponenti più moderati di quel partito. Ora che cos’è?
«Sono rimasto un sognatore. La politica di oggi è molto diversa, ma penso che ci voglia una buona dose di passione per fare bene il proprio lavoro. E parlo soprattutto del fare! Molto spesso oggi il fare è messo in secondo piano, pare che importi solo a qualcuno. Per un politico oggi il mestiere è principalmente il comunicare inondando i social, persino TikTok».
L’imminente governo di centrodestra durerà? La partenza non è delle migliori.
«Con Giorgia Meloni durerà a lungo, non andremo a votare prima della fine della legislatura. Ne sono certo, perché la Meloni è capace di reggere la barra e resistere a tutte le... strambate!».
Il suo alter ego Roberto Macchi ricorda nel libro che «per dieci anni ha dovuto correggere» il suo capo. Ha mai fatto davvero pace con Bossi?
«Con Bossi non abbiamo avuto bisogno di “fare pace”, perché non c’è mai stata una guerra. Io con lui andavo d’accordo, anche se spesso dovevo convincerlo che era giusta la mia linea e non la sua. Parlo di Bossi fino al 2005 quando lui stette male e cominciò a crearsi il cerchio magico, che filtrò tutti i suoi rapporti e le sue decisioni. Mi ricordo quel che accadde sul pratone di Pontida quando, nel giugno del 2012, durante il governo Monti, qualcuno del cerchio magico (e non certo Bossi) fece togliere in fretta e furia uno striscione messo dai militanti, dove c’era scritto “Maroni presidente del Consiglio”».
I suoi rapporti con Berlusconi sono stati buoni. Dei leader di quella stagione con chi ha intrecciato il legame più importante, sotto il profilo umano?
«È vero, i miei rapporti con il leader di Forza Italia sono sempre stati molto cordiali. Ma si è trattato di rapporti politici. Ho sempre fatto riferimento a lui e a Gianni Letta per le scelte più difficili».
Nel 2021 rinunciò a correre a sindaco di Varese per motivi di salute. Com’è cambiato da quel momento il suo punto di vista sulle cose?
«Non è cambiato molto, certo che la malattia che mi ha colpito è una cosa che non trascuro, facendo tutte le cure necessarie. Ho capito che tra le cose importanti non c’è la politica con la “p” minuscola. Con alcuni militanti ho davvero un rapporto intenso. Sono anche iscritto alla chat della sezione di Varese e questo mi aiuta a restare aggiornato sulle scelte dei consiglieri comunali, visto che siamo all’opposizione».
Lei ha contestato lo slogan della campagna elettorale leghista: «Credo». Che rapporto ha con la religione?
«Il “credo” di Salvini era uno slogan tutto politico, la religione non c’entra nulla. Il mio rapporto con la fede? Sicuramente in momenti difficili alcune certezze vengono meno e ci si ripensa... mi ritorna in mente quando suonavo l’organo in chiesa...».
La sua è stata una carriera politica notevole: due volte ministro dell’Interno, presidente della Lombardia, segretario della Lega in tempi di burrasca. Ha qualcosa da rimproverarsi? O rifarebbe tutto?
«Se mi guardo indietro non ho nulla da rimproverarmi, rifarei tutto. Ho sempre messo la massima dedizione, passione e onestà nel ricoprire tutti gli incarichi al servizio del nostro bel Paese. E ho colto davvero molte soddisfazioni, che mi hanno reso felice».
Perché ora questo libro?
«L’idea mi è venuta dopo aver letto Il presidente è scomparso di Bill Clinton. Un giallo appassionante con tanti colpi di scena, che mi era piaciuto molto. Pur essendo due cose diverse il ministero dell’Interno italiano e la Casa Bianca, centro del potere mondiale, ho voluto impegnarmi per vedere se riuscivo a fare qualcosa di simile partendo dalla mia esperienza di ministro che gira il mondo. Grazie alla collaborazione di Carlo Brambilla, mi sembra di esserci riuscito».
Maroni, il leghista duro ma non estremista. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 22 Novembre 2022.
Il legame con Bossi (e quel primo comizio in un albergo a Como che finì con un pugno), i giudizi spietati sull’amico Giorgetti e il vaticinio su Beppe Grillo
Roberto Maroni (morto a 67 anni) era un uomo buono. Appassionato, non estremista. Questo non significa dimenticare che era un militante politico, talora anche duro. Non si tirò mai indietro. Seguì Bossi nella svolta secessionista. Lo detronizzò dopo lo scandalo Belsito, il tesoriere che finanziava la “family”. Andai a intervistarlo quando ruppe con il fondatore. Raccontò la storia dei diamanti in Tanzania, delle spese pazze. Aveva messo i bilanci della Lega in mano a una società internazionale di revisione dei conti (dietro l’aspetto naïf, Maroni era uomo di frequentazioni importanti, fin da quando aveva sposato la figlia del padrone dell’Aermacchi).
Il suo ufficio era pieno di foto con Bossi in tutte le posizioni e in tutte le divise, dalla canottiera alla camicia verde, dalla t-shirt alla cravatta del giuramento. Mi raccontò il loro primo comizio, in un albergo di Como. «Era il marzo 1980. Sul palco eravamo in tre: Umberto, io e Bruno Salvadori dell’Union Valdotaine, che finanziava il nostro movimento, la Lega autonomista lombarda. In platea erano in quattro: due della Digos, un impiegato dell’albergo incuriosito, e un tipo che faceva sì con la testa. Il Bossi lo puntò: ecco il primo seguace, pensava. Invece era un picchiatore fascista. A fine comizio, appena Umberto lo avvicinò, quello gli tirò un pugno…».
Eppure con Bossi in quell’intervista fu molto duro. Lo fu pure con il suo amico Giancarlo Giorgetti: «È molto intelligente. Ma un uomo deve avere tre C; cervello, cuore, coglioni. Non tutti possono avere tutto». Del suo conterraneo varesotto Mario Monti, che era presidente del Consiglio, disse: «Si fa dettare l’agenda da Merkel e Sarkozy». Non salvò neppure Berlusconi, di cui era stato più volte ministro: «Noi stessi siamo stati costretti dai francesi e dagli americani a fare una guerra in Libia che non volevamo». Non credeva nello sbarco leghista al Sud, vagheggiava semmai un’alleanza federalista con “un Bossi napoletano, quando spunterà”.
Per il futuro della Lega pensava a un tandem tra Flavio Tosi, front-runner elettorale, e Matteo Salvini, chiamato a riorganizzare il partito; non prevedeva che il secondo si sarebbe mangiato il primo. Vide però arrivare i 5 Stelle. Mi mostrò sul telefonino una sua foto abbracciato a Beppe Grillo: «L’avevo accompagnato da un cronista della Padania che voleva intervistarlo. Ha fiuto politico. In lui rivedo la Lega delle origini». Quando nel 1994 litigò con Bossi che aveva fatto cadere il primo governo Berlusconi, si disse che sarebbe finito in Forza Italia. Ma Bobo Maroni gridò nel microfono: «Sono nato con la Lega, morirò con la Lega». È stato di parola.
Dagospia il 22 novembre 2022. Da “Un giorno da Pecora – Radio1”
Nel dicembre 2018 Roberto Maroni, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, raccontava il suo passato 'oltre il Pci' e la sua passione per la barca a vela. L'ex Ministro, Governatore della Lombardia e segretario della Lega, ospite di Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, aveva infatti parlato delle sue passioni e di alcuni aneddoti inediti della sua vita. A partire da quella che, al momento dell'intervista, era stata la sua ultima 'impresa': “ho appena fatto la traversata dell'Atlantico in barca a vela con altre sei persone”.
E lei che ruolo aveva? “La guardia, per vedere che non ci sono altre barche intorno”. Quanti giorni ha impiegato? “Sedici”.
E' vero che da ragazzino , negli anni '70, era più che di sinistra? “Contestavo il Pci perché ero troppo moderato, figuriamoci. Compravo 'il Manifesto' e lo nascondevo nell'Eskimo o nella Gazzetta dello Sport, altrimenti i fascisti mi rincorrevano. Avevo la barba, ero l'unico tra i miei compagni, che invidiosi mi avevano soprannominato 'Bosco'”.
Un passato molto lontano... ”Si, ma vi confesso una cosa: due settimane fa, a Genova, ho comprato da due ragazzi 'Lotta Continua'. Non ho resistito, sono tornato indietro di 50 anni!”.
Tra le sue tante passioni c'è quella per la musica: è vero che ama suonare molti strumenti? “Suono l'organo hammond, pezzi rock e r&b, alla Bruce Springsteen. Invece non è vero che suono il sax, ho fatto solo una foto con quello strumento e per molto tempo la gente me li regalava, pensando ne fossi appassionato...”, aveva spiegato Maroni a Un Giorno da Pecora.
BIOGRAFIA DI ROBERTO MARONI
Da cinquantamila.it – La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti
• Varese 15 marzo 1955. Politico. Presidente della Regione Lombardia (dal 18 marzo 2013). Secondo segretario federale della Lega Nord (dal 1° luglio 2012 al 15 dicembre 2013). Deputato della Lega dal 1992 al 2013. Ministro dell’Interno nel Berlusconi I (1994-1995, esecutivo in cui fu anche vicepresidente del Consiglio) e nel Berlusconi IV (2008-2011), ministro del Lavoro nel Berlusconi II e III (2001-2006). «Se Bossi è il papà della Lega, io ne sono la mamma».
Ultime Nella primavera 2012 la Lega Nord fu travolta dallo scandalo legato al nome di Francesco Belsito (vedi), l’allora tesoriere del partito accusato, tra l’altro, di aver sistematicamente girato alla famiglia di Umberto Bossi, e ai famigli del cosiddetto «cerchio magico», grandi somme di denaro pubblico riconosciuto al partito quale rimborso elettorale.
Maroni s’intestò allora la battaglia per «fare pulizia» all’interno della Lega, pretendendo l’espulsione o l’allontanamento dei maggiori protagonisti dello scandalo, e ponendosi così di fatto al centro della scena per la successione a Bossi: il 5 aprile, infatti, nella storica sede milanese di Via Bellerio, il vecchio capo, ormai compromesso anche agli occhi dei militanti, rassegnò le proprie dimissioni irrevocabili dalla segreteria del partito, ottenendo la carica (poco più che onorifica) di presidente e affidando a un triumvirato composto da Roberto Maroni, Manuela Dal Lago e Roberto Calderoli la reggenza della Lega fino al Congresso federale.
«L’uomo del giorno è Roberto Maroni, il candidato naturale alla successione. Bossi lo sa e vuole superare una volta per tutte le lacerazioni del movimento. E ai microfoni del Tgcom lo chiarisce: “Non è vero che sia un traditore”» (Marco Cremonesi) [Cds 6/4/2012].
• Plastica rappresentazione della sua ascesa all’interno del partito e presso i militanti si ebbe la sera del 10 aprile, nel corso di quella che sarebbe stata definita «la notte delle scope».
«Alla Fiera Nuova di Bergamo si sono riuniti circa tremila leghisti per la serata dell’orgoglio padano. Tutti con le scope e le ramazze per simboleggiare la voglia di pulizia del partito. Sul palco i triumviri Roberto Maroni, Roberto Calderoli e Manuela Dal Lago. Parlano solo l’ex ministro dell’Interno e Umberto Bossi. Maroni cerca di ridare entusiasmo ai suoi: “Da oggi si cambia. Non siamo morti.
Non siamo un partito di corrotti, ma chi sbaglia paga”; impone diktat: “Giovedì prossimo al Federale butteremo fuori Francesco Belsito”; ricorda che Renzo Bossi ha ufficializzato le sue dimissioni al Pirellone facendo partire un coro di fischi come mai si era sentito; e annuncia che “se Rosy Mauro non si dimetterà ci penserà la Lega a dimetterla”. Promette “Congresso entro giugno. E se Umberto Bossi si ricandiderà, io lo appoggerò”.
Chiude così: “Lega in piedi! Dobbiamo diventare il primo partito in Padania!”. Bossi, sembrato più stanco del solito, ha chiesto scusa per i suoi errori e per aver spinto i figli in politica (“Dovevo fare come ha fatto Berlusconi coi suoi, mandarli lontano a studiare. Via, via…”); ha continuato a parlare di “un complotto del centralismo romano che ci vuole divisi”; ha lanciato un messaggio di unità ai suoi: “Quante volte siamo stati capaci di ripartire... Ma adesso basta divisioni che fanno solo il gioco del centralismo romano. Maroni non è un traditore, non è un Macbeth. E i parenti mai più nella Lega”. Ma i cori dei presenti dall’inizio alla fine sono stati tutti per Maroni» (Fabio Poletti) [Sta 11/4/2012].
• Candidato unico alla successione (indicato anche da Bossi), il 1° luglio nel Forum di Assago, a conclusione del Congresso federale del partito, Roberto Maroni fu eletto a schiacciante maggioranza segretario federale della Lega Nord. «Lacrime, quelle di Umberto Bossi.
Sorrisi, quelli di Roberto Maroni e dei suoi sostenitori. E applausi. La seconda e ultima giornata del Congresso federale della Lega Nord al Forum di Assago è stata segnata da un mix di emozioni che ha segnato il passaggio tra la vecchia e la nuova gestione del partito. Non sono mancate frasi polemiche e frecciate nei discorsi: con il nuovo segretario del Carroccio, eletto con voto palese per alzata di mano, che ha subito rivendicato la volontà di agire senza “tutele e commissari” e il Senatùr, che ha voluto leggere il testo dello statuto appena approvato, temendo “imbrogli”.
Una giornata difficile per Bossi che, dopo la proclamazione di “Bobo”, riprendendo la parabola legata a Re Salomone, ha spiegato di aver agito per evitare la divisione della Lega: "Ho fatto come la donna di quella parabola che lascia il bambino alla rivale pur di non farlo tagliare in mezzo. Il bambino è tuo", ha detto l’ex leader del Carroccio. ’’Umberto Bossi per me è mio fratello, lo porterò sempre nel cuore – ha commentato commosso Maroni – ma oggi inizia una fase nuova’’» (la Repubblica). «Il nuovo slogan su cui sta calibrando la comunicazione, “Prima il nord”, vuole esprimere un equilibrio tra la rappresentanza territoriale e la rivendicazione della questione settentrionale, quanto mai reale in una situazione di disagio delle piccole e medie imprese, e un ruolo nazionale ed europeo» (Il Foglio) [17/8/2012].
• Dopo settimane di fibrillazione in seguito alle inchieste giudiziarie abbattutesi sulla giunta Formigoni, in ottobre la Lega provocò lo scioglimento anticipato del Consiglio regionale della Lombardia. In vista delle nuove elezioni, Maroni avanzò immediatamente la propria candidatura a nuovo governatore, quale espressione dapprima della sola Lega, e poi, dopo una lunga trattativa con Berlusconi, anche del Pdl (in cambio dell’apparentamento, assai indigesto ai militanti leghisti, alle concomitanti Politiche 2013).
«L’alleanza con il Pdl è necessaria per vincere in Lombardia e realizzare il nuovo sogno del Carroccio, l’Euroregione del Nord, con Piemonte, Lombardia e Veneto allineate sotto la guida leghista. "Creeremo una macroregione – spiega Maroni – dove il 75% delle tasse sarà trattenuto in modo che le amministrazioni regionali le possano restituire ai loro cittadini sotto forma di servizi. La prima cosa che faremo è abolire l’Irap". E poi c’è da intervenire "sull’Imu, abolire il bollo auto, completare il collegamento con Malpensa"» (la Repubblica) [7/1/2013].
• Alle Regionali 2013 (24 e 25 febbraio), Maroni riuscì a conquistare la presidenza della Regione Lombardia, staccando di oltre quattro punti percentuali il candidato del centrosinistra Umberto Ambrosoli, a lungo dato per favorito. «La ciliegina sulla torta, per il centrodestra. Che dopo la rimonta delle politiche si riprende la Lombardia. Il leghista Roberto Maroni è il nuovo presidente della Regione.
“Missione compiuta, adesso il Nord ha un governo forte, mentre quello di Roma sarà molto debole; si apre una fase nuova”, dice prima di far accomodare accanto a lui Umberto Bossi, che si presenta un po’ a sorpresa con l’immancabile sigaro e la faccia un po’ scura. Dunque la “madre di tutte le battaglie”, come Maroni ha sempre chiamato questa sfida lombarda, è vinta. È andata bene, così dice lui, perché “comunque, nonostante le note vicende che hanno riguardato il nostro movimento, abbiamo mantenuto un consenso elevato, sopra il 4 per cento a livello nazionale. E salvato la Lega”» (Rodolfo Sala) [Rep 27/2/2013].
• A inizio settembre, Maroni annunciò le proprie dimissioni dalla segreteria della Lega, per potersi dedicare a tempo pieno alla guida della Regione Lombardia. Su suo impulso furono quindi indette per la prima volta delle elezioni primarie tra i militanti del partito, che il 7 dicembre decretarono la schiacciante vittoria di Matteo Salvini su Umberto Bossi, ratificata otto giorni dopo dal Congresso federale riunito a Torino.
• «Nell’ufficio che fu del Celeste, il Bobo è felice di essersi liberato delle redini del Carroccio, e pure dalle sue briglie. Si sente visibilmente meno uomo di partito di prima. Dice, baldanzoso: “Io sono decisionista. Questa regione ha talenti immensi e io farò di tutto per liberarli dalle gabbie della burocrazia”.
Maroni ora non indossa più gli occhiali con la montatura rossa, molto pop, logo della sua battaglia quando era il comandante dei “barbari sognanti”, ha mantenuto però sul suo profilo Facebook l’immagine in cui si presenta come il delfino-figlioccio (poi parricida) di Bossi, che appoggia le mani sulle sue spalle come segno di protezione e di benedizione. Anche se ora l’anziano leader del movimento padano vorrebbe vedere il suo ex delfino trascinato nella polvere. Pazienza. Maroni ormai è un politico navigato. Il suo futuro è appeso a due fili: la ripresa dell’economia lombarda e la difficile sfida dell’Expo» (Cristina Giudici) [Fog 5/3/2014].
Vita Cresciuto in una famiglia pia e democristiana, laureato in Giurisprudenza, cominciò a interessarsi di politica con Democrazia proletaria. «A metà degli anni Settanta, abbandonò le giacche verdi e marrone principe di Galles, che gli erano costate il soprannome di “Bosco”, per le Clark e l’eskimo. Girava per Varese con in tasca il Manifesto che avvolgeva sempre la Gazzetta dello Sport. Quello per l’estrema sinistra fu un amore autentico, che la lontananza dalle violenze della metropoli rese particolarmente dolce. Ma niente a che vedere con la passione infuocata per la Lega.
L’incontro con Umberto Bossi, che risale al 1979, Maroni lo definisce “sconvolgente”. Bobo ha 24 anni. Assieme a Umberto e a Giuseppe Leoni dà il via alla romantica alba leghista: vernice e pennello, manifesti clandestini» (Il Foglio). «Io guidavo la 500 grigio topo di mia madre e lo scaricavo (Bossi – ndr) in autostrada vicino a Varese, dove c’è un muraglione lungo lungo, poi giravo da casello a casello per non rimanere lì fermo e attirare l’attenzione. Una notte, al terzo giro, non lo vedo più, mi fermo, scendo.
Bossi arriva di corsa, dice: “Via, via, c’è la polizia che mi ha sparato”. Spaventatissimi – io avevo 25 anni – saliamo di corsa, lui si dimentica che nell’auto di mia madre non c’era il sedile di destra: l’aveva tolto perché aveva un negozio di alimentari e le serviva spazio per la merce. Così cade, si rovescia addosso la latta di vernice e inonda la 500. Arrivo a casa alle tre di notte e cerco di pulirla un po’, ma alle sei e mezzo sento mia madre che urla: “Sei di nuovo uscito con quel disgraziato del Bossi!”» (a Sara Faillaci) [Vty 11/4/2012].
• «Ricordo il primo comizio insieme, in un albergo di Como. Era il marzo 1980. Sul palco eravamo in tre: Umberto, io e Bruno Salvadori dell’Union Valdotaine, che finanziava il nostro movimento, la Lega autonomista lombarda. In platea erano in quattro: due della Digos, un impiegato dell’albergo incuriosito, e un tipo che faceva “sì” con la testa. Umberto lo puntò: ecco il primo seguace, pensava. Invece era un picchiatore fascista. A fine comizio, appena Umberto lo avvicinò, quello gli tirò un pugno» (ad Aldo Cazzullo) [Cds 27/5/2012].
• Nel frattempo, Maroni era diventato avvocato e manager legale della Avon, la multinazionale statunitense della cosmesi. Alla fine però si buttò definitivamente in politica abbandonando l’avvocatura, e nel 1992 divenne deputato. Il 12 ottobre 1993 firmò con Bossi e Castelli la mozione per l’abrogazione dell’immunità parlamentare.
• «Alla vigilia delle politiche del 1994 siglò a nome della Lega un’intesa elettorale con Mariotto Segni, sconfessata il giorno dopo dal Senatùr, che intanto aveva chiuso il patto con Silvio Berlusconi. Fu lui, da ministro dell’Interno (nel Berlusconi I), ad accettare e poi a rinnegare il decreto “salva-ladri” del 1994 con la scusa di non averlo letto».
• Criticò la decisione di Bossi di far cadere il primo governo Berlusconi e Bossi «lo cacciò, indicandolo alla folla leghista come un traditore, uno attaccato alla cadrega. L’allontanamento dell’amico Roberto fu uno degli atti più dolorosi per il Senatùr. Alla fine, fece rientrare il figliol prodigo nella casa paterna. Non solo per affetto. Anzi, non fu affatto per affetto. Bossi è un calcolatore. Aveva bisogno di Maroni per giocare sui tavoli della politica» (Gianluigi Paragone).
«La Lega alla fine degli anni Novanta era secessionista e pullulava di Camicie verdi e Guardia nazionale padana. Bobo, per riconquistare i favori del cacicco, si mise alla testa degli armigeri. Quando la magistratura reagì mandando gli agenti a perquisire la sede leghista di via Bellerio, Maroni si avventò su di loro. Nel parapiglia si vide, per la prima volta al mondo, un ex ministro di polizia addentare il polpaccio di un poliziotto. Bobo ne ebbe due conseguenze: il naso rotto e una condanna a otto mesi, ridotta a quattro in Appello, per resistenza e oltraggio» (Giancarlo Perna) [Grn 2/7/2012].
• Nel 1998 Maroni fu corteggiato dal centro-sinistra, che gli offrì anche la candidatura in Lombardia. «Ormai non c’è più interlocutore che si congedi da Maroni senza avere il timore di esser stato raggirato» (Francesco Verderami).
• Da ministro del Lavoro, Roberto Maroni riformò la legge Dini sulle pensioni (vedi DINI Lamberto), accorciandone i passaggi e ponendo uno «scalone» al 31 dicembre 2007: fino a quella data sarebbero bastati 57 anni per andare in pensione, dal giorno dopo (1° gennaio 2008) ne sarebbero occorsi 60. Nel 2007, però, Prodi modificò profondamente tale sistema («responsabilità atroce» del centrosinistra secondo Matteo Renzi [a Mattia Feltri, Sta 24/3/2012]).
• Le idee di Maroni sull’ordine pubblico e la convivenza civile sono racchiuse in due «decreti sicurezza», approvati rispettivamente nel 2008 e nel 2009. Il decreto del 2008 prevedeva: per le emergenze di ordine pubblico, l’impiego a tempo (sei mesi rinnovabili per altri sei) di tremila militari, messi a disposizione dal ministero della Difesa, incaricati di pattugliare dieci città metropolitane al comando di un rappresentante delle forze dell’ordine (poliziotto o carabiniere), senza facoltà di arrestare nessuno e dotati solo del potere di accompagnare l’eventuale fermato in un commissariato o in una tenenza dei carabinieri; l’aggravante per i reati commessi dagli immigrati clandestini; espulsioni più facili per gli stranieri irregolari.
Poco dopo, Maroni estese inoltre a tutto il territorio nazionale il cosiddetto “Stato d’emergenza immigrati”, in atto dal 2002 e ristretto da Prodi alle sole Puglia, Calabria e Sicilia. Alle accuse, replicò sostenendo che gli sbarchi clandestini nel primo semestre 2008 erano raddoppiati «passando da 5.360 a 10.611». Inoltre, «con quel decreto di fatto si ampliavano a dismisura i poteri dei sindaci in materia di sicurezza e ordine pubblico, tanto che alla fine anche la Corte Costituzionale ebbe qualcosa da dire.
Ma, intanto, l’argine era rotto. E già da quella estate i sindaci si sbizzarrirono. Pescando a caso dalle cronache dell’epoca si trova di tutto, a partire dal bando dei lavavetri. Per l’uso delle panchine diventò necessario un libretto di istruzioni: c’era chi vietava di poggiarci i piedi, chi di usarle dopo le 23, chi addirittura ne vietava l’uso ai minori di 70 anni. Lo stesso dicasi per i parchi pubblici: a Napoli si vietò il fumo all’aperto, altrove si proibì ai cittadini di frequentarli in più di due alla volta. Nelle città non si poté più mangiare un panino per strada, usare tosaerba a motore, dare da mangiare ai piccioni, addirittura baciarsi» (Alessandro Calvi) [Mes 23/6/2012].
• Il secondo pacchetto sicurezza, approvato nell’aprile 2009, contiene tra le altre cose l’introduzione del reato di immigrazione clandestina e la possibilità di organizzare in città «associazioni di osservatori volontari» disarmati e registrati (le cosiddette ronde).
• Promosse la schedatura dei rom e il censimento dei relativi campi. Invocò la chiusura della moschea di viale Jenner a Milano (anche per questo don Giacomo Bottoni, responsabile del dialogo interreligioso della curia milanese, gli diede del “fascista”).
• Sposato con Emilia Macchi (conosciuta in quarta ginnasio, al liceo classico Caroli di Varese), dirigente del personale all’Aermacchi, azienda fondata dal padre e ora parte del gruppo Finmeccanica. Tre figli: Chelo (1987), maestra elementare, Filippo (1991) e Fabrizio (1997), studenti. «Non fanno e non faranno mai politica. Tenerli lontano dai riflettori, per me, è una priorità» (a Sara Faillaci) [Vty 11/4/2012].
Critica «È ministro della Repubblica italiana con i voti – tanti voti, certo – di alcune tribù del Nord» (Furio Colombo).
• «Un paio di baffi sul nulla» (Andrea Camilleri).
• «Maroni è stato un discreto ministro» (Gad Lerner).
• Una delle «eccellenze» del Berlusconi IV, secondo il senatore democratico Franco Debenedetti [Cds 8/5/2008].
• «Chi è il Buffon della politica italiana? Il ministro Roberto Maroni. Lo conosco da molto, persona di assoluto valore» (Jörg Haider, scomparso esponente dell’estrema destra austriaca, all’epoca governatore della Carinzia).
• «Mi domando sempre se, in mezzo alle truppe di fanatici e di esaltati, il ruolo del commilitone moderato sia da considerare con rispetto, perché funge da calmiere, oppure con preoccupazione, perché fa da copertura “per bene” alle peggiori porcherie. Non avendo una risposta certa, sospendo il giudizio su Roberto Maroni» (Michele Serra).
Frasi «Le posizioni della Lega non sono mai state né xenofobe né razziste anche se l’intellighenzia ha sempre provato a marchiarci con questa etichetta, un tempo contro i meridionali e oggi contro gli extracomunitari. La Lega invece è un partito fortemente identitario che investe sull’identità e questi valori identitari sono spesso considerati un elemento di chiusura, un elemento regressivo, e invece è esattamente il contrario: una forte identità significa una maggiore capacità di integrazione del diverso. Un’identità debole, una società non coesa, è una società che ha paura del diverso» (a Maria Giovanna Maglie) [Lib 15/3/2012].
Vizi «È un fan di Bruce Springsteen, suona il sassofono, ha suonato l’organo elettrico in una band di jazz-rock-country a Varese ed è stato membro del gruppo rock della Camera dei deputati» (da un rapporto della Cia). Colleziona elefanti con la proboscide sollevata (li tiene allineati di sedere, glieli ha regalati quasi tutti la portavoce Isa Votino). Possiede una barca a vela bialbero di 17 metri, la «Rosie Probert too».
Tifo «Milanista sfegatato».
Roberto Maroni, il mio amico al lavoro fino all’ultimo: «Quanto serve per finire il nostro libro?». Storia Carlo Brambilla *coautore con Roberto Maroni de «Il Viminale esploderà» su Il Corriere della Sera il 22 novembre 2022.
Dialogo numero 1. «Ma hai già in mente il titolo»? «Certo». «E sarebbe»? «Il Viminale esploderà»! «Allora lo facciamo». Dialogo numero 2, qualche mese dopo. Esattamente un anno fa, dopo la costruzione della prima ipotesi di trama del thriller, con al centro il suo alter ego. «Quanto pensi che ci voglia per concludere il capolavoro»? «Per 400 pagine? Diciamo un annetto o giù di lì». «Troppo, bisogna che ci diamo da fare».
E in queste ore funeste, quel «troppo» rimbomba nelle orecchie più che mai. Così Roberto ci si buttò a capofitto, con la passione che lo ha sempre contraddistinto in ogni sua attività, non solo legata alla politica: la musica, la vela, lo sport. Tastierista nella band Distretto 51, attraversato l’Oceano Atlantico in barca, le partite del Milan e ora anche la prova di un’invenzione letteraria. E la malattia che lo divorava inesorabile ogni giorno. Che ogni giorno gli toglieva qualcosa al corpo. Ma lui non ci faceva caso. Aggiustava i personaggi del romanzo, perfezionava qualche passaggio, e soprattutto si divertiva. Ecco il segreto: si divertiva a prendere in giro il destino. Lunghe giornate di lavoro e risate. «Dobbiamo approfittare dei nostri personaggi, per far dire loro anche qualche cosa sui tempi grami che la gente sta vivendo. Dobbiamo lanciare messaggi di speranza».
Ripeteva all’infinito. Mese dopo mese, la voce si affievoliva, le mani si muovevano a fatica, le gambe traballavano, ma il cervello preso di mira dal maledetto tumore non smetteva di funzionare. Leggeva e rileggeva le pagine che andavano via via impilandosi: correggeva, aggiungeva una battuta, infilava un ricordo attinto dalla sua lunga esperienza personale. E ci si dava appuntamento per la settimana successiva. La domanda era sempre la stessa: «A che punto siamo?» «A buon punto, ma ci sono ancora un mucchio di cose da sistemare», l’immancabile risposta. E di nuovo lunghe ore di lavoro ma non senza divertimento, in una corsa contro il tempo che solo ora assume i contorni della tragedia. Solo ora. Voleva farcela, doveva farcela. Per lui, per sua moglie Emi, per i suoi figli e per i suoi amici. A primavera inoltrata gli scrivo il messaggio: «Capolavoro finito». Il Viminale esploderà, ora è in libreria. Bobo, ce l’hai fatta. Sono orgoglioso di averti aiutato. Sono fiero di essere stato tuo amico per trent’anni. Riposa in pace, fratello. *coautore con Roberto Maroni de «Il Viminale esploderà»
Bobo Maroni, il mio compagno di banco della III C: quando Wilson Pickett non credeva fossi ministro. Elio Girompini su Il Corriere della Sera il 22 Novembre 2022.
Gli studi insieme, la nostra band. Andavi in giro per Varese vestito da Babbo Natale. E poi la scena in barella con il collarino: era una sceneggiata e me l’hai confessato
Roberto Maroni è morto martedì 22 novembre: aveva 67 anni ed era malato di tumore. Qui un ricordo personale di Elio Girompini, già giornalista al Corriere della Sera e vecchio amico d’infanzia dell’ex ministro leghista. Nella foto in alto ci sono i Distretto 51, la band di blues di Varese in cui Maroni (il secondo in basso da sinistra) faceva il tastierista.
«Ciao Bobo, se puoi gira queste righe a Monza 500: Non sapevo che il ministro dell’Interno abitasse nel mio quartiere e avesse avuto lo stesso prof che amava le poesie di Emily Dickinson. Firmato: un ammiratore dei Beyond Varese».
È tardi ora per inviarti questo messaggio, lo so, ma già quando ho finito di leggere Il Viminale esploderà era troppo tardi per te, per noi, per scherzarci sopra, per ricordare Silvio Raffo che in quinta C, fuori programma, recitava Per fare un prato. E te l’avrebbe fatta ripetere all’infinito a ogni incontro di classe fino a poco tempo fa. Non una gran fatica, ammettilo: quattro righe, dai. Guardo la dedica, A ELIO CON AMiCIZIA, scritta a fatica in stampatello con la mano sinistra, perché con la destra tra medicazioni e altre difficoltà avresti fatto ancora peggio. Non è scoppiettante come quelle dei libri precedenti, di più non potevi. Ma c’è tutto. Anche ciò che in tutti questi anni, dal ginnasio al Cairoli fino a oggi, non avevamo mai pensato. Per esempio, quello che avremmo saputo dire o scrivere l’uno dell’altro in un momento così.
Un amico, e che amico, ministro (più volte), presidente di Regione, segretario di partito nel momento più duro, saggista e romanziere, autore di rubriche pungenti su Il Foglio. E poi altro ancora, ma queste cose le sanno tutti o possono saperle se vogliono. E poi invece compagno di scuola, uno di quelli bravi e che passavano la versione di greco e latino. E di università. Avevo già deciso per Giurisprudenza, tu invece per Scienze Politiche, salvo poi cambiare idea davanti al portone di via Festa del Perdono, tirando fuori i fogli d’iscrizione dalla tasca dell’eskimo. Non sono rimasto sorpreso, eri così. E perciò ancora stessi libri, stessi treni, ore di ripasso in giardino ridendo insieme di un paio di fuoricorso ai seminari che chiamavi, con finto rispetto, “senatori”. Senza immaginare che un giorno avresti usato quel termine in altri contesti. Poi uffici legali uno, giornali l’altro. E vacanze in barca. E la band, che prova nella taverna di casa tua prima ancora che ci entrassi con tua moglie. Di Bossi, della Lega, dei cartelli sui ponti dell’autostrada non avevi detto nulla a nessuno.
Noi, quelli con cui avevi fatto la maturità della III C (dopo aver strappato insieme le pagine di quasi tutti i libri a causa di ciò che avevamo battezzato “il morbo di Kruber”) , quelli con cui suonavi l’Hammond nel Distretto 51, non ne sapevamo nulla, avevamo dovuto leggerlo sulla Prealpina. «Ma dai, Bobo, segretario? La Lega? Che roba è?». «Eh, vedrete..» abbozzavi, con quel mezzo sorriso che non capivi mai se crederci o aspettarti lo scherzone. Non c’era ancora niente davanti e, appunto, si scherzava. Come sempre. Tanto che nel ’92, la notte prima delle elezioni, avevamo affisso in piazza a Lozza un finto manifesto elettorale: “Sei hai i co... vota Maroni”. Naturalmente non c’erano i puntini. E lì un po’ ti eri arrabbiato. Perché c’era ancora tua mamma e abitava proprio di fronte.
Comunque, visto abbiamo visto, e più tardi non è stato facile spiegare, ai colleghi e al direttore, che non potevo essere da solo a farti la prima intervista da ministro dell’Interno sul Falcon da Malpensa a Roma. Tu volevi farla soltanto con me, grazie, ma sapevamo entrambi che sarebbe stato impossibile rimanere davvero seri, anche se avremmo dovuto. Già da qualche mese ci trovavamo ancora una volta insieme ma in ruoli diversi, da tenere separati. E così è stato, senza favori, senza nemmeno doverlo spiegare. Ho invidiato la tua passione, non il tuo lavoro. Ho visto il tuo dolore alla morte di Biagi, visto lo smarrimento in tv alla prima trappola, quella sul decreto Biondi. La stanchezza per gli attacchi personali e il peso dei processi, la fatica per mettere insieme ciò che non andava, nel partito, nei ministeri. Una bella fetta di vita sotto scorta anche per venire a casa mia. Ma ho riso di gusto quando ti ho visto in barella con il collarino e il volto sofferente dopo l’irruzione in via Bellerio: una sceneggiata, lo sapevo già ma me l’hai poi confessata. La passione, comunque, era davvero forte. Che si trattasse di pensioni, del lavoro delle forze dell’ordine contro la mafia, di vertici internazionali o di beni confiscati, tornavi come a scuola, quando mostravi a tutti come fosse possibile finire anche la versione più ostica. O come quando parlavi del Milan.
Divisi a volte sulle idee, lo eravamo da sempre sul tifo: l’ultimo Juve-Milan insieme allo Stadium, con quel rigore di De Sciglio, ancora rossonero, me lo hai contestato fino all’altro ieri. Nonostante impegni e viaggi, per noi della III C c’eri sempre. Hai fatto tanto per Massimo, coinvolgendolo nel tuo lavoro prima che se ne andasse, proprio come te ora, tanti anni fa. Ed eri sempre il primo a buttare lì la sfida: «Cena di classe, quando?». Quando potevi. Come con il Distretto 51. All’inizio sempre, o quasi, perché alla prima uscita (privata), non ti sei presentato: bloccato dalla morte di Calvi al tuo posto di lavoro, all’Ambrosiano. Ma insomma, alle prese con la lana di roccia per insonorizzare il garage diventato sala prove ti abbiamo visto solo noi. Al volante del Ford Transit con il quale si andava a suonare stracarichi di strumenti o in “gita sociale” nelle Langhe pure.
In giro per Varese (ora si può dire) vestito da Babbo Natale, a suonare White Christmas alla fisarmonica con i Capric Horns, i fiati della band, ti hanno visto di sicuro in tanti ma nessuno ti ha mai riconosciuto. Quando eri sul palco del Festival Soul di Porretta, in giubbotto jeans e occhiali scuri, invece, lo sapevano tutti tranne i grandi sopravvissuti della Soul Music venuti dall’America. Quando hanno detto a Wilson Pickett che eri un ministro, non ci ha creduto. Logico. Prima Springsteen poi il soul. Nell’83, rimessa insieme la band, serviva un tastierista. Ho detto agli altri: «Fidatevi, suonava in chiesa». Ti sei messo al vecchio piano che era lì e hai convinto tutti. Abbiamo anche alla Siae qualche canzone con le nostre firme come autori. Una la suoneremo ancora una volta, per te. Più avanti ci hai autorizzati a portare con noi un cartonato a grandezza naturale della tua immagine. Perché non si sapeva mai se ci saresti stato. Come la sera in cui stavamo per salire sul palco al Politeama di Varese, ma arrivò la notizia di Berlusconi colpito al volto dal souvenir del Duomo: «Non che la mia presenza a Milano sia necessaria, ma non posso essere qui a suonare mentre tutti parlano di quel che è successo».
Oggi il tuo racconto pubblico è in tv, sul web, sui giornali. Ognuno giudicherà, per quel che conta. Io posso dire soltanto che a volte l’amicizia diventa un vero privilegio. Leggo l’amore di Emi e dei tuoi figli in un post dove (anche loro!) citano Emily Dikinson: per caso c’entri tu? Comunque, se dove sei non c’è connessione o hai dimenticato la password, ti mando due righe del post che il Distretto 51 ha pubblicato sulla pagina Facebook: Oh, come take my hand, we’re ridin’ out tonight to case the Promised Land. Io lo sapevo che eri nato per correre.
Maroni, la solitudine nella Lega. E la moglie cita Dickinson. Marco Cremonesi su Il Corriere della Sera il 23 Novembre 2022.
Venerdì i funerali dello storico esponente del Carroccio. I rapporti deteriorati nel partito dopo il no alla candidatura in Lombardia nel 2018. Meloni: un amico, una delle persone più capaci che abbia mai incontrato
Saranno in tanti, venerdì mattina, ai funerali di Roberto Maroni nella basilica varesina di San Vittore. Tante persone comuni, probabilmente: passeggiare con lui nel centro della sua città era complicato, a ogni metro qualcuno lo fermava per salutarlo. Ci saranno tanti politici, con ogni probabilità anche la premier Giorgia Meloni: «L’ho considerato una delle persone più capaci che abbia incontrato nella mia vita, era un amico, una persona che a questa nazione ha dato tanto». E ci saranno certamente tanti leghisti. Quelli che lui non vedeva e non sentiva più. Dopo che nel 2018 aveva rinunciato a ricandidarsi alla guida della Lombardia, i rapporti con tutti i vecchi colleghi di partito si erano azzerati. Nonostante la malattia, nessuno che si facesse vivo. Unica eccezione, il governatore lombardo Attilio Fontana.
Ma per lui, l’amarezza per l’atteggiamento di tanti ex amici del partito che aveva contribuito a fondare, c’era. Certo, non sarà per questo che la famiglia, che ha ricevuto il cordoglio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha declinato l’offerta di Matteo Piantedosi di allestire la camera ardente presso la prefettura di Varese; si trattava di un omaggio all’uomo delle istituzioni, nulla a che vedere con il partito. Fatto sta che la camera ardente è stata allestita alla casa funeraria Isella. Nel dolore feroce della perdita, qualsiasi dimensione pubblica potrebbe essere apparsa futile. E così, venerdì mattina ci sarà nella basilica di Varese il funerale. Ma la famiglia — la moglie Emilia Macchi, la figlia Chelo con i fratelli Filippo e Fabrizio — ha scelto di riunirsi più tardi, da soli. Avevano salutato la scomparsa del loro congiunto con alcuni versi di Emily Dickinson.
Se pesa il silenzio di Umberto Bossi, Matteo Salvini ha salutato il suo vecchio mentore con un tweet: «Grande segretario, super ministro, ottimo governatore, leghista sempre e per sempre». Mentre Giancarlo Giorgetti è incorso in un lapsus. Presentando la manovra: «Abbiamo fatto, come ha detto il presidente Maroni, una scelta politica». Ma concludendo, ha esplicitamente dedicato «un pensiero a Bobo, perché entra una norma sua». A Silvio Berlusconi «mancheranno la sua lucidità e la visione politica, il suo incommensurabile attaccamento alla Lombardia». «Colpito nel profondo» il presidente del Senato Ignazio La Russa, per quello della Camera Lorenzo Fontana Maroni è stato «un modello di buona amministrazione e governo». Larghissimo anche il cordoglio nell’opposizione. Enrico Letta ha ricordato i «tanti confronti. Sempre pieni di rispetto e di sostanza», il commissario Ue Paolo Gentiloni ha parlato di «leghista appassionato». Matteo Renzi: «È stato bello essere avversari ma collaborare sempre».
M. Crem. Per il Corriere della Sera il 23 novembre 2022.
Saranno in tanti, venerdì mattina, ai funerali di Roberto Maroni nella basilica varesina di San Vittore. Tante persone comuni, probabilmente: passeggiare con lui nel centro della sua città era complicato, a ogni metro qualcuno lo fermava per salutarlo. Ci saranno tanti politici, con ogni probabilità anche la premier Giorgia Meloni: «L'ho considerato una delle persone più capaci che abbia incontrato nella mia vita, era un amico, una persona che a questa nazione ha dato tanto». E ci saranno certamente tanti leghisti. Quelli che lui non vedeva e non sentiva più. Dopo che nel 2018 aveva rinunciato a ricandidarsi alla guida della Lombardia, i rapporti con tutti i vecchi colleghi di partito si erano azzerati.
Nonostante la malattia, nessuno che si facesse vivo. Unica eccezione, il governatore lombardo Attilio Fontana. Ma per lui, l'amarezza per l'atteggiamento di tanti ex amici del partito che aveva contribuito a fondare, c'era. Certo, non sarà per questo che la famiglia, che ha ricevuto il cordoglio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha declinato l'offerta di Matteo Piantedosi di allestire la camera ardente presso la prefettura di Varese; si trattava di un omaggio all'uomo delle istituzioni, nulla a che vedere con il partito. Fatto sta che la camera ardente è stata allestita alla casa funeraria Isella. Nel dolore feroce della perdita, qualsiasi dimensione pubblica potrebbe essere apparsa futile. E così, venerdì mattina ci sarà nella basilica di Varese il funerale. Ma la famiglia - la moglie Emilia Macchi, la figlia Chelo con i fratelli Filippo e Fabrizio - ha scelto di riunirsi più tardi, da soli. Avevano salutato la scomparsa del loro congiunto con alcuni versi di Emily Dickinson.
Se pesa il silenzio di Umberto Bossi, Matteo Salvini ha salutato il suo vecchio mentore con un tweet: «Grande segretario, super ministro, ottimo governatore, leghista sempre e per sempre». Mentre Giancarlo Giorgetti è incorso in un lapsus. Presentando la manovra: «Abbiamo fatto, come ha detto il presidente Maroni, una scelta politica». Ma concludendo, ha esplicitamente dedicato «un pensiero a Bobo, perché entra una norma sua». A Silvio Berlusconi «mancheranno la sua lucidità e la visione politica, il suo incommensurabile attaccamento alla Lombardia». «Colpito nel profondo» il presidente del Senato Ignazio La Russa, per quello della Camera Lorenzo Fontana Maroni è stato «un modello di buona amministrazione e governo». Larghissimo anche il cordoglio nell'opposizione. Enrico Letta ha ricordato i «tanti confronti. Sempre pieni di rispetto e di sostanza», il commissario Ue Paolo Gentiloni ha parlato di «leghista appassionato». Matteo Renzi: «È stato bello essere avversari ma collaborare sempre».
Da Corriere della Sera il 23 novembre 2022.
Caro Aldo, i leghisti di prima maniera erano abbastanza vulcanici.
Roberto Maroni si è distinto per pacatezza e affabilità.
Non l'ho mai visto adirato, sembrava anzi timido e riservato. Come politico, ha ricoperto ruoli di primo piano, sempre con professionalità e brillante intuizione.
L'ho conosciuto quando venne nelle Marche per portare qui la Lega. Era qui alle prime riunioni, si può dire che eravamo quattro gatti ma tutti molto determinati. Poi arrivò anche Bossi e così cominciarono i primi passi della Lega Nord nelle Marche .
Lontanissimo dalle mie idee, ma lo apprezzavo e mi dispiace veramente. Lei lo ha mai conosciuto?
La Risposta di Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera
Cari lettori, l a scomparsa di Roberto Maroni ha colpito un po' tutti voi. Era un uomo buono. Appassionato, non estremista. Questo non significa dimenticare che era un militante politico, talora anche duro. Non si tirò mai indietro.
Seguì Bossi nella svolta secessionista. Lo detronizzò dopo lo scandalo Belsito, il tesoriere che finanziava la «family».
Andai a intervistarlo quando ruppe con il fondatore.
Raccontò la storia dei diamanti in Tanzania, delle spese pazze. Aveva messo i bilanci della Lega in mano a una società internazionale di revisione dei conti (dietro l'aspetto naïf, Maroni era uomo di frequentazioni importanti, fin da quando aveva sposato la figlia del padrone dell'Aermacchi). Il suo ufficio era pieno di foto con Bossi in tutte le posizioni e in tutte le divise, dalla canottiera alla camicia verde, dalla t-shirt alla cravatta del giuramento.
Mi raccontò il loro primo comizio, in un albergo di Como.
«Era il marzo 1980. Sul palco eravamo in tre: Umberto, io e Bruno Salvadori dell'Union Valdotaine, che finanziava il nostro movimento, la Lega autonomista lombarda. In platea erano in quattro: due della Digos, un impiegato dell'albergo incuriosito, e un tipo che faceva sì con la testa. Il Bossi lo puntò: ecco il primo seguace, pensava. Invece era un picchiatore fascista. A fine comizio, appena Umberto lo avvicinò, quello gli tirò un pugno». Eppure con Bossi in quell'intervista fu molto duro. Lo fu pure con il suo amico Giancarlo Giorgetti: «È molto intelligente. Ma un uomo deve avere tre C; cervello, cuore, coglioni. Non tutti possono avere tutto».
Del suo conterraneo varesotto Mario Monti, che era presidente del Consiglio, disse: «Si fa dettare l'agenda da Merkel e Sarkozy». Non salvò neppure Berlusconi, di cui era stato più volte ministro: «Noi stessi siamo stati costretti dai francesi e dagli americani a fare una guerra in Libia che non volevamo». Non credeva nello sbarco leghista al Sud, vagheggiava semmai un'alleanza federalista con «un Bossi napoletano, quando spunterà».
Per il futuro della Lega pensava a un tandem tra Flavio Tosi, front-runner elettorale, e Matteo Salvini, chiamato a riorganizzare il partito; non prevedeva che il secondo si sarebbe mangiato il primo. Vide però arrivare i 5 Stelle. Mi mostrò sul telefonino una sua foto abbracciato a Beppe Grillo: «L'avevo accompagnato da un cronista della Padania che voleva intervistarlo. Ha fiuto politico. In lui rivedo la Lega delle origini». Quando nel 1994 litigò con Bossi che aveva fatto cadere il primo governo Berlusconi, si disse che sarebbe finito in Forza Italia. Ma Bobo Maroni gridò nel microfono: «Sono nato con la Lega, morirò con la Lega». È stato di parola .
Roberto Maroni è morto: l'ex ministro dell'Interno aveva 67 anni. Lottava da tempo contro una grave malattia. La Repubblica il 21 Novembre 2022.
Roberto Maroni è morto. L'ex ministro dell'Interno e del Lavoro e delle politiche sociali aveva 67 anni. Lottava da tempo contro un tumore al cervello. Si è spento nella notte nella sua casa. Oltre a far parte di vari governi guidati da Silvio Berlusconi, era stato segretario della Lega e governatore della Lombardia. I funerali saranno venerdì a Varese, nella basilica di San Vittore, alle 11.
L'annuncio della famiglia
"Questa notte alle 4 il nostro caro Bobo ci ha lasciato. A chi gli chiedeva come stava, anche negli ultimi istanti, ha sempre risposto 'bene'. Eri così Bobo, un inguaribile ottimista. Sei stato un grande marito, padre e amico" Sei stato un grande marito, padre e amico". Queste le parole scelte dalla famiglia per annunciare la scomparsa di Roberto Maroni. "Chi è amato non conosce morte, perchè l'amore è immortalità, o meglio, è sostanza divina (Emily Dickinson). Ciao Bobo", si conclude.
La vita
Nato a Varese il 15 marzo 1955, Maroni ha dedicato tutta la vita alla politica: segretario federale del Carroccio dal 2012 al 2013, è stato ministro dell'Interno nei governi Berlusconi I e Berlusconi IV, risultando il primo politico esterno alla Democrazia Cristiana a ricoprire l'incarico nella storia repubblicana, ministro del lavoro e delle Politiche sociali nei governi Berlusconi II e Berlusconi III. Ha inoltre ricoperto il ruolo di presidente della Regione Lombardia dal 2013 al 2018, succedendo a Formigoni.
Gli studi classici al liceo Ernesto Cairoli di Varese, un'esperienza come conduttore radiofonico in una radio libera, 'Radio Varese' e una laurea in giurisprudenza. Il 1979 è l'anno dell'incontro con Umberto Bossi. Dieci anni più tardi partecipa alla fondazione della Lega Nord, di cui ricopre dal 2002 l'incarico di coordinatore della segreteria politica federale presieduta dal segretario federale Bossi.
Il battesimo alla Camera dei deputati avviene nel 1992, dove ricopre la carica di presidente del gruppo parlamentare leghista. Da tempo Maroni lottava contro una malattia. Nel 2020, in un'intervista alla 'Prealpina', aveva ufficializzato la sua candidatura a sindaco di Varese, in vista delle elezioni comunali del 2021 ma poi si era ritirato dalla corsa per gravi problemi di salute. L'ultimo suo impegno, un libro a quattro mani con Carlo Brambilla, un thriller fantapolitico dal titolo evocativo, "Il Viminale esploderà".
Le reazioni del centrodestra
Colpita dalla notizia della scomparsa di Roberto Maroni, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: "Un amico, un politico intelligente e capace, un uomo che ha servito le istituzioni con buonsenso e concretezza. Il governo esprime il suo cordoglio e la sua vicinanza alla famiglia e ai suoi cari in questo momento difficile". Poi durante la conferenza stampa sulla manovra commossa ricorda l'esperienza di governo insieme con "una delle persone più capaci che abbia incontrato. Una persona che a questo Paese ha dato tanto, un amico".
"Grande segretario, super ministro, ottimo governatore, leghista sempre e per sempre. Buon vento Roberto". Così il segretario della Lega e ministro dei Trasporti Matteo Salvini ricorda su Instagram il suo compagno di partito. Che poi intervenendo a Rtl 102.5 aggiunge: "A Roma il tempo è grigio e piove: una giornata iniziata nel peggiore dei modi. La notizia di Maroni ti riporta con i piedi per terra e ti fa dare la giusta dimensione alle cose umane. Amava la barca a vela, buon vento a Roberto - ripete - Un pensiero alla sua famiglia e a chi lotta contro la malattia".
Poi durante la trasmissione Agorà su RaiTre annuncia che durante la riunione della Lega sulla manovra - dopo il Cdm terminato questa notte - "con i ministri della Lega, i viceministri, i sottosegretari parlando di aumento delle pensioni, di Flat tax, di quota 41 e dedicheremo a lui, che fu innovatore anche al ministero del Welfare, non solo all'Interno, l'avvio della riforma delle pensioni". Il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, spiega che "in questa legge di bilancio c'era una norma che aveva voluto lui. Gli ho scritto una settimana fa 'dicono che è una cosa mia invece è 'made in Maroni', non mi ha risposto. Ecco, c'è qualcosa anche di suo in questa legge di bilancio".
Il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi ricorda Maroni su Instagram, era "un amico, più volte autorevole ministro dei miei governi, già segretario della Lega Nord e valido governatore della Lombardia". "Mancheranno - ha aggiunto Berlusconi - la sua lucidità e la sua visione politica, il suo incommensurabile attaccamento alla Lombardia ed alle regioni del Nord produttivo. Mi stringo al dolore dei suoi cari e degli amici della Lega".
Dice non trovare le parole giuste per salutare Maroni, Roberto Calderoli. "Un compagno di una trentennale battaglia politica che ha cambiato e caratterizzato la nostra vita, un compagno di mille momenti insieme, di lunghissime giornate in via Bellerio, nell'ufficio di Umberto Bossi, alle feste delle Lega e poi per decenni in Parlamento e al governo - ricorda il senatore della Lega e ministro per gli Affari Regionali e per l'Autonomia - Con lui se ne va un pezzo della mia vita, della mia storia, dei miei ultimi trent'anni".
Anche il senatore di FI Maurizio Gasparri si dichiara molto addolorato: "Condivisi con lui al Viminale la prima esperienza di governo di centrodestra nel 1994 e da allora abbiamo sempre mantenuto un rapporto di amicizia, che spesso è stato utile in fasi delicate della vita del centrodestra. Questa notizia mi lascia sgomento. Ricordo anche il legame che unì Roberto a Pinuccio Tatarella, il cui ricordo ha sempre onorato. Protagonista della vita politica ed istituzionale resta un esempio di serietà e di impegno costruttivo, fondamentale nel percorso del centrodestra, che in lui ha sempre avuto un punto di riferimento". "Se ne va un amico e un protagonista del cambiamento", aggiunge Maurizio Lupi, leader di Noi Moderati. E il ministro degli Esteri Tajani interviene su Twitter: "Ha ricoperto con grande senso dello Stato incarichi molto importanti. Difendendo sempre con coraggio le sue idee. Prego per la sua famiglia in questo momento di dolore. Riposi in pace".
"Un amico. Una persona perbene. Un uomo che ha portato buonsenso, concretezza e moderazione nelle istituzioni. Da parlamentare, da ministro, da presidente di regione. Esce a testa alta dalla vita. Che la terra ti sia lieve Roberto", è il tweet del ministro della Difesa Guido Crosetto. Sui social anche il cordoglio del ministro dell'Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida: "Roberto Maroni, un uomo perbene di cui la politica italiana sentirà la mancanza. Vicinanza e affetto alla sua famiglia, ai suoi cari e alla comunità degli amici della Lega".
Le reazione dell'opposizione
Nel campo dell'opposizione, il segretario del Pd Enrico Letta ricorda i confronti con Maroni "sempre pieni di rispetto e di sostanza. Che tristezza. Ci mancherai. Ti sia lieve la terra Roberto", scrive sui social network.
Tra le prime reazioni di cordoglio quella del senatore Pd Enrico Borghi: "Un pensiero e un ricordo per Roberto Maroni. La sua intelligenza e la sua passione politica mancheranno a tutti. Riposa in pace". "L'ho conosciuto bene - scrive sui social il dem Emanuale Fiano - sempre disponibile e gentile, rispettoso delle opinioni diverse dalle sue come le mie, mi dispiace molto, riposi in pace, un abraccio alla famiglia". "Ricordo Roberto Maroni, leghista appassionato, ministro competente, uomo leale, simpatico, impegnato" twitta il commissario europeo all'Economia Paolo Gentiloni.
"Con la morte di Roberto Maroni la Lombardia perde una persona seria e perbene. È stato per tanti di noi un avversario politico tenace e sempre leale. Un abbraccio ai suoi cari", scrive il candidato del Pd alla regione Lombardia, Pierfrancesco Majorino. Unanime è il cordoglio anche dei politici lombardi di tutti gli schieramenti.
"Ciao Bobo. È stato bello conoscerti, è stato bello incrociare il tuo sorriso, è stato bello essere avversari ma collaborare sempre. Un abbraccio alla tua famiglia. Che la terra ti sia lieve", scrive su Twitter Matteo Renzi. E per il fondatore di Azione, Carlo Calenda, "al di là delle differenze politiche, è stato un vero uomo di Stato. E in Italia non è cosa da poco".
"Avversario leale, sempre pronto al confronto", è il ricordo di Matteo Richetti di Azione. Mara Carfagna, una vita in Forza Italia e ora deputata e presidente di Azione, abbraccia la famiglia di Roberto Maroni, "amico e collega intelligente, ironico, capace di difendere le sue idee con passione ma anche con equilibrio. Ha segnato un pezzo della storia politica italiana, non sarà dimenticato".
"Con Roberto Maroni se ne va uno dei protagonisti della politica degli ultimi 30 anni - osserva il presidente del M5S, Giuseppe Conte - Il Movimento 5 stelle esprime vicinanza al dolore dei suoi cari e della sua comunita' politica".
"Teneva alla Politica e rispettava chi come lui si impegnava per le proprie idee" afferma su Twitter la parlamentare del M5S Chiara Appendino. "Un uomo di grande garbo e intelligenza politica che ha sempre lavorato con il massimo rispetto delle Istituzioni che è stato chiamato a rappresentare. Una persona perbene. Le nostre condoglianze alla famiglia e alla sua comunità politica", le parole della presidente dei senatori del Pd Simona Malpezzi. A nome delle deputate e dei deputati Pd parla Debora Serracchiani, capogruppo del Partito democratico alla Camera esprimendo "vicinanza alla sua famiglia e alla Lega".
"La pensavamo diversamente ma era una persona perbene, incline al dialogo e attenta alle posizioni altrui - commenta il co-portavoce di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra Angelo Bonelli - Un politico a cui va riconosciuto il massimo rispetto. Le condoglianze alla famiglia dai Verdi italiani".
Morte Maroni, le reazioni. La politica bipartisan saluta il governatore 'barbaro'. Fontana: "Addio Bobo". Sala: "Per me è stato un amico". Miriam Romano La Repubblica il 22 Novembre 2022.
La politica senza distinzioni di partito saluta l'ex presidente della Regione Lombardia ed ex ministro dell'Interno, morto a 67 anni dopo una lunga malattia. Salvini: "Funerali venerdì a Varese". Minuto di silenzio in Consiglio regionale. Il suo avvocato: "Ha sofferto per il trattamento giudiziario"
Il cordoglio è una valanga che arriva da destra e da sinistra, senza distinzioni per Roberto Maroni, morto a 67 anni. E' stato ministro dell'Interno e del Lavoro e delle politiche sociali, è stato presidente della regione Lombardia e segretario della Lega nel difficile passaggio da Bossi a Salvini. Ha avuto rapporti cordiali e di collaborazione con tutti, come gli riconoscono oggi. Ed è per questo che appena si è diffusa la notizia della sua morte - da tempo era malato, ma più volte si era ripreso tornando alla vita pubblica - i messaggi di cordoglio si sono moltiplicati. "Stamattina il risveglio per le istituzioni, credo per ognuno di noi, è stato particolarmente doloroso per la scomparsa di Roberto Maroni". Così il presidente del consiglio regionale della Lombardia, Alessandro Fermi, in apertura della seduta, ha chiesto di osservare un minuto di silenzio in memoria di Maroni, precisando che la settimana prossima ci sarà la commemorazione ufficiale.
E se i messaggi di cordoglio del segretario leghista Matteo Salvini sono tra i primi - gli augura "buon vento", lo ricorda come "leghista sempre e per sempre" - e quello di Silvio Berlusconi ricorda "un amico, più volte autorevole ministro dei miei governi, già segretario della Lega Nord e valido governatore della Lombardia. Mancheranno la sua lucidità e la sua visione politica, il suo incommensurabile attaccamento alla Lombardia ed alle Regioni del Nord produttivo. Mi stringo al dolore dei suoi cari e degli amici della Lega" - arriva anche l'addio del suo successore in Lombardia Attilio Fontana: "Ci ha lasciati Roberto Maroni. Piango l'addio di un amico con il quale ho condiviso gran parte della mia vita politica. Una persona intelligente e mai sopra le righe. Presidente della Lombardia, ministro e segretario federale della Lega. Nel cuore ha sempre avuto i Lombardi e la Lombardia. Riposa in pace! Addio Bobo". "In questa legge di bilancio c'era una norma che aveva voluto lui. Gli ho scritto una settimana fa 'dicono che è una cosa mia invece è 'made in Maroni', non mi ha risposto. Ecco, c'è qualcosa anche di suo in questa legge di bilancio". Così il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, ha risposto a Rainews ricordando Roberto Maroni.
Il sindaco di Milano Beppe Sala, lo ricorda su Twitter come politico e come amico: "Di Roberto Maroni si potrebbero dire tante cose. Protagonista di una lunga stagione politica per me è stato soprattutto un amico. Ci siamo consultati, confidati, a volte sfidati. Con la fiducia e il rispetto che devono esserci quando si crede nell'amicizia. Mancherai a me e a tanti".
"Ha sofferto tanto, molto di più di quanto si possa credere o immaginare per come la giustizia degli uomini lo ha trattato, per come è stato descritto e mal scritto". Così Domenico Aiello, storico legale di Roberto Maroni, ricorda l'ex ministro ed ex governatore lombardo, che venne assolto in via definitiva dalla Cassazione nel 2020 dall'accusa di turbata libertà degli incanti per la vicenda di un contratto ad una sua ex collaboratrice. "Mi mancherà moltissimo - spiega all'ANSA Aiello -. Bobo era un vero amico, un animo nobile, un politico visionario, serio.
Amava la politica, per lui contavano le buone idee e solo da queste si faceva condurre. Ha sofferto tanto, molto di più di quanto si possa credere o immaginare per come la giustizia degli uomini lo ha trattato, per come è stato descritto e mal scritto". Ancora Aiello: "Questo male terribile è stato così alimentato. Rispettava le Istituzioni più di ogni altra cosa, protetto da una famiglia meravigliosa ha mantenuto contegno e decoro nella malattia. Sempre coerente, cultore del basso profilo, ha insegnato tanto a molti, anche a quelli di memoria corta". Maroni era ancora sotto processo a Milano per induzione indebita e turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente per il caso di un altro contratto. Processo più volte rinviato nei mesi, anche di recente, per impedimenti proprio legati ai motivi di salute di Maroni.
"Lo ricordo per la passione Istituzionale sulle autonomie, argomento ancora attualissimo. Del suo impegno come ministro dell'interno conserverò il suo esempio di fermezza ed equilibrio. Insieme firmammo il patto per milano per garantire maggiore sicurezza alla città". Così Letizia Moratti ricorda Roberto Maroni "con il quale ho condiviso l'esperienza di governo", una morte che "mi addolora molto".
"Con la morte di Roberto Maroni la Lombardia perde una persona seria e perbene. È stato per tanti di noi un avversario politico tenace e sempre leale. Un abbraccio ai suoi cari!". Scrive Pierfrancesco Majorino, candidato del partito democratico alla presidenza della regione. E si unisce al ricordo anche Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano che con Maroni aveva lavorato ai tempi di Expo: "Da sindaco e in Parlamento ho conosciuto Roberto Maroni e pur nelle differenze politiche ne ho apprezzato la volontà di collaborazione e il tratto personale- Le mie condoglianze alla famiglia e ai suoi cari".
"Sono molto dispiaciuto per la morte di Roberto Maroni, anche perché è morto giovane ed è morto con una brutta malattia. Soffriva da più di un anno e quindi è una morte che colpisce. Maroni è stato un politico fine, capace di intuito, di una visione, di un disegno. E' stato un politico di primissimo rango". A dirlo all'AdnKronos è Roberto Formigoni, ex presidente di Regione Lombardia. "I rapporti tra me e lui sono stati altalenanti - spiega Formigoni - perché in certi momenti siamo stati alleati e in certi momenti avversari. Nel 1994 eravamo avversari perché mi candidavo in una lista diversa dalla sua". Maroni, sottolinea, "è stato un ministro dell'Interno esordiente, che ha saputo governare materie molto complesse e come ministro del Lavoro ha avuto intuizioni che hanno prodotto risultati positivi che si vedono ancora adesso". L'ultima volta che si sono sentiti, dice Formigoni, è stata "un po' di tempo fa, all'inizio della sua malattia, quando mi fece capire che doveva stare assente per un po'".
E ancora, Maurizio Lupi di Noi Moderati: "Apprendiamo con dolore della scomprsa di Roberto Maroni, un amico, una persona che ha saputo interpretare con stile e moderazione il cambiamento politico e sociale della Repubblica. Ci uniamo al dolore della famiglia e dei suoi cari".
Tanti i messaggi dal Pd. Scrive Enrico Letta, il segretario nazionale: "Tanti ricordi e tanti confronti. Sempre pieni di rispetto e di sostanza. Che tristezza. Ci mancherai. Ti sia lieve la terra Roberto". "A nome di tutte le democratiche e tutti i democratici lombardi esprimo le più sentite condoglianze alla famiglia, agli amici e alla comunità politica della Lega", scrive da parte del Pd lombardo, il segretario, Vinicio Peluffo.
"Ci ha lasciato Roberto Maroni. Un caro amico, una persona perbene. Mancherà alla politica italiana, perché fu capace di coniugare visione, passione e senso delle istituzioni. Mancherà alla sua lombardia, mancherà a tutti noi. Un forte abbraccio alla famiglia". Lo scrive su Twitter Mariastella Gelmini, vicesegretario nazionale e portavoce di azione. "Roberto Maroni aveva la capacità di Ragionare con onestà intellettuale, rendendo ogni discussione una occasione di confronto. Mancherà la sua voce nel dibattito pubblico sulla sua Lega e sulla Lombardia". Lo scrive su Twitter la deputata del Partito Democratico Lia Quartapelle.
"Le più sentite condoglianze alla famiglia e alla comunità della Lega per la scomparsa di Roberto Maroni , indiscusso protagonista della vita politica della nostra Regione e del nostro Paese", scrive il segretario lombardo di Azione Niccolò Carretta, esprimendo cordoglio a nome di tutto il partito. Maroni è stato "mai scontato e banale, ci mancherà il 'barbaro fogliante'".
È morto Roberto Maroni. L'ex ministro dell'Interno aveva 67 anni. Il Tempo il 22 novembre 2022
È morto Roberto Maroni. L’ex ministro dell’Interno ed ex segretario della Lega aveva 67 anni. Lo si apprende da fonti del partito. Ecco le parole della famiglia per annunciare la notizia della sua scomparsa: «Questa notte alle 4 il nostro caro Bobo ci ha lasciato. A chi gli chiedeva come stava, anche negli ultimi istanti, ha sempre risposto "bene". Eri così Bobo, un inguaribile ottimista. Sei stato un grande marito, padre e amico. Chi è amato non conosce morte, perché l’amore è immortalità, o meglio, è sostanza divina (Emily Dickinson). Ciao Bobo», si conclude. «Grande segretario, super ministro, ottimo governatore, leghista sempre e per sempre. Buon vento Roberto». Così il segretario leghista Matteo Salvini ha ricordato Roberto Maroni postando sui social una vecchia foto che lo ritrae con l’ex governatore lombardo scomparso.
Nato a Varese il 15 marzo 1955, Maroni, malato da tempo, ha dedicato tutta la vita alla politica: segretario federale del Carroccio dal 2012 al 2013, è stato ministro dell’Interno nei governi Berlusconi I e Berlusconi IV, risultando il primo politico esterno alla Democrazia Cristiana a ricoprire l’incarico nella storia repubblicana, ministro del lavoro e delle Politiche sociali nei governi Berlusconi II e Berlusconi III. Ha inoltre ricoperto il ruolo di presidente della Regione Lombardia dal 2013 al 2018, succedendo a Formigoni. Gli studi classici al liceo Ernesto Cairoli di Varese, un’esperienza come conduttore radiofonico in una radio libera, "Radio Varese" e una laurea in Giurisprudenza. Il 1979 è l’anno dell’incontro con Umberto Bossi. Dieci anni più tardi partecipa alla fondazione della Lega Nord, di cui ricopre dal 2002 l’incarico di coordinatore della segreteria politica federale presieduta dal segretario federale Bossi. Il battesimo alla Camera dei deputati avviene nel 1992, dove ricopre la carica di presidente del gruppo parlamentare leghista. Da tempo Maroni lottava contro una brutta malattia. Nel 2020, in un'intervista alla "Prealpina", aveva ufficializzato la sua candidatura a sindaco di Varese, in vista delle elezioni comunali del 2021 ma poi si era ritirato dalla corsa per gravi problemi di salute.
Barbaro sognante. Ivano Tolettini su L’Identità il 23 Novembre 2022.
Il cuore caldo dell’attivista padano, quel Bobo da Lozza, che a metà degli anni Ottanta solidarizza con chi impugna la bomboletta spray e scrive sui cavalcavia lombardo-veneti “Roma Ladrona”, prodromo della “rivoluzione nordista” che avrebbe voluto ambire alla secessione annacquata nell’autonomia “madre di tutte le battaglie”, lascia spazio all’eminenza critica del movimento diventato partito di massa, prima di liofilizzarsi di nuovo nelle urne invocando lui per primo “un nuovo corso, a partire dal segretario” Matteo Salvini, dalla leadership sbiadita. Nel mezzo la straordinaria parabola di chi, assaporando l’estasi del rimirar le stelle del potere al massimo livello, da vice premier a 39 anni nel primo governo Berlusconi fino a due volte ministro degli Interni e una del Lavoro, nonché governatore della Lombardia dal 2013 al 2018, è consapevole di quanto la fortuna politica sia fugace, ma soprattutto mignotta. Proprio come invita il testo sapienziale del Qoelet, che il Bobo da Lozza apprezza, perché il saggio deve temere la “vanità di vanità”. Maroni da riflessivo cavallo di razza che predilige più il versante istituzionale che quello di partito, anche dopo la malattia che ha menomato l’Umberto, ne è così consapevole che non batté ciglio nella palude della contestazione più dura dei seguaci del Senatur, il 5 aprile 2012, quando è insultato al grido di “buffone” in via Bellerio. La sua auto è cosparsa di volantini col “bacio di Giuda”, poco prima di assumere la segreteria federale al posto del leone affaticato e caduto definitivamente in disgrazia anche per gli scandali del tesoriere Belsito e di quelli familiari.
Per questo Roberto Maroni, spentosi a 67 anni ieri alle 4 nella sua casa di Lozza, alla periferia di Varese, circondato dall’amore della moglie e dei tre figli che lo hanno sempre scortato nella lunga via crucis del tumore che lo aveva colpito alla testa ancora quando era presidente della Regione – ed ecco il motivo per il quale non si era ricandidato lasciando spazio ad Attilio Fontana -, ha vissuto con inguaribile ottimismo fino all’ultimo, nascondendo l’effettiva gravità del male. Come ha ricordato commosso il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, quando a proposito del bonus pensioni ha detto che è stata la sua norma. Deputato dal 1992 al 2013, è stato protagonista della stagione del traumatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, rappresentando con il Senatur il punto di riferimento dell’elettorato al di sopra del Po, mito celtico con il quale sornione giocava, e partner strategico dell’alleanza di centrodestra inaugurata da SilvIo Berlusconi con la sua discesa in campo del 1994. Va ricordato un Maroni di lotta, come quando morsicò un agente e fu condannato in via definitiva per resistenza nell’inchiesta sulla “Guardia Nazionale Padana” nel 1996, e uno di governo quando da ministro degli Interni si è intestato i decreti sulla sicurezza, aggravando le pene ad esempio per chi guida in stato d’ebbrezza e nel 2009 introducendo il reato di stalking. Uscì a testa alta in Cassazione perché il “fatto non sussiste” da infondati favori quand’era governatore e non si rassegnò mai dell’omicidio, nel 2002, delle nuove BR del suo consulente al ministero del Lavoro, l’economista Marco Biagi, nonostante sei mesi prima dell’agguato avesse sollecitato al prefetto di Roma “la necessità di ogni attenzione”. “Sono rimasto un barbaro sognante”, scriveva sul Foglio e agli amici di tante battaglie. Si erano stupiti, lui così premuroso, non ricevendo alcuna risposta ai messaggi lo scorso fine settimana.
È morto Roberto Maroni, ex ministro e fondatore della Lega. Il Domani il 22 novembre 2022
Negli anni Ottanta contribuì a creare il partito autonomista insieme a Umberto Bossi. È stato il secondo segretario della Lega e ha guidato la Lombardia tra il 2013 e il 2018. Aveva 67 anni
È morto questa notte Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e del Lavoro, fondatore della Lega insieme a Umberto Bossi e presidente della regione Lombardia tra il 2013 e il 2018. Aveva 67 anni.
Storico numero due della Lega, con un rapporto di amicizia spesso travagliato con il leader Bossi, a cui nel 2012 era succeduto dopo una serie di scandali, negli ultimi anni si era allontanato dalla vita di partito ed era diventato una delle principali voci critiche della segreteria di Matteo Salvini, pur senza mai rompere apertamente.
Vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno nel primo governo Berlusconi, ministro del Lavoro tra 2001 e 2006 e poi di nuovo all’Interno tra 2008 e 2011, Maroni è stato a lungo il più istituzionale dei leader leghisti, spesso apprezzato anche da chi gli era lontano politicamente.
La sua opera di ministro è ricordata soprattutto per i “pacchetti sicurezza” e l’atteggiamento duro contro l’immigrazione. I suoi accordi con la guardia costiera libica per organizzare i respingimenti dei richiedenti asilo erano nel segno di quanto avrebbero fatto i governi successivi. Lo “scalone Maroni” che porta il suo nome è stata una riforma per alzare l’età pensionabile che anticipava la riforma Fornero, ma che non è mai entrata in vigore.
LA MAMMA DELLA LEGA
Nato a Varese nel 1955, studente di legge fuoricorso di orientamento marxista-leninista, Maroni si incontra con Umberto Bossi nel 1979 e tra i due nasce un’amicizia-rivalità che segnerà la storia della Lega e quella della seconda repubblica. «Se Bossi è il papà della Lega, io ne sono la mamma», dirà anni dopo quell’incontro.
I primi anni di vita politica insieme sono entrati nella leggenda del partito, con racconti di scorribande notturne per la provincia lombarda ad attaccare manifesti e dipingere slogan autonomisti. Il successo per il partito arriva alle regionali del 1990. Quello di Maroni, che fino a quel momento ha lavorato nel privato come manager e avvocato, nel 1992, quando entra per la prima volta in parlamento.
I due rompono nel 1995, quando Maroni lascia il partito in contrasto con la decisione di far cadere il governo Berlusconi. Ma quando la Lega trionfa alle regionali, decide di tornare nel partito. Le tensioni riaffiorano negli anni successivi sempre sullo stesso punto: Bossi vuole strappare, Maroni è per la conciliazione.
Quando nel 2004, Bossi viene colpito ad un ictus, il partito passa sotto controllo di un gruppo di suoi fedelissimi ribattezzato “cerchio magico”. Maroni è tagliato fuori. Avrà la sua vendetta nel 2012, quando si scopre che il “cerchio magico” usa i fondi della Lega per finanziare le spese personali della famiglia Bossi. Maroni si mette a capo della rivolta dei militanti, si presenta ai comizi armato di scopa e promette di fare pulizia nel partito. A luglio viene eletto segretario della Lega.
Con il partito in crisi di consensi e che appare prossimo alla scomparsa, in parlamento si parla di “emendamenti salva-Lega” alla legge elettorale, Maroni lascia l’incarico dopo poco più di un anno, per correre come candidato presidente in Lombardia. Eletto nel 2013, diventa il primo leghista in quasi 20 anni a guidare la regione simbolo del partito.
DI NUOVO NUMERO DUE
Alla segreteria del partito gli succede Matteo Salvini che, contro ogni aspettativa, rivitalizza il partito portandolo in poco tempo al livello di consensi che aveva nei migliori anni di Bossi. Salvini abbandona il tema dell’autonomia del nord e i toni paludati di Maroni e torna a usare il linguaggio incendiario del fondatore del partito.
I due non si amano, ma la rottura definitiva arriva solo nel 2018. Maroni annuncia a sorpresa che non intende ricandidarsi alla guida della regione. Secondo molti, scommette che alle elezioni politiche non uscirà una maggioranza chiara e spera di diventare il presidente del Consiglio tecnico che possa mettere d’accordo una grande coalizione.
Ma la reazione di Salvini e Berlusconi è netta. Maroni viene attaccato duramente, come aveva fatto Bossi nel 1995. Non si ricandida all’elezioni e da quel momento si allontana dalla vita politica. Trascorre gli ultimi anni scrivendo articoli per il quotidiano il Foglio, dedicandosi alla musica nel gruppo jazz Distretto 51.
Nel 2020, mentre la leadership di Salvini inizia a dare segni di crisi, Maroni sembra intenzionato a tornare alla politica attiva e annuncia la sua candidatura a sindaco di Varese. Pochi mesi dopo, però, annuncerà il suo ritiro a causa della scoperta di un tumore al cervello. Sposato con Emilia Macchi, Maroni lascia tre figli: Chelo, Fabrizio e Filippo.
«Il Bobo» musicista soul e milanista, l'altro volto di Maroni. In questa veste l’ho conosciuto molti anni fa, a un concerto della sua band, Distretto 51. La cornice un locale chiamato Splasc(h) a Induno Olona, provincia di Varese. Mauro Gervasini La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Novembre 2022.
Abbiamo chiesto un ricordo del Maroni non solo politico a Mauro Gervasini, già collaboratore de «La Prealpina» di Varese, direttore editoriale del settimanale «Film Tv» e consulente della Mostra del cinema di Venezia. Il suo nuovo libro è «Se continua così - Cinema e fantascienza distopica» (Mimesis ed.)
La vita pubblica di Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno, del Lavoro e presidente della Regione Lombardia, non è stata solo quella politica. In verità Bobo, come familiari e amici l’hanno chiamato sin da ragazzo, o «il Bobo», come s’usa dire nel Milanese e dintorni, è stato un apprezzato musicista e un esperto di soul e rythm’n’ blues. In questa veste l’ho conosciuto molti anni fa, a un concerto della sua band, Distretto 51. La cornice un locale chiamato Splasc(h) a Induno Olona, provincia di Varese, una manciata di chilometri dal confine elvetico, legato a doppio filo all’omonima etichetta discografica specializzata in Jazz, per la quale incisero, o addirittura esordirono, stupendi musicisti quali Tiziana Ghiglioni, Luca Flores, Pietro Tonolo, Paolo Fresu. Il locale era però aperto ad altre contaminazioni, e fu appunto durante una serata dedicata al rythm’n’ blues che vidi suonare il Distretto 51 e conobbi il Bobo, diventando amico anche degli altri suoi compagni d’avventura.
Qualche tempo dopo, divenuto ministro nel primo governo Berlusconi, durante un concerto in una struttura sportiva venne immortalato con un sassofono in mano. La foto fece il giro dei rotocalchi e dei quotidiani, all’epoca presidente degli Stati Uniti era Bill Clinton e giornalisticamente troppo ghiotta appariva l’occasione di un paragone tra la sua ben nota passione per il sax e la posa del nostro ministro. Che però suonava tutt’altro, la sua passione era l’organo Hammond, strumento principe del genere musicale prediletto. Con gli amici della band partecipai a due edizioni del Porretta Soul Festival, evento creato dal visionario Graziano Uliani, folgorato sulla via di Otis Redding, nell’omonima località dell’Appennino bolognese. Nel 1993 e nel 1994: tra la prima e la seconda volta Maroni era diventato ministro dell’Interno, con quel che comporta in «diversità» di vita sociale, sempre scortato, spesso telefonicamente allertato, eppure era il solito Bobo.
Grazie a lui ho conosciuto Rufus Thomas, musicalmente e di persona, non potrò mai scordarlo o finire di ringraziarlo. Poi, ovvio, gli anni sono passati e le strade sono tornate a incrociarsi solo episodicamente, anche se nel Distretto 51 hanno continuato a suonare amici carissimi. Lui, un po’ come Jack Frusciante, non è mai uscito veramente dal gruppo, ma gli impegni istituzionali l’hanno costretto a protratte lontananze. Spero di non fargli un torto nel ricordare un concerto, in tempi più recenti, durante il quale suonò con l’Hammond silenziato: non aveva potuto provare i pezzi del nuovo repertorio ma non voleva comunque mancare all’appuntamento, credo sia anche questa una conferma della passione verace per la musica e per la dimensione live.
Infine, nel 2018, alla Triennale di Milano, partecipai a un workshop promosso dall’Università degli Studi dell’Insubria in collaborazione con il Centro Internazionale «Gianfranco Brebbia» dedicato al cinema sperimentale. Maroni era all’epoca governatore della Lombardia, si presentò per dare un saluto istituzionale ma si prese del tempo per approfondire il tema (non semplice) del convegno. Alla fine ci ritrovammo insieme agli organizzatori a discutere di mille cose diverse, dalla musica al Milan (di cui era tifosissimo) al racconto che immagini d’avanguardia avevano fatto di tempi e luoghi lombardi ormai remoti. Anche in quell’occasione, il solito Bobo.
Maroni, «sudista» della Lega e quel sodalizio con Pinuccio barbaro sognante. Il mantra del governismo. Di Tatarella conservava anche un ritratto nello studio. Michele De Feudis La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Novembre 2022.
Ha lottato come un leone il “barbaro sognante” Roberto Maroni: fino a ieri, per il federalismo, per una Lega di governo e sindacato del Nord, ma anche per inserire a pieno titolo nell’«ideologia italiana» la vocazione autonomista dei territori, senza rompere il perimetro dell’unità nazionale. L’ex ministro del Carroccio è morto a 67 anni dopo una lunga malattia e tutta la politica italiana si stretta intorno ai suoi familiari per esprimere sincero cordoglio.
Il «leghista più sudista», ben prima della svolta nazionale di Matteo Salvini, era proprio il politico di Varese, che aveva un rapporto speciale con la Puglia e con Giuseppe Tatarella. Insieme al leader missino era stato nel primo governo Berlusconi, entrambi vicepremier: in quel matrimonio di interessi (Lega e Msi erano avversari nei collegi uninominali del Nord nel 1994) scoprirono tanti elementi di affinità, a partire da una naturale propensione alla composizione dei conflitti.
Bobo e Pinuccio si conoscevano dal 1992. Il visionario di Cerignola colse subito la brillantezza del pensiero del giovane lombardo e gli presentò la sua profezia, passeggiando in Transatlantico: «Senti a me, dobbiamo metterci insieme per sconfiggere il Caf». La Dc era ancora egemone, ma Tangentopoli in pochi mesi ribaltò ogni schema e gli antisistema, saldati dal mastice di Silvio Berlusconi, arrivarono a Palazzo Chigi. Il governo però stentava a nascere. E così Maroni ricordò, in un evento a Roma in memoria di Tatarella, come avvenne la sintesi: «Mise in una stanza per saldare l’“alleanza strana” due professori, Domenico Fisichella e Gianfranco Miglio. Avevano il compito di far conciliare i due capisaldi dei programmi dei nostri partiti: federalismo e presidenzialismo. Due accademici insieme, iniziarono a litigare, pure in sanscrito. Allora chiamai Pinuccio per segnalargli lo stallo. Lui entrò in sala, ringraziò i due e disse: «Abbiamo l’accordo”, spiazzando tutti…».
Anche dopo la caduta del primo governo Berlusconi, l’amicizia tra Bobo e Pinuccio non si incrinò. Fu invitato a Bari, e i due cenarono sulla panoramica terrazza Murat dell’Hotel Palace. Un leghista e un missino, a tavola, «tra fave e cicorie e orecchiette alle cime di rape», ricorda Michele Roca, stretto collaboratore de «le renard». Del resto uno dei loro primi pranzi avvenne, su invito di Pinuccio ricostruito dal varesino con questa sequenza: «vieni nel mio ristorante», «quale?», «I due ladroni…». Nel capoluogo pugliese parlarono anche di politica, ma soprattutto di armonia e musica. Il primo amava la musica del sax, il secondo era sempre accompagnato, oltre che dalla moglie-filosofa Angiola, dalle note jazz del maestro Paolo Lepore. Il sodalizio proseguì anche nella bicamerale (affossata grazie alla loro intesa). Ricordò proprio in un colloquio con la «Gazzetta» lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco: «Il ritratto di Tatarella è da sempre nell’ufficio del governatore Roberto Maroni. Pinuccio aveva un tavolo permanente con il mondo leghista. Berlusconi litigava con Bossi, Tatarella no. La forza di Pinuccio era far germogliare le sue idee anche altrove».
Il mantra di Maroni era un governismo che temperata gli eccessi dalla sua parte politica (il bossismo ha avuto una ruvida declinazione secessionista): «Io credo - spiegava nel 1994 - in una Lega di governo, in una Lega che per realizzare le cose per cui è nata può rinunciare a qualcosa sul piano dell’identità. Bossi no, Bossi è convinto di dover puntare sull’identità, e di poter far discendere da quella una politica. Non sono d’accordo: e non posso che auguragli buona fortuna».
Di Maroni si ricorderanno tante battaglie: quelle garantiste contro la Legge Mancino; l’introduzione di una spiccata sensibilità sociale nel cuore leghista (da ministro del welfare) al punto che gli operai al nord sono una dei blocchi sociali da vent’anni del Carroccio; la segreteria del partito dopo lo scandalo Belsito; l’equilibrio con cui ha gestito l’incarico al Viminale (con uno stile ben differente da quello populista del leader Matteo Salvini). Del suo percorso restano anche i primi decreti sicurezza che avevano illuminate intuizioni sull’immigrazione e sulla lotta allo spaccio di stupefacenti. Si deve a lui anche la controversa introduzione della “tessera del tifoso”, per allontanare i violenti dagli stadi.
Negli ultimi anni Maroni, dopo aver guidato la Lombardia come governatore, aveva scelto di ritirarsi. Curava una rubrica periodica su «Il Foglio», intitolata «Barbari Foglianti». Ogni tanto girava l’Italia per spiegare la compatibilità dell’autonomia differenziata con le recenti prospettive riformiste. Andava d’accordo con eretici come l’ex sottosegretario destrorso pasquale Viespoli. Non aveva pregiudizi. Nel 2019 l’allora ministro Francesco Boccia lo invitò a diventare componente della Commissione del Governo Conte 2 sulla corretta attuazione dell’autonomia. Racconta il politico pugliese: «Accettò, senza farsi condizionare dal diverso orientamento politico dando a tutti una lezione di stile, umiltà e senso dello Stato». Ora non è solo nel Pantheon della Lega, ma anche in quello nazionale, accanto a chi - come Tatarella - cercava di costruire un’Italia migliore oltre gli steccati.
È morto Roberto Maroni. Francesco Curridori su Il Giornale il 22 Novembre 2022.
Roberto Maroni, co-fondatore della Lega, più volte ministro nei governi Berlusconi ed ex presidente della Lombardia, è morto oggi dopo aver lottato a lungo con la sua malattia
Insieme a Umberto Bossi ha fondato la Lega e ha dominato la scena politica per tutta la Seconda Repubblica. Roberto Maroni, più volte ministro nei governi Berlusconi, segretario del Carroccio e presidente della Lombardia, è morto oggi a 67 anni.
Nel 2018 aveva annunciato la sua volontà di ritarsi dalla politica, salvo poi essere tentato dall'idea di correre come sindaco di Varese per le amministrative del 2020. Il desiderio di diventare primo cittadino della sua città natale resta, però, solo un'idea a causa di un brutto tumore al cervello per il quale subisce un importante intervento solo pochi mesi dopo. Nell'ottobre 2021 era entrato nello staff del ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, per dedicarsi al contrasto del caporalato, ma i suoi problemi di salute evidentemente non erano finiti. "Questa notte alle 4 il nostro caro Bobo ci ha lasciato. A chi gli chiedeva come stava, anche negli ultimi istanti, ha sempre risposto 'bene'. Eri così Bobo, un inguaribile ottimista. Sei stato un grande marito, padre e amico", sono le parole scelte dalla famiglia per comunicare ufficialmente la scomparsa di Maroni. "Chi è amato non conosce morte, perchè l'amore è immortalità, o meglio, è sostanza divina (Emily Dickinson). Ciao Bobo", conclude. Subito dopo è arrivato anche il commiato del segretario della Lega, Matteo Salvini, che in un tweet ha scritto: "Grande segretario, super ministro, ottimo governatore, leghista sempre e per sempre. Buon vento Roberto". Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è unita al dolore dei familiari: "Sono profondamente colpita dalla notizia della scomparsa di Roberto Maroni. Un amico, un politico intelligente e capace, un uomo che ha servito le Istituzioni con buonsenso e concretezza. Il Governo esprime il suo cordoglio e la sua vicinanza alla famiglia e ai suoi cari in questo momento difficile". Silvio Berlusconi ha porto così le sue condoglianze su Instagram:"Apprendo, con profondo dolore, della scomparsa di Roberto Maroni, un amico, più volte autorevole ministro dei miei governi, già segretario della Lega Nord e valido governatore della Lombardia. Mancheranno la sua lucidità e la sua visione politica, il suo incommensurabile attaccamento alla Lombardia ed alle regioni del Nord produttivo. Mi stringo al dolore dei suoi cari e degli amici della Lega".
Gli esordi di Roberto Maroni
Maroni, classe 1966, nasce a Varese in una famiglia in cui il padre è un impiegato di banca e la madre una commerciante. Trascorre la sua infanzia e adolescenza in un paesino di provincia chiamato Lozza, ma frequenta il liceo classico Ernesto Cairoli di Varese dove scopre la passione per la politica grazie a un suo professore cattolico-marxista, Cesare Revelli, Nel 1971, appena sedicenne, Maroni milita in un gruppo marxista-leninista, ma 8 anni dopo arriva l'incontro con Umberto Bossi che cambia la sua vita: “Ero un giovane neolaureato che votava Democrazia proletaria. Un mio amico mi disse che c’era un tipo interessante da conoscere. Mi trovai una sera nella sua casa di Capolago, frazione di Varese. Lui parlava di autonomie, federalismo. Io pensavo: 'Questo è matto. Sto perdendo tempo'. Ma poi disse che voleva fondare una rivista. Mi proposi e nacque il sodalizio”. Il primo comizio di Bossi è datato 1980 e si tiene a Como alla presenza di soli cinque auditori: “due curiosi, due poliziotti e un fascista del Msi, che fece finta di avvicinarsi a Umberto per stringergli la mano e gli diede un cazzotto”. Maroni, invece, nel 1985 viene eletto consigliere comunale della Lega Lombarda a Varese, ma fa il suo esordio su un palco leghista solo nel 1990. Il suo discorso ha un risvolto, per lui, del tutto inaspettato: “Dopo 5 minuti che parlavo, la gente cominciò a guardarsi intorno. Dopo 10, erano visibilmente perplessi. Dopo un quarto d’ora si alza uno della mia sezione e fa: 'Scusa, Maroni… posso?'. 'Ma, veramente…'. E lui, urlando: 'Mandiamo a casa i terroni!'”.
L'ingresso in Parlamento e le prime esperienze di governo
Laureatosi in Giurisprudenza all'Università degli Studi di Milano, Maroni diventa avvocato e lavora per varie società, tra cui anche il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. La passione politica, però, prende il sopravvento e nel 1989 partecipa alla nascita della Lega Nord. Nel 1992 entra in Parlamento come deputato e ricopre la carica di capogruppo della Lega a Montecitorio. Sono gli anni d'oro della Lega che elegge svariati sindaci al Nord, espugnando città come Milano e Varese, dove Maroni assume il ruolo di assessore al Territorio. Due anni dopo, l'alleanza col centrodestra vince le Politiche e 'Bobo' diventa vicepremier e il ministro dell'Interno che, per primo, non ha la tessera della Democrazia Cristiana. Il governo dura appena sei mesi per volontà di Bossi che toglie la fiducia a Berlusconi, nonostante proprio Maroni decisamente contrario e, per qualche mese si separa dalla Lega. Poco dopo le amministrative del '95 pubblica una lettera in cui ammette d'aver sbagliato e rientra ammettendo l'errore. Nel '96 abbraccia la causa 'secessionista' imposta da Bossi e, quando la polizia va a perquisire la sede della Lega in via Bellerio a Milano per indagare sulla Guardia nazionale padana, Maroni si rende protagonista di uno scontro con un agente. Il dirigente del Carroccio addenta il polpaccio del poliziotto, ma finisce con il naso rotto e una condanna a quattro mesi per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, ma poi tutto si ridurrà a una pena pecuniaria di circa 5mila euro.
30 anni di Lega Nord
Dopo la vittoria del centrodestra alle Politiche del 2001, Maroni diventa ministro del Welfare nel secondo governo Berlusconi. In quell'anno riceve una lettera da un suo collaboratore, Marco Biagi, che lo informava di aver ricevuto delle pesanti minacce alla sua persona. Maroni si attiva per fargli avere la scorta, ma purtroppo il giuslavorista bolognese viene assassinato dalle nuove Brigate Rosse. A lui sarà intestata la riforma con cui Maroni avvia una decisa liberalizzazione del mercato del lavoro. Un'altra importante iniziativa del numero 2 della Lega è il cosiddetto 'Scalone', ossia l'innalzamento dell'età pensionabile dai 57 ai 60 anni, riforma che però sarà abolita dal secondo governo Prodi. Nel 2008, invece, Maroni assume l'incarico di ministro dell'Interno e caratterizza il suo operato per una strenua lotta all'immigrazione clandestina e per i Decreti Sicurezza con cui, tra le varie novità, istituisce la figura del poliziotto di quartiere e la tessera del tifoso.
Maroni, da segretario della Lega a governatore della Lombardia
Nel 2010 il titolare del Viminale partecipa al programma Vieni via con me per ribattere alle accuse fatte da Roberto Saviano in quella stessa trasmissione in merito alla presenza di infiltrazioni mafiose all'interno della Lega. In questo periodo, poi, Maroni dà vita alla corrente dei 'Babari sognanti' che si contrappone al cerchio magico che ruotava attorno a un Bossi sempre più indebolito dopo la malattia che lo aveva colpito sei anni prima. Nel 2012 il 'senatur', travolto dallo scandalo Belsito, si dimette e gli subentra Maroni al grido: “ Pulizia, pulizia e pulizia, senza guardare in faccia a nessuno”. Salito sul palco, subito dopo l'elezione, dirà: “Umberto Bossi è mio fratello lo porterò sempre nel cuore. Ma oggi inizia una fase nuova”. Alle Politiche del 2013 la Lega ottiene il 4%, mentre Maroni vince le Regionali in Lombardia e, dopo un solo anno, lascia la segreteria del partito. Il timone passa a Matteo Salvini che Maroni, inizialmente appoggia con convinzione, ma poi prevale lo scetticismo verso il nuovo corso. “Sovranismo? Per me la sovranità appartiene al popolo, e in questo senso basta essere democratici per essere sovranisti. Se invece – dirà Maroni nel corso di un'intervista - 'sovranismo' significa nazionalismo e quindi centralismo, da buon leghista dico 'no, grazie'. Per il resto, credo che 'sovranismo' sia una definizione in cerca d’autore: si cerca un termine nuovo ora che la Le Pen ha dichiarato morto il lepenismo”.
Il ritiro dalla scena politica
Nel 2018 Maroni annuncia di non volersi ripresentare alla guida della Regione Lombardia “per motivi personali”, ma viene duramente attaccato dal segretario Salvini che blocca sul nascere ogni aspirazione di 'Bobo' di fare il ministro qualora il centrodestra avesse vinto le Politiche di quell'anno. “Se lasci il tuo incarico in Regione Lombardia evidentemente in politica non puoi più fare altro”, dirà il leader del Carroccio. La replica di Maroni non si farà attendere:“Non posso sopportare di essere trattato con metodi stalinisti e di diventare un bersaglio mediatico solo perché a detta di qualcuno potrei essere un rischio. Consiglierei al mio segretario non solo di ricordare che fine ha fatto Stalin e che fine ha fatto Lenin, ma anche di rileggersi un vecchio testo di Lenin. Ricordate? L’estremismo è la malattia infantile del comunismo”.
Lasciata la politica attiva, Maroni avvia una collaborazione con Il Foglio e con l'HuffingtonPost per il quale cura un suo blog. Si dedica alla famiglia, a sua moglie Emilia Macchi e ai suoi tre figli, senza rinunciare alle sue più grandi passioni: il Milan e la musica. Per oltre trent'anni Maroni suona l’organo Hammond nel gruppo musicale Distretto 51.
"C'è qualcosa di lui in questa manovra". Giorgetti parla di Maroni e si commuove. In conferenza stampa, Giancarlo Giorgetti, Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno ricordato Roberto Maroni, scomparso poche ore fa. Francesca Galici su Il Giornale il 22 Novembre 2022.
La morte di Roberto Maroni si è abbattuta come un fulmine a ciel sereno sulla politica italiana. Nella conferenza stampa che ha fatto seguito al Consiglio dei ministri di ieri notte, Giorgia Meloni e i ministri hanno voluto ricordare l'ex parlamentare e governatore della Regione Lombardia. Il ministro Giancarlo Giorgetti è apparto tra i più toccati dalla dipartita di Roberto Maroni, al punto da non riuscire a trattenere le lacrime nel passaggio del suo ricordo.
È morto Roberto Maroni
Con le lacrime agli occhi, il ministro dell'Economia ha ricordato il suo predecessore chiamandolo amichevolmente Bobo, così come i suoi conoscenti e colleghi usavano chiamarlo. "C'è qualcosa di lui in questa manovra, c'è una norma che aveva voluto lui", ha spiegato il ministro leghista prima di iniziare la conferenza stampa. Infatti, il bonus rinnovato in manovra, che prevede una maggiorazione del 10% per chi resta al lavoro pur con i requisiti per la pensione, "è sua, non mia", ha detto con grande commozione Giorgetti. I due, come confermato dal ministro, avevano avuto contatti appena pochi giorni fa: "Lo avevo sentito una settimana fa".
Un ricordo commosso di Roberto Maroni è arrivato anche da parte di Matteo Salvini, presente anche lui in conferenza stampa, dove ha annunciato la presenza di un'ampia rappresentanza della Lega a Varese, domani, per i funerali del co-fondatore della Lega insieme a Umberto Bossi. "È rinnovato il bonus Maroni in manovra, oltre ad aver fermato la Fornero che era un nostro obbligo non politico ma sociale, chi ha raggiunto limiti ma andrà avanti a lavorare avrà un premio del 10% sullo stipendio", ha spiegato in conferenza il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e Trasporti Matteo Salvini.
Anche Giorgia Meloni ha voluto ricordare Roberto Maroni in conferenza stampa: "Sono profondamente colpita dalla notizia della scomparsa di Roberto Maroni. Un amico, un politico intelligente e capace che ha servito le Istituzioni con buonsenso e concretezza. Il governo esprime cordoglio e vicinanza alla famiglia e ai suoi cari in questo momento difficile".
"Ci volevi morti, e invece... ". Striscione-vergogna a Napoli contro Maroni. Lo striscione è comparso nella notte, e non ha firma. La vergogna dopo la morte dell'ex ministro: "Ci volevi morti, abbiamo visto morire te". Federico Garau su Il Giornale il 24 Novembre 2022
Mercoledì 22 novembre è venuto a mancare, a causa di una lunga malattia, il co-fondatore della Lega Roberto Maroni. Una notizia che ha sconvolto il mondo della politica, senza distinzioni di schieramento e colori.
È morto Roberto Maroni
Oggi, tuttavia, lascia attoniti una notizia che arriva da Napoli, dove è comparso uno striscione offensivo in cui viene insultata la memoria dell'ex presidente della regione Lombardia e più volte ministro nei governi Berlusconi. Gli autori, o l'autore, dello striscione esultano per la morte del rappresentante leghista, restando pertanto del tutto indifferenti alla sofferenza e alla morte.
Lo striscione è stato affisso nella notte a Napoli, in via Vespucci, e questa mattina le forze dell'ordine hanno provveduto a rimuoverlo. L'immagine-vergogna, tuttavia, ha fatto il giro dei social. Stando a quanto si legge, pare che a scriverlo sia stata qualche frangia ultrà del Napoli, anche non è presente alcuna firma. Il messaggio, infatti, è chiaro: "Maroni, volevi vederci morti, ma noi abbiamo visto morire te! Mai tesserati". Il riferimento è quasi certamente all'introduzione della tessera del tifoso voluta da Roberto Maroni nel 2009, quando ricopriva l'incarico di ministro dell'Interno nel governo Berlusconi IV.
Forte la condanna. "Profonda amarezza e vergogna per il disgustoso striscione, esposto oggi in città, che offende la memoria di Roberto Maroni", si legge in un comunicato della segreteria regionale della Lega in Campania. "Gli autori si confermano sempre più minoranza di un tifo organizzato che oggi, dopo questo gesto, si allontana dai successi della squadra e di un pubblico che, invece, ha sempre onorato con passione inconfondibile i valori dello sport. Ci aspettiamo una presa di posizione e una ferma condanna dalla società Calcio Napoli e dalle altre forze politiche", prosegue la nota.
La politica, nel frattempo, resta vicina alla figura del rappresentante leghista. È previsto per domani, giovedì 24 novembre, un Consiglio dei ministri per decidere se procedere con i funerali di Stato per Roberto Maroni.
Sciacalli scatenati sui social: Maroni ruba pure da morto. Insulti sulle chat di Repubblica per i funerali di Stato. Le offese degli ultrà del Napoli. Francesco Boezi su Il Giornale il 26 Novembre 2022.
L'uso dei social network come sfogatoio e in certi avvenimenti, magari anche solenni e dolorosi come in questo caso, compaiono persino gli sciacalli. I funerali di Stato per l'ex ministro dell'Interno Roberto Maroni non sono stati digeriti da tutti. Alcuni tra quelli che hanno scelto di commentare online uno degli articoli di Repubblica, ad esempio, hanno dimostrato una certa insofferenza, per usare un eufemismo. Si può partire da quanto segue: «Vergognosi! - scrive un utente, riferendosi all'esecutivo guidato da Giorgia Meloni per la scelta delle pubbliche esequie - . Un tributo che si dovrebbe dare a un eroe. E invece, questa banda che siede al governo, osanna il loro amico con i soldi di tutti noi contribuenti». C'è anche chi riesce a superare quel piano: «Riescono a rubare pure da morti». E chi davvero non conosce né misura né pudore e si chiede se lo «smaltimento del corpo di un condannato» debba essere messo «a carico nostro». Chi la butta sul geopolitico con un «ci credo che poi i russi qua hanno vita facile» e chi arriva a esclamare «uno in meno della Lega Nord».
Passiamo a un altro pezzo di Repubblica, ossia a quello che riporta la cronaca dei funerali, con le dichiarazioni rilasciate dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Anche in questo caso, lo sciacallaggio si manifesta in tutta la sua crudezza. Si va da «la ducetta ha un cuore» a «era una persona - riferito a Maroni - che si commuoveva al sol pensiero di affossare ancora di più il Meridione». E questo vale solo per Facebook e per i commenti a due articoli di una singola testata. Se si dà uno sguardo al libero cinguettio su Twitter, la situazione non cambia: «È morto Maroni della Lega Nord - twitta uno - Moglie e i figli potranno continuare a stare sul divano, non fino a gennaio 2024, ma a vita grazie al vitalizio. E non sono solo 500 al mese». E un altro utente: «Buongiorno solo alle persone che hanno dimostrato umanità per la morte di Maroni(festeggiando) ». Alcuni sono profili fake, altri sono riconducibili a persone esistenti: forse in questo caso non fa molta differenza. E il piano dei social è soltanto uno tra quelli esistenti.
«Maroni, volevi vederci morti ma noi abbiamo visto morire te! Mai tesserati». Il testo di questo striscione, che è apparso a Napoli qualche giorno fa, a ridosso della morte dell'ex ministro dell'Interno, sarebbe stato affisso da alcuni ultras del Napoli. Il ministro per gli Affari Regionali del governo Meloni Roberto Calderoli ha commentato stigmatizzando a stretto giro: «Al peggio non ci si abitua mai, nemmeno agli insulti ai morti, a chi ci ha appena lasciato come Roberto Maroni».
Da “Posta e risposta – la Repubblica” il 27 novembre 2022.
Caro Merlo, mi trovo d'accordo con la sua risposta a Lorella Ponzio, la quale ha espresso perfettamente il mio pensiero. Ricordo bene Maroni da Fazio fare un comizio, offeso da chi aveva osato dire che la mafia si era spostata al nord.
Pretese una puntata riparatoria e fece un comizio in favore del governo che presiedeva nella Regione, spiegandoci le virtù dei lombardi che la mafia non sanno cosa sia. Non se ne è ricordato nessuno, tutti presi a magnificare la persona che pregi ne avrà anche avuti, ma non mi sento "fortunata" come italiana ad averlo avuto nelle istituzioni. Sono altri i personaggi che mi rendono orgogliosa.
Franca Guidoni - Monza
Risposta di Francesco Merlo:
Ricevo molte lettere come la sua e, ringraziando lei, ringrazio tutti. Detto quel che pensiamo di quel funerale di Stato, lasciamo riposare in pace anche il ministro che nel 2008 voleva prendere le impronte ai bimbi rom e creare il registro degli accattoni.
Maroni, l'avvocato contro i magistrati: "Così il suo male terribile..." Libero Quotidiano il 22 novembre 2022.
La morte prematura di Roberto Maroni non ha scosso solo la Lega. Nel giorno della sua scomparsa, da sinistra a destra giungono messaggi di condoglianze. Tra gli ultimi a prendere la parola è Domenico Aiello. Lo storico legale dell'ex ministro e segretario leghista racconta il calvario dell'amico: "Mi mancherà moltissimo. Bobo era un vero amico, un animo nobile, un politico visionario, serio", premette ricordando le sui più grandi passioni: "Amava la politica, per lui contavano le buone idee e solo da queste si faceva condurre".
Ma il percorso di Maroni è stato tutt'altro che semplice. Aiello torna al passato, sottolineando che l'ex governatore della Lombardia "ha sofferto tanto, molto di più di quanto si possa credere o immaginare specie per come la giustizia degli uomini lo ha trattato, per come è stato descritto e mal scritto". Da qui l'accusa sulla malattia che alla fine ha avuto la meglio: "Anche così - punta il dito l'ex socio - questo male terribile si è alimentato".
D'altronde Maroni "rispettava le Istituzioni più di ogni altra cosa. Da tempo protetto da una famiglia meravigliosa ha mantenuto contegno e decoro nella malattia. Sempre coerente, cultore del basso profilo, ha insegnato tanto a molti, anche a quelli di memoria corta". Una chiara frecciata su cui Aiello non si sofferma. Il riferimento dello sfogo però è chiaro: Maroni era ancora sotto processo a Milano per induzione indebita e turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente per il caso di un altro contratto. Processo più volte rinviato nei mesi, anche di recente, per impedimenti proprio legati ai motivi di salute di Maroni. Più nel dettaglio, secondo l'imputazione l'ex governatore, "abusando della sua qualità di vertice dell’ente regionale nonché dei suoi poteri", avrebbe fatto pressioni sull’allora dg di Ilspa Guido Bonomelli, "affinché conferisse un incarico pubblico all’architetto" Giulia Capel Badino. Per la Procura "Maroni, legato a Capel Badino da una relazione affettiva, induceva Bonomelli a conferire l’incarico a Capel Badino, individuando l’esigenza di un supporto tecnico specialistico" nel progetto della Città della Salute.
Addio a Roberto Maroni: Il leghista gentile. Redazione L'Identità il 22 Novembre 2022
Fu segretario della Lega dopo Bossi. Ministro. E governatore della Lombardia. Aveva 67 anni
Una vita per la Lega. Roberto Maroni muore a 67 anni. A dare la triste notizia la famiglia dell’ex Guardasigilli, tramite Instagram: “Questa notte alle 4 il nostro caro Bobo ci ha lasciato. A chi gli chiedeva come stava, anche negli ultimi istanti, ha sempre risposto bene”. L’ottimismo, infatti, era una delle caratteristiche che contraddistingueva da sempre quel rivoluzionario, che permise al partito padano di arrivare ai numeri odierni.
A ricordare il padre politico e un rapporto fatto di consigli ma anche di animate discussioni, l’attuale numero uno dei Verdi Matteo Salvini. “Leghista sempre e per sempre – scrive su Twitter”.
La carriera politica inizia verso la fine degli anni 70, quando dopo essersi laureato in giurisprudenza, diventa speaker di Radio Varese. Da qui nasce l’amicizia con Umberto Bossi, che apprezzando la sua capacità di mediare, decide di dargli un ruolo nell’organizzazione della sua creatura. Nel giro di una decina d’anni, Roberto è il fedelissimo del Senateur.
Nel 1992 entra a Montecitorio e senza problemi, come accade solo per pochi, viene nominato capogruppo. Dimostra, infatti, di avere una marcia in più sia nello stemperare gli animi nel suo partito, che nel trattare con gli alleati.
Stima, quindi, che viene subito ripagata dalla coalizione. Viene nominato prima ministro nell’Interno, dove si distingue per le sue abilità nell’affrontare i problemi atavici del Paese. Nel 1994 è il primo non democristiano a ricoprire quel ruolo.
Un incarico che gli consente subito di arrivare ai massimi livelli, ma allo stesso di procurarsi antipatie e simpatie tra i colleghi. Continua, intanto, il protagonismo nei principali dicasteri. Prima diventa titolare del ministero per il Lavoro e poi ritorna al Viminale, dove si distingue appunto per la norma sulla sicurezza che prende il suo nome.
Una svolta nella vita, poi, arriva nel 2013 quando decide di lasciare la capitale e tornare a Milano per fare il presidente della Regione Lombardia. Fino al 2018, nel capoluogo della moda e del design è il vero motore propulsore di Expo, nonostante una serie di inchieste che lo tormentano.
L’ultimo sogno del moderato dei Verdi quelli di fare il ritorno nella sua Varese da sindaco. Questa volta a fermarlo solo la malattia. Pur caratterizzandosi per i toni bassi, la differenza di stile rispetto a Bossi, che col tempo ha portato a deteriorare il rapporto tra i due, tutti sanno che Roberto è ed è stato sempre un combattente, anche ora che non sarà più a Pontida.
Lutto nel mondo della politica, è morto Roberto Maroni. Salvini: «Grande segretario, leghista per sempre». Renzi: «Bello conoscerti, ciao Bobo». Il Dubbio il 22 novembre 2022.
L'ex segretario della Lega deceduto a causa di una grave malattia. La sua morte è avvenuta intorno alle 4 di mattina. I familiari hanno dato l'annuncio della sua scomparsa
È morto l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni, aveva 67 anni. Lottava da tempo contro una grave.
«Un pensiero e un ricordo per Roberto Maroni. La sua intelligenza e la sua passione politica mancheranno a tutti. Riposa in pace». Lo scrive sui social network il senatore del Pd e responsabile Sicurezza della segreteria dem, Enrico Borghi.
«È morto Maroni, ministro del Lavoro e dell’Interno, Presidente della Lombardia, Segretario della Lega, l’ho conosciuto bene, sempre disponibile e gentile, rispettoso delle opinioni diverse dalle sue come le mie, mi dispiace molto, riposi in pace, un abbraccio alla famiglia». Lo scrive sui social network l’esponente del Pd, Emanuele Fiano.
«Questa notte alle 4 il nostro caro Bobo ci ha lasciato. A chi gli chiedeva come stava, anche negli ultimi istanti, ha sempre risposto “bene”. Eri così Bobo, un inguaribile ottimista. Sei stato un grande marito, padre e amico». Queste le parole scelte dalla famiglia per annunciare la scomparsa di Roberto Maroni. «Chi è amato non conosce morte, perchè l’amore è immortalità, o meglio, è sostanza divina (Emily Dickinson). Ciao Bobo», si conclude.
«Roberto Maroni è stato un grande segretario, un super ministro, leghista per sempre». È il commento di Matteo Salvini, leader della Lega, alla notizia del decesso del suo compagno di partito.
«Con la morte di Roberto Maroni la Lombardia perde una persona seria e perbene. È stato per tanti di noi un avversario politico tenace e sempre leale. Un abbraccio ai suoi cari». Lo scrive il candidato del Pd alla regione Lombardia, Pierfrancesco Majorino.
«Apprendiamo con dolore della scomparsa di Roberto Maroni, un amico, una persona che ha saputo interpretare con stile e moderazione il cambiamento politico e sociale della Repubblica. Ci uniamo al dolore della famiglia e dei suoi cari». Così il capo politico di Noi Moderati Maurizio Lupi.
«Ricordo Roberto Maroni, leghista appassionato, ministro competente, uomo leale, simpatico, impegnato». Così lo ricorda su twitter il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni.
«Sono molto addolorato dalla prematura scomparsa di Roberto Maroni. Condivisi con lui al Viminale la prima esperienza di governo di centrodestra nel 1994 e da allora abbiamo sempre mantenuto un rapporto di amicizia, che spesso è stato utile in fasi delicate della vita del centrodestra». Lo dichiara il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri vicepresidente del Senato.
«Questa notizia mi lascia sgomento. Ricordo anche il legame che unì Roberto a Pinuccio Tatarella, il cui ricordo ha sempre onorato. Protagonista della vita politica ed istituzionale resta un esempio di serietà e di impegno costruttivo, fondamentale nel percorso del centrodestra, che in lui ha sempre avuto un punto di riferimento» conclude Gasparri.
«Roberto Maroni è stato un protagonista della politica italiana». Lo scrive su Twitter il ministro degli Esteri Antonio Tajani. «Ha ricoperto con grande senso dello Stato incarichi molto importanti. Difendendo sempre con coraggio le sue idee. Prego per la sua famiglia in questo momento di dolore. Riposi in pace», ha scritto Tajani.
«Un amico. Una persona perbene. Un uomo che ha portato buonsenso, concretezza e moderazione nelle istituzioni. Da parlamentare, da ministro, da presidente di Regione. Esce a testa alta dalla vita. Che la terra ti sia lieve Roberto» scrive su Twitter il ministro della Difesa Guido Crosetto.
«Ci ha lasciati Roberto Maroni. Piango l’addio di un amico con il quale ho condiviso gran parte della mia vita politica. Una persona intelligente e mai sopra le righe. Presidente della Lombardia, Ministro e Segretario Federale della Lega. Nel cuore ha sempre avuto i Lombardi e la Lombardia. Riposa in pace! Addio Bobo!«. Così il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, in un post su Facebook.
«Ciao Bobo, è stato bello conoscerti, è stato bello incrociare il tuo sorriso, è stato bello essere avversari ma collaborare sempre. Un abbraccio alla tua famiglia. Che la terra ti sia lieve». Lo scrive su Twitter il leader di Italia viva, Matteo Renzi, appresa la notizia della morte di Bobo Maroni, ex ministro dell’Interno ed ex segretario della Lega.
Lottava da tempo contro una grave malattia. È morto Roberto Maroni, aveva 67 anni: “Ciao Bobo, inguaribile ottimista”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Novembre 2022
Si è spento a 67 anni Roberto Maroni, ex segretario leghista e per tre volte ministro, è stato anche presidente della Regione Lombardia. A darne notizia gli amici e i colleghi del partito. Il politico era malato da tempo. Maroni, secondo quanto si è appreso, è morto nella notte a casa sua nel Varesotto dove ha trascorso gli ultimi mesi. “Questa notte alle 4 il nostro caro Bobo ci ha lasciato. A chi gli chiedeva come stava, anche negli ultimi istanti, ha sempre risposto ‘bene’. Eri così Bobo, un inguaribile ottimista. Sei stato un grande marito, padre e amico”. Come riportato dall’Agi, sono queste le parole scelte dalla famiglia per annunciare la scomparsa di Roberto Maroni. “Chi è amato non conosce morte, perchè l’amore è immortalità, o meglio, è sostanza divina (Emily Dickinson). Ciao Bobo”, conclude il messaggio.
Maroni è stato uno dei protagonisti della politica degli ultimi anni. Ha condiviso con Umberto Bossi gli inizi della Lega Nord: tre volte ministro, vicepremier, ex governatore della Regione Lombardia, è anche stato segretario federale della Lega. Dal 2021, quando ha scoperto la malattia che lo ha condotto alla morte, si era ritirato dalla politica attiva. Nel 2021 rinunciò a correre a sindaco di Varese per motivi di salute. In un’intervista al Corriere disse: “La malattia che mi ha colpito è una cosa che non trascuro, facendo tutte le cure necessarie. Ho capito che tra le cose importanti non c’è la politica con la ‘p’ minuscola”.
Nato a Varese il 15 marzo 1955, Maroni ha dedicato tutta la vita alla politica: segretario federale del Carroccio dal 2012 al 2013, è stato ministro dell’Interno nei governi Berlusconi I e Berlusconi IV, risultando il primo politico esterno alla Democrazia Cristiana a ricoprire l’incarico nella storia repubblicana, ministro del lavoro e delle Politiche sociali nei governi Berlusconi II e Berlusconi III. Ha inoltre ricoperto il ruolo di presidente della Regione Lombardia dal 2013 al 2018, succedendo a Formigoni. Gli studi classici al liceo Ernesto Cairoli di Varese, un’esperienza come conduttore radiofonico in una radio libera, ‘Radio Varese’ e una laurea in giurisprudenza. Il 1979 è l’anno dell’incontro con Umberto Bossi. Dieci anni più tardi partecipa alla fondazione della Lega Nord, di cui ricopre dal 2002 l’incarico di coordinatore della segreteria politica federale presieduta dal segretario federale Bossi. Il battesimo alla Camera dei deputati avviene nel 1992, dove ricopre la carica di presidente del gruppo parlamentare leghista.
Messaggi di cordoglio sono subito arrivati dai colleghi e dal mondo della politica. “Grande segretario, super ministro, ottimo governatore, leghista sempre e per sempre. Buon vento Roberto”. Lo scrive sui social il leader della Lega Matteo Salvini. “Sono molto addolorato dalla prematura scomparsa di Roberto Maroni. Condivisi con lui al Viminale la prima esperienza di governo di centrodestra nel 1994 e da allora abbiamo sempre mantenuto un rapporto di amicizia, che spesso è stato utile in fasi delicate della vita del centrodestra. Questa notizia mi lascia sgomento. Ricordo anche il legame che unì Roberto a Pinuccio Tatarella, il cui ricordo ha sempre onorato. Protagonista della vita politica ed istituzionale resta un esempio di serietà e di impegno costruttivo, fondamentale nel percorso del centrodestra, che in lui ha sempre avuto un punto di riferimento” lo dichiara il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri vicepresidente del Senato. “Un amico. Una persona perbene. Un uomo che ha portato buonsenso, concretezza e moderazione nelle istituzioni. Da parlamentare, da ministro, da presidente di Regione. Esce a testa alta dalla vita. Che la terra ti sia lieve Roberto”. Così il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha commentato in un messaggio su twitter la morte di Roberto Maroni.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
"Eri così Bobo, un inguaribile ottimista". Com’è morto Roberto Maroni, la lotta contro la malattia che se l’è portato via a 67 anni. Redazione su Il Riformista il 22 Novembre 2022
Roberto Maroni è scomparso all’età di 67 anni nel calore della sua famiglia, che lo ha definito “inguaribile ottimista, che ha sempre risposto ‘bene’ a chi gli chiedeva come stava”, in una delle sue ultime interviste l’ex ministro dell’Interno ed ex segretario della Lega Nord nato a Varese il 15 marzo 1955 parlava così della malattia che lo ha colpito: “È una cosa che non trascuro, facendo tutte le cure necessarie. Ho capito che tra le cose importanti non c’è la politica con la “p” minuscola”.
Le condizioni di Maroni, a lungo tempo numero due di Umberto Bossi, si sono aggravate nella notte tra lunedì 21 e martedì 22 fino a portarlo al decesso nelle prime ore della mattina. Nel gennaio 2021 ha avuto un mancamento ed ha battuto la testa cadendo a casa sua tanto che il 9 maggio dello stesso anno il quotidiano Libero con un articolo a firma di Renato Farina fu il primo a parlare apertamente di tumore.
Dopo una serie di esami i medici hanno poi deciso di operarlo alla testa presso l’istituto neurologico Besta e, nonostante il riserbo sulla malattia, fu diramato un comunicato stampa da parte della direzione sanitaria dopo tale operazione: “In merito alle condizioni cliniche di Roberto Maroni, sottoposto oggi a un intervento presso la Fondazione Istituto Neurologico ‘Carlo Besta’, la direzione sanitaria dell’istituto informa che le condizioni cliniche del paziente sono soddisfacenti e che lo stesso è sveglio e cosciente. In accordo con la famiglia non saranno diramati altri bollettini medici in assenza di significativi sviluppi”. La famiglia ha sempre mantenuto il riserbo sulle sue reali condizioni e su quale fosse la malattia.
“Questa notte alle 4 il nostro caro Bobo ci ha lasciato. A chi gli chiedeva come stava, anche negli ultimi istanti, ha sempre risposto ‘bene’. Eri così Bobo, un inguaribile ottimista. Sei stato un grande marito, padre e amico” hanno scritto questa mattina i suoi cari. “Chi è amato non conosce morte, perché l’amore è immortalità, o meglio, è sostanza divina. Ciao Bobo”, concludono.
Volto storico del Carroccio e già ministro dell’Interno nei governi Berlusconi I e Berlusconi IV, Roberto Maroni è stato presidente della Regione Lombardia dal 2013 al 2018. Assieme a Roberto Calderoli e Manuela Dal Lago, divenne parte del triunvirato formatosi ad aprile 2012 fino al congresso della Lega Nord per sostituire la carica di segretario del partito dopo che il leader Umberto Bossi venne coinvolto in un’inchiesta giudiziaria per l’accusa di appropriazione indebita dei rimborsi elettorali. Poi a luglio dello stesso anno venne eletto al congresso come segretario federale della Lega Nord dal 1 luglio 2012 al 15 dicembre 2013. A dicembre subentrò Matteo Salvini alla guida del partito. Alle regionali in Lombardia del 2013 venne eletto con il 42,8% dei voti, per poi non ricandidarsi alle successive elezioni del 2018.
È stato ministro dell’Interno e vicepremier tra il 1994 e il 1995, poi è tornato al Viminale nel triennio 2008-2011. Maroni è stato anche ministro del Lavoro per 5 anni (2001-2006), durante l’esecutivo più longevo della storia italiana. Oggi, dopo la notizia della morte, l’attuale leader della Lega Matteo Salvini lo ha ricordato così sui social: “Grande segretario, super ministro, ottimo governatore, leghista sempre e per sempre. Buon vento Roberto”.
Della sua famiglia non si è mai detto molto. Maroni non ha mai voluto condividere informazioni private e questo aspetto della sua vita è rimasto tale fino all’ultimo. Sposato con Emilia Macchi, suo enorme punto di riferimento e quasi “musa ispiratrice”, la loro relazione è durata per tutta la vita. Del resto, si erano conosciuti proprio durante gli anni del liceo, il Liceo Ginnasio Statale Ernesto Cairoli di Varese. Maroni ha incontrato Macchi tra i banchi di scuola del liceo classico. La loro unione si è consolidata nel tempo: si sono sposati, hanno avuto tre figli: Chelo, Filippo e Fabrizio.
Maroni così come i suoi familiari hanno seguito la strada del riserbo, evitando accuratamente di condividere troppe informazioni. Emilia Macchi, discreta e lontana dal mondo dei riflettori, ha lavorato presso l’Alenia Aermacchi, società del gruppo Finmeccanica. Il figlio Filippo pareva essere predestinato a seguire le orme del celebre papà: la scelta di fare politica studentesca, al liceo scientifico Galileo Ferraris di Varese, aveva attirato l’attenzione, ma poi la decisione di concentrarsi sugli studi ha spento i riflettori e di lui. Negli ultimi anni è diventato noto l’altro figlio, Fabrizio Maroni, per la sua scelta di entrare in politica. Tuttavia, non con le stesse “vedute”: si era candidato alle comunali di Lozza, dove risiede la famiglia, in una lista sostenuta dal centrosinistra. All’epoca, il figlio aveva detto: “In casa sono cresciuto assolutamente libero di poter avere le mie idee“. Il padre Roberto lo aveva di fatto appoggiato, rimandando il ritratto di un uomo che ha avuto a cuore la sua famiglia, e il rispetto di diversi ideali all’interno della stessa.
L’amore nato al liceo, uniti fino alla fine. Chi è la moglie di Roberto Maroni, la lunga storia d’amore con Emilia Macchi e i figli. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Novembre 2022
“Questa notte alle 4 il nostro caro Bobo ci ha lasciato. A chi gli chiedeva come stava, anche negli ultimi istanti, ha sempre risposto ‘bene’. Eri così Bobo, un inguaribile ottimista. Sei stato un grande marito, padre e amico”. È questo il messaggio che è comparso sui social di Roberto Maroni con cui la famiglia ha annunciato la scomparsa del politico a 67 anni. E poi la citazione di Emily Dickinson: “Chi è amato non conosce morte, perché l’amore è immortalità, o meglio, è sostanza divina. Ciao Bobo”. Maroni lascia la moglie Emilia Macchi e tre figli Chelo, Filippo e Fabrizio.
Ex ministro ed ex segretario della Lega, Maroni ha dedicato la sua vita alla politica, alla musica, sua grande passione e alla famiglia. Una vita privata vissuta con discrezione e lontano dai riflettori. Sposato con Emilia Macchi, la loro storia d’amore era iniziata tra i banchi di scuola al Liceo Ginnasio Statale Ernesto Cairoli di Varese. La loro unione si è consolidata nel tempo con la nascita dei tre figli, Chelo, Filippo e Fabrizio. Si è spento nella sua casa nel varesotto circondato dai suoi cari che gli sono stati vicino nella sua lotta contro il tumore.
Emilia Macchi è sempre stata al suo fianco con discrezione. Secondo quanto riportato da La Provincia di Varese, è stata una manager, ha lavorato presso l’Alenia Aermacchi, società del gruppo Finmeccanica. Tra i figli, Fabrizio, il minore, ha deciso di seguire le orme paterne intraprendendo la carriera politica ma lontano dalla visione del padre. “È stato lui a insegnarmi il valore delle scelte sane e ragionate. Una volta appurato che è stata una scelta mia, è stato felice per l’impegno politico, anche se non dalla parte della Lega”, ha confessato il ragazzo a Open. Nel 2019 il più piccolo dei figli di Roberto Maroni si è candidato alle elezioni amministrative a Lozza, in provincia di Varese, contro la Lega e con una lista civica multicolore: “Sì, sono di sinistra. Anche se in un Paese come il mio – Lozza ha 1.200 abitanti – l’ideologia non conta. Io sono candidato con una lista civica che accoglie persone di vari schieramenti”. Per quanto riguarda il rapporto con il padre ha detto: “Mi rinnegherebbe soltanto se tifassi per l’Inter”. Maroni è sempre stato tifoso del Milan.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Roberto Maroni per “il Foglio” – 26 settembre 2022
La vittoria è netta. Svanisce quella che per il centrodestra era l’unica paura e per il centrosinistra l’ultima speranza: non ci saranno incertezze in Parlamento. La Meloni potrà contare sulla maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato. Le stime assegnano al centrodestra più di 110 seggi al Senato e più di 230 alla Camera. Una vittoria per nulla sorprendente vista la pochezza della coalizione di centrosinistra. Dei suoi argomenti, dei suoi programmi e della sua propaganda.
[…] Il risultato sotto le aspettative della lista centrista di Renzi e Calenda non lascia dubbi: il centrodestra non avrà bisogno di altri voti in Parlamento. Un dato è certo: la distanza tra le due coalizioni è abissale, mai sotto i 15 punti. E ora si parla di un congresso straordinario della Lega. Ci vuole. Io saprei chi eleggere come nuovo segretario. Ma, per adesso, non faccio nomi. Stay tuned.
Le accuse e poi la malattia: l'addio. Roberto Maroni e la persecuzione giudiziaria per un sms storpiato dalla Procura. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Novembre 2022
Ora che Bobo non c’è più, Bobo il sognatore che amava suonare e cantare e gridare forza Milan, il grande senso di colpa collettiva lo farà ricordare solo nelle sue vesti istituzionali, ministro dell’interno e del welfare, presidente della Regione Lombardia, e uomo politico al vertice della Lega. Difficile che qualcuno, l’ipocrisia della politica o il cinismo del mondo giudiziario, accenda la luce su colui che fu Roberto Maroni l’imputato e poi il condannato, in primo e secondo grado. E infine assolto in cassazione, perché il fatto, il fattaccio non sussiste, dopo sei anni di tormenti e vergogna mediatica, con i pm che frugavano e alludevano tra i suoi sentimenti e le sue amicizie. Bobo era un po’ morto anche in quei giorni. E aveva rinunciato a ricandidarsi al vertice della Regione Lombardia, indicando il suo successore, un altro avvocato della sua stessa Varese, Attilio Fontana.
Bobo era un uomo buono. Ma il condannato in due gradi di giudizio, pur ancora presunto, e poi definitivo innocente, non le aveva mandate a dire, a certa magistratura, e agli uomini della Procura milanese. Aveva tirato fuori gli artigli. In un’intervista al Giornale dopo l’assoluzione aveva scandito con precisione che cosa intendesse per “il rito ambrosiano applicato dalla magistratura: sono i cecchini della politica, gli alfieri di un sistema che non punta all’accertamento della verità ma a un processo sommario e violento che porta alla inevitabile distruzione della dignità e della reputazione della persona coinvolta”. Non parlava solo di sé. Avvocato e garantista, aveva denunciato l’uso politico del circo mediatico-giudiziario quando era stato arrestato il Presidente di Finmeccanica Giuseppe Orsi, suo amico, proprio alla vigilia delle elezioni alla Regione Lombardia del 2013, alla cui Presidenza Maroni era candidato. E poi sarà eletto, nonostante il momento difficile, dopo le dimissioni di Roberto Formigoni.
Perché non prima o non dopo, si era chiesto? Perché questo arresto e questa sottolineatura a titoli cubitali della nostra amicizia proprio a ridosso delle elezioni? Ancora non sapeva che proprio dalle carte di Finmeccanica nasceranno le inchieste che lo riguarderanno e che tanta sofferenza gli porteranno per sei anni fondamentali della sua vita. Fino alla rinuncia alla riconferma al vertice della Regione, poi la speranza di diventare sindaco di Varese e poi un’altra rinuncia, dolorosa, dovuta alla malattia. Un filo sottile tra diverse malattie, quelle che ti manda la sorte e quelle uscite dalla malizia colpevole di qualche toga. E magari collegate. La storia giudiziaria di Roberto Maroni è un esempio tipico del trentennale “rito ambrosiano”. Fondata sul nulla di qualche intercettazione, in questo caso un sms, e poi ipotesi, congetture di servitori dello Stato in divisa o in toga e la complicità dei soliti piccoli laudatores travestiti da giornalisti. E’ bene raccontarla questa storia, anche per la triste fine del protagonista, prima condannato, poi assolto e poi malato, che ricorda, pur in situazione diversa, quella di Enzo Tortora. Ometteremo solo i nomi delle due collaboratrici dell’ex ministro, trascinate nelle vicende giudiziarie non senza qualche allusione a rapporti sentimentali di una delle due, che la magistratura non ha risparmiato e che erano del tutto inutili e magari campate in aria. Ma è bene si sappia come vengono costruite certe inchieste, e l’uso politico che finiscono per avere.
Due diverse erano le vicende che il pm milanese Eugenio Fusco aveva ritenuto configurassero reati. La prima riguardava una presunta “turbativa d’asta”, per cui Maroni era stato condannato in appello a un anno di carcere per aver indotto i dirigenti di “Eupolis”, società regionale lombarda di ricerca e statistica, a stipulare un contratto di consulenza da 29.500 euro l’anno a un’ex collaboratrice al ministero dell’interno. Sarà l’imputazione che arriverà fino alla cassazione, la quale annullerà senza rinvio la sentenza d’appello, sostenendo che non esisteva nessuna turbativa in quanto non era mai esistita nessuna asta, ma “una mera comparazione di profili professionali”. Il fatto non sussiste. Se quella prima accusa aveva da subito mostrato fragilità, la seconda presenta addirittura aspetti che hanno del grottesco. Siamo nel 2014 e la Regione Lombardia sta organizzando un viaggio istituzionale a Tokyo. La squadra è composta da numerose persone. Ma una sola attrae l’attenzione del pubblico ministero. L’incriminazione di concussione, e poi di induzione indebita, nasce da un messaggino telefonico, un innocente sms che diventerà una sorta di corpo di reato, che il 27 giugno Giacomo Ciriello, capo dello staff di Maroni, manda a Christian Malangoni, direttore generale di Expo per sollecitare a Beppe Sala, allora amministratore delegato della società, l’inserimento nella delegazione anche di un’altra dirigente, che era già stata collaboratrice del presidente al ministero dell’interno. Una banalità. Che infatti non presenta alcuna irregolarità. Ma c’è un ma. I costi.
E c’è anche un falso. Che metterà in grande imbarazzo gli uomini della Procura presieduta da Edmondo Bruti Liberati. Il messaggio originale, come è stato dimostrato al processo, diceva: “Christian il Pres ci tiene acchè la delegazione per Tokyo comprenda anche la società Expo attraverso la dottoressa…Puoi parlarne con Sala o autorizzarne la missione?”. Nelle carte del pubblico ministero Fusco però viene omessa l’ultima frase, quella in cui il punto interrogativo è lì a escludere qualsiasi forma di pressione, o addirittura di intimidazione, tanto da poter far configurare il reato di concussione o induzione. Ma addirittura nel testo falsificato viene aggiunta un’altra frase: “… voleva che la… viaggiasse insieme alla delegazione, quindi nella stessa classe di volo e nella stessa classe di albergo”. Volo di lusso, dunque, e hotel di lusso. Non per una casuale accompagnatrice, ma per una dirigente in rappresentanza di Expo, il futuro evento che il Presidente della Regione Lombardia avrebbe potuto illustrare con orgoglio ai rappresentanti del governo giapponese. Spesa totale, settemila euro.
Chi ha inserito nel messaggio quella parte falsa? Fatto sta che si dovrà arrivare al processo di primo grado perché tutta la vicenda venga gettata nel cestino. Anche perché alla fine lo stesso Maroni rinunciò al viaggio e la Regione Lombardia sarà rappresentata a Tokyo da Mario Mantovani, il vicepresidente che finirà a sua volta indagato, e addirittura arrestato nel 2015 su richiesta della stessa Procura con tre imputazioni gravissime. E poi assolto in appello da ogni accusa. Il “rito ambrosiano” che pareva non arrestarsi mai. Un ultimo ricordo di Bobo il sognatore ma anche l’avvocato garantista lo dedichiamo al ministro Nordio, di cui sappiamo condividere una recente auspicio di Roberto Maroni. Vorrei “che la politica riprendesse il controllo della situazione, facesse quelle poche riforme che sono indispensabili, dalla separazione delle carriere e l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale fino alla responsabilità civile dei magistrati, non solo in caso di dolo ma anche di colpa grave e inescusabile”. L’avvio di queste riforme, da parte del governo e del Parlamento, sarebbe un bel modo di ricordare sia Bobo che l’avvocato Maroni.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Estratto dell'articolo di Matteo Pucciarelli per repubblica.it il 25 novembre 2022.
A Varese e dintorni nacque l'epopea del Carroccio, antico cuore leghista, quando i sindaci li chiamavano 'borgomastri'; ma il mondo cambia, così quando Giorgia Meloni arriva in piazza San Vittore per rendere omaggio a Roberto Maroni si prende qualche applauso. Dopo pochi minuti entra in chiesta Matteo Salvini con la spilla di ordinanza di Alberto Da Giussano sulla giacca e per lui invece no.
Per il segretario federale accompagnato da Roberto Calderoli l'accoglienza è fredda com'è fredda la giornata. L'ultimo leghista e entrare prima del feretro passando dalla passerella obbligata è invece il ministro Giancarlo Giorgetti, ministro che viene da queste parti, e anche per lui qualcuno applaude.
I primi ad arrivare in chiesa erano stati quelli della vecchia guardia maroniana, dall'assessore regionale Guido Guidesi a uno dei teorici dell'autonomia, Stefano Bruno Galli, l'ex ministro Roberto Castelli che pure rimase sempre leale a Umberto Bossi, costretto in ospedale dopo un'operazione. Poi anche quelli ormai fuori dalla Lega, Gianluca Pini, Gianni Fava, Giacomo Stucchi. Gente che non ha mai accettato la conversione nazionalista salviniana.
Qui Salvini, che pure fu designato da Maroni, è in terra ostile. I rapporti tra i due erano conflittuali da tempo e lo sapevano anche i muri. Invece era rimasto un legame umano e politico con gli altri governatori, che infatti sono voluti entrare in Chiesa assieme: Attilio Fontana - due volte sindaco di Varese -, Luca Zaia e Massimiliano Fedriga. […]
Sono idealmente gli eredi del leghismo pragmatico e istituzionale di Maroni, lontano dagli eccessi del movimentismo sovranista del segretario. Dentro, durante la cerimonia, in prima fila c'erano Meloni, Salvini, Antonio Tajani, Gianmarco Centinaio, Attilio Fontana, il presidente del Senato Ignazio La Russa e il presidente della Camera Lorenzo Fontana, un altro leghista ma di osservanza veneta, cattolica e salviniana (il giorno in cui dovevano eleggerlo presidente, Salvini lo portò a "presentarsi" a Umberto Bossi nel cortile di Montecitorio). […]
(ANSA il 25 novembre 2022) - "Era una persona capace di grande visone e di grande concretezza. Era una delle persone che ho conosciuto che più sapevano fare il gioco di squadra". Così la premier Giorgia Meloni visibilmente commossa ha ricordato Roberto Maroni lasciando i funerali di Stato a Varese.
"Ne ho un ricordo straordinario, tra l'altro ci sentivamo - ha concluso -. Penso che l'Italia sia stata fortunata a poter contare su una persona così nelle sue istituzioni".
(ITALPRESS il 25 novembre 2022) - Roberto MARONI "è stato un orgoglio per la Lega e per l'Italia. La sua città e la sua comunità gli ha dato il saluto più bello, è stato bello vedere anche altri sindaci di territori diversi e idee diverse. Era una persona seria, anche il sole lo saluta. È il modo giusto per ringraziarlo". Così il
segretario della Lega Matteo Salvini uscendo dalla storica sede del partito, a Varese, al termine delle esequie di Stato per l'ex ministro e segretario del Carroccio.
Ai cronisti che gli chiedono quale sia l'eredità politica lasciata da MARONI, risponde: "Risolvere i problemi e non crearli. Siamo qua per questo. Lui ha fatto il segretario federale prima di me, per me sarà ancora più impegnativo ed emozionante guadagnarmi la fiducia giorno per giorno".
Funerali di Maroni, il ricordo dell’amico: «Nemmeno la politica ci ha divisi. Marco Dal Fior su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.
Marco Dal Fior, giornalista del Corriere, saluta l’ex ministro con cui condivise slanci giovanili, partite di calcio, risate e momenti di abissale dolore
Si sono svolti oggi a Varese i funerali di Roberto Maroni, già ministro e governatore della Lombardia, stroncato a 67 anni da una malattia. Marco Dal Fior, giornalista del Corriere e amico di lunghissima data di «Bobo» Maroni così lo ha voluto ricordare in un articolo per il Corriere e per il sito «Varesenoi».
Sai Bobo, queste righe mi costano un sacco di lacrime. Perché neppure la politica era riuscita a dividere la nostra amicizia nata sui campi sterrati dove giocavamo i tornei di calcio del liceo Cairoli. La Terza E, più vecchia e carica di gloria per le vittorie nelle passate edizioni, e tu «quartino» impertinente che ci facevi ballare a metà campo e sputare sudore e imprecazioni. Ci eravamo poi ritrovati subito dopo sul lago di Varese. Io istruttore di vela, tu allievo appassionato e divertito. Tanto che, quando la sezione di Varese della Lega Navale si trovò tra le mani un invito per una crociera premio sull’Amerigo Vespucci, non esitasti a candidarti tra i possibili partecipanti. Ci trovammo così a lustrare ottoni e a tirare a lucido la nave in vista dell’imbarco dei cadetti. Sanremo-Cagliari-Livorno, altro che crociera. Ma ci divertimmo un sacco.
Poi venne la radio, i microfoni di Radio Varese, io che avevo proposto una trasmissione di musica e tradizioni popolari lombarde, tu che sapevi usare il mixer e per questo ti offristi di farmi da sparring partner. E io che da allora mi chiedo quale sia stato il mio involontario contributo a spingerti nella Lega (Navale o Lombarda, magari hai fatto confusione) e a spronarti nella difesa dei valori di questa terra, sicuramente esagerando un po’ quando si è trattato di invocare la secessione.
Poi mi ricordo i lunedì a pranzo al «Matarel» di Milano. Tu con la tua corte di aficionados nel tavolo in fondo a sinistra, io con i miei colleghi nella saletta a destra. E Marco Comini, il patron, a prenderci in giro con sagacia virulenta, condita però da un amore di fondo che veniva sempre allo scoperto tra una «cassoeula che l’è pussée legera de ‘na paillard» e «l’ossbus che la Elide incoeu l’ha fàa special».
Il dicembre di non mi ricordo più quale anno sto entrando in Galleria Manzoni e un trio di Babbi Natale vestiti di rosso e con le barbe bianche mi viene incontro swingando nenie natalizie. Mi porgono un cappello con dentro qualche spicciolo. Io cerco di dribblare e raggiungere il portone di casa. «Pirla, non metti qualche soldino per il Natale dei più poveri?». Mi giro di scatto. Sotto la barba del fisarmonicista ti nascondevi tu, allora ministro dell’Interno, che non avevi voluto rinunciare alla tradizione dei Distretto 51 e avevi voluto partecipare come sempre alla questua benefica del gruppo. Ti diedi qualche biglietto da mille e un abbraccio.
Lo stesso che ci scambiammo il 1° agosto 2009. All’uscita dalla chiesa di San Vittore, dove si era appena celebrato il funerale di mio figlio Paolo, mi venisti incontro facendoti largo tra le gente che affollava la piazza e lasciando a distanza la scorta che stava rischiando un infarto. Eri di nuovo Ministro dell’Interno, ma avevi voluto essere lì a darci il tuo conforto in quell’abisso di dolore in cui io e Ge, mia moglie, eravamo precipitati. Non l’ho dimenticato, non lo dimentico. E vorrei oggi abbracciare con le stesso affetto Emi, Chelo, Filippo e Fabrizio. Avete avuto un grande marito e un grande padre. Noi abbiamo perso un grande compagno di strada. Su vie diverse ma con lo stesso passo.
Le lacrime di Meloni, il gelo di Salvini e gli aneddoti di Borghezio: Varese saluta Roberto Maroni. La Repubblica il 25 Novembre 2022.
Funerali di Stato per l'ex ministro scomparso a 67 anni. Presenti alle esequie le più importanti cariche dello Stato: in prima fila il presidente del Senato Ignazio La Russa accanto al presidente della Camera Lorenzo Fontana, la premier Giorgia Meloni, il vice presidente del Senato Centinaio, il ministro degli esteri Antonio Tajani e il segretario della Lega Matteo Salvini. Alle celebrazioni hanno preso parte volti vecchi e nuovi della Lega: dall'ex parlamentare europeo Claudio Borghezio che ha ricordato quando entrambi vennero condannati dopo un'irruzione in via Bellerio. Hanno partecipato anche membri del comitato Nord di Umberto Bossi. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni è stata applaudita al suo arrivo in basilica e ha partecipato al funerale visibilmente commossa a differenza di Salvini che si è mostrato impassibile ed è stato accolto da pochi applausi. In seconda fila il ministro dell'economia Giancarlo Giorgetti anch'esso provato dalla commozione. Al termine del funerale il feretro è stato accompagnato da un lungo applauso di fronte la sede della Lega con appeso lo striscione "Grazie Bobo".
Da milano.repubblica.it il 25 novembre 2022.
Poliziotti in alta uniforme per portare il feretro, accolto da un lungo applauso e seguito dalla famiglia, forze dell'ordine e gonfaloni schierati in piazza. A Varese questa mattina i funerali di Roberto Maroni - morto martedì scorso all'età di 67 anni - nella Basilica di San Vittore, cattedrale della città. Funerali di Stato, quelli per l'ex ministro dell'Interno, decisi ieri dal Consiglio dei ministri.
E sono tanti i rappresentanti del governo arrivati in città per salutare l'ex ministro, a partire dalla premier Giorgia Meloni che ha detto: "L'Italia è stata fortunata a poter contare su di lui". Maroni che della Lombardia è stato anche governatore, viene ricordato per l'ultima volta nella sua città. I cittadini seguono la funzione da un maxischermo, la piazza infatti è 'blindata' per l'accesso delle autorità, con le transenne per creare delle corsie.
Il feretro è stato appunto portato dai poliziotti in alta uniforme, come da protocollo dei funerali di Stato. Sulla bara un cuscino di fiori bianchi. In piazza alpini, carabinieri e guardia di finanza e diversi gonfaloni di Comuni e Regioni.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni è arrivata insieme al presidente del Senato Ignazio La Russa, è stata accolta da un applauso e a fine cerimonia ha detto visibilmente commossa: "Roberto Maroni era una persona capace di grande visione e di grande concretezza. Era una delle persone che ho conosciuto che più sapeva fare gioco di squadra. Ne ho un ricordo straordinario. L'Italia è stata fortunata a poter contare su una persona così nelle sue istituzioni".
Presenti alle esequie anche il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, e diversi ministri. I tre governatori leghisti, Massimiliano Fedriga, Attilio Fontana e Luca Zaia sono entrati insieme in chiesa. Ai funerali sono arrivati anche i due vice premier a pochi minuti di distanza, Matteo Salvini e Antonio Tajani. Tra i ministri sono presenti Giancarlo Giorgetti, Roberto Calderoli, Daniela Santanché e Francesco Lollobrigida.
"Abbiamo sentito una grande vicinanza e un grande amore e affetto. Papi sappiamo che per te non è stato facile essere un papà perché il tuo lavoro, che era la tua passione, ti ha costretto a passare del tempo lontano da casa, spesso non eri a casa, accendevamo la tv e ti vedevamo lì, ma non siamo mai stati arrabbiati con te, forse nella fase dell'adolescenza, ma è durato poco perché poi era sempre una grande gioia vederti tornare a casa, eri un introverso, un timidone, nonostante i comizi, le ospitate, i vertici coi grandi potenti del globo, tirare fuori tue emozioni era difficile, a chi ti chiedeva come stavi preferivi dire 'bene'". Così Filippo, il figlio di Roberto Maroni, che ha ringraziato tutti a nome della famiglia al termine dei funerali.
Roberto Maroni "è stato un uomo politico capace di passione e moderazione, di determinazione senza aggressività". Così in un messaggio letto durante i funerali di Stato l'arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, ha ricordato Roberto Maroni. È stato un uomo politico "capace di aver cura dell'insieme, di proporsi e di farsi da parte", ha concluso.
"A Varese ho sentito dire spesso in questi giorni 'era uno di noi'. È bello quando un politico riesce a farsi percepire così, come uno di noi. Le sue origini umili non le ha mai rinnegate e sempre vissute con normalità soprattutto quando tornava a Lozza dove era non il ministro ma il marito di Emilia e il padre di Chelo, Fabrizio e Filippo". Lo ha detto il vescovo ausiliare di Milano, monsignor Giuseppe Vegezzi, nella sua omelia. Vegezzi ha ricordato la passione per la musica di Maroni e di quando suonava ai matrimoni in chiesa con la sua band 'Distretto 51'. "È bello pensare che sta cantando anche per noi" ha aggiunto, sottolineando la sua capacità di ascoltare e capire tutti" e il suo impegno politico "come servizio al bene dei cittadini. Sempre per dialogare e mai per distruggere".
"Era un visionario. Le Olimpiadi le abbiamo portate a casa anche grazie a lui. Ma soprattutto in lui c'era un'incrollabile fiducia nel fatto che si potevano fare". A dirlo è il sindaco di Milano Beppe Sala, al suo arrivo a Varese. "Era un amico e molto anche un confidente, una persona di cui ci si poteva fidare. Quando c'erano cose delicate e volevi confrontarti con qualcuno, con lui eri sicuro che non sarebbero uscite dalla stanza. Era quel tipo di persona e manca per questo", ha sottolineato Sala.
Uno striscione con la scritta 'Grazie Bobo' in verde è stato appeso sul balcone della sede storica della Lega in piazza Podestà, a Varese. In omaggio all'ex ministro e governatore lombardo leghista, il Comune ha disposto il lutto cittadino e le bandiere a mezz'asta in tutti gli edifici pubblici.
Presenti anche Pierfrancesco Majorino e Letizia Moratti, candidati alla presidenza della Regione Lombardia per centrosinistra e Terzo polo, con l'ex premier Mario Monti. "Credo che Roberto Maroni fosse davvero una persona perbene e anche un interlocutore molto piacevole. Un avversario leale e quindi credo che la Lombardia abbia perso una persona seria", ha detto Majorino.
L'ultima canzone per Bobo tra Stato e barbari sognanti. Ai funerali di Maroni a Varese anche la Meloni e i presidenti delle Camere. E il "Distretto 51". Stefano Zurlo su Il Giornale il 26 Novembre 2022.
La gente, fuori, batte le mani. E chi può si affaccia ai balconi che formano una sorta di quinta risorgimentale nel cuore di Varese. Dentro, la basilica di San Vittore inghiotte il Palazzo che si stipa nella penombra delle panche per l'ultimo saluto a Roberto Maroni. Nello spazio di pochi metri si ritrovano il premier Giorgia Meloni e l'ex capo del governo Mario Monti; i governatori leghisti Zaia e Fedriga, l'ex presidente della Camera Pierferdinando Casini, i ministri Giorgetti, Tajani e Santanché. È un funerale con tanta musica, dolore diventa commozione, ma c'è anche più speranza che disperazione. Meloni, che entra fra scrosci di applausi, riconosce subito la straordinarietà di Maroni: «Sapeva fare gioco di squadra. Fra l'altro ci sentivamo. Penso che l'Italia sia stata fortunata a poter contare su una persona così nelle istituzioni». Ci sono i canti della tradizione e quelli della band Distretto 51, in cui Bobo era tastierista, e le musiche, struggenti, danno il metronomo di una cerimonia toccante ma in qualche modo leggera, mai ingessata nell'ufficialità. Per una volta il Palazzo e il popolo sembrano vivere senza barriere le stesse emozioni e annuiscono insieme alle parole di monsignor Giuseppe Vegezzi che tesse un elogio anticonvenzionale: «Da molti varesini, negli ultimi giorni, ho sentito dire che era uno di noi. Bobo ha cercato di vivere la politica nel segno della concretezza ambrosiana del bene». Insomma, Maroni, ex titolare del Viminale ed ex presidente della Regione Lombardia, aveva saputo colmare le distanze che di solito allontanano la politica dalle dimensioni della vita comune. Non basta, perché il vescovo va anche oltre con un ritratto più intimo di Roberto: «A Lozza, il suo paese, era il marito di Emilia, il papà di Chelo, Fabrizio, Filippo. Affidiamo Bobo al Dio della vita non dei morti. Altra sua passione la musica, nata in oratorio, fino a mettere su la Band del Distretto 51. È bello sapere che sta cantando anche per noi». E che si è dato da fare fino alla fine, senza impiccarsi alle distinzioni partitiche ma badando alla sostanza: «Roberto Maroni - spiega il sindaco di Milano Beppe Sala - era un visionario. Le Olimpiadi le abbiamo portate a casa anche grazie a lui. In lui c'era un'incrollabile fiducia che si potessero fare le cose con coraggio. Era un uomo coraggioso». La cerimonia tiene insieme i tre sfidanti di Palazzo Lombardia: Attilio Fontana, governatore uscente, e poi Letizia Moratti e Pierfrancesco Majorino; ancora i presidenti di Camera e Senato, Fontana e La Russa, il ministro dell'agricoltura Lollobrigida e il sottosegretario Alfredo Mantovano. «Papi - attacca alla fine il figlio Filippo - fuori dalla famiglia rimanevi fuori da molte cose, dai problemi di tutti i giorni, ma sapevamo che ci volevi bene. A volte durante un film chiedevi: Metti in pausa. Poi ci abbracciavi e ci dicevi: Vi voglio bene».
Un lungo applauso accompagna la fine del rito.Meloni esce e saluta la famiglia: «Oggi ci avete insegnato qualcosa». Anche Matteo Salvini, per un periodo nella scia di Maroni prima di prendere la propria strada, sintetizza la lezione del maestro che se n'è appena andato: «La sua eredità e risolvere i problemi, non crearli». Le facce della gente sono impastate di commozione. E aspettano che l'ultima auto blu sia scivolata via, prima di lasciare il sagrato della basilica.
Schierata la nuova formazione della Lega post sovranista. Roberto Maroni, ai funerali gelo e zero applausi per il ‘nemico’ Salvini: Varese diventata ostile alla Lega. Riccardo Annibali su Il Riformista il 25 Novembre 2022
A Varese è lutto cittadino, tra le strade blindate del centro sventolano bandiere a mezz’asta e suonano le campane per i funerali di Stato. Sotto al cielo nuvoloso dell’antico cuore leghista che ha visto nascere l’epopea del Carroccio, il feretro di Roberto Maroni scorre silenzioso fino alla basilica di San Vittore dove è stato accolto da un lungo applauso. Dopo il saluto del picchetto di bersaglieri, Guardia di finanza e carabinieri, la bara di legno chiaro su cui è deposto un cuscino di fiori bianchi è entrata nella basilica.
La cerimonia funebre è officiata da monsignor Giuseppe Vegezzi, vescovo ausiliare della diocesi di Milano. Il Comune ha anche predisposto un impianto di filodiffusione all’esterno della chiesa dove il pubblico accorso per la funzione ha potuto anche ascoltare le note della canzone scritta da ‘Bobo’ e la lettura della lettera della famiglia. Nel centrale corso Matteotti è stato allestito un maxischermo.
Si susseguono numerosi quasi tutti i rappresentanti di governo arrivati per dare l’ultimo saluto all’ex ministro ed ex presidente della regione Lombardia. Qualche applauso per la premier Meloni, all’arrivo di Salvini, con appuntata sul petto la spilla di Alberto da Giussano, invece cala il gelo.
Dopo il pezzo della sua band, i Distretto51 ‘Come una bugia’ scritta proprio da Maroni, la leader di FdI raggiunge nella piazza fuori dalla basilica la famiglia, e rivolta ai figli dice: “Grazie. Oggi ci avete insegnato qualcosa”. E su di lui: “Era una persona capace di grande visione e grande concretezza. Era una delle persone che ho conosciuto che più sapevano fare gioco di squadra. Ne ho un ricordo straordinario”.
Alla fine della cerimonia arrivano anche le parole di colui che si è preso lo scettro del Carroccio in una Varese che sembra diventata luogo ostile alla mutazione movimentista imposta dal segretario: “Roberto Maroni è stato un orgoglio per la Lega e per l’Italia. La sua città e la sua comunità gli ha dato il saluto più bello, è stato bello vedere anche altri sindaci di territori diversi e idee diversi”. Si perché sono state trasversali le presenze politiche: dal senatore a vita Mario Monti al sindaco di Milano Beppe Sala, passando per Pierfrancesco Majorino. “Era una persona seria – aggiunge Salvini -, lui ha fatto il segretario federale prima di me e per me sarà ancora più impegnativo ed emozionante guadagnarmi la fiducia giorno per giorno”.
Presenti anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, e Antonio Tajani. I tre governatori leghisti, Massimiliano Fedriga, Attilio Fontana e Luca Zaia sono entrati insieme in chiesa.
Grande la commozione, visibile anche sul volto di Meloni, dopo le parole del figlio Filippo: “Per te non è stato facile essere papà. A cena da noi a casa non c’eri, ma accendevamo la tv e ti vedevamo. Ma non eravamo arrabbiati con te, forse un pochino nella fase della ribellione adolescenziale – ha ricordato -. Non è stato facile per te essere un papà presente se dovevi passare fuori cinque giorni a settimana. Però ci volevi un bene infinito”. Anche monsignor Vegezzi ha elogiato le doti di Roberto Maroni, la sua capacità di ascolto e la sua semplicità: “Da molti varesini, negli ultimi giorni, ho sentito dire che era uno di noi. Robi era esattamente così. A Lozza – ha proseguito il monsignore -, era il marito di Emilia, papà di Chelo, Fabrizio, Filippo. Altra sua passione la musica, nata in oratorio, fino a mettere su la band. È bello sapere che sta cantando anche per noi”. Riccardo Annibali
Estratto dell’articolo di Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 26 novembre 2022.
[…] Nella luminosa mattinata varesina si sente forte l'affetto per il cofondatore della Lega. Ma anche la rabbia di tanti per una Lega che lo aveva messo da parte: anche il fatto che il consiglio federale sia stato convocato da lì a poco viene considerato, nel giorno del funerale, un'indelicatezza: «Oggi ci sarebbe stato meglio il silenzio» dice un leghista prima di avviarsi verso via Bellerio a Milano. Ma che qui Salvini non giochi in casa si misura dal freddo applauso al suo arrivo.
E poi, non c'è il fondatore Umberto Bossi, che fin qui non ha pronunciato una sola parola per la scomparsa del compagno di tante scorribande padane e di tanti anni. Un silenzio inspiegabile al punto da far dubitare a molti che «l'Umberto» ne sia stato informato: ma il promotore del Comitato Nord Paolo Grimoldi garantisce. […]
I PROBLEMI DI MARONI, MINISTRO DELL’INTERNO.
Si sta molto attenti ad imporre la legalità dal basso, nessuno pretende il rispetto della legalità dall’alto: da chi dovrebbe dare l’esempio.
La sicurezza degli italiani in patria è affidata al Ministro dell’Interno. Giusto per capire se l'esempio debba venire dall'alto: esemplare è la figura di uno dei tanti Ministri che nel tempo è stato chiamato a ricoprire l’incarico.
Fonte Wikipedia: Roberto Maroni.
Anagrafe: Nato a Varese il 15 marzo 1955.
Curriculum: Laurea in Giurisprudenza; avvocato all’ufficio legale della Avon, poi dirigente leghista fin dalle origini; ministro dell’Interno nel primo governo Berlusconi e del Welfare nel secondo, già capo del «governo della Padania»; 5 legislature (1992, 1994, 1996, 2001, 2006).
Soprannome: Bobo.
Fedina penale: Condannato definitivamente a 4 mesi e 20 giorni di reclusione per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Nel 1996 la Procura di Verona invia la polizia a perquisire la sede leghista di via Bellerio a Milano, nell’ambito dell’inchiesta sulla Guardia padana, ma alcuni dirigenti leghisti, fra cui Maroni, ingaggiano un parapiglia con gli agenti per impedire loro di compiere il proprio dovere. Maroni, prima di finire in ospedale con il naso rotto, avrebbe tentato di mordere la caviglia di un agente di polizia. Di qui la condanna a 8 mesi in primo grado, poi dimezzata in appello e in Cassazione. Maroni è anche imputato nell’inchiesta del procuratore veronese Guido Papalia come ex capo delle camicie verdi, insieme a una quarantina di dirigenti leghisti, con le accuse di attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato e creazione di struttura paramilitare fuorilegge. Ma i primi due reati sono stati ampiamente ridimensionati da una riforma legislativa ad hoc, varata dal centrodestra nel 2005, allo scadere della penultima legislatura. Resta in piedi solo il terzo.
Roberto Maroni (Varese 15 marzo 1955) è un politico italiano e Ministro dell’Interno. Laureato in giurisprudenza ha lavorato come manager degli affari legali di diverse società; inoltre esercita la professione di avvocato.
All'età di 16 anni, nel 1971, Maroni milita in un gruppo marxista-leninista di Varese; fino al 1979 frequenta il movimento d'estrema sinistra Democrazia Proletaria. Nello stesso anno, il 1979, Roberto Maroni conosce Umberto Bossi. Tra i due inizia una collaborazione politica. Maroni e Bossi contattano i primi partiti autonomisti; quello più importante dell'epoca è l'Union Valdôtaine, movimento autonomista della Valle d’Aosta guidato da Bruno Salvadori. Dopo la morte prematura di Salvadori (1980), Maroni e Bossi proseguono da soli l'organizzazione di un movimento autonomista in Lombardia. Nel1984 Bossi e Maroni fondano, con Giuseppe Leoni, la Lega Lombarda. Mentre Bossi è segretario politico, Maroni contribuisce all'organizzazione del nuovo partito nella provincia di Varese. Nel 1985 Maroni è eletto consigliere comunale a Varese. La Lega elegge i primi rappresentanti anche a Gallarate e nel consiglio provinciale.
Nel 1989 partecipa alla fondazione della Lega Nord.
È deputato alla Camera dal 1992, dove ha ricoperto la carica di presidente del gruppo parlamentare leghista. Entra nel Consiglio federale della Lega e segue per conto della segreteria di Bossi le più importanti vicende politiche di quegli anni. Sempre nel 1992 contribuisce alla vittoria della Lega Nord alle elezioni amministrative, culminata nell'elezione del primo sindaco leghista in una città capoluogo di provincia, Varese. Maroni entra in quella prima giunta leghista come assessore.
È stato Ministro dell’Interno e Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, per otto mesi, nel 1994, sotto il primo governo Berlusconi.
È al fianco di Umberto Bossi nella svolta secessionista della Padania (15 settembre 1996) e viene indagato dalla Magistratura per reati legati al vilipendio dell'unità nazionale e accusato di aver causato uno stato di "depressione del sentimento nazionale" tra i propri concittadini a causa della diffusione delle proprie opinioni sull'indipendenza della Padania.
Il 12 agosto 1996 il Procuratore della Repubblica di Verona, Guido Papalia, avviò delle indagini sulla Guardia Nazionale Padana, sospettata di essere un'organizzazione paramilitare tesa ad attentare all'unità dello Stato (reato previsto dagli articoli 241 e 283 del Codice penale). Il 18 settembre venne così disposta la perquisizione delle residenze di Corinto Marchini, capo delle "camicie verdi", Enzo Flego e Sandrino Speri, dell'ufficio di Speri nella sede leghista di Verona e di un locale della sede federale di Milano della Lega Nord, ritenuto nella disponibilità dello stesso Marchini. Le operazioni iniziarono alle 7 del mattino e alle 11 due pattuglie della Digos di Verona si presentarono alla sede della Lega di via Bellerio a Milano con Marchini a bordo. A tale perquisizione, operata dalla Polizia di Stato, si opposero alcuni militanti e politici leghisti fra cui l’ex Ministro dell’Interno Roberto Maroni, che ne contestavano la validità. Tuttavia nel pomeriggio, dopo una consultazione con la Procura di Verona e un nuovo mandato di perquisizione, la Polizia decise di fare irruzione, incontrando la resistenza dei militanti e dirigenti padani. A questo punto scattò la carica per superare l'ostacolo e raggiungere l'ufficio indicato dall'indagato. Corinto Marchini aveva infatti indicato come proprio ufficio un locale che si rivelò invece essere, come scritto sulla porta, l'ufficio di Roberto Maroni; nessun altro locale venne identificato come un possibile ufficio dell'indagato. Il Procuratore decise di ignorare tale informazione e di far perquisire ugualmente l'ufficio. Si contarono contusi da entrambe le parti. Maroni, caricato su una barella, venne portato in ospedale.
Contro la perquisizione la Camera dei Deputati nel 2003 avanzò ricorso per «conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, chiedendo alla Corte Costituzionale di dichiarare che non spetta all'autorità giudiziaria (ed in particolare alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Verona) di disporre e di far eseguire la perquisizione del domicilio del parlamentare Roberto Maroni». Nel 2004 la Corte Costituzionale darà ragione alla Camera.
Il 16 settembre 1998 Roberto Maroni fu condannato in primo grado a 8 mesi per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. La Corte di appello di Milano il 19 dicembre 2001 ha confermato la decisione di primo grado riducendo la pena a 4 mesi e 20 giorni perché nel frattempo il reato di oltraggio era stato abrogato. La Cassazione nel 2004 ha poi confermato la condanna commutandola però in una pena pecuniaria di 5.320 euro. Per la Suprema Corte «la resistenza» di Maroni e degli altri leghisti «non risultava motivata da valori etici, mentre la provocazione era esclusa dal fatto che non si era in presenza di un comportamento oggettivamente ingiusto ad opera dei pubblici ufficiali». In modo particolare gli atti compiuti da Maroni sono stati ritenuti «inspiegabili episodi di resistenza attiva (...) e proprio per questo del tutto ingiustificabili».
Maroni è stato anche imputato a Verona come ex capo delle camicie verdi, insieme al altri 44 leghisti, con le accuse di attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato e creazione di struttura paramilitare fuorilegge. Ma i primi due reati sono stati ampiamente ridimensionati dalla Legge 24 febbraio 2006, n. 85 varata dal centrodestra allo scadere della legislatura. Restava in piedi solo il terzo, ma anche da questo Maroni ottiene il non luogo a procedere nel dicembre 2009, e comunque il divieto di associazioni di carattere militare previsto dal Decreto Legislativo 14 febbario 1948, n. 43 è stato poi abrogato dal Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (art. 2268, c. 1, punto 297).
Nel periodo 2001-06 lavora, nell'ambito della nuova coalizione della Casa delle Libertà, quale delegato leghista alla definizione del programma per le elezioni politiche del 2001, nelle quali viene rieletto deputato nel collegio uninominale di Varese. Nei governi Berlusconi II e III ha ricoperto l'incarico di Ministro del Welfare.
Nel 2001 riceve una lettera dal giuslavorista Marco Biagi, suo collaboratore al Ministero del Lavoro poi ucciso dalle Br, che lamentava una non adeguata protezione.
Nel periodo 2006-2008 è stato rieletto deputato nelle elezioni politiche del 2006 per le liste della Lega nella circoscrizione Lombardia 2. Nella XV è membro della Commissione Affari Esteri e della Giunta delle Elezioni. È stato capogruppo della Lega Nord Padania alla Camera.
Nel 2009 Maroni viene indagato a Milano per presunte tangenti ed evasione fiscali. Tra il 2007 e il 2008, avrebbe ricevuto 60.000 euro, fatturati come consulenze legali dalla società Mythos, considerata dagli inquirenti una 'cartiera'.
Verso la fine del 2010 il GIP di Roma ha prosciolto Maroni da tale accusa, archiviando l'indagine su richiesta della Procura di Roma, la quale aveva accertato che "quei soldi erano il pagamento di una consulenza legale resa regolarmente da Maroni alla Mythos".
Nel 2009 è diventato consigliere comunale di Porretta Terme (BO). Candidato alle elezioni amministrative del 2007 non era stato eletto. Diventa Consigliere Comunale in seguito alla rinuncia di altri suoi colleghi di opposizione. Il 3 luglio 2010, l'edizione locale de Il Resto del Carlino dà la notizia delle sue dimissioni, rassegnate per mancanza di tempo.
Il 7 maggio 2008 Silvio Berlusconi gli ha riaffidato l'incarico di Ministro dell’Interno. La sua proposta di prendere le impronte digitali a chi non fosse in grado di documentare la propria identità, con particolare attenzione ai bambini rom, viene da lui definita "Un provvedimento atto a tutelare i minori stessi, obbligati dai genitori ad andare a rubare o mendicare", mentre gli oppositori la definiscono "Un atto xenofobo e razzista, che costringe i bambini a pagare per colpe non loro".
Così sono i Ministri dell’Interno PADANI.
Regione Lombardia, caso Maroni, condanna a un anno: «Gli incarichi alle collaboratrici? Un suo interesse». Il Tribunale ha motivato la sentenza sull’ex governatore della Lombardia nel processo per i contratti di Maria Grazia Paturzo e Mara Carluccio, scrive Luigi Ferrarella il 18 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Sarebbe stato un problema sistemare in Regione Lombardia le due amiche della cui collaborazione (già sperimentata al ministero dell’Interno) l’allora presidente leghista della Regione Roberto Maroni non voleva privarsi: sia per l’ipoteca della Corte dei Conti che avrebbe posto «un profilo di danno erariale», sia per la «difficile gestione anche mediatica delle ripercussioni» sul tema «costi della politica, oggetto di interesse del partito di Maroni». È così che il Tribunale di Milano — nel motivare la condanna in primo grado a un anno (pena sospesa) per turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, e l’assoluzione dall’induzione indebita — inquadra i contratti temporanei a Mara Carluccio in Eupolis (ente di ricerca sotto controllo regionale) e a Maria Grazia Paturzo in Expo. Nel primo caso «Maroni, personalmente (ne è stata acquisita prova diretta) e per il tramite di Giacomo Ciriello» (suo capo staff, 1 anno di pena), «incaricò» il leghista segretario generale del Pirellone, Andrea Gibelli (oggi n.1 di Ferrovie Nord Milano, 10 mesi e 20 giorni di pena), «di segnalare al direttore generale di Eupolis, Alberto Bugnoli», otto mesi patteggiati), il nome di Mara Carluccio (sei mesi di pena). E «l’agire di Brugnoli», che «ricevette da Gibelli il curriculum di Carluccio ben prima dell’avviamento della selezione» sfociata in un incarico su misura da 29 mila euro, fu «rivolto all’esclusivo scopo di compiacere» l’«interesse personale di Maroni» e «non già per soddisfare una esigenza della PA». Nel secondo caso (cioè il viaggio a Tokyo di Paturzo, poi annullato, di cui Maroni nel maggio 2014 cercava di accollare le spese all’Expo di Beppe Sala), il Tribunale riporta due pagine di sms e intercettazioni per dare «la prova diretta della» invece sempre negata «esistenza di una relazione non solo professionale», foriera perciò di atti alla Procura, per ipotesi di false dichiarazioni, a carico di Paturzo e delle testi Isabella Votino (portavoce di Maroni) e Cristina Rossello (avvocato e parlamentare di Forza Italia). Ma negli sms e telefonate che il pm Eugenio Fusco qualificava come «pressioni» di Maroni su Cristian Malangone (il braccio destro di Sala già assolto definitivamente) i giudici Guadagnino-Amicone-Vanore ravvisano invece non «la perentorietà» di una pressione illecita, ma «la riproposizione di una richiesta più sbrigativa delle precedenti».
"Maroni salvo dal carcere solo perché si è dimesso". Le motivazioni della condanna, scrive Luca Fazzo, Martedì 18/09/2018, su "Il Giornale". E adesso forse si capisce qualcosa di più sui motivi per cui Roberto Maroni, tra lo stupore generale, l'8 gennaio scorso annunciò che non si sarebbe ricandidato alla carica di governatore della Lombardia. In quei giorni l'ex ministro degli Interni era sotto processo a Milano per i favori che avrebbe fatto a due donne del suo staff ma sembrava che la conseguenza peggiore in caso di condanna potesse essere la sua incandidabilità. Ora però arrivano le motivazioni della sentenza che ha messo fine a quel processo, dimezzando i capi d'imputazione e condannando Maroni solo per la accusa più lieve. E in questa sentenza si legge che a Maroni, condannato a un anno, viene concessa la sospensione condizionale solo perché intanto ha scelto di lasciare la carica. E quindi si può prevedere che non farà altri reati. Se l'italiano (benché giuridico) ha ancora un senso, vuol dire che se il governatore lombardo fosse rimasto al suo posto, avrebbe rischiato di finire ai domiciliari o in affidamento ai servizi sociali. Contro la concessione della condizionale pesava la «presenza di un precedente penale specifico», un'altra condanna di cui ieri, peraltro, i legali di Maroni negano l'esistenza. L'aspra conclusione cui approdano i giudici fa un certo effetto anche perché arriva al termine di novanta pagine dedicate in larga parte a riabilitare l'ex governatore, riconoscendone l'innocenza dall'accusa più grave che gli era stata mossa dal pm Eugenio Fusco: concussione per induzione, per avere costretto i vertici di Expo a imbarcare con lui in una missione a Tokyo la sua collaboratrice Maria Grazia Paturzo, che la sentenza definisce legata da Maroni «da una relazione non solo professionale». Qualunque fosse il sentimento che legava i due, per i giudici la presenza della Paturzo nella missione «aveva una sua giustificazione formale», visto il suo incarico; e soprattutto Maroni non fece nulla di illecito per imporla. Per l'accusa, la prova regina era un sms che un collaboratore di Maroni manda ai vertici di Expo: «Il Pres ci tiene», una sorta di ultimatum. Invece per i giudici nel messaggio «non sono ravvisabili né la perentorietà né il carattere ultimativo», «il contenuto del messaggio appare qualificabile più come una riproposizione della richiesta». E «le considerazioni del pm appaiono, più che fondate su effettivi dati sostanziali, una forzata interpretazione del dato letterale».
Maroni pubblicherà a novembre un libro “sulle vittime della giustizia mediatica”. Lo aveva annunciato, tra le tante idee raccontate dopo la rinuncia alla corsa per le ultime elezioni regionali, e ora su Il Foglio spiega che ci sono un tema e una data di pubblicazione, scrive di Tomaso Bassani su "Varesenews.it" il 21 settembre 2018. Nella nuova vita di Roberto Maroni, ex ministro, ex governatore della Lombardia ed ex segretario della Lega Nord oggi, formalmente, solo consigliere comunale varesino, c’è anche spazio per la scrittura. Lo aveva annunciato, tra le tante idee raccontate dopo la rinuncia alla corsa per le ultime elezioni regionali, e ora spiega che ci sono un tema e una data di pubblicazione. Lo ha raccontato Maroni stesso nella sua rubrica pubblicata su Il Foglio dove toglie il velo sul libro al quale sta lavorando e che uscirà a novembre. Si tratta di una pubblicazione su quelli che l’ex governatore definisce “le vittime dei casi di giustizia mediatica”. “Tanti processi, tanto risalto mediatico, pochissime condanne – scrive Maroni -. Un principio di civiltà giuridica consacrato dalla Costituzione. Peccato che in questa Italia succeda l’esatto contrario. La sentenza di condanna mediatica arriva subito, talvolta precede persino l’informazione all’interessato di essere sottoposto a indagine. E poi recuperare è quasi impossibile”.
Per denunciare tutto questo Roberto Maroni sta scrivendo il suo libro: “manca il coraggio di parlar chiaro, io lo farò in un libro che uscirà a novembre”.
Da Garavaglia a Rizzi, la Lega lascia a casa le scope, oggi il nemico è la magistratura, scrive Andrea Carugati, Giornalista, su "L'huffingtonpost.it" il 16/02/2016. Sono passati quattro anni da quella serata alla Fiera di Bergamo, quando Bobo Maroni guidò la rivolta delle scope contro gli scandali che avevano travolto il cerchio magico di Umberto Bossi e i suoi figli. Una serata all'insegna della rottamazione giudiziaria, con il vecchio Senatur sul palco a chiedere scusa per il Trota, e i "barbari sognanti" di Maroni in platea a gridare cori da stadio contro Rosy Mauro, la vestale del cerchio, che subì una sorta di rogo medievale come una "strega". Una strega "terrona", visti i suoi natali pugliesi. "Rosy pu....a l'hai fatto per la grana", gridavano. Maroni dal palco fu categorico: "Se non si dimette lei, la dimetterà la Lega". "Dobbiamo fare pulizia, chi sbaglia paga". In quella notte di rottamazione ante litteram, con gli scandali e i diamanti che sembravano travolgere il Carroccio, c'era anche l'allora sindaco di Besozzo Fabio Rizzi, senatore maroniano, uno dei protagonisti della faida varesina che vide di colpo su barricate opposte sindaci, quadri, dirigenti e militanti leghisti fino a quel momento uniti contro "Roma ladrona". Tra i barbari che lavoravano per mettere Bobo sul trono di Umberto c'erano Matteo Salvini, Flavio Tosi, l'attuale assessore lombardo Gianni Fava, l'attuale presidente del Copasir Giacomo Stucchi e molti parlamentari. La parola d'ordine era salvare la Lega nel segno della moralità. Fare pulizia. Dopo quattro anni la carriera politica della Mauro è finita. Un ricordo i bei tempi da numero due del Senato, con l'amico bodyguard e aspirante cantante Pier Moscagiuro, agente di polizia dirottato a palazzo Madama, e autore del brano "Kooly Noody", divenuto in quelle settimane una sorta di "inno" dei maroniani contro la vecchia guardia. "Mi sono francamente rotto di Cerchi magici e Kooly Noody", scriveva Maroni su Facebook per dare la carica ai suoi. Dopo quattro anni, però, ironie della storia, Rosy Mauro è uscita pulita dalle inchieste che pure l'hanno riguardata. Nel 2014 l'archiviazione per l'inchiesta in cui era coinvolta insieme all'ex tesoriere Belsito, espulso come lei nel 2012 a furor di popolo. Nello stesso anno archiviazione anche in riferimento alle spese sostenute quando era consigliere regionale in Lombardia. Belsito, Bossi e i figli Renzo e Riccardo, invece, sono ancora sotto processo a Milano con l'accusa di appropriazione indebita di circa 500mila euro di rimborsi elettorali della Lega. E ora che la breve stagione di Maroni alla guida del Carroccio si è conclusa da un pezzo, agli arresti è finito uno dei barbari sognanti, Fabio Rizzi, presidente della commissione Sanità al Pirellone e tra i principali artefici della riforma sanitaria lombarda. L'accusa parla di una presunta tangente di 50mila euro e altri benefit a lui e a un suo stretto collaboratore per aver favorito una società che si occupa di ambulatori odontoiatrici. Due giorni fa, Matteo Salvini, altro beneficiario della rottamazione giudiziaria contro i bossiani, ha tuonato contro la magistratura italiana, definita "una schifezza", in riferimento al rinvio a giudizio del suo fedelissimo Edoardo Rixi (che è anche il vicesegretario della Lega) nell'inchiesta sulla rimborsopoli del consiglio regionale ligure. Frasi che sono costate un'indagine a carico di Salvini, indagato dalla procura di Torino per "vilipendio dell'ordine giudiziario". La squadra di Maroni al Pirellone era già stata colpita ad ottobre 2015 dall'arresto del vicepresidente Mario Mantovani (Forza Italia), poi trasferito ai domiciliari, accusato di corruzione e altri reati. A fine gennaio 2016, il pm Giovanni Polizzi ha chiesto il rinvio a giudizio per Mantovani e, nell'ambito dello stesso filone d'inchiesta, anche per il potente e autorevole assessore al Bilancio della Regione Lombardia Massimo Garavaglia, per il quale l'ipotesi di reato è turbativa d'asta. Leghista, molto legato al governatore, Garavaglia è stato difeso a spada tratta da Salvini. "La sua colpa sarebbe di aver aiutato una associazione di volontariato del suo territorio, che trasporta malati e dializzati", ha scritto Salvini sul suo profilo Facebook: "Avrebbe quindi truccato un appalto, poi vinto da altri! Se aiutare (senza peraltro riuscirci) una associazione di volontariato è un reato, mi auto-denuncio anch'io: arrestatemi!". Le scope, in casa leghista, sembrano un lontano ricordo. Spazzati via Belsito, la Mauro e i figli di Bossi, l'epoca del "giustizialismo padano" sembra finita. Ora il nemico è la magistratura. Come negli anni Novanta, quando Bossi tuonava contro i pm, e avvertiva che "dalle nostri parti i proiettili costano solo 300 lire...".
MAFIA, PALAZZI E POTERE. Il terremoto parte da Reggio Calabria. Nelle carte dell'inchiesta Breakfast la ragnatela di relazioni per promuovere prefetti, "silenziare" Bossi, lucrare sul Ponte sullo Stretto. Tutto parte dalle telefonata di Domenico Aiello, il legale (calabrese) di Maroni, scrive Martedì 08 Dicembre 2015 il “Corriere della Calabria”. Il prossimo terremoto giudiziario (non manca nulla: dai rapporti di potere tra la Lega e Berlusconi agli intrighi politici attorno al Ponte sullo Stretto, ai patti indicibili tra istituzioni, industriali e mondo dello sport) ha come epicentro la Procura di Reggio Calabria. È l'inchiesta "Breakfast", della quale il Fatto Quotidiano in edicola martedì anticipa stralci che potrebbero far tremare pezzi importanti del potere. Cominciando dalle nomine del ministero dell'Interno e dei prefetti. Tra i quali il commissario del Comune di Roma Francesco Paolo Tronca, che avrebbe chiesto una mano al potere leghista per diventare prefetto di Milano nel 2013. Il passepartout per i giochi nei Palazzi sono le intercettazioni che vedono protagonista Isabella Votino, storica portavoce del governatore della Lombardia Roberto Maroni. Colloqui che spaziano lungo tutto l'arco politico italiano, con importanti passaggi calabresi. L'incipit, innanzitutto. Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell'indagine Breakfast, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. L'inchiesta, condotta dal pm Giuseppe Lombardo sotto il coordinamento del procuratore capo Federico Cafiero, va avanti in gran segreto da tempo. Gli investigatori si sono imbattuti nel "terremoto politico" dopo aver attivato intercettazioni nei confronti dell'avvocato Aiello, legale di fiducia del governatore Maroni e della Lega. Ma anche compagno di Anna Maria Tavano, ex direttore generale della Regione Calabria, successivamente assunta come manager in Lombardia. L'attività di indagine era stata avviata per appurare i rapporti di Aiello con il consulente legale Bruno Mafrici, figura chiave in Breakfast, un uomo le cui relazioni spaziano – secondo le informative della Dia – dalla politica leghista al clan De Stefano. In parallelo, avanzavano le intercettazioni sulla portavoce di Maroni Isabella Votino. «A prescindere dalla rilevanza penale – scrive Marco Lillo sul quotidiano diretto da Marco Travaglio –, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato». Un dietro le quinte del potere sull'asse Roma Milano, dunque. Illuminante per svelare certe dinamiche. Non c'è solo il prefetto Francesco Paolo Tronca nei brogliacci. Ci sono gli accordi tra Maroni e Berlusconi per convincere Bossi a mettersi da parte, le sponsorizzazioni dell'ex Cavaliere in vista di Expo, il presunto ricatto (sempre di B.) a Maroni. E il tentativo dell'amministratore delegato di Impregilo, Pietro Salini, di "fottere" lo stato «con la complicità della portavoce dell'allora segretario della Lega, sempre Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto». C'è molta Lega, nel passaggio tra vecchio e nuovo corso. E, ovviamente, un ruolo centrale ha l'avvocato calabrese Domenico Aiello. Un professionista che, vuole l'aneddotica più accreditata, sarebbe entrato nel "cuore" di Maroni per la comune fede milanista, per diventare un punto di snodo dei principali interessi lumbàrd. Aiello telefono a vari procuratori per tessere la sua tela, chiedendo informazioni e audizioni. E le loro risposte sono le più disparate: c'è chi chiude senza lasciare possibilità, chi apre le porte e chi, addirittura, chiede favori. Un quadretto poco edificante. L'epicentro è la Calabria. E un'inchiesta esplosiva sulla quale qualcuno ha cercato di mettere il coperchio.
Tronca e le carriere dei prefetti, a decidere è la portavoce. Le telefonate svelano il sistema delle nomine. Isabella Votino da 9 anni è la collaboratrice più stretta del governatore lombardo Roberto Maroni: a lei si rivolgono gli aspiranti a una carica, per informazioni e aiuto. In una conversazione intercettata nel 2012 racconta i retroscena sull'arrivo in prefettura a Milano dell'attuale commissario al Comune di Roma, Francesco Paolo Tronca. Che al Fatto dice: "Escludo categoricamente di averle chiesto una raccomandazione", scrive Marco Lillo l'8 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". A chi ha chiesto una mano per agguantare la poltrona di prefetto di Milano nel 2013 Francesco Paolo Tronca? Secondo Isabella Votino, la storica portavoce di Roberto Maroni, il prefetto si sarebbe raccomandato a lei e al potere leghista. Non è l’unica questione che emerge dalle intercettazioni telefoniche di un’indagine della Procura di Reggio Calabria che oggi sveliamo. Qual è l’imprenditore che Silvio Berlusconi sponsorizza per i lavori della Città della Salute a due passi da Milano in occasione di Expo? E come ricatta Maroni per ottenere l’alleanza alla vigilia delle elezioni che determineranno l’attuale equilibrio politico italiano e lombardo? Con quali parole l’ex premier minaccia di sguinzagliare i giornali di destra alla stregua di pit bull per indurre a più miti consigli l’alleato riottoso? Come si sono accordati Berlusconi e Maroni per convincere Umberto Bossi a mettersi da parte in silenzio? Come fa l’amministratore delegato della maggiore impresa di costruzioni italiana, Pietro Salini di Impregilo, a tentare di “fottere” lo Stato (a partire dal presidente della Repubblica) con la complicità della portavoce dell’allora segretario della Lega, Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto? Come fa il presidente del Coni Giovanni Malagò a proporre alla Lega un’alleanza tra padani e generone romano? Con quali parole vanta le potenzialità di una macchina di consenso con milioni di tesserati per ottenere un voto utile a sbaragliare il rivale Raffaele Pagnozzi? E quali trattative ci sono tra Matteo Salvini e i vecchi leghisti dietro al patto del febbraio 2013 tra il nuovo segretario federale del Carroccio e Bossi? Perché la Lega ha evitato di costituirsi parte civile contro l’ex tesoriere Francesco Belsito nei processi per le ruberie dalle casse del partito? Come rispondono i vari procuratori interessati dalle manovre dell’avvocato Domenico Aiello quando il legale dei leghisti chiede con tono perentorio informazioni e audizioni? Perché un procuratore “duro e puro” chiude ogni comunicazione con parole secche mentre altri pm lasciano le porte aperte e qualcun altro chiede all’avvocato della Lega un favore? Infine, come si decidono le nomine dei commissari strapagati delle grandi aziende in crisi firmate dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi nel 2014? E tanto altro ancora. A partire da oggi, per molti giorni, Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell’indagine Breakfast della Procura di Reggio Calabria, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria sotto il coordinamento del pm Giuseppe Lombardo e del procuratore capo Federico Cafiero De Raho. L’indagine va avanti in gran segreto da tempo. Tanto segreto. Troppo tempo. Probabilmente le intercettazioni nei confronti dell’avvocato Aiello (attivate nel 2012 per appurare i suoi rapporti con il consulente legale Bruno Mafrici, che era indagato) e sulla portavoce di Maroni Isabella Votino non porteranno a nulla. A prescindere dalla rilevanza penale, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato. Il Fatto ha visionato le telefonate e ha deciso di far conoscere all’opinione pubblica come funziona dietro le quinte il potere sull’asse Roma-Milano. Le nomine dei prefetti spettano al Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno. Però c’è una bella signorina di 36 anni, nata a Montesarchio in provincia di Benevento, che sembra avereinfluenza sulle scelte. Si chiama Isabella Votinoe gli aspiranti a una carica le chiedono informazioni e aiuto. Da nove anni è la collaboratrice più stretta di Roberto Maroni. Il suo potere però è più penetrante di quello di una mera portavoce di un governatore lombardo. Sarà per i suoi rapporti stretti con Silvio Berlusconi che poi l’ha voluta nel gennaio 2014 per vitalizzare la comunicazione del Milan, ma tra la fine del 2012 e inizio del 2014, quando è intercettata dalla Dia di Reggio Calabria, sembra una sorta di zarina del Viminale, nonostante Maroni non sia più il ministro. Il 18 dicembre del 2012 a Palazzo Chigi c’è Mario Monti e al Viminale c’è la Cancellieri. La Votino è “solo” la collaboratrice più intima del neo-segretario della Lega Nord, Roberto Maroni quando Luciana Lamorgese, Capo del Dipartimento personale e risorse del ministero dell’Interno, la chiama. Votino le racconta i retroscena della carriera del prefetto Francesco Paolo Tronca. L’attuale commissario nominato da Alfano e Renzi al Comune di Roma, secondo Votino, si sarebbe fatto raccomandare dalla Lega per diventare prefetto di Milano nel 2013, trampolino di lancio per la sua carriera.
Isabella Votino (V): Avevo incrociato Tronca, dopo di che lui mi ha chiamato dicendomi..
Luciana Lamorgese (L): Ma lui ti ha chiamato?
V: Perché io l’avevo incrociato… poi avevo parlato con te e tu, onestamente, mi avevi lasciato intendere che, come dire, non se ne faceva nulla e allora io gli ho detto guarda dico, vuoi che ti dica, cioè…
L: Ma perché lui voleva sapere da te i fatti?
V: No no lui ovviamente voleva in qualche modo che si caldeggiasse… perché non ne fa mistero che vuole venire a Milano.
L: Eh certo! (ride)
V: Ma questo cioè legittimamente e allora ma sai fuori dai giochi tu che, ovviamente voglio dire … meglio lui che un altro, cioè, che noi neanche conosciamo (…) Luciana, io non te lo devo dire che … cioè, noi preferiamo che vieni tu che…
L:(ride) (…) io voglio prima capire qual è la situazione … cioè, nel senso, anche da vedere Roma che cosa…
Il Prefetto Luciana Lamorgese in sostanza fa presente all’amica che la sua prima scelta è la nomina a Roma e Milano è per lei una subordinata. Nel luglio 2013 sarà nominata capo di gabinetto dal ministro Angelino Alfano, al posto di Giuseppe Procaccini, travolto dal caso Shalabayeva. La sera del primo giugno 2013 Isabella Votino chiama Maroni per sapere se il vicecapo della polizia Alessandro Marangoni andrà a fare il prefetto di Milano (alla fine ci andrà solo due anni dopo, pochi giorni fa, per pura coincidenza, ndr). La sta cercando Tronca e Maroni commenta che certamente Tronca la sta chiamando perché vuole sponsorizzare la sua nomina. Due minuti dopo Votino chiama Tronca. L’allora capo dipartimento dei Vigili del fuoco la invita a essere sua ospite nelle tribune riservate alla festa del 2 giugno a Roma. Lei declina l’invito e prende il discorso della nomina sostenendo che è stata rinviata a luglio. Tronca le chiede di continuare a seguire lei la vicenda. Votino conclude dicendo che però circola voce che potrebbe essere nominato Marangoni. Invece l’8 agosto del 2013 il nuovo ministro dell’interno Angelino Alfano nomina Tronca prefetto. A settembre 2013 la Dia intercetta la conversazione tra un funzionario molto importante della polizia di Milano, Maria José Falcicchia, e la sua amica Isabella Votino. Falcicchia (prima donna nominata proprio in quel periodo capo della anticrimine della Squadra mobile di Milano) chiede se Tronca è stato scelto da loro, cioè dalla Lega nord. La portavoce di Maroni risponde che loro lo hanno messo a capo dei Vigili del fuoco e che lo hanno sponsorizzato loro. Tronca non è l’unico prefetto di Milano che ha rapporti con Isabella Votino. Dal 2005 al gennaio del 2013 su quella poltrona c’era Gian Valerio Lombardi, famoso per come ha accolto nel 2010 l’amica di Berlusconi Marysthell Polanco in Prefettura e per la frase sfortunata (ma gradita a Maroni) sulla mafia che a Milano “non esiste”. Il 22 novembre 2012 il prefetto Lombardi, nato a Napoli nel 1946, chiede alla portavoce di Maroni: “Come sono i rapporti tra il nostro (Roberto Maroni, ndr) e il presidente della Regione Veneto?”. Votino risponde che con Luca Zaia i rapporti sono buoni. E Lombardi pronto: “Quindi se gli dobbiamo chiedere una cortesiola per una mia lontana parente che aveva un’aspirazione che dipende proprio da lui… possiamo vedere…”. Votino lo rinvia a un caffè nel fine settimana. Passa qualche mese e il Prefetto, dopo la scadenza del mandato, è a caccia di poltrone. Il 17 giugno 2013, dopo la nascita del governo Letta, si propone come sottosegretario perché “anche Alfano potrebbe aver bisogno di qualcuno fidato…”. Invece Alfano sceglie altre persone. E così a lui ci devono pensare i lombardi. Isabella Votino dimostra di non essere una portavoce qualunque quando suggerisce a Maroni di nominare Lombardi commissario dell’Aler, l’Azienda lombarda edilizia residenziale. Il governatore chiama il vicepresidente Mario Mantovani (poi arrestato per altre vicende) e ottiene il suo ok alla nomina. Ed è proprio Votino a comunicare la lieta notizia al prefetto che ringrazia ma aggiunge: “Si guadagna una qualcosetta?”. Rassicurato (da commissario prende il 60 per cento in meno ma oggi da presidente Aler guadagna 75 mila euro lordi all’anno) accetta l’incarico. Il 18 giugno Isabella Votino lo chiama per dirgli che appena è uscito il suo nome sui giornali è scoppiata la polemica per le sue vecchie dichiarazioni sulla mafia che a Milano non esiste. Però nessuno ferma Maroni e così Lombardi è tuttora al suo posto. Il prefetto Tronca, sentito dal Fatto Quotidiano, spiega: “Non ricordo questa telefonata con Isabella Votino. Non avevo una confidenza particolare con lei. Può darsi che le abbia detto, come mi è capitato con tante altre persone, che aspiravo a diventare prefetto di Milano. È una carica così importante che ci vuole la non controindicazione soprattutto delle istituzioni più rilevanti, e Maroni era allora presidente della Regione Lombardia”. E quella frase di Isabella Votino? Perché dice al telefono a una sua amica che loro hanno sponsorizzato Tronca e che l’avevano nominato prima anche a Capo del dipartimento dei Vigili del fuoco? “Io sono stato nominato capo dipartimento da Maroni e fu un gradito fulmine a ciel sereno: da prefetto di Brescia diventavo capo dipartimento dei vigili del fuoco. C’è una spiegazione però. Io – prosegue Tronca – mi ero occupato di Protezione civile anche da funzionario alla Prefettura di Milano. Ho gestito il coordinamento dell’incidente di Linate nel 2001 e in quel frangente ho conosciuto l’allora ministro dell’interno Maroni però non ho mai chiesto una raccomandazione anche perché non avevo particolari rapporti”. Allora perché chiede a Votino di “continuare a seguire la vicenda” della nomina a prefetto? Perché la invita a Roma per la festa del 2 giugno del 2013? “Probabilmente volevo che mi tenesse informato visto che Maroni avrebbe saputo come finiva. Mentre escludo categoricamente di avere chiesto alla Votino una raccomandazione. Comunque io sono stato nominato dal ministro Alfano”. Da Il Fatto Quotidiano del 08/12/2015.
Questo è il sistema per la nomina dei funzionari pubblici?
La vera "bestia"? Quella della sinistra contro Matteo Salvini. Francesco Curridori il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.
I parlamentari di centrodestra non hanno dubbi: è la sinistra ad avere il vizio di insultare Matteo Salvini e gli altri loro avversari.
“Cosa sarebbe dell'Europa oggi se Salvini, Le Pen e Abascal fossero a capo dei governi?”. Enrico Letta, nel pieno di una crisi internazionale che rischia di peggiorare di ora in ora, ha trovato il tempo per ritwittare le parole di un discorso del premier spagnolo Pedro Sanchez.
Ma, per la sinistra, provocare, offendere o insultare Matteo Salvini è un vizio più che una novità. “Purtroppo è nella tradizione ultraventennale della sinistra ritenere impresentabile e, dunque, insultabile tutto ciò che non è di sinistra. Lo hanno fatto con Berlusconi, ora lo fanno con Salvini e con la Meloni”, dice a ilGiornale.it il deputato forzista Andrea Ruggeri che non ha timore nel sostenere che “quello della sinistra italiana è un atteggiamento profondamente incivile e squadrista”. E, in effetti, coloro che, dalle loro comode poltrone radical-chic, hanno sbraitato per anni contro la “bestia” di Morisi, si sono imbestialiti. Tanto, ormai, è concesso persino dare dell’antisemita al leader della Lega, un politico che, vuoi o non vuoi, è pur sempre stato vicepremier e ministro della Repubblica. Ma, fosse finita qui, si tratterebbe di banali e sporadici episodi e, invece, la lista di insulti è lunga. Basti pensare a quel che ha detto Roberto Saviano (“Salvini è un bastardo") oppure a tutti gli epiteti che gli riserba sistematicamente Andrea Scanzi per capire che esiste anche una “bestia” di sinistra.
Letta attacca Salvini. "Se governasse lui sarebbe la fine dell'Ue"
“Gli insulti da parte della sinistra ci sono sempre stati. Se esiste una ‘bestia’ non lo so, ma quando arrivano gli insulti è meglio stigmatizzarli”, dice a ilGiornale.it la deputata di FdI, Augusta Montaruli, esprimendo la sua solidarietà al leader del Carroccio. E aggiunge: “In un periodo in cui si rivendica sempre la pace, sarebbe molto meglio se si abbassassero i toni”. In effetti, con lo spauracchio di una Terza Guerra Mondiale sempre in arrivo, sarebbe meglio evitare certe fuoriuscite. Eppure anche Nicola Zingaretti, nel pieno della pandemia, si sottrasse dal pronunciare parole simili a quelle di Letta. L’ex segretario del Pd dichiarò:“Se avesse vinto Salvini durante il tempo del Covid, oggi l'Italia sarebbe un Paese morto".
Il deputato Davide Galli, a tal proposito, sottolinea: “Noi leghisti che, teoricamente, dovremmo essere quelli ‘maleducati’ non mi sembra che ci caratterizziamo per l’insulto nei confronti dell’avversario. Siamo solo forti nelle nostre idee, ma né io né i miei colleghi abbiamo mai offeso nessuno”. Gli fa eco il suo collega di partito, Igor Iezzi che, interpellato telefonicamente, ci dice: “La sinistra ha un’ossessione contro Salvini e lo attacca anche in momenti così delicati per i cittadini tra guerre e rincari che richiederebbero unità da parte di tutti”. E chiosa: “Evidentemente Salvini continua ad essere considerato il nemico della sinistra che preferisce scegliersi avversari più facili da sconfiggere”.
IL TESORIERE DELL’UNICO PARTITO SOPRAVVISSUTO A MANI PULITE. La tangente Enimont raccontata dal (quasi) fedelissimo tesoriere di Bossi. FEDERICO FERRERO su Il Domani il 23 febbraio 2022
A trent’anni dall’innesco di Mani Pulite, l’ex tesoriere della Lega Lombarda Alessandro Patelli racconta come il suo movimento, antisistema e antipartito, sia finito invischiato nell’affare della maxitangente Enimont nel 1992.
Condannato, insieme al leader Umberto Bossi, per finanziamento illecito, fu rimosso dal capo nonostante lo avesse difeso anche in aula e assistette alla fine della Lega bossiana.
Si è laureato a quasi settant’anni con una tesi sul suo Carroccio, e la Lega di oggi non gli piace: Salvini, a suo dire, scimmiotta Bossi senza averne le qualità e rincorre la Meloni dimenticando il vero progetto leghista: il regionalismo.
FEDERICO FERRERO. Giornalista, 1976. Commento il tennis su Eurosport dal 2005. Ho collaborato con l'Unità e l'Espresso. Scrivo di tennis un po' dappertutto; di vite altrui sul Corriere di Torino, di storie criminali per Sette. Un saggio su Mani Pulite per ADD nel 2012, la vita di Palpacelli per Rizzoli nel 2019.
"Il fatto non sussiste", cadono tutte le accuse contro Fontana. Orlando Sacchelli il 13 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, non dovrà sottoporsi a un processo per il cosiddetto "caso camici". Lo ha deciso il Gup di Milano che ha optato per il non luogo a procedere "perché il fatto non sussiste". Salvini: "Grande gioia dopo mesi di fango e bugie".
Si chiude senza neanche il processo la vicenda giudiziaria che vedeva coinvolto il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, per una fornitura di camici in piena pandemia. Il governatore, che era accusato di frode in pubbliche forniture nel cosiddetto caso camici, è stato prosciolto "perché il fatto non sussiste". Il caso verteva sull’affidamento da parte della Regione di una fornitura - poi tramutatasi in donazione - di 75mila camici e altri dpi (dispositivi di protezione individuale) alla società del cognato Andrea Dini, per un valore di circa mezzo milione di euro. Appresa la notizia dai suoi avvocati, Fontana si è detto "felice e commosso".
Il gup Chiara Valori ha prosciolto tutti e cinque gli imputati con il "non luogo a procedere perché il fatto non sussiste" (le motivazioni saranno rese note tra 15 giorni), decidendo inoltre che non è necessario un processo neanche per l'imprenditore Dini, per Filippo Bongiovanni e Carmen Schweigl, rispettivamente ex dg e dirigente di Aria (centrale acquisti regionale) e per Pier Attilio Superti, vicesegretario generale della Regione.
''Grande gioia - commenta il leader della Lega Matteo Salvini - dopo mesi di fango e bugie sono stati restituiti onore e dignità ad Attilio Fontana, alla Lega, alla Regione e a tutti i cittadini lombardi. Siamo ancora più determinati a lavorare per il bene del territorio e aspettiamo le scuse di tutti quegli esponenti di sinistra che per troppo tempo hanno insultato e oltraggiato una persona perbene, la Lega e le istituzioni lombarde''.
"Alla fine la verità e la giustizia sono emerse e fanno piazza pulita di tonnellate di fango versate a piene mani sull’operato del presidente Fontana”. commenta Roberto Anelli, capogruppo della Lega in Consiglio Regionale. "Un’indagine che non avrebbe nemmeno dovuto iniziare - prosegue Anelli. "Cosa scriveranno, cosa diranno ora gli sciacalli politici e mediatici che per mesi hanno speculato su questa vicenda? Come abbiamo sempre sostenuto, non c’è mai stato nulla di fondato nelle accuse, a volte surreali, mosse contro Attilio Fontana". E polemicamente rivolge un invito agli esponenti di Pd e M5S: "Vengano nell’aula del Consiglio Regionale a chiedere pubblicamente scusa, sarebbe il minimo dopo quanto successo. Ma non credo che avranno la dignità e il coraggio di farlo".
Il Partito democratico risponde in questo modo. "Il proscioglimento di Fontana non ne cancella l’inadeguatezza", dichiarano il segretario regionale dem Vinicio Peluffo e il capogruppo in Regione Fabio Pizzul. "La vicenda giudiziaria si chiude qui, non così quella politica, sulla quale rimane il nostro giudizio nettamente negativo che ci aveva portato a presentare in Aula la mozione di sfiducia. Fontana ha mentito ai lombardi, cercando di nascondere un pasticcio dai contorni molto imbarazzanti, basti pensare al bonifico compensativo dal conto svizzero. Per noi Fontana non era adeguato prima e non lo è ora, tantomeno lo sarà domani se la Lega e il centrodestra decideranno di ricandidarlo".
"È stato un errore fare un’indagine sulla donazione", ha detto l’avvocato Domenico Aiello, legale dell’ex direttore generale Filippo Bongiovanni e dell’ex direttrice degli acquisti Carmen Schweigl. "Le buone azioni vanno premiate e non portate in tribunale. La giudice è stata brava".
Soddisfatto per l'assoluzione anche il sindaco di Milano Beppe Sala: "Dal punto di vista umano sono senz’altro contento per il presidente Fontana. Non ho nessun elemento per commentare, penso che questo aggiungerà possibilità al fatto che Fontana si ricandidi".
(ANSA il 13 maggio 2022) - Il presidente della Lombardia Attilio Fontana è stato prosciolto "perché il fatto non sussiste" con altre 4 persone dall'accusa di frode in pubbliche forniture per il caso dell'affidamento nell'aprile 2020 da parte della Regione di una fornitura, poi trasformata in donazione, da circa mezzo milione di euro di 75 mila camici e altri dpi a Dama, società del cognato Andrea Dini. Lo ha deciso il gup di Milano Chiara Valori.
Il giudice, prosciogliendo tutti e 5 gli imputati con il "non luogo a procedere perché il fatto non sussiste" (motivazioni tra 15 giorni), ha deciso che non è necessario un processo nemmeno per lo stesso Dini, per Filippo Bongiovanni e Carmen Schweigl, rispettivamente ex dg e dirigente di Aria, centrale acquisti regionale, e per Pier Attilio Superti, vicesegretario generale della Regione.
Secondo l'accusa, rappresentata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dai pm Paolo Filippini e Carlo Scalas, in base al contratto del 16 aprile 2020 Dama, che detiene il marchio Paul&Shark, avrebbe dovuto fornire 75mila camici e altri 7mila set di dpi per un importo di 513mila euro.
Quando emerse il conflitto di interessi (la moglie di Fontana, Roberta Dini, aveva il 10% di Dama), gli indagati, per i pm, avrebbero tentato "di simulare l'esistenza" dall'inizio "di un contratto di donazione" per lo meno per i 50mila camici già consegnati e la restante parte, però, 25mila 'pezzi', non arrivò più ad Aria.
Da qui l'accusa di frode in pubbliche forniture. Accusa che oggi è stata cancellata dalla decisione del gup. Nessun illecito né penale né civilistico, hanno sempre sostenuto i difensori del governatore, Jacopo Pensa e Federico Papa, bensì una fornitura che si è trasformata in donazione e che ha consentito alla Regione "di risparmiare 513 mila euro".
Non c'è mai stata, spiegava la difesa, "alcuna gara, ma una offerta d'urgenza accettata come una fornitura a pagamento" di dispositivi che poi "si è deciso di donare". Per l'accusa, invece, il governatore, "previo accordo con Dini" decise di "pagare, a titolo personale, in favore di Dama il prezzo" dei camici, con il tentativo di effettuare un bonifico di 250 mila euro per il cognato da un conto svizzero.
E per i restanti 25mila camici, secondo i pm, si intervenne su Bongiovanni "affinché rinunciasse alle residue prestazioni" per contenere il "danno economico" di Dama. Ipotesi tutte cadute oggi.
Su quel conto svizzero i pm aprirono anche un'inchiesta autonoma per falso nella voluntary disclosure e autoriciclaggio archiviata a febbraio, così come fu archiviata in passato un'altra indagine per abuso d'ufficio su Fontana per la nomina di un suo ex collega di studio legale.
Il "Fatto" non sussiste ma la gogna sì. Francesco Maria Del Vigo il 14 Maggio 2022 su Il Giornale.
Ora dovrebbero chiedere scusa tutti quelli che per due anni hanno messo all'indice e trattato come un delinquente Attilio Fontana.
Il fatto non sussiste, ma la gogna la abbiamo vista tutti. Ora dovrebbero chiedere scusa tutti quelli che per due anni hanno messo all'indice e trattato come un delinquente Attilio Fontana. Dovrebbero chiedere scusa se fossimo in un Paese civile e non in una repubblica fondata sulle manette e sulla folle e medioevale idea davighiana che i cittadini - ancor più i politici - siano tutti colpevoli non ancora scoperti, invece che innocenti fino a prova contraria.
Fontana ladro, Fontana che lucra sulla salute dei cittadini, Fontana simbolo negativo di una intera regione e di una intera parte politica. Fontana sbertucciato persino perché per primo si era presentato in pubblico con quella mascherina che poi sarebbe diventata il fondamentale presidio contro il Covid 19. Su di lui la sinistra ha tentato di scaricare tutte le responsabilità (anche quelle del governo nazionale) di una pandemia esplosa, senza nessun preavviso, per prima in Lombardia. Che sarebbe un po' come accusare il sindaco di una città perché dei terroristi hanno fatto un attentato.
Ma lui era il bersaglio perfetto per le iene giustizialiste con la bava alla bocca: un nemico da infangare per colpire il sistema Lombardia e di conseguenza tentare la spallata nazionale al centrodestra.
Ora, con il suo proscioglimento, si ribalta tutto e Fontana diviene un simbolo: il fatto non sussiste (anche se siamo sicuri che per il Fatto quotidiano continuerà a sussistere). Simbolo di quello che non dovrebbe succedere, della caccia all'uomo, della persecuzione nei confronti dell'avversario. Simbolo di quanto la giustizia italiana sia malmessa e, in alcuni casi, somigli sempre di più a uno strumento di tortura nelle mani delle correnti politicizzate. Non ci facciamo illusioni: nessuno si scuserà con il presidente della Regione Lombardia per quello che ha subito in questi due anni, dubitiamo che qualcuno abbia la dignità di battersi il petto. Però il caso Fontana si configura come un'opera di sputtanamento talmente maiuscola e palese, da poter prestare il fianco a una riflessione: l'unico modo a nostra disposizione per raddrizzare, se non tutte almeno alcune, delle storture del nostro sistema giudiziario è votare ai referendum del prossimo 12 giugno. Un'occasione che non deve essere sciupata, proprio perché non si ripetano altri casi Fontana.
Il fatto non sussiste. Attilio Fontana prosciolto dal Caso Camici: “Aspettiamo le scuse dopo anni di fango”. Redazione su Il Riformista il 13 Maggio 2022.
Attilio Fontana prosciolto in udienza preliminare “perché il fatto non sussiste”. Niente processo per il Presidente della Lombardia e per altre quattro persone per l’accusa di frode in pubbliche forniture (pena da uno a cinque anni) per il caso dell’affidamento da parte della Regione di una fornitura di camici e altri dpi. La vicenda risaliva all’aprile del 2020, in piena prima ondata dell’emergenza coronavirus. La Lombardia era la Regione più colpita in quel momento dal contagio.
La fornitura da circa mezzo milione di euro (513mila euro) di 75mila camici e altri dpi come calzari e cuffie era stata affidata alla Dama Spa, società del cognato di Fontana Andrea Dini, marito di Roberta Fontanata, detentrice al 10% della società. La giudice Chiara Valori ha escluso che Fontana abbia “anteposto interesse e convenienza personali all’interesse pubblico” di non fare “mancare beni destinatari a far fronte al quotidiano fabbisogno di camici richiesti dallo stato di emergenza sanitaria”.
Per l’accusa presentata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e i pm Paolo Filippini e e Carlo Scalas, in base al contratto del 16 aprile 2020 Dama avrebbe dovuto fornire 75mila camici e 7mila set di dpi per 513mila euro. Dopo l’esplosione del caso, sempre secondo i pm, gli indagati avrebbero tentato “di simulare l’esistenza di un contratto di donazione” per lo meno per i 50mila camici già consegnati.
La restante parte dei 25mila non arrivò ad Aria, centrale acquisti della Regione. Da qui l’accusa di frode che oggi è caduta: nessun illecito né penale né civilistico. Non c’è mai stata “alcuna gara, hanno dichiarato gli avvocati, ma una offerta d’urgenza accettata come una fornitura a pagamento” di dispositivi che poi “si è deciso di donare”. Secondo l’accusa il governatore aveva invece deciso previo accordo con Dini di “pagare, a titolo personale, in favore di Dama il prezzo” dei camici con il tentativo di effettuare un bonifico di 250mila euro per il cognato da un conto svizzero. Per i restanti 25 mila camici, come scrive Ansa, secondo i pm si intervenne su Filippo Bongiovanni “affinché rinunciasse alle residue prestazioni per contenere il “danno economico” di Dama.
Su quel conto svizzero i pm aprirono anche un’inchiesta autonoma per falso nella voluntary disclosure e autoriciclaggio archiviata a febbraio, così come fu archiviata in passato un’altra indagine per abuso d’ufficio su Fontana per la nomina di un suo ex collega di studio legale. Le ipotesi di reato sono tutte cadute oggi. Le motivazioni del non luogo a procedere saranno rese note tra quindici giorni. Niente processo neanche per Filippo Bongiovanni, Carmen Schweigl, rispettivamente ex dg e dirigente della centrale acquisti regionale di Aria, e per Attilio Superti, vicesegretario generale della Regione.
Fontana, tramite i suoi avvocati Jacopo Pensa e Federico Papa, si è detto al telefono “felice e commosso”. “Grande gioia” espressa dal segretario della Lega, partito del governatore, Matteo Salvini. “Dopo mesi di fango e bugie sono stati restituiti onore e dignità ad Attilio Fontana, alla Lega, alla Regione e a tutti i cittadini lombardi. Siamo ancora più determinati a lavorare per il bene del territorio e aspettiamo le scuse di tutti quegli esponenti di sinistra che per troppo tempo hanno insultato e oltraggiato una persona perbene, la Lega e le istituzioni lombarde“. Gli avvocati di Fontana hanno commentato l’indagine: “Il presidente è stato screditato in un momento tragico per la Lombardia e per un caso che ha coinvolto lui e la sua famiglia”. Il sindaco di Milano Beppe Sala si è detto contento dal punto di vista umano per l’assoluzione di Fontana. E ha aggiunto che il proscioglimento potrebbe portare a una nuova ricandidatura del governatore alle prossime regionali.
Il caso del presidente della Lombardia. Caso camici, Fontana era innocente: dopo la gogna di Report e co. cadono le accuse e arrivano le scuse. Paolo Comi su Il Riformista il 14 Maggio 2022.
Nulla, abbiamo scherzato. Può succedere. Il gip del tribunale di Milano Chiara Valori ha archiviato ieri l’indagine a carico del presidente della regione Lombardia Attilio Fontana. Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli (già candidato senza successo a prendere il posto di Francesco Greco) e i sostituti Luigi Furno e Carlo Scalas, avevano accusato Fontana ed altre quattro persone di frode in pubbliche forniture. L’indagine era relativa all’affidamento, nell’aprile 2020, da parte del Pirellone di una fornitura, poi trasformata in donazione, del valore di circa mezzo milione di euro, di 75mila camici e altri dispositivi di protezione individuale.
Per comprendere la vicenda bisogna tornare alla primavera del 2020, quando l’Italia era travolta dall’emergenza Covid. Mentre le immagini delle bare di Bergamo facevano il giro del mondo, tutte le pubbliche amministrazioni, ad iniziare da regione Lombardia, erano alla disperata ricerca di camici e mascherine. Fra le varie aziende fornitrici, si fece avanti Dama, società del cognato di Fontana. Quando emerse il possibile conflitto di interessi (la moglie di Fontana aveva il 10 percento della Dama), il governatore, secondo la Procura, avrebbe tentato “di simulare l’esistenza” dall’inizio “di un contratto di donazione” per i 50mila camici che erano stati già consegnati. La restante parte, 25mila, invece, non arrivò più a destinazione. Fontana si era sempre difeso, affermando che questa fornitura, trasformata in donazione, aveva consentito alla regione Lombardia di risparmiare la somma messa inizialmente a budget.
Per rifondere Dama del mancato guadagno, Fontana aveva poi effettuato un bonifico dal proprio conto di 250mila euro. L’indagine colonizzò le prime pagine per mesi. Fra i più accaniti supporter della procura milanese, Report, i quotidiani del gruppo Gedi e l’immancabile Fatto Quotidiano. Feroce, come da copione, la strumentalizzazione della politica, con l’asse Pd-M5S che in Lombardia è all’opposizione da sempre, alla ricerca delle dimissioni del governatore. Per conoscere le motivazioni con cui il gup ha messo una pietra sulla spettacolare inchiesta condotta dalla finanza bisognerà attendere 15 giorni. L’archiviazione dell’inchiesta “camici” segue quella per epidemia colposa ed omicidio colposo plurimo. Anche in quel caso, in piena emergenza Covid, i pm milanesi, partendo dal Pio Albergo Trivulzio, avevano messo sotto tiro manager e dirigenti di Regione Lombardia.
In quel caso, comunque, era stata la stessa Procura a chiedere l’archiviazione del fascicolo. Tutte le inchieste sul Covid avviate dalla Procura di Milano nella gestione Greco si sono trasformate in un buco nell’acqua. Al neo procuratore Marcello Viola il compito, titanico, di raddrizzare la barca. Già il fatto che non rilasci interviste ed abbia silenziato i suoi loquaci collaboratori è un segnale che fa ben sperare per il futuro. Incassata l’archiviazione, Fontana è ora pronta per ricandidarsi l’anno prossimo. Fra i primi a congratularsi per l’assoluzione, il sindaco di Milano Beppe Sala.
Paolo Comi
Toh, dopo due anni di gogna hanno prosciolto Fontana. Il governatore lombardo era coinvolto nel “caso Camici”. Ma per il gup di Milano, che ha stabilito il non luogo a procedere, il fatto non sussiste. Valentina Stella su Il Dubbio il 13 maggio 2022.
Era stato linciato e crocifisso mediaticamente e politicamente. Ma non aveva commesso alcun reato: niente processo infatti per il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana per il “caso camici”. Lo ha deciso oggi il gup di Milano Chiara Valori, che ha stabilito il non luogo a procedere «perché il fatto non sussiste». Il politico era accusato di frode in pubblica fornitura: l’inchiesta della Guardia di Finanza era quella dell’affidamento nell’aprile 2020 da parte della Regione di una fornitura, poi trasformata in donazione, da circa mezzo milione di euro di 75mila camici a Dama, società del cognato Andrea Dini. Anche per quest’ultimo niente processo, così come per Pier Attilio Superti, vicesegretario generale della Regione, Filippo Bongiovanni e Carmen Schweigl, rispettivamente ex dg e dirigente di Aria, la centrale acquisti della Regione.
Appena appresa la notizia il Governatore, difeso da Jacopo Pensa e Federico Papa, ha così commentato: «Sono felice. Felice innanzitutto per aver tolto un peso enorme ai miei figli e a mia moglie. E poi i lombardi, tutti quei lombardi, e sono moltissimi, che mi hanno sempre sostenuto». Ma scoppia la polemica politica tra la destra da un lato e Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle dall’altro. Per il leader del Carroccio Matteo Salvini, «dopo mesi di fango e bugie sono stati restituiti onore e dignità ad Attilio Fontana, alla Lega, alla Regione e a tutti i cittadini lombardi. Aspettiamo le scuse di tutti quegli esponenti di sinistra che per troppo tempo hanno insultato e oltraggiato una persona perbene, la Lega e le istituzioni lombarde». Gli ha fatto eco il senatore Roberto Calderoli, rilanciando il referendum promosso con il Partito Radicale: «Chi cancellerà tutto questo fango? Chi gli restituirà due anni di vita e di serenità perduta? Siamo di fronte all’ennesimo caso di malagiustizia, perché prima il mostro è stato sbattuto in prima pagina e adesso dopo due anni qualcuno ne risponde? Questa vicenda conferma la necessità di riformare profondamente la nostra giustizia e un’occasione concreta e forse irripetibile la avremo il prossimo 12 giugno con il referendum».
Per la vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato, Licia Ronzulli, il proscioglimento di Fontana era «scontato. Resta l’amarezza per la gogna che il governatore della Lombardia ha dovuto ingiustamente subire». Anche la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni plaude la decisione del Gup di Milano: «Un abbraccio al presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana. Non abbiamo mai avuto dubbi sulla correttezza del suo operato e questo proscioglimento finalmente ne è la conferma». Commenta la notizia anche Enrico Costa, deputato e vicesegretario di Azione: «L’inchiesta sul Governatore Fontana? Sempre lo stesso schema: un processo sui giornali, le richieste di dimissioni da Pd e M5S, poi, ops, il proscioglimento in udienza preliminare. Quattro righe in cronaca e avanti il prossimo. Magari a parti invertite».
Proprio i dem e i pentastellati si compattano invece per ribadire che il proscioglimento non modifica il giudizio politico su Fontana: «In alcun caso la decisione del Giudice avrebbe modificato il giudizio politico sull’inadeguatezza mostrata da Fontana e dal centrodestra tutto durante il corso della pandemia e, più in generale, durante l’intero mandato» ha osservato il capogruppo pentastellato in Regione Nicola Di Marco. «Il proscioglimento di Fontana – hanno aggiunto il segretario regionale Vinicio Peluffo e il capogruppo Fabio Pizzul, entrambi del Pd – non ne cancella l’inadeguatezza. La vicenda giudiziaria si chiude qui, non così quella politica, sulla quale rimane il nostro giudizio nettamente negativo che ci aveva portato a presentare in Aula la mozione di sfiducia».
Soldi in Svizzera, infondate le accuse contro Fontana: inchiesta archiviata. Il Dubbio il 23 Febbraio 2022.
Il presidente della Regione Lombardia era finito nella bufera per un'indagine della procura di Milano. Ma l'inchiesta non ha dimostrato alcun tipo di coinvolgimento di tipo illecito dell'esponente della Lega.
Per il gip di Milano Natalia Imarisio non ci sono elementi sufficienti per sostenere l’accusa contro il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana indagato per autoriciclaggio e falso nella “voluntary disclosure” in relazione a 5,3 milioni di euro che erano depositati su un conto corrente in Svizzera, “scudati” nel 2015, e in particolare riguardo a 2,5 milioni ritenuti il frutto di presunta evasione fiscale.
Di fronte al “mutismo” della Svizzera che non ha mai risposto alla rogatoria avanzata dalla procura, il giudice concorda con la procura, i pm Paolo Filippini e Carlo Scalas e il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, quando «ritiene non acquisite – e non acquisibili, per quanto già esposto – risultanze sufficienti ad ipotizzare con ragionevole prognosi di condanna la riconducibilità delle violazioni in esame (anche solo in parte) ad Attilio Fontana».
Non solo: nel suo decreto il gip «ritiene che i concreti esiti investigativi (con gli apporti citati della difesa) risultino maggiormente concludenti (e comunque tali da fondare una più che ragionevole ipotesi alternativa in tal senso) ai fini dell’esclusione di tale riconducibilità». In particolare i difensori, gli avvocati Jacopo Pensa e Federico Papa, hanno fatto accertamenti sui soldi della madre di Fontana, morta nel 2015, confluiti in un conto Ubs nel 2005, «ossia un conto Bdg di Losanna» intestato alla donna e aperto il 12 dicembre 1999 con il nome identificativo “Axillos“.
«Per la difesa, fortemente significativo della riconducibilità di tale provvista ai risalenti risparmi di famiglia (e non al reddito dell’indagato) sarebbe la coincidenza di tale nome con quello (“Assillo“) identificativo della relazione bancaria aperta presso Ubs già dal padre dell’indagato, Elio, nel lontano 1977 e chiusa nel 1997» secondo una corrispondenza bancaria del 2021, prodotta dalla difesa e «della cui genuinità la procura stessa non dubita».
Due anni di inferno, ma il fatto non sussiste. Fontana è innocente, Report e Travaglio disperati: dopo due anni di gogna scoprono che lo scandalo non esiste. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Maggio 2022.
Attilio Fontana esce di scena nella sua veste di indagato che gli ha tenuto compagnia nei due anni più cupi per l’Italia e il mondo, e la Regione Lombardia più di tutti, azzannata com’era dal virus che ha creato tanti lutti. Proscioglimento perché il fatto non sussiste, per il famoso “scandalo camici”, vuol proprio dire che la Procura di Milano, che sta inanellando disfatte una in fila all’altra, non avrebbe mai dovuto far sapere di aver “acceso un faro” sul Presidente della Regione più importante d’Italia quel 9 luglio del 2020, fidandosi dell’inattendibilità di un servizio-gogna della trasmissione Report.
E non avrebbe dovuto in seguito sottoporre Attilio Fontana a indagini, accusandolo di frode nei confronti della Regione da lui amministrata, quando la società Dama del cognato Luca Dini (e in piccola parte della sorella Roberta) aveva convertito un contratto di vendita in donazione di 50.000 camici. E ancor meno avrebbe dovuto poi insistere, quel settore della Procura che va sotto il nome di reati contro la Pubblica Amministrazione ed è diretto da Maurizio Romanelli, indagando Fontana e tutta la sua famiglia, quella esistente e quella defunta, per aggiotaggio su un conto svizzero. Seconda inchiesta distrutta non tanto dall’opposizione di un vincolo di riservatezza da parte degli organi bancari svizzeri, ma da una gip, Natalia Imarisio, che ha archiviato in seguito alla presentazione di un’ineccepibile documentazione da parte dei difensori di Fontana Jacopo Pensa e Federico Papa. Ma hanno insistito ancora, il procuratore Romanelli e gli aggiunti Paolo Filippini e Carlo Scalas, fino a trascinare Fontana davanti a un giudice, chiedendogli di mandarlo a processo.
Ma hanno trovato una gup “normale”, non certo vicina all’ambiente politico che amministra la Regione Lombardia (Chiara Valori è di “Area”), che però li ha bacchettati: il fatto non esiste, che cosa siete venuti a fare, qui davanti a me? Bocciati, cari procuratori. E meno male che non c’è ancora il “fascicolo delle performance”! Certo, il procuratore aggiunto era in corsa per occupare il ruolo di Francesco Greco, ma questo non è rilevante. Quel che invece rileva è la singolare interpretazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale che ha ispirato negli ultimi decenni la Procura di Milano. L’elenco di processi che non avrebbero neppure dovuto cominciare è lungo. Nel settore politico si va da quello intentato contro un altro Governatore, Roberto Maroni, fino a quello nei confronti degli ex assessori lombardi Mario Mantovani e Massimo Garavaglia. Tutti assolti, ma quando? Dopo anni trascorsi al ritmo della tarantella onestà-onestà. E di un bombardamento mediatico reso nevrastenico da una situazione difficile anche dal punto di vista economico quale è stata quella degli ultimi due anni. Anche per questo spiccano le cantonate della procura milanese pure nelle grandi inchieste nel settore imprenditoriale e finanziario.
Vogliamo ricordare il non luogo a procedere (il fatto non sussiste) per l’aggiotaggio Saipem, piuttosto che i due grandi processi per una presunta (e inesistente) corruzione internazionale, Eni-Algeria e Eni-Nigeria? Le conseguenze di tutti questi “eccessi di attenzione” le ritroviamo a Brescia, dove si incrociano le sorti giudiziarie di alcuni pm milanesi. Chissà se il nuovo procuratore capo di Milano, Marcello Viola, sarà consultato dal suo aggiunto (e sconfitto nella corsa al posto di numero uno) Maurizio Romanelli per la decisione sull’eventuale ricorso in appello contro il “non luogo a procedere” della gup Chiara Valori nei confronti di Attilio Fontana. Sono passati i tempi delle ribellioni scarmigliate dei sostituti contro gli aggiunti e di questi ultimi verso il vertice dell’ufficio. Ma è chiaro che in questo caso la strada di un ricorso appare impervia. È molto raro il proscioglimento per situazioni come questa.
I processi nei confronti dei politici o delle grandi imprese in genere devono arrivare almeno al secondo grado di giudizio perché in un clima più sereno e sottratto ai facili scandalismi mediatici, gli imputati si trovino davanti a un giudice terzo. E la memoria di quel che è successo, passo dopo passo, in questi due anni, non gioca a favore di un ulteriore accanimento giudiziario. E neanche giornalistico, per lo meno così dovrebbe essere. Se escludiamo la cocciutaggine del povero Marco Travaglio che oggi, se amassimo i giochetti di parole a lui cari, dovremmo chiamare “Sdirettore”, proprio come fa lui quando insiste a definire Fontana “Sgovernatore”. Povero Marcolino, è veramente disperato. È stato abbandonato da un personaggio di rilievo come Furio Colombo. E poi la gup Chiara Valori gli ha proprio rovinato la vita, mesi e mesi di montaggi fitografici, vignette, insulti e sberleffi finiti in fumo. Oltre a tutto pare che a casa sua e anche in redazione siano proprio finiti gli specchi su cui arrampicarsi per giustificare in qualche modo un agguato che ricorda da vicino per la violenza sadica quelli contro il “cinghialone” e il “cavaliere nero”.
Avrebbe potuto astenersi, il giorno dopo una vera Waterloo di tutto il can-can mediatico giudiziario, come fa da tempo il suo collega Gad Lerner, che diffamò un intero istituto, il Pio Albergo Trivulzio, la residenza per anziani più prestigiosa d’Europa, accusata di essere diventata un lazzaretto in cui i vecchi venivano lasciati morire. Un’altra inchiesta su cui la stessa procura ha chiesto l’archiviazione. Ma Marcolino non è uno che si arrende, per quanto disperato. Preferisce mentire e inventare. Domenica ha però superato se stesso. Vale la pena citarlo con le dovute virgolette, perché pronuncia parole che mettono di buon umore più di una barzelletta di quelle indovinate. Ecco, dunque come bastona qualche testata, le solite, Giornale, Libero, Riformista (che lui chiama Riformatorio, pensando di offendere): “E giù botte a Report e al Fatto che avevano svelato lo scandalo, senza mai dire che i fatti –confermati, anzi aggravati dalle indagini, fossero un reato”.
Dunque, se abbiamo capito, mentre la procura di Milano inventava il reato di “frode in donazione” , il Fatto faceva una battaglia per sostenere che non eravamo di fronte a reati ma solo a una sorta di malcostume? Quante pagine sprecate, Marcolino. Beh, si metta d’accordo almeno con i suoi amici del Movimento cinque stelle della Lombardia, i quali, dopo aver perso anche la battaglia politica della mozione di sfiducia nei confronti del Governatore, hanno sentenziato, per bocca del loro capogruppo Nicola Di Marco, che “la vera sentenza la scriveranno i lombardi”. Eh sì, tra un anno la Lombardia andrà al voto. E decideranno le urne, non i procuratori. L’aria è cambiata.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
PROSCIOLTO DAL GIUDICE PER IL CASO CAMICI. Fontana è innocente, ma il conflitto di interesse e il conto in Svizzera restano. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 13 maggio 2022
Attilio Fontana incassa il proscioglimento per il caso camici anti Covid, non sarà processato.
La vicenda riguardava una partita di camici forniti dalla società del cognato e della moglie di Fontana ad Aria, la stazione appaltante della regione.
La decisione arriva pochi mesi dopo la decisione del giudice di archiviare anche l’indagine sui conti svizzeri del presidente leghista. Due storie collegate tra loro.
GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
IL TESORO DEL PRESIDENTE. Attilio Fontana e i conti in Svizzera, l’indagine archiviata grazie ai silenzi degli elvetici. ALFREDO FAIETA su Il Domani il 22 febbraio 2022
La magistratura milanese scrive la parola fine nell’inchiesta sul conto estero milionario del governatore lombardo Attilio Fontana. Il tribunale di Milano ha infatti chiuso la complessa vicenda penale che riguarda i soldi svizzeri del politico leghista, emersi durante le indagini per frode sui camici anti Covid.
Un conto da 5,3 milioni di euro acceso nel 1997 presso la filiale di Lugano della banca Ubs che, per la difesa di Fontana, sarebbe stato il frutto dei risparmi di una vita della madre dentista, deceduta nel 2015.
Fontana aveva ereditato il conto e lo aveva regolarizzato con la voluntary disclosure, lo scudo fiscale. La procura del capoluogo lombardo, però, aveva indagato Fontana sospettando che parte dei soldi non fossero riferibili alla madre, ma direttamente a lui.
ALFREDO FAIETA. Giornalista. Una passione per i fatti che incrociano economia e cronaca giudiziaria, e il tentativo di renderli chiari a occhio nudo. Il tifo per il Pescara, perchè è nel calcio di provincia che resta l'epopea di questo sport.
Estratto dell’articolo di S.Mo. per “il Sole 24 Ore” il 23 febbraio 2022. . Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti”.
Dopo una prima richiesta a marzo e una seconda sollecitazione a settembre, la Svizzera ha deciso di non collaborare con la procura di Milano per accertare l'ipotesi di reato di evasione fiscale e autoriciclaggio a carico del governatore lombardo Attilio Fontana, e pertanto le indagini si chiudono qui, con un'archiviazione stabilita dal gip di Milano Natalia Imarisio.
Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 23 febbraio 2022.
Un po' «Obbligo» e molto «Assillo»: sta in questa bizzarra coppia bancaria la storia - chiusa ieri da archiviazione - dello scudo fiscale fatto nel 2015 dal presidente leghista della Regione Lombardia, Attilio Fontana, sui 5,3 milioni dichiarati eredità della madre.
«Nessun apporto concreto è stato fornito dalla documentazione dei difensori dell'indagato», proponeva la Procura di Milano al giudice, chiedendo sì l'archiviazione dell'accusa di autoriciclaggio e falso ma solo a causa del rifiuto opposto dalla Svizzera alla rogatoria: rifiuto che per i pm Romanelli-Filippini-Scalas impediva di acquisire le prove documentali della falsità della «voluntary disclosure» con la quale Fontana il 24 settembre 2015 aveva regolarizzato i 5,3 milioni di asserita eredità materna, dei quali 2,3 apparivano invece ai pm possibile evasione fiscale del Fontana-avvocato.
Ma ora la giudice Natalia Imarisio archivia in modo più liberatorio e favorevole a Fontana, dando significativo valore proprio alle carte raccolte in Svizzera dai difensori Jacopo Pensa e Federico Papa: «I concreti esiti investigativi, con i citati apporti della difesa, risultano maggiormente concludenti ai fini della esclusione della riconducibilità delle violazioni a Fontana, e comunque tali da fondare in tal senso una più ragionevole ipotesi alternativa».
I 5,3 milioni in Svizzera dichiarati da Fontana eredità della madre dentista Maria Giovanna Brunella, in pensione dal 1998 a 21.900 euro l'anno e morta a 92 anni, erano emersi quando il presidente della Regione, per evitare il danno d'immagine della fornitura di camici sanitari alla società regionale Aria spa da parte del cognato Andrea Dini, nel 2020 aveva pensato di risarcirlo di tasca propria con 250.000 euro quando il cognato l'aveva trasformata in donazione (peraltro parziale) alla Regione: bonifico revocato dopo che l'Unione Fiduciaria aveva segnalato all'antiriciclaggio l'operazione sospetta.
Mentre il processo a Fontana per l'accusa di frode in pubbliche forniture inizierà il 18 marzo, la Procura coglieva anche indizi sulla falsità dello scudo fiscale.
In dichiarazioni pubbliche Fontana aveva ad esempio abbozzato di aver appreso dei soldi all'Ubs della madre solo dopo la morte, ma poi era emerso che, quando la signora aveva aperto il conto il 4 novembre 1997, proprio Fontana ne era stato indicato procuratore con potere di firma.
Il 4 luglio 2005 il patrimonio di 3,4 milioni della 83enne madre era passato alla Montmellon Valley di Nassau, lievitando però di altri 2,5 milioni di ignota provenienza, e con la singolarità di una firma della madre che la perizia grafologica dei pm esclude fosse della madre.
Infine il 19 agosto 2014 (madre 91enne) le azioni della Montmellon Valley erano passate al trust Tectum, che operava per una fondazione del Liechtenstein, «Obbligo».
Il commercialista Fabio Frattini ha detto ai pm di aver poi solo trasmesso al Fisco la voluntary di Fontana compilata da Paolo Vincenti, il quale (collegato allo studio di Valerio Vallefuoco) ha riferito di essersi basato sui conteggi di Paolo Cenciarelli, nel frattempo morto in un incidente, e Vallefuoco ha spiegato di aver perso le carte nell'allagamento dello studio nel 2018.
La difesa di Fontana, andando in Svizzera nelle banche, ritiene invece di aver ricostruito l'origine dei 2,5 milioni spuntati nel 2005: la Bdg di Losanna, istituto di Ubi Banca poi incorporato in Banca Cramer, dove il 20 dicembre 1999 la madre aveva aperto un conto con un nome («Axillos») simile al nome del conto «Assillo» del padre di Fontana all'Ubs tra il 1977 e il 1997. Solo che le carte, passati 10 anni, non ci sono più. Per i pm quindi non basta; ma per la gip questa lettura difensiva resta un'alternativa «comunque più ragionevole».
Dal “Corriere della Sera” il 23 febbraio 2022.
«Oggi Luca sta bene. Riprenderà a lavorare ma gli sconsiglio di tornare a lavorare con me, lo dico da amico. Lui è bravissimo ma lo faccio per il bene suo». Matteo Salvini parla del suo ex guru Luca Morisi, finito in un'inchiesta poi archiviata.
«Ho cercato di proteggere non il collaboratore di partito ma l'amico e quando è uscita tutta la porcheria di nessuna rilevanza politica non ho esitato un secondo a dire "è un amico e lo difendo"».
E ha ribadito: «È stata una cosa di rara cattiveria per un fatto di irrilevanza penale uscito a una settimana, dieci giorni dal voto, e poi archiviato due mesi dopo con 3 righe sui giornali».
DOPO LA BUFERA. «La cocaina, il ricatto e la festa da Morisi». Ecco perché la Procura ha archiviato il caso. Verona, tre gli indagati dopo la serata nella casa del guru social di Salvini a Belfiore. «Fu un evento occasionale». L’ombra del ricatto (da 10mila euro) in cambio del silenzio. Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2021. La sensazione di aver subito un abuso, lo scambio di cocaina e di droga dello stupro, perfino l’ombra di un ricatto per estorcere diecimila euro in cambio del silenzio. C’è un po’ di tutto questo, nella richiesta di archiviazione sul caso Morisi che la procura di Verona ha depositato all’ufficio del giudice delle indagini preliminari. Ma uno dopo l’altro, alla fine, si sono dissolti i dubbi degli inquirenti sul festino che ha travolto la carriera di Luca Morisi, l’ex guru della «Bestia», la macchina mediatica costruita per portare consensi al leader della Lega Matteo Salvini. Il magistrato ha chiesto l’archiviazione per «particolare tenuità dei fatti» che risalgono alla giornata di sesso e droga (il 14 agosto) trascorsa da Morisi assieme a due escort nella sua abitazione di Belfiore, nel Veronese.
L'avvio della vicenda
Il caso aveva tenuto banco alla vigilia delle ultime elezioni passando rapidamente dal piano giudiziario a quello politico. Ma ora che la magistratura ha chiuso le indagini - e in attesa che si pronunci il giudice - è possibile rileggere l’intera vicenda attraverso i documenti e le testimonianze raccolte dagli investigatori. Il sostituto procuratore Stefano Aresu aveva aperto un fascicolo per violazione della Legge sugli stupefacenti a carico del 48enne social manager e dei due escort romeni che vivono a Milano: il ventenne Petre e il suo amico David, di 25 anni. Quel giorno i carabinieri avevano risposto alla richiesta di aiuto di Petre, il quale sosteneva «che durante un rapporto sessuale era stato drogato e derubato dal compagno in accordo con il cliente da lui indicato in un influente politico». Fuori dalla casa di Belfiore, ai militari aveva consegnato una bottiglietta di Ghb, la «droga dello stupro», della quale lui e l’altro escort si rimpallavano la responsabilità della detenzione. Pochi minuti dopo era arrivato anche Morisi. E lentamente gli investigatori avevano cominciato a ricostruire ciò che era accaduto nelle ore precedenti. Dal racconto dei tre, era emerso che il padrone di casa «si era accordato con David, contattato su una chat per escort, per avere un incontro a pagamento (...) di complessivi 2.500 euro, e cioè mille per ciascuno di loro e 500 per le spese di viaggio».
La droga e il risveglio
Il pm ricostruisce che «Petre, in stato di agitazione, specificava che Morisi gli aveva offerto della cocaina e che, avendo assunto anche Ghb, era stato male tanto da addormentarsi. Al risveglio si era reso conto di essere stato drogato. Inoltre, poiché il versamento dei bonifici era avvenuto sul conto del compagno David, si riteneva anche derubato». Raccolte le prime testimonianze, era scattata la perquisizione dell’appartamento che aveva portato al rinvenimento di tracce di cocaina. Non solo. Petre raccontava agli investigatori che, al suo risveglio «ancora in stato confusionale a causa degli stupefacenti assunti», Morisi aveva tentato un nuovo approccio e questo per lui «era un abuso»; e quando aveva minacciato di chiamare i carabinieri lui gli «aveva detto di essere una persona benestante, che lo avrebbe pagato, e di essere un collaboratore di Salvini».
«Un evento occasionale»
L’ex artefice della «Bestia» ha invece sostenuto che «essendo un personaggio pubblico, era stato attento a non rivelare le sue generalità» ma che probabilmente i due escort l’avevano scoperto dal nome riportato nei bonifici e vedendo «una sua foto insieme a Salvini mentre sfogliavano le immagini del suo Ipad, sebbene lui avesse sorvolato quando gli avevano chiesto come facesse a conoscerlo». Cambia poco. Morisi però rivela anche un altro fatto: una volta usciti dalla caserma dei carabinieri, «i due gli avevano domandato diecimila euro per non denunciarlo». Un ricatto, quindi, «sebbene gli fosse sembrata una richiesta surreale a cui non aveva dato peso». Le chat nelle quali i tre si accordavano sia sul compenso che sulla droga, hanno però reso «palese che ciascuna delle parti avesse già nella disponibilità lo stupefacente» e che intendevano «condividerlo (...) nel corso di un incontro che doveva svolgersi in un clima di euforia e divertimento». Fatti che - sottolinea il pm - sono «di particolare tenuità» perché «la quantità non era eccessiva e si era trattato di un evento occasionale» come ha confermato lo stesso Morisi sottoponendosi all’esame del capello per dimostrare che non è un assuntore abituale. Escluso anche il ricatto, visto che - secondo il pm - la richiesta di diecimila euro per evitare la denuncia «era verosimilmente dovuta alla confusa situazione del momento e alla precaria condizione psicofisica di tutti gli indagati».